L'uovo di Colombo - Tullio e Vladimir Clementi
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La questione, in genere, è sempre stata liquidata con interpretazioni alquanto superficiali (quando<br />
non <strong>di</strong> comodo), e con apprezzamenti altrettanto opinabili: schiettezza e capacità <strong>di</strong><br />
improvvisazione nella natura del primo, prudenza e ponderazione, invece, nel secondo.<br />
Con tutto il rispetto dovuto a questa <strong>di</strong>stinzione, i cui valori si prestano, necessariamente, ad un<br />
giu<strong>di</strong>zio fortemente soggettivo, non ho mai smesso <strong>di</strong> cercare ragioni più profonde. Ed ora,<br />
finalmente, come un’intuizione improvvisa (se sono lecite le intuizioni improvvise in chi tende più<br />
verso la penna che verso la lingua), ecco una traccia illuminante: i tempi <strong>di</strong> reazione! L’oratore ha<br />
una capacità naturale <strong>di</strong> reazione (e <strong>di</strong> adattamento) quasi imme<strong>di</strong>ata, mentre lo scrittore, oltre alle<br />
naturali necessità <strong>di</strong> elaborazione, ha tempi <strong>di</strong> reazione (e <strong>di</strong> riflessione) molto più lunghi.<br />
Se fosse davvero così, però, varrebbe anche un altro assioma: l’oratore può essere anche scrittore,<br />
sempre, il contrario invece non è generalmente possibile. L’oratore quin<strong>di</strong> è più completo (così<br />
almeno sembra), eppure egli rinuncia a questa completezza per calcolo (inconscio magari, ma<br />
sempre calcolo): la sua forza (attenti, la sua forza, non la sua natura), infatti, sta nell’imme<strong>di</strong>atezza,<br />
nella capacità <strong>di</strong> improvvisazione e nella possibilità <strong>di</strong> sconfiggere lo scrittore scre<strong>di</strong>tandone<br />
l’attività. Se accettasse <strong>di</strong> scrivere egli stesso legittimerebbe la scrittura come merito e si<br />
costringerebbe a confrontarsi con lo scrittore in un ambito in cui quest’ultimo è, per forza <strong>di</strong> cose e<br />
per allenamento, ben più ferrato...<br />
Solo pochi uomini riescono ad eccellere in entrambe le <strong>di</strong>scipline: rimane però da scoprire se si<br />
tratta <strong>di</strong> scrittori con il dono della prontezza <strong>di</strong> spirito o <strong>di</strong> oratori con un alto coefficiente <strong>di</strong><br />
intelligenza.<br />
statisti<br />
12 maggio 1992<br />
L’interpretazione più autentica <strong>di</strong> ciò che si intende per far politica, fra la sclerotica oligarchia<br />
dominante, ci viene offerta da Giulio Andreotti attraverso due sorprendenti cadute <strong>di</strong> stile (a<br />
conferma che, alla lunga, il potere logora anche chi ce l’ha), nell’esercizio <strong>di</strong> quelle che si possono<br />
considerare fra le sue caratteristiche più forti: l’uso spregiu<strong>di</strong>cato della religione e, per altro verso,<br />
la sua raffinata ironia.<br />
Interpellato da La Stampa, assieme agli altri nove dei magnifici <strong>di</strong>eci in corsa per il Quirinale, riesce<br />
a primeggiare con la risposta più squallida: «io sono già senatore a vita, non ho dunque bisogno <strong>di</strong><br />
passare dal Quirinale». Una risposta tanto sincera quanto feroce, dove l’infelice tentativo <strong>di</strong> ironia<br />
non riesce a nascondere il lapsus sul vero significato del loro far politica: un fatto strettamente<br />
personale (o al massimo familiare).<br />
E il giorno successivo, senz’altro consapevole <strong>di</strong> averla fatta piuttosto grossa (tanto da pregiu<strong>di</strong>carsi<br />
davvero la volata), si traveste da chierichetto per <strong>di</strong>re che «per quel che abbiamo fatto meritiamo<br />
l’inferno».<br />
Oscar Luigi Scalfaro (un altro dei magnifici <strong>di</strong>eci), invece, la cui religiosità non viene dalle raffinate<br />
scuole vaticane ma, ben più modestamente, dalle sagrestie <strong>di</strong> paese, inaugura la sua presidenza con<br />
un atto <strong>di</strong> arrogante integralismo (o si può forse definire altrimenti la bene<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un’aula in cui<br />
ci si dovrebbero riconoscere tutte le culture, tutte le religioni e tutte le espressioni del libero<br />
pensiero?).<br />
A meno che (ci si lasci almeno un barlume <strong>di</strong> speranza) il folletto ironico che aleggiava nella<br />
carcassa <strong>di</strong> Giulio Andreotti sia entrato nell’animo del nuovo presidente della Camera.<br />
e quando non sei abbastanza povero?<br />
15 maggio 1992