Le due anime del cardinale Lercaro
Le due anime del cardinale Lercaro
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esponente comunista di primo piano, ma a « un messaggio pluralistico<br />
».<br />
Il timore di <strong>Le</strong>rcaro di dover incontrare Dozza era immotivato<br />
perché — ma lui non lo sapeva — il sindaco non aveva alcuna<br />
intenzione di recarsi alla stazione. Proprio in quelle ore stava battagliando<br />
con il suo partito perché, come aveva anticipato a Fanti,<br />
non gli andava di incontrarsi con <strong>Le</strong>rcaro.<br />
Nell'informare la giunta aveva sostenuto che era opportuno accettare<br />
l'invito anche perché il rapporto diretto che si apriva tra<br />
comune e curia non avrebbe compromesso quello tra i partiti. Ma,<br />
dopo avere sostenuto l'opportunità di quella « operazione politica »,<br />
come la definì, disse risolutamente: « Io, in ogni caso, non vado<br />
alla stazione ». Prevenendo le presumibili domande degli assessori,<br />
disse che non si trattava di un semplice saluto, ma di un vero e<br />
proprio « atto di sottomissione ».<br />
Tornando a essere, sia pure per un momento, il tribuno di un<br />
tempo, Dozza ricordò le dure battaglie che la sinistra aveva sostenuto<br />
dieci anni prima per respingere l'assalto che il « cardinal legato<br />
» aveva sferrato contro Palazzo d'Accursio. Non dimenticò di<br />
recitare a memoria alcuni passi <strong>del</strong> famoso discorso di <strong>Le</strong>rcaro dopo<br />
la sconfitta di Dossetti — quando accusò i bolognesi di essersi sbattezzati<br />
— e fece quasi risentire ai presenti i lugubri rintocchi <strong>del</strong>le<br />
campane a morto <strong>del</strong> 1956, quando i carri armati sovietici soffocarono<br />
nel sangue l'insurrezione popolare ungherese. Concluse dicendo<br />
che mai e poi mai si sarebbe recato alla stazione con il cappello<br />
in mano.<br />
Aggiunse un argomento imprevedibile, solo se si consideri che,<br />
in occasione <strong>del</strong>le ultime elezioni, aveva chiesto insistentemente di<br />
essere ancora il capolista e quindi il sindaco, nonostante fosse consapevole<br />
<strong>del</strong>la propria malattia. Dal momento che sono un sindaco<br />
dimezzato — disse, all'incirca, con specifico riferimento alle precarie<br />
condizioni di salute — è bene che il saluto lo porti un altro membro<br />
<strong>del</strong>la giunta. E fece il nome <strong>del</strong> vice sindaco socialista Gianguido<br />
Borghese. In realtà in quel periodo il vero sindaco era Lorenzini,<br />
anche se ufficialmente il potere era affidato a un triumvirato composto<br />
dallo stesso Lorenzini, Athos Bellettini e Zangheri.<br />
Quando si aprì la discussione, Lorenzini — confermando la sua<br />
ben nota posizione — disse che il problema era solo politico e che<br />
si sarebbe dovuto portare il saluto al <strong>cardinale</strong>, senza per questo<br />
avviare un'intesa con la curia. Alla stazione avrebbero dovuto andare<br />
sia il sindaco che il vice.<br />
Bellettini era assente, ma si sapeva che, d'accordo con Fanti,<br />
giudicava che solo la curia, e non la DC, avrebbe potuto far cadere<br />
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