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itar<strong>da</strong>to di una scuola <strong>me</strong>dia di periferia avrebbe trovato al<strong>me</strong>no<br />
imbecilli, la musica era quanto di peggio si potesse immaginare, al<strong>me</strong>no<br />
per Marco. Poteva sentire interi cd e concerti <strong>da</strong>l vivo di questa gente e<br />
non riuscire a distinguere una canzone dell’altra, e tuttavia a odiarle in<br />
ordine crescente, finché non gli saltavano del tutto i nervi. Lo urtava il<br />
fatto che il reggae, che aveva significato tanto nella sua vita, fosse<br />
diventato un semplice motivo di deboscia; certo, pure lui e i compagni<br />
suoi, <strong>da</strong> ragazzi, si erano ammazzati di canne, ma al<strong>me</strong>no avevano il<br />
buon gusto di non vestirsi co<strong>me</strong> e acconciarsi co<strong>me</strong> negri di un altro<br />
emisfero, porca puttana troia. Qualcosa gli ferì le orecchie: c’era un<br />
gruppo che provava, e suonava reggae italiano. Il cantante e chitarrista<br />
era una specie di accattone con dredlocks lunghissimi e biondi e una<br />
canna in mano che urlava:<br />
Africaaa<br />
Noi torneremo lì, in Africaa-ah<br />
Se c’è giustizia al mondo<br />
Noi noi noi nooooi<br />
Torneremo in Africaaaa-ah!<br />
Si accorse che stava per vomitare, quando una ragazza, pure lei una<br />
trezzelle, gli sfilò la borsa <strong>da</strong>lle mani e, rivolta a Opale che fissava il<br />
gruppo di straccioni che suonava, urlò, per farsi sentire:<br />
“Uaaa Opale, pariantissimo! Che ci hai portato <strong>da</strong> mangia’ stavolta?”<br />
Marco capì final<strong>me</strong>nte che fine faceva la sua roba <strong>da</strong> mangiare, e si girò<br />
verso Opale per chiederle con gli occhi un anticipo di spiegazione, ma<br />
stavolta l’ infinito delle diciassettenni aveva deciso di posarsi su un<br />
pezzo di salsiccia nella barbetta caprina e bion<strong>da</strong>stra del cantante, e<br />
Opale non poteva far altro che fissarlo e fissarlo.<br />
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