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02.06.2013 Views

farà vedere (rā’āh, v.8)”, possiamo cogliere un atteggiamento evasivo, ma è contenuta anche la domanda e l’attesa di una rivelazione; insieme alla totale disponibilità e fiducia nel Dio delle promesse, vi è forse anche la speranza di una sorpresa, di una qualche visione. Abramo è sul punto di scoprire qualcosa di importante: egli vede e scruta l’orizzonte: «alzò gli occhi e vide (rā’āh) il luogo da lontano» (v.4). Alla fine, «alzò gli occhi e vide (rā’āh) un ariete». Ebrei interpreterà la risposta del padre come attesa di risurrezione: Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Eb 11,19). Sul luogo – la preparazione del sacrificio (vv.9-10). Giunto sul posto, Abramo si appresta a eseguire la terza parte del comando, sacrificare il figlio. Qui la descrizione rallenta e si sofferma sui gesti senza parole, come all’inizio (v.3). Il movimento narrativo è concentrato in cinque azioni: costruì l’altare, preparò-collocò la legna, legò Isacco suo “figlio” e lo pose sull’altare sopra la legna, stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio. Ancora una volta l’ultima parola è “suo figlio”, ripetuta due volte. La tradizione giudaica ha sottolineato la “legatura” del figlio (‘aqedah). La parola inattesa - il “sacrificio interdetto” (vv.11-14). Ritorna la struttura dell’ordine divino iniziale (vv.1b-2) e del dialogo tra padre e figlio (vv.6-8). Il duplice intervento, ora nella forma dell’angelo del Signore dal cielo (vv.11 e 15), Dio pone fine alla prova e rimette in moto la storia. Egli torna a parlare, chiamando e ordinando, per impedire l’ultimo gesto: Non stendere la mano sul ragazzo, e non fargli nulla (v.12a). Ora so (yāda‘tî) che tu temi/rispetti (yerē’) Dio e non ti sei riservato il tuo figlio, il tuo unico (v.12b, cf v.2). Nella prova Abramo si è mostrato rispettoso di Dio, preferendolo al figlio che Dio ha riservato a sé. «Dio “tentò”, Abramo “rispetta”. Questi due verbi che dominano il testo si troveranno sulle labbra di Mosè, quando spiegherà al popolo, perché Dio avesse dato loro i dieci comandamenti (Es 20,20: sono tradotti con “provare” e “temere”). Sono questi i due soli testi dell’Antico Testamento in cui i due verbi sono usati insieme. Il comando divino è una prova che invita a una maggiore obbedienza. Abramo sembra avere obbedito alla legge prima che questa venisse promulgata». 25 Ora il figlio gli viene restituito e ridato in dono. Non era il frutto dell’azione umana (come Ismaele da Agar), ma il figlio della promessa che Dio gli aveva dato. Doveva accoglierlo solo come dono. Il testo sembra echeggiare il detto evangelico: «Chi ama il padre o il figlio… più di me non è degno di me» (Mt 10,37). Abramo non ha immolato suo figlio, ma lo ha veramente offerto a Dio. Anche se il sacrificio non è stato eseguito materialmente, la tradizione seguente ha sempre considerato il gesto di Abramo un sacrificio perfetto, sottolineando soprattutto la radicale disponibilità di Isacco a quanto il padre stava facendo (cfr. Ag.Ber.). Quando offre, l’uomo benedice Dio e gli rende grazie per ciò che ha ricevuto: è il sacrificio interiore di riconoscenza e riconoscimento. Senza un esplicito commento, il racconto oppone di fatto il sacrificio del capro al sacrificio interiore della fede e obbedienza. È questo che il Signore chiede, questo Abramo ha offerto, l’altro è solo una espressione esterna. 25 W. VOGELS, cit., p. 207. 96

Dio che ha provato ora “provvede” (vv.13-14) per il sacrificio e “appare” (si manifesta) ancora, in forma nuova. 26 Il medesimo verbo rā’āh gioca sul duplice significato di “vedere” e “provvedere” e fa riferimento al Moriah (v.2). Abramo “vede” (rā’āh) un ariete che diventa il sostituto del figlio. Vi sarà un giorno in cui Dio accetterà il sacrificio umano come espressione di amore per l’uomo e per salvarlo, perché non c’è amore più grande che dar la vita per gli amici (Gv 15,13). In segno di amore, il Padre non risparmia il suo Figlio unico, amato, ma lo consegna per la salvezza del mondo. Così si esprimono il NT (cf Rm 8,32; Gv 3,16; 1Gv 4,10) e i Padri della chiesa nel tentativo di comprendere il senso della morte in croce di Gesù. Il secondo intervento divino (vv.15-18) rinnova le promesse poste all’inizio della storia di Abramo (Gen 12,1-9) e ripetute nel corso della sua vicenda mediante un oracolo in stile profetico. Anzi, Dio si impegna con un giuramento che sarà richiamato più volte (cf Gen 24,7; 26,3; 50,24; Es 13,5.11; Dt 1,8.35). Ritorna il tema di Abramo segno di benedizione e di contraddizione per tutti i popoli. Si aggiunge la vittoria sui nemici e la conquista delle loro città. Le promesse sono motivate dall’evento appena narrato: “Perché tu hai fatto questo…” (v.16, cf v.12). Diventano esplicazione della “prova” annunciata all’inizio della pericope, sono frutto dell’atteggiamento e dell’azione virtuosa di Abramo. L’ultima annotazione (v.19) realizza le parole del v.5. Superata la prova, il gruppo si ricompatta con il ritorno presso i due servi rimasti in attesa, e inizia un nuovo cammino. E Isacco? Avevano “camminato insieme”. Ora il testo dice che “Abramo tornò”, mentre ai servi aveva promesso: «Fermatevi… io e il ragazzo… ritorneremo da voi» (v.5). Privato nella vicenda di qualsiasi iniziativa personale, se non il breve colloquio con il padre, dal quale aveva ricevuto una risposta evasiva, Isacco alla fine non viene nominato. Li univa il silenzio, non la consapevolezza. E ora sembra scomparso. Dipende dal fatto che in ogni caso è stato donato? Oppure, impietrito dalla paura se ne è andato per conto suo, rifugiato nella tenda della madre, Sara, qui assente, dove si consolerà della sua morte, facendovi entrare Rebecca? La tradizione talmudica e rabbinica gli attribuisce trentasette anni. Se fosse vero, obietta Abraham Ibn ’Ezra (Spagna 1089/90 – 1164), la Bibbia avrebbe celebrato il suo amore per Dio, non quello di Abramo. In ogni caso, la medesima tradizione lo rende partecipe con una totale accettazione. Anziché fuggire, egli incoraggia il padre a compiere il volere di Dio, chiedendogli di legarlo all’altare. 27 Il testo non dice nulla in proposito. Ma è un’immagine che turba; è vittima senza possibilità di ribellione. Il ritorno a Beerseba-Bersabea, ultima meta del primo viaggio di Abramo (12,9, il Negheb) e dove era avvenuto il “giuramento” con Abimelek (21,22-24), segna una nuova abitazione (yāšab) nella terra, inizia una nuova fase orientata al futuro. La prova ha cambiato tutti. Il patriarca è entrato in una nuova ottica: accoglie il figlio e ogni promessa come frutto del puro dono di Dio. Riceverà tutto in dono perché tutto ha donato e su tutto ha preferito Dio, non risparmiando neppure il figlio (Eb 11,17-19, che accentua la fede: “lo riebbe come simbolo”, lett. parabola, cioè della risurrezione di Cristo). In conclusione, tra i due eventi – la chiamata (12,1-9) e la prova (22,1-19) – Abramo è maturato. È stato molto umano, talvolta troppo, a momenti irresponsabile, perfino riprovevole (12,10-20; 20). Adesso è stato eroico. Completamente si è donato a Dio, riceve 26 Il testo ebraico del v.14 non è chiaro: si può leggere “vede” (yir’eh) o “si fa vedere, si manifesta” (yËrÂ’Ëh), che gioca con la risposta che Abramo dà al figlio al v.8. Il luogo diventa sacro per l’invocazione del nome, per il sacrificio offerto e gradito a Dio, come nella prima apparizione (Gen 12,8) e nella visione di Giacobbe (Gen 28). Cf J.R. DAVILA, «The Name of God at Moriah. An Unpublished Fragment from 4QGenExod a », in Journal of Biblical Literature 110 (1991), pp. 577-582. 27 Cf E. WIESEL, cit., pp. 14-15. 97

farà vedere (rā’āh, v.8)”, possiamo cogliere un atteggiamento evasivo, ma è contenuta<br />

anche la domanda e l’attesa di una rivelazione; insieme alla totale disponibilità e fiducia<br />

nel Dio delle promesse, vi è forse anche la speranza di una sorpresa, di una qualche visione.<br />

Abramo è sul punto di scoprire qualcosa di importante: egli vede e scruta l’orizzonte:<br />

«alzò gli occhi e vide (rā’āh) il luogo da lontano» (v.4). Alla fine, «alzò gli occhi e vide<br />

(rā’āh) un ariete».<br />

Ebrei interpreterà la risposta del padre come attesa di risurrezione:<br />

Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti:<br />

per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Eb 11,19).<br />

Sul luogo – la preparazione del sacrificio (vv.9-10). Giunto sul posto, Abramo si appresta<br />

a eseguire la terza parte del comando, sacrificare il figlio. Qui la descrizione rallenta<br />

e si sofferma sui gesti senza parole, come all’inizio (v.3). Il movimento narrativo è<br />

concentrato in cinque azioni: costruì l’altare, preparò-collocò la legna, legò Isacco suo<br />

“figlio” e lo pose sull’altare sopra la legna, stese la mano e prese il coltello per sgozzare<br />

suo figlio. Ancora una volta l’ultima parola è “suo figlio”, ripetuta due volte. La tradizione<br />

giudaica ha sottolineato la “legatura” del figlio (‘aqedah).<br />

La parola inattesa - il “sacrificio interdetto” (vv.11-14).<br />

Ritorna la struttura dell’ordine divino iniziale (vv.1b-2) e del dialogo tra padre e figlio<br />

(vv.6-8). Il duplice intervento, ora nella forma dell’angelo del Signore dal cielo (vv.11 e<br />

15), Dio pone fine alla prova e rimette in moto la storia. Egli torna a parlare, chiamando e<br />

ordinando, per impedire l’ultimo gesto:<br />

Non stendere la mano sul ragazzo, e non fargli nulla (v.12a).<br />

Ora so (yāda‘tî) che tu temi/rispetti (yerē’) Dio<br />

e non ti sei riservato il tuo figlio, il tuo unico (v.12b, cf v.2).<br />

Nella prova Abramo si è mostrato rispettoso di Dio, preferendolo al figlio che Dio ha<br />

riservato a sé. «Dio “tentò”, Abramo “rispetta”. Questi due verbi che dominano il testo si<br />

troveranno sulle labbra di Mosè, quando spiegherà al popolo, perché Dio avesse dato loro<br />

i dieci comandamenti (Es 20,20: sono tradotti con “provare” e “temere”). Sono questi i<br />

due soli testi dell’Antico Testamento in cui i due verbi sono usati insieme. Il comando divino<br />

è una prova che invita a una maggiore obbedienza. Abramo sembra avere obbedito<br />

alla legge prima che questa venisse promulgata». 25<br />

Ora il figlio gli viene restituito e ridato in dono. Non era il frutto dell’azione umana<br />

(come Ismaele da Agar), ma il figlio della promessa che Dio gli aveva dato. Doveva accoglierlo<br />

solo come dono. Il testo sembra echeggiare il detto evangelico: «Chi ama il padre<br />

o il figlio… più di me non è degno di me» (Mt 10,37).<br />

Abramo non ha immolato suo figlio, ma lo ha veramente offerto a Dio. Anche se il sacrificio<br />

non è stato eseguito materialmente, la tradizione seguente ha sempre considerato<br />

il gesto di Abramo un sacrificio perfetto, sottolineando soprattutto la radicale disponibilità<br />

di Isacco a quanto il padre stava facendo (cfr. Ag.Ber.). Quando offre, l’uomo benedice<br />

Dio e gli rende grazie per ciò che ha ricevuto: è il sacrificio interiore di riconoscenza e riconoscimento.<br />

Senza un esplicito commento, il racconto oppone di fatto il sacrificio del<br />

capro al sacrificio interiore della fede e obbedienza. È questo che il Signore chiede, questo<br />

Abramo ha offerto, l’altro è solo una espressione esterna.<br />

25 W. VOGELS, cit., p. 207.<br />

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