Canto siculo per Ducezio-3 - Catania per te

Giuseppe Vazzana
CANTO SICULO PER DUCEZIO
poema modulare interattivo
Questa mia opera è dedicata alla
memoria di Paolo Orsi, l’archeologo
nativo di Rovereto, che dal 1889,
quando gli fu conferito l’incarico di
Direttore del Museo Archeologico di
Siracusa - che gli è tuttora intitolato -
al 1932, animato da uno spirito
instancabile e da una dottrina
eccezionale, compì centinaia di
scoperte, soprattutto nella Sicilia
orientale, la maggior parte delle quali
così importanti da giustificare
l’affermazione che l’isola, dal punto
di vista delle antichità più remote,
venne alla luce con lui.
1

Canto siculo per Ducezio
Cirneco: «Spirito di Ducezio
che ora appari sulle sponde
del dio fiume Adranon
presso i Sedili Sacri scavati nella roccia,
o mio antenato di due generazioni passate,
io, il poeta Cirneco di Piakon,
ti chiedo di leggere la scritta impressa nella pietra
che io stesso dettai formulandovi l’auspicio
di continuare la tua opera.
Per questo rinforzammo le mura di difesa
della nostra Píakon, che tu fondasti
all’apice della tua gloria, con Paliké e Kalé Akté.
Ducezio, puoi vedere quelle lettere scolpite?».
Ducezio: «Con difficoltà, Cirneco,
attraverso questa nebbia che mi avvolge…
IAM AKARAM EH PIAS KOAGIES
GEPED TAUTO VEREGAIS
OKEDOARA IAD».
C.: «Questa città è adesso ben difesa
dalle mura che i suoi pii cittadini
eressero per il bene comune.
Mentre le dettavo all’incisore, Ducezio,
sentivo la tua voce vincere la notte
e albeggiare nel mio cuore».
D.: «Accetto il tuo omaggio, Cirneco,
distante da me due generazioni.
Sei dunque un poeta?
Questa parola l’appresi dai Greci.
Io che non fui poeta ma condottiero,
dico che non bastan mura possenti
a tener lontana la sventura
che incombe sulla tua città.
Vedo che Dionisio il siracusano
I
2

costruisce più in alto di Píakon,
sulle pendici dell’Etna,
la città greca che ruberà,
in supremo affronto per le nostre genti,
il nome di Adranon
per sottometterlo a Zeus e a Efestos…».
C.: « Dionisio non ci farà schiavi! Mai!».
D.: «Combattete, Cirneco, tenete alto
il nome dei Siculi, dei Falciatori
che non si lascian falciare…».
C.: «Eppure quanti falsi fratelli tra noi,
quanti che si vendono in cambio di nulla!».
D.: «Ve ne furon sempre, Cirneco,
anche ai miei tempi, sessant’anni fa.
È nella natura di chi non crede d’avere un destino
cambiar sempre idea, ingegnarsi di cancellare
dalla vista del nemico i segni della stirpe».
C.: «Sono troppi, Ducezio, il tradimento dilaga ovunque!».
D.: «Quanti voglion farsi Greci?».
C.: «Molti della tua discendenza.
Dicon che il nemico è soverchiante,
terribile, capace di uccidere fin l’ultimo bambino.
Guai a opporsi a Dionisio di Siracusa.
Dal solo nome il terrore».
D.: «Vorrei esser vivo
per affrontarlo a viso aperto.
Se fossi sconfitto non sopravviverei,
mi darei la morte per mia mano,
non finirei in catene, mai!».
C.: «Ducezio…».
D.: «Parla, Cirneco, non esitare».
C.: «È giusto oggi invocare la tua protezione
su di noi che, pur essendo tuoi discendenti,
non ci sentiamo fratelli in un sol popolo?».
D.: «Sappi che non si è fratelli
se ci convien esserlo o meno,
ma per il sangue comune,
della madre, del padre, d’entrambi!».
3

C.: «Dovrò uccidere fratelli che rifiutan di sentirsi tali?».
D.: «No, Cirneco, no! Non farlo mai
quest’orribile sbaglio ch’io commisi da vivo
e che tagliò in due il mio cuore
come la lama più affilata,
uccidendo la gioia di veder sorgere il sole nel cielo,
quella gioia di cui tutti posson godere,
gli storpi, i malati, i mutilati,
chi ha perso i suoi cari, chi non ha nulla.
Nessuno, Cirneco, soffrì come Ducezio».
C.: «Non dirlo questo, che le parole…».
D.: «Tu, poeta, tu pensi alle parole!
Io penso al sangue dei fratelli
che feci scorrere allora
e che ancora mi annebbia la mente!».
C.: «Ti ho evocato presso il dio-fiume
per esserti d’aiuto in questa sofferenza
e tu a me, ai Siculi, a noi tutti».
D.: «Che dici? Come puoi aiutarmi in questa condizione?».
C.: «Sai bene, Ducezio, che la Madre Terra
ha donato al nostro popolo la magia e la veggenza
più che ad ogni altro, dote che coltiviamo
praticando i riti antichissimi che la onorano.
Dopo aver dato molte prove dei miei poteri,
fui onorato veggente nel tempio dei Palici,
che fondasti presso Paliké ora distrutta.
Tutti ci siam chiesti sempre
quando sarebbe nato il nuovo Ducezio.
Sono un poeta veggente e con i molti altri
dotati di questi poteri ho più volte interrogato
coloro ch’eran giovani quando tu eri in vita
e unendo la loro memoria e i nostri poteri
sappiam tutto di te e lo tramandiamo.
Nulla ci è ignoto d’ogni tuo attimo,
d’ogni tua azione, dei tuoi pensieri, di ciò a cui aspiravi.
Se dovessi scrivere di te su lapidi tutto ciò che conosco
non basterebbero le rocce dell’intera Sicilia».
D.: «Io non voglio ricordare me stesso,
4

non voglio sanguinare eternamente
sotto il peso delle mie colpe!
Perché sottopormi a quest’orribile supplizio?».
C.: «Per loro, Ducezio, guardali!». [Guarda verso il pubblico]
D.: «Chi sono questi? Chi sono? Demoni?
Demoni orribili che la Madre Terra
scaglia contro di me per punirmi?».
C.: «No, Ducezio, guardali bene!
Sono uomini e donne, guardali!».
D.: «Ma come sono vestiti? Che hanno addosso?
Io non ho mai visto stoffe tagliate così?
E poi cosa sono quelle luci?
Quei carri illuminati che corrono
via come frecce?
Dimmi, Cirneco, è questo l’antro sotterraneo
a cui mi ha definitivamente condannato
Anna, la nostra Grande Madre Terra?
Un luogo orribile, che non capisco,
l’effetto estremo di un’allucinazione?».
C.: «No, Ducezio, loro sono uomini e donne
che vivono nella Sicilia che hai amato
duemilacinquecento anni dopo di noi».
D.: «Perché mi hai portato in questo spazio aperto,
in questo mondo del futuro lontanissimo
così distante che per me è l’incubo peggiore
tra quanti ne ho sperimentati finora?».
C.: «Nell’istante in cui la mia evocazione
ha avuto effetto ci siam sospesi fuori dal tempo.
Pochi istanti fa ero seduto nei Sedili Sacri
lungo il dio-fiume Adranon
ma ora siamo fluttuanti come nubi
in balia di venti forti.
Quello più possente spira da quest’epoca.
Sono loro che ci chiamano qui, nel loro tempo.
Loro voglion sapere chi sei stato,
cos’hai fatto davvero, e perché,
cosa puoi significare ancora
per loro e per la Sicilia».
5

D.: «Ma io non vedo nulla distintamente!
E poi, se è vero che conosci tutto di me,
perché non lo dici tu chi fui, quali azioni compii e perché…».
C.: «Loro hanno ben ragione di dubitare dei poeti,
i quali spesso lì han defraudati della verità,
con storie ben raccontate che addolciscono gli orrori.
Di me non si fidano, i posteri,
di me poeta e partecipe della magia.
Voglion sentire da te cosa accadde,
quali parole furon dette e non solo da te
ma da tua zia Pania, da Leporin tuo padre,
dalla dolcissima Lisia che ti amò tanto,
dai re siculi che ti furon fratelli o avversari…».
D.: «Ma io non ricordo nulla, nulla!».
C.: «Io ricordo tutto, la veggenza mi fa intendere
ciò che fu detto da tutti, ciò che fu fatto,
ma lo racconteremo insieme.
Bevi a quest’askos il vino sacro».
D.: «Cos’è questo?».
C.: «È il calice della memoria:
così potrai ricordare senza sentir troppo dolore
per le azioni di cui soffri.
Servirà a loro che ascoltan per capire».
D.: «Cosa c’è inciso su questa terracotta?».
C.: «Leggi tu stesso, Ducezio.
È una formula d’amicizia
che addolcisce il dolore».
D.: «NUNUS TENTI MIM, ARUSTAINAM,
IEMI TOM, ESTI DUROM, NANE,
POS DUROM IEMI TOM ESTI VELIOM
NED EMPONITANTOM EREDES VINBROTROM
Io, l’askos che ti fu donato
prometto d’esserti sempre fedele
e di custodire buon vino,
a te l’impegno, però,
di non farmi finire in mani sbagliate
per irrorare cuori che non ti sono amici».
6

αC.: «Ascolta, Ducezio. Tua madre sapeva dagli indovini
che sarebbe morta nel darti alla luce
ma che avrebbe potuto evitarlo
se si fosse sgravata per tempo di te
con gli intrugli di una mammana,
ma dagli stessi aruspici sapeva che il figliolo
avrebbe acceso la libertà dei Siculi,
il nostro riscatto da catene
che non osavamo spezzare».
D.: «Cirneco, ho sempre avuto in mente
la mia dolce madre Sertia, che il destino
m’impedì di vedere, poiché al mondo
potevan restare solo la sua dolcezza
o la mia crudezza, non entrambe.
Zia Pania mi fece da mamma
e ancora bambino m’istruì sui Siculi».
C.: «Ricordi quando nelle magnifiche notti
dell’estate al colmo di splendore
vi radunavate intorno a un fuoco
per narrare degli antenati
che dimoravano nel tempo senza fine?».
D.: «Zia Pania mi chiamò suo figlio
e poi… suo pensiero, pensiero di libertà…».
C.: «Fu lei che per prima ti indicò
il sentiero della vita che i Greci dicono Fato…».
D.: «Unire il nostro popolo disperso
e in pericolo incessante da ogni parte
ora dai Greci, poi dai Cartaginesi
e poi da quanti altri,
perché diventasse forte, orgoglioso,
che non amasse le catene impostegli,
ma le spezzasse, preferendo la battaglia
a una vita d’ombra perenne».
αC.: «Diceva zia Pania: “I Siculi saran liberi dai Greci
quando impareranno a esser Greci in tutto.
Soltanto così colmeremo lo svantaggio
II
7

e creeremo una forte nazione su cui nessuno
potrà in futuro metter ceppi».
αD.: «“Tuo zio Levion, diceva, ha combattuto
per Gelone siracusano nella battaglia d’Imera
contro i cartaginesi, che furon travolti.
Fu giusto affiancare i nostri nemici
contro nemici in quel momento più pericolosi.
Allora respingemmo il pericolo comune
e guadagnammo l’ammirazione dei Siracusani,
che adesso chiedon d’averci stabilmente al fianco
in cambio di beni e di considerevole mercede.
Impara a fondo il mestiere delle armi
e quando sarai in età di farlo, Ducezio, combatti per loro e poi,
quando ve ne saran le condizioni, rivolgiti contro”».
C.: «L’occasione venne quando Trasibulo,
ultimo rampollo dei tiranni Dinomenidi,
si mise contro i grandi proprietari siracusani,
imponendo tasse esose per mantenere
i mercenari che teneva a Katana
dopo averne esiliato gli abitanti a Leontinoi.
Quelli finalmente lo cacciaron di città,
proclamando la democrazia.
Ma Trasibulo ritornava in forze
e allora mandarono a dirti
che se partecipavi alla difesa di Siracusa democratica
in caso di vittoria ti avrebbero restituito le terre
già sottratte dai tiranni alla tua gente…».
D.: «Accettai. Con i miei uomini entrai a Siracusa
mentre Trasibulo assaltava la Porta di Epipoli
e lo respingemmo a prezzo d’una tremenda battaglia.
Allora si rifugiò a Katana dai suoi mercenari
ma anche questa città assaltammo,
liberandola da quella peste e permettendo
ai catanesi di tornare dall’esilio».
C.: «Poi venisti a sapere che Trasibulo
si era rifugiato a Inessa, città sicula fortificata,
il cui re Telion tradiva la sua gente
dando ospitalità a un massacratore di Siculi».
8

D.: «Entrai a Inessa con uno stratagemma.
Feci nascondere la cavalleria dietro un poggio
non lontano dalla sua Porta Urbica
e poi mi recai lì sotto con pochi uomini,
sotto mira di arcieri siculi e greci.
Mi feci chiamare re Telion dicendomi suo parente
e quegli accorse con Trasibulo in persona.
“Sono Ducezio, dissi, figlio di Leporin,
re di Menai, e ho lottato per i democratici
perché mi restituissero la terra che ci tolse Gerone.
Allorché vincemmo su di lui a Katana,
costringendolo alla fuga onde s’è rifugiato qui,
reclamai a Siracusa che ci restituissero
i territori di Kentoripé sul dio fiume Adranon
ma tergiversarono, accamparon scuse,
dissero che dovevan rivolgersi al popolo sovrano,
poiché gli accordi presi sul momento
erano in effetti provvisori…”.
Protestai con forza, pretesi il rispetto dei patti.
Loro rifiutaron dicendo che ci avrebbero
dato del denaro, quanto ne volevamo,
ma la terra no, era impossibile,
perché insediata ormai da greci…
Urlai furente che il loro denaro
non aveva alcun corso tra i Siculi!
Giustizia e riparazione occorrevano,
non inutili dracme: patrioti guerrieri
eravamo, non già mercenari!
Quasi mi uccisero allora, che poca
scorta avevo al mio seguito.
Con quegli uomini adesso son qui.
Son certo di riconquistare Siracusa
a Trasibulo che appena ieri combattei
purchè in cambio mi dia le terre
che i democratici mi hanno negato”.
Tutto ciò dissi per trarli in inganno».
C.: «Telion re d’Inessa e Trasibulo parlaron tra loro.
Quindi decisero di aprirti le porte.
9

Tu entrasti con i pochi che ti accompagnavano.
Suonasti il corno e subito si precipitò nella città
la cavalleria che interruppe la battaglia
che avevi ingaggiato per conquistare la Porta Urbica.
I fratelli siculi di Inessa gettaron le armi
mentre Trasibulo tentava la fuga,
ma venne subito ucciso dai miei».
αC.: «Guardasti furente di rabbia Telion,
ma senza intenzione di ucciderlo:
“Fratello, gli dicesti, non tradire mai più la tua gente!”.
“Ma io non sono tuo fratello,
fece Telion, io non discendo da italici,
ma da antenati egei,
come dice chiaramente il nome
della mia città, Inessa:
come Tissa, Erbesso, Omessa
è nome pelagico, che nulla spartisce con la tua stirpe!
Diedi ospitalità a Trasibulo
perché mi era più affine di te!”».
D.: «”Sei molto coraggioso a dirmi queste parole,
a dirmi che non siamo fratelli,
ora che posso ucciderti avendone piena ragione.
Ti definisci egeo per una doppia s! Ah ah!
Io non so neppure dove stian gli Egei!
Sei salvo, Telion che sei mio fratello!”».
αC.: «Con poche speranze nel cuore
tornasti dai democratici di Siracusa…».
D.: «Grandi elogi mi tributaron,
banchetti furono approntati,
ma quando presi a parlare
della restituzione delle terre sicule
gli eventi che avevo inventato alla Porta d’Inessa
si verificaron come frutto di tremenda profezia.
Furon dette da ognuno le stesse parole,
fu offerto lo stesso denaro
e io lo respinsi con sdegno…».
αC.: «Non era stata una finzione, Ducezio,
ma una vera premonizione.
10

Tua zia Pania aveva grandi poteri magici
e nulla esclude che tu abbia avuto una visione.
Ciò che avevi immaginato accadeva».
D.: «Allora urlai: “Democratici o tiranni,
nulla cambia nei vostri cuori rapaci!
Astuti, senza scrupoli e bugiardi
avete fatto un terribile errore:
lasciarmi apprendere l’uso delle armi!
Ed è con queste che mi riprenderò la terra dei Siculi!».
C.: «Ai tuoi tempi, Ducezio, proprio come adesso
i Siculi lottavan tra loro mentre i Greci
- anch’essi in perenne contesa -
sapevano assai bene cosa fare di noi:
indire campagne belliche per ridurci in schiavitù.
La nostra gente era a un passo dalla fine
ché i Greci s’accingevano a compiere
l’atto finora mai osato, l’invasione,
dopo essersi infiltrati per gradi,
com’era nel loro costume,
per cancellare ogni memoria delle genti sicule.
I superstiti eran destinati alla schiavitù.
Ma tu avevi in mente un’idea madre,
c’era una luce che ti guidava:
la libertà della tua terra, della terra sicula, dei Siculi!».
D.: «Tornato in patria andai subito a cercare
mio padre Leporin, re di Menai,
e la carissima zia Pania…».
C.: «Quando ti videro ti gettaron le braccia al collo,
felici entrambi di vederti vincitore».
αC.: «Tua zia Pania ti chiamò:
“Mio orgoglio, mio pensiero”, stringendoti,
e aggiunse subito: “Praticando coi Greci
hai appreso che l’idea è una creatura del pensiero vivente.
Allorché sia stata concepita non vi è potenza
che possa far sì che non esista…».
III
11

D.: «Allora già sapete della synteleia?».
C.: «Leporin, tuo padre, disse:
“Le voci corron più del vento, Ducezio.
Come può tuo padre ignorare che il figlio
ha in mente l’unità dei Siculi?”».
D.: «Padre, la nostra gente è pronta
a unirsi in armi contro i Greci
per liberare la patria dai conquistatori
si chiamin pure democratici, che importa?
La synteleia dei Siculi è nel cuore di tutti,
presto lo sarà anche nel braccio».
C.: «E Leporin, tuo padre, disse: “Ducezio, figliolo,
temo che tu stia vaneggiando.
Non è carattere dei Siculi credere in un fine comune,
cioè in quella che hai chiamato
con parola greca synteleia».
D.: «Devo usarla controvoglia, padre, perché noi Siculi
non ne abbiamo neppur di somiglianti nel significato».
C.: «E Leporin, tuo padre: “Vedi?
Manca la parola perché non c’è l’idea.
I Siculi son così, fratelli che si cercano,
fratelli che si lascian per cercarsi ancora.
Non si sentono un sol popolo,
ma fratelli solo per parte di madre, Hybla, la Terra.
La fratellanza è labile, solo un ricordo del ricettacolo
a suo tempo abbandonato e comune adorazione della madre.
La fratellanza la intendono così,
non synteleia, ma gioco di solidarietà e inimicizia,
alternate e mischiate ogni giorno».
D.: «Questo ci inchioda a una vita miseranda,
preclusa alla bellezza e alla sapienza».
C.: «E Leporin, tuo padre disse: “Chi può negarlo? È così.
È questa la nostra condizione”».
D.: «A che, padre, questa falsa pace di campagna?
Che ne sarà di questa terra
quando anche le pietre parleranno greco?».
C.: «E Leporin tuo padre: “Ascoltami, Ducezio,
vuoi forse fornire a quei sanguinari
12

il pretesto per sterminarci tutti,
non patteggiare accordi,
ma toglierci le terre per darle ai loro nullatenenti?».
D.: «A che una vita nella penombra
di un cielo sempre coperto da nubi?
Accendiamola noi una fiaccola
quand’anche un vento furioso ce la spenga subito!
La decisione è presa, padre.
Ci occorron vere città per farci liberi
e in grado di competere davvero con i Greci.
Sparpagliati come siamo in questa terra
non potremmo mai popolarla abbastanza.
Senza città siamo come ulivi cresciuti
solo dove c’è roccia che ci sostiene.
Per far fiorire davvero la campagna
occorre metter su vere città
e lì portarci gli abitanti dei villaggi
che non reggerebbero all’urto
di una vera aggressione dei Greci».
C.: «E Leporin, tuo padre: “Parli di costringere i Siculi
a lasciare villaggi antichissimi
per spostarci in città che non esistono?».
D.: «Le costruiremo, padre, le metteremo su!
Non siamo loro inferiori per intelletto
né per capacità in ogni campo.
Molto possiamo apprendere da noi medesimi
nonché rubar loro la scienza
che fu generata dalla schiavitù altrui».
C.: «E Leporin, tuo padre: “Ducezio,
quale visione si accampa nella tua mente?
Un sogno non riconosciuto ma creduto realtà
per sostentarsi ha bisogno di sangue,
di crimini, di orrori!”».
D.: «Combatteremo, padre, non avremo timore del sangue
Né del nostro, che doneremo alla causa,
né dell’altrui: ma non lo spargeremo vanamente».
αC.: «Intervenne allora zia Pania, che da sempre
ti chiamava suo pensiero, pensiero di libertà.
13

“Ascolta, Leporin, carissimo cognato
che mi ricordi mia sorella Sertia vivente.
La notte quando ci giunse la voce
che Ducezio aveva sconfitto Trasibulo a Inessa,
invocai le dee nella Grotta dei Palici,
chiedendo loro d’indicarmi quale fosse
la via più consona alla loro devozione…».
D.: «Adesso ricordo bene quelle parole…».
αD.: «“Dee della notte e del giorno,
Hybla primogenita della Terra,
progenitrice delle sue sorelle,
Simalis signora della fecondità,
Baiotis dell’amore, Lagesis delle piogge,
Nestis dei pacifici scambi, Ausa delle fonti,
Kotuzia dei buoni matrimoni,
vi chiamo tutte a raccolta stanotte,
voi d’aria e luce, voi nuvole, acqua
e sospiri di vento, ascoltate.
Nel cuore, nella mente, e nella mano
di colui che fu mio nipote e mio figlio
ma che ora chiamo mio pensiero,
grado di parentela che mai s’intese prima,
c’è da difendere la libertà
del nostro vecchio mondo di campagna
che non vuol morire succube
né essere umiliato dal denaro greco,
che ci avvelenerà per tornare lestamente
alla borsa di chi finse di elargirlo.
Ditemi la vostra parola,
che l’agire futuro sia conforme in tutto
alla vostra volontà…».
C.: «Voci allora sorsero dal fondo della grotta,
voci femminili alternanti e in coro…».
αD.: «GEA NAMAKA PHUE
PHOLTESQO XUDAI DEDAXED POTEROM
NEDA HOS HEBEG PRA AREI EN BOURENAI
VIDE PAGOSTIKE ALTE INCUBE».
C.: «Ma anche i Gemelli Palici intervennero
14

con le loro potenti voci maschili…».
D.: «IDIOMIS RAROIO
MARES KALA MI
DOHIT IM RUKES HAZUIES…».
C.: «Poi si fece sentire Paikos, dio del vento,
custode della memoria dei Siculi…».
D.: «FIATIS KALA M’ITALON EDOKEMEN
REXES ANIRESBE TOUTO POTER EMI KEMAI
DOEITI PHAKE BEZEL NIPEZ…».
C.: «E poi tutte quelle voci soprannaturali insieme…».
D.: «VAO VIDEDO
MOGOM SIELDO MOIDA
NADAKA KOITOB VELHO
ROGAU LTINAS VOG
PISEMB ROSVASDIS VAIO
PHAIKO NARO KENTOPIRINO
ANEOH KEMAEI OEDIS».
C.: «Ma cosa volevan dire queste parole
nell’antichissima nostra lingua
che quasi non intendevamo più?».
αD.: «Zia Pania disse soltanto:
“Una lunga vita per la progenie in catene
non compensa la scia brillante nella notte
che Anna con tutte le dee
con i Gemelli Palici e Paikos dio del vento
lancia nell’oscurità per noi».
C.: «E Leporin, tuo padre, disse:
“E sia, mi faccio figlio di mio figlio,
ti esorto a fondare città e unirle tra loro
nella synteleia con cui riscaldi
la mia prossimità alla vecchiaia.
Porta con te il mio cuore, Ducezio,
nelle battaglie che verranno per l’unità dei Siculi».
D.: «Vado a scolpire la mia sorte, padre,
che sia uno scranno da re
o una casa di roccia nel tempo».
15

IV
C.: «Andasti ancora a trattare coi democratici
che non volevan restituire i nostri territori
e pure paventavano una guerra contro di noi».
D.: «Non volete restituirci il demanio di Kentoripé?».
C.: «E loro: “È la polis che decide nell’agorà”».
D.: «Cosa può decidere il popolo se lo privi di qualcosa?
Se sia meglio aver nella bisaccia
due forme di pane o una soltanto?
Deciderà di sicuro ch’è meglio averne due!
Deciderà la guerra, allora!».
C.: «“No, dissero loro, evitiamola, non spargiamo altro sangue”».
D.: «Non vi sentite abbastanza forti per vincere,
ma la terra non volete ridarcela!».
C.: «Neanche voi vi sentite così forti
da farci la guerra adesso!».
D.: «Dunque, non volete accordarci nulla?».
C.: «Abbiam saputo che hai in cuore
di costruire nell’entroterra nuove città.
Ebbene, Siracusa promette di non interferire».
D.: «Le faremo grandi e ben concepite,
come le vostre, spaziose, pulite,
degne d’esser chiamate davvero città.
Due di queste saran sacre ai Siculi,
nella terza ospiterò quanti di voi Greci
onestamente vorranno unirsi a noi,
non solo con i matrimoni misti
ma nel governo medesimo della città».
αC.: «Fu così che al tuo tempo nacquero
Piakon, Palikè e Kale Aktè.
La prima invero fu solo rifatta,
che già esisteva da secoli
ma era solo un villaggio di capanne.
Divenne una città sacra, fortificata,
V
16

consacrata, come dice il suo nome,
che vuol dire La Pia, al dio fiume Adranon».
D.: «Palikè sorse accanto al lago di Naftía
dai gorghi sulfurei e gli improvvisi eventi magici,
davanti alla Grotta Sacra, sotto la collina chiamata Trinaké.
Proprio lì sorse il Tempio dei Palici,
il più importante per i Siculi,
che accorrevan da ogni dove
per consacrarsi agli Dei Gemelli».
αC.: «Palikè e il suo tempio facevan tutt’uno
con la Sicilia una, dei Siculi
come dei greci nativi loro amici».
D.: «L’ultima città fu Kalè Aktè, sul Mar Tirreno:
ivi diedi ordine d’accoglier bene i Greci
che credessero in una città d’ambo i ceppi».
αI coro: «Il sogno parve realizzarsi:
una gente che davan finita
risorgeva per mano d’un uomo
che sembrava assegnato dall’alto
a tale impossibile disegno».
αC.: «Con una piccola schiera a tua difesa
percorresti le trazzere della Sicilia
per recare il verbo della synteleia.
“Ducezio nostro fratello, fulgore dei Siculi!”
Così venivi salutato a Henyon,
Trotilon, Orthygia, Xyphonia, Xouthia, Kentoripè.
Giovani e anziani testimoniaron per la synteleia:
l’Idea era grande, che avesse compimento».
D.: «Mi parve che il consenso arridesse al mio progetto:
era chiaro che synteleia e fratellanza
eran due modi di chiamare la stessa cosa.
Ma quelle non eran le città più grandi
e c’erano i re delle maggiori da convincere,
ché non volevan far la guerra ai greci
e anzi intrattenevano affari con questi.
Secondo loro io sognavo un sogno di pericolo
17

che trasudava sangue, da cui aleggiava morte».
αII coro: «La tua nobile giovinezza
era un’aquila incurante
di ciò che non eri tu medesimo a statuire.
Che in battaglia ti arridesse la vittoria
o la tua spoglia inerte giacesse tra le altre».
C.: «Morgantina su una grande altura
era corteggiata dai Siracusani
come una donna a cui rubare il cuore.
Per il suo re non si badava a spese
in regali pregiati d’ogni sorta
onde se ne stesse lì dov’era.
Quando giungesti alla sua Porta,
re Edyon, chiamato dai guardiani,
die’ ordine di chiuderla all’istante
che il suo pensiero fosse ben chiaro».
D.: «“Valente re Edyon, gli dissi,
diverso m’attendevo un saggio
della tua ospitalità.
Eppure in quanto siculo
tu mi sei fratello
e di ciò dovresti aver buona memoria».
C.: «E lui: “Che la freccia
sia incoccata nell’arco
non vuol dire che debba lasciarlo.
Conosco da sempre tuo padre Leporin,
la lepre, re di Menai,
il cacciatore più forte della nostra generazione,
forse di tutte, capace di scovar selvaggina ovunque.
E che avesse un figlio degno in tutto di lui
lo sapevo, né avrei potuto supporre
diversamente: come un buon vigneto
da’ sempre buon vino,
da sangue nobile ancora nobiltà”».
V
18

D.: «“Eppure non mi apri le porte
e mi fai tenere a tiro dagli archi.
Se le tue parole, come sembra,
son convenevoli, soltanto,
saltiamo ogni altro discorso
di cui si possa fare a meno
e dimmi se conosci l’Idea
e che farai, ora che son qui,
per riferire a Paliké ciò che hai deciso».
C.: «E lui, Edyon: “Ciò che intendi l’ho chiaro
parli della synteleia di cui mormora il vento,
di un grande regno dei Siculi.
Nulla di più affascinante e più folle
della nobile follia della giovinezza
che a suo tempo anch’io conobbi.
Le tue parole dimostran quanto sia determinato
a compiere grandi imprese,
che restino nella memoria dei popoli.
In verità la synteleia è un’idea nobile e giusta
purchè le genti siano accomunate da un genos comune.
Ma noi morgantini non siamo dei vostri
perché discendiamo dai Morgeti
che combatteron contro di voi per la terra
quando abitavamo la penisola».
D.: «Eppure vi trovate in questa terra da tempo immemorabile
e non ci siamo mai combattuti…».
C.: «Noi siamo morgantini, Ducezio!
Nulla a che vedere con voi Siculi!».
D.: «Ascoltami, Edyon:
i nomi dei popoli antichi non valgono il frumento,
l’acqua di questa terra ch’è latte
e ci dona abbondante bestiame.
Siamo tutti suoi figli, figli della Sicilia.
Se non presti fede al dio folgore dei Greci,
ma a Hybla, la madre comune,
sappi che non si sceglie d’esser figli o fratelli,
ma lo si è per la madre che si ha!».
C.: «E lui, Edyon: “No, Ducezio,
19

questi argomenti non m’ingannano.
Tu vuoi portare la guerra
fin dentro le mura di Morgantina,
vuoi che il sangue scorra a fiumi in Sicilia!».
D.: «Fidiamoci almeno della vista, Edyon.
Ogni giorno i Greci erigono borgate
nel cuore delle nostre Terre Interne
e i Siculi, quando sopravvivono,
diventano kylliroi, cioè schiavi.
Non il passato è l’anima della synteleia,
ma il presente e il futuro peggiore
ché contadini d’ogni parte della Grecia
si riversan qui per ottenere
la terra in patria inaccessibile.
Prendersi le terre dei Siculi e farli schiavi,
o ucciderli: questo il loro pensiero».
C.: «E lui, Edyon: “La mia Morgantina
nulla ha da temere dai Siracusani,
Gelesi, Agrigentini o d’altre parti.
Vai via, Ducezio, non importunare la mia gente…».
D.: «Oh, ricordo orribile, ricordo che non sopporto,
che mi conduce nel baratro, sempre!
A quelle parole gli scagliai il giavellotto
e lui colpito cadde giù dalle mura.
Quando lo raggiunsi lo colpii col pugnale
urlandogli: “Muoia così
ognuno che tradisce i suoi fratelli!”».
C.: «Intanto i tuoi uomini eran riusciti
a sfondare la Porta Urbica,
ritenendo così d’interpretare il tuo volere.
Ma non era così, ti eri già pentito.
Facesti cadere il pugnale grondante dal pugno
e implorasti Edyon mentre spirava di non morire
mentre una strage accompagnata da incendi
dilagava a Morgantina innocente».
D.: «L’orrore non fui in grado fermarlo.
Gli uomini di ritorno dall’ingiusta punizione inflitta alla città,
mi trovarono inebetito accanto a Edyon
20

che inutilmente pregavo di tornare in vita.
La sera, davanti al fuoco, dissi:
“Hybla ci ha abbandonato al volere dei demoni”».
C.: «Ma loro si adiraron con te:
“Non l’abbiam fatto – dissero –
per sentirci fratricidi!
È giusto che questo sia accaduto
perché il fratello ricordi l’obbligo
di non permetter che sian fatti schiavi
i fratelli avuti dalla madre comune!».
αIII coro: «Un fine comune per i fratelli:
qual padre o madre può non volerlo
per i suoi figli tutti
e quale fratello maggiore
non riterrà anch’egli
che il fine comune
sia il più naturale
e il più saggio?
Questa la visione nitida del Bene.
La vita però non è solo armonia,
ma ribellione, discordanza,
asimmetria, disequilibrio incessante.
Questo il dilemma, Ducezio:
obbligare i Siculi a uniformarsi all’Idea
dietro vessilli macchiati di sangue
o accettare la loro scelta
che domani condurrà alla schiavitù».
VI
D.: «VAO VIDEDO
MOGOM SIELDO MOIDA
NADARA KOITOB VELHO
ROGAULTINAS VOG
PISEMB ROSVASDIS VAIO».
C.: «Fu questo il tuo urlo tornato a Menai
quando raggiungesti la Grotta Sacra,
21

dopo aver salutato frettolosamente
tuo padre Leporin e zia Pania.
E ancora, rivolgendoti alle potenze celesti…».
D.: «Hybla, signora dei viventi, e voi amati Palici,
l’assassino di strada non dubita mai sul da farsi.
Invece chi ha nella mente un’idea,
che è come una madre invisibile,
vedrà sempre vicino ai traditori
gli inermi innocenti.
Ma la spada nella furia non discerne
ciò che va abbattuto o risparmiato.
La spada, la lancia o il pugnale
non amministran la giustizia in modo acconcio
e non distinguon le azioni lecite dalle atrocità».
C.: «Poi corresti al vicino lago di Naftía
dove sorgeva il tempio dei Palici,
raggiungesti il centro con una canoa
e gridasti così forte che da lontano si credette
al lamento notturno d’una volpe…».
D.: «O Dei, Dei, Dei Palici,
o Dei fratelli tra voi,
voi che siete il giorno e la notte,
temo d’esser io la sola potenza
che possa indurvi a fuggire dal mondo
lasciandolo in balia dei demoni
per la nefandezza di cui diedi prova!».
αIV coro: «Ducezio, Edyon di Morgantina,
ti die’ prova che il genos
non è legge dominante della vita.
Esser fratelli si può obliare.
La convenienza, i beni, la terra,
i puri interessi materiali:
ciò può prender campo su tutto.
A Morgantina, che ora piange ferita,
hai ricordato a un fratello con veemenza
la legge della Grande Madre
e al suo no hai risposto col piglio
22

d’un padre adirato.
Ciò non genera obbedienza
ma la morte che hai in cuore».
VII
C.: «Lentamente risalisti la china del tuo dolore
e andasti a cercare zia Pania.
A vederla le tue parole furon…».
D.: «Regina dei Siculi, averti qui,
stringerti al petto, mia zia e madre:
è un segno che la terra
vuol ancora del bene a Ducezio
che t’ama come la luce dell’alba!».
αC.: «“O mio pensiero, pensiero di libertà!”
fece lei abbracciandoti».
D.: «A vederti quale sei sempre stata
ho da pensare che il tempo
non osi importi la sua legge».
αC.: «E lei: “Carissimo figliolo
che non ebbi da me medesima
ma da mia sorella Sertia,
rivederti mi rinnova nel cuore
l’amore che reco alla vita…».
D.: «Zia Pania, così amante del sorriso…
Attraverso te sento l’amore
della mia amatissima madre,
la madre che dovette rendere la vita
il giorno in cui nacqui».
αC.: «E lei: “Sertia fu per me la sorellina
che mi faceva sentire una madre:
la sento ancora, aggrappata alle mie vesti,
a cercare sorriso e conforto».
D.: «Cosa puoi ricordarmi di mia madre, zia Pania?
Una cosa soltanto, una, che mi consenta
di vederla nel pensiero…».
αC.: «E lei: “Ducezio, dirò tutto in poche parole.
Sertia era l’amore puro, il dono di sé,
23

la vita che da’ vita e nella morte,
appena cessato il dolore del passaggio,
il sorriso perenne alla vita.
Immaginala che ti sorride».
D.: «Puoi dirmi qual’era il suo aspetto?».
αC.: «Ti rispose: “C’è una fanciulla qui a Menai
che è l’immagine perfetta di tua madre.
Il viso identico, la splendida figura,
il portamento nobile, le magnifiche chiome corvine.
La conosci: è Lisia, ritratto vivente di Sertia”».
D.: «Ricordo che le dissi: “Lisia l’ho veduta
ch’era ancora piccolissima, zia.
L’ho vista giocare, correre, ridere con gli altri
tra le nostre povere case e poi crescere,
farsi ragazza, attirare gli sguardi dei giovani,
e tra gli altri anche i miei:
non ho mai pensato a lei
come al ritratto della madre
che non conobbi mai
ma come a una magnifica ragazza
meritevole d’amore».
αC.: «E zia Pania: “Sposa quella ragazza, Ducezio,
ch’io veda al tuo fianco l’amore
di cui a suo tempo la sventura ti privò”».
D.: «Risposi: “Pania, carissima zia,
oggi nel cuore ho solo la synteleia dei Siculi
e per Lisia il più tenero affetto fraterno”».
αC.: «E lei: “Cos’è l’amore, Ducezio,
se non l’affetto che si radica nel destino
e saldamente getta la sua luce nel domani?
Lisia è fatta per seguirti ovunque,
qualunque cosa accada.
In ciò in cui tu credi crederà anche lei».
D.: «E io: “Zia Pania, nel mio futuro non c’è pace.
So d’avere una stella crudele
come lo è la vita con popoli interi,
cui da’ la caccia per generazioni,
aspettandoli presso le sorgenti a cui dovranno abbeverarsi.
24

Prima legge d’un marito
è stare accanto alla moglie che ha scelto
e, appena ce l’ha, alla figliolanza,
vivere nel villaggio, lavorare i campi,
tornare a sera dalla sua famiglia.
Ma non è questo il mio cammino.
Io sento risuonare nel mio sangue
gli accordi tra i tiranni,
vedo la spartizione delle nostre terre,
le adunate dei mercenari.
Sapendo ciò, so anche di non poter avere una moglie,
in questa guerra iniziata da generazioni,
dove non si può far altro che combattere.
Non mi unirò a Lisia
per trascinarla nella sventura,
lei che è un bellissimo fiore».
αC.: «Zia Pania ti salutò con affetto
e si allontanò per andare da Lisia
che trepidava in attesa della tua risposta.
Quando le riferì ciò che avevi detto pianse
e disse: “Non mi sentirò mai sua sorella
né la madre che non potè vedere,
resterò Lisia che lo segue con lo sguardo,
Lisia che lo segue nel pensiero, con la fantasia, nei sogni.
A vedermi qual appaio mi definì un fiore.
È il nostro sentimento di sentirci fiori.
Fin quando c’è consapevolezza
d’esser diverse dai maschi ci sentiamo fiori
che devono aprirsi alla vita.
La dura giornata del contadino,
il lavoro artigiano in bottega,
la fatica delle madri in casa,
tutte necessità, chiaramente,
necessitanti della bellezza dei fiori,
ché altrimenti la vita sarebbe insopportabile,
così faticosa da esser più un peso
che un dono della nostra Madre Terra.
Così fin da piccolissime cresciamo
25

coscienti d’esser noi i fiori necessari per il mondo,
esser noi il calore essenziale alla vita
perché non si abbia in odio l’esser nati al mondo.
Vogliamo esser belle, ci teniamo e quanto!
Così impariamo a far del nostro meglio
per trasformare in abiti gli stracci.
E con l’aiuto delle nostre mamme,
delle zie o delle vicine
- se ci voglion bene o han qualcuno in casa da sposare -
di quelle stoffe logore facciamo
variopinti petali allo sguardo,
che ci faccian davvero sembrare dei fiori.
Fiori, dunque, è ben vero
che l’occhio non incontri solamente
la fin troppo solida materia,
indispensabile ma tetra,
ché non si sa a che vivere
se manca la bellezza.
Ma per noi stesse non vuol dire nulla.
Se l’occhio dell’uomo non si esalta
perché ha la mente presa da se stesso
e da null’altro che dalle sue idee,
i suoi progetti, i doveri, le necessità,
la bellezza ci fa sentire inutili
e cerchiamo sempre di farci perdonare di ciò
svolgendo le più umili fatiche.
Sempre inutile l’amore quando si pensa in grande
fuori da mura domestiche.
Ci penserai un momento, forse,
per un’istantanea voglia di donna.
Ma non vorrò essere io quella,
ché l’esser toccata con finta passione
non allevierebbe la sete di una tua vera carezza.
Le donne si tormentano nel dubbio
se il loro uomo le ami davvero.
È l’unica pena che non ho:
so che l’uomo che amo non m’ama.
Il dubbio perciò mi risparmia.
26

Zia Pania che adesso mi chiedi
di diventare la seconda sacerdotessa del tempio dei Palici
accanto a te, prima custode del culto,
e in questo modo di restargli sempre vicina
- ma da quale distanza! -
che risponderti? Accetto senz’altro.
Amarlo da lontano,
d’un amore fortissimo e inutile
che per lui non è nulla
perché dubito lui pensi un istante
alla scervellata che lo adora:
questo mi offre il destino
e con la pace più dolce nel cuore lo accetto».
[PAUSA]
VIII
C.: «Più tardi incontrasti tuo padre Leporin
che ti guardò accigliato,
con l’animo di chi si sente ferito da suo figlio.
Tu esordisti: “Padre…” e lui t’interruppe
dicendo: “Taci, Ducezio”.
Ci fu un lungo silenzio, poi disse:
“I Palici non tollerano sangue
versato ingiustamente: non potresti scampare
alla loro giustizia né io potrei fare alcunché
per alleviare la pena che avessero a infliggerti».
D.: «Non curarti di me, padre,
che si faccia pure il mio destino».
C.: «“Il tuo destino non è di un uomo comune.
Ti sei sollevato come una stella sugli altri.
Ciò che fai, le tue gesta,
gli atti eroici, le nefandezze
tutto vien seguito dai giovani siculi”».
D.: «Non ho commesso crimini, padre!».
C.: «“Hai ucciso Edyon, re di Morgantina,
nostro fratello, che non meritava di morire
27

enché recalcitrasse alla synteleia…”».
D.: «Padre, le sue parole ci hanno offeso tutti».
C.: «Tu uccidi tutti quelli che proferiscono
parole ingiuste, sbagliate, che offendono?
Allora anche tuo padre è in lista,
perch’io ti dico che il mio Ducezio
per le sue nobili idee sulla Sicilia
può trasformarsi in un assassino!».
D.: «Non andar troppo oltre nel ferirmi, padre...
Già soffro duramente per quello che ho fatto.
Vedo Morgantina in fiamme,
vedo famiglie correr via dalle case
mentre io sono accanto a Edyon
a cui ordino di non morire mentre è già morto.
Quale strazio più grande?
Nulla di più orribile può albergare in un cuore.
E queste scene le rivedo ogni istante».
C.: «E tuo padre: “Sappi che il sangue versato ingiustamente
avvelena il pensiero, scatena follia”».
D.: «Follia… Ce l’ho di dentro, la combatto.
Quel fratello non l’uccisi con intenzione.
Fu il destino avverso che scatenò la mia collera,
ch’era giusta, però, ben fondata,
e da essa quel colpo di giavellotto».
C.: «E tuo padre: “Ducezio, ascolta. Tuo padre
non può che perdonarti,
perché intende le tue ragioni,
ma non gli sarà pari il mondo.
I Siculi cercano un eroe
non un giustiziere lordo del sangue dei fratelli».
D.: «Eviterò la vendetta, padre
l’atto di follia, la rivalsa, tutto…
Ma che fare di fronte ai traditori della nostra gente?
Ammettere che le loro stolte giustificazioni
abbian corso tra di noi?
Ammettere che i Siculi sono un’entità astratta,
poiché ognuno, citando luoghi e antenati,
può dire di non appartenere ai nostri
28

e lasciarci soli in balia di tutti i nemici?».
C.: «E tuo padre: “Opera per il bene,
Ducezio, usa il tuo grande ingegno,
l’astuzia, il raggiro: ma non permettere
che la synteleia s’incrosti del nostro sangue».
XI
D.: «Molte città aderirono alla synteleia
ma restava Motyon lontana,
del phrouron d’Agrigento,
e Hybla Gereatis sul Simeto,
che eludeva una chiara risposta».
C.: «Non si potevan tollerare incertezze,
che presto si sarebbero mutate in ostilità.
Andasti verso Motyon,
città delle montagne agrigentine.
Sembrava che ti stesse aspettando,
ché d’un fiato le porte furon sbarrate,
lasciandoti fuori con la scorta.
Tu urlasti dal basso…».
D.: «Sono Ducezio, vengo da fratello.
Vi porto la grande Idea in dono».
C.: «E il re, affacciatosi alle mura,
disse: “Sono Seron re di Motyon.
La terra e le montagne parlano a Paikos
e lui, coi venti, fa sapere a tutti
dei tuoi grandi sogni, della synteleia!
Sappiam bene quello che vuoi!».
D.: «Le parole che dici sembran proprio quelle
di Edyon, re di Morgantina!
Parole che mi perseguitano!».
C.: «Come il suo sangue, Ducezio!
Tu non sei un assassino,
ma chi persevera in un’idea non condivisa
e per quella uccide a malincuore,
fa’ dei morti e questi, benché pianti,
non han poi modo di resuscitare».
29

D.: «O grande re Seron di Motyon,
la tua città non può mancare d’aderire
alla mia lega sicula contro il nemico comune
e per il fine da tutti condiviso,
la nascita di un grande regno della nostra gente.
Diversamente avremmo il fianco scoperto
a Gela e Agrigento, che ne approfitterebbero.
Non negarmi la tua alleanza».
C.: «Ma tutto si ripete uguale,
come per un’orribile maledizione:
“Gli abitanti di Motyon – fa re Seron –
son d’una stirpe diversa dai Siculi.
Le nostre origini si perdono oltre la memoria
e nessuno di noi può dire in verità
donde veniamo e con chi c’imparentiamo.
Sappiam solo che non siamo Siculi”».
D.: «Mi rispondi come Edyon di Morgantina».
C.: «Credi che ci siam messi d’accordo
per morire entrambi di tua mano?».
D.: «No! No! No! Ma perché non capire
che il pericolo è immenso,
e che delle nostre forze non una
può astenersi dal prender parte all’Idea?».
C.: «“Tu vivi in un delirio, Ducezio,
una follia che ti fa grand’uomo
perfino agli occhi di chi sarà ucciso da te!».
D.: «Ma cosa dici, pazzo?
Non capisci che ce li abbiamo tutti sul collo,
Siracusani, Agrigentini, Gelesi,
Cartaginesi, Etruschi…».
C.: «Vaneggia, Ducezio, vaneggia!
Vedi, ti offro il mio petto!
La tua lancia non può mancarlo!».
D.: «Re folle…».
C.: «Tu folle, Ducezio…».
D.: «Che mi rispondi, Seron?».
C.: «Non siamo Siculi, Ducezio!».
D.: «Lo siete invece, bugiardo!».
30

C.: «No! Le nostre origini si perdono
oltre la memoria dei più anziani
e nessuno può dire in verità
donde veniamo e con chi c’imparentiamo».
D.: «Vile! Vile! Vile, ma fratello!».
C.: «Abitare un isola così estesa
non deve obbligare nessuno
a sentirsi parte di una comunità, se non vuole».
D.: «Taci, dammi una ragione
per salvare la tua vita scellerata!».
C.: «Non posso dartene nessuna perché, lo dico chiaro,
ci piace vivere in pace e prosperare.
Non abbiamo nemici che minaccino Motyon.
Agrigento benignamente ci considera
nel novero delle sue città fidate,
del suo phrouron, alleati sicuri, non schiavi
che anzi sembra averci a cuore
e ci copre di doni…».
D.: «Muori allora!».
αV coro: «L’ira t’accecò un’altra volta.
Non gli concedesti di parlar oltre.
Il tempo è ingeneroso: somma i mali.
Ciò ch’è accaduto a Morgantina
ha lasciato un sentimento d’orrore
che si rinnova a Motyon,
e io non so perché il male
debba ripetersi infinite volte
se una forza sovrastante
non l’interrompa
e rivolgo la mia preghiera ad Hybla
e alla generosa Simalis
perché ti liberino dal dolore
che ad altri e a te medesimo infliggi».
31

C.: «Tornasti ancora una volta a Menai
affranto, disorientato, ignaro di te stesso».
D.: «Dovevo affrontare mio padre, Cirneco,
come un pescatore che va nel mare in tempesta
con una piccola barca e null’altro».
C.: «“Ducezio – disse Leporin tuo padre come ti vide –
non hai ancora inferto un sol colpo
a cuori di Siracusani o Agrigentini
che già tanti fratelli son caduti per tua mano!».
D.: «È il mio tormento, padre,
fonte di dolore senza fine,
come se tutti i demoni che Anna
scacciò dal mondo quando lo diede alla luce
si sian rifugiati nella mia testa
e urlino frasi taglienti che non mi dan pace
e distruggono il mio sonno».
C.: «“Tua madre non diede alla luce
un tiranno folle e sanguinario,
un Falaride, un Ippocrate o un Trasibulo,
ma un uomo che avrebbe amato la sua terra
come i suoi fratelli siculi.
Ma il sangue sta scorrendo a fiumi
e non è quello del nemico.
Credo che tu debba ripensare ai tuoi progetti
bellissimi ma lontani da noi».
D.: «Forse troppo alti per noi, padre!
È questo che vuoi dire?».
C.: «È possibile che sia così – disse lui –
avremmo dovuto pensarci prima che i Greci
comprassero i favori di tanti nostri re…».
D.: «Convieni su questo, dunque?
Edyon re di Morgantina fu comprato
e così pure Seron re di Motyon.
Comprando i re si compran le città,
i loro popoli, l’intera Sicilia.
Con pochi vasi attici, con stoffe!».
X
32

C.: «È così. Ma la Sicilia è vecchia.
E i vecchi, se da giovani non hanno avuto
un cuore possente, pieno di coraggio,
si trastullan con finti i segni d’affetto dei giovani…».
D.: «Sono loro dunque i veri giovani, i Greci?».
C.: «Sono vivi, ingegnosi, raffinati,
forti, crudeli, ambiziosi.
Noi invece siamo una gente che sogna
d’aver avuto un passato eccelso
ma per secoli siam stati dei fuggiaschi
e la consapevolezza della fuga
non fu mai cancellata».
D.: «Cosa vuoi dire, padre? Parla più chiaramente».
C.: «Con la synteleia tu vuoi risvegliare
a nuova energica vita un corpo morente.
Con i tuoi strattoni però non provochi
stimoli d’orgoglio, non susciti reazioni vitali,
ma fai sanguinare le città,
uccidi i tuoi fratelli…».
D.: «Ma allora cosa dovrei fare, padre?».
C.: «Compiere subito riti d’espiazione,
chiedere perdono ai familiari
di chi è caduto per tua mano».
D.: «Rifiuto di considerare la Sicilia dei Siculi
un corpo moribondo, rifiuto tutto ciò,
sebbene senta ogni lama intinta di sangue
ferirmi a morte dentro.
Rifiuto d’espiare, rifiuto di chiedere perdono,
rifiuto, rifiuto, rifiuto di ripudiare la synteleia!».
C.: «In quel momento entrò zia Pania
e urlò disperata: “Siracusani e Agrigentini
stanno per attaccare Paliké!».
D.: «Questa la mia occasione d’espiare».
XI
αC.: «Fu davvero la grande occasione.
I Greci tentarono un colpo a sorpresa.
33

Agrigentini e Gelesi si misero sotto il comando
dei Siracusani guidati da Bolcone,
generale valente, di nobile famiglia,
scelto dai democratici per infliggerti il colpo mortale.
La loro superiorità era schiacciante,
di numero, d’equipaggiamento, di cavalleria.
Una nuvola di polvere avvolgeva Paliké.
In un baleno posizionaron catapulte
e i primi massi centraron le mura.
Ti lanciasti nella pianura
con poche centinaia di guerrieri
correndo a perdifiato per la trazzera
che univa Menai alta sul colle
a Paliké sul bordo della piana.
Non vi fu tempo d’un pensiero,
d’una strategia anche minima.
E tuttavia questa fu decisa dai fatti.
I Greci avevan circondato la città.
Benché superiori di molto nel numero
in ogni punto eran pochi rispetto
ai sopravvenienti concentrati.
Al vostro arrivo, ch’ebbe del soprannaturale
per la nuvola di polvere che si alzò sul sentiero,
quelle truppe ben armate e inquadrate
si frantumaron come travolte da una frana,
distrutte le catapulte, in fuga gli opliti lungo la cinta,
la cavalleria bloccata dalle mura,
che non si poteva lanciarla contro i blocchi di calcare.
Bolcone ordinò ai superstiti di ritirarsi.
La vita la conservò solo per poco,
ché la democrazia lo condannò a morte
con l’infamante accusa d’alto tradimento.
La voce della grande vittoria sui Greci
figlia della passione e della rabbia
corse ovunque nella Sicilia ammutolita
e risvegliò nel nostro cuore la synteleia.
Mandaron la loro adesione
il grande re Arconida di Herbita
34

e Agirys di Agyrion ed altri.
La Lega riprendeva forma,
il tuo animo lentamente guariva
dal tormento di Morgantina e Motyon,
che mandavano anch’esse il loro consenso».
XII
D.: «Tornato a Menai poco dopo
incontrai mio padre e la zia Pania,
che mi abbracciarono entrambi con amore…».
C.: «“Figliolo – disse tuo padre – la battaglia di Paliké
e quello che è accaduto dopo
mi han fatto ricredere su ciò che ti dissi a suo tempo.
Sappi per certo che non solo i figli sbagliano
ma anche i padri…».
αD.: «“Chi sbaglia non sa di sbagliare-
disse allora zia Pania –
Se lo sapesse non lo farebbe.
È il tempo più tardi a istruirlo”».
C.: «“Sulla synteleia – disse tuo padre –
i fatti dimostran che avevi ragione.
L’Idea si è risvegliata ovunque.
Morgantina e Motyon ti han perdonato
ritenendo insopportabile che i re
rifiutassero d’aderire alla Lega
senza aver riunito l’assemblea del popolo.
La strada è segnata, Ducezio”».
αD.: «Disse a quel punto zia Pania:
“La synteleia ha bisogno di un re.
Potresti esser tu ma è più giusto
che ti rivolga ad Ayon, re di Hybla Gereatis.
Offrirgli la corona sarà un gesto
che per tutti i Siculi vorrà dire
rispetto della tradizione e dell’età.
Verso di te ci sono ancora resistenze.
Le dee che evoco nel tempio
sussurran di rancori, d’odio e gelosia.
35

Fa’ che sia lui il primo re e tu il secondo.
Di nobile origine è Ayon, figlio di Kerrionos,
che in battaglia sconfisse Ippocrate di Gela
quando compì una spedizione contro Hybla Gereatis…”.
Come si poteva mai darle torto?
Era la zia più saggia del mondo».
C.: «Partisti subito per Hybla Gereatis
che sorge ai piedi del vulcano
dove il dio-fiume Adranon cambia nome in Simeto,
che vuol dire caro alla dea Simalis.
Andando in quella città
sapevi d’incontrarvi un vero re,
Ayon l’oracolo dei Palici,
Ayon che aveva fama di non vendersi ai greci.
Ricco di pascoli e sorgenti il suo regno fortunato,
ricco di giacimenti d’ambra
celebre e oggetto di brama,
né i Greci osavano attaccarlo
già battuti dal suo padre valoroso Kerrionos
sotto le ormai temute mura di Hybla Gereatis».
D.: «Vengo umilmente a te, oracolo dei Palici,
vengo a salutarti re dei Siculi, Ayon,
tu che tra noi sei il più grande
per intelletto e confidenza con gli dei».
C.: «Lui ti rispose: “Ducezio, figlio di Leporin,
come sai, il destino va dove gli indica la fama.
Questa fa il sentiero della vita
e ciò che accade o può accadere
è conseguenza di ciò, non altro.
L’uomo è il solo demiurgo di se stesso
purchè sappia costruirsi una fama.
Da lui si attenderanno allora
soltanto gesti grandi, nobili, sublimi,
comunque ciò che lui stesso ha deciso
debba il mondo aspettarsi dalla sua persona,
ché la sua natura non ha conio.
Così accade che un folle sembri ponderato,
o un imbelle capo coraggioso
36

e il reciproco: quest’ultimo un codardo.
Io, Ayon di Hybla, sembro e so di sembrare
un re pacifico e un infallibile oracolo,
non adatto alla tua synteleia
per la quale molto sangue di Siculi e Greci
dev’essere ancora versato in futuro.
Chi seguirebbe in contesa mortale
un re che perde la guerra con gli anni?
Un re canuto, roso dai malanni?
Penserebbero ch’io sono la tua ombra,
da te erroneamente voluto a capo del regno
solo in omaggio a mio padre combattente.
Ne risenterebbe la tua causa di liberatore,
mostrandoti pauroso delle tue decisioni.
Ma devi secondare la tua fama
gettando sugli eventi il peso dell’Idea”».
D.: «Grandi parole di un grande re.
Aveva ragione: la synteleia
non necessitava di saggezza,
ma d’energia terribile…».
XIII
αC.: «Il dolce e l’amaro come sempre insieme.
Vincere su Bolcone una battaglia impossibile
ma vinta per l’energia, la passione, la volontà
d’esser considerati veri combattenti
e perdere a Hybla Gereatis col grande Ayon
che rifiuta d’esser re dei Siculi.
Cosa accade in te, Ducezio?
Senti sulle spalle il peso dell’intera Sicilia,
lieve per Hybla che sostiene il mondo,
ma intollerabile per un uomo solo?».
D.: «È così. Non aver sentimenti,
per il rischio che tutto finisca nel sogno
come nel sogno è incominciato…».
αC.: «Tua zia Pania ti dice: “Mi sbagliavo…”».
D.: «Tu che non sbagli mai!».
37

αC.: «“Sei irritato, Ducezio, non capisco…” fa’ lei».
D.: «Sono soltanto molto solo, zia Pania.
Scusami di cuore, ma è come se tutto il peso
gravi da sempre soltanto su di me».
αC.: «“Mi sbagliavo su Ayon, disse zia Pania,
non avrei dovuto fare il suo nome:
è solo un vecchio che nulla può fare
neppure per se stesso. Sii tu il re dei Siculi».
D.: «Temo proprio questo: la solitudine
di chi ottiene il potere e non ha accanto nessuno».
αC.: «C’è tua zia, c’è tuo padre, c’è Palikè
ma certo non bastano al tuo cuore».
D.: «Preparerò la guerra contro i Greci.
Quanti di loro si sottometteranno
avran condizioni speciali,
li tratteremo da amici fraterni,
gli altri li scacceremo in mare».
αC.: «E tua zia: “Non allentare la guardia, Ducezio,
non farti tradire da te stesso,
in quest’ora ch’è decisiva».
D.: «Ricordo la tensione incessante,
la responsabilità assoluta d’esser io
il padre e il figlio della synteleia,
quel sentire un’ovazione lontana
che accompagnava tutti i miei atti
trasformandoli in eventi eccelsi
direttamente guidati da Hybla
o dai Gemelli Palici suoi figli,
ma non vedermi accanto nessuno,
tutti ad attendere i miei ordini,
ma nessuno a condivider decisioni,
l’incertissima visione del futuro…
O fratelli, che fate? Mi lasciate solo?
Non basta aver battuto Bolcone
in una battaglia d’impeto
che dovevamo perdere
considerata la nostra inferiorità,
e che vincemmo solo col cuore
38

che seppe reggere alle forze superiori.
Ma domani? Che ne sarà della patria nascente?
Non sono ancora il re dei Siculi,
che nessuna assemblea del nostro popolo
mi proclamò tale, non sono il condottiero di tutti,
ché ogni re può rifiutarmi le sue truppe
o tergiversare, accampar scuse, ritardare.
Ma chi non ritarderà ad assalire
saran proprio le forze dei Greci,
discordi anch’esse ma ben ferme nell’odio comune
verso Ducezio e la patria dei Siculi.
Una solidarietà ch’è fatta soltanto di parole,
la leggenda che già mi fa invincibile
sciogliendo tutti dal dovere di scendere in campo
per la lotta mortale che si avvicina
può segnare la nostra fine,
la fine dell’Idea, dei Siculi liberi.
Son consapevole che mai il pericolo
per noi fu più grande come il giorno
in cui Bolcone si spinse a Palikè.
Quella volta vincemmo, ma non crediate
che una sconfitta faccia rassegnare i Greci.
Loro apprestano una sanguinosa rivincita
mentre noi ci gongoliamo nel santificare
una bella vittoria per nulla decisiva».
αC.: «Notizie terribili arrivarono a schiera.
I Greci avevan cambiato strategia.
Alleandosi saldamente, Siracusani, Agrigentini e Gelesi
avevano attaccato Maktorion, Omphalè,
ripreso Motyon e Morgantina,
mandato messi ovunque per ottenere
la sottomissione delle città sicule
che avevano aderito alla synteleia.
Un’ondata di panico attraversò la Sicilia…».
D.: «Io, Ducezio, pur vincitore di Bolcone,
perdevo credito: tutti davan per certa
la mia definitiva sconfitta per mano dei Greci
e allora chi si fosse fatto trovare
39

ancora schierato dalla mia parte
avrebbe incontrato la loro vendetta,
ché non conoscevan la pietà ma la strage.
Così alle mie spalle la synteleia si sgretolava
e il sogno possente della libertà
svaniva sotto un cielo di livido terrore».
αC.: «La tragedia accadde molto prima
di quanto tu stesso, assai prudente,
avessi paventato in cuore finora.
Avevi fatto montare un campo presso Paliké,
ma tardato nelle debite precauzioni,
ché l’offensiva dei Greci sembrava ancora lontana.
Fu mentre le tue truppe gozzovigliavano tra gli alberi
che un manipolo di Siracusani
entrò nel campo e vi prese indifesi.
Fu una carneficina orrenda:
nessuno fu in grado di levare un’arma
per difendere se stesso e la sua gente.
Poi, veloci come il vento, fuggiron via».
C.: «L’assalto al campo era stato solo un saggio
per misurare la nostra prontezza.
Il risultato fu l’evidenza che un attacco generale
poteva esser portato con successo in ogni momento.
All’alba dell’indomani i Greci
con forze soverchianti circondarono
di nuovo Paliké atterrita
ma pronta alla sua ultima battaglia».
D.: «Chiamai tutti i suoi abitanti alla difesa
sulla collina detta Trinaké,
su cui avevamo da tempo fortificazioni,
uomini, donne, bambini e anziani,
ché nessuno si sarebbe salvato dalla strage
se non combattendo per sé e la sua gente…».
αC.: «Fermiamoci un istante, Ducezio.
Ecco quanto dice di te Timeo cent’anni dopo,
parole che saran riferite da Diodoro Siculo
dopo altri duecento, a dimostrare
quanto ebbero a temerti e ammirarti
40

i Greci medesimi, che in te riconobbero un eroe.
Leggi tu stesso il testo».
D.: «DOUKETIOS MEN O GEGONOS TON
SIKELIKON POLEON EGEMON
POLLOUS EIS AUTEN OIKIZON
OIKETORAS ANTEPOIESATO MEN
TES TON SIKELON EGEMONIAS».
αC.: «Ducezio, divenuto principe delle città sicule,
stabilendovi molti abitanti
pretese l’egemonia della Sicilia».
D.: «DOUKETIOS O TON SIKELIKON
APHEGOUMENOS TAS POLEIS
APASAS TAS OMOETNEIS
EIS MIAN KAI KOINEN
EGAGE SYNTELEIAN,
PALIKES».
αC.: «Ducezio condottiero dei Siculi
stimò che le città della stessa stirpe
fossero rappresentate da una
che avesse a cura gli interessi di tutte, Paliké».
αD.: «DRASTIKOS D’ON NEOTERON
OREGETO PRAGMATON».
αC.: «Era un uomo risoluto,
destinato a grandi imprese
E ora torniamo alla battaglia finale».
D.: «SYRAKOUSIOI DEPASAS TAS TON SIKELON
POLEIS YPEKOUS POIESAMENOI PLEN TES
ONOMAZOMENES PALIKES EGNOSAN
EPI TAUTEN STRATEIEIN SFODRA GAR
IPOPTENON TOUS SIKELIKON».
αC.: «I Siracusani, che avevan sottomesso
tutte le città sicule tranne Paliké,
che da sempre deteneva il primato su di esse,
decisero di condurre una spedizione contro questa,
temendo che riprendesse il comando
sulle genti della sua etnia».
D.: «PALIKES PLERES MEGA PHRONOUNTON
EP ANDREIA».
41

αC.: «Paliké aveva molti capi saggi e valorosi in arme…».
D.: «MEGAN D’AGONÀ SYNESANTO».
αC.: «…che combatteron con strenuo coraggio».
D.: «EKTYMOS GAR ENKARTEROUNTES
TOIS DEINOS KAI POLLOUS ANELONTES
EROIKOS MAKOMENOI PANTES
KATESTREPSAN BION».
αC.: «Resistettero con ardore alle avversità
ma morirono tutti con eroismo,
non prima d’aver ucciso molti nemici».
C.: «A Paliké moristi in battaglia, Ducezio, da eroe,
come Leporin tuo padre, zia Pania,
Lisia e gli abitanti tutti
della città sacra alla synteleia...».
C.: «Ora rasserenati, Ducezio, torna nel cielo di Hybla,
intonando il canto siculo...».
D.: «IAM AKARAM EH PIAS KOAGIES
GEPED TAUTO VEREGAIS
OKEDOARA IAD
NUNUS TENTI MIM, ARUSTAINAM,
IEMI TOM, ESTI DUROM, NANE,
POS DUROM IEMI ESTI VELIOM
NED EMPONITANTOM EREDES VINBROTROM
GEA NAMAKA PHUE
PHOLTESQO XUDAI DEDAXED POTEROM
NEDA OS HEBEG PRA AREI EN BOURENAI
VIDE PAGOSTIKE ALTE INCUBE
IDIOMIS RAROIO
MARES KALA ME
DOHIT IM RUKES HAZUIES
FIATIS KALA M’ITALON EDOKEMEN
REXES ANIRESBE TOUTO KEMAI POTER EMI
DOEITI PHAKE BEZEL NIPEZ
VAO VIDEDO
MOGOM SIELDO MOIDA
NADARA KOITOB VELHO
ROGAU LTINAS VOG
PISEMB ROSVASDIS VAIO
42

KRATUE MENAI OI KREIN TAIAS
TON HOTER NINKE EISO
PHAIKO NARO KENTORIPINO
ANEO KEMAEI OEDIS».
C.: «Il canto siculo
ricorda alle generazioni future
che nel tuo tempo volasti come un’aquila.
Che gli eventi t’abbiano abbattuto
significa soltanto ch’eri un uomo».
αD.: «Ma l’Idea… Questa parola
è troppo simile a dea perché non abbiano
un’origine comune.
Se la dea Hybla mi darà la pace Se la dea Hybla ti darà la pace
conservi intatta la mia Idea conservi intatta la tua Idea
che dal nome medesimo che dal nome medesimo
è una grande dea com’è già lei». è una grande dea com’è già lei».
43