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Relazioni di aiuto e gruppo - Università degli Studi della Repubblica ...

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Sezione terza<br />

<strong>Relazioni</strong> <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> e <strong>gruppo</strong><br />

I<br />

APPRENDERE E’ UN’AZIONE INDIVIDUALE MA NON SOLITARIA<br />

1.1 Chi si occupa <strong>di</strong> educazione scolastica, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento, delle persone in situazione <strong>di</strong><br />

han<strong>di</strong>cap ha ben chiara una con<strong>di</strong>zione che si è verificata negli anni, nelle nostre scuole.<br />

Schematicamente può essere espressa in questi termini: l’insegnante che segue più particolarmente<br />

un bambino o una bambina in situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap è integrato, o integrata, nel <strong>gruppo</strong> classe.<br />

Svolge quin<strong>di</strong> una parte del suo tempo accanto a quel bambino o a quella bambina, in con<strong>di</strong>zioni<br />

che possano anche prevedere l’assenza dall’aula, ma ha come prospettiva la partecipazione alla vita<br />

dell’aula, e quin<strong>di</strong> l’integrazione nel <strong>gruppo</strong> classe, e, sempre nella stessa prospettiva, considera<br />

necessario prendere le <strong>di</strong>stanze e <strong>di</strong>minuire il “soccorso” a quel bambino o a quella bambina perché<br />

altri soggetti, compresi i coetanei, e forse soprattutto loro, siano in grado <strong>di</strong> provvedere non in<br />

forma <strong>di</strong> “soccorso” ma nello scambio sociale or<strong>di</strong>nario. In questa prospettiva è possibile anche che<br />

vi siano delle assunzioni <strong>di</strong> responsabilità da parte <strong>di</strong> coetanei, ma anche dello stesso soggetto in<br />

situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap. Questa prospettiva da risultati, in rapporto al compito principale <strong>della</strong><br />

scuola, e cioè agli appren<strong>di</strong>menti, molto superiori rispetto all’altra prospettiva che viene qui<br />

schematicamente contrapposta.<br />

L’altra modalità <strong>di</strong> impegno dell’insegnante che si prende maggiore cura <strong>di</strong> un bambino o <strong>di</strong> una<br />

bambina in situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap è quella <strong>di</strong> collocare anche fisicamente quel bambino, quella<br />

bambina, in una situazione a parte e <strong>di</strong> compiere un percorso che potremmo quasi definire <strong>di</strong><br />

solitu<strong>di</strong>ne. E’ già stato constatato come questo porti a considerare da parte dei coetanei misteriosa<br />

quella presenza/assenza e a non sapere nulla del progetto educativo che riguarda tutto il <strong>gruppo</strong>,<br />

compreso quel bambino o quella bambina. Non vengono a conoscenza del progetto e questo è già<br />

un elemento che rende più faticoso l’integrare negli appren<strong>di</strong>menti anche l’attività progettuale.<br />

Risulta quin<strong>di</strong> evidente che si considera appren<strong>di</strong>mento soprattutto un metodo riproduttivo e<br />

ripetitivo delle trasmissioni, e non tanto un’acquisizione <strong>di</strong> riflessione e capacità <strong>di</strong> utilizzare <strong>degli</strong><br />

strumenti anche complessi per affrontare dei problemi sia concreti e quoti<strong>di</strong>ani sia teorici. Questo<br />

modo <strong>di</strong> interpretare l’appren<strong>di</strong>mento ha il grande limite <strong>di</strong> non portare a considerare l’ambiente né<br />

nella sua fisicità né nella sua ipoteticità. Ed è anche riprovevole questo modo <strong>di</strong> considerare<br />

l’appren<strong>di</strong>mento perché è un falsare l’organizzazione mentale che interviene proprio nell’attività<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento.


Una delle situazioni che chi parla e scrive queste note si è trovato a vivere con più interesse è stato<br />

proprio il partecipare all’organizzazione <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>spensabile per realizzare<br />

l’appren<strong>di</strong>mento da parte <strong>di</strong> un bambino che sembra va non riuscire ad imparare. Più volte mi sono<br />

trovato a riflettere sull’apparentemente misterioso fatto che riguardava un bambino <strong>di</strong> un<strong>di</strong>ci anni<br />

incapace <strong>di</strong> sommare 8+8 e invece capace <strong>di</strong> utilizzare delle operazioni a più cifre per <strong>di</strong>videre, fare<br />

i conti e fornire anche il resto. Otto erano i chilometri che percorreva quoti<strong>di</strong>anamente dalla sua<br />

abitazione alla scuola, all’andata e al ritorno. E la richiesta, ripetuta più volte, <strong>di</strong> considerare otto<br />

chilometri all’andata e otto chilometri al ritorno come una somma che permetteva <strong>di</strong> calcolare<br />

quanta strada facevano le sue gambe lo metteva in seria <strong>di</strong>fficoltà, mentre l’ipotetica somma <strong>di</strong><br />

100.000 lire da organizzare per acquistare cibo e cucinarlo poi per un pranzo con amici gli<br />

permetteva <strong>di</strong> fare delle operazioni complesse. Era lampante, in quel caso, che la sua<br />

organizzazione mentale funzionava meglio quando poteva collocarsi su uno scenario abitato da una<br />

certa tipologia, <strong>di</strong>ciamo così, <strong>di</strong> persone e in un certo ambiente.<br />

Basterebbe questo esempio per farci capire come la sua mente non poteva agire, ossia pensare,<br />

elaborare, in solitu<strong>di</strong>ne, ma doveva evocare uno spazio, altre persone, a cui anche riferire i risultati<br />

del suo operare. E’ questa una delle con<strong>di</strong>zioni che viene meno considerata quando si pensa a un<br />

bambino, una bambina, in situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap, e lo/la si porta a svolgere un percorso tutto<br />

in<strong>di</strong>viduale. Bisogna considerare con attenzione quei percorsi in<strong>di</strong>viduali che sono fatti per arrivare<br />

in con<strong>di</strong>zioni ottimali a rapportarsi agli altri, questo e altro; ottengono dei rischi, l’isolamento è il<br />

più evidente, ma possono avere una progettazione alle spalle che, tenendo conto <strong>di</strong> questi rischi,<br />

procede verso una integrazione. E rientra allora nella prima prospettiva che è stata in<strong>di</strong>cata. Ed è<br />

quin<strong>di</strong> evidente che tra le due prospettive vi possono essere delle contaminazioni, a volte molto<br />

utili, a volte pericolose. E’ nella natura delle cose.<br />

L’interesse maggiore è quello <strong>di</strong> riflettere proprio sulle modalità <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento, ed è una delle<br />

con<strong>di</strong>zioni che si sono trovati ad affrontare quegli educatori che, volgendosi a delle popolazioni<br />

considerate a priori come in <strong>di</strong>fficoltà rispetto all’appren<strong>di</strong>mento hanno avuto l’intuizione <strong>di</strong> aiutare<br />

ad evocare gli scenari in cui il loro pensiero, l’organizzazione dell’appren<strong>di</strong>mento, poteva essere più<br />

favorito. Si pensi a Freinet o a Paulo Freire, i cui esempi sono, c’è da sperare, noti, e, se non sono<br />

noti, ci sono però i mo<strong>di</strong>, i libri, le biblioteche, per poterli riprendere o conoscere. L’importanza<br />

maggiore è questa con<strong>di</strong>zione in cui il termine evocazione ha un valore fondamentale per la<br />

strategia dell’appren<strong>di</strong>mento, però ha anche dei rischi. Ognuno è sensibile a qualche rischio e quin<strong>di</strong><br />

non considero quello che io in<strong>di</strong>viduo come il rischio maggiore ma quello a cui sono più sensibile<br />

perché più volte l’ho incontrato: è il rischio dell’intimismo. E’ paradossale pensare che, utilizzando<br />

l’evocazione come parola importante per una attività <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento che va verso


l’appren<strong>di</strong>mento sociale, si potrebbe <strong>di</strong>re utilizzando un termine che ha una ra<strong>di</strong>ce wygotzkjana, ci<br />

si trovi poi, invece, a realizzare una con<strong>di</strong>zione molto legata alla propria visione intima, e quin<strong>di</strong><br />

incapace <strong>di</strong> aprirsi agli altri. Certamente questo è un rischio dovuto al fatto che si privilegia<br />

l’autoreferenzialità, e quin<strong>di</strong> si considera con troppa attenzione un lavoro <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento che stia<br />

unicamente sulla piattaforma – usiamo questo termine metaforicamente – e quin<strong>di</strong> sullo spazio che<br />

quell’in<strong>di</strong>viduo ha. E’ proprio un’immagine metaforica, ma la costruzione <strong>di</strong> un appren<strong>di</strong>mento che<br />

appoggi sempre e unicamente su uno spazio intimo, può essere pericolosa. Riporta le immagini<br />

delle costruzioni fatte dai bambini con i cubi. La costruzione che mette un cubo sopra l’altro arriva<br />

al punto in cui l’ondeggiamento fa crollare, quel bambino si <strong>di</strong>verte proprio per quello. Ma se il suo<br />

scopo è quello <strong>di</strong> elevare è evidente che deve progettare una base più ampia. Questo riporta anche a<br />

quell’esperimento fatto con la scimmia che poteva servirsi <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse cassette <strong>di</strong> legno da frutta per<br />

raggiungere delle banane appese al soffitto, e la sua costruzione poteva essere organizzata o<br />

<strong>di</strong>sorganizzata. Nel caso fosse organizzata, la fatica dell’organizzazione veniva compensata dalla<br />

possibilità <strong>di</strong> servirsi più volte delle banane che apparivano al soffitto, mentre, in una costruzione<br />

<strong>di</strong>sorganizzata, la meno fatica doveva poi essere pagata cara poiché le cassette si rompevano, la<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> agilità <strong>della</strong> scimmia consentiva qualche successo iniziale poi le possibilità si<br />

riducevano perché con le cassette rotte non poteva più arrivare ad impilarle come avrebbe dovuto.<br />

La sua stessa agilità contribuiva a fracassare delle cassette.<br />

Questa è una metafora <strong>di</strong> un appren<strong>di</strong>mento senza fatica. La con<strong>di</strong>zione dell’appren<strong>di</strong>mento è anche<br />

quella <strong>di</strong> poter scoprire lo scenario su cui si organizza meglio, quin<strong>di</strong> l’evocazione, il mio<br />

appren<strong>di</strong>mento ma poi non fermare la propria energia su quello ma allargare. Ed è lì che interviene<br />

la necessità <strong>di</strong> incontro reale con gli altri, che pongono dei quesiti, che pongono delle con<strong>di</strong>zioni,<br />

per esempio <strong>di</strong> espressione. Il soggetto può aver capito molto bene una cosa ma se non sa<br />

esprimerla agli altri risulta che la sua comprensione non è apprezzata. E quin<strong>di</strong> deve trovare le<br />

modalità espressive utili perché arrivi la sua comprensione anche agli altri. E se la parola non gli è<br />

molto facile può trovare dei sussi<strong>di</strong> nel <strong>di</strong>segno, nello schema, nella lavagna, tra<strong>di</strong>zionale ma tanto<br />

utile. E questo è un primo punto che va chiarito per illustrare come l’apprendere sia un’azione<br />

in<strong>di</strong>viduale ma non solitaria.<br />

1. 2. Non è semplice affrontare il tema <strong>della</strong> separazione. Non lo è per molte ragioni. Certamente<br />

una è la ragione sentimentale, ma, in una relazione, il tema <strong>della</strong> separazione consente molte<br />

interpretazioni <strong>di</strong> carattere terapeutico, e si può certamente sviluppare un percorso che porta ad<br />

utilizzare parole come immagine fantasmatica, elaborazione del lutto, e molte altre che vanno verso<br />

<strong>di</strong>rezioni che non sono quelle che seguirò.


Io rimarrò al tema dell’appren<strong>di</strong>mento per considerare, molto brevemente, come la separazione sia<br />

la fonte maggiore delle ragioni dell’appren<strong>di</strong>mento. E la separazione più ra<strong>di</strong>cale è quella <strong>della</strong><br />

morte. Nella vita <strong>di</strong> una persona che ha l’età <strong>di</strong> chi fa questa riflessione vi sono già state molte<br />

morti. E viene il momento in cui una morte in particolare, come è accaduto per me, ha avuto più<br />

netta la sensazione <strong>di</strong> una per<strong>di</strong>ta che doveva essere compensata con il dovere dell’impegno <strong>di</strong><br />

appren<strong>di</strong>mento. In altre parole, la per<strong>di</strong>ta non è rimpiazzabile sul piano umano, sul piano affettivo e<br />

anche delle competenze, ma il dovere è quello <strong>di</strong> fare in modo che soprattutto queste ultime, le<br />

competenze, nella loro scomparsa, siano riprese da chi rimane in termini <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento. Non<br />

sempre ci si riesce perché le intelligenze sono in<strong>di</strong>viduali. Ma vi sono <strong>degli</strong> aspetti che possono<br />

essere ripresi con altri stili, con altre modalità, ma nello stesso segno. La scomparsa non consente<br />

più <strong>di</strong> rivolgersi alla fonte <strong>di</strong> una competenza per poter avere in<strong>di</strong>cazioni o poter avere prestazioni, e<br />

bisogna riorganizzare la propria mente avendo già appreso qualche cosa e avanzando <strong>degli</strong><br />

appren<strong>di</strong>menti.<br />

Nel primo punto è già stata messa in moto una riflessione circa un isolamento accompagnato da un<br />

insegnante che si de<strong>di</strong>ca esclusivamente a un bambino o a una bambina. In quella logica la<br />

separazione è considerata negativa: l’assenza per malattia, per maternità, il poco numero <strong>di</strong> ore<br />

<strong>di</strong>sponibile per seguire da vicino quel bambino, quella bambina, sono considerate negativamente. In<br />

questa prospettiva il negativo può <strong>di</strong>ventare positivo. La separazione esige che quel soggetto impari<br />

quello che <strong>di</strong> solito è fatto insieme o da qualcun altro. La separazione può essere traumatica, e<br />

questo non è certamente il senso <strong>di</strong> ciò che stiamo riflettendo, o può essere elaborata anche quando<br />

fosse traumatica, in modo che non sia confermata nella sua negatività ma <strong>di</strong>venti occasione <strong>di</strong><br />

crescita <strong>degli</strong> appren<strong>di</strong>menti. Sembra paradossale: la separazione sembra <strong>di</strong>re “tu da solo”, e noi<br />

abbiamo detto, nel titolo <strong>di</strong> questa riflessione, che la solitu<strong>di</strong>ne non va bene ma l’azione in<strong>di</strong>viduale<br />

sì. Allora, quella solitu<strong>di</strong>ne che si raggiunge con la separazione non è una vera solitu<strong>di</strong>ne. E’ la<br />

possibilità <strong>di</strong> elaborare un accompagnamento <strong>di</strong> altro livello, in cui l’organizzazione<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento stesso <strong>di</strong>venta possibilità <strong>di</strong> considerare la presenza anche quando questa non è<br />

fisicamente reale. Ma è reale nella mente, quin<strong>di</strong> non possiamo <strong>di</strong>re: “Una è presenza reale e l’altra<br />

no!”. Fisicamente reale, mentalmente reale, e quin<strong>di</strong> con la possibilità e necessità <strong>di</strong> riferirsi ancora<br />

ad altre presenze fisiche reali. In realtà non è più, quin<strong>di</strong>, solitu<strong>di</strong>ne ma è azione in<strong>di</strong>viduale. Può<br />

darsi che sembri tutto un gioco <strong>di</strong> parole ma nell’organizzazione <strong>di</strong> questa riflessione estrapolare un<br />

termine non è consentito, come non è mai consentito, e quin<strong>di</strong> il senso giustifica questa <strong>di</strong>stinzione<br />

fra azione in<strong>di</strong>viduale e azione solitaria, considerando l’azione in<strong>di</strong>viduale come quella in cui ci si<br />

trova quando si apprende, ma non è un'azione solitaria perché questa è sterile per l’appren<strong>di</strong>mento.


E certamente la responsabilità educativa fa sì che un abbandono sia solitu<strong>di</strong>ne oppure azione<br />

in<strong>di</strong>viduale, e quin<strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento.


II<br />

RIDUZIONE DELL’HANDICAP<br />

2.1 La qualità del tempo: policromia o monocromia<br />

Immaginiamo la rappresentazione del tempo e <strong>della</strong> sua qualità con i colori e immaginiamo<br />

come possa essere scombinata la vita <strong>di</strong> una persona, <strong>di</strong> una famiglia, dalla presenza <strong>di</strong> un evento<br />

inatteso e nei confronti del quale si ritiene <strong>di</strong> non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione,<br />

quale può essere la nascita <strong>di</strong> un bambino o <strong>di</strong> una bambina con delle esigenze particolari dovute<br />

a un deficit. Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione <strong>di</strong> colori, una<br />

policromia perché è fatta <strong>di</strong> tanti elementi <strong>di</strong>versi tra loro che si combinano più o meno<br />

armoniosamente, in una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta <strong>di</strong> de<strong>di</strong>zione, <strong>di</strong><br />

oblatività. Questa situazione monocromatica è tanto più evidente quando la situazione <strong>di</strong><br />

han<strong>di</strong>cap è grave, e gli elementi <strong>di</strong> quoti<strong>di</strong>anità sono così costantemente bisognosi <strong>di</strong> una<br />

presenza accanto a chi è han<strong>di</strong>cappato, bambino o bambina, da costituire un vincolo e rendere<br />

impossibile lo svolgimento <strong>di</strong> altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti<br />

come presenze nella vita. Sembra quin<strong>di</strong> che vi siano delle riduzioni continue delle altre<br />

possibilità che vengono allontanate, rese più <strong>di</strong>fficili, spora<strong>di</strong>che, acrobatiche, per concentrare<br />

tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all'esistenza <strong>di</strong> un soggetto. Non è, è<br />

evidente, solo l’aspetto materiale <strong>di</strong> vita quoti<strong>di</strong>ana ma anche l’occupazione <strong>della</strong> mente. Vi<br />

possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la<br />

loro vita mentale è occupata dalla presenza costante <strong>di</strong> quel figlio, <strong>di</strong> quella figlia, se sono<br />

genitori, o <strong>di</strong> quell’in<strong>di</strong>viduo, se hanno altri rapporti sia <strong>di</strong> famiglia, sia <strong>di</strong> amicizia. Questo rende<br />

importante capire quanto il tempo vada restituito a una policromia, e rende importante capire<br />

quale sia il successo <strong>di</strong> quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle<br />

persone che vivono accanto a una persona han<strong>di</strong>cappata, a un in<strong>di</strong>viduo han<strong>di</strong>cappato, uomo o<br />

donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’in<strong>di</strong>viduo che ha delle esigenze particolari. Al<br />

<strong>di</strong> là <strong>della</strong> comprensione <strong>di</strong> efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una<br />

proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora è quasi evidente che il giu<strong>di</strong>zio<br />

relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale <strong>di</strong><br />

quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità <strong>di</strong> qualificare il tempo attraverso una<br />

proposta che lo riempia <strong>di</strong> attività. Se poi vi è anche la speranza che queste attività abbiano un<br />

valore abilitativo e terapeutico questo è un valore aggiunto ma non in<strong>di</strong>spensabile.<br />

Abbiamo l’impressione che a volte vi sia una necessità quasi fisiologica <strong>di</strong> avere qualcosa che<br />

impegni il tempo. E allora se questo è un punto <strong>di</strong> partenza <strong>di</strong> una riflessione bisogna andare


oltre per capire come in presenza <strong>di</strong> una situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap sia importante ragionare per<br />

restituire al tempo una qualità <strong>di</strong> policromia: restituire <strong>di</strong>versi colori. Certo, non abbiamo con<br />

questo la possibilità <strong>di</strong> essere sicuri che i <strong>di</strong>versi colori armonizzino tra loro, che siano<br />

organizzati in termini unitari e non <strong>di</strong>vidano la vita in termini tali da frantumarla, per cui<br />

dobbiamo aggiungere che la policromia va costruita insieme, non può essere dettata dall’esterno<br />

ma fatta nascere da un progetto in cui l’in<strong>di</strong>viduo che è protagonista sia aiutato certamente, ma<br />

faccia delle scelte. Questo in<strong>di</strong>viduo lo vogliamo concretizzare in una figura femminile, e ancora<br />

<strong>di</strong> più in una madre – ma è un esempio e potremmo sostituirlo benissimo anche con una figura<br />

maschile, e forse con un padre. Scegliamo una madre anche per un doveroso riconoscimento che<br />

buona parte delle riflessioni sul tempo viene da donne. Personalmente credo <strong>di</strong> dovere molti<br />

meriti a molte donne, ma mi conviene riassumere e attribuire un merito specifico a Matilde<br />

Callari Galli che su questa questione del tempo delle donne ha molto riflettuto e aiutato altri a<br />

riflettere. Un tempo monocromatico vuol <strong>di</strong>re, per quella figura che ho scelto come esempio, un<br />

tempo tutto de<strong>di</strong>to alle operazioni quoti<strong>di</strong>ane <strong>di</strong> assistenza a un figlio, a una figlia; nell’esempio<br />

che facciamo è questo.<br />

Già <strong>di</strong>cevamo <strong>della</strong> possibilità che questo tempo <strong>di</strong> de<strong>di</strong>zione sia qualificato da una proposta;<br />

rimane un tempo tutto oblativo, quin<strong>di</strong> monocromatico, ma almeno organizzato in un percorso, o<br />

tale si presenta. Nello stesso modo <strong>di</strong> proporre, però, vi sono a volte aspetti che vengono<br />

sottovalutati, e che riguardano una possibilità che la proposta <strong>di</strong> un programma intenso, <strong>di</strong><br />

attività da svolgere quoti<strong>di</strong>anamente, minuto per minuto, sia accompagnata da una spiegazione <strong>di</strong><br />

quelle che sono le con<strong>di</strong>zioni che quel bambino, quella bambina, vive. A volte chi è del mestiere,<br />

e ha una preparazione tecnica e scientifica, considera quelle spiegazioni molto superficiali se non<br />

erronee, e non prende in considerazione l’aspetto che invece noi qui vogliamo esaminare: che in<br />

quella proposta vi è anche una valorizzazione del potenziale cognitivo, detto in un gergo che può<br />

essere anche fasti<strong>di</strong>oso, <strong>della</strong> mamma presa nel nostro esempio. Anziché ritenerla una persona<br />

senza una preparazione accademica e scientifica, e quin<strong>di</strong> incapace <strong>di</strong> comprendere la situazione,<br />

quella proposta ha fatto in modo, forse superficialmente, forse erroneamente, ma noi qui<br />

vogliamo trascurare questo aspetto, che quella persona fosse apprezzata per la sua possibilità <strong>di</strong><br />

comprensione anche intellettuale. Entra, in questo aspetto, una considerazione che già può essere<br />

sviluppata per la nostra ipotesi <strong>di</strong> tempo a più colori. Possiamo fare, se siamo capaci, meglio <strong>di</strong><br />

quella proposta ipotizzata e allusa che fa riferimento a delle spiegazioni o erronee o comunque<br />

semplificanti. Abbiamo una letteratura che ha alcune scritture, alcuni libri rivolti in particolare ai<br />

familiari, ai genitori, alle mamme. Questa letteratura può essere, a gran<strong>di</strong> linee e<br />

schematicamente, <strong>di</strong>visa in due settori: uno è un settore che chiameremo “demagogico” e l’altro


è un settore che chiameremo “<strong>di</strong>alogico”. Il settore demagogico ha delle semplificazioni<br />

eccessive, ha la caratteristica <strong>di</strong> essere a-storico, descrive una situazione <strong>di</strong> bisogni particolari<br />

come se fosse un dato, e non come elemento <strong>di</strong> una ricerca che ha avuto una sua storia e quin<strong>di</strong><br />

delle evoluzioni, delle capacità <strong>di</strong> essere espresso in termini <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> quelli in cui vengono<br />

espressi oggi. E’ a-storico, è a-problematico, è un genere letterario che si configura come<br />

semplificatorio, riduttivo, e considera quin<strong>di</strong> i suoi lettori e le sue lettrici come delle persone<br />

incapaci <strong>di</strong> sostenere il confronto con un’opera in cui vi siano delle parti da approfon<strong>di</strong>re, perché<br />

alla prima lettura sono oscure. Deve quin<strong>di</strong> svolgersi secondo una chiarezza artificiale. Una<br />

seconda categoria <strong>di</strong> libri è <strong>di</strong>alogica. Considera quin<strong>di</strong> chi legge come persona che può<br />

affrontare anche delle <strong>di</strong>fficoltà, può non capire subito, ha bisogno <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re, ha bisogno <strong>di</strong><br />

collocare le conoscenze che riceve in una problematica non sempre precisa, ha bisogno anche <strong>di</strong><br />

incontrare i dubbi e <strong>di</strong> non avere delle posizioni trionfalistiche, sicure <strong>di</strong> sé. Nella categoria<br />

demagogica dubbi non ve ne sono, si fa così, quin<strong>di</strong> la traduzione è: “tuo figlio, tua figlia, è, ed<br />

ha bisogno <strong>di</strong>..”, tutto è molto semplice, sicuro, chiaro. Vi è una proposta, ed è quella che<br />

funzionerà se tu la saprai far funzionare. Nell’altra letteratura, anche rivolta a chi è genitore, a<br />

chi è mamma, vi è una linea <strong>di</strong> continuità con la letteratura scientifica che non si in<strong>di</strong>rizza a<br />

questi lettori. Vi è quin<strong>di</strong> una possibilità che quel libro permetta l’inizio <strong>di</strong> una riflessione più<br />

ampia non necessariamente solo in termini scientifici ma anche in termini letterari, poetici,<br />

storici, analogici; si può scoprire che la situazione <strong>di</strong> chi vive attorno a chi ha esigenze particolari<br />

può essere analoga ad altre situazioni molto <strong>di</strong>verse, <strong>di</strong> altre popolazioni, <strong>di</strong> usi e costumi, ecc.<br />

Vi è la possibilità che il tempo cominci a colorarsi e che accanto a una vita monocromatica, tutta<br />

de<strong>di</strong>ta all’assistenza vi sia anche una vita intellettuale, che a sua volta si apra in molte possibilità.<br />

Forse si riscopre, o si scopre, qualcosa che permette <strong>di</strong> avere delle risorse non solo <strong>di</strong><br />

compensazione. La compensazione è necessaria: chi ha una sofferenza cerca, ed è umanamente<br />

molto giusto, <strong>di</strong> compensarla con qualche gratificazione, con qualche compensazione; può essere<br />

nella religiosità, può essere nell’attività sociale e politica. Non solo, però, compensazioni, non<br />

solo, quin<strong>di</strong>, riequilibrio ma anche sviluppo, possibilità <strong>di</strong> procedere, <strong>di</strong> regalarsi delle<br />

sod<strong>di</strong>sfazioni non per restaurare l'or<strong>di</strong>ne o per pareggiare i conti, ma per andare avanti. La<br />

policromia, la colorazione del tempo è molto importante, e <strong>di</strong>venta anche un elemento <strong>di</strong><br />

comprensione <strong>di</strong> cosa può accadere qualora qualcuno ,in una posizione <strong>di</strong> generosità, certamente,<br />

sottragga all’altro il dolore, la pena, l’afflizione; anziché entrare per collaborare alla costruzione<br />

<strong>della</strong> policromia vi può essere una assunzione dell’afflizione dell’altro in termini che<br />

generosamente sono: “ti tolgo l’afflizione”, ma che possono essere letti come: “mi togli l’unica<br />

cosa che ho”: il vuoto <strong>di</strong> colore; anziché la monocromia, vi è una monocromia spenta; si spegne


anche l’unico colore che c’era, quella de<strong>di</strong>zione me la prendo io. Nel rapporto con chi vive la<br />

situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap vi può essere questa generosa proposta <strong>di</strong> assunzione totale<br />

dell’afflizione: può essere rivolta a chi è <strong>di</strong>rettamente protagonista, a chi ha dei bisogni<br />

particolari; può essere rivolta a chi è vicino. La policromia è una proposta che serve a tutti, in<br />

particolare a chi vive la situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap, sia perché è han<strong>di</strong>cappato, è han<strong>di</strong>cappata, sia<br />

perchè vive accanto. Sottrarre il dolore, sottrarre l’afflizione è una logica molto presente nelle<br />

persone generose, ma è una generosità poco costruttiva che rischia <strong>di</strong> degenerare in<br />

assistenzialismo, e nell’assistenzialismo una presenza costante è quella <strong>di</strong> accentuare i bisogni o<br />

moltiplicarli, per costringere l’altro ad occuparsi sempre <strong>della</strong> situazione. Quin<strong>di</strong> l’assunzione<br />

dell’afflizione non è efficace, perché ve ne è sempre dell’altra. Questa è con tutta evidenza una<br />

descrizione schematica; ciascuno la può articolare a seconda delle <strong>di</strong>verse realtà che vive. In<br />

positivo noi dobbiamo riflettere sulla utilità <strong>di</strong> svolgere una azione che permetta la costruzione <strong>di</strong><br />

un policromia; la parola “policromia” può essere però anche sostituita dalla parola “policronia”, i<br />

colori possono essere sostituti dal tempo: più tempi e non solo un tempo: il tempo dell’assistenza<br />

ma anche il tempo dell’intelletto, il tempo <strong>della</strong> riflessione quin<strong>di</strong> anche la possibilità che nei più<br />

tempi, nei <strong>di</strong>versi tempi, vi sia un’occupazione <strong>di</strong> ruoli <strong>di</strong>versi; in un tempo un soggetto è<br />

protagonista, in un altro tempo è spettatore. E questo è un elemento importante perché a volte la<br />

vita <strong>di</strong> chi ha dei bisogni particolari è ancorata a un solo ruolo, sempre spettatore, sempre<br />

comparsa, oppure sempre protagonista. Il protagonismo <strong>di</strong> alcune persone han<strong>di</strong>cappate è<br />

evidente, così come è anche evidente, anche se meno imponente, si impone meno, il ruolo <strong>di</strong><br />

comparsa <strong>di</strong> tante altre persone han<strong>di</strong>cappate. Occupare un solo ruolo vuol <strong>di</strong>re vivere una vita<br />

vincolata a una sola posizione e quin<strong>di</strong>, a rappresentarla in un’immagine, fortemente anchilosata,<br />

in cui è più facile che si sviluppino delle piaghe da decubito, in senso figurato e a volte anche in<br />

senso reale, ma più spesso in senso figurato. Più spesso <strong>di</strong> quanto si creda. Diventa una vita che<br />

appoggia sempre in un solo punto, mentre la policromia, che <strong>di</strong>venta in questa descrizione<br />

policronia, permettendo lo svilupparsi <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi colori e in <strong>di</strong>versi tempi, permette anche <strong>di</strong><br />

cambiare ruolo, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> avere una rappresentazione <strong>di</strong> sé variata, e <strong>di</strong> migliorare<br />

l’appren<strong>di</strong>mento. Il cambiamento <strong>di</strong> ruolo permette <strong>di</strong> imparare, cioè <strong>di</strong> trasportare qualche cosa<br />

da una posizione all’altra e alimentare le nostre riserve <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>menti.<br />

2.2 Appartenenza: la lacerazione dell’appartenenza e la ricostruzione <strong>della</strong> stessa<br />

La riflessione fatta sulla qualità del tempo può essere rifatta, quasi ripercorsa con lo stesso<br />

pensiero, però con un’altra chiave <strong>di</strong> lettura che è quella dell’appartenenza. “Appartenenza” è un<br />

termine che ha una particolare attualità dal momento che, nell’epoca in cui la parola


“globalizzazione” è <strong>di</strong>ventata sempre più una realtà, vi sono anche delle forti tendenze a creare<br />

delle appartenenze localistiche e quin<strong>di</strong> a rompere l’appartenenza a una società ampia per<br />

in<strong>di</strong>viduare nella piccola patria il motivo <strong>di</strong> appartenenza. In alcuni casi questo ha sviluppato dei<br />

frazionamenti tragici, che hanno comportato dei conflitti; la ex Jugoslavia non finisce <strong>di</strong> vivere<br />

questa situazione. Anche dove la con<strong>di</strong>zione non è tragica vi sono riven<strong>di</strong>cazioni localistiche per<br />

attribuire all’appartenenza locale un primato e quin<strong>di</strong> per essere più portati a riconoscerci in chi<br />

abita da tempo in un certo contesto e vedere in chi arriva da lontano un usurpatore, un invasore.<br />

Il termine “appartenenza” sta prendendo un posto importante nella nostra riflessione. Vorremmo<br />

capire quanto è importante sentirsi parte, e anche quanto è importante sentirsi parte del mondo,<br />

non solo <strong>di</strong> una piccola zona.<br />

L’appartenenza ridotta alla piccola zona facilmente sconfina nella xenofobia e nella conquista o<br />

nella <strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> privilegi. Appartenenza al mondo, all’umanità. Vi sono momenti in cui si può<br />

vivere una lacerazione dell’appartenenza, oppure si può nascere sentendosi come lacerati rispetto<br />

all’appartenenza, ed è questo il caso <strong>di</strong> persone che noi definiamo han<strong>di</strong>cappate, o delle persone<br />

che vivono con lacerazione: si rompe un concetto e una realtà se<strong>di</strong>mentata; nasco han<strong>di</strong>cappato<br />

quin<strong>di</strong> faccio fatica ad appartenere, ad essere parte <strong>di</strong> un tutto, non vengo riconosciuto parte e ho<br />

bisogno <strong>di</strong> ricostruire o costruire un’appartenenza, con il rischio <strong>di</strong> costruirla in una categoria.<br />

La ricostruzione dell’appartenenza o la costruzione dell’appartenenza significa procedere a un<br />

riconoscimento <strong>di</strong> elementi che sono comuni. A volte un eccesso <strong>di</strong> naturalismo banalizza gli<br />

elementi comuni. Trovare il valore simbolico nella respirazione e nel battito del cuore può essere<br />

un riscoprire qualcosa che è in tutti ed è tutt’altro che banale; e il valore simbolico è l’elemento<br />

aggiunto dell’umanità rispetto alle bestie. Si potrebbe pensare che abbiamo molti elementi in<br />

comune con le bestie. Ma il respiro fatto <strong>di</strong> pieni e <strong>di</strong> vuoti <strong>di</strong>venta un ritmo che può avere una<br />

sua musicalità, essere sviluppato in una musicalità creativa, e questo il mio cane non lo saprà<br />

fare; forse lo saprà riconoscere perché lo educherò a riconoscere il mio fischio che è la<br />

modulazione <strong>di</strong> un ritmo. Da respiro a ritmo vi è un’aggiunta <strong>di</strong> creatività, <strong>di</strong> costruzione<br />

simbolica a cui il mio cane si adegua e a cui contribuisce passivamente perché forse mi ispira,<br />

ma non sa aggiungere altri elementi intellettivi. Non posso pensare che un soggetto gravemente<br />

han<strong>di</strong>cappato sia comparabile al cane perché, come il cane, non parla. L’assenza <strong>di</strong> parola non lo<br />

fa appartenere agli animali che non parlano ma gli consente ancora <strong>di</strong> essere parte <strong>degli</strong> animali<br />

parlanti, perché ha una potenzialità <strong>di</strong> accesso al linguaggio che rimane inalterata. I parlanti<br />

possono essere anche "insegnanti", ovvero coloro che tra i sor<strong>di</strong> seguono il linguaggio dei segni.<br />

Si può parlare attraverso gli ausilii. La parola non è unicamente quella che si emette vocalmente<br />

ma anche quella che si rappresenta. Non abbiamo nessuna possibilità che il mio cane acceda alla


parola se non per addestramento riconoscendo alcune parole; il mio cane sapiente si può esibire<br />

in un circo riconoscendo un certo numero <strong>di</strong> parole, ma è frutto <strong>di</strong> un addestramento e non è<br />

generatore <strong>di</strong> linguaggio, e non aggiungerà una parola. Il concetto <strong>di</strong> appartenenza ha dei risvolti<br />

molto pratici e la ricostruzione dell’appartenenza vuol <strong>di</strong>re ricostruire <strong>degli</strong> elementi primor<strong>di</strong>ali<br />

che permettono <strong>di</strong> riconoscerci appartenenti al genere umano. Questo può essere un contributo<br />

fondamentale che le persone han<strong>di</strong>cappate, che hanno esigenze particolari, possono dare al<br />

nostro tempo così bisognoso <strong>di</strong> “ricapire”, o capire, originalmente, che cosa significa<br />

appartenenza. Ma così bisognoso anche <strong>di</strong> vivere l’appartenenza, nella quoti<strong>di</strong>anità, e non solo <strong>di</strong><br />

capirla nei momenti alti <strong>della</strong> nostra riflessione.<br />

2.3 Una esclusione particolare: esclusione in categorie, esclusione mascherata<br />

Già <strong>di</strong>cevamo come vi può essere un tentativo <strong>di</strong> superare la lacerazione dell’appartenenza<br />

costruendo una appartenenza in una categoria ed escludendo la possibilità <strong>di</strong> appartenere a<br />

qualcosa fuori da quella categoria. Bisogna intendersi: se io fossi un pensionato e mi sentissi<br />

appartenere alla categoria dei pensionati questo avrebbe un significato più che tranquillo e<br />

componibile nel fatto che io mi sento anche appartenente a un genere umano più ampio. E’<br />

<strong>di</strong>verso se io caricassi l’appartenenza alla categoria dei pensionati <strong>di</strong> un significato <strong>di</strong> esclusione<br />

dall’appartenenza al resto del genere umano, riconoscendomi unicamente in coloro che hanno<br />

una certa età, che hanno avuto un’esperienza lavorativa in un certo settore e vivendo ostilmente<br />

ogni altro contatto: è un’esclusione. Alcune appartenenze sono costrette a nascere nel segno<br />

dell’esclusione. Vi è la possibilità che questa <strong>di</strong>venti un’appartenenza mascherata e che in realtà<br />

tutta una categoria continui ad essere esclusa. In questo punto <strong>della</strong> riflessione è necessario fare<br />

anche un riferimento a quella <strong>di</strong>scriminazione positiva che consiste nel considerare una certa<br />

categoria, ad esempio, gli invali<strong>di</strong>, come protetta rispetto agli altri. E’ quasi banale <strong>di</strong>rlo: nel<br />

mondo molte situazioni <strong>di</strong> protezione hanno consentito una esclusione altrettanto efficace <strong>di</strong> altre<br />

esclusioni violente. In genere le categorie protette, come le riserve in<strong>di</strong>ane, sono state protette<br />

dopo essere state perseguitate e quin<strong>di</strong> sono i resti protetti. Questo appunto potrebbe permetterci<br />

un approfon<strong>di</strong>mento storico che è anche necessario in<strong>di</strong>viduare come pista <strong>di</strong> riflessione e <strong>di</strong><br />

lavoro. Qui ci preme però ricordare come la categorizzazione sia una maschera, e quin<strong>di</strong> come<br />

tale sempre ricostruita, non tanto identificabile nelle forme che ha assunto in passato quanto<br />

riscoprire nelle forme nuove, non sempre in<strong>di</strong>viduabili.<br />

Diventa quin<strong>di</strong> un segnale, o una chiave <strong>di</strong> lettura, <strong>di</strong> situazioni che possono anche presentarsi ed<br />

essere ispirate a dei criteri <strong>di</strong> integrazione, e quin<strong>di</strong> alla possibilità e alla speranza che vi sia<br />

un’ampia appartenenza. Abbiamo una serie <strong>di</strong> <strong>di</strong>zioni che possono essere elencate, e ciascuno


potrebbe trovare che hanno un’esclusione mascherata oppure una possibilità <strong>di</strong> attuare<br />

l’appartenenza. Si pensi alla <strong>di</strong>zione “laboratorio protetto” che per molti ha significato un<br />

avanzamento nella possibilità <strong>di</strong> integrazione poi, a un certo punto, è stato avvertito invece come<br />

un limite; ma che in un progetto potrebbe risultare ancora come un percorso, una parte <strong>di</strong><br />

percorso verso l’appartenenza. Si pensi alla <strong>di</strong>zione “terzo settore” ispirata a una necessità e a un<br />

desiderio <strong>di</strong> creare delle possibilità <strong>di</strong> appartenenza ampia, con il rischio, però, che era presente<br />

anche nel laboratorio protetto. Non vi sono proposte garantite a priori rispetto all’esclusione<br />

mascherata, quin<strong>di</strong> a questo tipo <strong>di</strong> esclusione dall’appartenenza del tutto particolare che<br />

esprimiamo nell’espressione semplificata “esclusione in categoria”.<br />

2.4 La definizione <strong>di</strong> situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap<br />

E’ venuto il momento <strong>di</strong> capire cosa si <strong>di</strong>ce usando l’espressione “situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap”.<br />

Probabilmente in una certa logica sarebbe stato necessario iniziare questa riflessione da questo<br />

punto. Quello che ha trattenuto dal seguire un andamento <strong>di</strong> questo tipo e il non ricadere in una<br />

modalità banalizzante. Posta a questo punto <strong>della</strong> riflessione la definizione “situazione <strong>di</strong><br />

han<strong>di</strong>cap” dovrebbe essere già più chiara: non si parla unicamente <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduo che ha un deficit<br />

ma del contesto in cui abitualmente vive il singolo in<strong>di</strong>viduo che ha dei bisogni particolari.<br />

Parlare <strong>della</strong> situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap significa prendere in considerazione i <strong>di</strong>versi soggetti che<br />

sono abitualmente collocati in questa situazione, e quin<strong>di</strong> anche dei familiari. Ancora si può <strong>di</strong>re<br />

che il soggetto deficitario vive la situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap allo stesso modo <strong>di</strong> come vivono le<br />

situazioni <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap i suoi familiari e le persone che abitualmente risiedono o vivono con lui o<br />

lei. E’ quin<strong>di</strong> necessario, riducendo l’han<strong>di</strong>cap, affrontare tutta la situazione e non unicamente<br />

gli aspetti legati al singolo che ha un deficit. Un processo riabilitativo, ad esempio, può<br />

consentire l’applicazione <strong>di</strong> un trattamento tecnico relativo al soggetto, e deve però anche<br />

prendere in considerazione la vita delle altre persone che vivono nel contesto. Questa definizione<br />

<strong>di</strong> “situazione <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap” permette <strong>di</strong> rileggere i punti precedenti nella logica <strong>di</strong> questo<br />

intervento, cercando quali sono i mo<strong>di</strong> per ridurre l’han<strong>di</strong>cap. Allora si può riprendere la<br />

questione relativa alla qualità del tempo, alla policromia, che sostituisca la monocromia, per<br />

capire come questo sia un modo importante per ridurre l’han<strong>di</strong>cap. Si può riprendere il tema<br />

dell’appartenenza per capire come questo sia un elemento fondamentale <strong>della</strong> riduzione<br />

dell’han<strong>di</strong>cap ed ancora riprendere l’attenzione alle nuove forme <strong>di</strong> esclusione nelle<br />

appartenenze categoriali per capire come anche questo sia un punto importante nella riduzione<br />

dell’han<strong>di</strong>cap. “Riduzione dell’han<strong>di</strong>cap” è accompagnata da una ricerca <strong>di</strong> comprensione <strong>di</strong> ciò<br />

che è l’elemento dato, cioè il deficit: l’elemento dato non può essere ridotto mentre tutti gli


elementi variabili, e sono da scoprire, possono essere ridotti. Abbiamo già visto come una<br />

riduzione dell’han<strong>di</strong>cap che sia operata in termini tali da non consentire la partecipazione a<br />

questo sforzo possa rischiare <strong>di</strong> produrre nuovi han<strong>di</strong>cap. La <strong>di</strong>minuzione dell’afflizione operata<br />

da un agente totalmente esterno può ridurre sì l’afflizione ma provocare risentimento, cioè un<br />

nuovo han<strong>di</strong>cap. Ed è questo uno dei punti principali <strong>della</strong> necessità <strong>di</strong> collegare ogni intervento<br />

tecnico ad una capacità <strong>di</strong> sviluppare l’attenzione partecipativa, la tensione partecipativa. E’<br />

questa una delle buone ragioni per pensare che una <strong>di</strong>ffusione delle informazioni non possa<br />

sostituirsi alla struttura <strong>di</strong>alogica <strong>di</strong>ffusa sul territorio. Vi possono essere molte buone occasioni<br />

perché le tante persone che sono in qualche modo connesse alle situazioni <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap abbiano<br />

un miglioramento delle informazioni. Questo è un compito importante da assumere socialmente.<br />

Questo non toglie la necessità <strong>di</strong> avere delle buone possibilità <strong>di</strong> incontro. L’elemento<br />

partecipativo non può rimanere legato a dei mezzi fred<strong>di</strong>, va anche espresso e vissuto attraverso<br />

<strong>degli</strong> incontri umanamente cal<strong>di</strong>. Su questo bisogna avere una riflessione operativa che comporti<br />

un chiarimento sulle professioni che chiamiamo “<strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>”. Ma prima <strong>di</strong> abbordare a<br />

quest’ultimo punto <strong>della</strong> nostra riflessione conviene ancora esaminare l’aspetto <strong>della</strong> riduzione<br />

dell’han<strong>di</strong>cap legato proprio alla possibilità che vi siano maggiori informazioni <strong>di</strong>ffuse e quin<strong>di</strong><br />

la possibilità che vi siano delle strutture che chiamiamo Centri <strong>di</strong> Documentazione, ben<br />

organizzati e <strong>di</strong>ffusi in una forma che riteniamo debba essere riferita alla <strong>di</strong>mensione provinciale.<br />

Oltre a questo elemento <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione dell’informazione è importante sottolineare quanto sia<br />

utile, nello specifico <strong>della</strong> scuola, permettere e favorire la qualità dell’integrazione nel curricolo,<br />

vale a <strong>di</strong>re la possibilità che chi stu<strong>di</strong>a stu<strong>di</strong> anche integrando alle aree <strong>di</strong>sciplinari il tema del<br />

deficit e dell’han<strong>di</strong>cap e non lo consideri un elemento <strong>di</strong> benevolenza; un elemento <strong>di</strong> solidarietà<br />

e una sfida cognitiva. Bisogna che chi è a scuola con un compagno, una compagna han<strong>di</strong>cappata<br />

abbia la possibilità <strong>di</strong> conoscere, cioè <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are, quello che è l’aspetto scientifico, letterario,<br />

artistico, relativo alla tematica del deficit – han<strong>di</strong>cap a partire anche dallo specifico del<br />

compagno, <strong>della</strong> compagna, cercando, e quasi scontato <strong>di</strong>rlo in questo contesto, <strong>di</strong> rispettare<br />

l’altro e <strong>di</strong> sviluppare un livello <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità nei confronti del tema e delle persone che lo vivono<br />

con maggiore intensità.<br />

Il quadro delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong><br />

Abbiamo già fatto riferimento a una necessità <strong>di</strong> chiarire quelle che sono le professioni definite<br />

“<strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>”. Non sono necessariamente le sole professioni che hanno a che fare con il deficit ma<br />

riguardano l’arco <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> ogni in<strong>di</strong>viduo. Nelle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> non vi sono unicamente<br />

quei ruoli che entrano in contatto con un in<strong>di</strong>viduo quando vengono meno delle reti sociali


abituali, o quando insorgono dei problemi specifici. Sono professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> quelle, e<br />

soprattutto quelle, che entrano in rapporto con un bambino, una bambina, al momento che<br />

frequenta un nido, una scuola dell’infanzia, un percorso scolastico, una polisportiva, ecc. Quin<strong>di</strong><br />

le professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> sono quelle che permettono <strong>di</strong> sviluppare la propria crescita e la propria<br />

vita per tutto l’arco <strong>della</strong> stessa. Vi sono poi delle specificità che riguardano i momenti o le<br />

situazioni che esigono delle attenzioni particolari. Questa definizione delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>,<br />

come si può capire, è sufficientemente ampia da comprendere una quantità <strong>di</strong> professioni<br />

sfumata verso quelle che hanno dei ruoli sociali senza avere un mandato specifico <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>. E’<br />

quasi evidente che nella vita sociale la possibilità <strong>di</strong> vivere in una situazione in cui i negozi sono<br />

presenti e hanno <strong>degli</strong> esercenti <strong>di</strong> una certa qualità umana permette <strong>di</strong> vivere meglio. La<br />

possibilità <strong>di</strong> avere dei mezzi <strong>di</strong> trasporto pubblici decenti permette <strong>di</strong> vivere meglio. Queste,<br />

quin<strong>di</strong>, sono figure sfumate. Tante altre professioni sono anche queste relative a un certo <strong>aiuto</strong> a<br />

una qualità <strong>della</strong> vita. Ma il fuoco, cioè il nucleo centrale delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>, sono quelle<br />

che hanno a che fare con il binomio educazione-salute, per tutto l’arco <strong>della</strong> vita. E queste<br />

professioni hanno in questo momento storico un quadro molto poco chiaro: poco chiaro il ruolo<br />

<strong>degli</strong> educatori professionali in rapporto agli insegnanti, poco chiaro il rapporto tra riabilitatori e<br />

volontariato. E’ quin<strong>di</strong> necessario ridefinire un quadro delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> in cui sia<br />

possibile in<strong>di</strong>viduare i percorsi formativi e i collegamenti, le connessioni, fra una professione e<br />

l’altra. Questo oltre ad essere un elemento importante per il tema <strong>della</strong> riduzione dell’han<strong>di</strong>cap<br />

costituisce anche un elemento importante per il controllo e la qualificazione <strong>della</strong> spesa. Non<br />

saremmo molto sod<strong>di</strong>sfatti se ci fosse unicamente il controllo <strong>della</strong> spesa non accompagnato da<br />

una qualificazione <strong>della</strong> spesa relativamente alle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>. Mancando un quadro è<br />

complicato, se non impossibile, avere una definizione <strong>della</strong> finalità <strong>della</strong> spesa, e quin<strong>di</strong> una<br />

qualificazione sua progressiva. Investire in un quadro sicuro significa poter poi avere delle<br />

progressive riduzioni <strong>della</strong> spesa o comunque avere vantaggi tali da permettere delle forti<br />

economie. E anche questa è una riduzione dell’han<strong>di</strong>cap perché, lo abbiamo potuto constatare<br />

vivendo questo problema, l’assenza del controllo <strong>della</strong> spesa può portare a delle ondate<br />

favorevoli seguite poi da riflusso, e rendere il tutto molto precario. E’ questo il punto importante<br />

<strong>della</strong> riduzione dell’han<strong>di</strong>cap legato allo specifico del quadro delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>: uscire da<br />

una sensazione, che non è solo un sentimento ma è anche un dato, <strong>di</strong> precarietà, <strong>di</strong> provvisorietà:<br />

quello che mi è offerto oggi è incerto che io me lo ritrovi domani. Un esempio: nella realtà in cui<br />

opero sono presenti delle strutture specifiche che riguardano gli han<strong>di</strong>cappati adulti. Sono state<br />

in<strong>di</strong>cate come Poli Han<strong>di</strong>cap Adulti con una sintesi <strong>di</strong> vocaboli e <strong>di</strong> <strong>di</strong>zione che non è<br />

perfettamente adeguata alla comprensione <strong>di</strong> ciò che fanno. Dovrebbe essere Poli per la


iduzione dell’han<strong>di</strong>cap in persone adulte, ma <strong>di</strong>venta molto lungo e allora la sintesi è Polo<br />

Han<strong>di</strong>cap Adulti. E’ questa è una realtà importante perché permette <strong>di</strong> avere una struttura leggera<br />

composta da non molti operatori capaci <strong>di</strong> connettere i <strong>di</strong>versi interventi e <strong>di</strong> seguire per un arco<br />

<strong>di</strong> tempo molto ampio i soggetti che hanno delle esigenze particolari. Ma la sensazione che molte<br />

persone che si rivolgono a questi servizi hanno è <strong>di</strong> avere a che fare con una struttura ai limiti del<br />

provvisorio e sicura fino a un certo punto, con operatori che non sono sempre garantiti del<br />

prosieguo del loro lavoro. Vi sono a volte cambiamenti dovuti al fatto che il contratto <strong>di</strong> un<br />

operatore scade, o si è passati a regime con dei cambiamenti <strong>di</strong> personale; cambiamenti che non<br />

sono stati bene illustrati e che quin<strong>di</strong> vengono capiti come conferma <strong>di</strong> grande provvisorietà. Il<br />

riferimento al tema del quadro delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> vuol <strong>di</strong>re rimboccarsi le maniche, per<br />

ridurre questo han<strong>di</strong>cap così grande che è la provvisorietà, la precarietà, per dare invece una<br />

possibilità progressiva <strong>di</strong> certezze. Avere delle certezze è uno <strong>degli</strong> elementi fondamentali <strong>della</strong><br />

riduzione dell’han<strong>di</strong>cap. Ed è per questo che il punto conclusivo fa riferimento alla parola<br />

“quadro”, come a qualcosa che ha un insieme, che deve costituire un insieme in cui gli elementi<br />

<strong>di</strong>namici possono e devono sussistere: elementi <strong>di</strong> crescita, <strong>di</strong> maggiore precisazione, <strong>di</strong><br />

cambiamenti continui, ma all’interno <strong>di</strong> un quadro che da sicurezza <strong>di</strong> certezze.<br />

Conclu<strong>di</strong>amo con un nota inevitabile. Il tema “Riduzione dell’han<strong>di</strong>cap” è enorme e quin<strong>di</strong><br />

abbiamo dovuto per forza scegliere alcuni dei punti su cui svolgere una certa riflessione. Lo<br />

abbiamo fatto con la convinzione che siano punti nodali, che non siano esaustivi ma permettano<br />

<strong>di</strong> irrigare un ampio territorio e <strong>di</strong> arrivare ad elementi più nascosti e forse importanti che a<br />

prima vista non si scorgono. Questa è stata la scelta per affrontare un tema così vasto, così<br />

importante ed anche, sia detto senza retorica, così appassionante.


III<br />

LA RELAZIONE D’AIUTO: ASPETTI METODOLOGICI E OBIETTIVI<br />

EDUCATIVI<br />

3.1. Un modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re semplice per qualche cosa che forse non è sempre semplice<br />

Le parole relazione d’<strong>aiuto</strong> sembrano raggiungere tutti con un significato chiaro, perché tutti<br />

possano sapere cos’è una relazione e cos’è un <strong>aiuto</strong>. La relazione presume un qualche contatto che<br />

già si aveva, o che si ha quando si entra in contatto. E l’<strong>aiuto</strong> presume che qualcuno ne abbia<br />

bisogno e altri possa fornire risposta a quel bisogno. Questa semplicità è, per fortuna, reale, ed è in<br />

molte delle nostre azioni quoti<strong>di</strong>ane. Ma, sempre in molte delle nostre azioni quoti<strong>di</strong>ane, vi sono<br />

delle complicazioni che rendono queste parole così semplici la fonte <strong>di</strong> una necessità <strong>di</strong> riflessione<br />

che non si esaurisce facilmente. In un incontro fra persone che, a vario titolo, riflettevano sulla<br />

relazione d’<strong>aiuto</strong>, uno dei partecipanti, all’invito a fornire un ricordo <strong>di</strong> un <strong>aiuto</strong> ricevuto negli<br />

ultimi tempi, ha raccontato come, trovandosi con una gomma sgonfia, in una notte invernale, nella<br />

periferia <strong>di</strong> una città, si sia sentito in grande <strong>di</strong>fficoltà, non avendo nessuna attitu<strong>di</strong>ne , né abitu<strong>di</strong>ne,<br />

a cambiare la ruota <strong>della</strong> macchina. E mentre perplesso stu<strong>di</strong>ava la situazione, ha avuto l’<strong>aiuto</strong> <strong>di</strong><br />

qualcuno che si è fermato in auto e che era un immigrato del Nord Africa. Con molta semplicità e<br />

<strong>di</strong>sinvoltura ha capito le sue <strong>di</strong>fficoltà, gli ha cambiato la ruota e si è allontanato senza pretendere<br />

nulla <strong>di</strong> particolare. Una relazione d’<strong>aiuto</strong> svolta, chiusa e senza seguito, ma che ha permesso a una<br />

persona in <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> ritrovarsene fuori. Potremmo sciupare un piccolo episo<strong>di</strong>o, caricandolo <strong>di</strong><br />

molta riflessione, e questo è sempre il rischio del minimalismo, che parte da piccoli episo<strong>di</strong>,<br />

racconti <strong>di</strong> vita quoti<strong>di</strong>ana su cui tentiamo <strong>di</strong> fare delle riflessioni più ampie. E, certo, il rischio <strong>di</strong><br />

sciupare c’è.<br />

Val la pena, però, immaginare qualche cosa per capire <strong>di</strong> più come l’immigrato nordafricano si sia<br />

trovata l’energia, per fermarsi ed aiutare, come abbia dovuto vincere una possibile immagine,<br />

certamente stereotipata, che può essergli arrivata dai gran<strong>di</strong> mezzi <strong>di</strong> informazione, per cui un<br />

nordafricano che si ferma in macchina in una zona deserta e periferica, <strong>di</strong> notte, non è rassicurante e<br />

può provocare delle reazioni <strong>di</strong> panico anziché rassicurazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>. Potremmo anche immaginare<br />

che, proprio per quello, quell’in<strong>di</strong>viduo abbia desiderato fermarsi, aiutare e smentire uno stereotipo<br />

<strong>di</strong> pericolo che l’immagine del nordafricano, nelle nostre periferie, si porta <strong>di</strong>etro. Quin<strong>di</strong>, possiamo<br />

immaginare che, chi aiuta, in questo caso abbia voluto fare qualcosa per a sua volta essere aiutato,<br />

ad uscire da uno stereotipo negativo.


Questa situazione può essere il motivo <strong>di</strong> riflessione per capire alcune delle <strong>di</strong>namiche <strong>della</strong><br />

relazione <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>, che non esauriscono il tema, ma che sicuramente possono aiutare a capire<br />

qualcosa.<br />

Chi aiuta può trovare, nell’<strong>aiuto</strong> che dà, un <strong>aiuto</strong>. E non sembri, questo, un imbroglio <strong>di</strong> parole. E’<br />

certamente qualcosa che accade quando chi aiuta si sente prigioniero <strong>di</strong> un’immagine che non è la<br />

sua, come nel caso ipotizzabile del nordafricano del piccolo racconto. Vi è anche la possibilità che<br />

chi aiuta abbia una storia da riscattare, anche personale; non solo, quin<strong>di</strong>, per rompere la gabbia <strong>di</strong><br />

uno stereotipo, ma anche per una vicenda personale; si trovi nella circostanza <strong>di</strong> potere finalmente<br />

esprimere una propria statura <strong>di</strong>versa. Come si suol <strong>di</strong>re, crescere attraverso un’azione che non è<br />

abituale. Queste sono le relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> straor<strong>di</strong>narie, sono quelle più vistose nella quoti<strong>di</strong>anità,<br />

ma anche al <strong>di</strong> là <strong>della</strong> quoti<strong>di</strong>anità, nel panorama che coinvolge la grande informazione. E<br />

<strong>di</strong>ventano, poi, a tal punto straor<strong>di</strong>narie da creare anche dei piccoli miti. Possono anche essere<br />

gran<strong>di</strong> miti.<br />

Una delle figure più interessanti, utile a riflettere su questo aspetto <strong>della</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong> è l’Abbé<br />

Pierre. L’Abbé Pierre è noto a una certa generazione, mentre ai più giovani forse non è così<br />

familiare, come fondatore dei Compagni <strong>di</strong> Emmaus, cioè <strong>di</strong> quell’iniziativa che ha raccolto<br />

persone senza fissa <strong>di</strong>mora, ex detenuti, alcoolisti, aiutandoli a trovare un tetto, una casa, un riparo,<br />

e nello stesso tempo costruendo un’attività, su suggerimento <strong>di</strong> alcuni <strong>degli</strong> stessi aiutati, <strong>di</strong><br />

“raccolta <strong>di</strong>fferenziata” dell’immon<strong>di</strong>zia: il lavoro nelle <strong>di</strong>scariche per raccogliere il ferro che vi<br />

poteva essere, il cartone, il vetro, <strong>di</strong>fferenziare quello che veniva buttato, e cominciare a<br />

valorizzarlo. Per una <strong>di</strong>namica che <strong>di</strong>venta metafora, accadeva al materiale gettato quello che era<br />

accaduto agli uomini, che stava accadendo alle persone: venivano gettate, e venivano riscattate. E<br />

<strong>di</strong>mostravano <strong>di</strong> avere ancora un valore.<br />

Nella biografia dell’Abbé Pierre vi sono buoni motivi per credere che la sua “vocazione” non fosse<br />

così sintonica con gli or<strong>di</strong>ni religiosi in cui era passata, e che avesse bisogno <strong>di</strong> trovarsi uno spazio<br />

proprio e una sua collocazione <strong>di</strong>namica molto più autonoma rispetto ad altri religiosi. Ed ecco che<br />

la realizzazione <strong>di</strong> una forma <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> così importante, necessaria, come è Emmaus, dà la possibilità<br />

a questo personaggio <strong>di</strong> grande carattere, <strong>di</strong> grande spessore, <strong>di</strong> liberarsi da alcuni, vincoli.<br />

La Parigi del dopoguerra vive <strong>degli</strong> inverni <strong>di</strong> grande freddo, e le persone che hanno la possibilità <strong>di</strong><br />

viverli nelle case riscaldate non hanno tanti problemi. Ma sono numerose le persone che, invece,<br />

vivono nelle con<strong>di</strong>zioni <strong>della</strong> strada e hanno quin<strong>di</strong> dei rischi enormi. Il circolo vizioso “freddo-<br />

cattivo vino-alcoolismo” prende molti <strong>di</strong> costoro, uomini e donne, persone che hanno<br />

anagraficamente un’età giovane e che <strong>di</strong>ventano rapidamente vecchi relitti. E l’Abbé Pierre lavora<br />

con questi. Chiama, lancia <strong>degli</strong> appelli a tutta la società, <strong>di</strong>ventando un elemento anche simbolico,


e nello stesso tempo molto operativo, nelle relazioni d’<strong>aiuto</strong>, facendo <strong>della</strong> sua persona un vero e<br />

proprio mito delle relazioni d’<strong>aiuto</strong>, e costruendo: costruendo strutture, un’associazione, dei luoghi<br />

che hanno una <strong>di</strong>ffusione nel mondo, e permettendosi poi, in tarda età, anche delle <strong>di</strong>chiarazioni che<br />

potrebbero essere dette, eufemisticamente, anticonformiste, ma che per alcuni sono<br />

malinconicamente il segno <strong>di</strong> una per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> riferimento e <strong>di</strong> controllo sulla realtà. Ci riferiamo, alla<br />

sua <strong>di</strong>fesa d’ufficio <strong>di</strong> panflé antisemita, scritto da un vecchio filosofo, suo coetaneo, che non aveva<br />

bisogno <strong>della</strong> sua <strong>di</strong>fesa perché era da far cadere nell’oblio, non faceva onore né al vecchio filosofo,<br />

né all’Abbé Pierre.<br />

Ha scandalizzato, l’Abbé Pierre, per questo. E’ il segno <strong>di</strong> una <strong>di</strong>mensione “mitologica” che rischia<br />

molto. Da l’impressione che la relazione d’<strong>aiuto</strong> possa in qualche modo, - non è l’accusa che<br />

facciamo all’Abbé Pierre; ci serviamo dell’Abbé Pierre per riflettere sulle nostre con<strong>di</strong>zioni –<br />

sottrarre gli in<strong>di</strong>vidui a valutazioni comuni, e mettersi al riparo da confronti, nel mito. In qualche<br />

modo, chi <strong>di</strong>venta un personaggio simbolo nelle relazioni d’<strong>aiuto</strong> si può permettere quello che altri<br />

non si possono permettere: si sottrae al confronto. Le relazioni d’<strong>aiuto</strong> hanno anche questo rischio:<br />

chi aiuta può credere <strong>di</strong> avere delle ragioni che vanno al <strong>di</strong> là delle regole e delle ragioni comuni.<br />

Può ritenere <strong>di</strong> avere tanti meriti e tanta sensibilità, o che quello che fa valga talmente da andare<br />

oltre quelle che sono le convenzioni. E a volte è vero. Si può anche ritenere che questo sia un<br />

elemento da pagare, che sia un anticonformismo eroico, e che sia quin<strong>di</strong> un’avanguar<strong>di</strong>a su una<br />

pigrizia storica <strong>di</strong> altri.<br />

Le relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> eccezionali, quando hanno bisogno <strong>di</strong> essere ripetute sistematicamente,<br />

interpellano una società che non sa assumere le relazioni d’<strong>aiuto</strong> come un’or<strong>di</strong>naria necessità.<br />

Dovrebbe provvedere non più attraverso l’eccezionalità, ma attraverso l’organizzazione e le<br />

competenze. Consideriamo che “la logica dell’emergenza” è anche la logica dell’eccezionalità.<br />

Nelle relazioni d’<strong>aiuto</strong> ci si consente tutto perché sembra necessario. Chi vede qualcuno che sta<br />

affogando non si domanda: “Sono il bagnino autorizzato a fare opera <strong>di</strong> salvataggio?”, ma se sa<br />

nuotare si butta e salva. Così, se vede delle persone che hanno delle ferite e devono essere curate<br />

non si domanda: “Sono abilitato a curare?, Sono infermiere?, Sono dottore?”, ma cerca <strong>di</strong> fare il<br />

possibile per fare azione infermieristica e azione sanitaria. Negli incidenti, l’emergenza va oltre<br />

quelle che sono le competenze stabilite. Tutti possono <strong>di</strong>ventare protagonisti <strong>di</strong> relazioni d’<strong>aiuto</strong>.<br />

Protagonisti: parola importante che può fare avviare una deriva pericolosa. Chi è stato protagonista<br />

un giorno fa fatica a ritornare fra le comparse, il giorno dopo. Può far fatica, ma non è detto. Questo<br />

è un tipo <strong>di</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong> che ci permette <strong>di</strong> intravedere alcune delle piccole e gran<strong>di</strong><br />

complicazioni che si possono nascondere <strong>di</strong>etro a parole semplici. Ma ci sono altre complicazioni.<br />

Le complicazioni sono legate al fatto, presenti nella storia o<strong>di</strong>erna, che le relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> hanno


isogno <strong>di</strong> un tessuto consolidato per essere vissute nella quoti<strong>di</strong>anità. Pren<strong>di</strong>amo due situazioni che<br />

incontrano un elemento per cui occorra chiedere <strong>aiuto</strong>. Si tratta <strong>di</strong> due persone, <strong>di</strong> età adulta, che si<br />

trovano a vivere l’esperienza <strong>di</strong> sofferenza per tumore. Una vive in una rete sociale molto solida, in<br />

cui gli elementi <strong>della</strong> vita <strong>di</strong> lavoro, <strong>della</strong> vita <strong>di</strong> vicinato, <strong>di</strong> parentele, sono molto solidamente<br />

intrecciati e sfumati l’uno nell’altro. E il periodo del tumore <strong>di</strong>venta un rinsaldare vincoli già<br />

presenti e vivere intense relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> che si appoggiano su relazioni già precedentemente molto<br />

solide. L’altra persona ha invece avuto un lungo periodo <strong>di</strong> lavoro che l’ha portata fuori dal contesto<br />

in cui abita, e si ritrova a ritornarvi essendo poco conosciuto dal vicinato, e anche dai parenti che<br />

pure ha. Dal momento in cui appare il tumore, devono essere riprese delle relazioni che si<br />

intensificano a causa proprio del tumore e che erano molto allentate precedentemente.<br />

E’ facile capire che nella prima situazione le relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> sono molto più vitali e capaci <strong>di</strong><br />

rapportarsi all’interezza <strong>della</strong> persona. Nella seconda situazione è facile anche capire che le<br />

relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> si stanno orientando a prendere in considerazione quella persona ammalata, quin<strong>di</strong><br />

non collegando la sua vita precedente <strong>di</strong> persona sana con la presenza del tumore. E’ evidente che<br />

l’irruzione <strong>di</strong> una malattia grave o <strong>di</strong> altri eventi, in una vita, fanno cambiare la persona stessa. Ma<br />

non c’è una metamorfosi assoluta, bensì una <strong>di</strong>mensione nuova in qualcosa <strong>di</strong> già presente. Se<br />

l’in<strong>di</strong>viduo è conosciuto, se la rete <strong>di</strong> amicizia, la rete sociale, era già viva si intensificano dei<br />

legami già presenti con molta intensità. Diversamente c’è qualche rischio in più. Ed è lì, allora, che<br />

si ha bisogno <strong>di</strong> fare una riflessione <strong>di</strong> tipo più professionale. C’è bisogno che, allora, i<br />

professionisti, in questo caso i professionisti <strong>della</strong> me<strong>di</strong>cina e <strong>della</strong> terapia, tengano conto <strong>di</strong> queste<br />

<strong>di</strong>fferenze; evitino <strong>di</strong> trattare neutralmente le situazioni senza rendersi conto del contesto in cui<br />

queste situazioni vivono, e ancor più <strong>della</strong> storia del contesto.<br />

Questi sono gli elementi su cui bisogna cominciare a riflettere in rapporto alle qualità<br />

metodologiche professionali, e non più alla buona volontà, perché non basta. Ci vuole qualcosa <strong>di</strong><br />

più: uscire <strong>della</strong> buona volontà portandosi <strong>di</strong>etro tutto quello che la buona volontà ha <strong>di</strong> positivo,<br />

ma andando oltre, e considerando quegli aspetti che una parola dovrebbe richiamare. Il termine è<br />

clinico. Molte volte il termine clinico è stato usato più per in<strong>di</strong>care un luogo specialistico in cui<br />

ricoverare, ma la sua etimologia ci porta a parlare del luogo in cui vive un in<strong>di</strong>viduo. Vive nel<br />

contesto in cui la vita si svolge. Un’attività clinica dovrebbe essere un’attività che si svolge andando<br />

verso il contesto in cui l’in<strong>di</strong>viduo, <strong>di</strong> cui si prende cura il professionista, vive. Per qualche<br />

misteriosa trasformazione paradossale, invece, il termine clinico è <strong>di</strong>ventato proprio il contrario:<br />

trasportare da un contesto e ricoverare in una clinica. Questa paradossalità va esplorata per capire<br />

cosa ha voluto <strong>di</strong>re e perché si è verificato questo.


Per certi versi le intenzioni, leggibili dentro al cambiamento <strong>di</strong> significato, possono essere anche<br />

riportate a una visione positiva, che era quella <strong>di</strong> sottrarre alla <strong>di</strong>sattenzione qualcuno che aveva<br />

bisogno <strong>di</strong> cure particolari, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> permettere che le richieste <strong>di</strong> una situazione potessero essere<br />

tenute più in considerazione, in un luogo organizzato, e non lasciate in un luogo che poteva essere<br />

caratterizzato da molti rischi. Quin<strong>di</strong> le intenzioni potevano essere anche le migliori, per aver<br />

trasformato il termine clinico in un senso così <strong>di</strong>verso dal suo significato etimologico originale.<br />

Però il rischio è stato quello <strong>di</strong> far prevalere l’organizzazione del luogo rispetto ai bisogni<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo, e quin<strong>di</strong> a far <strong>di</strong>ventare la clinica un luogo organizzato, a prescindere da chi vi<br />

arriva, che deve conformarsi, deve stare agli orari, all’organizzazione, all’alimentazione, ecc. ecc.<br />

Questo è proprio il rischio <strong>della</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong>. Le professioni <strong>della</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong> hanno<br />

la necessità <strong>di</strong> essere, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> avere una data conoscenza, professioni; ed hanno un rischio,<br />

paradossale, che è quello <strong>di</strong> permettersi una <strong>di</strong>sinvoltura che proprio la professione rende<br />

possibile.<br />

Vi è però anche un altro rischio, che deve essere assunto da una buona metodologia: quello<br />

dell’eccesso <strong>di</strong> ascolto. E’ un elemento particolarmente evidente nella prevalenza data ai gran<strong>di</strong><br />

mezzi <strong>di</strong> comunicazione, alla esibizione del proprio bisogno <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>, e quin<strong>di</strong> nella organizzazione<br />

<strong>di</strong> un ascolto che si trasforma in au<strong>di</strong>ence, parola che fa parte <strong>di</strong> un gergo e che trasforma, appunto,<br />

quello che può essere un rapporto, una relazione, in uno sfruttamento. Non ha una <strong>di</strong>fesa facile da<br />

parte delle professioni, che possono cominciare a far prevalere un atteggiamento <strong>di</strong> ascolto<br />

sull’intreccio che dovrebbe esserci tra ascolto per aiutare. Ne può nascere, <strong>di</strong>ciamolo in termini<br />

molto schematici, una sorta <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione del lavoro per cui vi sono delle metodologie improntate<br />

esclusivamente all’ascolto, che però possono avere come effetto quello <strong>di</strong> fare andare con più forza<br />

verso altre metodologie più pragmaticamente ancorate al fornire <strong>aiuto</strong> senza ascoltare. E’ tipico <strong>di</strong><br />

certe situazioni in cui i cambiamenti sono avvenuti all’interno <strong>di</strong> una <strong>di</strong>namica personale che aveva<br />

certamente scoperto una fragilità, aveva in<strong>di</strong>viduato in una certa attenzione, basata sull’ascolto, la<br />

possibilità <strong>di</strong> uscire da quella <strong>di</strong>fficoltà, e si è ritrovata invece a vivere sempre più faticosamente la<br />

<strong>di</strong>fficoltà, e senza uscirne, e improvvisamente ha scoperto, ad esempio, gli psicofarmaci, cioè una<br />

soluzione ritenuta istantaneamente e clinicamente capace, <strong>di</strong> risolvere la situazione. Ci può essere<br />

anche il contrario: un’assunzione <strong>di</strong> psicofarmaci che va verso una incapacità <strong>di</strong> liberarsene per<br />

cercare chi sia capace solo <strong>di</strong> ascolto.<br />

E’ questa <strong>di</strong>visione del lavoro che rende <strong>di</strong>fficile la carica complessa <strong>della</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong>. La<br />

semplificazione può essere una mistificazione. Bisogna tenere insieme <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>mensioni e bisogna<br />

sapere che il rischio maggiore <strong>della</strong> relazione <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> è quella <strong>di</strong> perpetuare la necessità <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>, e<br />

quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> raffigurare l’uscita dall’<strong>aiuto</strong> in termini che sono irrealistici per quella persona, che non


fanno uscire quella persona dall’<strong>aiuto</strong> ma la pongono sempre in confronto a perfezionismi, a ideali,<br />

a immagini che sono al <strong>di</strong> là delle possibilità raggiungibili. A volte l’atteggiamento giusto è proprio<br />

quello <strong>di</strong> porre dei traguar<strong>di</strong> molto avanzati, ma delineando anche i gra<strong>di</strong>ni dell’”un po’”. Tutto si<br />

potrebbe fare, ma cominciando dal “fare un po’”.<br />

Fare: parola che ha un evidente impasto pragmatico, collegato al bisogno proprio <strong>di</strong> realizzare<br />

qualche cosa. Fare significa cominciare a muovere un passo. Nelle relazioni d’<strong>aiuto</strong> che<br />

in<strong>di</strong>viduiamo come particolarmente interessanti per la formazione <strong>di</strong> una modalità professionale,<br />

abbiamo l’esempio <strong>di</strong> qualcuno che professionista non era ma che <strong>di</strong> professionisti, forse, ne ha<br />

incontrati molti. E’ il mitico Bill che è all’origine <strong>della</strong> realtà <strong>degli</strong> Alcoolisti Anonimi, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

tutte le forme <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong> che sono nate da quella straor<strong>di</strong>naria esperienza, in<strong>di</strong>viduando un<br />

percorso fatto <strong>di</strong> “passi”, in cui il tutto è presente come orizzonte ultimo, ma ha bisogno <strong>di</strong> essere<br />

messo nei passi che ciascuno sta facendo. E quin<strong>di</strong> ha bisogno <strong>di</strong> sentire che un passo è un valore, e<br />

non il raggiungimento dell’orizzonte è l’unico valore.<br />

E’ una relativizzazione, qualcuno potrebbe <strong>di</strong>re. Questo è un termine che è vissuto come qualche<br />

cosa <strong>di</strong> sbagliato, “Non bisogna relativizzare” si <strong>di</strong>ce. E’ una relativizzazione, certamente, ma è<br />

rendere possibile un percorso, e quin<strong>di</strong> è la liberazione da un atteggiamento <strong>di</strong> totale <strong>di</strong>pendenza da<br />

qualcuno o da qualcosa, per cominciare a pensare in termini <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendenza che consente l’auto<strong>aiuto</strong>,<br />

e non <strong>di</strong> falsa in<strong>di</strong>pendenza. Dipendenza: un soggetto <strong>di</strong>pende dalla sua fragilità nei confronti<br />

dell’alcool, <strong>della</strong> droga, nei confronti del gioco d’azzardo, nei confronti dell’incapacità <strong>di</strong> assumere<br />

il deficit è. Comincia ad elaborare la <strong>di</strong>pendenza, paradossalmente, come forza che consente <strong>di</strong> fare<br />

un passo, e poi un altro. Nel settore più specifico <strong>di</strong> mia maggiore pratica, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> qualche<br />

competenza, che è quello delle situazioni <strong>di</strong> han<strong>di</strong>cap, si può immaginare che certe forme<br />

associative abbiano formato, non come obiettivo primario ma come elemento indotto, delle<br />

organizzazioni <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong>, cominciando a sentire il bisogno <strong>di</strong> capire il percorso attraverso i passi<br />

da fare, uno dopo l’altro, e non unicamente attraverso quell’orizzonte assoluto <strong>della</strong> liberazione<br />

totale: la conquista <strong>di</strong> una maggiore <strong>di</strong>sinvoltura nei confronti del proprio deficit, o del deficit del<br />

proprio figlio, <strong>della</strong> propria figlia, del proprio congiunto.<br />

La necessità è quella <strong>di</strong> capire la costante <strong>di</strong>pendenza che si ha, con la possibilità che l’accettazione<br />

<strong>della</strong> <strong>di</strong>pendenza sia il muovere il primo passo. E’ il primo passo dei do<strong>di</strong>ci ipotizzati dai gruppi <strong>di</strong><br />

auto<strong>aiuto</strong>, e che permettono <strong>di</strong> avanzare in rapporto anche ad altri, non più in rapporto alla <strong>di</strong>ade io<br />

e lo specialista, un soggetto debole e l’altro forte, ma in rapporto ad altri deboli, che sono <strong>di</strong>versi<br />

ma che hanno in comune proprio la <strong>di</strong>pendenza. Questo del <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong> è uno <strong>degli</strong><br />

elementi più interessanti da esplorare per capire come far propria una metodologia <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong> <strong>di</strong><br />

chi, professionista, dovrebbe ritenersi assolutamente fuori dalla debolezza <strong>di</strong> coloro che sono parte


del <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong>. Chi fa una professione per cui non ha vissuto in prima persona<br />

l’alcoolismo, ma ha trattato gli alcoolisti, sembrerebbe non essere nella necessità <strong>di</strong> rivolgersi agli<br />

stessi alcoolisti per apprendere delle tecniche d’<strong>aiuto</strong>. Invece è così. Invece, questa <strong>di</strong>mensione<br />

dell’auto<strong>aiuto</strong> si rivela feconda, si è già rivelata tale, proprio anche nel riverbero che ha dato a<br />

coloro che svolgono delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>.<br />

Il quadro delle professioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> è cambiato, in questo senso, perché ha messo in moto delle<br />

<strong>di</strong>namiche interessanti, <strong>di</strong> complementarietà e non più <strong>di</strong> assoluto. Anche su questi aspetti si arriva<br />

al relativo: “io sono specialista, ma sono sempre relativamente specialista perfezionabile con<br />

l’incontro <strong>di</strong> colui che mi chiede <strong>aiuto</strong>”.<br />

La <strong>di</strong>namica dell’<strong>aiuto</strong> <strong>di</strong>venta importante per fare uscire dalla con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vittima, e quin<strong>di</strong> per<br />

tenere sotto controllo la tentazione <strong>di</strong> trasformare la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vittima in vittimismo, cioè in una<br />

situazione in cui si comincia ad apprezzare il fatto che la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> vittima fornisce qualche<br />

privilegio non cambiabile con altri ipotetici, e non certi, vantaggi che potrebbero essere all’uscita<br />

<strong>della</strong> con<strong>di</strong>zione stessa <strong>di</strong> vittima.<br />

Questa è una situazione che si ingarbuglia quando si sviluppa in climi familiari, e vi sono ruoli<br />

familiari che vanno a “parlare per…”, e quin<strong>di</strong> chiedono <strong>aiuto</strong> per altri, che hanno bisogno <strong>di</strong> essere<br />

aiutati, ma sembrerebbero non avere la forza <strong>di</strong> domandare. Si innestano <strong>di</strong>namiche complicate, per<br />

interposte persone, e il professionista ha bisogno <strong>di</strong> ascoltare chi parla al posto <strong>di</strong> un altro, e nello<br />

stesso tempo deve stare attento a non <strong>di</strong>ventare una variabile <strong>di</strong>pendente da chi parla al posto <strong>di</strong>…<br />

Sono relazioni complicate, complesse, in cui la formula più importante è proprio ancora quella<br />

dell’auto<strong>aiuto</strong>: “Tu mi <strong>di</strong>ci qualcosa che rivela la necessità <strong>di</strong> creare una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong>, e<br />

quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> fare in modo che chi ha più bisogno <strong>di</strong>venti anche protagonista del suo <strong>aiuto</strong>, non solo<br />

colui nei confronti del quale si eroga l’<strong>aiuto</strong>. E’ la cosa più <strong>di</strong>fficile, se la si <strong>di</strong>ce, e <strong>di</strong>venta più<br />

semplice quando la si pratica. Perché è evidente che molte delle attività che si svolgono all’interno<br />

delle relazioni <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> fanno parte <strong>di</strong> quelle che spesso, nelle riflessioni svolte su questo tema,<br />

vengono in<strong>di</strong>cate come pratiche non <strong>di</strong>scorsive: qualcosa che ha un suo svolgimento nelle<br />

quoti<strong>di</strong>anità pratiche, e che può essere certamente anche espresso anche in parole, raccontato, e<br />

in<strong>di</strong>cato, sapendo bene che le parole trasferiscono una parte minima, perché il più rimane proprio<br />

nelle prassi.<br />

Le relazioni d’<strong>aiuto</strong> sono costituite in gran parte <strong>di</strong> pratiche non <strong>di</strong>scorsive, ed è in queste pratiche,<br />

appunto, che quelle che sembrano, e sono, gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà, rischi continui, si sciolgono<br />

maggiormente. La conclusione non può che essere dunque quella che chi è professionista non può<br />

fare <strong>della</strong> sua professionalità un motivo per sottrarsi alle pratiche che sono insite nelle relazioni<br />

d’<strong>aiuto</strong>.


3. 2. Raggiungere l’altro là dove è arrivato<br />

La relazione d’<strong>aiuto</strong> contiene alcuni elementi <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà quando ha origine da un fatto tragico o<br />

comunque traumatico. Le <strong>di</strong>fficoltà possono essere insite nella stessa causa che ha determinato il<br />

fatto traumatico: un incidente, un evento che interrompe un decorso, e può essere la nascita <strong>di</strong> una<br />

situazione non prevista. Ma, oltre a questo, vi sono <strong>degli</strong> elementi che fanno ritenere più <strong>di</strong>fficile<br />

svolgere una relazione d’<strong>aiuto</strong>, proprio perché il rapporto può essere unicamente fissato sulle<br />

deficienze, sulle calamità. Questo è quanto accade quando vi sono aiuti che nascono da eventi<br />

calamitosi. E’ accaduto per la guerra <strong>della</strong> ex Jugoslavia, e può accadere per molte altre situazioni<br />

<strong>di</strong> cosiddette cause naturali.<br />

Chi aiuta incontra l’altro nel dolore, nella sofferenza, nelle <strong>di</strong>fficoltà, e a volte non sa nulla <strong>di</strong> quella<br />

che era la sua vita precedente. Il rischio maggiore, dunque, è quello <strong>di</strong> fissare l’altro nell’immagine<br />

che si incontra nel momento dell’<strong>aiuto</strong>. Perché questo è un rischio? Perché contiene implicitamente<br />

una sorta <strong>di</strong> amputazione <strong>di</strong> quelle che erano le <strong>di</strong>namiche precedenti <strong>della</strong> vita dell’altro, e la<br />

possibilità che nasca da quel momento un desiderio <strong>di</strong> assimilazione, non <strong>di</strong> raggiungere il<br />

superamento <strong>della</strong> <strong>di</strong>fficoltà nella propria normalità, piuttosto nella normalità <strong>di</strong> chi aiuta. Certo,<br />

questo non può avvenire sempre nei termini così schematici, come lo stiamo profilando, proprio<br />

perché l’uscita dalla situazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà può consentire all’altro la ripresa dei suoi elementi <strong>di</strong><br />

volontà, e quin<strong>di</strong> il collegamento con la sua storia. Il vittimismo è però in agguato. La possibilità <strong>di</strong><br />

consentire il volere <strong>di</strong> chi aiuta, ritenendolo necessario per mantenere gli aiuti, è il rischio maggiore<br />

che si corre in questa situazione. Quando poi è una situazione che non ha dei singoli come<br />

protagonisti ma intere popolazioni, si può con molta facilità arrivare a cancellare la pluralità che è<br />

all’interno <strong>di</strong> una comunità nazionale, o comunque territoriale, per rinchiuderla in uno stereotipo<br />

unico. E allora si comincia a delineare la tipologia molto pericolosa etnica o etnoculturale,. Sempre<br />

la ex Jugoslavia può essere il motivo <strong>di</strong> riflessione per capire quali sono le <strong>di</strong>fficoltà delle relazioni<br />

d’<strong>aiuto</strong>, a questo livello.<br />

Ma per cercare <strong>di</strong> collegare situazioni così vaste a episo<strong>di</strong> e a vicende molto più minute, può essere<br />

interessante riflettere sulla qualità, e quin<strong>di</strong> l’efficacia, <strong>della</strong> riabilitazione, quando essa può tenere<br />

conto <strong>di</strong> quelle che sono le caratteristiche del soggetto, precedentemente all’evento traumatico. Un<br />

caso è rimasto, nella letteratura, abbastanza interessante e per certi versi unico per le caratteristiche<br />

del soggetto che ha vissuto l’evento traumatico. Si tratta del caso <strong>di</strong> un <strong>di</strong>segnatore, il quale per un<br />

incidente visse un trauma che gli procurò la per<strong>di</strong>ta del linguaggio. Sabadel è un <strong>di</strong>segnatore<br />

conosciuto nell’ambiente, e le sue <strong>di</strong>sgrazie cominciarono dal momento in cui, in vacanza, ebbe un<br />

trauma per un incidente. Fu ospedalizzato e si ritrovò incapace <strong>di</strong> usare il linguaggio, quin<strong>di</strong> afasico,


in una situazione che, apparentemente, gli impe<strong>di</strong>va anche <strong>di</strong> organizzare dei processi logici.. Il<br />

tentativo <strong>della</strong> rieducazione linguistica fu sviluppato attraverso una concessione, una prassi<br />

inconsueta, dovuta alla conoscenza delle caratteristiche <strong>di</strong> Sabadel. L’ortofonista, o logope<strong>di</strong>sta,<br />

apparentemente abbandonò la rieducazione fonologica mettendo a <strong>di</strong>sposizione del paziente fogli <strong>di</strong><br />

carta bianchi, e <strong>di</strong> colore, e una certa quantità <strong>di</strong> pastelli, matite, pennarelli, che consentissero la<br />

scelta dello strumento più morbido o più duro, più adatto alla sua espressione grafica. La<br />

rieducazione linguistica, paradossalmente, cominciò non dalla parola ma dal tratto grafico.<br />

La documentazione del percorso riabilitativo è assai intelligente e interessante perché Sabadel<br />

arrivò a ricostruire col segno grafico quello che era accaduto alla sua testa, al suo cervello. Arrivò a<br />

<strong>di</strong>segnare una figura con una testa <strong>di</strong>mezzata, in cui una parte era molto ben raffigurata, mentre<br />

l’altra non c’era, per poi passare ad una testa aperta da cui erano scappati fuori tanti omini, come se<br />

fossero le parole, trasformate ciascuna con la sembianza <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo, e che erano scappate<br />

chissà dove. E poi questi omini ritornavano. Ma le sequenze dei <strong>di</strong>segni sono molto più lente <strong>di</strong><br />

quanto <strong>di</strong>ce la ricostruzione, anche perché gli omini-parole uscivano e entravano, quasi fossero<br />

incerti se abitare il cervello oppure lasciarlo vuoto. E la ricostruzione del cervello avvenne<br />

attraverso una serie <strong>di</strong> <strong>di</strong>segni che erano anche il tormento <strong>di</strong> qualcosa che sembrava non essere più<br />

proprio, ma che piano piano si poteva invece riorganizzare nell’ambito <strong>della</strong> propria identità.<br />

Parallelamente alla precisione del <strong>di</strong>segno e alla nitidezza <strong>di</strong> una ricostruzione che il <strong>di</strong>segno voleva<br />

sempre più completa riapparivano anche i fonemi, l’organizzazione del linguaggio e, poco dopo,<br />

con la capacità <strong>di</strong> padroneggiare la figura umana e <strong>di</strong> completare il percorso <strong>di</strong> riambientamento<br />

<strong>della</strong> sua testa, Sabadel poteva riprendere a parlare.<br />

Questa documentazione è strao<strong>di</strong>nariamente interessante e ci può <strong>di</strong>mostrare qualcosa che non ha<br />

una specificità straor<strong>di</strong>naria e irripetibile, ma che può essere ripetuta, ed è <strong>di</strong> fatto ripetuta, tutte le<br />

volte che la relazione d’<strong>aiuto</strong> non si chiude a una tecnica senza riconoscere la <strong>di</strong>namica storica<br />

personale dell’altro, ma riesce ad in<strong>di</strong>viduare il collegamento fra la proposta tecnica, che ci deve<br />

essere, e senza la quale non si può procedere, e la vita dell’altro con le sue caratteristiche. Non è<br />

sempre facile, anzi, si può <strong>di</strong>re che è l’aspetto più <strong>di</strong>fficile delle relazioni d’<strong>aiuto</strong>, perché il pronto<br />

intervento non consente il tempo <strong>della</strong> conoscenza dell’altro. Però è possibile. Non nella nitidezza<br />

del percorso compiuto dal caso Sabadel, ma nel rapporto che può venire attraverso i gesti, attraverso<br />

i segni dello sguardo, e le possibilità <strong>di</strong> curare con molta attenzione l’organizzazione <strong>della</strong><br />

quoti<strong>di</strong>anità. Non sempre questo è possibile. Evocando gli aiuti alle popolazioni che hanno<br />

complessivamente vissuto <strong>degli</strong> eventi drammatici che possono essere guerre, terremoti,<br />

inquinamenti atmosferici, alluvioni, si capisce bene come si giocano le relazioni d’<strong>aiuto</strong> in<br />

situazioni che sono quantomai <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nate, catastrofiche, e in cui proprio la quoti<strong>di</strong>anità subisce dei


duri attacchi. Lo stesso momento del cibo, che potrebbe essere il segnalatore <strong>di</strong> molti elementi<br />

caratteristici <strong>della</strong> vita dell’altro incontrato in quel momento, <strong>di</strong>venta un momento particolarmente<br />

caotico, complicato. Però la situazione <strong>di</strong> emergenza dovrebbe finire, e nella situazione <strong>di</strong> normalità<br />

dovrebbero essere possibili le letture dei segni che permettano <strong>di</strong> riallacciare l’intervento <strong>di</strong><br />

emergenza e l’<strong>aiuto</strong> che in quel momento si è dato, alla precedente storia <strong>di</strong> quella popolazione e dei<br />

suoi in<strong>di</strong>vidui, nella loro molteplicità. Dovrebbe riaprirsi la molteplicità <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>vidui, e aprire,<br />

quin<strong>di</strong>, la possibilità <strong>di</strong> non avere unicamente l’<strong>aiuto</strong> ma <strong>di</strong> avere anche una vita propria, privata,<br />

non esibita, in cui l’invadenza non è ammessa.<br />

Nella relazione <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> un altro dei punti delicati è quello che riguarda la necessità <strong>di</strong> non essere dei<br />

profittatori <strong>della</strong> situazione, invadendo il privato dell’altro. E’ necessario poter mantenere una<br />

riservatezza. Chi aiuta deve sapere che un suo compito consiste nel proteggere l’altro da una troppo<br />

rapida messa a <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> tutto quello che è il suo spazio intimo. Per essere aiutato, una<br />

persona può veramente sacrificare tutto; è chi aiuta che deve sapersi fermare, saper rispettare o<br />

sapere che anche quell’invasione che è stato costretto a fare dell’intimità dell’altro deve essere poi,<br />

in qualche modo, circoscritta e ritenuta eccezionale, per riprendere una possibilità <strong>di</strong> vita propria<br />

<strong>di</strong>stinta dalla vita comune. Queste situazioni sono sicuramente sotto gli occhi <strong>di</strong> tutti, e quin<strong>di</strong><br />

hanno una possibilità <strong>di</strong> avere una riflessione molto più ampia e completa <strong>di</strong> quella che altre<br />

situazioni <strong>di</strong> cura non rendono possibile. Le psicoterapie, a volte, sono un fatto del tutto privato che<br />

nessuno conosce, mentre gli aiuti evocati da questa riflessione sono sotto gli occhi <strong>di</strong> tutti. E qui vi è<br />

l’altra ben nota deriva possibile, che è verso la spettacolarizzazione e verso la complicazione<br />

dell’attivismo d’<strong>aiuto</strong>, che non consente più riflessione, per cui chi aiuta ha una sorta <strong>di</strong> frenesia <strong>di</strong><br />

aiutare, senza più avere una possibilità <strong>di</strong> riprendere un tempo <strong>di</strong> riflessione, per capire quanto sia<br />

stato possibile uscire dall’<strong>aiuto</strong> e dall’emergenza.<br />

Vi sono regole che possono costruire un vero e proprio piccolo percorso <strong>di</strong> prassi delle relazioni<br />

d’<strong>aiuto</strong>. Una fondamentale è quella che nelle relazioni d’<strong>aiuto</strong> nessuno deve uscire sconfitto. Se si è<br />

in una relazione d’<strong>aiuto</strong> non possiamo assumere il tono e la volontà <strong>di</strong> vedere l’altro sconfitto, cioè<br />

<strong>di</strong> arrivare a determinare il torto dell’altro. L’<strong>aiuto</strong> esige che tutti possano avere la loro parte <strong>di</strong><br />

ragione. Questo è molto interessante se riportato a quelle che sono, ormai, le offerte <strong>di</strong> cure<br />

alternative, molto <strong>di</strong>vulgate e che introducono, a volte, nella situazione d’<strong>aiuto</strong> un elemento che<br />

porta a situazioni quasi da tifo sportivo, per cui bisogna essere pro o contro una certa cura. Si pensi<br />

al fenomeno molto <strong>di</strong>vulgato dai gran<strong>di</strong> mezzi <strong>di</strong> informazione del caso Di Bella, in cui si rischiava,<br />

e si rischia tuttora, <strong>di</strong> perdere <strong>di</strong> vista la relazione d’<strong>aiuto</strong> per determinare esaltazioni <strong>di</strong> un metodo,<br />

oppure accanimento contro lo stesso metodo. Analoga situazione avvenne al tempo in cui San<br />

Patrignano e il suo fondatore, Muccioli, erano agli onori <strong>della</strong> cronaca: si rischiava continuamente


<strong>di</strong> perdere <strong>di</strong> vista la regola aurea <strong>della</strong> relazione d’<strong>aiuto</strong> per determinare la volontà <strong>di</strong> mandare<br />

qualcuno a casa sconfitto, giu<strong>di</strong>cato perdente, oppure vincente, a seconda se si era a favore o contro<br />

il metodo. E’ vero che certe situazioni <strong>di</strong> “protagonismo <strong>degli</strong> inventori” <strong>di</strong> un metodo hanno come<br />

conseguenza proprio questa organizzazione da fanatismo. Ma sta a noi riprendere il tono più adatto<br />

e più giusto, in cui si devono collocare queste situazioni, che è quello delle situazioni d’<strong>aiuto</strong> in cui<br />

nessuno deve andare via sconfitto.<br />

Nelle riabilitazioni <strong>di</strong> soggetti han<strong>di</strong>cappati è presente qualche proposta che rischia sempre <strong>di</strong><br />

mettere in atto delle <strong>di</strong>namiche da sette o da tifo sportivo. La nostra professionalità si gioca sulla<br />

possibilità <strong>di</strong> capire il perché una certa proposta viene accettata, e questo non è solo per la proposta<br />

in sé quanto per gli elementi che induce e che apre, <strong>di</strong> contorno, e che, per chi vive una situazione <strong>di</strong><br />

han<strong>di</strong>cap, possono essere fondamentali. Può essere, per esempio, la possibilità <strong>di</strong> avere un certo<br />

numero <strong>di</strong> volontari, che aiutano, entrano in casa, tolgono dalla solitu<strong>di</strong>ne; e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> ricostruire<br />

quella rete, che all’inizio <strong>della</strong> nostra riflessione avevamo in<strong>di</strong>cato come fondamentale. La rete<br />

sociale sembra sparire, lasciando il vuoto attorno. La proposta riabilitativa ha l’effetto <strong>di</strong><br />

sembrare ricostruirla. Se non si capiscono questi elementi complessi, mettendosi nei panni<br />

dell’altro, si arriva facilmente a rompere la regola <strong>della</strong> necessità <strong>di</strong> non mandar nessuno via<br />

sconfitto. E si arriva a considerare l’altro come a uno che ha torto, a cui si deve dare torto, in nome<br />

<strong>della</strong> scienza. La scienza, con la relazione d’<strong>aiuto</strong>, ha necessità <strong>di</strong> fare alleanze precise, che sono<br />

proprio in questa regola: conoscere molto bene la realtà, e non solo un suo aspetto.<br />

Un secondo elemento importante, una seconda regola, è quello <strong>di</strong> ritenere utile non perpetuare la<br />

relazione d’<strong>aiuto</strong> con una <strong>di</strong>visione <strong>di</strong> ruoli, “chi aiuta” e “chi è aiutato”, ma cercare <strong>di</strong> aprire<br />

quanto prima possibile una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> rovesciamento dei ruoli o <strong>di</strong> apertura a terze situazioni, che<br />

permettono a chi è aiutato, a sua volta <strong>di</strong> aiutare. L’abbiamo già trovata, questa situazione e questa<br />

regola, negli esempi dei gruppi <strong>di</strong> auto<strong>aiuto</strong>.<br />

La terza regola è quella <strong>di</strong> non pensare che un <strong>aiuto</strong> possa <strong>di</strong>ventare l’<strong>aiuto</strong>. L’universalismo<br />

dell’<strong>aiuto</strong> non esiste. L’assoluto dell’<strong>aiuto</strong> può essere la più grande violenza che si possa<br />

commettere, anche perché sembra, può sembrare, un’aureola, e quin<strong>di</strong> una semplificazione, mentre<br />

l’<strong>aiuto</strong> non esiste ed esistono gli aiuti, sempre rapportabili a contesti. Abbiamo già fatto riferimento<br />

a questa necessità <strong>di</strong> un relativismo, che non ha possibilità <strong>di</strong> essere negativo. Come tutte le parole<br />

ha una polisemia: in questo caso, il significato è positivo, e dobbiamo fare che sia positivo. Perché<br />

la pericolosità dell’assolutizzazione <strong>di</strong> un <strong>aiuto</strong> è insita in tante le violenze che possiamo leggere,<br />

anche attraverso questa chiave <strong>di</strong> lettura.<br />

Infine, la regola che per questa riflessione consideriamo conclusiva, è quella del realismo. Realismo<br />

significa considerare la realtà dell’altro. Nella realtà c’è certamente la possibilità <strong>di</strong> una crescita, <strong>di</strong>


una <strong>di</strong>namica; ma crescita e sviluppo compatibili, quin<strong>di</strong> capaci <strong>di</strong> trovare nelle proprie risorse la<br />

possibilità progressiva, e non nelle risorse <strong>di</strong> altri, forse dei salvatori. Imporre dei modelli attraverso<br />

gli aiuti è un elemento <strong>di</strong> violenza. Su questo punto è utile, però, fare un’ulteriore piccola riflessione<br />

che riguarda la possibilità che, uscendo dai ruoli rigi<strong>di</strong> <strong>di</strong> chi aiuta e chi è aiutato vi sia una certa<br />

confusione feconda, che permetta <strong>di</strong> avere delle commistioni, e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> mettere qualche cosa nella<br />

vita <strong>degli</strong> altri lasciando, però, che qualche cosa <strong>della</strong> vita <strong>degli</strong> altri entri nella nostra. Questo è<br />

l’elemento più interessante <strong>di</strong> chi ha delle esperienze d’<strong>aiuto</strong> ed è quello che compensa, a volte, <strong>di</strong><br />

una certa fatica. Scoprire che l’altro, che poteva essere percepito unicamente come in<strong>di</strong>viduo da<br />

aiutare, ha capacità <strong>di</strong> aiutare: invece <strong>di</strong> essere solo aiutato <strong>di</strong>venta anche aiutante. E’ qualcosa che<br />

noi dovremmo ricordare e riprendere sempre a proposito <strong>di</strong> quel filone <strong>della</strong> Pedagogia che si<br />

chiama Pedagogia Istituzionale, in cui il punto più delicato è quello <strong>di</strong> non isolare mai l’elemento<br />

istituzionale solo nell’istituito, ma <strong>di</strong> permettere sempre un’apertura all’istituente. Ed è questa la<br />

carta vincente <strong>della</strong> <strong>di</strong>mensione educativa, senza la quale si ha un’imposizione d’<strong>aiuto</strong>, e non una<br />

relazione d’<strong>aiuto</strong>.<br />

NOTA BIBLIOGRAFICA<br />

Alcolisti Anonimi,A.A. Alcolisti Anonimi, Roma, 1991.<br />

SABADEL, L’homme qui ne savait plus parler, Nouvelles é<strong>di</strong>tions Bau<strong>di</strong>nière, Millau, 1980.


4.1. Una classe come <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong><br />

IV<br />

AIUTARSI AD IMPARARE<br />

Proviamo ad immaginare che una classe abbia le stesse caratteristiche <strong>di</strong> un <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. La<br />

prima cosa è capire meglio che cosa significa essere un <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. L’esperienza più nota<br />

dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> è quella <strong>degli</strong> alcoolisti anonimi. Il mitico fondatore <strong>degli</strong> alcoolisti<br />

anonimi è stato Bill, l’alcoolista. Quin<strong>di</strong> non uno specialista, ma qualcuno che, vivendo una vera e<br />

propria trage<strong>di</strong>a personale, capì quanto poteva essere utile incontrare altre persone che avevano lo<br />

stesso bisogno, perché vivevano analoghe trage<strong>di</strong>e. e come potesse essere importante iniziare un<br />

percorso, che <strong>di</strong>venne poi organizzato in do<strong>di</strong>ci tappe, a partire dal riconoscimento <strong>di</strong> una propria<br />

incapacità ad essere più forti dell’alcool, quin<strong>di</strong> a partire dalla propria debolezza e dal<br />

riconoscimento <strong>della</strong> propria <strong>di</strong>pendenza.<br />

La storia <strong>di</strong> questo modo <strong>di</strong> trovare <strong>aiuto</strong> in se stesso e con altre persone che vivono dello stesso<br />

bisogno e <strong>della</strong> stessa <strong>di</strong>pendenza è <strong>di</strong>ventata quasi leggendaria, e ha trasmesso, come una proposta<br />

con le sue caratteristiche tecniche, la stessa possibilità ad altri che vivono altri bisogni e altre<br />

<strong>di</strong>pendenze: la <strong>di</strong>pendenza dalle droghe, quella dal cibo, anche quella dal gioco, ed altre <strong>di</strong>verse<br />

<strong>di</strong>pendenze. Viene da domandarsi che possibilità ha questa riflessione <strong>di</strong> avere uno sviluppo pratico<br />

e <strong>di</strong> proporsi con una certa coerenza, dal momento che una classe non è composta da persone che<br />

hanno <strong>di</strong>pendenze da sostanze. Proviamo, invece, a ragionare in questi termini: una classe è un<br />

<strong>gruppo</strong> che ha una <strong>di</strong>pendenza dal fatto che deve apprendere ed è ignorante o, per <strong>di</strong>r meglio, ha un<br />

bisogno in comune: quello dell’appren<strong>di</strong>mento. Se poi siamo in una classe composta da bambini e<br />

bambine o da ragazzi e ragazze il <strong>gruppo</strong> ha bisogno <strong>di</strong> crescere e <strong>di</strong> crescere apprendendo. E’<br />

proprio nell’incontro che possiamo provare - si potrebbe anche quasi <strong>di</strong>re inventare, nel senso <strong>di</strong><br />

scoprire qualcosa che però è già presente nella realtà - che vi possono essere delle interessanti<br />

analogie con il <strong>gruppo</strong> o i gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>.<br />

Occorre mettere da parte un certo pregiu<strong>di</strong>zio e cioè che il termine “<strong>aiuto</strong>” <strong>di</strong>venti attuale<br />

unicamente in presenza <strong>di</strong> situazioni anomale, atipiche, in presenza <strong>di</strong> incidenti o <strong>di</strong> bisogni<br />

particolari. E’ un pregiu<strong>di</strong>zio; in realtà ci possono essere necessità specifiche per aiuti specifici, ma<br />

tutti coloro che fanno parte <strong>di</strong> un <strong>gruppo</strong> che ha una sua finalità hanno bisogno <strong>di</strong> un <strong>aiuto</strong> per<br />

raggiungere quella finalità, e in particolare un <strong>gruppo</strong> classe ha bisogno <strong>di</strong> aiuti per arrivare a<br />

realizzare quello che è l’obiettivo complessivo dell’incontro che si realizza con l’ingresso in una<br />

classe, quello <strong>di</strong> crescere apprendendo, <strong>di</strong> imparare crescendo. Proviamo ad avere un’attenzione<br />

strutturale all’<strong>aiuto</strong> nell’appren<strong>di</strong>mento senza che questo sia attivato unicamente per situazioni


particolari. Proviamo, quin<strong>di</strong>, a immaginare che la programmazione <strong>di</strong> un <strong>gruppo</strong> classe parta<br />

proprio da quelle che sono le attività necessarie per aiutare e creare un <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. Molte<br />

volte succede esattamente il contrario: si pensa a tutto, si pensa a quali attività <strong>di</strong>dattiche svolgere,<br />

si organizzano i tempi e gli spazi per queste attività e non si prevedono tempi e spazi per sviluppare<br />

una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> e <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. Solo quando vi fossero casi particolari, <strong>di</strong>fficoltà particolari,<br />

sarebbero ricercate delle forme <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> altrettanto particolari.<br />

Riteniamo che questa sia una logica <strong>di</strong>fettosa perché la particolarità viene in qualche modo<br />

invocata, indotta, anche senza volerlo. E’ una nota <strong>di</strong>namica oggi più che mai richiamata dai gran<strong>di</strong><br />

mezzi <strong>di</strong> informazione: chi ha bisogno <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> deve affacciarsi alla vita <strong>degli</strong> altri con qualche cosa<br />

che sia più visibile, più clamoroso <strong>di</strong> quello che è il semplice <strong>aiuto</strong>. Deve quin<strong>di</strong> drammatizzare. La<br />

mancanza <strong>di</strong> un’attenzione all’<strong>aiuto</strong> che vorremmo chiamare “normale”, proprio <strong>di</strong> un <strong>gruppo</strong> che<br />

deve apprendere, che incontra il bisogno <strong>di</strong> organizzare il proprio appren<strong>di</strong>mento, fa nascere la<br />

drammatizzazione dell’<strong>aiuto</strong>. E chi è più fragile, chi ha maggiori <strong>di</strong>fficoltà, <strong>di</strong>venta l’elemento che<br />

apre una prospettiva sperando – questa è la nostra speranza, naturalmente – che la prospettiva sia<br />

del <strong>gruppo</strong> classe e non sia una prospettiva che <strong>di</strong>vida.<br />

Come si sviluppa la proposta dall’auto-<strong>aiuto</strong> legata alla tra<strong>di</strong>zione – ormai si può parlare in questi<br />

termini – dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>? Va rilevato che i gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> non sono nati da chi era<br />

fuori dal bisogno ma <strong>di</strong>rettamente da chi viveva il bisogno. Questa potrebbe essere una <strong>di</strong>fficoltà,<br />

perché potrebbe tradursi letteralmente che in questo:noi siamo fermi e aspettiamo che sia un<br />

bambino o una bambina, un ragazzo o una ragazza, ad attivarsi per organizzare il <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<br />

<strong>aiuto</strong>. In realtà questo accade, ma ha bisogno, proprio per la natura estrinseca e intrinseca del<br />

<strong>gruppo</strong> classe, <strong>di</strong> una rilevanza e <strong>di</strong> una legittimazione da parte dell’insegnante. Gli elementi che<br />

possono far nascere l’auto-<strong>aiuto</strong> sono propri del <strong>gruppo</strong> e <strong>di</strong> un singolo o <strong>di</strong> alcuni singoli che fanno<br />

parte del <strong>gruppo</strong>. L’insegnante che nel <strong>gruppo</strong> è parte e nello stesso tempo è osservatore, o<br />

osservatrice, ha la possibilità <strong>di</strong> valorizzare e dare forza alla <strong>di</strong>namica dell’auto-<strong>aiuto</strong>.<br />

L’insegnante può formalizzare alcune forme spontanee o implicite ai rapporti fra pari. Tale è, ad<br />

esempio, il rapporto e la proposta <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>-reciproco. Il rapporto <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> reciproco è, con tutta<br />

probabilità, presente nelle <strong>di</strong>namiche che si sviluppano spontaneamente in un <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> pari. Se vi<br />

sono le con<strong>di</strong>zioni – certamente -; perché potrebbero essere soffocate sul nascere da con<strong>di</strong>zioni<br />

avverse. Ma, qualora vi fossero spazi e tempi per tale sviluppo, vi potrebbero essere dei rapporti <strong>di</strong><br />

mutuo <strong>aiuto</strong>. L’insegnante non si accontenta <strong>di</strong> essere spettatore passivo <strong>di</strong> tali possibili, non<br />

scontati, rapporti <strong>di</strong> mutuo <strong>aiuto</strong>, ma deve anche proporli. E allora deve dare a questa proposta una<br />

sostanza strutturata; è per questo che è consigliabile essere molto attenti a non in<strong>di</strong>viduare il tutore,<br />

nella coppia <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>, fra coloro che possono essere definiti i primi <strong>della</strong> classe, così come è molto


importante in<strong>di</strong>viduare uno spazio dove si svolga l’attività <strong>della</strong> coppia <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong>-reciproco, e<br />

sottolinei l’importanza <strong>di</strong> questo impegno e non venga invece interpretato come uno spazio<br />

continuamente <strong>di</strong>sturbato da ingressi, marginale rispetto alle attività che hanno <strong>di</strong>gnità nella<br />

struttura scolastica o connotato come un luogo in cui si depositano le cose che non servono:<br />

scatoloni, mobili, o altro. Deve essere uno spazio tale da confermare quello che dovrebbe essere<br />

espresso nelle parole, e cioè che si tratta <strong>di</strong> un impegno <strong>di</strong> una qualche importanza.<br />

E’ anche utile strutturare bene il tempo e dare delle consegne tali da permettere l’instaurarsi <strong>di</strong> un<br />

rapporto <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> non sottoposto all’arbitrio. E’ bene avere, nello svolgimento dell’<strong>aiuto</strong>, del<br />

materiale che organizzi il rapporto secondo una certa me<strong>di</strong>azione, e non pensare che il risultato<br />

debba essere necessariamente legato al raggiungimento <strong>di</strong> una performance ma debba essere più<br />

legato al tempo che passa: mezz’ora è un tempo <strong>di</strong> una certa importanza e deve passare quella<br />

mezz’ora in una attività prevista, non deve esserci un tempo aperto e che si chiude unicamente<br />

quando si raggiunge una performance. Non è questo il buon motivo dell’<strong>aiuto</strong> reciproco. L’<strong>aiuto</strong> è<br />

più legato a una possibilità <strong>di</strong> trascorrere una unità <strong>di</strong> tempo rilevante, ma non esagerata, facendo<br />

una certa attività in due ruoli <strong>di</strong>versi.<br />

E’ poi anche utile non pensare ad un lungo calendario <strong>di</strong> incontri <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> reciproco ma a un breve<br />

calendario, composto da quattro incontri, forse rinnovabili, una volta alla settimana, tali da<br />

consentire una prova che è sostenibile. Possiamo immaginare che ci possa anche essere una coppia<br />

male assortita o una sopraffazione da parte <strong>di</strong> chi è nel ruolo <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> all’altro. Questa sopraffazione<br />

è sostenibile per qualche tempo, e non sarebbe sostenibile se durasse tutto l’anno. E’ poi la necessità<br />

<strong>di</strong> capire che non si tratta <strong>di</strong> gerarchizzare i ragazzi e le ragazze in chi aiuta e chi è aiutato, ma <strong>di</strong><br />

entrare in ruoli <strong>di</strong>versi. Questa è una proposta che nasce da una possibilità presente nelle <strong>di</strong>namiche<br />

informali e spontanee tra coetanei e che viene ripresa e formalizzata dall’insegnante. Ci si potrebbe<br />

allora domandare se la proposta <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> reciproco debba essere tale unicamente quando si siano<br />

osservate delle attività <strong>di</strong> mutuo <strong>aiuto</strong> spontanee. Non è così. Riteniamo che si possa presumere che<br />

in qualsiasi <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> pari, in qualsiasi con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita non costretta, nascano delle <strong>di</strong>namiche <strong>di</strong><br />

mutuo <strong>aiuto</strong>, ed è quin<strong>di</strong> da questa presunzione <strong>di</strong> una realtà, non dalla necessità <strong>di</strong> rilevarla nel suo<br />

svolgimento, che nasce la proposta. Questo è certamente un’assunzione <strong>di</strong> responsabilità da parte<br />

<strong>degli</strong> insegnanti ma è tale in rapporto a una possibilità affermata e verificabile, e non in base a un<br />

giu<strong>di</strong>zio arbitrario.<br />

Questo esempio ci può far capire che il punto <strong>di</strong> partenza è analogo a quello dell’esperienza storica<br />

dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>: i protagonisti sono gli stessi che vivono la situazione <strong>di</strong> bisogno. Può<br />

essere pensato, il <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, anche in funzione <strong>di</strong> una vita sociale, che è propria del<br />

<strong>gruppo</strong> classe, non clandestina, non ritenuta indegna <strong>di</strong> essere affrontata con la parola. E questo è


l’altro strumento interessante che si chiama il Consiglio. Di cosa si tratta? Si tratta <strong>di</strong> un tempo<br />

preciso, in calendario, concordato, durante il quale il <strong>gruppo</strong> classe ha la possibilità <strong>di</strong> affrontare<br />

quelle che sono le problematiche, i temi, gli argomenti che riguardano la vita <strong>di</strong> relazione del<br />

<strong>gruppo</strong> classe stesso. Non vorremmo enfatizzare gli aspetti relazionali, e dare a questi un primato<br />

assoluto su tutta l’attività <strong>di</strong>dattica. Ma proprio per non enfatizzarli è opportuno dare loro lo spazio<br />

giusto. Come per la proposta <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> in generale, gli aspetti relazionali non possono essere imposti<br />

unicamente a seguito <strong>di</strong> incidenti, a seguito <strong>di</strong> presenze che rendano le situazioni <strong>di</strong>fficili. Non è<br />

tanto sensato, e non è neanche giusto, accorgersi dell’importanza delle relazioni unicamente quando<br />

vi sono <strong>di</strong>fficili relazioni. Non è neanche sensato e non è neanche giusto fare che tutto il tempo del<br />

<strong>gruppo</strong> classe sia una continua esplorazione delle relazioni. Si può immaginare che l’attività<br />

<strong>di</strong>dattica sia come il lavoro: occorre lavorare, occorre applicarsi e realizzare determinati impegni<br />

che sono propri dell’appren<strong>di</strong>mento, e quin<strong>di</strong> anche dell’insegnamento, visto che parliamo anche <strong>di</strong><br />

una possibilità <strong>di</strong> presenza anche <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> reciproco e <strong>di</strong> mutuo insegnamento.<br />

Affermato questo va anche detto che gli aspetti delle relazioni che in un <strong>gruppo</strong> sono inevitabili<br />

possono avere la loro importanza proprio in funzione dell’appren<strong>di</strong>mento. Gli appren<strong>di</strong>menti hanno<br />

bisogno <strong>di</strong> un contesto che sicuramente è composto da una parte materiale: spazio, arre<strong>di</strong>, e, sembra<br />

immateriale ma collocato all’interno <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>mensione, vi è anche il tempo, l’organizzazione del<br />

tempo, e un aspetto legato alle presenze e alle relazioni che si stabiliscono fra i <strong>di</strong>versi soggetti.<br />

Il Consiglio è il tempo, precisato dal calendario – si può pensarlo con un ritmo bisettimanale -,<br />

de<strong>di</strong>cando ad esso un tempo preciso che può essere <strong>di</strong> un’ora e mezza o <strong>di</strong> un tempo che si ritiene<br />

compatibile con l’organizzazione <strong>di</strong> un calendario permanente, e ha una sua strutturazione<br />

organizzativa che prevede un presidente, che presiede il Consiglio, un verbalizzatore, la definizione<br />

<strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne del giorno, e quin<strong>di</strong> la possibilità, che è da segnalare, che troppi argomenti in or<strong>di</strong>ne<br />

del giorno o un tempo de<strong>di</strong>cato a un solo argomento, non permetta <strong>di</strong> affrontare come si deve tutti i<br />

punti.<br />

Il tempo non è aperto a ciò che si vuole ma è stabilito in partenza: non si può ritenere che non<br />

avendo conclusa una <strong>di</strong>scussione o uno scambio <strong>di</strong> idee su tutti i punti dell’or<strong>di</strong>ne del giorno non si<br />

chiuda all’ora stabilita il Consiglio ma lo si tenga aperto finché non sono esauriti gli argomenti.<br />

Questo non funziona, e perché non funziona? Perché questo darebbe luogo a quello che proprio<br />

l’attenzione allo stabilirsi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>namica <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> nel <strong>gruppo</strong> classe non vuole che <strong>di</strong>venti<br />

l’unico modo <strong>di</strong> funzionare, e cioè la logica dell’emergenza. La possibilità <strong>di</strong> riprendere, al<br />

prossimo incontro, e <strong>di</strong> organizzarsi meglio nelle proprie logiche permette <strong>di</strong> educarsi all’auto-<strong>aiuto</strong><br />

e <strong>di</strong> educarsi alla strutturazione del Consiglio. E’ quin<strong>di</strong> uno strumento che esige una pratica per un<br />

lungo periodo. Neanche, potremmo <strong>di</strong>re, per un anno ma per più anni. Se gli insegnanti possono


fare un ragionamento su più anni <strong>di</strong> permanenza nello stesso <strong>gruppo</strong> classe è pensabile e possibile<br />

che il Consiglio <strong>di</strong>venti un’abitu<strong>di</strong>ne organizzativa che consente <strong>di</strong> affrontare gli argomenti così<br />

come si producono, e anche <strong>di</strong> avere una memoria <strong>della</strong> vita del <strong>gruppo</strong> e <strong>della</strong> sua crescita. Non è<br />

tempo, quin<strong>di</strong>, che debba essere ricavato unicamente se nascono delle <strong>di</strong>fficoltà ma deve essere<br />

organizzato in<strong>di</strong>pendentemente dall’insorgere <strong>di</strong> incidenti o dalla presenza <strong>di</strong> casi particolari che<br />

esigono particolare attenzione.<br />

Anche in questo senso vi può essere un’ analogia con la <strong>di</strong>namica e l’organizzazione dei gruppi <strong>di</strong><br />

auto-<strong>aiuto</strong> che esigono tempo, esigono un percorso. Ricordavamo, all’inizio <strong>di</strong> questa riflessione,<br />

che nella strutturazione che l’esperienza storica <strong>degli</strong> alcoolisti anonimi ha dato al percorso<br />

dell’auto-<strong>aiuto</strong> vi sono do<strong>di</strong>ci tappe. E vi sono quin<strong>di</strong> delle possibilità <strong>di</strong> crescita in<strong>di</strong>viduale, il<br />

punto in cui ciascuno è su questo percorso delle do<strong>di</strong>ci tappe, che stanno insieme alla logica del<br />

<strong>gruppo</strong>. Vi è quin<strong>di</strong> una strutturazione che è nello stesso tempo <strong>di</strong> percorso in<strong>di</strong>viduale e <strong>di</strong> vita <strong>di</strong><br />

un <strong>gruppo</strong>, <strong>di</strong> crescita <strong>di</strong> un <strong>gruppo</strong>. Il percorso in<strong>di</strong>viduale è molto importante e permette <strong>di</strong> avere<br />

sempre una capacità che si esercita, che non è un dato scontato piuttosto una costruzione, <strong>di</strong> vedere<br />

nello stesso tempo il proprio punto, il proprio percorso, e il percorso <strong>degli</strong> altri, e <strong>di</strong> avere quin<strong>di</strong><br />

sempre delle possibilità <strong>di</strong> comparazioni costruttive perché ciascuno è, nello stesso tempo, nella<br />

possibilità <strong>di</strong> essere punto <strong>di</strong> riferimento <strong>di</strong> qualche altro, vi è la possibilità <strong>di</strong> avere in altri un punto<br />

<strong>di</strong> riferimento. C’è, quin<strong>di</strong>, chi è a una tappa più avanzata, <strong>di</strong> un percorso, e ha la possibilità <strong>di</strong> far<br />

vedere il percorso già svolto, e c’è chi invece ha avuto un rallentamento, una marcia più <strong>di</strong>fficile e<br />

vede negli altri lo sviluppo, ma è visto anche come chi deve essere in qualche modo orientato verso<br />

le tappe successive, incitato.<br />

Nella possibilità <strong>di</strong> sviluppo del Consiglio il <strong>gruppo</strong> classe struttura il tempo e la capacità <strong>di</strong> vivere<br />

il tempo dominando le ansie. E’ questo un elemento che può essere anche <strong>di</strong>fficile per gli stessi<br />

insegnanti. Una delle caratteristiche che riteniamo più importanti del Consiglio è quella che<br />

potremmo definire la lealtà al Consiglio, l’impegno <strong>di</strong> trattare gli argomenti che vengono proposti<br />

all’or<strong>di</strong>ne del giorno unicamente all’interno del Consiglio, e <strong>di</strong> non riprenderli fuori dal tempo del<br />

Consiglio. E’ un punto, questo, che deve essere osservato in primo luogo dagli insegnanti. Potrebbe<br />

esservi una <strong>di</strong>fficoltà, da parte <strong>di</strong> chi è in un ruolo adulto ed insegnante, ricordare questa realtà,<br />

perché potrebbe ritenere in certi momenti doveroso <strong>di</strong>re e richiamare a un bambino, a una bambina,<br />

a un ragazzo, a una ragazza, l’impegno preso nel Consiglio. In questo modo romperebbe la lealtà e<br />

sarebbe un’autorizzazione a che tutti possano riprendere gli argomenti del Consiglio in qualsiasi<br />

momento.<br />

E’un’altra delle caratteristiche che si potrebbe vedere analoga ai gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> che vedono un<br />

<strong>gruppo</strong> impegnato con l’affidamento al tempo del <strong>gruppo</strong> e la fiducia che ciò che esce del <strong>gruppo</strong>


non sia poi ripreso – sarebbe a sproposito – fuori dal tempo del <strong>gruppo</strong> e fuori del <strong>gruppo</strong>. Questo<br />

potrebbe sembrare un vincolo anche dannoso, per certi versi, perché se qualcuno nel momento del<br />

<strong>gruppo</strong>, del Consiglio per la classe, del <strong>gruppo</strong> per il <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, svelasse le <strong>di</strong>fficoltà in<br />

cui sta vivendo e queste fossero ritenute anche gravi qualcuno potrebbe sentire il vincolo <strong>di</strong><br />

riprendere questi temi, queste confidenze unicamente al prossimo <strong>gruppo</strong>, al prossimo Consiglio,<br />

come un modo <strong>di</strong> non aiutare. In effetti bisogna essere più precisi.<br />

E’ possibile che dal <strong>gruppo</strong> e dal Consiglio nascano delle attività <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> anche impegnative per<br />

tutto il resto del tempo, fuori dal <strong>gruppo</strong>, fuori dal Consiglio, ma una cosa è l’impegno <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> che<br />

deriva dalla riunione <strong>di</strong> Consiglio, dalla riunione del <strong>gruppo</strong>, una cosa è riprendere l’argomento<br />

come <strong>di</strong>scussione o come ammonimento. Per intenderci meglio, se nel <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> o nel<br />

Consiglio si capisse meglio la necessità che un soggetto ha <strong>di</strong> essere aiutato nel controllo <strong>della</strong><br />

propria aggressività e si capisse anche le modalità che possono essere realizzate per controllare<br />

quella aggressività, queste dovrebbero essere esercitate anche nel tempo fuori dalla riunione <strong>di</strong><br />

Consiglio, dalla riunione <strong>di</strong> <strong>gruppo</strong>. Non devono essere <strong>di</strong>scusse, quelle tematiche, non devono<br />

essere oggetto, se si può <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> rimprovero pubblico o privato. Bisogna controllare le proprie ansie<br />

e essere capaci <strong>di</strong> riprendere l‘argomento unicamente nel tempo del Consiglio.<br />

Questo è un elemento importante che struttura il <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> in una prospettiva, e non con<br />

una logica del pronto intervento o nell’attività <strong>di</strong> pompiere. E’ un <strong>gruppo</strong> classe e come tale ha<br />

bisogno <strong>di</strong> strutturare il tempo dell’appren<strong>di</strong>mento come un percorso ampio, <strong>di</strong> respiro. E anche<br />

coloro che dovessero non avere prospettiva dovrebbero, con questi strumenti, con questa <strong>di</strong>namica,<br />

imparare, formarsi ad avere una prospettiva. E noi dovremmo sapere che l’appren<strong>di</strong>mento è<br />

facilitato da una possibilità <strong>di</strong> prospettiva, ed è reso molto più <strong>di</strong>fficile, e a volte, anche, quasi<br />

impossibile quando manca una visione prospettica, una proiezione nel futuro, una capacità <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>viduare e <strong>di</strong> riformulare in situazioni che potrebbero accadere e che ancora non sono accadute.<br />

La formulazione <strong>di</strong> un progetto per l’appren<strong>di</strong>mento è quin<strong>di</strong> connessa alla possibilità <strong>di</strong> dare al<br />

<strong>gruppo</strong> classe una connotazione <strong>di</strong> <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>.<br />

Vi è un altro aspetto, nelle pratiche <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, che va ripreso con un certo interesse. Il fatto che il<br />

più conosciuto dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> si chiami “alcoolisti anonimi” può creare qualche malinteso,<br />

può far pensare che nell’anonimato vi sia anche un non assumere l’identità, un non parlare a partire<br />

da quello che ciascuno è. Chi conosce un poco i gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, e in particolare i gruppi in cui<br />

il termine “anonimo” è presente, sa che è esattamente il contrario. Nelle situazioni <strong>di</strong> bisogno per<br />

<strong>di</strong>pendenze che fanno soffrire, la possibilità <strong>di</strong> assumere la parola e <strong>di</strong> <strong>di</strong>re “io” è garantita proprio<br />

dall’anonimato, dalla non necessità <strong>di</strong> presentarsi nel proprio ruolo professionale, nel proprio ruolo<br />

sociale, ma <strong>di</strong> presentare il proprio nome senza contorni, per esplorare insieme gli elementi <strong>della</strong>


propria vita che sono più fragili e anche per scoprire insieme le risorse che il singolo può avere e<br />

che può offrire agli altri, può mettere nel <strong>gruppo</strong>. Proprio quello che già si <strong>di</strong>ceva: l’importanza <strong>di</strong><br />

non <strong>di</strong>videre il <strong>gruppo</strong> in chi aiuta e chi è aiutato ma <strong>di</strong> sentire che in ciascuno c’è una parte che ha<br />

bisogno <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> e una parte che può aiutare permette l’assunzione <strong>della</strong> parola a partire da “io<br />

sono”: essere presente con la propria in<strong>di</strong>vidualità e quin<strong>di</strong> anche assumere una responsabilità<br />

crescente, in <strong>di</strong>venire, che può svilupparsi.<br />

Anche su questo l’appren<strong>di</strong>mento è avvantaggiato, perché il <strong>gruppo</strong> può risultare una forzatura che<br />

nasconde il singolo. Ha bisogno, invece, <strong>di</strong> prendere dall’esperienza dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> il<br />

rispetto ma anche lo stimolo a che il singolo soggetto si presenti come tale e non si nasconda. Ora,<br />

noi abbiamo tante esperienze <strong>di</strong> gruppi classe in cui qualcuno ha potuto nascondersi, cioè rimanere<br />

uno sconosciuto, un anonimo. Paradossalmente, in questo caso, l’anonimità voleva <strong>di</strong>re la persona<br />

che non ha avuto modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re: “Io sono”, e quin<strong>di</strong> ha reso meno presente le sue competenze e ha<br />

sicuramente utilizzato poco dal <strong>gruppo</strong> per quanto riguarda la finalità maggiore che è quella<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento. Questo non vuol <strong>di</strong>re avere delle forzature ad affermare la propria presenza e<br />

doversi imme<strong>di</strong>atamente porre al centro dell’attenzione <strong>degli</strong> altri, sotto un riflettore.<br />

L’articolazione del <strong>gruppo</strong> attraverso le sue componenti permette, non tanto una forzatura verso<br />

l’esibizionismo in<strong>di</strong>viduale, quanto l’articolazione delle stesse componenti e la possibilità per<br />

esprimere la propria originalità all’interno <strong>di</strong> un clima che può essere <strong>di</strong> conquista dell’accettazione<br />

ma anche <strong>di</strong> stimolo a superare le proprie con<strong>di</strong>zioni e i propri limiti. Il tempo dell’appren<strong>di</strong>mento è<br />

anche un tempo <strong>di</strong> sfida, che dovrebbe esser accettata a partire dall’assunzione <strong>di</strong> consapevolezza<br />

<strong>della</strong> propria presenza in un contesto. Quanti sono i ragazzi, le ragazze che vivono la scuola come<br />

una parentesi noiosa, da sopportare - e a volte non la sopportano -, in attesa <strong>di</strong> potersi esibire in altri<br />

contesti, a volte non propriamente ripaganti <strong>di</strong> quelle che sono le attese, e che esauriscono<br />

nell’apparizione ogni altra possibilità <strong>di</strong> gratificazione. L’ambiente del <strong>gruppo</strong> classe può costruire,<br />

invece, una presenza significativa del singolo collegando il termine “<strong>gruppo</strong>” all’assunzione <strong>di</strong><br />

responsabilità e <strong>di</strong> presenza responsabile <strong>di</strong> ciascuno. Questo significa evitare <strong>di</strong> incentivare il<br />

protagonismo. Soprattutto significa evitare <strong>di</strong> far vivere l’esperienza dell’istante, senza prospettiva,<br />

con quella sensazione che la buona sorte debba accompagnare le sfide. La buona sorte, la fortuna.<br />

Non la propria organizzazione, le reti sociali <strong>di</strong> competenza, l’<strong>aiuto</strong> solidale e la possibilità <strong>di</strong> far<br />

tesoro dell’esperienza; per cui quello che non riesce imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong>venta esercitazione perché<br />

riesca in un tempo successivo.<br />

Questo è un richiamo ad un altro aspetto che la ricerca ci propone e riguarda lo stile <strong>di</strong><br />

appren<strong>di</strong>mento. E’ uno stile in<strong>di</strong>viduale, ciascuno conosce secondo una propria organizzazione, ma<br />

nello stesso tempo è conoscibile da ciascuno grazie al fatto che è esposto allo sguardo, all’ascolto,


all’indagine <strong>di</strong>screta <strong>degli</strong> altri. Lo stile <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento è in<strong>di</strong>viduale ma non può fare a meno <strong>di</strong><br />

un contesto <strong>di</strong> <strong>gruppo</strong>. Allo stesso modo, come nei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, il percorso è in<strong>di</strong>viduale ma<br />

non può fare a meno dell’ascolto, <strong>di</strong> un ascolto che potremmo chiamare interrogante<br />

silenziosamente ma anche esplicitamente, <strong>degli</strong> altri, del <strong>gruppo</strong>. E allora questo richiama la<br />

possibilità che vi sia un’attenzione allo stile <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento, che è certamente l’altra faccia <strong>di</strong> una<br />

stessa medaglia che riguarda anche lo stile <strong>di</strong> insegnamento. Una ricerca che ormai ha fatto scuola<br />

ci in<strong>di</strong>ca due modalità <strong>di</strong> organizzare la propria memoria e quin<strong>di</strong> anche <strong>di</strong> organizzare la propria<br />

riformulazione continua, in vista delle risposte ai problemi che pone la realtà e che formula anche la<br />

scuola. Due modalità, una organizzata attorno alla rappresentazione iconica, vale a <strong>di</strong>re le<br />

immagini, e l’altra organizzata attorno all’evocazione concettuale, vale a <strong>di</strong>re le parole. Lo stile <strong>di</strong><br />

appren<strong>di</strong>mento e lo stile <strong>di</strong> percorso, <strong>di</strong> processo, è quello che in maniera ben <strong>di</strong>versa, con meno<br />

attenzione alla finalità dell’appren<strong>di</strong>mento, è presente anche nei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. Nell’incontro,<br />

e partecipando alle cerimonie che sono particolarmente intense relativamente al “compleanno <strong>di</strong><br />

pulizia”, cioè alla celebrazione <strong>di</strong> un tempo senza assunzione <strong>di</strong> droghe, per esempio - o <strong>di</strong><br />

alcoolici-, si nota la possibilità propria <strong>di</strong> un’organizzazione del proprio ricordo, <strong>della</strong> propria<br />

argomentazione, attorno o alle immagini o alle parole. E questo è un elemento che caratterizza la<br />

personalizzazione del percorso e la possibilità che questo avvenga in maniera del tutto spontanea<br />

nei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, perché non hanno una finalità legata all’appren<strong>di</strong>mento, e invece avvenga<br />

in maniera intenzionale, seguita, proposta nel <strong>gruppo</strong> classe inteso anch’esso come <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<br />

<strong>aiuto</strong>.<br />

La proposta contiene alcune tappe fondamentali per capire meglio i meccanismi<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento, e capirli come soggetto che apprende, non come ricercatore che osserva. Il<br />

soggetto che apprende, a sua volta, può essere in qualche misura soggetto che osserva, ma osserva<br />

anche se stesso, perché una delle pratiche che deriva da questa proposta è quella che riguarda la<br />

riflessione introspettiva. Siamo sempre, giustamente, molto lamentosi nei confronti <strong>di</strong> un’epoca, <strong>di</strong><br />

un modo <strong>di</strong> vivere che induce a non avere più tempi <strong>di</strong> riflessione. Nel percorso <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento,<br />

per capire la propria modalità <strong>di</strong> organizzare le connessioni, l’appren<strong>di</strong>mento, la memoria, nel<br />

gestire la propria attività mentale, vi è un tempo <strong>di</strong> introspezione, <strong>di</strong> riflessione introspettiva. La<br />

proposta viene anche spesso accompagnata da una pratica molto interessante che è quella <strong>di</strong> invitare<br />

coloro che hanno più facilità <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento, coloro che sono più brillanti nell’apprendere, a<br />

compiere questa attività <strong>di</strong> riflessione introspettiva e <strong>di</strong> esporla. L’esposizione è aiutata dalle<br />

domande <strong>degli</strong> insegnanti. L’insegnante deve potere mettere la propria professionalità anche in<br />

questa preparazione specifica consistente nel fare le domande giuste e quin<strong>di</strong> nel proporsi in una<br />

<strong>di</strong>mensione <strong>di</strong>alogica perché emergano le attività mentali <strong>di</strong> chi apprende con migliori risultati e


<strong>di</strong>ventino un servizio fatto agli altri. Ciascuno, poi, è invitato a compiere una riflessione<br />

introspettiva per capire come procede l’organizzazione delle risposte nelle varie aree <strong>di</strong>sciplinari.<br />

Questa pausa <strong>di</strong> riflessione introspettiva è molto interessante proprio per capire una procedura che<br />

ha bisogno <strong>di</strong> tempi, e non solo <strong>di</strong> un tempo. Ha bisogno <strong>di</strong> una comprensione <strong>della</strong> richiesta, <strong>di</strong> una<br />

riflessione secondo le proprie modalità organizzative dell’attività mentale e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

un’elaborazione <strong>della</strong> risposta. I tre tempi potrebbero <strong>di</strong>ventare anche quattro e poi cinque, se si<br />

considera la possibilità dell’errore e <strong>della</strong> correzione dell’errore, e quin<strong>di</strong> la comprensione <strong>degli</strong><br />

errori compatibili e <strong>degli</strong> errori incompatibili. Questa è una delle ragioni che permette<br />

all’appren<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> avere molte buone carte da giocare nei confronti <strong>della</strong> vita sociale, <strong>di</strong> non<br />

chiudersi a risultati vali<strong>di</strong> solo all’interno <strong>della</strong> logica scolastica. Nello stesso tempo permette alla<br />

logica scolastica <strong>di</strong> risultare molto più comprensibile e valida e meno, se si può <strong>di</strong>re così,<br />

burocratica, meno chiusa in aspetti unicamente formali, che a volte sono giocati su due tasti: una<br />

certa rigi<strong>di</strong>tà severa oppure un lassismo che non lascia molto spazio all’elaborazione <strong>di</strong> una capacità<br />

<strong>di</strong> auto<strong>di</strong>sciplinarsi nell’organizzazione dell’appren<strong>di</strong>mento.<br />

Anche in questo caso è il <strong>gruppo</strong> che <strong>di</strong>venta interessante ed è l’organizzazione del <strong>gruppo</strong> che<br />

permette il percorso in<strong>di</strong>viduale. E anche in questo caso cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> potere intravedere dei<br />

collegamenti utili tra le pratiche e la storia dei gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> e il <strong>gruppo</strong> classe inteso come un<br />

originale <strong>gruppo</strong> <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>. Il contesto del <strong>gruppo</strong> classe valorizza, quin<strong>di</strong>, i singoli non<br />

unicamente quando un singolo è attivato nell’interrogazione o tutti sono attivati nel compito ma<br />

valorizza i singoli nelle <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>mensioni che ciascuno contiene. Per <strong>di</strong>rla in termini molto<br />

semplici, nella parte attiva <strong>di</strong> protagonista momentaneo, nella parte altrettanto attiva <strong>di</strong> spettatore<br />

interessato, nella parte attiva, certamente, <strong>di</strong> indagatore dell’attività dell’altro per capire la propria, e<br />

sempre insieme nella parte <strong>di</strong> collaborazione alla creazione <strong>di</strong> una realtà che deve essere aperta al<br />

futuro e che non deve accontentarsi <strong>di</strong> vivere, in quel momento, una realtà piacevole. Per certi versi<br />

lo slogan “star bene a scuola”, che è stata anche una interessante proposta <strong>della</strong> nostra scuola, può<br />

<strong>di</strong>ventare limitante perché può togliere quello squilibrio determinato dalla curiosità e dall’apertura,<br />

così necessario nel procedere. Star bene non significa star tanto bene da non muoversi più, ma<br />

significa star bene in movimento, cioè star meno bene se stiamo fermi. Capire come non sia utile<br />

star fermi ma avere la curiosità per andare avanti. E questo può richiamare uno <strong>degli</strong> elementi<br />

fondanti <strong>di</strong> quella che viene chiamata la pedagogia istituzionale che è il rapporto fra istituito e<br />

istituente.<br />

La pedagogia istituzionale, per qualcuno, è datata. Noi riteniamo che sia tuttora una proposta<br />

quantomai viva e quantomai utile in prospettiva, non quin<strong>di</strong> legata a una stagione e a un paese.<br />

Certo ha avuto nella Francia una culla in cui ha avuto i primi momenti <strong>di</strong> vita, ma certamente si è


mossa, si è allargata, si è collegata, ha trovato delle corrispondenze in molte pratiche, in molte<br />

riflessioni, in molte indagini che forse non stavano sotto questa etichetta ma che non sono<br />

contrapponibili. Istituito e istituente: ciò che è già dato e ciò che è invece costruito grazie al fatto<br />

che si conosce ciò che è istituito. Il <strong>gruppo</strong> può essere più capace <strong>di</strong> costituirsi in una proposta attiva<br />

se ha anche, se matura, la capacità <strong>di</strong> conoscere il dato da cui parte, l’elemento organizzato, che è la<br />

scuola, l’elemento organizzante che è la vita originale del <strong>gruppo</strong> classe. E’ un collegamento, quello<br />

<strong>della</strong> pedagogia istituzionale, che permette <strong>di</strong> realizzarsi tra alcune delle linee che abbiamo trovato<br />

in analogia con i gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> e quelle proposte che vengono a volte ricordate come proposte<br />

<strong>di</strong> laboratorio.<br />

4. 2. L’organizzazione per laboratori<br />

Il <strong>gruppo</strong> classe ha bisogno <strong>di</strong> produrre delle attività. Abbiamo la sensazione che a volte continui ad<br />

esserci una contrapposizione e una <strong>di</strong>varicazione fra lo star bene, gli elementi relazionali, la<br />

capacità <strong>di</strong> convivere, e il produrre appren<strong>di</strong>menti. Abbiamo cercato <strong>di</strong> riflettere sulla possibilità<br />

che i due elementi, le due <strong>di</strong>mensioni, siano strettamente intrecciati. Ma, siccome questo equivoco<br />

dura da molto, molto tempo, è possibile che vada ancora avanti per molto tempo.<br />

Cre<strong>di</strong>amo che in questi decenni e nei prossimi anni le attività <strong>della</strong> scuola abbiano dei forti impegni<br />

nei confronti <strong>della</strong> pluralità dei soggetti che interverranno nel contesto scolastico. Il possibile<br />

mutare <strong>della</strong> popolazione scolastica, secondo le ondate migratorie, è certamente il fatto più vistoso,<br />

e sarà necessario essere molto attenti a non condurre le attività <strong>della</strong> scuola secondo una modalità<br />

che è più propria delle attività televisive. Quella possibilità, cioè, <strong>di</strong> far convivere in un palinsesto<br />

tanti volti, tante attività, tante immagini, quin<strong>di</strong> sicuramente una pluralità, ma senza minimamente<br />

preoccuparsi <strong>di</strong> intrecciare tra loro queste attività. Sarà necessario costruire, invece, un intreccio e<br />

permettere che vi siano <strong>degli</strong> elementi con<strong>di</strong>visi. La pluralità dei soggetti può voler <strong>di</strong>re anche una<br />

pluralità <strong>di</strong> linguaggi. Non ci riferiamo certamente alla pluralità delle comunicazioni ma proprio dei<br />

linguaggi, cioè delle strutture comunicative con una costruzione simbolica e con una organizzazione<br />

grammaticale e sintattica con delle con<strong>di</strong>visioni semantiche. E’ possibile che manchino proprio le<br />

con<strong>di</strong>visioni semantiche. E per costruirle, per permettere che queste costruzioni avvengano con<br />

delle ra<strong>di</strong>ci, è necessario avere delle possibilità <strong>di</strong> lavoro comune., cioè organizzare dei tempi <strong>di</strong><br />

laboratorio durante i quali il riscontro tra le parole che evocano, che rappresentano, che annunciano,<br />

e gli oggetti, permetta <strong>di</strong> costruire il con<strong>di</strong>viso. Questo è realizzato dall’immigrazione che ha come<br />

primo impatto il luogo <strong>di</strong> lavoro. L’appren<strong>di</strong>mento <strong>della</strong> lingua avviene attraverso la corrispondenza<br />

delle parole con gli oggetti, con le azioni, con il contesto che è il mondo del lavoro. Ed è possibile<br />

quin<strong>di</strong> che un lavoratore proveniente da un altro paese conosca bene la lingua italiana,


limitatamente a un vocabolario ristretto al luogo <strong>di</strong> lavoro, forse anche con delle capacità tecniche<br />

non comuni ma senza l’ampiezza <strong>di</strong> conoscenza linguistica che caratterizza chi arriva al lavoro<br />

me<strong>di</strong>ante un percorso <strong>di</strong> esperienza vitale. Per bambini e bambine questo potrebbe non essere<br />

identico ma potrebbe rappresentare una possibilità <strong>di</strong> non avere eco nel vocabolo e nei vocaboli<br />

<strong>della</strong> scuola con l’esperienza familiare. Ma vi sono anche percorsi che hanno nella televisione<br />

l’interlocutore inerte, ahimè, privilegiato, e quin<strong>di</strong> anche per coloro che sono non <strong>di</strong> famiglia<br />

culturalmente proveniente da altri paesi ma <strong>di</strong> famiglia autoctona vi possono essere <strong>degli</strong><br />

impoverimenti legati al fatto che il linguaggio è sempre in relazione con una attualità <strong>di</strong> immagine<br />

ed ha scarsa possibilità evocativa e rielaborativa <strong>della</strong> previsione.<br />

Il laboratorio ha anche una valenza organizzativa dei concetti scientifici. Alcuni bambini, alcune<br />

bambine, hanno già pratiche <strong>di</strong> curiosità scientifiche ma molti sono inerti nei confronti <strong>della</strong><br />

sperimentazione con le cose, nel giocare con gli oggetti, nell’accorgersi <strong>della</strong> loro materialità, <strong>della</strong><br />

<strong>di</strong>fferenza che è legata ai <strong>di</strong>versi materiali, ecc. E quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>venta ancora più importante il permettere<br />

che l’esperienza scolastica sia arricchita da una serie <strong>di</strong> attività che non sono “altro” rispetto al<br />

percorso <strong>degli</strong> appren<strong>di</strong>menti ma che <strong>di</strong>ventano sostanza per gli appren<strong>di</strong>menti. La preoccupazione<br />

da palinsesto è quella <strong>di</strong> far star tutto nel programma. E probabilmente è una preoccupazione che<br />

nuoce perché carica la vita scolastica <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> frantumi <strong>di</strong>fficili da amalgamare, <strong>di</strong>fficili da<br />

intrecciare, e non <strong>di</strong> indagini sulla realtà attraverso quelle importanti chiavi <strong>di</strong> lettura che sono le<br />

aree <strong>di</strong>sciplinari. E’ <strong>di</strong>fficile rinunciare alle <strong>di</strong>scipline perché sarebbe come rinunciare alla storia<br />

delle indagini scientifiche e quin<strong>di</strong> alla trasmissione <strong>degli</strong> strumenti per entrare nella realtà. Sono<br />

chiavi per entrare in una realtà da indagare e come tali devono essere dotate anche <strong>di</strong> un campo<br />

esperienziale.<br />

Il laboratorio <strong>di</strong>sciplina le <strong>di</strong>scipline, se si può <strong>di</strong>r così, e organizza il <strong>gruppo</strong> classe secondo ancora<br />

una <strong>di</strong>namica che è analoga a quella dell’auto-<strong>aiuto</strong>, con più capacità <strong>di</strong> accogliere le pluralità, e<br />

quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> rispondere a quelle che sembrano essere le esigenze maggiori <strong>di</strong> questo periodo non breve<br />

<strong>della</strong> scuola, in Italia e in Europa. Nell’attività <strong>di</strong> laboratorio il <strong>gruppo</strong> si misura con due possibilità<br />

e non deve rimanere prigioniero né nell’una né nell’altra. Una è la possibilità <strong>della</strong> <strong>di</strong>mensione che<br />

viene chiamata fusionale, cioè la possibilità che il <strong>gruppo</strong> persegua, e metta come finalità maggiore<br />

quella <strong>della</strong> fusionalità <strong>di</strong> tutti i suoi membri in una compattezza, certamente interessante sul piano<br />

anche dell’educazione sentimentale, ma limitante per quanto riguarda la capacità <strong>di</strong> apprendere<br />

crescendo e <strong>di</strong> crescere apprendendo. Fusionalità significa sentire in un modo solo e quin<strong>di</strong> avere<br />

una possibilità <strong>di</strong> fare <strong>gruppo</strong> in termini tali da rassicurare ciascuno dei suoi componenti con il<br />

senso <strong>di</strong> appartenenza al <strong>gruppo</strong>. Per certi versi, quin<strong>di</strong>, potrebbe sembrare un elemento così<br />

importante da <strong>di</strong>ventare irrinunciabile nella formazione e nell’educazione scolastica attuale perché


può farci pensare <strong>di</strong> assolvere all’importantissimo compito <strong>di</strong> educare all’appartenenza. Nello stesso<br />

tempo la fusionalità in un <strong>gruppo</strong> può chiudere al <strong>gruppo</strong> stesso altri orizzonti. Il concetto <strong>di</strong><br />

appartenenza ha un’ambivalenza che è probabile sia <strong>della</strong> polisemia del linguaggio, e quin<strong>di</strong> che<br />

ogni parola in qualche misura contiene. Per certi versi è una prospettiva affascinante, importante, <strong>di</strong><br />

conoscenza del mondo intero. Per altri versi potrebbe <strong>di</strong>ventare il rifugio nella piccola patria e la<br />

chiusura dei confini a ogni elemento che viene ritenuto estraneo e come tale, <strong>di</strong> per sé, invasore.<br />

Ecco i rischi <strong>della</strong> fusionalità.<br />

L’altra <strong>di</strong>mensione e l’altra possibilità del <strong>gruppo</strong> è quella <strong>della</strong> produttività. Al primo posto mettere<br />

la produttività significa anche selezionare la partecipazione attiva dei suoi componenti in modo tale<br />

che abbiano più spazio e più senso <strong>di</strong> protagonismo coloro che meglio lavorano, che quin<strong>di</strong> sono<br />

più adatti a conseguire quella produzione che <strong>di</strong>venta priorità.<br />

Queste due possibilità hanno, a volte, una percorrenza oscillante. Vi sono momenti in cui un <strong>gruppo</strong><br />

sente più il bisogno <strong>di</strong> fusionalità, altri in cui sente più il bisogno <strong>di</strong> produttività. L’organizzazione<br />

del <strong>gruppo</strong> classe secondo l’analogia con il percorso <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> deve permettere <strong>di</strong> superare<br />

questi rischi e <strong>di</strong> sentire questi rischi come i due limiti da tenere come tali, e non da ritenere termini<br />

<strong>di</strong> una scelta. La possibilità <strong>di</strong> scelta fra queste due <strong>di</strong>mensioni non c’è. Vi sono delle oscillazioni,<br />

questo è quanto abbiamo ritenuto già possibile <strong>di</strong>re, ma verso un percorso che è quello<br />

dell’appren<strong>di</strong>mento per l’oltre la scuola, quin<strong>di</strong> superando la fusionalità del <strong>gruppo</strong> classe e<br />

superando anche la possibilità che il <strong>gruppo</strong>, in quanto tale, sia narcisisticamente gratificato <strong>di</strong> una<br />

produttività che non corrisponde alla capacità dei singoli <strong>di</strong> realizzare. In questo senso il <strong>gruppo</strong><br />

copre -–e questo è un punto già trattato in questa riflessione – la possibilità <strong>di</strong> vedere come i singoli<br />

stanno nel <strong>gruppo</strong> e oltre il <strong>gruppo</strong>. Questa doppia <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> rischio è interessante da conoscere<br />

anche negli aspetti che hanno costituito una traccia storica, che è <strong>di</strong>etro la parola “laboratorio”. La<br />

traccia storica ha molte componenti e a noi interessa riprenderne e analizzarne alcune, senza<br />

nessuna necessità <strong>di</strong> esaurire il campo <strong>di</strong> indagine, ma solo <strong>di</strong> rintracciare alcuni fili per permettere<br />

<strong>di</strong> capire che non stiamo improvvisando ma che, in questa nostra riflessione, sentiamo i<br />

collegamenti con delle ra<strong>di</strong>ci anche abbastanza profonde. Se crescere vuol <strong>di</strong>re assumere la propria<br />

immaturità, oggi più <strong>di</strong> ieri l’immaturità è accentuata e mascherata perché molti che crescono non<br />

hanno le occasioni, non vivono quelle esperienze, che permettono <strong>di</strong> stabilire un rapporto con le<br />

cose, con la materialità e con la cura <strong>della</strong> quoti<strong>di</strong>anità. Non sono né spettatori né artefici delle cure<br />

materiali nella quoti<strong>di</strong>anità perché la vita nelle case, la vita nei gruppi familiari, è ridotta da questo<br />

punto <strong>di</strong> vista e, meno che meno, è invitante il prendersi cura del rapporto tra la vita familiare e i<br />

<strong>di</strong>ntorni, i negozi. Se un tempo qualcuno, e non pochi, venivano mandati a fare la spesa, oggi questo<br />

è più <strong>di</strong>fficile, è ritenuto pericoloso. Se crescere, dunque, è assumere la propria immaturità,


nell’immaturità ci sono anche le goffaggini, le <strong>di</strong>fficoltà, in quelle che vengono chiamate le pratiche<br />

non <strong>di</strong>scorsive, cioè quelle pratiche che non possono essere riportate in un <strong>di</strong>scorso perché devono<br />

essere realizzate: sono nel fare. Senza esaltare ed enfatizzare questi aspetti, dobbiamo però<br />

assumere questa immaturità per poter crescere. E l’assunzione dell’immaturità può avvenire proprio<br />

strutturando i gruppi classe in rapporto a delle attività che chiamiamo “<strong>di</strong> laboratorio”. Il termine<br />

“laboratorio” contiene la parola “labor”, che significa anche “fatica”: è imparare a sopportare e a<br />

dar senso alla fatica. E anche questo è uno dei tratti <strong>della</strong> fragilità <strong>della</strong> nostra epoca. La <strong>di</strong>fficoltà<br />

ad assumere la fatica, a dare un senso e quin<strong>di</strong> a sopportarla. Una maggiore fragilità, incapacità, nei<br />

confronti <strong>di</strong> ciò che costa fatica. E tutto ciò può avere un senso perché il <strong>gruppo</strong>, nella sua pluralità<br />

<strong>di</strong> componenti e <strong>di</strong> soggetti, accolga chi ha delle <strong>di</strong>fficoltà maggiori, delle <strong>di</strong>sabilità.<br />

Chi scrive queste note si occupa, d’abitu<strong>di</strong>ne, più specificamente <strong>di</strong> questi aspetti ed è però<br />

interessato a capire se è proponibile una realtà <strong>di</strong> classe che permetta i progetti <strong>di</strong> integrazione. E’<br />

quella che paradossalmente si può chiamare un’integrazione che può realizzarsi anche sé non c’è<br />

una persona han<strong>di</strong>cappata, perché è una realtà che permette l’ipotesi, e quin<strong>di</strong> permette poi lo<br />

sviluppo, qualora si passasse dall’ipotesi alla realtà, dall’ipotesi al fatto. Queste sono le ragioni per<br />

cui è opportuno occuparsi <strong>di</strong> una progettazione per laboratori e <strong>di</strong> una comprensione che non riduca<br />

un’attività <strong>di</strong> laboratorio unicamente all’attualità, ma ne capisca il carico <strong>di</strong> storia, e quin<strong>di</strong> anche<br />

per una in<strong>di</strong>spensabile <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> apertura che la storia contiene, il carico <strong>di</strong> possibilità<br />

progettuale.<br />

Vivere un progetto, realizzare un progetto, significa, ce lo insegnano i gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong>, non<br />

avere il domani come alibi ma costruirlo accettando <strong>di</strong> vivere nel presente. Non vivere, quin<strong>di</strong>, il<br />

presente come tutto, con l’alibi e la giustificazione <strong>di</strong> volere tutto nel presente; il domani ci aspetta.<br />

Costruire il domani significa proprio prendere sul serio il presente. C’è un elemento paradossale in<br />

queste espressioni. I gruppi <strong>di</strong> auto-<strong>aiuto</strong> hanno una grande capacità <strong>di</strong> dare la <strong>di</strong>mensione <strong>della</strong><br />

durata, a partire dal fatto che subito bisogna essere sobri. Il laboratorio esige subito una attenzione<br />

al contesto, alla materia per poterla lavorare. Per potere costruire quello che è il progetto. La parola<br />

“progetto” richiama qualcosa che si butta in avanti. Bisogna però avere i pie<strong>di</strong> ben sal<strong>di</strong> sul terreno<br />

che è adesso. E in questo senso il termine “laboratorio” è interessante per capire questa<br />

coniugazione del crescere con l’appren<strong>di</strong>mento: apprendere crescendo, crescere apprendendo.<br />

Consideriamo i laboratori come una possibilità <strong>di</strong> ripensare la <strong>di</strong>dattica curricolare. Gli<br />

appren<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> base possono essere conseguiti grazie all’attività <strong>di</strong> laboratorio. E, per sostenere<br />

questa affermazione, dobbiamo cercare <strong>di</strong> fornire alcune in<strong>di</strong>cazioni relative all’appren<strong>di</strong>mento.<br />

Un neonato impara, informalmente, avendo delle iniziative (ad esempio: gorgheggia) che possono<br />

essere collegate a elementi già elaborati dalla comunità in cui è entrato (ad esempio: le parole).


Così, in mo<strong>di</strong> che chiamiamo spontanei o naturali, le iniziative in<strong>di</strong>viduali trovano un senso in<br />

elaborazioni già esistenti, che le potenziano e nello stesso tempo le or<strong>di</strong>nano in co<strong>di</strong>ci. Gli<br />

appren<strong>di</strong>menti informali contengono gli elementi costitutivi <strong>degli</strong> appren<strong>di</strong>menti formali, e quin<strong>di</strong><br />

scolastici.<br />

Un soggetto che impara vive alcune con<strong>di</strong>zioni:<br />

?? trova un senso nel tempo e nella situazione <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento<br />

?? vive un’abilità cognitiva, con una strategia personale<br />

?? sa organizzarsi per poter utilizzare la strategia personale<br />

?? sa collegare una nuova abilità con altre<br />

?? ha la <strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> aver conseguito o meno un risultato<br />

Cerchiamo <strong>di</strong> spiegare il senso dei laboratori mettendoli in rapporto con i problemi <strong>degli</strong> insuccessi<br />

scolastici, ed in particolare gli insuccessi per trauma. Il trauma può essere interpretato come<br />

invasione <strong>di</strong> dolore, tale da occupare tutto, e non lasciare spazi per nuovi.<br />

Il trauma può portare all’impotenza appresa. Cosa significa? Il trauma può portare a ritenere che vi<br />

sia una pressoché totale per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> possibilità (appunto: impotenza). Siccome l’appren<strong>di</strong>mento è<br />

scoperta <strong>di</strong> possibilità, si può <strong>di</strong>re che il trauma inibisce gli appren<strong>di</strong>menti. E’ il soggetto che ha la<br />

convinzione <strong>di</strong> non riuscire a far lavorare la propria testa per realizzare un appren<strong>di</strong>mento, per<br />

imparare. Il laboratorio che è nella testa è tutto bloccato dal senso <strong>di</strong> impotenza, dalla calamita<br />

dell’insuccesso. E’ allora che è bene riferirsi ad un laboratorio esterno, non più nella testa. E se le<br />

attività <strong>di</strong> laboratorio sono organizzate attorno a culture (piante) o allevamenti (animali), risulterà<br />

evidente la necessità <strong>di</strong> vivere una struttura temporale non più risucchiata dal trauma.<br />

Vorremmo considerare, in termini reali ed in termini simbolici, la mano. La mano che scrive, e la<br />

mano che lavora; che è aperta o che è chiusa. La mano laboriosa.<br />

La mano <strong>di</strong> un bambino o <strong>di</strong> una bambina esplora materiali che possono guidare e suggerire<br />

un’attività. Nel laboratorio quella mano trova una <strong>di</strong>sciplina che la aiuta; trova – nella mano esperta<br />

che lavora accanto a lei – un modello a cui riferirsi e da imitare. Può produrre qualcosa. Chi è<br />

traumatizzato non ha un “luogo” in cui collocare ciò che può produrre: forse la “sua” casa non<br />

esiste più, e forse la sua <strong>di</strong>mensione interiore è tutta occupata dal dolore, dalla ferita profonda. La<br />

situazione <strong>di</strong> laboratorio propone in sé una collocazione delle produzioni del singolo in<strong>di</strong>viduo nella<br />

co<strong>di</strong>fica più ampia delle produzioni.<br />

Come le prime parole <strong>di</strong> un bambino piccolo, o <strong>di</strong> una bambina: non si perdono, se ci sono persone<br />

che ascoltano ma soprattutto se sono accompagnate a far parte <strong>di</strong> una co<strong>di</strong>fica ampia come una<br />

lingua.


Le produzioni <strong>di</strong> un laboratorio fanno parte, cioè, appartengono, ad un genere co<strong>di</strong>ficato. Se un<br />

in<strong>di</strong>viduo produce una marmellata in un laboratorio <strong>di</strong> marmellate, la produzione in<strong>di</strong>viduale<br />

appartiene ad un genere co<strong>di</strong>ficato, e in questo è accolta.<br />

L’in<strong>di</strong>viduo traumatizzato è spesso con una appartenenza in crisi. Il laboratorio, attraverso<br />

un’attività materiale, visibile, controllabile, può avere una <strong>di</strong>mensione simbolica importante, e<br />

aiutare a ritrovare o a trovare un’appartenenza.<br />

In italiano – come si è detto -, la parola “laboratorio” ha una derivazione dal termine latino “labor”<br />

che vuol <strong>di</strong>re “fatica. “Labor” porta a “laborare”, che significa “operare faticando”. La ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong><br />

questa parola è “labh”, che sembra avere il senso proprio <strong>di</strong> “afferrare” e quello figurato <strong>di</strong><br />

“in<strong>di</strong>rizzare il desiderio, la volontà, l’intento, l’opera a qualcosa”.<br />

E’ un significato analogo a quello <strong>di</strong> avere voglia <strong>di</strong> intraprendere, mettersi in cammino, avere<br />

padronanza <strong>di</strong> qualcosa per un progetto.<br />

Ma non <strong>di</strong>mentichiamo la fatica.<br />

Un ragazzo con sindrome <strong>di</strong> Down ha risposto a suo fratello che gli chiedeva proprio cosa vuol <strong>di</strong>re<br />

sindrome <strong>di</strong> Down: “è che sono intelligente, ma è fatica stare al mondo”.<br />

Riflettendo tante volte su questa risposta abbiamo trovato che possiamo avere la tentazione <strong>di</strong><br />

impegnarci soprattutto o esclusivamente a togliere la fatica <strong>di</strong> quel ragazzo (che all’epoca aveva 15<br />

anni). Ma se “stare al mondo” fosse legato strettamente alla fatica? Se così fosse, rischieremmo <strong>di</strong><br />

rendere più <strong>di</strong>fficile – pur con le migliori intenzioni – lo stare al mondo <strong>di</strong> quel ragazzo.<br />

E’ più giusto impegnarci a trovare insieme il senso per quella fatica. E, quin<strong>di</strong>, pensare il mondo<br />

stesso come un laboratorio.<br />

Vi è una reciprocità fra laboratorio e fatica. Il laboratorio può dare senso alla fatica; e la fatica può<br />

trasformare un luogo, una situazione, un laboratorio. Ma questa reciprocità non può essere vissuta<br />

senza sporcarsi le mani. Non si può trasformare gli altri in “cavie da laboratorio”. E’ necessario<br />

sporcarsi nel senso <strong>di</strong> coinvolgersi, accettando i rischi <strong>di</strong> sbagliare e <strong>di</strong> dover rime<strong>di</strong>are; ma nello<br />

stesso tempo prendendo tutte le cautele per non commettere errori, e capire quali errori sono fattibili<br />

e quali non fattibili perché catastrofici. Le nostre energie si allenano a mobilitarsi più<br />

completamente per evitare errori catastrofici; sono vigili ma senza spreco per gli errori possibili.<br />

Questa conoscenza <strong>degli</strong> errori può avere presa come un in<strong>di</strong>catore <strong>della</strong> realtà delle situazioni da<br />

laboratorio. Perché gli errori si imparano dalla pratica e dalle parole intrecciate tra loro. Se prevale<br />

una sola <strong>di</strong>mensione, la situazione è poco da laboratorio. Forse lo <strong>di</strong>venterà, ma per il momento non<br />

lo è. Si può imparare a far da mangiare in biblioteca, con molti libri <strong>di</strong> ricette e senza mai mettere<br />

piede in una cucina?


Chi ha vissuto una situazione <strong>di</strong> violenza, chi ha subito un trauma, chi si sente fragile e vulnerabile,<br />

può aver paura <strong>di</strong> fare qualsiasi cosa. La paura che il più piccolo errore riproponga una trage<strong>di</strong>a può<br />

essere collegata ad un continuo spaesamento: trovarsi in un luogo che non è quello amato, dove ci<br />

sono – o vi erano – oggetti, colori, sensazioni e volti familiari.<br />

Per chi ha vissuto violenze e subito traumi vi può essere una profonda sensazione <strong>di</strong> estraneità al<br />

mondo. E’ <strong>di</strong>fficile e sembra impossibile vivere il mondo come un laboratorio. E’ impossibile<br />

vivere il mondo come un laboratorio. E’ impossibile vivere la fatica <strong>di</strong> stare al mondo come<br />

qualcosa <strong>di</strong> sensato. E’ allora si può avere paura <strong>di</strong> fare anche piccole cose perché potrebbero avere<br />

nascosto l’orrore che nasconde la trage<strong>di</strong>a; ma si può anche ritenere che non importi più niente <strong>di</strong><br />

niente, che fare o non fare, sbagliare o no, sia già tutto trage<strong>di</strong>a. Ci si può attaccare ad un angolo <strong>di</strong><br />

sopravvivenza e cercare neanche <strong>di</strong> respirare, e s i può credere che tutto è già perduto e che si<br />

sopravvive senza vivere. Sono due mo<strong>di</strong> apparentemente antitetici <strong>di</strong> essere profondamente feriti,<br />

vulnerabili.<br />

Allora è impossibile pensare al mondo come un laboratorio appassionante. Ma è meno impossibile<br />

– e quin<strong>di</strong> possibile – vivere come laboratorio un piccolo allevamento <strong>di</strong> animali, una falegnameria,<br />

una serra <strong>di</strong> fiori: un luogo circoscritto, che impegna per qualcosa che può apparire limitato, che<br />

richiede qualcosa e non tutto.<br />

Ma questo luogo che è un laboratorio ha la possibilità <strong>di</strong> “riaprire il tempo e lo spazio”. Il trauma è<br />

come un’invasione del dolore, una potente calamita delle <strong>di</strong>sgrazie e <strong>di</strong> altri dolori. Ci si sente<br />

vulnerabili in ogni parte del nostro essere. Il laboratorio ci chiede <strong>di</strong> seguire dei tempi e <strong>di</strong><br />

organizzare <strong>degli</strong> spazi, magri per <strong>degli</strong> animali, o per dei fiori. Si riapre il tempo e lo spazio non è<br />

più occupato da ciò che è stato.<br />

E’ un passaggio piccolo che può permettere <strong>di</strong> scoprire che la vulnerabilità ha risparmiato una<br />

piccola parte del nostro essere o forse si è un po’ ritirata, permettendo alle nostre mani <strong>di</strong> fare un<br />

lavoro, alla nostra mente <strong>di</strong> seguire un ritmo, alla nostra attenzione <strong>di</strong> accorgersi <strong>di</strong> questo giorno e<br />

<strong>di</strong> questa notte, <strong>di</strong> questa stagione, e forse <strong>di</strong> fare previsioni sulla stagione che verrà.<br />

Senza enfasi, un pezzo <strong>di</strong> legno che <strong>di</strong>venta la testa <strong>di</strong> un burattino o un cucchiaio, è capace <strong>di</strong> dare<br />

un pezzetto <strong>di</strong> futuro.<br />

Maria Montessori ha detto e scritto che ogni <strong>aiuto</strong> inutile è un ostacolo allo sviluppo. E’ però molto<br />

<strong>di</strong>fficile, a volte, <strong>di</strong>stinguere con nettezza l’<strong>aiuto</strong> utile e quello inutile prima <strong>di</strong> averne potuto<br />

constatare l’esito. Per capire meglio, possiamo fare ricorso al rapporto <strong>di</strong> maternage, fornendone<br />

una certa interpretazione.<br />

La parola maternage richiama imme<strong>di</strong>atamente la figura materna, e quin<strong>di</strong> evoca un rapporto fatto<br />

<strong>di</strong> tenerezza, <strong>di</strong> carezze, <strong>di</strong> parole dolci. Ma al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questi aspetti, quello che può meglio


caratterizzarlo è il fatto che una madre possa sostenere un neonato per esempio prendendolo in<br />

braccio, sentendo col proprio corpo il corpo dell’altro, e quin<strong>di</strong> allentando o rinforzando la presa<br />

secondo le esigenze, istante dopo istante. Questa elasticità permette <strong>di</strong> dare aiuti utili e <strong>di</strong> evitare<br />

aiuti inutili. Se quel bambino – o quella bambina – farà movimenti che potrebbero compromettere<br />

l’equilibrio, il braccio e il corpo <strong>di</strong> quella madre assumeranno una presa più ferma. E, al contrario,<br />

si allenteranno quando i movimenti non rappresentano alcun rischio.<br />

Questa elasticità sensibile è il maternage. E per spiegare meglio a me stesso questa situazione, ho<br />

tante volte fatto ricorso alla scuola guida, e alla vigilanza sensibile che deve esercitare chi istruisce<br />

nei confronti <strong>di</strong> chi impara, permettendo libertà <strong>della</strong> guida, e sapendo intervenire quando vi fosse<br />

un pericolo.<br />

Gli interventi inutili, e quin<strong>di</strong> dannosi, sono certo possibili, ma ridotti al minimo.<br />

In un laboratorio è possibile vivere una situazione <strong>di</strong> maternage. Quello che nel rapporto madre-<br />

bambino era giocato dal contatto del corpo a corpo, è qui svolto da uno spazio attrezzato per una<br />

finalità chiara e che si chiarisce operando. Chi istruisce può lasciare fare, e anche sbagliare, ma<br />

interviene quando vi è il rischio <strong>di</strong> compromettere la stessa finalità del lavoro. E il senso<br />

dell’intervento, in rapporto all’opera, è chiaro.<br />

Per chi ha vissuto la violenza, subendo traumi, il troppo <strong>aiuto</strong> può confermare il senso profondo <strong>di</strong><br />

vulnerabilità. Ma anche l’assenza <strong>di</strong> <strong>aiuto</strong> può confermare nel senso <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong><br />

irraggiungibilità <strong>della</strong> propria con<strong>di</strong>zione.<br />

Per tutto questo, un laboratorio può rappresentare una situazione adatta a sviluppare una <strong>di</strong>namica<br />

evolutiva <strong>degli</strong> aiuti, e fornire una con<strong>di</strong>zione in cui gli aiuti inutili siano molto limitati. Il fatto che<br />

gli obiettivi del lavoro siano riconoscibili nell’aspetto del materiale (dello spazio, <strong>degli</strong> oggetti) e<br />

<strong>di</strong>ventino sempre più chiari operando, rende possibile ridurre anche le parole inutili, o renderlo<br />

meno dannose e a volte anche piacevoli. Ed è bello riscoprire il piacere dell’inutilità, accanto al<br />

gusto dell’utilità.<br />

Le modulazioni <strong>degli</strong> aiuti e l’importanza dell’interscambio <strong>di</strong> aiuti ha suggerito a educatori del<br />

passato la creazione <strong>di</strong> laboratori. E’ sempre importante riconoscersi in una storia e scoprire <strong>di</strong><br />

avere <strong>degli</strong> antenati. Gli antenati sono sicuramente molti, rendendo possibile a ciascuno <strong>di</strong> trovarsi<br />

l’antenato in cui meglio si riconosce e da cui riceve più <strong>aiuto</strong>.<br />

Ovide Decroly (1871 – 1932) era una un me<strong>di</strong>co belga, ed è stato un educatore che ha organizzato il<br />

suo impegno attorno ai centri <strong>di</strong> interesse. Possiamo vedere in questi una forma <strong>di</strong> laboratorio. Dai<br />

centri <strong>di</strong> interesse deriva un pedagogia del progetto, in cui è importante la rappresentazione del<br />

progetto e la sua organizzazione anche materiale e che comporta cooperazione, negoziazione,<br />

responsabilità, valutazione, contratti.


Il <strong>gruppo</strong> è anche il riferimento costante <strong>di</strong> un educatore, maestro <strong>di</strong> scuola, francese: Célestin<br />

Freinet (1896 – 1966). Freinet realizza la cooperazione educativa, che si basa sullo scambio e sulla<br />

valorizzazione delle competenze, più che sulla competizione. E il <strong>gruppo</strong> ha un valore perché è<br />

composto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui con <strong>di</strong>verse capacità. Deve avere una strutturazione e <strong>di</strong> ruoli funzionali alla<br />

sua vita e agli obiettivi che vuole realizzare. E una delle caratteristiche importanti <strong>della</strong> pedagogia<br />

<strong>di</strong> Freinet è costituita dal fatto che gli obiettivi devono essere con<strong>di</strong>visi e verificabili da tutti ci<br />

componenti del <strong>gruppo</strong>.<br />

Questa è una caratteristica che è tipica <strong>di</strong> una situazione <strong>di</strong> laboratorio, dove la stessa riuscita<br />

materiale del lavoro può far capire a tutti che gli obiettivi vengono raggiunti. Ma per dare a<br />

ciascuno la giusta collocazione è utile pensare che sia bene fare una doppia analisi dei bisogni: i<br />

bisogni dei singoli ed i bisogni del <strong>gruppo</strong>, ovvero del laboratorio o del progetto. E’ da questa<br />

analisi, che a volte è fatta molto empiricamente e osservando i bambini e le bambine anche durante i<br />

loro giochi, che chi ha il compito <strong>di</strong> guidare l’attività <strong>di</strong> laboratorio (educatore, insegnante,<br />

istruttore) può strutturare il <strong>gruppo</strong> per la realizzazione <strong>di</strong> un progetto.<br />

Queste caratteristiche sono veramente interessanti e utili per permettere a bambini e bambine, ma<br />

anche ad adulti, che hanno vissuto violenze e vivono stati <strong>di</strong> vulnerabilità, <strong>di</strong> ritrovare la capacità <strong>di</strong><br />

avere fiducia. Ed anche bambini e bambine con bisogni particolari possono vivere l’esperienza dei<br />

laboratori positivamente.<br />

Le due “schede” che seguono – sulle strategie del lavoro <strong>di</strong> <strong>gruppo</strong> e sul contratto pedagogico –<br />

esemplificano due realizzazioni metodologiche richiamate in questa riflessione.<br />

4.3 SCHEDA:LA STRATEGIA DEL LAVORO DI GRUPPO<br />

(Definire e condurre bene un progetto, valutarne i risultati)<br />

1. L’essenziale da tenere presente:<br />

?? Non esiste un “progetto-modello”: un progetto non esiste, né può avere valore, che<br />

relativamente a una situazione locale data.<br />

?? Un progetto si costruisce nel tempo: è mo<strong>di</strong>ficato, fatto maturare, negoziato dalle persone che vi<br />

sono coinvolte (e eventualmente dalle opposizioni che incontra).<br />

?? Prima <strong>di</strong> qualsiasi progetto conviene quin<strong>di</strong> chiedersi:<br />

- quali sono le finalità, i fini, gli obiettivi?<br />

- sono compatibili con i dati <strong>della</strong> situazione concreta?<br />

- qual è la storia del nostro Progetto? Quali tempi ci siamo dati, quali tappe?<br />

2. I punti <strong>di</strong> riferimento <strong>di</strong> cui si <strong>di</strong>spone:


?? Il dato <strong>di</strong> partenza: che cosa, nella situazione locale (geografica, sociologica…)<br />

favorisce/ostacola il nostro progetto?<br />

?? Le risorse umane:<br />

- nella scuola: a quali competenze, a quali entusiasmi ci si può rivolgere?<br />

- al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> scuola: chi potrebbe aiutarci?<br />

?? Le risorse materiali: <strong>di</strong> cosa abbiamo bisogno (materiali, finanziamento …)? Dove potremmo<br />

trovarlo?<br />

?? Il fattore tempo: quali momenti <strong>di</strong> consultazione sono stati previsti (nel tempo scolastico o al <strong>di</strong><br />

fuori?)<br />

3. Le <strong>di</strong>fficoltà e i limiti da superare<br />

?? All’interno del <strong>gruppo</strong>:<br />

- la <strong>di</strong>mensione del <strong>gruppo</strong> è adatta al nostro progetto? (che il <strong>gruppo</strong> sia troppo o troppo poco<br />

numeroso può costituire un han<strong>di</strong>cap)<br />

- i rapporti tra i partecipanti sono propizi al lavoro? Come risolvere le eventuali <strong>di</strong>fficoltà<br />

relazionali tra i membri del <strong>gruppo</strong>?<br />

?? All’interno <strong>della</strong> scuola:<br />

- il progetto è stato presentato chiaramente a quelli che non hanno partecipato alla sua<br />

elaborazione? (quale immagine se ne sono fatta?)<br />

- ci sono persone che si sono opposte? perché? come <strong>di</strong>scutere con loro?<br />

- quali problemi materiali si pongono? (finanziari, <strong>di</strong>sposizione e qualità dei locali ecc.)<br />

4. Le degenerazioni da evitare<br />

?? Come impe<strong>di</strong>re che col tempo il progetto si DILUISCA in un consenso vago o, al contrario, si<br />

IRRIGIDISCA, <strong>di</strong>ventando un vero dogma e i suoi responsabili un ghetto o un club chiuso?<br />

?? C’è identificazione tra il progetto del <strong>gruppo</strong> e il progetto <strong>della</strong> scuola? Se si, quali sono i<br />

vantaggi e gli inconvenienti?<br />

4.4 SCHEDA: IL CONTRATTO DI LAVORO COME STRUMENTO DELLE<br />

DIFFERENZIAZIONE PEDAGOGICA<br />

1. L’essenziale da ricordare<br />

?? Bisogna essere in due per <strong>di</strong>alogare, lo stesso vale per un contratto! Un contratto è un impegno<br />

tra due parti. La pedagogia del contratto non è una pedagogia <strong>della</strong> solitu<strong>di</strong>ne per l’alunno, ma


una pedagogia del <strong>di</strong>alogo con l’insegnante. Un contratto pedagogico non può essere formulato<br />

interiormente. Ha senso solo davanti a UN TESTIMONE (l’insegnante, un latro adulto, ecc…)<br />

?? Un contratto non è una vaga promessa, ma un impegno preciso e dettagliato che in<strong>di</strong>ca scadenze<br />

e mezzi. Un contratto che non implica PROCEDURE DI VALUTAZIONE non è che un<br />

<strong>di</strong>scorso decorativo.<br />

?? Un contratto fa un’ipotesi sull’avvenire (“mi impegno a fare questo, a sapere quello entro un<br />

certo tempo…”). Suppone quin<strong>di</strong> una MEMORIZZAZIONE DELL’IMPEGNO PRESO fino<br />

allo scadere del termine che è stato fissato. Valutare se un contratto è stato rispettato è ricordare<br />

al contraente i termini precisi del suo impegno e comparare il suo progetto e la realizzazione.<br />

?? Nella pedagogia del contratto, l’educatore è dunque l’INTERLOCUTORE dell’alunno (il<br />

contratto immaginato è realistico? Adatto ai bisogni e alle possibilità dell’alunno?). L’educatore<br />

è allo stesso tempo il TESTIMONE che ricorda gli impegni presi (per cui si suppone ci siano<br />

strumenti <strong>di</strong> memorizzazione: scheda, quaderno, ecc….). E anche colui che valuta (Il contratto è<br />

stato onorato? In che misura? Perché?).<br />

2. Gli strumenti pedagogici del contratto<br />

?? INFORMAZIONI SULLE ESIGENZE ISTITUZIONALI: quali sono i saperi, saper fare, saper<br />

essere, che possono essere pretesi dall’alunno e secondo quale scadenza? (programmi <strong>di</strong><br />

appren<strong>di</strong>mento, regole del gioco sociale nell’e<strong>di</strong>ficio scolastico). L’alunno può <strong>di</strong>fficilmente<br />

formulare un contratto se gli obiettivi <strong>della</strong> formazione che segue non gli sono stati<br />

esplicitamente spiegati. In cosa potrebbe impegnarsi senza sapere cosa ci si aspetta da lui?1<br />

?? SENSIBILIZZAZIONE AL CONCETTO DI CONTRATTO: la parola e l’idea possono non<br />

essere familiari a molti ragazzi. E’ meglio chiarire il termine con esempi scolastici e non. Si può<br />

anche immaginare <strong>di</strong> sperimentare su un “campione”, cioè far vivere la realtà contrattuale in<br />

situazioni semplici (per esempio: la puntualità <strong>degli</strong> alunni …e del professore).<br />

?? L’INCONTRO PER L’ELABORAZIONE DEL CONTRATTO: è importante che l’alunno sia<br />

libero <strong>di</strong> scegliere il proprio interlocutore perché il contratto corrisponda a un percorso<br />

personale e non a un rito da compiere meccanicamente. L’adulto sarà attento a lasciare<br />

esprimere le RAPPRESENTAZIONI che l’alunno si fa <strong>di</strong> se stesso, del proprio avvenire, delle<br />

proprie capacità, delle possibilità che gli si presentano, anche se in questo primo incontro il<br />

ragazzo, la ragazza, si esprime con impaccio o in modo estremo. Si mostrerà accogliente nei<br />

confronti <strong>di</strong> tutto quello che viene detto, senza giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore (anche positivi), senza<br />

interpretare (“<strong>di</strong>ci questo perché …”), evitando <strong>di</strong> esagerare nel consolare o incoraggiare (“Su,<br />

dai, non sei poi così male!”)<br />

?? CIO’ CHE E’ NEGOZIABILE E CIO’ CHE NON LO E’ in un contratto:


NEGOZIABILE:<br />

?? L’ESISTENZA STESSA DEL CONTRATTO (un contratto è un percorso libero. Non si può<br />

obbligare nessuno a fare un contratto, si accetterà quin<strong>di</strong> che alcuni alunni rifiutino <strong>di</strong><br />

impegnarsi in un contratto e preferiscano una gestione meno autonoma, coercitiva, <strong>della</strong> loro<br />

formazione).<br />

?? La possibilità <strong>di</strong> rompere il contratto prima del termine e <strong>di</strong> rientrare in una pedagogia meno<br />

autonoma.<br />

?? La scelta delle parti. Ha importanza per la vali<strong>di</strong>tà dell’impegno la qualità del rapporto che si ha<br />

con i testimoni davanti ai quali è stipulato il contratto. Può allora essere interessante ricorrere a<br />

persone che non siano gli insegnanti: operatori psico-pedagogici, documentaristi, ecc.<br />

NON NEGOZIABILE:<br />

?? la necessità <strong>di</strong> definire con precisione e in termini concreti l’impegno dell’alunno. Si possono<br />

utilizzare con profitto i principi <strong>di</strong> redazione <strong>degli</strong> obiettivi operativi, precisando (a)il<br />

comportamento da osservare, (b) le con<strong>di</strong>zioni in cui si rileva, (c) la scadenza, (d) il livello <strong>di</strong><br />

riuscita richiesto. Per esempio: (a) l’alunno ipotizza <strong>di</strong> poter recitare (b) a memoria, (d) facendo<br />

meno <strong>di</strong> due errori, (c) l’elenco dei verbi irregolari, per Pasqua.<br />

?? la necessità <strong>di</strong> fissare una scadenza precisa e datata, non mo<strong>di</strong>ficabile<br />

?? la necessità <strong>di</strong> porre modalità e tappe <strong>di</strong> valutazione (la scelta stessa <strong>di</strong> questi strumenti potrà<br />

essere <strong>di</strong>scussa, ma una volta accettati, non vengono rimessi in causa).<br />

3. Le <strong>di</strong>fficoltà<br />

?? La pedagogia del contratto è un’auto-valutazione anticipata delle competenze da acquisire:<br />

l’alunno giu<strong>di</strong>ca che, entro un tempo dato, sarà in grado <strong>di</strong>… Cole tale, pone gli stessi problemi<br />

<strong>di</strong> ogni forma <strong>di</strong> auto-valutazione. La valutazione è l’operazione intellettuale più <strong>di</strong>fficile. Nella<br />

tassonomia <strong>di</strong> Bloom, è l’attitu<strong>di</strong>ne più elaborata che presuppone la padronanza delle altre<br />

attività intellettuali: memorizzazione, analisi, produzione, ecc. Ne consegue, evidentemente,<br />

che, quando l’alunno è in grado <strong>di</strong> valutarsi da solo, non ha più bisogno <strong>di</strong> un formatore, è<br />

arrivato al termine <strong>della</strong> sua stessa formazione! Si pretende allora <strong>di</strong> utilizzare uno strumento, il<br />

contratto <strong>di</strong> auto-valutazione, che presuppone l’avvenuta formazione! In realtà, la<br />

contrad<strong>di</strong>zione si risolve nella <strong>di</strong>namica: l’auto-valutazione non è imposta tutta d’un colpo, ma<br />

appresa a poco a poco. Inizialmente si aiuta l’alunno a elaborare il suo contratto e ad auto-<br />

valutarsi, affinché <strong>di</strong>venti capace <strong>di</strong> farlo da solo. La pedagogia del contratto è una forma <strong>di</strong><br />

auto-valutazione assistita (o se si preferisce una pedagogia del <strong>di</strong>alogo)<br />

?? La pedagogia del contratto è una pedagogia per tempi <strong>di</strong> pace. Porta a ottimi risultati quando il<br />

contratto è seguito: ma cosa succede se non è rispettato? Non fare nulla, in quel caso, significa


non prendere sul serio il contratto; ma punire vuol <strong>di</strong>re abbandonare la pedagogia<br />

dell’autonomia per cadere nella peggiore eteronomia! Anche questa volta, la contrad<strong>di</strong>zione si<br />

risolve in una prospettiva <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo pedagogico.<br />

4. Le degenerazioni da evitare<br />

?? LA DEGENERAZIONE PROCEDURALE. Con la pedagogia del contratto c’è forse il rischio<br />

che chi educa il professore sia un notaio puntiglioso che passa il suo tempo a re<strong>di</strong>gere atti<br />

notarili insieme agli alunni e li perseguita per un co<strong>di</strong>cillo ambiguo o per una virgola mal<br />

riposta! Con lui, gli alunni, qualunque cosa facciano, non sono mai liberi dagli impegni presi!<br />

?? LA DEGENERAZIONE DEMAGOGICA. Al contrario, il professore che educa può non<br />

prendere abbastanza sul serio i contratti stipulati con gli alunni…Considera questi impegni<br />

come un programma elettorale e assolve le mancanze con benevola indulgenza. Con lui, gli<br />

alunni, qualunque cosa facciano, sono sempre liberi dagli impegni presi! Nei due casi,<br />

mostrandosi troppo o troppo poco esigenti, si perde la <strong>di</strong>mensione del <strong>di</strong>alogo che dovrebbe<br />

essere l’essenza <strong>della</strong> pedagogia del contratto.<br />

NOTA BIBLIOGRAFICA<br />

M.G. BERLINI, A.CANEVARO, a cura <strong>di</strong>, Potenziali in<strong>di</strong>viduali <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento, La Nuova<br />

Italia, Scan<strong>di</strong>cci (FI), 1996.<br />

A.SEMERARI, I processi cognitivi nella relazione terapeutica, N:I:S:, Roma, 1991.<br />

A.DE LA GARANDERIE, Profili pedagogici, La Nuova Italia, Scan<strong>di</strong>cci (FI), 1989; e<strong>di</strong>z. originale<br />

1987.<br />

Ph. MEIRIEU, Lavoro <strong>di</strong> <strong>gruppo</strong> e appren<strong>di</strong>menti in<strong>di</strong>viduali, La Nuova Italia, Scan<strong>di</strong>cci (FI),<br />

1987; e<strong>di</strong>z. originale 1984.<br />

I Consigli e L’<strong>aiuto</strong> reciproco, in A.CANEVARO, a cura <strong>di</strong>, Han<strong>di</strong>cap a scuola, N:I:S:, Roma,<br />

1983, e ristampa.

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