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Atti della terza edizione del convegno letterario ... - Milano da leggere

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<strong>Atti</strong> <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>terza</strong> <strong>edizione</strong> <strong>del</strong> <strong>convegno</strong> <strong>letterario</strong> ADI-SD<br />

a cura di Barbara Peroni<br />

Ufficio Scolastico per la Lombardia<br />

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4<br />

progetto grafico www.miteintransigente.it<br />

finito di stampare aprile 2006


In questo volume sono stati raccolti gli ATTI <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>terza</strong> <strong>edizione</strong> <strong>del</strong> <strong>convegno</strong><br />

<strong>letterario</strong> “<strong>Milano</strong> <strong>da</strong> Leggere”, organizzato <strong>da</strong>lla associazione ADI-SD, tenutosi all’Universtià<br />

Statale di <strong>Milano</strong> il 15 e 16 Dicembre 2005.<br />

Lo scritto mantiene i caratteri <strong><strong>del</strong>la</strong> comunicazione orale, rispecchiandone l’immediatezza<br />

e l’estemporaneità. E’ la trasposizione fe<strong>del</strong>e di tutte le relazioni.<br />

Un doveroso ringraziamento va al prof. Mario G. Dutto, Direttore Generale <strong>del</strong>l’Ufficio<br />

Scolastico per la Lombardia, che per il terzo anno consecutivo ha permesso lo<br />

svolgersi <strong>del</strong> <strong>convegno</strong> e questa pubblicazione.<br />

Quest’anno si ringrazia anche la SILSIS-Mi per il generoso contributo alla pubblicazione<br />

degli <strong>Atti</strong>, a sottolineare la costante attenzione <strong><strong>del</strong>la</strong> comunità scientifica alla<br />

formazione degli insegnanti.<br />

Per ultimi, ma non per importanza, si ringraziano i professori Rino Caputo, Claudio<br />

Milanini, Francesco Spera, Gianni Turchetta che hanno presieduto le sessioni <strong>del</strong><br />

<strong>convegno</strong> con generosa disponibilità e grande professionalità.<br />

Barbara Peroni, Direttivo ADI-SD<br />

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Indice<br />

Presentazione e saluto <strong>del</strong>le autorità p. 9<br />

ROBERTO BIGAZZI, Università di Siena<br />

La guerra di Rubè p. 12<br />

RAFFAELE DE BERTI, Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

Rizzoli e il cinema tra le due guerre p.22<br />

BARBARA BRACCO, Università di <strong>Milano</strong> - Bicocca<br />

1915-1918. <strong>Milano</strong>, capitale <strong>del</strong> fronte interno p.38<br />

MAURO NOVELLI, Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

Il sacco di <strong>Milano</strong>. Delio Tessa, “Caporetto 1917” p.53<br />

FRANCESCO VARANINI, Università di Pisa<br />

Lo sport come moderna festa cru<strong>del</strong>e: il dio di Roserio p.60<br />

ALBERTO CADIOLI, Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

La guerra di Carlo Emilio Gad<strong>da</strong> p.68<br />

PAOLO GIOVANNETTI, Università IULM <strong>Milano</strong><br />

“Per la trincea ripartito è qualcuno” Poeti a <strong>Milano</strong> nella grande guerra p.76<br />

REMO CESERANI, Università Statale di Bologna<br />

Rappresentazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra p.90<br />

PIETRO CATALDI, Università per Stranieri di Siena<br />

La «patria tradita». Un filmato di Toscanini <strong>del</strong> 1943 p.101<br />

GIULIANA NUVOLI, Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

La guerra dei poveri p.111<br />

GIOVANNI FALASCHI, Università di Perugia<br />

Altro effetto <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra: la crisi interiore p.121<br />

CTRL Z, Università IULM <strong>Milano</strong><br />

Alla periferia di nessun centro (filmato) p.135<br />

SERGIO D. ALTIERI, Scrittore<br />

Guerra asimmetrica: a che ora è la fine <strong>del</strong> mondo? p.140<br />

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8<br />

GIUSEPPE LANGELLA, Università Cattolica di <strong>Milano</strong><br />

Ecce homo. Sulla letteratura <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra alpina p.143<br />

SILVIA MORGANA, Università degli Studi di <strong>Milano</strong><br />

Leggere per non dimenticare:<br />

lettere <strong>da</strong>i lager di internati militari italiani (1943-44) p.153<br />

RINO CAPUTO, Università di Roma “Tor Vergata”<br />

Modi di dire la guerra <strong>da</strong> <strong>Milano</strong> all’Italia: il tumulto p.166


Presentazione <strong>del</strong> <strong>convegno</strong>:<br />

Apertura lavori<br />

BARBARA PERONI<br />

Direttivo nazionale ADI-SD<br />

Buongiorno e benvenuti.<br />

Il mio compito è particolarmente piacevole; devo ringraziare:<br />

Il Magnifico Rettore, professor Enrico Decleva, che ci ospita per due giorni in questa<br />

bellissima aula magna <strong>del</strong>l’Università Statale di <strong>Milano</strong>,<br />

il Direttore <strong>del</strong>l’Ufficio Scolastico Regionale <strong><strong>del</strong>la</strong> Lombardia, dottor Mario Dutto,<br />

che continua a sostenere “<strong>Milano</strong> <strong>da</strong> Leggere”, rendendolo, con il suo appoggio, un<br />

appuntamento annuale,<br />

i presidenti di sessione F.Spera, R.Caputo,C. Milanini,G.Turchetta, per la loro disponibilità<br />

e competenza,<br />

i relatori tutti, che vengono <strong>da</strong> ogni parte d’Italia, offrendo il loro tempo e la loro preparazione<br />

scientifica,<br />

il pubblico numeroso, tra cui vedo soci fe<strong>del</strong>i, coinvolti <strong>da</strong>l lavoro <strong>del</strong>l’associazione.<br />

Un grazie ancora a tutti quelli che hanno contribuito e contribuiscono oggi alla riuscita<br />

<strong>del</strong>le due giornate di studio: al grafico, ai tecnici, alle studentesse <strong>del</strong> Gentileschi,<br />

al servizio d’ordine, e a tutti quelli che sto forse dimenticando.<br />

Questo <strong>convegno</strong> riafferma la convinzione <strong>del</strong>l’associazione sulla necessità e sulla<br />

validità di un raccordo tra Università e Scuola che è sempre stato un punto di forza<br />

<strong>del</strong>l’ADI-SD, ed è il presupposto che ci fa impegnare per creare rapporti di collaborazione<br />

in tutta Italia.<br />

È proprio in questi incontri che si concretizza il disegno di coniugare la di<strong>da</strong>ttica<br />

quotidiana con i fon<strong>da</strong>menti scientifici, creando un circolo di esperienze culturali condivise<br />

e spendibili nel lavoro quotidiano.<br />

Va aggiunto che l’aggiornamento sui temi letterari ci sembra sempre più essenziale<br />

in un momento di cambiamenti nella cultura scolastica di cui siamo piuttosto sconcertati<br />

se non preoccupati.<br />

Quest’anno, dopo lo studio degli scrittori milanesi di nascita o di adozione, dopo<br />

aver affrontato l’icona Manzoni, abbiamo pensato di affrontare il tema <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra,<br />

puntando l’attenzione sempre su <strong>Milano</strong>, per riflettere insieme sulle “grandi cose <strong>del</strong><br />

passato, e farle entrare nella nostra vita”.<br />

9


10<br />

Anche ripercorrendo i drammi <strong><strong>del</strong>la</strong> prima guerra mondiale e <strong><strong>del</strong>la</strong> secon<strong>da</strong> si dimostrerà<br />

come la letteratura sia un campo di saperi completo, tanto che molti autori ci<br />

si presenteranno come pluriprospettici.<br />

Si è cercato di creare un percorso tematico, che, partendo <strong>da</strong>l recupero <strong><strong>del</strong>la</strong> tradizione,<br />

problematizzi le tante pagine sulle due guerre mondiali.<br />

La speranza di tutti noi è che attraverso la riflessione e lo studio il celebre verso<br />

“dulce et decorum est pro patria mori” appaia in tutta la sua menzogna, perchè “solo<br />

i morti hanno visto la fine <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra”.<br />

ELIO FRANZINI<br />

Preside <strong><strong>del</strong>la</strong> facoltà di lettere <strong>del</strong>l’Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

La guerra, lo si sa, ed è banale dirlo, è uno degli orrori quotidiani con cui l’umanità<br />

non solo convive, ma che sempre di nuovo genera, caricando in questo modo la propria<br />

esistenza di un assurdo, ripetitivo e immane peso di dolore. La “catarsi” <strong>da</strong>ll’inconcepibile,<br />

la possibilità cioè di “purificarsi” <strong>da</strong>lla negatività <strong>da</strong> cui questa tragedia è<br />

intrisa, passa forse, come ricor<strong>da</strong> Aristotele, proprio <strong>da</strong>lla letteratura, che è un modo<br />

per afferrare il senso intimo e profondo <strong><strong>del</strong>la</strong> storia e <strong><strong>del</strong>la</strong> sua tragicità.<br />

E’ per questo motivo che Convegni come quello che oggi qui si apre sono autenticamente<br />

importanti: un’importanza, prima ancora che culturale, etica e politica, nel<br />

senso che si aiuta, attraverso il sapere e le sue consapevolezze, a comprendere il senso<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> “polis”, e <strong>del</strong> genere umano, al di là <strong>del</strong>le follie che esso stesso genera.<br />

A questo “serve” l’opera d’arte. E, appunto, perché vi sia arte - e l’emozione intersoggettiva<br />

non sia semplicemente connessa a un grande evento di straordinario impatto<br />

emotivo – è necessario che tale emozione non sia priva di “riferimento” oggettuale,<br />

si connetta cioè a opere “vere”, a fatti narrati, alla trasfigurazione letteraria <strong>del</strong>l’evento,<br />

che mette insieme l’eternità e l’istante. E’ su questo piano, in cui lo sguardo estetico-sentimentale<br />

e intersoggettivo incontra l’opera con le sue qualità, che si innesta<br />

la dimensione, essenziale per la letteratura e la critica, <strong>del</strong> giudizio, risultato di una<br />

qualificazione oggettuale <strong>del</strong>l’esperienza, divenuta comunicazione, insegnamento,<br />

monito e discorso condiviso.<br />

Il giudizio connesso all’esperienza <strong>del</strong>l’opera è un piano “valutativo” che pone le<br />

basi per un discorso assiologico che non si riferisce soltanto all’intrinseco “valore”<br />

<strong>del</strong>l’opera. E’ invece un valore più ampio, che conduce all’interno di un’intenzionalità<br />

“motivazionale”: il valore <strong>del</strong>l’opera non è quindi un assoluto astratto, bensì un percorso<br />

che determina le proprie specificità attraverso atti storicamente qualificati, che<br />

rendono il valore una dimensione <strong><strong>del</strong>la</strong> storia, costitutivo <strong><strong>del</strong>la</strong> storicità stessa.<br />

L’arte, infatti, non è la creazione di una fantasia soggettiva, ma, indipendentemente<br />

<strong>da</strong>i processi costruttivi che hanno prodotto quegli oggetti che ne costituiscono l’insieme,<br />

rivela, loro tramite, sul piano descrittivo, una struttura di senso che la rende<br />

– nel suo essere coagulo di affettività, oggetto di giudizio e orizzonte di valore – una


specifica “regione”, che si caratterizza, come aveva teorizzato Goethe, e prima di lui<br />

Leonardo, in quanto organo interpretativo capace di far comprendere gli aspetti formali,<br />

qualitativi, intersoggettivi, mitici, simbolici, sincronici <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra realtà, nel<br />

momento in cui essa concretizza in opere specifiche la nostra esperienza qualitativa<br />

e motivazionale <strong>del</strong> mondo circostante. E tale comprensione è tanto più importante<br />

quanto più questa realtà presenta tutte le contraddizioni e le grandezze <strong>del</strong>l’umana<br />

vicen<strong>da</strong>.<br />

E’ per tali motivi che, mio tramite, la Facoltà di Lettere e Filosofia è orgogliosa e<br />

felice di portare il proprio saluto a questo Convegno. Convegno che si innesta su un’attività,<br />

quella <strong>del</strong>l’ADI, che merita non un plauso non formale, bensì un grazie sincero<br />

capace di riconoscere tutta la passione che gli organizzatori e gli illustri relatori hanno<br />

impegnato per comprendere un tema di straordinaria attualità e complessità.<br />

Iniziative come questa hanno l’ulteriore merito di porsi come punto di raccordo tra<br />

la comunita’ scientifica e il mondo <strong><strong>del</strong>la</strong> scuola, come momento di riflessione su temi<br />

fon<strong>da</strong>nti nella formazione degli insegnanti e nella loro crescita culturale.<br />

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12<br />

ROBERTO BIGAZZI<br />

Università di Siena<br />

La guerra di Rubè 1<br />

Rubè, anzi, Filippo Rubè, chi era costui? Come forse sapete, è il personaggio che dà<br />

il nome a un romanzo <strong>del</strong> 1921 di uno scrittore siciliano a sua volta non proprio famoso,<br />

Giuseppe Antonio Borgese. Ma non è detto che la notorietà misuri l’importanza<br />

di uno scrittore o di un testo, specie in una critica come quella <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra letteratura,<br />

che allinea di decennio in decennio e di manuale in manuale sempre gli stessi autori<br />

e le stesse opere. Partiamo allora tranquillamente <strong>da</strong>ll’ipotesi che Rubè appartenga a<br />

quella piccola schiera di grandi romanzi che, nel primo Novecento, si fanno stra<strong>da</strong> tra<br />

le varie avanguardie più o meno letterariamente eversive per offrire una acuta diagnosi<br />

narrativa <strong><strong>del</strong>la</strong> realtà contemporanea.<br />

Filippo Rubè, dunque, è un giovane avvocato siciliano, di un piccolo paese, arrivato<br />

a Roma per fare carriera forse anche politica. Mortogli il padre che lo manteneva<br />

nella capitale, gli sono restate una madre e due sorelle, che si levano il pane di bocca<br />

per permettergli di restare a Roma, in attesa che sia baciato <strong>da</strong>lla fortuna. Invece di<br />

inseguire la fortuna, Rubè diventa un acceso interventista nel periodo che precede lo<br />

scoppio <strong><strong>del</strong>la</strong> prima guerra mondiale; coerentemente si arruola, ha un momento di<br />

crisi quando pensa di essere un vigliacco, ricattandola moralmente seduce una giovane,<br />

Eugenia, con cui si fi<strong>da</strong>nza, poi durante la guerra si comporta bene, viene ferito e<br />

quindi decorato. Di guerra guerreggiata non se ne vede molta, perché è tutta filtrata<br />

<strong>da</strong>i problemi interiori <strong>del</strong> protagonista. Una volta ristabilito <strong>da</strong>lla ferita, va in missione<br />

a Parigi, dove conosce una splendi<strong>da</strong> donna, Celestina, moglie di un generale<br />

francese, e dove si gua<strong>da</strong>gna la stima <strong>del</strong> suo capomissione, un ufficiale che nella vita<br />

civile è un industriale milanese, De Sonnaz, il quale, finita la guerra, lo fa assumere<br />

<strong>da</strong> suo fratello a <strong>Milano</strong>; qui Rubé arriva proprio a metà libro, a guerra appena finita,<br />

facendosi presto raggiungere <strong>da</strong> Eugenia, che ha appena deciso di sposare.<br />

Siamo così a metà libro e prima di entrare a <strong>Milano</strong>, ragioniamo su questi <strong>da</strong>ti, e ci<br />

accorgeremo che Rubè, come altri personaggi di romanzi famosi tra Otto e Novecento,<br />

1. Lascio a questo intervento il suo carattere orale, ma tra i pochi contributi critici degli ultimi<br />

anni voglio almeno citare per il suo impianto innovativo il saggio di O. Innocenti, Rubè, in<br />

Quindici episodi <strong>del</strong> romanzo italiano (1881-1923), a cura di F. Bertoni e D. Giglioli, Bologna,<br />

Pendragon, 1999, pp. 361-82. Tutte le citazioni di Rubè sono <strong>da</strong>ll’ed. con introduzione di Luciano<br />

De Maria, <strong>Milano</strong>, Oscar Mon<strong>da</strong>dori, 1974, con la sola indicazione <strong><strong>del</strong>la</strong> pagina.


ha la caratteristica di rivivere nella propria storia quelle di tanti suoi illustri predecessori;<br />

l’autore gliele fa rivivere per dimostrare il fallimento di consoli<strong>da</strong>te ma vecchie<br />

formule esistenziali (nonché narrative) e eventualmente sperimentarne qualcuna nuova.<br />

Questa caratteristica ci aiuterà a interpretare le pagine milanesi <strong>del</strong> romanzo.<br />

Per cominciare <strong>da</strong>lla formula più nota, il giovane che come Rubè si muove <strong>da</strong>lla<br />

provincia alla città per tentare la sorte è il personaggio principale di molti romanzi<br />

europei e italiani ottocenteschi: basta ricor<strong>da</strong>re ‘Ntoni Malavoglia, ma in questo caso<br />

punterei soprattutto al Piran<strong>del</strong>lo de I vecchi e i giovani (1913), dove la partenza per<br />

Roma implica oltretutto un progetto politico, come in Borgese, e dove viene in primo<br />

piano quel senso di soffocamento dei giovani <strong>da</strong> parte dei vecchi, quella mancanza<br />

di prospettive di rinnovamento e quindi il bisogno di rivoltarsi che tormentano anche<br />

Rubè:<br />

La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia<br />

dei vecchi la schiacciava così, col peso <strong><strong>del</strong>la</strong> più vile prudenza e di tante<br />

umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio,<br />

di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo<br />

spettacolo di tante brutture? Ecco come l’opera dei vecchi, qua, ora, nel bel<br />

mezzo d’Italia, a Roma, sprofon<strong>da</strong>va in una cloaca; mentre sù, nel settentrione,<br />

s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa<br />

Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l’inerzia,<br />

la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a<br />

formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora,<br />

la gioventù sacrificata potrebbe <strong>da</strong>re un crollo a questa oltracotante oppressione<br />

dei vecchi e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa! (L.<br />

Piran<strong>del</strong>lo, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, vol. II, <strong>Milano</strong>, Mon<strong>da</strong>dori,<br />

1975, p.421)<br />

Borgese è più giovane di Piran<strong>del</strong>lo, e ormai non è più interessato al dibattito tra centro<br />

e periferia, tra governo centrale e governo isolano. Formatosi in mezzo ai roventi<br />

dibattiti <strong>del</strong>le riviste di primo Novecento, nello scontro tra il riformismo giolittiano e<br />

il nazionalismo eversivo, lo scrittore ha problemi più complicati a partire proprio <strong>da</strong><br />

un problema di identità. Di solito, infatti, questi figli migranti vanno a finire male,<br />

perché la società non si apre al loro progetto di conquista e di rinnovamento; e questo<br />

è ben chiaro nella memoria genetica di Filippo Rubè, che non riesce a sperare né in un<br />

progetto di fortuna economica attraverso l’avvocatura né in un progetto politico:<br />

[...] a tar<strong>da</strong> sera, mettendo la chiave nella serratura <strong><strong>del</strong>la</strong> camera mobiliata,<br />

lo poteva cogliere un subitaneo ribrezzo come se stesse per vedere l’anima sua<br />

simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione <strong>del</strong> circo equestre: un infinito<br />

sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance. (p.6)<br />

La sua condizione di impotenza, di inettitudine, dichiarata fin <strong>da</strong>ll’inizio <strong>del</strong> libro, è<br />

a sua volta tutt’altro che nuova, perché già prevista nei programmi verghiani e nei romanzi<br />

tra Otto e Novecento, tra Svevo e Tozzi: i loro personaggi sono, appunto, inetti<br />

- una conseguenza <strong>del</strong>l’essere artisti o intellettuali o aspiranti tali in una società che<br />

li guar<strong>da</strong> invece con sospetto perché non sa cosa farsene. Basta ricor<strong>da</strong>re come nella<br />

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14<br />

prefazione ai Malavoglia Verga aveva tracciato l’immagine <strong>del</strong>le varie classi sociali,<br />

aggiungendo a popolo, borghesia e aristocrazia le due classi speciali dei politici e degli<br />

artisti, definendo questi ultimi uomini di “lusso”, cioè superflui, inutili nella società<br />

moderna:<br />

Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti<br />

questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese,<br />

Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una<br />

piccola città di provincia, ma <strong>del</strong> quale i colori cominceranno ad essere più vivaci,<br />

e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica<br />

nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare<br />

all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità,<br />

tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue<br />

e ne è consunto<br />

Se sono superflui, sono però – come si vede - anche coloro che comprendono tutti gli<br />

aspetti <strong><strong>del</strong>la</strong> società e ne soffrono perché non possono agire né per avvantaggiarsene<br />

né per cambiarli: e per questa inquietudine sono comunque pericolosi, e quindi guar<strong>da</strong>ti<br />

con sospetto in tutti i romanzi tra Otto e Novecento. Ma rispetto ai personaggi di<br />

Verga, Svevo e Tozzi, quello di Borgese ha deciso di giocare una carta che gli altri non<br />

avevano; ha deciso di reagire all’inettitudine bruciandola nella esaltazione esasperata<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> guerra: “La guerra risanatrice <strong>del</strong> mondo sarebbe stata la sua medicina” (p.24).<br />

Una dichiarazione, questa, che riecheggia le celebri formule <strong>del</strong> futurismo e in particolare<br />

di Marinetti sulla guerra come “igiene <strong>del</strong> mondo” (su cui cadrà anche l’ironia<br />

<strong>del</strong> finale <strong><strong>del</strong>la</strong> Coscienza di Zeno). Per completare il quadro, il padre di Rubè ha qualche<br />

consonanza con quello di Andrea Sperelli, il protagonista <strong>del</strong> Piacere di D’Annunzio,<br />

che aveva lasciato al figlio il motto habere non haberi, cioè bisogna dominare, non<br />

essere dominati: un programma non lontano <strong>da</strong> quel ‘o tutto o niente’ che è il motto<br />

<strong>del</strong> padre di Rubè, sempre presente nella memoria <strong>del</strong> figlio.<br />

Dunque Rubè fa i conti con la cultura più recente, quella che in nome <strong>del</strong> futuro e<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> violenza (e <strong>del</strong> superuomo), <strong>del</strong> disprezzo e <strong><strong>del</strong>la</strong> paura per la società di massa,<br />

aveva <strong>da</strong>to alla letteratura compiti e forme diverse <strong>da</strong> quelle tardo ottocentesche, impegnate<br />

nel conoscere proprio quella società. Così, raccontando il suo personaggio,<br />

Borgese analizza con gli strumenti <strong>del</strong> realismo quelle correnti di pensiero che avevano<br />

ferocemente avversato proprio ogni idea di conoscenza realistica <strong><strong>del</strong>la</strong> società,<br />

favorendo invece la restaurazione <strong>del</strong> principio di autorità contro l’ascesa dei movimenti<br />

popolari.<br />

E lo scrittore Borgese comprendeva bene quel vasto movimento di giovani eversori<br />

piccolo-borghesi, visto che anche lui era stato uno di loro, quando aveva diretto giovanissimo,<br />

con spiriti <strong>da</strong>nnunziani, la rivista “Hermes”.<br />

Ma alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, quando Borgese scrive il suo libro, molti di quei giovani<br />

eversori piccolo-borghesi stavano appunto reclamando un ritorno all’ordine, contro<br />

il presunto disordine <strong><strong>del</strong>la</strong> sinistra, e nel reclamarlo lo affi<strong>da</strong>vano al nascente squadrismo<br />

fascista (quando non anche alla Chiesa) nelle cui file erano confluiti molti<br />

antichi interventisti. Lo scrittore e il suo personaggio rifiuteranno questa stra<strong>da</strong>. In<br />

altre parole, Borgese vede nella cultura <strong>del</strong>l’interventismo un campo <strong>da</strong> in<strong>da</strong>gare per<br />

capire il torbido dopoguerra in cui scrive il suo romanzo, tra impulsi rivoluzionari


<strong><strong>del</strong>la</strong> sinistra e squadrismo fascista ben visto o tollerato sia <strong>da</strong>l potere politico che<br />

<strong>da</strong> quello economico. Per questo il nostro romanzo viaggia tra Roma e <strong>Milano</strong>, oltre<br />

che in Sicilia: un itinerario inedito, perché di solito i protagonisti di tanti romanzi <strong>del</strong><br />

tempo o se ne stanno imprigionati nella loro provincia (ad esempio, quelli di Tozzi a<br />

Siena) o nella loro città (come quelli di Svevo a Trieste), o vanno <strong>da</strong>lla provincia alla<br />

città, in particolare <strong>da</strong>l Sud a Roma (come è il caso già indicato di vari personaggi<br />

piran<strong>del</strong>liani), ma un simile movimento tra provincia, capitale economica e capitale<br />

politica è una prerogativa credo esclusiva di Borgese, a cui una simile geografia (che<br />

si allarga per di più ad altri luoghi) serve anche per spiegare il passaggio <strong>da</strong>lla vecchia<br />

alla nuova letteratura.<br />

Ecco allora il senso <strong>del</strong> percorso di Rubé. Appro<strong>da</strong>to a Roma con idee vecchie - la<br />

professione di avvocato, la politica, che non possono realizzarsi neanche narrativamente<br />

- la guerra gli offre qualcosa di nuovo, perché la sua ferita e la relativa me<strong>da</strong>glia<br />

gli aprono le porte di Parigi e poi di <strong>Milano</strong>: e a <strong>Milano</strong> arriva quasi a trentacinque<br />

anni, nel mezzo <strong>del</strong> cammin <strong><strong>del</strong>la</strong> sua vita, quando deve decidere se restare nella selva<br />

oscura o intraprendere il cammino <strong><strong>del</strong>la</strong> salvezza, sempre che esista e che ci sia un<br />

Virgilio disposto a gui<strong>da</strong>rlo. Ma appunto a <strong>Milano</strong> scoprirà che le strade praticabili<br />

sono sì molte, ma illusorie.<br />

Vediamo dunque finalmente questo arrivo, nell’immediato dopoguerra, in quella<br />

che Rubè descrive alla madre come “la vera capitale d’Italia” “dove contava di trovare<br />

una clientela più ricca e di aprirsi una stra<strong>da</strong> negli affari” (p.188). Il lettore che a metà<br />

romanzo inizia questo capitolo XIII sa che non può più aspettarsi una <strong>Milano</strong> popolare,<br />

colorita e talora sentimentale alla maniera di Verga, Bertolazzi e De Marchi; casomai<br />

il futurismo e l’accenno agli affari fanno prevedere una <strong>Milano</strong> proiettata nella<br />

modernità, frenetica tra un affare e l’altro. Ma la scelta di Borgese è diversa:<br />

Era pure passata di poco la mezzanotte quando, verso mezzo dicembre<br />

(1918), Filippo Rubè, ormai definitivamente in borghese, arrivò a <strong>Milano</strong>. Ma<br />

la città che non conosceva e l’Italia che rivedeva dopo più di un anno erano<br />

così diverse <strong>da</strong> Parigi ch’egli ebbe, uscendo sul piazzale <strong><strong>del</strong>la</strong> stazione, l’impulso<br />

di voltarsi, come se potesse rifare la stra<strong>da</strong> a ritroso. Le lampade ad<br />

arco s’anemizzavano nella nebbia mucillaginosa, e le sagome dei viaggiatori,<br />

discesi gli scalini, si scioglievano in un lago di tenebra transluci<strong>da</strong>. (p.183)<br />

Questa è una <strong>Milano</strong> fred<strong>da</strong>, nebbiosa, buia, invasa <strong>da</strong>lla solitudine, senza allettamenti<br />

<strong>da</strong> grande metropoli, e sembra sconosciuta a Rubè perché è sconosciuta alla<br />

letteratura precedente: non ha nulla infatti <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>Milano</strong> scapigliata o verista ma non<br />

sembra neanche una metropoli pulsante di vita futurista notte e giorno. Con un facchino<br />

che gli porta la valigia, Rubè inizia a piedi la lunga, penosa ricerca di un albergo,<br />

e prima di sistemarsi in una “stamberga che tanfava” fa in tempo a incontrare un<br />

commilitone, Garlandi, un ufficiale a cui Rubè ha visto uccidere a sangue freddo un<br />

proprio sol<strong>da</strong>to; a completare il ritratto, Garlandi si presenta come reduce <strong>da</strong> una prigionia<br />

che forse è stata soltanto un imboscamento. Ma Garlandi è uno che ha fiutato<br />

il vento che tira:<br />

Vedi, questo è un tempo che chi non arricchisce col commercio è un fesso.<br />

Che gli rispondo al mio figliolo, se un giorno ne ho uno e mi dice: idiota di<br />

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16<br />

un genitore, sei stato alla guerra, ti sei scampata la pelle e non sei diventato<br />

nemmeno milionario? Sono sulla buona stra<strong>da</strong>, sai? (p.187)<br />

Ritroveremo Garlandi, ma per ora seguiamo Rubè che finalmente, appena si è ripreso,<br />

si reca nella fabbrica metallurgica Adsum di De Sonnaz, <strong>da</strong>lle parti di Seveso,<br />

dove il suo vecchio colonnello di Parigi lo presenta frettolosamente al fratello Adolfo,<br />

il proprietario vero, “uno fra i più famosi capitani d’industria <strong><strong>del</strong>la</strong> nuova generazione,<br />

non ancora all’apogeo, ma in via, dicevano i frettolosi profeti, di conquistare una<br />

potenza <strong>da</strong> ricor<strong>da</strong>re esemplari americani” (p.189). Ecco dunque finalmente un elemento<br />

di modernità, <strong>da</strong> paragonare addirittura al mitico mo<strong>del</strong>lo americano. Adolfo<br />

espone a Rubè la sua visione:<br />

Io credo che molti miei colleghi s’illudono immaginandosi che la guerra sia<br />

stata la malattia e la pace sia la salute. La guerra era una specie di salute un<br />

po’ esaltata, e la pace, il dopoguerra, sarà una depressione tremen<strong>da</strong>. Dappertutto,<br />

sa?, ma in Italia un po’ peggio che altrove, perché il paese è debole, e ci<br />

sono sciagurati anche in casa nostra che ci vogliono defrau<strong>da</strong>re dei frutti <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vittoria. Se non si pensa presto a rinsal<strong>da</strong>re i vincoli e a stringere i freni, l’ordine<br />

sociale e la prosperità <strong>del</strong>le industrie passeranno brutti quarti d’ora. [...]<br />

Non parlo per me personalmente; sia ben persuaso che sono al sicuro, e posso<br />

spatriare quando voglio e continuare a far milioni dove voglio. E’ il paese che<br />

è a mal partito. Mi accorgo già che voglia di lavorare non ce n’è più e che le<br />

idee bolsceviche dilagano. (p.190)<br />

Dunque, Adolfo De Sonnaz è lucido nella diagnosi riguar<strong>da</strong>nte la recessione economica<br />

post-bellica, ma molto reazionario nella soluzione politica fatta intravedere:<br />

i “frutti <strong><strong>del</strong>la</strong> vittoria” spettano solo alla classe dirigente e consistono chiaramente<br />

nell’arricchimento, minacciato <strong>da</strong>gli “sciagurati”, <strong>da</strong>i bolscevichi che, secondo una<br />

accusa ricorrente, non hanno voglia di lavorare e producono agitazione sociale. Ovviamente<br />

per un tipo simile, tanto futuribile <strong>da</strong> essere già pronto per la <strong>del</strong>ocalizzazione,<br />

i dipendenti devono avere come unico obbiettivo la fabbrica e contentarsi di poco<br />

lavorando molto: così De Sonnaz consiglia a Rubè di non prender moglie e lo assume<br />

in prova per tre mesi. In altre parole, al dipendente si richiede d<strong>edizione</strong> assoluta, ma il<br />

padrone può chiudere e riaprire quando e dove gli conviene. Rubè, che ha tanti difetti<br />

ma non manca mai di lucidità, fa presto a tirare le somme:<br />

Che voleva quel pescecane? Metterlo come spia fra gl’impiegati e le maestranze?<br />

[...] Allora si ripeté le cose oscure e banali che il commen<strong>da</strong>tore<br />

gli aveva compitate sui freni <strong>da</strong> stringere e sull’ordine sociale <strong>da</strong> preservare.<br />

Che strano mestiere era il suo, dopo vent’anni di studi, dieci di professione<br />

e di stenti, e tanto arrabattarsi! Guardiano <strong>del</strong>l’ordine sociale nel dopoguerra<br />

industriale. (p.191)<br />

Ma Rubè sa che l’alternativa è tornare agli stenti di Roma e decide di resistere,<br />

mettendocela tutta, prendendo un secondo lavoro gratis presso l’avvocato Giacone, e<br />

facendosi apprezzare <strong>da</strong> tutti per il suo zelo. Può bastare <strong>da</strong>vvero lo zelo, può bastare<br />

il fatto che De Sonnaz valuti subito positivamente la capacità che ha Rubè di control-


22<br />

RAFFAELE DE BERTI<br />

Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

Rizzoli e il cinema tra le due guerre<br />

1. I rotocalchi illustrati<br />

Gli anni Trenta sono una stagione particolarmente felice per la diffusione di ogni<br />

tipo di rivista cinematografica: <strong>da</strong> quelle più popolari come “Cinema Illustrazione”<br />

e “Stelle” alle pubblicazioni di maggior impegno culturale come “Cinema” e “Bianco<br />

e Nero”. Un grande successo di vendita lo riscuotono le riviste stampate a rotocalco.<br />

Una tecnica nata negli Stati Uniti alla fine <strong>del</strong>l’800, che consente grandi tirature a costi<br />

contenuti e che si diffonde anche in Italia, soprattutto grazie ad Angelo Rizzoli, a<br />

partire <strong>da</strong>gli anni Venti. Si tratta di pubblicazioni corre<strong>da</strong>te di molte immagini e che si<br />

rivolgono, prevalentemente, a un pubblico popolare. Il formato più consueto è compreso<br />

fra 12 e 16 pagine e presenta in copertina, generalmente, una fotografia di un’attrice<br />

o di un attore . La periodicità è quasi sempre settimanale. I contenuti sono costituiti<br />

<strong>da</strong> cineromanzi e novelle tratti <strong>da</strong> film, biografie e articoli sulla vita dei divi, spesso di<br />

fantasia o provenienti <strong>da</strong>lle agenzie di stampa <strong>del</strong>le majors americane, sull’ambiente<br />

di Hollywood e di Cinecittà con varie notizie curiose e di cronaca rosa. Inoltre, ci<br />

sono anticipazioni sui film in lavorazione, interviste agli attori e ad altri personaggi<br />

che lavorano nel cinema e l’immancabile rubrica di corrispondenza con i lettori, dove<br />

si dispensano consigli di ogni tipo. Frequenti sono anche i referendum e i concorsi a<br />

premi che mettono in palio prodotti di bellezza o la possibilità di entrare nel mondo<br />

<strong>del</strong> cinema come attori. La critica ai film si riduce, nella maggior parte dei casi, a un<br />

breve riassunto <strong><strong>del</strong>la</strong> trama, a pochissime righe di commento con qualche notazione<br />

morale e di costume. Nei rotocalchi molto spesso il film è solo il pretesto per scrivere<br />

d’altro o parlare dei suoi interpreti. In conclusione cinema e stampa a rotocalco sono<br />

parti di un unico sistema integrato in cui ciascuno favorisce il consumo <strong>del</strong>l’altro e<br />

in cui prevale un atteggiamento pe<strong>da</strong>gogico che può influire, in una certa misura, sul<br />

modo di pensare e sugli stili di vita <strong>del</strong> pubblico.<br />

1. Per maggiori informazioni sulle riviste <strong>del</strong> periodo si riman<strong>da</strong> a Davide Turconi, Camillo<br />

Bassotto, Il cinema nelle riviste italiane <strong>da</strong>lle origini ad oggi, Edizioni mostracinema, Venezia,<br />

1972; Lucilla Albano, Volontà-impossibilità <strong>del</strong> cinema fascista. Riviste e periodici degli<br />

anni Trenta in Italia, in AA.VV., Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, cit, pp. 101-<br />

136 e a Riccardo Redi (a cura di), Cinema scritto. Il catalogo <strong>del</strong>le riviste italiane di cinema


Tra le tante testate cinematografiche <strong>del</strong> periodo 1 che corrispondono, in linea di<br />

massima, alle caratteristiche <strong>del</strong>ineate si possono ricor<strong>da</strong>re per la loro grande diffusione<br />

“Cine-Romanzo”, nata nel 1929 e che nel 1935 prende il nome di “Cine illustrato”<br />

passando <strong>da</strong>lla casa Editrice Popolare Milanese a Rizzoli, “Cinema Illustrazione”,<br />

edito sempre <strong>da</strong> Rizzoli, che inizia le pubblicazioni nel 1930 e si fonde, a sua volta, con<br />

“Cine illustrato” nell’agosto 1939 2 , “Stelle” (1933-1938) e “Film” (1938-1945) 3 .<br />

In sintesi la formula vincente di queste pubblicazioni si basa <strong>da</strong> una parte sulla centralità<br />

<strong>del</strong>le figure dei divi, ripresi e raccontati sia sul set che nella loro vita quotidiana,<br />

e <strong>da</strong>ll’altra parte sulla trasposizione dei film in cineromanzi. Nel periodo tra il 1934 e<br />

1907-1944, Associazione italiana per le ricerche di storia <strong>del</strong> cinema, Roma, 1992. Si ve<strong>da</strong>no,<br />

inoltre, Gian Piero Brunetta, Storia <strong>del</strong> cinema italiano. Il cinema di regime 1929-1945,<br />

vol.2, Editori Riuniti, Roma, 1993 e Lorenzo Pellizzari, La critica cinematografica in Italia<br />

1929-1959, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia <strong>del</strong> cinema mondiale. Teorie, strumenti,<br />

memorie, vol.V, Einaudi, Torino, 2001, pp.445-484.<br />

2. “Cine illustrato” proseguirà fino al 1960.<br />

3. Con la costituzione <strong><strong>del</strong>la</strong> Repubblica di Salò “Film” si trasferisce <strong>da</strong> Roma a Venezia e prosegue<br />

la pubblicazione fino all’aprile <strong>del</strong> 1945, per poi riprendere l’uscita nel marzo <strong>del</strong> 1946.<br />

Si ve<strong>da</strong> Adriano Aprà, Nota su “Film” in AA.VV., Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-<br />

1943, Quaderno <strong><strong>del</strong>la</strong> Mostra Internazionale <strong>del</strong> Nuovo Cinema n.71, Pesaro, 1976, pp.148-151<br />

e Lorenzo Pellizzari, La critica cinematografica in Italia 1929-1959, cit, p. 473-474.<br />

4. Un cambiamento legato, evidentemente, alla nascita di Cinecittà (1937) e soprattutto<br />

all’entrata in vigore, nel 1938, <strong>del</strong>le leggi sul monopolio cinematografico e al contrasto con le<br />

grandi case di produzione Hollywoodiane.<br />

23


24<br />

il 1939 è evidente anche il progressivo spostamento <strong>del</strong> baricentro d’interesse <strong>da</strong> Hollywood<br />

a Cinecittà e il tentativo, dopo il 1938 4 , d’incrinare il mito dei divi americani<br />

per sostituirli con gli attori italiani.<br />

2. Il cinema tra sogno e quotidianità<br />

Nei rotocalchi grazie ai divi, protagonisti nei film come nelle riviste, si crea una<br />

sorta di unico grande mondo cinematografico, dove le ombre <strong>del</strong>lo schermo si calano<br />

nella vita di tutti i giorni, annullando le differenze fra personaggio e attore. Per<br />

i lettori la vita privata di Marlene Dietrich, Mary Pickford Ramon Novarro, Mae<br />

West e di tanti altri attori diventa familiare e fa tutt’uno con i ruoli che interpretano<br />

nei film. Le stesse biografie dei divi non sono che la riscrittura, in chiave realisticoquotidiana,<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> fiaba di Cenerentola dove il successo può arrivare, inaspettatamente,<br />

per chiunque. E’ il caso di Mae West che Marco Ramperti, sulle pagine di “Cinema<br />

Illustrazione”, scrive di aver visto in un ristorante di Hollywood pochi giorni prima di<br />

5. Marco Ramperti, Lady Lou, “Cinema Illustrazione”, 3 gennaio 1934, pp.8-9<br />

6. Assia Noris, Assia Noris: come immagino Hollywood, “Cinema Illustrazione”, 31 luglio<br />

1935, p.7


diventare famosa:<br />

Ad uno dei tavoli, servita con più abbon<strong>da</strong>nza ma con meno ossequio, stava<br />

una flori<strong>da</strong> <strong>da</strong>ma sui venticinque, che per la sua mole matronale non era certo<br />

<strong>da</strong> considerarsi un’attrice: bensì una benestante forestiera, di passaggio per<br />

Hollywood […] La riconobbi , venuto in Italia, <strong>da</strong> una vignetta di Cinema illustrazione:<br />

l’ignota trangugiatrice era l’ormai celebre Mae West, la quale aveva<br />

avuto tempo, in venti giorni soltanto, di uscire <strong>da</strong>ll’ombra d’un ristorante per<br />

entrare nella luce <strong><strong>del</strong>la</strong> gloria. 5<br />

A tutti, magri e grassi, belli e brutti è concesso, almeno sulle pagine dei rotocalchi,<br />

il sogno di poter diventare attori famosi a Hollywood:<br />

Ognuno immagina a suo modo. Certo che laggiù ce n’è per tutti i gusti, ed<br />

è il paese <strong><strong>del</strong>la</strong> felicità. […] E non c’ è nessuno che in cuor suo non senta che<br />

diventerà attore e che porterà ad Hollywood il prezioso contributo <strong><strong>del</strong>la</strong> sua<br />

personalità, presto o tardi. 6<br />

Se <strong>da</strong> una parte le biografie romanzate fanno sognare poco probabili carriere artistiche,<br />

<strong>da</strong>ll’altra parte i tanti servizi fotografici sulla vita privata degli attori hanno lo<br />

scopo di rendere tutto, apparentemente, più realistico e di <strong>da</strong>re la possibilità ai lettori<br />

di conoscere meglio gli ambienti, i vestiti, le pettinature e gli atteggiamenti dei divi<br />

preferiti. Lo scopo è quello di far apparire il mondo <strong>del</strong> cinema non solo come un<br />

luogo di sogni irraggiungibili, ma come una realtà più vicina alla quotidianità dei<br />

lettori, almeno in alcuni suoi aspetti facilmente imitabili come un taglio particolare<br />

di capelli o il modo di fumare una sigaretta. Le riviste puntano sulla descrizione <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vita quotidiana <strong>del</strong>le star hollywoodiane in articoli come: Con Marléne <strong>da</strong>lla modista<br />

e <strong>da</strong>lla sarta 7 , I divi a tavola 8 , Cosa fanno quando piove 9 , Volete un vestito di Mirna<br />

Loy? 10 . In questo modo si diffondono, almeno a livello <strong>del</strong>l’immaginario se non ancora<br />

come pratica consueta, una serie di mode relative all’alimentazione, al vestirsi,<br />

all’arre<strong>da</strong>mento, al tempo libero, che trovano nei film e nella stampa cinematografica<br />

più popolare il loro mo<strong>del</strong>lo.<br />

3. I rotocalchi popolari di Rizzoli<br />

L’ex martinitt Rizzoli, con grande intuito pragmatico, ha perfettamente capito i<br />

meccanismi di funzionamento <strong><strong>del</strong>la</strong> nascente industria cultura italiana dove la lettura<br />

non è più solo riservata a un numero ristretto di persone, ma si apre sempre più a nuove<br />

7. Grazia Pisa, Con Marléne <strong>da</strong>lla modista e <strong>da</strong>lla sarta, “Cine Illustrato”, n.583, ottobre 1936,<br />

p.3<br />

8. Ubaldo Magnaghi, I divi a tavola, “Cinema Illustrazione”, 31 luglio 1935, p. 3<br />

9. (articolo non firmato), Cosa fanno quando piove, “Stelle”, 31 agosto 1935, p.9<br />

10. Owen, Volete un vestito di Myrna Loy?, “Cinema Illustrazione”, 17 luglio 1935, p.13<br />

11. Cesare Zavattini, Un’autobiografia, Einaudi, Torino, 2002, p.68<br />

12. Per maggiori informazioni sull’ attività di Rizzoli e dei suoi collaboratori rimando ad Alberto<br />

Mazzuca, La erre verde: ascesa e declino <strong>del</strong>l’impero Rizzoli, Longanesi, <strong>Milano</strong>, 1991.<br />

25


26<br />

fasce sociali. Da conquistare c’è tutto un pubblico potenziale a cui si possono offrire<br />

una serie di prodotti mediali, <strong>da</strong>lla stampa, alla radio, al cinematografo per occupare<br />

il tempo libero. Nel 1933, quando Rizzoli decide di fon<strong>da</strong>re una casa di produzione<br />

cinematografica, è già impegnato in una serie d’iniziative editoriali di successo. Il<br />

suo capolavoro è stato nel 1927 l’acquisizione di un pacchetto di testate in crisi <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

Mon<strong>da</strong>dori. Tra queste ci sono i mensili “La Donna”, “Comoedia”, il settimanale “Il<br />

Secolo Illustrato” e il quindicinale “Novella” che pubblica racconti di autori importanti<br />

come Piran<strong>del</strong>lo e D’Annunzio, ma con scarso successo di vendita. “Novella”<br />

viene trasformato in un rotocalco popolare con periodicità settimanale, ottenendo uno<br />

strepitoso successo che la porta nel giro di pochi anni <strong>da</strong>lle settemila copie di Mon<strong>da</strong>dori<br />

a ben centocinquantamila. La nuova formula mescola, sapientemente, servizi<br />

e foto sui divi <strong>del</strong> cinema con la pubblicazione a puntate di romanzi sentimentali di<br />

Milly Dandolo, Salvator Gotta, Mura, Luciana Peverelli. Mura tiene una rubrica fissa<br />

di corrispondenza con i lettori. Alla rivista collaborano giovani intellettuali come<br />

Marotta e Zavattini e quest’ultimo ricor<strong>da</strong> come «bastava pubblicare la faccia di una<br />

certa diva che “Novella” saliva. Era una <strong>del</strong>le chiavi <strong>del</strong> successo dei rotocalchi di<br />

Rizzoli» 11 . Il mondo <strong>del</strong> cinema e la vita dei divi affascinano il pubblico femminile e<br />

diventano ingrediente fon<strong>da</strong>mentale anche di altre pubblicazioni di Rizzoli. Nel 1930<br />

13. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazione”, 5 marzo 1933, p.2


nasce “Cinema Illustrazione Presenta”, dove Zavattini, firmando con vari pseudonimi,<br />

scrive le sue immaginarie corrispondenze <strong>da</strong> Hollywood. Nel 1933 esce il primo numero<br />

di “Lei”, un settimanale interamente dedicato alle donne. Il pubblico femminile<br />

è il target privilegiato dei rotocalchi popolari di Rizzoli che come afferma lo stesso<br />

Zavattini «sono riviste ancillari scritte per le serve ma lette anche <strong>da</strong>lle padrone» 12 .<br />

In realtà Zavattini non si muove mai <strong>da</strong>gli uffici <strong><strong>del</strong>la</strong> re<strong>da</strong>zione milanese di “Cinema<br />

Illustrazione”. Nei suoi articoli i <strong>da</strong>ti reali sui divi, sui film e sul mondo di Hollywood<br />

in generale sono rielaborati con piena libertà creativa, fino al punto di scrivere interviste<br />

mai fatte, ma sempre con personaggi esistenti e in modo assolutamente verosimile.<br />

Zavattini probabilmente utilizza come informazione di base quanto arriva <strong>da</strong>gli<br />

uffici stampa <strong>del</strong>le case di produzione americane. In ogni caso i suoi articoli sono una<br />

testimonianza preziosa, pur con la loro sottile vena ironica e grottesca che li attraversa,<br />

sulla ricontestualizzazione <strong>del</strong> mondo di Hollywod nella cultura italiana.<br />

Come si è detto i rotocalchi non sono semplicemente la vetrina pubblicitaria <strong>del</strong>le<br />

case di produzione americana e degli uffici stampa che curano l’immagine dei divi,<br />

ma, appunto, finiscono per svolgere una funzione sociale che spinge verso una generale<br />

modernizzazione dei costumi sociali, pur in un continuo confronto e lavoro di<br />

mediazione con i mo<strong>del</strong>li più tradizionali <strong><strong>del</strong>la</strong> società italiana. In questo senso “Cinema<br />

Illustrazione” è uno degli esempi più interessanti <strong>da</strong> studiare sia per il grande<br />

successo di vendita che per aver avuto prima come capore<strong>da</strong>ttori e poi come direttori<br />

Giuseppe Marotta e Cesare Zavattini.<br />

Tra i tanti indicatori <strong>del</strong> costume sociale <strong>del</strong>l’epoca presenti nella rivista uno dei<br />

più significativi è la corrispondenza con i lettori nella rubrica “Lo dica a me e mi dica<br />

tutto”, tenuta <strong>da</strong> Marotta, che si firma con lo pseudonimo Il Super Revisore. Non vengono<br />

riportate le lettere inviate, ma attraverso le risposte si capiscono perfettamente le<br />

domande dei lettori. L’ironia è il filo conduttore scelto <strong>da</strong> Marotta, ma i consigli <strong>da</strong>ti,<br />

pur in toni scherzosi, si preoccupano di conservare i canoni di comportamento e i valori<br />

morali più tradizionali propagan<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>l regime fascista, mitigando od opponendosi<br />

decisamente in alcuni casi a quelli eccessivamente spregiudicati di Hollywood. La<br />

maggior parte <strong>del</strong>le lettere riguar<strong>da</strong> questioni d’amore o di etichetta. Spesso le risposte<br />

fanno ricorso a proverbi e “saggezze popolari” in una forma comunicativa che punta<br />

su facili stereotipi o classiche forme retoriche. Ecco di seguito alcuni esempi:<br />

Fra la civetteria e la scontrosità, credimi, è saggio attenersi al giusto mezzo 13<br />

Non mancano anche consigli più specifici alle ragazze su come comportarsi con<br />

l’altro sesso per conservare intatte le proprie virtù e raggiungere lo scopo <strong>del</strong> matrimonio:<br />

Un cuore che batte per due uomini contemporaneamente non è un cuore<br />

normale… Dei due dovresti preferire quello che ti garantisce il matrimonio a<br />

14. Il Super Revisore, in “Cinma illustrazione”, 8 febbraio 1933, p.2<br />

15. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazione”, 29 marzo 1933, p.2<br />

16. Il Super Revisore, in “ Cinema illustrazione”, 8 febbraio 1933, p.2<br />

27


28<br />

più breve scadenza. Il matrimonio mi è noto anche come il miglior regolatore<br />

cardiaco per le ragazze nelle tue condizioni 14 .<br />

Ami un uomo sposato e diabolicamente bello, ma sei onestissima? Lo credo,<br />

ma se tu potessi spingere la tua onestà fino al punto di amare un uomo<br />

anche modestamente bello purché scapolo, ho idea che sarebbe meglio per te,<br />

e per la società: Non dobbiamo soltanto dominare i nostri cattivi istinti, ma<br />

cercare di liberarcene 15 .<br />

Sempre con l’uso <strong>del</strong>l’ironia si <strong>da</strong>nno i consigli più vari:<br />

Ti dissuado <strong>da</strong>l dimagrire perché le donne magre sono ormai al bando 16 .<br />

Non trovo niente di strano nel fatto che tutte le ragazze desiderino diventare<br />

dive; stranissimo sarebbe che qualcuno le prendesse sul serio. Quale giovane<br />

non sogna di diventare ministro, o generale? Naturalmente l’enorme maggioranza<br />

farà sempre a tempo ad assumere il titolo di usciere o di sol<strong>da</strong>to, non<br />

privo <strong>del</strong> resto di soddisfazioni 17 .<br />

Dal piccolo campionario di citazioni riportata si può osservare come nella rubrica<br />

di corrispondenza con i lettori si trattano i temi più vari e ben poco il cinema. Con toni<br />

tra il serio e il faceto viene proposta una piccola grammatica esemplare <strong>del</strong> comportamento<br />

sociale molto coerente, dove ogni trasgressione è bandita per riaffermare un<br />

sistema di regole e tradizioni sociali italiane già consoli<strong>da</strong>te. Norme di vita quotidiana<br />

che <strong>da</strong>i racconti <strong>del</strong>le esperienze dirette dei lettori appaiono meno granitiche di quello<br />

che si vuol far credere. Nelle cronache e nelle biografie sulla vita <strong>del</strong>le star, oltre<br />

alle notizie su diete, vestiti e sport praticati, la maggior preoccupazione dei recensori<br />

è sempre di criticare atteggiamenti troppo spregiudicati e di sottolineare, invece, i<br />

richiami ai valori <strong><strong>del</strong>la</strong> famiglia, <strong>del</strong>l’amore e <strong>del</strong> matrimonio come vincolo indissolubile.<br />

Tornando più in generale alla politica industriale di Rizzoli verso il cinema vale la<br />

pena soffermarsi sul suo tentativo molto lungimirante, anche se non otterrà il successo<br />

sperato, di entrare direttamente nella produzione cinematografica, pensando di sfruttare<br />

il potenziale pubblicitario costituito <strong>da</strong>lle sue riviste per “creare” una diva italiana<br />

che possa contrastare lo strapotere di quelle americane.<br />

4. “La signora di tutti” e l’avvento <strong>del</strong> divismo italiano 18<br />

I milanesi che nel mese di dicembre <strong>del</strong> 1934 passeggiano sotto i portici settentrionali<br />

<strong>del</strong> centro <strong><strong>del</strong>la</strong> città possono vedere esposto, in una vetrina <strong><strong>del</strong>la</strong> famosa pasticce-<br />

17. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazion”, 5 marzo 1933, p.2<br />

18. Sul film La signora di tutti ci sono due recenti studi: Antonio Costa I leoni di Schnider,<br />

Bulzoni, Roma, 2002, pp. 143-157 e Paola Valentini, La radio e il cinema, in Fausto Colombo-Ruggero<br />

Eugeni, (a cura di), Il prodotto culturale, Carocci, Roma, 2001, pp. 215-235. In<br />

particolare Costa analizza il rapporto fra il romanzo e il film, Paola Valentini le relazioni fra<br />

film, sonoro e radiofonia.


ia Motta, un grande ritratto di Isa Miran<strong>da</strong>, interprete <strong>del</strong> film La signora di tutti. Al<br />

centro <strong><strong>del</strong>la</strong> stessa vetrina è esibita anche la Coppa <strong>del</strong> Ministero <strong>del</strong>le Corporazioni,<br />

vinta <strong>da</strong>lla pellicola diretta <strong>da</strong> Max Ophuls, nel mese di agosto, alla Mostra <strong>del</strong> cinema<br />

di Venezia, quale film italiano tecnicamente migliore. Negli stessi giorni le immagini<br />

<strong>del</strong>l’attrice milanese tappezzano anche le edicole <strong><strong>del</strong>la</strong> città e sono esibite in altre vetrine<br />

di negozi lussuosi come la profumeria Giviemme.<br />

La signora di tutti è in programmazione, in contemporanea, nelle più importanti<br />

sale cinematografiche nazionali come il “Corso” di Roma e l’“Odeon” di <strong>Milano</strong>. La<br />

prima proiezione milanese è <strong>del</strong> 29 novembre 1934 e i giornali scrivono di un eccezionale<br />

spettacolo di gala:<br />

Lo spettacolo è stato accolto con crescente entusiasmo <strong>da</strong>l pubblico magnifico<br />

che era convenuto al battesimo di questo film italiano, di Novella-Film.<br />

In prima fila, tra le autorità cittadine che <strong>da</strong>vano con la loro persona un alto<br />

significato alla serata, si notava S.A.R. il Duca di Bergamo. 19<br />

La serata all’Odeon rappresenta il punto finale di una precisa e ben orchestrata strategia<br />

di lancio pubblicitario <strong>del</strong> film iniziata nel mese di gennaio con un concorso per<br />

la ricerca <strong>del</strong>l’ attrice protagonista, passata attraverso una serie di ampi servizi sulla<br />

stampa <strong>del</strong>le riprese <strong>del</strong> film negli studi <strong><strong>del</strong>la</strong> Cines di Roma o nella splendi<strong>da</strong> villa di<br />

Canzo <strong><strong>del</strong>la</strong> famiglia Rizzoli, per appro<strong>da</strong>re alla proiezione nel mese di agosto durante<br />

la Mostra <strong>del</strong> cinema di Venezia e, infine, lasciare gli spettatori in attesa <strong><strong>del</strong>la</strong> presentazione<br />

pubblica fino a novembre. Motore di questa operazione che ricalca, in via<br />

nazionale, il mo<strong>del</strong>lo hollywoodiano è Angelo Rizzoli, che utilizza per questo scopo i<br />

diversi periodici di sua proprietà.<br />

Angelo Rizzoli, visto il successo <strong><strong>del</strong>la</strong> ricetta cinema più romanzi d’appendice e la<br />

forte disponibilità di denaro liquido, comincia a pensare di produrre direttamente dei<br />

film, in un momento che, tra l’altro, appare favorevole perché tutti auspicano la rinascita<br />

<strong>del</strong> cinema italiano. Nel 1933 viene fon<strong>da</strong>ta la casa di produzione “Novella-Film”,<br />

che punta a sfruttare il marchio già noto <strong><strong>del</strong>la</strong> casa editrice milanese come garanzia<br />

per gli spettatori. Probabilmente consigliato <strong>da</strong> Ettore Margadonna, intellettuale e critico<br />

cinematografico che collabora a “Cinema Illustrazione”, Rizzoli decide di ridurre<br />

in pellicola La signora di tutti, un romanzo di Salvator Gotta pubblicato <strong>da</strong>ll’ editore<br />

milanese nello stesso anno e pubblicizzato come «una drammatica vicen<strong>da</strong> di passione<br />

e d’amore, che si svolge nella tumultuosa cornice <strong><strong>del</strong>la</strong> vita moderna» 20 .<br />

La scelta <strong>del</strong> primo film è coerente con il progetto di costituire la prima moderna<br />

industria culturale italiana che punti all’integrazione di più mass-media al suo interno.<br />

Salvator Gotta è uno degli autori di maggior successo <strong>del</strong> periodo e i suoi racconti e<br />

romanzi escono a puntate proprio su “Novella”. Il mo<strong>del</strong>lo produttivo e pubblicitario<br />

a cui ispirarsi, non può essere che quello americano, ben conosciuto attraverso i materiali<br />

<strong>del</strong>le agenzie di stampa <strong>del</strong>le grandi majors hollywoodiane che quotidianamente<br />

arrivano negli uffici di piazza Carlo Erba, sede <strong>del</strong>le re<strong>da</strong>zioni dei vari periodici.<br />

Forse per la prima volta nel cinema italiano si punta a una strategia di lancio di un film<br />

con una campagna pubblicitaria di lungo respiro nel tempo e una precisa articolazione<br />

19. Le prime a <strong>Milano</strong>, in “Lei”, 11 dicembre 1934, p.12<br />

20. “Lei”, 24 ottobre 1933<br />

29


30<br />

sulla stampa.<br />

Una prima considerazione di partenza è che una componente determinante <strong>del</strong> successo<br />

dei film americani sono i divi, ma nel cinema italiano <strong>del</strong> periodo scarseggiano<br />

e perciò quale migliore occasione per una nuova casa di produzione di scoprirne una<br />

nuova.<br />

5. Nascita di una diva<br />

Nel primo numero <strong>del</strong> gennaio 1934 tutti i periodici <strong><strong>del</strong>la</strong> Rizzoli pubblicano in<br />

bella evidenza il seguente annuncio:<br />

Le donne italiane sono le più belle <strong>del</strong> mondo. Il nostro cinema deve rivelarle.<br />

Novella-Film la nuova impresa cinematografica italiana si accinge a<br />

tradurre in film il romanzo di Salvator Gotta La signora di tutti il più brillante<br />

avvenimento <strong>letterario</strong> <strong>del</strong> 1933.<br />

Le candi<strong>da</strong>te (di età non superiore ai 25 anni che ritengono di possedere le<br />

doti fisiche e intellettuali per interpretarne la protagonista, spediscano subito<br />

il maggior numero di fotografie non ritoccate, alla Sede di Novella- Film,<br />

Piazza Carlo Erba, 6 <strong>Milano</strong>. Il 1934 rivelerà la nuova Stella <strong>del</strong> Cinema Italiano?<br />

Lettrici, a Voi!<br />

Nei numeri successivi il medesimo annuncio su “Lei”, rivista che intende rivolgersi<br />

a un pubblico femminile più colto e sofisticato rispetto alle altre testate di Rizzoli,<br />

si apre con la frase: «Si cerca la Brigitte Helm italiana…» 21 . La Helm è un attrice<br />

tedesca, interprete di film d’autore come Metropolis (1927) di Fritz Lang, de L’Argent<br />

(1929) di Marcel L’Herbier e Atlantide (1932) di G.W. Pabst. “Cinema Illustrazione”<br />

propone invece come mo<strong>del</strong>lo la più popolare Greta Garbo:<br />

Si cerca la Greta Garbo italiana…In Italia non mancano le donne che per<br />

bellezza e talento potrebbero oscurare tutte le dive che lo schermo ci ha fin<br />

qui rivelato 22 .<br />

Come si vede una strategia pubblicitaria articolata e raffinata perfino nella scelta<br />

dei mo<strong>del</strong>li d’attrice proposti nel concorso. In ogni caso il <strong>da</strong>to che emerge in modo<br />

chiaro è l’intenzione di realizzare un film che superi i ristretti confini nazionali per<br />

affermarsi nel mercato europeo e fare concorrenza al cinema americano. La scelta<br />

come regista di Max Ophuls, che aveva appena diretto Liebelei, tratto <strong>da</strong>ll’omonimo<br />

testo teatrale di Arthur Schnitzler, conferma il tentativo di Rizzoli di puntare molto in<br />

alto, a un successo internazionale de La signora di tutti con la ricerca, consapevole o<br />

meno, di uno stile europeo per un nuovo grande cinema italiano.<br />

Al concorso partecipano più di duemila candi<strong>da</strong>te per il provino finale sono selezionate<br />

diciannove candi<strong>da</strong>te e la scelta di Ophuls cade sicura su Isa Miran<strong>da</strong>, esclamando<br />

quando la vede: «Ecco la signora di tutti» 23 . L’attrice milanese non è una debuttante<br />

21. “Lei”, 16 gennaio 1934, p.14<br />

22. “Cinema Illustrazione Presenta”, 24 gennaio 1934, p.5<br />

23. Intervista di Isa Mirando in Francesco Savio (a cura di), Cinecittà anni Trenta, Bulzoni,<br />

Roma, 1979, p.789.


38<br />

BARBARA BRACCO<br />

Università di <strong>Milano</strong> - Bicocca<br />

1915-1918.<br />

<strong>Milano</strong>, capitale <strong>del</strong> fronte interno<br />

La prima immagine proposta in questo saggio ha ai nostri occhi qualcosa di teatrale;<br />

al centro <strong><strong>del</strong>la</strong> scena il mitico Masso <strong>del</strong> Grappa, oggetto fisico e al tempo stesso<br />

luogo simbolico <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra appena vinta, addobbato per l’occasione con bandiere<br />

(appena leggibile è la scritta <strong><strong>del</strong>la</strong> Società Lombar<strong>da</strong> Garibaldini – <strong>Milano</strong>, con il volto<br />

<strong>del</strong>l’eroe dei due mondi), a sinistra un fante quasi sull’attenti con lo sguardo rivolto<br />

verso il fotografo, a destra un gruppo di ufficiali intenti a parlare tra loro, dietro una<br />

folta schiera di donne in gramaglie, bambini con i vestiti buoni <strong><strong>del</strong>la</strong> “festa”, mentre<br />

sullo sfondo è ben riconoscibile il Castello Sforzesco di <strong>Milano</strong>. La fotografia (fig. 1),<br />

opera <strong>del</strong>lo studio Strazza, riproduce un momento <strong>del</strong>le celebrazioni che si tennero<br />

il 4 novembre 1921 anche nel capoluogo lombardo - come in altre città italiane - in<br />

coincidenza con il rito <strong>del</strong> Milite Ignoto, che ebbe – come è noto – il suo principale<br />

palcoscenico a Roma, all’Altare <strong><strong>del</strong>la</strong> Patria. Trasformata in cartolina e riprodotta in<br />

migliaia di copie, l’immagine ebbe certamente larga diffusione a ricordo di una <strong>del</strong>le<br />

manifestazioni locali tenute contemporaneamente alla cerimonia più significativa<br />

<strong>del</strong>l’Italia <strong>del</strong>l’immediato dopoguerra: la scelta <strong>del</strong> corpo <strong>del</strong> sol<strong>da</strong>to senza nome ad<br />

opera di una madre, il lungo viaggio in treno <strong><strong>del</strong>la</strong> salma <strong>da</strong> Aquileia a Roma tra ali di<br />

uomini e donne in lacrime, il passaggio tra le vie <strong><strong>del</strong>la</strong> capitale fino alla tumulazione<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> bara alla presenza di tutte le autorità – e in primo luogo <strong>del</strong> sovrano - nel cuore<br />

<strong>del</strong>l’Altare <strong><strong>del</strong>la</strong> Patria, furono le tappe <strong>del</strong>l’unico rito che si sia riuscito forse a trovare<br />

un punto di equilibrio tra le molte e contrastanti forme <strong>del</strong> lutto 1 .<br />

Dietro a quell’immagine, così naturale e al tempo stesso studiata, c’è una storia<br />

difficile e dolorosa che la società europea e italiana <strong>del</strong>l’epoca cercò a più riprese e a<br />

tutti i livelli di rappresentare: oltre dieci milioni di morti in tutta Europa, molti di più<br />

i feriti e i mutilati. Il bilancio per l’Italia, entrata in guerra un anno più tardi, è molto<br />

pesante; seicentocinquantamila caduti che è – non va mai dimenticato - il più alto<br />

numero di vittime registrato nella storia nazionale. Tuttavia le cifre relative ai morti,<br />

feriti, mutilati non rendono fino in fondo il significato di un evento drammaticamente<br />

fon<strong>da</strong>tivo <strong><strong>del</strong>la</strong> modernità e <strong><strong>del</strong>la</strong> sua capacità distruttiva nella storia <strong>del</strong> secolo appena<br />

passato. I mezzi di distruzione, perfezionati <strong>da</strong>lla tecnologia militare, conferirono <strong>da</strong><br />

1. B. Tobia, L’Altare <strong><strong>del</strong>la</strong> Patria, Bologna, Bologna, Il Mulino, 1998.


Fig. 1: cartolina commemorativa per il 4 novembre 1921<br />

Fig. 2: <strong>da</strong> “L’Illustrazione Italiana”, 20 maggio 1917<br />

allora in poi alla guerra una serialità industriale che avrebbe raggiunto il suo punto<br />

più drammatico trent’anni più tardi con la secon<strong>da</strong> guerra mondiale e i campi di<br />

sterminio. Dopo il 1918 nulla sarebbe stato più come prima e l’impossibilità di molti<br />

ex-combattenti (in molti casi un’incapacità tragicamente psicologica) di ricor<strong>da</strong>re e al<br />

tempo stesso di dimenticare quanto avevano vissuto sui campi di battaglia ne è forse<br />

la testimonianza più forte e significativa 2 .<br />

Nel quadro di una guerra apparsa a molti intellettuali <strong>del</strong>l’epoca e ancor di più nelle<br />

ricostruzioni degli anni successivi come l’apocalisse <strong><strong>del</strong>la</strong> modernità, <strong>Milano</strong> e la<br />

Lombardia pagarono un prezzo altissimo: oltre diecimila morti sono milanesi, 24.300<br />

lombardi. Si tratta di uno dei bilanci locali tra i più tragici <strong>del</strong>l’intera esperienza italiana<br />

nel conflitto. Basta guar<strong>da</strong>rsi attorno per comprendere il segno lasciato <strong>da</strong>lla<br />

grande guerra nella vita lombar<strong>da</strong> e milanese; non c’è paese, cittadina e città che non<br />

2. S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la<br />

storia <strong>del</strong> Novecento, introduzione di A. Gibelli, Torino, Einaudi, 2002.<br />

39


40<br />

abbia il suo monumento, lapide, viale <strong><strong>del</strong>la</strong> rimembranza a ricordo dei concittadini caduti<br />

al fronte e non solo, come nel caso <strong>del</strong> monumento di Porta Vittoria a <strong>Milano</strong> che<br />

significativamente unisce ai nomi dei diciotto abitanti <strong><strong>del</strong>la</strong> zona morti per il primo<br />

bombar<strong>da</strong>mento aereo quelli dei sol<strong>da</strong>ti originari <strong><strong>del</strong>la</strong> medesima zona. Opere dettate<br />

<strong>da</strong>l bisogno di elaborare un lutto vasto e profondo che hanno accolto decenni più tardi<br />

i nomi e la memoria dei caduti <strong><strong>del</strong>la</strong> secon<strong>da</strong> guerra all’insegna di una continuità nella<br />

pietà.<br />

<strong>Milano</strong> e la Lombardia non furono solo un serbatoio di uomini per la guerra nazionale,<br />

ma anche e soprattutto capitale <strong>del</strong> fronte interno, come si diceva allora, vero e<br />

proprio centro propulsore <strong><strong>del</strong>la</strong> mobilitazione bellica. Il capoluogo in particolare sembra<br />

aver svolto un ruolo che non fu mai passivo ma fortemente attivo. Lo fu certamente<br />

nell’ambito industriale tra i più conosciuti <strong>da</strong>lla pubblicistica e <strong>da</strong>lla storiografia. Da<br />

qui infatti partivano le principali partite di mezzi bellici. Armi di piccolo e grosso<br />

calibro, automezzi, persino i primi aerei (impiegati non nelle operazioni di guerra ma<br />

a fini logistici) venivano <strong>da</strong>lle officine meccaniche e siderurgiche milanesi a cui lo<br />

Stato italiano commissionò per tutta la durata <strong>del</strong> conflitto un numero via via sempre<br />

più alto di materiali bellici (fig. 2). Ma l’elemento che più stupisce è un altro: l’aspetto<br />

quantitativo fu fortemente e ovviamente collegato alla qualità. La produzione di massa<br />

presupponeva e soprattutto incentivava sistemi industriali sempre più efficienti e<br />

avanzati sotto il profilo tecnologico. Da questo punto di vista <strong>Milano</strong> e la Lombardia<br />

rientravano perfettamente nei parametri <strong>del</strong>l’industria europea più avanzata.<br />

La modernità <strong>del</strong> contributo milanese alla guerra va però al di là dei <strong>da</strong>ti industriali.<br />

Almeno sotto altri due aspetti il capoluogo può essere indicato come vero e proprio<br />

mo<strong>del</strong>lo <strong><strong>del</strong>la</strong> mobilitazione bellica. Esso fu infatti teatro <strong>del</strong>le principali trasformazioni<br />

sociali. Non è possibile in queste pagine ripercorrere le vicende, anche drammatiche,<br />

che coinvolsero i cittadini milanesi (a <strong>Milano</strong> si costruì l’immagine <strong>del</strong>l’operaio<br />

imboscato), ma basterà ricor<strong>da</strong>re un aspetto apparentemente secon<strong>da</strong>rio, se non di<br />

puro costume, per evocare il senso <strong><strong>del</strong>la</strong> radicale trasformazione avviata <strong>da</strong>lla metropoli.<br />

L’impiego massiccio <strong>del</strong>le donne in fabbrica e nei settore dei servizi in sostituzione<br />

dei lavoratori non specializzati (inviati al fronte) può essere infatti visto come<br />

la svolta epocale nella storia dei rapporti di genere. La presenza di signore e signorine<br />

non solo nel mondo chiuso <strong>del</strong>l’industria ma anche nei ruoli - sconvenienti per la morale<br />

di allora - di postine o alla gui<strong>da</strong> dei tram cittadini fu molto di più <strong>del</strong>l’inizio <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

emancipazione femminile; era l’incipit quasi scioccante di un cambiamento profondo<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> cultura e nell’immaginario collettivo.<br />

Il cambiamento veniva però anche <strong>da</strong>ll’alto, cioè <strong>da</strong>lle istituzioni cittadine. <strong>Milano</strong><br />

fu infatti anche mo<strong>del</strong>lo di valore nazionale per quanto riguar<strong>da</strong> le attività di assistenza<br />

organizzate <strong>da</strong>l Comune, gui<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l 1914 – per la prima volta nella sua storia – <strong>da</strong><br />

una Giunta socialista. Lo spirito di servizio che caratterizzò il lavoro <strong><strong>del</strong>la</strong> Giunta e<br />

<strong>del</strong> Sin<strong>da</strong>co, Emilio Cal<strong>da</strong>ra, non era in contraddizione con le posizioni pacifiste <strong>del</strong><br />

partito socialista. Si trattava piuttosto di pensare a una copertura assistenziale il più<br />

larga possibile che poco o nulla aveva a che vedere con un vuoto patriottismo, ma con<br />

l’idea, modernissima, per così dire, di welfare. Da qui una struttura comunale che<br />

capillarmente si occupò <strong>del</strong>le principali esigenze di civili e dei militari. Dal problema<br />

degli alloggi al sostegno per le famiglie dei richiamati, <strong>da</strong>lla raccolta di abiti all’invio<br />

di beni di conforto ai sol<strong>da</strong>ti, la fitta rete <strong>del</strong>le opere assistenziali costruita <strong>da</strong>l Comune<br />

di <strong>Milano</strong> fu un esempio – solo apparentemente contraddittorio con le idee <strong>del</strong> partito


di maggioranza - di mobilitazione totale 3 .<br />

Della modernità bellica <strong>Milano</strong> fu capitale anche per un altro aspetto che è a tanti<br />

anni di distanza ancora più importante: essa fu centro <strong><strong>del</strong>la</strong> propagan<strong>da</strong> interventista.<br />

Città a gui<strong>da</strong> socialista, il capoluogo lombardo costituì per tutta fase <strong><strong>del</strong>la</strong> neutralità,<br />

fino al cosiddetto “maggio radioso”, il principale palcoscenico <strong>del</strong>le manifestazioni a<br />

favore <strong><strong>del</strong>la</strong> entrata <strong>del</strong>l’Italia in guerra. I vari Corridoni, Battisti, De Ambris, D’Annunzio<br />

e Mussolini passarono tutti a <strong>Milano</strong> per arringare le masse e <strong>da</strong>r corpo – nel<br />

vero senso <strong><strong>del</strong>la</strong> parola - a un interventismo che era sì minoritario ma determinato a<br />

presentarsi come coscienza critica <strong><strong>del</strong>la</strong> nazione. Mai come nella grande guerra il corpo<br />

si prestava a un uso non di rado consapevolmente teatrale e ricattatorio, sempre e<br />

comunque con finalità prettamente politiche. Certo le potenzialità persuasive <strong>del</strong> corpo<br />

erano già state evidenziate <strong>da</strong>lla retorica politica dei decenni precedenti, soprattutto<br />

nell’ambito di quel socialismo rivoluzionario che aveva affi<strong>da</strong>to all’istrionismo dei<br />

suoi capi il compito di mostrare plasticamente le capacità rigeneratrici <strong><strong>del</strong>la</strong> politica.<br />

Ma era con il conflitto che il corpo <strong>del</strong> politico diveniva perno <strong>del</strong>lo spettacolo <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

politica, facendosi vero e proprio manifesto <strong>del</strong>le virtù sacralizzanti <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Solo<br />

così si spiega per esempio la presenza attiva dei mutilati e invalidi nelle celebrazioni<br />

pubbliche organizzate dopo l’entrata <strong>del</strong>l’Italia nella conflagrazione europea: i segni<br />

corporali diventavano metafora <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, le ferite e le mutilazioni divenivano cioè<br />

la testimonianza santificante <strong>del</strong>l’esperienza bellica così come le stimmate dei santi<br />

avevano in età medievale e moderna testimoniato la mistica rigenerazione in Dio 4 .<br />

La guerra impose definitivamente l’idea che la politica e la nazione sono - nelle<br />

forme più alte e significative - esperienze profon<strong>da</strong>mente corporali. Tuttavia per la<br />

maggior parte degli italiani il contatto diretto, fisico, con la guerra fu per loro fortuna<br />

solo indiretto. Certo il lutto per la perdita di un parente o familiare (che colpì quasi tutte<br />

le famiglie italiane) o la vista di un mutilato segnarono la vita di intere generazioni<br />

di civili, ma per essi la guerra fu essenzialmente un’esperienza virtuale. La battaglia,<br />

la vita militare, le trincee e la stessa morte furono visibili qualche volta attraverso la<br />

fotografia, pesantemente condizionata <strong>da</strong> filtri politici, più spesso attraverso le rappresentazioni<br />

edulcoranti <strong>del</strong>l’iconografia, manifesti e cartoline. Ancora una volta la<br />

grande guerra ci si presenta come l’evento fon<strong>da</strong>tivo <strong><strong>del</strong>la</strong> modernità perché per la<br />

prima volta si impose l’uso massiccio <strong>del</strong>le immagini come principale strumento di<br />

persuasione. Certo già nella secon<strong>da</strong> metà <strong>del</strong>l’800, la grafica commerciale e i manifesti<br />

politici avevano abituato gli occhi degli europei a “vedere” il messaggio propagandistico.<br />

Ma il conflitto poneva alle istituzioni, ai partiti, alle associazioni civili<br />

la sfi<strong>da</strong> certamente più difficile: rappresentare un dramma di enormi proporzioni e<br />

raggiungere un numero pressoché illimitato di uomini e donne, “spettatori” e al tempo<br />

stesso protagonisti di quella tragedia.<br />

<strong>Milano</strong> fu parte attiva di questa massiccia azione di persuasione, anzi in ambito<br />

nazionale fu il principale laboratorio di una gigantesca operazione culturale, luogo<br />

privilegiato dove la politica di massa incontrava e si fondeva con la comunicazione di<br />

massa. Con le sue case editrici e le sue tipografie pronte a sfornare migliaia di mani-<br />

3. M. Punzo, La Giunta Cal<strong>da</strong>ra. L’amministrazione comunale di <strong>Milano</strong> negli anni 1914-<br />

1920, <strong>Milano</strong>, Carialo, 1986.<br />

4. Combattere a <strong>Milano</strong>. 1915-1918. Il corpo e la guerra nella capitale <strong>del</strong> fronte interno, a<br />

cura di Barbara Bracco, <strong>Milano</strong>, Editoriale il Ponte, 2005.<br />

41


MAURO NOVELLI<br />

Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

Il sacco di <strong>Milano</strong>.<br />

Delio Tessa, Caporetto 1917<br />

13 novembre 1917. – Rastatt. – Campo<br />

Fine <strong>del</strong>le speranze, annientamento <strong><strong>del</strong>la</strong> vita interiore.<br />

Angustia estrema per la patria, per la mia povera patria,<br />

per la mia terra; pensiero fisso <strong><strong>del</strong>la</strong> Lombardia, <strong>del</strong> Lago<br />

di Como, <strong><strong>del</strong>la</strong> Valtellina, <strong>del</strong> Varesotto: terrore di vederli<br />

presi <strong>da</strong>i tedeschi?<br />

C.E. GADDA, Giornale di guerra e di prigionia<br />

Come è noto, le assonanze ingannano. Da tutti i punti di vista l’opera in versi di<br />

Delio Tessa va situata agli antipodi rispetto a quella di Trilussa 1 , il quale – vale la pena<br />

di ricor<strong>da</strong>rlo – nella prima metà <strong>del</strong> secolo scorso fu semplicemente il poeta più amato<br />

<strong>da</strong>gli italiani, come dimostrano le centinaia di edizioni <strong>del</strong>le sue rime in romanesco, le<br />

applaudite tournée in patria e all’estero, i dischi in cui declama propri componimenti,<br />

infine la chiamata tra i banchi <strong>del</strong> Senato. Se tutto ciò non è valso a conservare a Trilussa<br />

l’apprezzamento <strong><strong>del</strong>la</strong> critica, a Tessa pare capitato in sorte un destino diametralmente<br />

opposto. Avvocato schivo e un pò blasé, nato e vissuto a <strong>Milano</strong> tra il 1886 e il<br />

1939, compose un esiguo grappolo di «saggi lirici» in meneghino, editi per la prima<br />

volta in L’è el dì di Mort, alegher! (Mon<strong>da</strong>dori 1932), che passò pressoché inosservato,<br />

così come i versi riuniti postumi in Poesie nuove e ultime (De Silva 1947). La fama<br />

di Tessa andò tuttavia lievitando nei decenni successivi, tanto che <strong>da</strong> tempo viene<br />

annoverato tra i poeti maggiori – non dialettali, ma tout court – <strong>del</strong> nostro Novecento.<br />

Per comprenderlo, basta <strong>leggere</strong> le pagine che gli vollero dedicare tra gli altri Franco<br />

Fortini, Luigi Bal<strong>da</strong>cci, Giovanni Raboni, Pier Vincenzo Mengaldo e Dante Isella,<br />

che per Einaudi vent’anni or sono preparò una fon<strong>da</strong>mentale <strong>edizione</strong> completa <strong>del</strong>le<br />

poesie tessiane, ristampata nel 1999 in tascabile. Tra i rari ammiratori tempestivi, si<br />

1. Peraltro i due poeti si conoscevano, e anzi ebbero modo di esibirsi insieme a Venezia nel<br />

corso di una serata di dizioni, rievocata <strong>da</strong> Tessa in un pezzo apparso su “L’Illustrazione Ticinese”<br />

il 30 maggio 1936, dove si profonde in elogi al collega, ribaditi due anni più tardi sul<br />

“Corriere <strong>del</strong> Ticino” (entrambi gli articoli si possono <strong>leggere</strong> in D. Tessa, Critiche contro vento.<br />

Pagine “ticinesi” 1934-1939, a cura di G. Anceschi, Casagrande, Lugano 1990).<br />

53


54<br />

aggiunga, può contarsi nientemeno che Benedetto Croce, il quale nel 1933 ebbe a<br />

spendere parole calorose su “La Critica”, reduce <strong>da</strong> un simposio in margine al quale<br />

Tessa – impareggiabile dicitore – aveva recitato un suo poemetto, lasciando basiti i<br />

commensali. 2<br />

Quel poemetto, di 410 versi, si intitola Caporetto 1917. Sebbene lo eseguisse di rado,<br />

Tessa l’aveva in repertorio sin <strong>da</strong>ll’estate successiva alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> Grande Guerra,<br />

quando con esso tornò alla poesia, che aveva coltivato intorno al 1910, in un manipolo<br />

di liriche francamente mediocri, nei casi migliori al livello di epigoni portiani ormai<br />

scor<strong>da</strong>ti, come Giovanni Barrella o Guido Bertini. Per cogliere immediatamente il<br />

cambio di passo operato in Caporetto, conviene guar<strong>da</strong>re al sottotitolo: «L’è el dì di<br />

Mort, alegher!» Sona<strong>da</strong> quasi ona fantasia. L’ossimoro, che <strong>da</strong>rà titolo e tono complessivo<br />

all’unica raccolta edita in vita, è oggi l’esclamazione proverbiale che accompagna<br />

ogni discussione sul poeta meneghino. Con ogni evidenza, l’accostamento di<br />

morte e allegria intende sfregiare uno dei soggetti stan<strong>da</strong>rd <strong><strong>del</strong>la</strong> tradizione dialettale,<br />

il giorno dei morti, <strong>da</strong> secoli veicolo prediletto per intonare accorate, nostalgiche rievocazioni<br />

di uomini e scorci travolti <strong>da</strong>lla cieca macina <strong>del</strong> tempo. Tessa non guar<strong>da</strong><br />

neppure alle declinazioni <strong>del</strong> tema proposte <strong>da</strong> autori che apprezzava, come Pascoli,<br />

De Marchi, o certi simbolisti belgi. Decide invece di scaraventarlo in prima linea,<br />

ravvivando un glorioso filone municipale di impegno civile in versi dialettali. Si volge<br />

dunque alla tragedia <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, colta <strong>da</strong>lle retrovie nei giorni più difficili, quando<br />

una città allo sbando tratteneva il fiato in attesa di una disfatta apocalittica. Il 2 novembre<br />

1917, una settimana dopo la rotta di Caporetto (avvenuta nella notte tra il 24 e 25<br />

ottobre), il poeta immagina di ritornare <strong>da</strong>lla consueta visita ai defunti, mentre attorno<br />

si scatena la saraban<strong>da</strong> di un assurdo giorno di festa:<br />

Torni <strong>da</strong> vial Certosa,<br />

torni di Cimiteri<br />

in mezz a on someneri<br />

de cioccatee che vosa,<br />

de baracchee che canta<br />

e che giubbiana in santa<br />

pas con de brasc la tosa.<br />

L’è el dì di Mort, alegher!<br />

Sotta ai topiett se balla,<br />

se rid e se boccalla;<br />

passen i tramm ch’hin negher<br />

de quij che torna a cà<br />

per magnà, boccallà:<br />

scisger e tempia... alegher<br />

fioeuj, che semm fottuu!<br />

(vv. 1-15) 3<br />

2. Cfr. C. Linati, “El Tessa” [1943], in Id., Il bel Guido e altri ritratti, a cura di C. Lavezzi e A.<br />

Modena, All’Insegna <strong>del</strong> Pesce d’Oro, <strong>Milano</strong> 1982, p. 71. L’intervento di Croce è raccolto in<br />

Id., Pagine sparse, III, La<strong>terza</strong>, Bari 1960, pp. 90-94.


«L’è el dì di Mort, alegher!», nuovamente. L’attenzione non va posta soltanto sull’amara<br />

ironia <strong>del</strong> verso, ma anche sul deittico (l’è: è oggi, è qui), primo esempio <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

carica attualizzante in cui va riconosciuta la chiave di volta dei «saggi lirici». Già nell’incipit,<br />

in effetti, si coglie la tecnica attraverso la quale Tessa perviene ai tipici effetti<br />

di “simultaneità” <strong><strong>del</strong>la</strong> sua maniera, che molti interpreti hanno correlato alla pittura<br />

futurista. Non meno rilevante, d’altronde, è il debito con la macchina <strong>da</strong> presa, se è<br />

vero che l’intero poemetto si fon<strong>da</strong> sul convergere di diegesi istantanea e movimento<br />

nello spazio <strong>del</strong> poeta. È appunto la passeggiata, come già in Primavera 1912 e nelle<br />

vette a venire (De là <strong>del</strong> mur in testa), lo schema di riferimento fon<strong>da</strong>mentale per le<br />

narrazioni tessiane. Al riguardo, occorre tuttavia specificare che il poeta milanese,<br />

più che a D’Annunzio o a Palazzeschi, di cui pure tiene conto, si rifà primariamente a<br />

Bau<strong>del</strong>aire, cui tributava una sconfinata ammirazione.<br />

Se poeta non soltanto fa rima ma si identifica con profeta Carlo Bau<strong>del</strong>aire<br />

lo è stato veramente[,] perché il nostro mondo ormai in avanzata decomposizione<br />

morale nonostante gli sforzi per farcelo parere diverso lui lo vide ancor<br />

prima che nascesse. E poi in Bau<strong>del</strong>aire si sente l’odore <strong><strong>del</strong>la</strong> folla, si vede la<br />

sua Parigi che egli amò di un amore che sembra aver le radici nell’odio. 4<br />

Non sarebbe arduo estendere al flâneur tessiano – inorridito e affascinato al tempo<br />

stesso <strong>da</strong>lla modernità urbana, <strong>da</strong>lle fauci <strong><strong>del</strong>la</strong> folla – le notissime considerazioni<br />

di Walter Benjamin sull’esperienza <strong>del</strong>lo choc nell’autore dei Fiori <strong>del</strong> male. A ben<br />

guar<strong>da</strong>re, la presa diretta in cui scorre, <strong>da</strong>ll’inizio alla fine, Caporetto 1917, si può<br />

<strong>leggere</strong> come il sussultante referto di un trauma, che prende forma in tempi e luoghi<br />

<strong>del</strong>ineati con precisione, per scaricarsi in tutti i livelli testuali, ivi compresi metrica 5 e<br />

sintassi, dinamizzata <strong>da</strong> centinaia di puntini, interrogative ed esclamazioni. Ne risulta<br />

un originale sincopato, in cui alle osservazioni <strong>del</strong> poeta si alternano bran<strong>del</strong>li di<br />

urla, richiami, sirene e canzoni, catturate con prontezza (scolta, dà a trà, vàr<strong>del</strong>a...)<br />

e piegate a echi tenebrosi. Si assiste, in altre parole, all’impiego di una rumoristica<br />

frastornante, degna di Berlin Alexanderplatz, il romanzo di Alfred Döblin, uno dei<br />

vertici <strong>del</strong>l’espressionismo <strong>letterario</strong> europeo. L’etichetta si attaglia perfettamente a<br />

Tessa, anche con un occhio ai più cupi esemplari <strong><strong>del</strong>la</strong> cinematografia weimariana. A<br />

qualificarlo come espressionista contribuisce il ricorso a una tematica ruotante intorno<br />

a morte, follia, degrado e consunzione, sostenuta <strong>da</strong>ll’ossessivo ricorso alle iterazioni:<br />

3. Qui e in seguito si ricorre – con qualche ritocco – alla traduzione approntata <strong>da</strong> Dante<br />

Isella nell’<strong>edizione</strong> tessiana a sua cura (Einaudi, Torino 1988): «Torno <strong>da</strong> viale Certosa, torno<br />

<strong>da</strong>l Cimitero in mezzo a un semenzaio di avvinazzati che vociano, di fracassoni che cantano e<br />

scherzano in santa pace a braccetto <strong><strong>del</strong>la</strong> ragazza. È il giorno dei morti, allegri! Sotto le pergole<br />

si balla, si ride e si tracanna; passano i tram neri di quelli che tornano a casa per mangiare e<br />

sbevazzare: ceci e tempia... allegri ragazzi, che siamo fottuti!».<br />

4. D. Tessa, Bau<strong>del</strong>aire cattolico, “Corriere <strong>del</strong> Ticino”, 21 luglio 1936 (ora in Id., Critiche<br />

contro vento, cit., pp. 31-32).<br />

5. A proposito dei ritmi sfrangiati, le originali strofe eptastiche e il ruolo <strong>del</strong>le rime in Caporetto<br />

1917 sia consentito riman<strong>da</strong>re alla mia monografia I «saggi lirici» di Delio Tessa, LED,<br />

<strong>Milano</strong> 2001, pp. 97-99.<br />

55


56<br />

«c’è un leit-motiv nel periodo che sempre ritorna, c’è un chiodo che si vuol man<strong>da</strong>re<br />

sempre più addentro!».<br />

L’ultima uscita, nella Dichiarazione che apre la raccolta <strong>del</strong> 1932, conclude una lunga<br />

serie di rilievi che attestano le maniacali premure tessiane nei confronti <strong>del</strong>l’aspetto<br />

fonico dei testi. «Come un fascio di musiche si affi<strong>da</strong> all’esecuzione canora, così i miei<br />

saggi lirici attendono la voce <strong>del</strong> dicitore», afferma nella Nota finale. Non per nulla il<br />

sottotitolo di Caporetto 1917 propone un’interpretazione musicale <strong>del</strong> poemetto, Sona<strong>da</strong><br />

quasi ona fantasia; mentre l’autografo appare predisposto a mo’ di partitura,<br />

scandito <strong>da</strong> inchiostri diversi a secon<strong>da</strong> dei parlanti e <strong>da</strong>lle indicazioni per l’esecuzione,<br />

che accompagnano le prime strofe: «Baccanale funebre, trionfale burlesco, rapido,<br />

grave e amaro, senza pensiero quasi lieto, fortissimo, on<strong>da</strong>nte, funereo e così via.» 6<br />

È questo il paesaggio sonoro su cui scende nebbiosa la sera <strong>del</strong> 2 novembre. Il pensiero<br />

va ai contadini tramutati in fanti e diretti al macello, morti o fuggiti «a furia de<br />

traij ciocch, | de ciappaij per el cuu, | de man<strong>da</strong>ij a cà busca» (vv. 17-19). Tessa coglie<br />

con amara lucidità le ragioni a monte <strong>del</strong> discusso “tutti a casa” esploso nel corso <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

rotta. D’altra parte la pietà per chi soffre alimenta il livore nei confronti dei neutralisti,<br />

per il quale prende a prestito accenti <strong>del</strong> Porta più indignato. «Rogn, deslippa | e<br />

generaj de pippa» (vv. 85-86) hanno condotto il paese sull’orlo <strong>del</strong> baratro. Sgomenta,<br />

<strong>Milano</strong> teme che gli austro-tedeschi riescano a dilagare nella pianura, sino a occupare<br />

la Lombardia, come era accaduto in Friuli e in parte <strong>del</strong> Veneto, <strong>da</strong> dove provengono<br />

notizie confuse di violenze, stupri e saccheggi. La città tornerebbe così sotto un dominio<br />

ancora impresso nella memoria degli anziani, <strong>da</strong>l momento che gli Asburgo se ne<br />

erano an<strong>da</strong>ti <strong>da</strong> neppure sessant’anni.<br />

Da questa congiuntura prende avvio un’articolata visione <strong>del</strong>lo sfacelo che pareva<br />

alle porte, un altro movimento “simultaneo”, stavolta non nello spazio, ma nel tempo.<br />

Se nella realtà l’esercito italiano si attestò sul Piave, Tessa tratteggia la lettura <strong>del</strong> bollettino<br />

di un ulteriore tracollo militare, nel fremente acquario <strong><strong>del</strong>la</strong> Galleria Vittorio<br />

Emanuele. Le voci si intrecciano febbrilmente, a un passo <strong>da</strong>lla boccioniana rissa: chi<br />

sbraita di un nemico ormai in marcia verso l’Ad<strong>da</strong>, chi ingiuria i disfattisti, chi sente<br />

tuonare i cannoni alle porte <strong><strong>del</strong>la</strong> città. Per sottrarsi alle imminenti razzie non resta che<br />

fuggire in direzione opposta a quella <strong>del</strong> Renzo manzoniano, verso il Ticino 7 , a piedi<br />

nel fango insieme ai «paisan» (v. 232), braccati <strong>da</strong>i raid degli aeroplani, mentre all’orizzonte<br />

i roghi degli stabilimenti vampeggiano tra le brume. Come è prassi nel populismo<br />

<strong>letterario</strong> nostrano 8 , nella sventura il poeta si sente affratellato ai contadini.<br />

Costoro, sfiniti e rassegnati, nulla hanno a che spartire tanto con la «missolta di locch»<br />

(vv. 36-37) che schiamazza in viale Certosa, quanto con la rivoluzionaria «loccaja» (v.<br />

112) che spadroneggia nel centro storico, e arriva – al culmine <strong><strong>del</strong>la</strong> visione – a issare<br />

la bandiera rossa sulla Madonnina. Dinanzi alla furia dei sovversivi, che travolge i<br />

luoghi simbolo <strong>del</strong> potere ecclesiastico e secolare, si comprende bene lo smarrimento<br />

di un cattolico liberale quale Tessa fu. Di qui la scelta di ritirarsi ai margini, di far<br />

6. Ne dà conto Isella negli apparati critici <strong><strong>del</strong>la</strong> sua <strong>edizione</strong> tessiana, a p. 526.<br />

7. Nell’episodio il nesso coi Promessi Sposi si misura a partire <strong>da</strong>lle voci atterrite, che ricalcano<br />

– come ha notato Isella – l’inizio <strong>del</strong> cap. XXIX <strong>del</strong> romanzo, quando si prospetta la calata<br />

in Valsassina dei Lanzichenecchi.<br />

8. Si ve<strong>da</strong> su questo punto il classico studio di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi,<br />

Torino 1988 (prima ed. 1965).


60<br />

FRANCESCO VARANINI<br />

Università di Pisa<br />

Lo sport come moderna festa cru<strong>del</strong>e:<br />

il dio di Roserio<br />

Ottavio Bottecchia: il ciclismo come guerra<br />

La mattina <strong>del</strong> 3 giugno 1927 Ottavio Bottecchia esce per allenarsi. Emerso <strong>da</strong> una<br />

estrema povertà attraverso il ciclismo, è ricco e famoso, ha vinto due Tour de France<br />

nel ‘24 e nel ‘25. Un contadino lo trova agonizzante, sul ciglio <strong><strong>del</strong>la</strong> stra<strong>da</strong> a Peonis,<br />

vicino a Gemona, testa insanguinata, escoriazioni su tutto il corpo. Polizza vita pagata,<br />

500 mila lire alla famiglia. Pratica liqui<strong>da</strong>ta in fretta.<br />

Era nato a Borgo Minelle di San Martino Colle Umberto, nella Marca Trevigiana,<br />

i1 1° agosto 1894.<br />

Di povera famiglia, porta il nome, appunto, <strong>del</strong>l’ottavo figlio <strong>del</strong> mugnaio Francesco.<br />

«La mia infanzia? Uguale a quella di tanti altri bimbi <strong><strong>del</strong>la</strong> campagna italiana,<br />

in classe d’inverno, mentre l’estate dovevo aiutare i genitori». A scuola solo per due<br />

inverni, «mio padre volle fare di me un operaio con possibilità di lavorare anche in<br />

cattiva stagione o stagioni morte. Così, a dodici anni, divenni apprendista calzolaio».<br />

Manovale edile; carrettiere a Sacile, caricando e scaricando tronchi <strong><strong>del</strong>la</strong> foresta<br />

<strong>del</strong> Cansiglio. I Bottecchia acquistarono quattro cavalli ed avviarono un’attività di<br />

trasporto in proprio. «Furono anni felici», ricor<strong>da</strong>va Ottavio. Partecipa a qualche corsa<br />

per dilettanti con una bicicletta inadeguata, che era <strong>del</strong> fratello Giovanni.<br />

Allo scoppio <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra il governo requisisce i cavalli e i carri. Erano troppo vicini<br />

alla zona di operazioni. Lui, poco più che ventenne, venne la chiamata alle armi.<br />

Caporale nel 6° bersaglieri ciclisti, esploratore d’assalto,<br />

una volta compii una lunga corsa in bicicletta attraverso la montagna, portando<br />

sul dorso una mitragliatrice, destinata ad un posto di vedetta che ne era<br />

sfornito. Quel giorno, mi spinsi attraverso passaggi e mulattiere che solo le<br />

capre erano in grado di superare, Galibier o Izoard erano niente. La pesante<br />

mitragliatrice a bandoliera poi non alleggeriva certo la mia macchina. Arrivai<br />

alla postazione in tar<strong>da</strong> serata. Il giorno dopo ebbi la gioia di apprendere <strong>da</strong>l<br />

luogotenente Gallia l’utilità <strong>del</strong> mio raid: gli Austriaci avevano attaccato nel<br />

corso <strong><strong>del</strong>la</strong> notte, e il loro tentativo era fallito grazie alla mia mitragliatrice.<br />

Poi torna a fare il muratore, anche in Francia, a Clermont Ferrand. Ma non campa.


Scopre allora il valore <strong><strong>del</strong>la</strong> professionalità sviluppata in guerra. E diviene ciclista<br />

professionista. Non c’è soluzione di continuità tra guerra e dopoguerra. Il reduce lotta<br />

per la sua sopravvivenza. Lo sport, possiamo dire, è la prosecuzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. E’<br />

in sé una guerra.<br />

Bartali: il ciclismo come prosecuzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

Comunicato Ansa <strong>del</strong>le ore 12:<br />

Roma 14 luglio. Stamane, verso le 11,30, mentre l’onorevole Togliatti usciva<br />

<strong>da</strong>lla porta <strong>del</strong> palazzoni Montecitorio, in compagnia <strong>del</strong>l’o. Leonilde Jotti,<br />

veniva affrontato <strong>da</strong> un giovane, che poi si è appreso essere tale Antonio Pallante,<br />

studente universitario venticinquenne, il quale gli sparava contro alcuni<br />

colpi di rivoltella –sembra quattro– tre dei quali lo raggiungevano in varie<br />

parti <strong><strong>del</strong>la</strong> regione toracica.<br />

Incidenti a Roma, morti a Napoli, Livorno, Genova.<br />

Il 14 luglio 1948 in Francia, festa nazionale. Per il Tour, a Cannes dopo dodici tappe,<br />

è giorno di riposo. Bartali ha 21 minuti di distacco <strong>da</strong> Louison Bobet.<br />

Il 15 luglio il Ministro degli Interni Scelba accusa il PCI di strumentalizzare lo sciopero<br />

per fomentare una insurrezione civile. L’Unità quella stessa mattina accusa il governo<br />

di trasformare il cordoglio spontaneo in un attacco repressivo. A Torino gli operai<br />

sequestrano l’Amministratore Delegato Valletta, che con grande senso di responsabilità<br />

rifiuta l’intervento <strong>del</strong>l’esercito e ammonisce i dieci operai che lo controllano:<br />

“Intanto an<strong>da</strong>te a lavorare altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci”.<br />

Quel giorno il Tour riprende con il tappone alpino <strong>da</strong> Cannes a Briançon, attraverso<br />

le scalate <strong>del</strong>l’Allos, <strong>del</strong> Vars e e <strong>del</strong>l’Izoard.<br />

In Italia le comunicazioni ferroviarie, stra<strong>da</strong>li e telefoniche sono interrotte. La tensione<br />

è palpabile. Iniziative spontanee sfuggono al controllo degli stessi attivisti dei<br />

partiti. A <strong>Milano</strong>, alle 17 e 30, è prevista una manifestazione in Piazza <strong>del</strong> Duomo.<br />

Alle 17 e 15 radio accese nei bar portano la notizia. Gino Bartali è passato primo su<br />

ognuno dei colli, sta dominando la corsa, sull’Izoard sta recuperando tutto il ritardo.<br />

In discesa forerà, tenendo tutti col fiato sospeso. Ma <strong>da</strong>l dramma si passa alla gioia. La<br />

folla, al di là <strong>del</strong>le appartenenze politiche, si abbraccia.<br />

Migliorarono intanto le condizioni di Togliatti ma permaneva in Italia una situazione<br />

tesa, preoccupante. Il 16 Bartali vinse anche ad Aix les Bains e conquistò la maglia<br />

gialla.<br />

Togliatti sta meglio, finisce lo sciopero, si allentava la tensione.<br />

Domenica 18 luglio a Losanna Bartali, che festeggia il trentaquattresimo compleanno,<br />

ancora primo. Dieci anni prima, lo stesso giorno, Bartali aveva vinto a Marsiglia.<br />

Bartali sarà maglia gialla a Parigi, dieci anni dopo la prima vittoria. I due momenti<br />

chiave di una carriera duramene segnata <strong>da</strong>lla guerra – <strong>da</strong>l ’41 al ’45 il Giro d’Italia<br />

non si corre, <strong>da</strong>l ’40 al ’46 il Tour non si corre. Nel ’49, così come nel ’52, a vincere il<br />

Tour sarà Fausto Coppi, che in classifica si porta a poco più di un minuto <strong>da</strong> Bobet.<br />

Cronache sportive: altri drammi<br />

Il 29 giugno 1951 si corre il Giro <strong>del</strong> Piemonte: a poche centinaia di metri <strong>da</strong>ll’arrivo<br />

61


62<br />

Fausto e Serse Coppi, gregario <strong>del</strong> fratello, in vicinanza <strong>del</strong> Motovelodromo stanno<br />

preparando la volata. Serse urta con la ruota un altro corridore, o forse infila malauguratamente<br />

la ruota nel binario <strong>del</strong> tram. Cade, picchia la testa contro il marciapiede.<br />

Si rialza, conclude la corsa, ritorna in bici in albergo. Due ore dopo lamenta dolori alla<br />

testa, e perde improvvisamente conoscenza. Trasportato all’Ospe<strong>da</strong>le, viene visitato<br />

immediatamente. Ma prima ancora che si possa tentare di operarlo muore in conseguenza<br />

di una emorragia cerebrale.<br />

Inutili gli estremi tentativi per rianimarlo compiuti <strong>da</strong>l grande chirurgo Dogliotti,<br />

muore nelle braccia di Fausto<br />

Tour de France 1960. Quell’anno Jaques Anquetil, vinto il Giro d’Italia, non partecipa.<br />

Il favorito è un altro passista francese, l’astro nascente Roger Rivière. Il 10 luglio,<br />

quattordicesima tappa Millau-Avignon. Rivière forse senza motivo rischia il tutto per<br />

tutto per seguire Gastone Nencini nella discesa <strong>del</strong> Col du Perjuret. Cade rovinosamente.<br />

Si frattura il bacino, salva la vita, ma non si riprenderà mai veramente. Carriera<br />

finita. Muore nel 1976.<br />

Il tempo: dopoguerra, guerra fred<strong>da</strong>, equilibrio <strong>del</strong> terrore<br />

Anni Cinquanta: cortina di ferro, guerra fred<strong>da</strong>, stallo atomico. L’esportazione <strong>del</strong><br />

conflitto sull’altro, su un nemico esterno, implica un rischio enorme, mette in gioco la<br />

stessa nostra sopravvivenza, perché l’aggressione <strong>del</strong>l’altro si ritorce su noi stessi. Possiamo<br />

distruggere l’altro, ma non per questo inibiremo la sua capacità di aggredirci a<br />

sua volta. E’ un equilibrio <strong>del</strong> terrore, che vede ognuno sotto minaccia, sotto ricatto.<br />

Se è pericoloso, o impossibile, esportare aggressività e conflitto al di fuori <strong>del</strong> proprio<br />

gruppo, <strong>del</strong> proprio mondo, allora è importante chiedersi come gestire le pulsioni<br />

all’interno <strong>del</strong> proprio gruppo, <strong>del</strong> proprio mondo.<br />

Perciò la riflessione sul conflitto è in quegli anni al centro <strong><strong>del</strong>la</strong> riflessione sociologica.<br />

Il famoso saggio di Lewis Coser che mostra l’impossibilità di negare e rimuovere il<br />

conflitto 1 non aggiunge molto, in realtà, a quanto aveva scritto dieci anni prima Robin.<br />

M. Williams Jr. «Conflict result conscious pursuit of exclusive values», nota Williams.<br />

E si chiede come sostituire al conflitto - «focused upon the removing competitors» - la<br />

competizione «focused upon reaching a goal». 2<br />

In termini più formali, riflettono sul tema agli inizi degli anni Sessanta Aumann e<br />

Schelling - non a caso insigniti <strong>del</strong> premio Nobel per l’Economia nel 2005: è un tema<br />

attuale: la minaccia terroristica è diversa <strong>da</strong>lla minaccia atomica, ma gli effetti inibitori,<br />

il senso di impotenza che ne derivano sono <strong>del</strong> tutto simili.<br />

Robert J. Aumann ci mostra come sia l’“altruistic behavior” che il “revengeful<br />

behavior”, «make sense when viewed from the perspective of a repeated game, but<br />

not from the perspective of a one-shot game». E’ il Folk Theorem: se un gioco non<br />

si basa su una partita unica ma viene ripetuto nel tempo, allora verranno a crearsi dei<br />

meccanismi di credibilità e di reputazione in grado di condurre le parti a comportamenti<br />

di tipo cooperativo. Secondo Aumann la guerra fred<strong>da</strong> tra Stati Uniti ed Unione<br />

Sovietica non è sfociata nell’apocalisse nucleare perché ognuno dei contendenti sapeva<br />

che l’altro avrebbe cooperato solo se, e nella misura in cui, il primo avesse fatto<br />

1. Lewis A. Coser, The Function of Social Conflict, 1956.<br />

2. Robin. M. Williams Jr., The Reduction of Intergroup Tensions, 1947.


altrettanto. Qualsiasi deviazione <strong>da</strong>ll’equilibrio cooperativo avrebbe indotto l’altro a<br />

concretizzare la minaccia di ‘premere il grilletto’ (trigger strategy).<br />

Thomas C. Schelling precisa però che l’equilibrio cooperativo si afferma solo se<br />

esiste la disponibilità soggettiva ad accettare la sconfitta, e rinunciare a ciò che sembra<br />

irrinunciabile: «il potere di vincolare un avversario può dipendere <strong>da</strong>l potere di<br />

vincolare sé stessi». «Nella contrattazione la debolezza può essere un fattore di forza,<br />

la libertà può rivelarsi libertà di capitolare, e rompere i ponti dietro di sé può risultare<br />

la giusta strategia per sconfiggere il nemico». 3<br />

Polemologia a <strong>Milano</strong><br />

Da noi, a <strong>Milano</strong>, torna su questi temi Franco Fornari. In via Papa Gregorio, vicino<br />

a piazza Vetra, fon<strong>da</strong>to <strong>da</strong> Fornari, aveva sede negli anni ‘60 l’Istituto di Polemologia,<br />

Si occupava di “scienza dei conflitti”,<br />

Nella linea di Melania Klein lo psicoanalista italiano usa la lezione freudiana per<br />

interpretare il senso <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Il conflitto, attraverso la guerra, è esportato al di<br />

fuori <strong>del</strong> gruppo. La parte cattiva di me, è attribuita all’altro, a un nemico esterno.<br />

Gli oggetti d’amore sono in pericolo per la mia inadeguatezza, per la mia incapacità<br />

di cura e di attenzione, ma io mi libero <strong><strong>del</strong>la</strong> colpa attribuendola, paranoicamente, al<br />

nemico esterno.<br />

L’identificazione di un nemico dunque serve a mantenere il conflitto lontano <strong>da</strong> noi,<br />

al di fuori <strong>del</strong> gruppo, <strong>del</strong> mondo, <strong><strong>del</strong>la</strong> cultura cui apparteniamo. Ora però, sostiene<br />

Fornari –tornando sui temi di Williams, Coser, Aumann e Schelling– la situazione<br />

atomica mette in crisi questo meccanismo proiettivo. Se la guerra è guerra atomica,<br />

comporta il rischio di vedere sparire l’intera umanità, compresi noi stessi, (Fornari<br />

parla di ‘prospettiva pantoclastica’). Non esiste più il dentro e il fuori. Non si può più<br />

pensare il nemico come esterno. La guerra non può più essere usata come modo per<br />

esportare il conflitto.<br />

Si deve quindi tornare ad accettare la violenza ed il conflitto all’interno <strong>del</strong> nostro<br />

gruppo, <strong>del</strong> nostro mondo, <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra cultura. Al senso di colpa –un automatismo<br />

<strong>del</strong>l’Es– è doveroso sostituire la responsabilità, che è una scelta <strong>del</strong>l’Io. 4<br />

Il ciclismo come prosecuzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra con altri mezzi<br />

Negli anni ‘50 il ciclismo è prosecuzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, e <strong><strong>del</strong>la</strong> battaglia politica, con<br />

altri mezzi. Se la guerra non si può più fare, se la guerra distrugge e annichila, resta<br />

lo sport. Modo per oggettivare pulsioni, per incanalare gli istinti aggressivi perso uno<br />

scopo.<br />

Come per Ottavio Bottecchia, per operai, per lavoratori manuali il ciclismo –così<br />

come la boxe– è la via per una possibile emancipazione. Il modo per cercare responsabilmente<br />

e realisticamente un futuro di agiatezza. Attraverso l’estrema fatica, lo sfruttamento<br />

di quella che appare l’unica vera risorsa personale: il corpo, la forza fisica.<br />

Forza fisica indirizzata a uno scopo. Oltre il conflitto - «focused upon the removing<br />

3. Thomas C. Schelling, The Strategy of Conflict, 1960.<br />

4. Franco Fornari: Psicoanalisi <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra atomica, Edizioni di Comunità, 1964; Psicoanalisi<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, Feltrinelli, 1966; Dissacrazione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Dal pacifismo alla scienza dei<br />

conflitti, Feltrinelli, 1969; Psicoanalisi <strong><strong>del</strong>la</strong> situazione atomica, Rizzoli,1970.<br />

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68<br />

ALBERTO CADIOLI<br />

Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

La guerra di Carlo Emilio Gad<strong>da</strong><br />

Il 22 maggio <strong>del</strong> 1915, “Il Popolo d’Italia” pubblica, facendo seguire un breve commento<br />

di approvazione, una lettera che invoca la chiamata alle armi degli studenti. Lo<br />

scritto è significativo, per restituire il clima nel quale si muovevano i giovani volontari,<br />

e vale la pena di leggerlo per intero:<br />

Egregio Signor Direttore,<br />

Una disposizione ministeriale stabilisce una sessione speciale di esami per<br />

gli allievi ingegneri, <strong>da</strong>l 24 maggio al 24 giugno. Ora: mentre gli Italiani di<br />

ogni classe si trovano già o saranno fra qualche giorno chiamati sotto le armi,<br />

è cosa intollerabile per dei galantuomini di venti anni languire in uno stato<br />

di apatia civile, per attendere a degli interessi di studio che non hanno verun<br />

carattere di preparazione militare. Mentre quotidianamente assistiamo alla<br />

partenza dei nostri fratelli d’armi, che, per accorrere alla difesa suprema <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

patria, lasciano i campi, le officine, le occupazioni di ogni genere, noi ci sentiamo<br />

bruciare indosso questi abiti borghesi, che ormai sono per dei giovani<br />

sani e robusti causa di insopportabile vergogna.<br />

Crediamo che tutti i nostri compagni, entusiasti organizzatori di dimostrazioni<br />

nelle vie cittadine, siano concordi con noi nell’invocare come un sacro<br />

diritto la nostra reale partecipazione alla guerra. 1<br />

Tre le firme in calce: Fornasini Emilio - Gad<strong>da</strong> Carlo Emilio - Luigi Semenza.<br />

Si può incominciare <strong>da</strong> questa lettera, per una lettura <strong>del</strong>le annotazioni diaristiche<br />

di Gad<strong>da</strong> degli anni 1915-1919: <strong>da</strong>ll’arrivo a Edolo, in Valcamonica, dove Gad<strong>da</strong> era<br />

stato destinato in prima nomina come sottotenente, all’impegno sul fronte, ai campi<br />

di prigionia, ai giorni <strong>del</strong> ritorno a <strong>Milano</strong>, infine, riacquistata la libertà nel gennaio<br />

<strong>del</strong> 1919.<br />

Sebbene nate come scrittura privata, alcune pagine <strong>del</strong> diario erano state fatte conoscere,<br />

in tempi diversi, su giornali e riviste, finché nel 1955 furono raccolti in volume<br />

tre dei cinque taccuini di diario rimasti (un sesto era an<strong>da</strong>to perduto), sotto il titolo che<br />

1. Le carte militari di Gad<strong>da</strong>, a cura di G. Ungarelli, <strong>Milano</strong>, Scheiwiller, 1994, p. 72.


poi rimarrà definitivo di Giornale di guerra e di prigionia. 2 Nelle successive edizioni,<br />

nel 1965 3 e nel 1992 4 , vennero aggiunte le parti non ancora pubblicate, e nell’<strong>edizione</strong><br />

<strong>del</strong> 1992, compresa nel quarto volume <strong>del</strong>le Opere di Carlo Emilio Gad<strong>da</strong>, uscite sotto<br />

la direzione di Dante Isella, venne anche inserito, sotto il titolo Diario di Caporetto,<br />

un lungo Memoriale sui fatti <strong><strong>del</strong>la</strong> battaglia <strong>del</strong>l’Isonzo, durante la quale Gad<strong>da</strong> fu<br />

catturato <strong>da</strong>gli Austriaci. La scelta <strong>del</strong>l’editore, discutibile sul piano filologico per la<br />

raccolta di scritture nate con intenti e registri diversi, mostra però bene una possibile<br />

lettura di queste pagine come documento biografico, in un’ottica che richiede il quadro<br />

completo degli eventi cui ha partecipato il giovane diarista poi diventato scrittore. In<br />

questo intervento si seguirà invece un percorso di lettura diverso, per il quale è necessario<br />

seguire solo le pagine <strong>del</strong> diario, separandole <strong>da</strong> quelle <strong>del</strong> Memoriale.<br />

Quando Gad<strong>da</strong>, coerentemente con la lettera ricor<strong>da</strong>ta all’inizio, abbandona gli studi<br />

di ingegneria al Politecnico di <strong>Milano</strong> per partire volontario, non ha ancora compiuto<br />

22 anni. Pochi giorni dopo l’arrivo a Edolo, comprato un quaderno il 24 agosto 1915<br />

e indicato minuziosamente giorno e luogo <strong>del</strong>l’acquisto, Gad<strong>da</strong> dà il via al diario con<br />

questa prima annotazione:<br />

Le note che prendo a redigere, sono stese addirittura in buona copia, come<br />

vien viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno<br />

dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il<br />

vino e il caffè (p. 443).<br />

In queste righe, nelle quali si rivela uno stretto legame tra la vita quotidiana, con<br />

le sue difficoltà, e la scrittura che entra in questa vita nei momenti di pausa, sembra<br />

quasi introdotta una giustificazione («in buona copia, come vien viene»), <strong>da</strong>vanti a un<br />

possibile giudizio negativo sullo stile. Non era un fatto insolito tenere un diario, anche<br />

se lo facevano soprattutto gli ufficiali 5 (i sol<strong>da</strong>ti, quando non erano analfabeti, si limitavano<br />

a man<strong>da</strong>re lettere con annotazioni sulla loro vita), ma senz’altro era insolita la<br />

scelta di inserire, nelle prime righe, una giustificazione sulla scrittura: scelta che, letta<br />

naturalmente a distanza di tempo e ponendo sullo sfondo l’intera produzione gaddiana,<br />

rivela già una personale originalità.<br />

Le pagine <strong>del</strong> primo taccuino, quello che viene chiamato il «giornale di campagna»,<br />

sono strettamente legate alla volontà di partire volontario; nel dichiarare in più<br />

occasioni la propria impazienza al combattimento Gad<strong>da</strong> presenta i tratti di un giovane<br />

di alti ideali, convinto, coerentemente con i valori borghesi e nazionali ai quali è<br />

2. Carlo Emilio Gad<strong>da</strong>, Giornale di guerra e di prigionia, Firenze, Sansoni, 1955.<br />

3. Carlo Emilio Gad<strong>da</strong>, Giornale di guerra e di prigionia, Torino, Einaudi, 1965.<br />

4. Carlo Emilio Gad<strong>da</strong>, Giornale di guerra e di prigionia, in Saggi Giornali Favole II, Opere<br />

di Carlo Emilio Gad<strong>da</strong>, v. IV, a cura di Claudio Vela, Gianmarco Gaspari, Giorgio Pinotti,<br />

Franco Gavazzeni, Dante Isella, Maria Antonietta Terzoli, <strong>Milano</strong>, Garzanti, 1992. Le citazioni<br />

avranno tutte come riferimento questa <strong>edizione</strong>, per cui ci si limiterà a indicare nel testo il<br />

numero di pagina.<br />

5. Scrittore e pittore già affermato, Ardengo Soffici già nel 1918 diede alle stampe i suoi<br />

taccuini di guerra: cfr. A. Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia, Firenze, Libreria <strong><strong>del</strong>la</strong> Voce,<br />

1818, poi ripubblicato nel 1919 <strong>da</strong> Vallecchi, che nello stesso anno dà alle stampe La ritirata <strong>del</strong><br />

Friuli: note di un ufficiale <strong><strong>del</strong>la</strong> secon<strong>da</strong> armata.<br />

69


70<br />

stato educato, che il dovere più grande sia servire la patria. E’ già presente, per altro,<br />

un’esagerazione personale nell’interpretazione di quei valori, per cui il sottotenente<br />

Gad<strong>da</strong> dichiara apertamente che la propria affermazione come individuo e la piena<br />

manifestazione <strong><strong>del</strong>la</strong> propria identità sono inscindibilmente legate all’impegno perché<br />

quei valori siano fatti trionfare: <strong>da</strong> qui l’affermazione, quasi un grido, «Ma io devo e<br />

voglio combattere» (p. 481).<br />

Anche proprio per l’obiettivo personale che si è posto, Gad<strong>da</strong> reagisce con malumore<br />

e rabbia di fronte alla cattiva conduzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, agli sprechi <strong>del</strong> bene collettivo,<br />

al disinteresse per gli altri, all’indifferenza per la patria. Le citazioni potrebbero<br />

moltiplicarsi, ma basteranno poche frasi per <strong>da</strong>rne conto in modo significativo:<br />

In questi giorni ebbi nuove ire contro i generaloni, persone certo poco capaci.<br />

Raramente visitano il fronte, il fronte vero; e soprattutto non conoscono<br />

affatto la montagna (p. 464).<br />

E ancora, in particolare, si ve<strong>da</strong> questa lunga accusa, <strong>da</strong> <strong>leggere</strong> per esteso:<br />

I nostri uomini sono calzati in modo <strong>da</strong> far pietà: scarpe di cuoio scadente<br />

e troppo fresco per l’uso, cucite con filo leggero <strong>da</strong> abiti anzi che con spago,<br />

a macchina anzi che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano,<br />

si scuciono, i fogli <strong>del</strong>le suole si distaccano nell’umidità l’uno <strong>da</strong>ll’altro.<br />

Un mese di servizio le mette fuori d’uso. – Questo fatto ridon<strong>da</strong> a totale <strong>da</strong>nno,<br />

oltre che <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>l’erario, <strong>del</strong> morale <strong>del</strong>le truppe costrette alla<br />

vergogna di questa lacerazione, e, in guerra, alle orribili sofferenze <strong>del</strong> gelo!<br />

[…] Quanto <strong>del</strong>inquono coloro che per frode o per incuria li calzano a questo<br />

modo; se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato<br />

a una rissa, per finirlo a coltellate. Noi Italiani siamo troppo acquiescenti<br />

al male; <strong>da</strong>vanti alle cause <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra rovina morale diciamo: «Eh ben!», e<br />

lasciamo an<strong>da</strong>re. (pp. 466-467)<br />

Anche una <strong>del</strong>le frasi immediatamente successive rivela la severità <strong>del</strong> giovane sol<strong>da</strong>to<br />

contro l’incapacità dei governanti:<br />

Ma Salandra, ma quello scemo balbuziente d’un re, ma quei duchi e quei<br />

deputati che vanno a “veder le trincee”, domandino conto a noi, a me, <strong>del</strong><br />

come sono calzati i miei uomini… (p. 467).<br />

O ancora:<br />

Se queste mie memorie saranno lette in futuro, chi leggerà sappia che la<br />

discordia nelle file <strong>del</strong> nostro esercito, nella compagine <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra vita nazionale<br />

è novanta volte su cento il frutto di imbecillità e di frivolezze… (p.<br />

578).<br />

Si potrebbero accumulare esortazioni e invettive, lodi per gli eroi e con<strong>da</strong>nne per gli<br />

incapaci o per gli egoisti attenti solo al proprio io. Gli improperi contro gli egoisti, in<br />

particolare, rappresentano una significativa anticipazione <strong>del</strong>le imprecazioni contro il


pronome di prima persona che si leggerà nella Cognizione <strong>del</strong> dolore. L’osservazione<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> conduzione <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra e <strong>del</strong> comportamento sia <strong>del</strong>le gerarchie militari sia di<br />

molti commilitoni fa entrare in crisi la convinzione, fino ad allora <strong>da</strong>ta per scontata<br />

<strong>da</strong>l giovane Gad<strong>da</strong>, che la Patria fosse per tutti un valore supremo. Ed ecco allora la<br />

dolente considerazione: «Il mio popolo, la mia patria che tanto amai, mi appaiono<br />

alla prova ben peggiori di quanto credevo» (p. 486), e la «<strong>del</strong>usione nei riguardi <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vita cittadina», come scrive durante una licenza a <strong>Milano</strong>, il 15 febbraio 1916, perché<br />

l’abitante <strong><strong>del</strong>la</strong> città, che «con la beneficenza continua mostra di amare i combattenti»,<br />

tuttavia «pure si diverte, passeggia, chiacchiera come se nulla fosse» (p. 523).<br />

Non è difficile scorgere in questa <strong>del</strong>usione i germi di tante pagine <strong>del</strong>le opere successive,<br />

nelle quali si esprimerà, in nome <strong>del</strong> rigore morale, la totale con<strong>da</strong>nna di coloro<br />

che, nonostante la responsabilità e il dovere di gui<strong>da</strong>re l’Italia, pensano solo al proprio<br />

tornaconto: tra questi, in primo piano, i rappresentanti <strong><strong>del</strong>la</strong> borghesia italiana e i capi<br />

<strong>del</strong> fascismo, che di quella borghesia avrebbe dovuto essere l’espressione politica.<br />

Strettamente legato al tema <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>del</strong>usione si fa stra<strong>da</strong> il contrasto tra ordine e disordine,<br />

che, sviluppato ampiamente nei romanzi più noti di Gad<strong>da</strong>, è individuabile, nelle<br />

pagine <strong>del</strong> Giornale, come elemento costitutivo <strong>del</strong>l’orizzonte dentro il quale il giovane<br />

ufficiale colloca se stesso e il proprio mondo. Si ve<strong>da</strong> questa citazione:<br />

La secon<strong>da</strong> ragione <strong><strong>del</strong>la</strong> mia indolenza e prostrazione [la prima era «l’ozio<br />

assoluto, nei riguardi militari, che prostra il corpo e lo spirito»] è un’antica,<br />

intrinseca qualità <strong>del</strong> mio spirito, per cui il pasticcio e il disordine mi annientano.<br />

Io non posso fare qualcosa, sia pure <strong>leggere</strong> un romanzo, se intorno a<br />

me non v’è ordine. […] Io che mi sono immerso con gioia nelle bufere di neve<br />

sull’A<strong>da</strong>mello, perché esse bufere erano nell’ordine naturale <strong>del</strong>le cose e io in<br />

loro ero al mio posto, io sono atterrito al pensiero che il soffitto <strong>del</strong> mio abituro<br />

sgocciola sulle mie gambe: perché quella porca ruffiana acqua lì è fuor di<br />

luogo, non dovrebbe esserci: perché lo scopo <strong>del</strong> baracchino è appunto quello<br />

di ripararmi <strong>da</strong>lle fucilate e <strong>da</strong>lla pioggia (21 luglio 1916, pp. 570-571).<br />

E ancora:<br />

Ma il disordine c’è: quello c’è, sempre, dovunque, presso tutti: oh! se c’è,<br />

e quale orrendo, logorante, disordine! Esso è il mare di Sargassi per la nostra<br />

nave (24 luglio 1916, p. 575).<br />

E’ dentro questo quadro, per altro, che viene a farsi stra<strong>da</strong>, <strong>da</strong> un lato, la rivisitazione<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> propria adolescenza come periodo di sofferenza («Tutte le volte che rivado nel<br />

passato, non ci vedo che dolore», p. 486), e, <strong>da</strong>ll’altro, la consapevolezza <strong><strong>del</strong>la</strong> propria<br />

particolare e morbosa sensibilità, «una forma patologica <strong>del</strong> cuore, di origine nervosa,<br />

dovuta alle violente emozioni <strong>da</strong> cui fu contristata la mia infanzia» (p. 547).<br />

Il sol<strong>da</strong>to che scrive <strong><strong>del</strong>la</strong> propria esperienza viene <strong>del</strong>ineando, annotazione dopo<br />

annotazione, la parabola di un personaggio: quello <strong>del</strong> giovane volontario che, partito<br />

con molto entusiasmo, si trova, via via che passano i mesi, a fare i conti con una realtà<br />

che non corrisponde a quella costruita nei sogni eroici a lungo coltivati.<br />

Prima di approfondire questo spunto tematico, tuttavia, è opportuno aggiungere<br />

altre considerazioni, che si muovono per una via diversa, autonoma ma comunque in-<br />

71


76<br />

1. “Qual è il fiume di <strong>Milano</strong>?”; ovvero: “Quali sono i fiumi di <strong>Milano</strong>?” A queste<br />

domande si può <strong>da</strong>re una facile risposta geografico-naturale: i fiumi sono il Lambro<br />

e l’Olona. Noi milanesi, a ben vedere, quasi non ce ne accorgiamo più, se è vero che<br />

l’Olona lo percepiamo solo quando straripa, il Lambro è ridotto a una roggia puzzolente,<br />

ed entrambi si inalveano dentro la città per riapparire a sud, fuori <strong>da</strong>lla nostra<br />

vista (e olfatto, beninteso).<br />

In realtà, la stragrande maggioranza di noi – dovendo pensare a un “fiume” <strong>da</strong>vvero<br />

milanese - pensa al Naviglio, ovvero ai Navigli, come sarebbe meglio dire. Le ragioni<br />

sono fin troppo evidenti, e non c’è forse bisogno di illustrarle: i Navigli – in particolare<br />

il Grande e il Pavese, nonché la Darsena che li collega – sono il corso d’acqua che a<br />

<strong>Milano</strong> svolge il ruolo, nelle pratiche sociali e nell’immaginario, di un vero e proprio<br />

fiume. Non per caso, un’impressione <strong>del</strong> genere ebbe anche un non milanese come<br />

Giuseppe Ungaretti. Tutti o quasi tutti conosciamo una sua importantissima poesia<br />

che si intitola I fiumi, molto spesso letta anche a scuola. Trascrivo la prima stesura<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> sua parte conclusiva, che è affi<strong>da</strong>ta a una lettera a Giovanni Papini: 1<br />

I miei fiumi si mettono in fila<br />

chilometri e chilometri passo a passo<br />

in un batter d’occhi millanni<br />

e io li riconosco<br />

a uno a uno<br />

come un accorto coman<strong>da</strong>nte<br />

quest’è il Nilo<br />

e quest’è l’Arno<br />

quest’è il Naviglio<br />

e quest’è la Sesia<br />

quest’è il Serchio<br />

e quest’è il Po<br />

PAOLO GIOVANNETTI<br />

Università IULM <strong>Milano</strong><br />

“Per la trincea ripartito è qualcuno”<br />

Poeti a <strong>Milano</strong> nella grande guerra<br />

1. Giuseppe Ungaretti, Poesie e prose liriche, 1915-1920, a cura di Cristiana Maggi Romano e<br />

Maria Antonietta Terzoli, <strong>Milano</strong>, Mon<strong>da</strong>dori, 1989, p. 30.


e quest’è la Senna<br />

e quest’è la mia vita<br />

che in ognuno vi traspare<br />

Ora non è<br />

che una corolla di tenebre<br />

Curiosamente, tra i fiumi di Ungaretti non c’è ancora l’Isonzo, che poi avrà una funzione<br />

simbolica fon<strong>da</strong>mentale nella re<strong>da</strong>zione definitiva <strong>del</strong> componimento; mentre è<br />

presente il Naviglio. La cosa, in fondo, non ci stupisce perché il poeta vive a <strong>Milano</strong><br />

quando scoppia la prima guerra mondiale, e subito dopo si arruola volontario: certo<br />

ha considerato questo particolare “fiume” una tappa no<strong>da</strong>le <strong><strong>del</strong>la</strong> sua vita recente (<strong>del</strong><br />

resto, nel catalogo troviamo anche il Sesia, che sigla Vercelli, vale a dire la città in cui<br />

Ungaretti, dopo aver lasciato <strong>Milano</strong>, si unisce all’esercito in attesa di raggiungere il<br />

fronte).<br />

Dunque: Ungaretti; prima guerra mondiale; <strong>Milano</strong>. Mi sembra un utile punto di<br />

partenza per il mio discorso. Al di là <strong>del</strong>l’evento curioso appena osservato, quello<br />

<strong>del</strong> giovane Ungaretti con <strong>Milano</strong> è un rapporto importante e forse poeticamente decisivo.<br />

Ricordiamo che L’allegria comincia con una sezione intitolata Ultime, <strong>da</strong>tata<br />

1914-1915 e collocata, potrei dire persino “ambientata”, a <strong>Milano</strong>. Tanto più che tale<br />

capitolo <strong><strong>del</strong>la</strong> raccolta costituisce la premessa necessaria all’esperienza di trincea vissuta<br />

<strong>da</strong>ll’“uomo di pena” Ungaretti, fante italiano <strong><strong>del</strong>la</strong> grande guerra. A loro volta, le<br />

Ultime sembrano raccontare una storia, realizzano un percorso ascendente, secondo<br />

uno sviluppo temporale che culmina con una poesia, intitolata Popolo, <strong>da</strong>i contenuti<br />

dichiaratamente interventisti. Evoca di scorcio – associandole analogicamente ad altri<br />

contenuti - immagini <strong>del</strong>le manifestazioni di piazza che a <strong>Milano</strong> chiedono la partecipazione<br />

<strong>del</strong>l’Italia al conflitto: 2<br />

Brulicano già gridi<br />

d’un vento nuovo<br />

Alveari nascono nei monti<br />

di sperdute fanfare<br />

[...]<br />

O Patria ogni tua età<br />

s’è desta nel mio sangue<br />

Sicura avanzi e canti<br />

sopra un mare famelico<br />

Appunto, la <strong>Milano</strong> che voglio raccontare è una <strong>Milano</strong> poetica legata alla guerra,<br />

una città che si militarizza. E’ una militarizzazione precocissima, peraltro: se pensia-<br />

2. Giuseppe Ungaretti, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, <strong>Milano</strong>,<br />

Mon<strong>da</strong>dori, 1969, pp. 16-7.<br />

77


78<br />

mo che Filippo Tommaso Marinetti aveva occupato il territorio cittadino, con armi per<br />

lo meno simboliche, fin <strong>da</strong>l 1912. In quell’anno aveva <strong>da</strong>to alla stampe un poema in<br />

versi liberi - scritto in francese -, intitolato Le monoplan du Pape (poi tradotto come<br />

L’aeroplano <strong>del</strong> Papa), in cui è raccontata una possibile guerra <strong>del</strong>l’Italia contro l’Austria.<br />

E’ un racconto profetico, come lo definirà Marinetti stesso: il culmine allegorico<br />

si realizza proprio nell’immagine di un volo, <strong>da</strong> parte <strong>del</strong>l’io poetante, sopra il Duomo<br />

milanese, nel corso <strong>del</strong> quale la cattedrale cittadina viene implicitamente distrutta<br />

(più esattamente, è preconizzato il suo “trasloco” <strong>da</strong>l centro cittadino). Insomma, la<br />

guerra era già stata portata a <strong>Milano</strong>, per iniziativa <strong>del</strong>l’immaginario poetico: e i suoi<br />

protagonisti, in particolare il nemico austriaco, saranno gli stessi <strong>del</strong> 1915.<br />

Quando, dopo l’estate <strong>del</strong> 1914, la guerra si annuncia come prossima, sono molti<br />

i poeti a sostenere la necessità <strong>del</strong>l’intervento. Vi propongo la conclusione di un<br />

componimento scritto <strong>da</strong> un poeta mitissimo, che poi diventerà sacerdote cattolico,<br />

Clemente Rebora. La poesia è intitolata Fantasia di carnevale: 3<br />

[...]<br />

Perché si redima nel rischio<br />

Il tètano <strong>del</strong>l’uomo<br />

La nausea <strong>del</strong> mondo,<br />

In sprazzi di respiro<br />

Avvèntaci alla prova,<br />

Martirio che irrora,<br />

Olocausto vivo!<br />

Se no, nel guizzo felice<br />

D’un giorno ben triste,<br />

Ai passanti innocenti<br />

Scaglieremo le bombe,<br />

Colmeremo le tombe<br />

Che la carie <strong>del</strong>l’ore ci aprì.<br />

Del resto, il destino<br />

Ha stomaco sano,<br />

Per smaltire anche noi...<br />

A cena, intanto. Olà,<br />

Del festino: carne al sangue,<br />

Rosso vino forte,<br />

Evviva l’appetito <strong><strong>del</strong>la</strong> morte!<br />

Sono versi non facili, dominati <strong>da</strong>ll’arduo stilismo espressionista caratteristico di<br />

quest’autore. Ma la parte finale è chiara: siamo nel febbraio <strong>del</strong> ’15, appunto a <strong>Milano</strong>,<br />

e il soggetto enunciatore reclama l’entrata in guerra <strong>del</strong>l’Italia, minacciando altresì<br />

– in caso contrario - di lanciare bombe per le strade, di uccidere per vendetta i poltroni<br />

borghesi. Un poeta certo non truculento si apre dunque ai temi che c’interessano, al<br />

mito <strong><strong>del</strong>la</strong> violenza; e, di nuovo, suggerisce una guerra già pienamente collocata nella<br />

3. Clemente Rebora, in Le poesie (1913-1957), a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller,<br />

<strong>Milano</strong>, Garzanti, 1994, pp. 188-9.


città.<br />

Per capire l’entusiasmo che caratterizza tale clima interventista, può essere utile<br />

osservare due immagini. La prima è una tavola parolibera <strong>del</strong> futurista napoletano<br />

Francesco Cangiullo (fig. 1), intitolata <strong>Milano</strong> – Dimostrazione: 4 è una stilizzazione<br />

di piazza Duomo, dove le persone sono rese con il disegno degli slogan gri<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>i manifestanti.<br />

Nella secon<strong>da</strong> immagine (fig. 2) - che tra l’altro casca a fagiolo in un giorno<br />

in cui i relatori che mi hanno preceduto, Cadioli e Varanini, hanno parlato di biciclette<br />

e ciclisti - vediamo i volontari ciclisti milanesi che si preparano a partire per il fronte.<br />

E’ divertente pensare, <strong>da</strong>l nostro punto di vista, che la bicicletta sia stata considerata<br />

uno strumento di guerra, anche perché alcuni fra i più bellicosi interventisti futuristi<br />

(Marinetti in testa, peraltro) appunto sono an<strong>da</strong>ti al fronte pe<strong>da</strong>lando. A questo proposito,<br />

ho trovato dei bruttissimi versi che commemorano l’evento, il viaggio ciclistico<br />

<strong>da</strong> <strong>Milano</strong> alle zone in cui si combatte; l’autore è un Luigi Scarpini, e il suo è un vero<br />

e proprio inno - scritto nel luglio 1915: 6<br />

A Trieste, o ciclisti lombardi,<br />

il cannone vi chiama concordi.<br />

Accorrete a combatter gagliardi<br />

il pugnace nemico oppressor.<br />

A Trieste serrati in ischiere<br />

sotto il Duce sapiente Cadorna,<br />

dispiegate le vostre bandiere,<br />

pegni sacri di fede e d’amor.<br />

Fig. 1<br />

4. La tavola era uscita in “Gli avvenimenti”, I, 117, 19-26 dicembre 1915; la traggo <strong>da</strong>l catalogo<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> mostra Marinetti e il futurismo a <strong>Milano</strong> (<strong>Milano</strong>, Biblioteca Nazionale Braidense, 10<br />

ottobre-18 novembre 1995), <strong>Milano</strong>, De Luca, 1995, p. 62.<br />

5. In Marinetti e il futurismo a <strong>Milano</strong> cit., p. 63.<br />

6. Il testo è contenuto in A. Virgilio Savona – Michele L. Straniero, I canti <strong><strong>del</strong>la</strong> grande guerra,<br />

<strong>Milano</strong>, Garzanti, 1981, pp. 139-40.<br />

79


80<br />

Fig. 2<br />

2. Insomma, se nella realtà storica <strong><strong>del</strong>la</strong> prima guerra mondiale <strong>Milano</strong> è una città<br />

di retrovia, cioè appartiene al fronte interno, in poesia è viceversa pienamente coinvolta<br />

nella guerra. Nell’immaginario dei poeti, <strong>Milano</strong> è sul fronte “esterno”, combatte<br />

in prima linea, è attraversata <strong>da</strong>l conflitto armato. Nei versi di tanti poeti si realizza<br />

in pieno questa tendenza a violentare, bellicizzandola, la città, a cogliervi un vero e<br />

proprio scenario di morte.<br />

Ma diamo ancora per un attimo un’occhiata al reale-reale, alle forme <strong><strong>del</strong>la</strong> vera<br />

guerra che hanno toccato <strong>Milano</strong>. In via Tiraboschi, quasi all’angolo con via Muratori,<br />

c’è un monumento (figg. 3 e 4), chiamato ancora <strong>da</strong>i vecchi milanesi “I trì<br />

ciucch” (perché i tre personaggi allegorici raffigurati sono visti come tre ubriachi che<br />

si sostengono reciprocamente): la sua funzione è ricor<strong>da</strong>re il bombar<strong>da</strong>mento <strong>del</strong> 14<br />

febbraio 1916 sulla zona di porta Romana. Gli aeroplani austriaci quel giorno erano<br />

riusciti a raggiungere <strong>Milano</strong> uccidendo una quindicina di civili, i cui nomi sono elencati<br />

sulla lapide.<br />

Un po’ di guerra in senso pieno a <strong>Milano</strong> c’è stata veramente, appunto. Ma i poeti<br />

seguono un loro percorso, particolarmente radicale, che spesso esaspera certe contraddizioni.<br />

Un esempio <strong>da</strong>vvero emblematico è la tavola parolibera di Paolo Buzzi<br />

(fig. 5) intitolata Un attimo <strong><strong>del</strong>la</strong> mia giornata a palazzo Monforte. 7 L’autore è un<br />

futurista milanesissimo, molto legato Marinetti, che ha lavorato per tutta la sua vita<br />

in prefettura. La poesia visiva in oggetto “descrive” una giornata a palazzo Monforte,<br />

sede appunto <strong><strong>del</strong>la</strong> prefettura. In alto a sinistra si vede il tavolo di lavoro <strong>del</strong> poeta,<br />

e la scritta rovesciata dice di un desiderio di morte connesso alla figura <strong>del</strong> padre e,<br />

7. Uscita sull’“Italia futurista”, 7, 1o ottobre 1916, la traggo <strong>da</strong> Paolo Buzzi, Futurismo. Scritti,<br />

carteggi, testimonianze, a cura di Mario Morini e Giampaolo Pignatari, <strong>Milano</strong>, Palazzo Sormani,<br />

1983, vol. II, p. 229.


90<br />

REMO CESERANI<br />

Università Statale di Bologna<br />

Rappresentazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

Si può affrontare il fenomeno <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, come esperienza vissuta e come rappresentazione<br />

di tale esperienza, <strong>da</strong> diversi punti di vista. Si può cercare, rispetto all’esperienza,<br />

di distinguere fra i diversi periodi storici, tenendo conto dei molti elementi<br />

che compongono il fenomeno guerra: non solo le sensazioni personali <strong>del</strong> sol<strong>da</strong>to, i<br />

richiami ideologici all’eroismo o quelli più profondi alle forze istintive o ai mo<strong>del</strong>li<br />

di comportamento che muovono l’uomo: l’aggressività, la voglia di menar le mani, lo<br />

scatenamento degli istinti, fra stupri e bottini, concessi alle truppe dopo la vittoria e<br />

in qualche modo codificati, oppure la paura, l’angoscia, oppure lo spirito di sacrificio,<br />

o la volontà di avventura; ma anche la tecnica militare, le regole che <strong>da</strong> sempre governano<br />

i conflitti e stabiliscono armi proprie e armi improprie, il rapporto fra militari e<br />

popolazioni civili, la distinzione fra sol<strong>da</strong>ti di professione, che fanno il mestiere <strong>del</strong>le<br />

armi, ed eserciti di popolo, quelli che piacevano a Machiavelli, o la guerra <strong>del</strong>le parole<br />

a contrasto o a sostegno <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra <strong>del</strong>le armi. (la guerra <strong>del</strong>le parole è stata ampiamente<br />

presente nella storia, <strong>da</strong>i latini a D’Annunzio alla disinformacija praticata <strong>da</strong>i<br />

servizi segreti nei tempi moderni)<br />

Quanto alle rappresentazioni (diari, scritture di memoria, rievocazioni a distanza,<br />

romanzi di invenzione, narrazione filmiche; si ve<strong>da</strong> per esempio, l’antologia a cura di<br />

Sebastian Faulks e Jörg Hensgen, 1999), anch’essi possono essere distinti a secondo<br />

<strong>del</strong> registro stilistico e <strong><strong>del</strong>la</strong> mo<strong>da</strong>lità rappresentativa scelta: <strong>da</strong>llo stile epico che dà<br />

voce all’esaltazione eroica, a quello romanzesco che presenta la guerra come una occasione<br />

di bella avventura (come in un famoso testo <strong>del</strong> poeta provenzale Bertran de<br />

Born Be’m platz lo gais temps de Pascor) o di messa alla prova degli ideali cavallereschi<br />

[Domenichelli 2002], a quello comico-grottesco (anch’esso con una lunga tradizione<br />

fino al buon sol<strong>da</strong>to Švejk di Jaroslav Hašek [1921-23] o all’aviatore Yossarian<br />

di Erich Heller [1955]).<br />

C’è poi il problema <strong>del</strong> rapporto fra esperienza (un’esperienza spesso estrema e<br />

scioccante) e memoria. Su questo problema, relativamente alla prima guerra mondiale,<br />

ha attirato l’attenzione Walter Benjamin nel bellissimo saggio su Il narratore [1936],<br />

là dove parla <strong>del</strong> forte indebolimento <strong>del</strong>l’arte <strong>del</strong> narrare verificatosi nel Novecento:<br />

Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che <strong>da</strong> allora non si è<br />

più arrestato. Non si era visto, alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, che la gente tornava <strong>da</strong>l fronte


ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile [il termine tedesco<br />

è Erfahrung; come è noto, al centro <strong><strong>del</strong>la</strong> teoria di Benjamin c’e la differenza tra<br />

Erfahrung – esperienza vera (o accumulata), e Erlebnis – esperienza vissuta]. Ciò che<br />

poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana di libri di guerra, era stata tutto<br />

fuorché esperienza [Erfahrung] passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché<br />

mai esperienze [Erfahrungen] furono più radicalmente smentite di quelle strategiche<br />

<strong>da</strong>lla guerra di posizione, di quelle economiche <strong>da</strong>ll’inflazione, di quelle fisiche <strong>da</strong>lla<br />

guerra dei materiali, di quelle morali <strong>da</strong>i detentori <strong>del</strong> potere. Una generazione che<br />

era ancora an<strong>da</strong>ta a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un<br />

paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un<br />

campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo umano.<br />

[trad. it. 1962, p. 236]<br />

Questo pensiero di Benjamin pone il problema <strong><strong>del</strong>la</strong> novità scioccante <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

moderna di trincea e <strong>del</strong>le sue conseguenze sulla capacità di percezione <strong>del</strong>l’esperienza<br />

fatta [Erlebnis] <strong>da</strong> parte dei sol<strong>da</strong>ti e sulla capacità di raccontarsela, farsene una<br />

ragione, scriverla. Si tratta di esperienze umane sconvolgenti, che hanno coinvolto<br />

singoli individui e intere collettività stravolgendone la vita, ponendoli in contatto quotidiano<br />

con l’esperienza estrema <strong><strong>del</strong>la</strong> morte e <strong><strong>del</strong>la</strong> catastrofe, segnandoli per sempre,<br />

a volte nel corpo con cicatrici e deformazioni irrimediabili, altre volte meno visibilmente<br />

ma anche più profon<strong>da</strong>mente nella memoria, nel modo di percepire e ragionare,<br />

nella personalità. C’è molto di vero nella tesi di Benjamin. Alcuni grandi libri sulla<br />

guerra sono il prodotto di una fase successiva, di una scrittura memoriale: per esempio<br />

quelli di Erich Maria Remarque [1929], Siegfried Sassoon [1957], Emilio Lussu<br />

[1938], Louis Ferdinand Céline [1936], fino a David Malouf [1982]. Va tuttavia precisato,<br />

senza smentire la tesi di Benjamin sulla sostanza scioccante <strong>del</strong>l’Erlebnis di chi<br />

ha passato giorni terribili nelle trincee, e <strong><strong>del</strong>la</strong> sua difficoltà a divenire Erfahrung, che<br />

ci sono state anche molte testimonianze - sia pure frammentarie, disorientate, confuse<br />

– in diari, lettere, e, guar<strong>da</strong> caso, in molte poesie. Basta ricor<strong>da</strong>re le liriche di Ungaretti,<br />

Owen e tanti altri in Germania, Francia, Russia. Italia (su cui Cortellessa 1998).<br />

C’è quindi un problema di rapporto fra l’esperienza <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra e la memoria. Ma<br />

c’è stata anche, a proposito <strong><strong>del</strong>la</strong> prima guerra mondiale, e qui si coglie un aspetto<br />

significativo <strong>del</strong> ruolo svolto <strong>da</strong>lla letteratura, una preparazione all’evento, una specie<br />

di addestramento <strong>del</strong>le posizioni ideologiche, degli atteggiamenti culturali, <strong><strong>del</strong>la</strong> sensibilità<br />

collettiva. La cosa è tanto più significativa in quanto la prima guerra mondiale<br />

viene spesso presentata come un avvenimento inaspettato, uno “scoppio” irrazionale,<br />

scatenato <strong>da</strong> un evento occasionale e periferico, che prese di sorpresa un mondo tutto<br />

immerso nei piaceri e negli autocompiacimenti <strong><strong>del</strong>la</strong> belle époque. La guerra imminente<br />

e catastrofica è stata, in realtà, anticipata <strong>da</strong> una serie di romanzi, appartenenti<br />

a un genere nuovo che potremmo chiamare fantastorico, pubblicati soprattutto in Inghilterra,<br />

ma diffusi in tutto il continente europeo. Uno studioso inglese, specialista<br />

<strong>del</strong>l’argomento, I. F. Clark, in una serie di studi e antologie (1995, 1997) ha riesumato<br />

questi testi, che mi paiono molto interessanti e che hanno coinvolto, oltre a personaggi<br />

poco noti, anche alcuni importanti scrittori <strong><strong>del</strong>la</strong> letteratura europea come H. G. Welles,<br />

Julius Verne, Conan Doyle. Clark, nell’introduzione all’antologia <strong>del</strong> 1995, definisce<br />

questi scrittori «Combattenti di carta» impegnati in guerre di fantasia; potremmo<br />

aggiungere di fantascienza, perché l’attenzione alla tecnologia militare e alle possibili<br />

91


92<br />

novità <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra aerea, di quella missilistica, dei cannoni a lunga gittata è in questi<br />

testi molto forte.<br />

Il primo a lanciare il nuovo genere è stato un oscuro ufficiale inglese divenuto scrittore:<br />

George T. Chesney. Egli ha pubblicato nel 1871 sulla rivista “Blackwood” e subito<br />

dopo in libro a sé un testo intitolato The Fall of England? The battle of Dorking,<br />

Reminiscences of a Volunteer. Il narratore di questo testo, che si immagina scriva<br />

attorno al 1925, racconta ai nipoti la grande avventura vissuta <strong>da</strong> lui come volontario<br />

durante un’immaginaria invasione <strong>del</strong>l’Inghilterra cinquanta anni prima. L’invasione,<br />

di cui sono autori i tedeschi (essi non sono identificati come tali, ma i sol<strong>da</strong>ti tra di<br />

loro parlano tedesco), è avvenuta fra la sorpresa <strong><strong>del</strong>la</strong> popolazione inglese e anche <strong>del</strong><br />

governo, nonostante i non pochi avvertimenti che si erano avuti negli anni precedenti.<br />

L’Inghilterra è stata trasformata <strong>da</strong> paese prospero, che viveva trasformando nelle sue<br />

fabbriche le materie prime importate <strong>da</strong> tutto il mondo, che dominava i mari e i commerci,<br />

in una lan<strong>da</strong> desolata, pre<strong>da</strong> <strong>del</strong> folle “comunismo”, il quale ha rovinato i ricchi<br />

senza riuscire a <strong>da</strong>re veri benefici ai poveri. L’attacco ha trovato l’esercito inglese<br />

impreparato, convinto che la Manica e le difese costiere fossero una garanzia sufficiente<br />

e la sconfitta militare è stata ignominiosa. Ci sono state insurrezioni in Irlan<strong>da</strong>,<br />

in India e problemi seri in America e in Cana<strong>da</strong>. Il nemico si è annesso l’Olan<strong>da</strong> e la<br />

Danimarca. Il narratore, che lavorava a Londra e risiedeva nel villaggio di Dorking,<br />

racconta minutamente gli avvenimenti: la confusione <strong>del</strong>le comunicazioni; l’uso di<br />

tecnologie avanzate <strong>da</strong> parte degli avversari (per esempio siluri che affon<strong>da</strong>no la nave<br />

ammiraglia inglese); la funzione dei giornali, che seguono gli avvenimenti grazie a<br />

un cavo sotterraneo; il crollo <strong><strong>del</strong>la</strong> borsa e la svalutazione <strong><strong>del</strong>la</strong> sterlina; il tentativo di<br />

organizzare squadre di volontari; gli invasori che arrivano nel villaggio di Dorking e<br />

uccidono un bambino; le loro gozzoviglie con grandi pezzi di carne e irrisioni ai volontari<br />

inglesi, bravissimi a fuggire; il crollo <strong>del</strong>l’impero inglese, con l’indipendenza<br />

<strong>del</strong>le colonie; il passaggio ai nemici di Gibilterra e Malta, e così via.<br />

Il grande successo <strong>del</strong> romanzo di Chesney (che fu tradotto quasi subito in tedesco)<br />

ha prodotto una vera e propria mo<strong>da</strong> <strong>del</strong> genere, con tutta una serie di romanzi <strong>del</strong> tipo<br />

“la guerra <strong>del</strong> futuro”, “future war novels”, “Zukunftkrieg-Romanen”. Forse l’autore<br />

più popolare è stato William Le Queux, un curioso personaggio, console a San Marino,<br />

corrispondente <strong>da</strong>l fronte <strong><strong>del</strong>la</strong> Guerra balcanica negli anni 1912-13, probabile affiliato<br />

dei servizi segreti, autore di The Great War in England in 1897 (1897). Ma se ne<br />

possono ricor<strong>da</strong>re parecchi altri, come per esempio William L. Clowes (1894), George<br />

Griffith (1895), Matthew P. Shiel (1898), i cui romanzi sono stati ripubblicati di recente<br />

nella collana Sources of Science Fiction. Future War Novels of the 1890s, a cura di G.<br />

Locke. Non mancarono in Inghilterra le parodie, <strong>da</strong> parte di scrittori legati al Punch<br />

come A. A. Milne e P. G. Wodehouse. E su un piano più apertamente apocalittico e<br />

fantascientifico si mossero nientemeno che Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock<br />

Holmes, e H. G. Wells, il primo con il racconto The Poison Belt, pubblicato nel<br />

1913, anticipatore dei disastri <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra chimica, il secondo con un romanzo straordinariamente<br />

profetico, basato sugli sviluppi <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra aerea, che sembra anticipare<br />

più che gli sviluppi <strong><strong>del</strong>la</strong> prima guerra mondiale, quelli <strong><strong>del</strong>la</strong> secon<strong>da</strong> e <strong>del</strong>le guerre<br />

successive, sino all’attacco <strong>del</strong>l’11 settembre alle torri gemelle. Si può sorridere <strong>del</strong><br />

fatto che Wells, in The War in the Air (1907), abbia pensato che i protagonisti <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

futura guerra aerea sarebbero stati i dirigibili, anziché gli aeroplani, e che la guerra<br />

aerea avrebbe risolto ogni futuro conflitto (Vietnam e Iraq sembrerebbe smentire que-


sta previsione). E però alcune <strong>del</strong>le rappresentazioni di Wells hanno una straordinaria<br />

potenza e la sua descrizione <strong>del</strong> caos prodotto <strong>da</strong>ll’attacco aereo nella città di New<br />

York (capitolo VI) fa venire i brividi alla schiena e fa pensare, oltre che ai romanzi e<br />

ai film apocalittici prodotti dopo la secon<strong>da</strong> guerra mondiale, agli avvenimenti reali a<br />

cui abbiamo assistito.<br />

Ma lasciatemi cambiare argomento e prendere in esame un libro bello e importante<br />

di Alberto Casadei intitolato Romanzi di Finisterre [2000]. In questo libro l’autore<br />

analizza il modo in cui alcuni grandi scrittori hanno trattato il tema <strong><strong>del</strong>la</strong> secon<strong>da</strong><br />

guerra mondiale in una serie di importanti romanzi: Thomas Mann nel Doctor Faustus<br />

[1947], Beppe Fenoglio nel Partigiano Johnny [1968, postumo], Günther Grass nel<br />

Tamburo di latta [1959], Ibuse Masuji ne La pioggia nera [1965]), Claude Simon nella<br />

Battaglia di Farsalo [1969], Thomas Pynchon ne L’arcobaleno <strong><strong>del</strong>la</strong> gravità [1973] e<br />

David Grossman in Vedi alla voce amore [1986]. A questi fanno corona molti altri testi<br />

nei quali viene trattata l’esperienza <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Su questi testi Casadei si sofferma<br />

meno distesamente, e tuttavia la descrizione critica che ne dà, è acuta e fulminante.<br />

Due sono le tesi di fondo di Casadei: 1) che la secon<strong>da</strong> guerra mondiale sia stata un<br />

avvenimento sconvolgente, a cui si deve un cambiamento radicale nei modi di vita e in<br />

quelli <strong><strong>del</strong>la</strong> rappresentazione letteraria <strong>del</strong> Novecento; 2) che essa abbia provocato una<br />

netta spaccatura nel sistema culturale e <strong>letterario</strong>, costringendo gli scrittori a trovare<br />

forme nuove per rappresentare una realtà nuova (lui parla, alludendo a Erich Auerbach<br />

[1946], di un nuovo «realismo»).<br />

Recensendo il libro sulla rivista “Novecento” <strong>del</strong>l’Istituto storico di Modena ho<br />

già detto [Ceserani 2000] tutto il bene possibile di questo libro e in particolare <strong>del</strong>le<br />

ottime analisi critiche che Casadei offre ai lettori dei suoi romanzi. Sono rimaste in<br />

me alcune perplessità, che si sono anche accresciute dopo che abbiamo assistito a tutta<br />

una serie di nuove guerre, <strong>da</strong> quella <strong>del</strong> Golfo, a quelle dei paesi balcanici, a quella<br />

<strong>del</strong>l’Afganistan a quella, che mi sembra si possa definire tranquillamente, guerra, fra<br />

Israeliani e Palestinesi, a quella <strong>del</strong>l’Irak. Permettemi di ripetere quanto ho scritto nel<br />

2000 recensendo il libro di Casadei, aggiungendo qua e là alcune note di commento.<br />

Come sempre avviene nei lavori di critica tematica, due fattori molto importanti<br />

per la buona riuscita <strong>del</strong>l’impresa sono la scelta <strong>del</strong> tema e quella <strong><strong>del</strong>la</strong> campionatura.<br />

Nel modo in cui Casadei ha orientato le sue scelte rispetto a questi due fattori risiedono<br />

secondo me i motivi di fondo sia degli eccellenti risultati <strong>da</strong> lui raggiunti sia,<br />

probabilmente, di alcune perplessità che nutro su alcune <strong>del</strong>le impostazioni e alcuni<br />

dei risultati <strong>del</strong> suo lavoro. Certo, la scelta <strong>del</strong> tema <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, in particolare di quel<br />

grande avvenimento veramente mondiale o globale che fu la secon<strong>da</strong> guerra mondiale<br />

(assai più mondiale e globale, in verità, di quanto fosse stata la prima grande guerra)<br />

gli ha consentito di allineare una serie di testi di grande spessore e qualità, con una<br />

selezione molto sicura anche nella campionatura, condotta con ottimo fiuto su un materiale<br />

narrativo amplissimo (anch’esso, a ben considerare, “mondiale”). Devo anzi<br />

aggiungere che la selezione, sia dei testi principali sia di quelli, assai numerosi, di<br />

contorno, mi sembra nel complesso molto convincente, con una sola vera eccezione: io<br />

avrei promosso Il re degli ontani [1970] di Michel Tournier a protagonista di un intero<br />

capitolo; lo sento centrale e imprescindibile in un panorama di questo tipo. E però sono<br />

anche portato a pensare che si debba proprio alla scelta <strong>del</strong> tema e <strong><strong>del</strong>la</strong> campionatura,<br />

pur in sé abbastanza felici e perseguiti con grande coraggio, l’origine dei dubbi sia di<br />

carattere teorico sia di carattere storiografico che continuo a nutrire, pur dopo avere<br />

93


PIETRO CATALDI<br />

Università per Stranieri di Siena<br />

La «patria tradita».<br />

Un filmato di Toscanini <strong>del</strong> 1943<br />

<strong>Milano</strong>, la guerra, Toscanini. Non dovrebbe essere necessario spiegare, proprio in<br />

questa città, le ragioni che stanno alla base di questo trinomio. Ma poiché nessuna<br />

memoria storica sembra ormai al sicuro, varrà la pena di ricor<strong>da</strong>re che allorché il Gran<br />

Consiglio <strong>del</strong> Fascismo depose Mussolini, la notte <strong>del</strong> 25 luglio 1943, alla mattina la<br />

Scala apparve ricoperta di numerosi manifesti inneggianti a Toscanini e al suo ritorno<br />

(foto 1). E lo stesso fenomeno si ripeté poche settimane più tardi, subito dopo il bombar<strong>da</strong>mento<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> notte <strong>del</strong> 15 agosto, su un teatro duramente ferito <strong>da</strong>lla distruzione<br />

(foto 2). Pare fra l’altro che la trovata costasse un pestaggio al responsabile <strong>del</strong>l’iniziativa.<br />

Che cosa intendeva segnalare questo gesto spericolato? Quale simbolo a tutti<br />

chiaro evocava? E che valore aveva la dedica che uno dei maggiori milanesi <strong>del</strong> secolo,<br />

Delio Tessa, aveva posto al suo capolavoro, La poesia <strong><strong>del</strong>la</strong> Olga, pubblicato nel 1924<br />

con l’epigrafe: «Al maestro Arturo Toscanini, devotamente»? Non sono sicuro che,<br />

all’altro capo cronologico <strong><strong>del</strong>la</strong> dittatura rispetto ai manifesti scaligeri, Tessa intendesse<br />

rivolgere la sua devozione solo al musicista, che <strong>da</strong> qualche anno aveva permesso<br />

alla Scala di riaprire, dopo la parentesi postbellica, rapi<strong>da</strong>mente trascinandola al più<br />

alto livello artistico. In quella devozione, piuttosto, si agita un segnale etico, e perfino<br />

politico; teso a riconoscere, come faranno negli anni successivi tanti altri intellettuali<br />

europei e americani, <strong>da</strong> Paul Valéry ad Albert Einstein, il valore di Toscanini quale<br />

«uomo-faro», secondo la bella definizione di Stefan Zweig.<br />

Se la Scala è il luogo forse più intensamente simbolico di <strong>Milano</strong>, Toscanini è stato<br />

senza dubbio l’uomo-simbolo <strong><strong>del</strong>la</strong> Scala, che egli avrebbe reinaugurato il 26 maggio<br />

1946, dopo aver contribuito personalmente con ingente somma ai lavori di ricostruzione<br />

(foto 3). Il legame fra Toscanini e la città era d’altra parte antichissimo, avendo egli<br />

suonato alla Scala quale secondo violoncello alla prima <strong>del</strong>l’Otello (1887), direttore lo<br />

stesso Verdi, lavorandovi poi quale direttore per varie stagioni (nel 1896, <strong>da</strong>l 1898 al<br />

1903, <strong>da</strong>l 1906 al 1908) e ricevendo fra l’altro l’incarico prestigiosissimo, a soli trentaquattro<br />

anni, di dirigere Va’ pensiero per i funerali di Verdi nel 1901 (foto 4). Nel<br />

foyer <strong><strong>del</strong>la</strong> Scala sarebbe stato esposto il feretro <strong>del</strong> Maestro dopo la sua morte, nel<br />

1957, in vista <strong>del</strong> seppellimento nel cimitero cittadino (foto 5).<br />

Il legame fra Toscanini e la Scala, e dunque fra Toscanini e <strong>Milano</strong>, si fon<strong>da</strong> su due<br />

ordini di ragioni: artistiche, <strong>da</strong> una parte, e anzi, per meglio dire, artistico-organizza-<br />

101


102<br />

Foto. 1<br />

Foto. 2


Foto. 3<br />

tive; ed etico-politiche, <strong>da</strong>ll’altra. Infatti a Toscanini si deve la promozione <strong>del</strong> teatro<br />

milanese al vertice <strong><strong>del</strong>la</strong> qualità mondiale in campo lirico, allorché nel periodo 1920-<br />

1929 egli vi diresse un numero impressionante di messe in scena, portando a compimento<br />

la propria rivoluzionaria concezione <strong><strong>del</strong>la</strong> organizzazione teatrale e musicale.<br />

Decisiva era, certo, la qualità proverbiale <strong>del</strong>l’interprete, cui si devono per esempio<br />

il rilancio <strong><strong>del</strong>la</strong> fortuna verdiana, la diffusione di moltissimi capolavori wagneriani<br />

in Italia, il sostegno a molti moderni come Debussy, Ravel e Stravinskij, nonché ai<br />

musicisti <strong><strong>del</strong>la</strong> giovane scuola italiana (Puccini in primis); ma un ruolo significativo<br />

giocava anche la valorizzazione <strong><strong>del</strong>la</strong> professionalità in tutti i suoi aspetti, con una capacità<br />

di ottenere <strong>da</strong> ciascuno il massimo che non poteva certo trovare habitat migliore<br />

<strong>del</strong>l’efficienza meneghina. Dal punto di vista organizzativo, sarebbe <strong>da</strong>vvero lungo e<br />

complesso ricostruire le modificazioni operate <strong>da</strong> Toscanini. Ma si pensi almeno che<br />

fino alla sua gestione i quattro ordini di palchi erano di proprietà dei palchettisti, che<br />

durante le rappresentazioni capitava di cenare nei retropalchi, e che insomma il teatro<br />

era considerato uno svago e soprattutto un luogo di ritrovo. Ma non meno importanti<br />

103


GIULIANA NUVOLI<br />

Università Statale di <strong>Milano</strong><br />

La guerra dei poveri<br />

Per lungo tempo la guerra l’hanno raccontata i vincitori, e qualche volta in prima<br />

persona: «Gallia est omnis divisa in partes tres», recita uno dei più celebri inizi di res<br />

gestae. Siamo di fronte, in questi casi, a racconti incompleti, parziali e quindi falsi.<br />

Falsi, in particolare perché tendono, di norma a obiettivi celebrativi o di giustificazione<br />

postuma; lo sguardo è a una direzione e la prospettiva ridotta.<br />

Ogni tanto giungeva una voce diversa: quella di chi la guerra la subiva. Voce dissonante<br />

e flebile e, comunque, di secon<strong>da</strong> mano. Era il letterato a farsi interprete di storie<br />

che appartenevano al popolo, agli sconfitti o, comunque, a chi il potere non l’aveva.<br />

Poi, con la crescente alfabetizzazione, le cose sono cambiate: e le testimonianze scritte<br />

di prima mano hanno iniziato a restare, e a costituire una forma nuova di raccontare<br />

la guerra.<br />

Così, accanto ai generi istituzionali <strong>del</strong> romanzo, <strong><strong>del</strong>la</strong> novella, <strong>del</strong> resoconto storico<br />

d’autore, sono <strong>da</strong> collocare altri generi: i diari; le raccolte di lettere di sol<strong>da</strong>ti, deportati,<br />

prigionieri; le raccolte di documenti di varia natura; i pamphlets; i libelli; le canzoni;<br />

gli articoli di giornale; i resoconti dei corrispondenti di guerra; le trascrizioni dei<br />

dibattiti e <strong>del</strong>le tavole rotonde; le interviste.<br />

Nel vario panorama di questi testi ci soffermeremo proprio su queste ultime, e vedremo<br />

come la storia che esse narrano sia di natura profon<strong>da</strong>mente diversa <strong>da</strong>l racconto<br />

sia <strong>del</strong> “potere” sia <strong>del</strong> “letterato”.<br />

Le interviste assumono un’importanza particolare per la varietà degli attori che ne<br />

sono i protagonisti, sia per gli esiti cui pervengono:<br />

1. Ci sono interviste d’autore fatte <strong>da</strong> scrittori a personaggi colti (non di rado scrittori<br />

essi stessi) che intervengono, prima <strong><strong>del</strong>la</strong> pubblicazione, sul testo medesimo. In<br />

queste, di norma, il contributo <strong>del</strong>l’intervistato e <strong>del</strong>l’intervistato è alla pari: la lettura<br />

e l’interpretazione degli eventi soggiace alle stesse leggi e si regola su meccanismi<br />

simili.<br />

2. Vi sono interviste d’autore fatte <strong>da</strong> scrittori a gente comune, nelle quali il peso<br />

<strong>del</strong> primo è dominante, e dove la testimonianza <strong>del</strong>l’intervistato può essere indirizzata<br />

verso l’obiettivo che l’intervistatore si prefigge. In casi non infrequenti il materiale raccolto<br />

è selezionato e manipolato artatamente, e la sua fisionomia ultima può risultare<br />

111


112<br />

molto distante <strong>da</strong>l racconto <strong>del</strong>l’intervistato.<br />

3. Vi sono, infine, le interviste artigianali, quelle fatte nell’ambito, per esempio, di<br />

iniziative scolastiche o di associazioni che non si avvalgano di professionisti.<br />

Nessuno di questi testi garantisce, di per sé, la veridicità degli eventi narrati, almeno<br />

se facciamo riferimento al testo nel suo complesso. La verità, piuttosto, è <strong>da</strong> cogliere<br />

nel <strong>da</strong>to frammentario, nella frase non calcolata, nella giustapposizione di elementi<br />

eterogenei e talvolta discor<strong>da</strong>nti. L’intervistato non ha, di norma, il tempo di organizzare<br />

il suo racconto seguendo un disegno precostituito: il frammento di memoria<br />

richiamato <strong>da</strong>lla doman<strong>da</strong> si muta, di solito, in enunciato veridico; anche nel caso di<br />

frammento d’autore, come nel caso <strong>del</strong> gioco <strong><strong>del</strong>la</strong> maschera antigas, come lo ricor<strong>da</strong><br />

Italo Calvino:<br />

Queste sono per noi! – Subito cercammo di calzarcele in capo. Respirare era<br />

difficile, l’interno <strong>del</strong>le maschere aveva uno sgradevole odore di caucciù e di<br />

magazzino, così, con le teste trasformate in quelle di enormi formiche viste<br />

al microscopio, ci esprimevamo in muggiti inarticolati e giravamo semiciechi<br />

per gli androni <strong><strong>del</strong>la</strong> scuola 1<br />

Memoria di ragazzino, come quelle di cui, in gran parte ci serviremo. Abbiamo preso,<br />

come campione, interviste fatte a individui che, al tempo degli eventi bellici erano<br />

bambini o adolescenti: perché fra i tanti poveri, i più poveri sono loro; loro sono i più<br />

indifesi, e la loro memoria è la meno contaminata.<br />

La “guerra dei poveri”, <strong>da</strong> sempre, è la guerra di coloro che non decidono, che la<br />

guerra la subiscono: in particolare le donne e i ragazzini; è la guerra <strong><strong>del</strong>la</strong> gente comune<br />

che viene trascinata obtorto collo; imbonita, di plagiata, malpersuasa ma che,<br />

come vedremo, si rivela resistente, forte e luci<strong>da</strong>. 2<br />

Il regime fascista, come ogni regime, aveva educato al mito <strong><strong>del</strong>la</strong> morte per la patria<br />

e <strong><strong>del</strong>la</strong> morte giovane: Omero ne aveva compreso il fascino creando il personaggio di<br />

Achille. La morte <strong>del</strong> combattente poteva apparire morte bella perché era una morte<br />

giovane, dissociata <strong>da</strong>lla decrepitezza <strong><strong>del</strong>la</strong> vecchiaia e associata alla forza, alla virilità,<br />

alla buona salute, appunto alla bellezza <strong><strong>del</strong>la</strong> gioventù. Scrive Antonio Gibelli:<br />

Si tratta di un mito etico ed estetico che subì, nei fatti, uno scacco spaventoso<br />

proprio nel corso <strong><strong>del</strong>la</strong> Grande Guerra, quando morire giovani divenne una<br />

regola e la morte prese forme massificate e oscene, anche se non mancò il tentativo<br />

di rilanciarlo proprio per fronteggiare le conseguenze destabilizzanti<br />

<strong>del</strong> disastro. 3<br />

In termini di storia <strong><strong>del</strong>la</strong> cultura e di elaborazione <strong>del</strong> lutto, di immaginario e di<br />

1. I. Calvino, Le notti <strong>del</strong>l’UNPA, in L’entrata in guerra, <strong>Milano</strong>, Mon<strong>da</strong>tori, 1994, p. 63.<br />

2. Materiali interessanti in M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi<br />

(1848-1945), Bologna., Il Mulino, 2005.<br />

3. A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione <strong>da</strong>lla Grande Guerra a Salò, Torino,<br />

Einaudi, 2005, p.175


«peso dei morti sui vivi» 4 , tutto ciò era destinato a lasciare un’eredità non trascurabile.<br />

Di fronte a questa nuova strage degli innocenti, il poeta inglese Owen fa ricorso al<br />

tema biblico <strong>del</strong> sacrificio di Abramo, qui portato alle sue estreme conclusioni, benché<br />

lo stesso angelo gli suggerisca una via d’uscita: «Ma il vecchio non volle saperne e<br />

trucidò il figlio / e metà <strong>del</strong> seme d’Europa, uno per uno» 5 .<br />

Nell’Europa <strong>del</strong> 1914-1918, dio non ferma la macellazione rituale e i “vecchi” uccidono<br />

i “giovani” in massa. Nelle pagine <strong>del</strong>lo storico britannico John Keegan, uno<br />

dei primi a guar<strong>da</strong>re <strong>da</strong>l di dentro le battaglie e le carneficine <strong>del</strong> 1916, la visione dei<br />

giovani combattenti pronti a entrare in azione, vittime sacrificali in fila per il macello<br />

sul fronte <strong>del</strong>le Somme nell’estate <strong>del</strong> 1916, richiama alla mente le schiere <strong>del</strong>le vittime<br />

<strong>del</strong>lo sterminio nazista:<br />

Le lunghe, docili file di giovani infagottati nelle divise, gravati di far<strong>del</strong>li,<br />

con un numero al collo, che avanzavano in un paesaggio sconvolto verso lo<br />

sterminio che li attendeva fra i reticolati 6 .<br />

In quel conflitto si definiscono così le due facce <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra: «quella sacrale dei<br />

propositi (almeno per quanto riguar<strong>da</strong> i volontari), quella oscena degli esiti, che assume<br />

un valore di precedente fatale per la storia europea.» 7 : e niente è più osceno <strong>del</strong>lo<br />

spreco di giovani agnelli sacrificali.<br />

Ma veniamo alle interviste, tra cui abbiamo selezionato alcune di quelle relative<br />

alla guerra a <strong>Milano</strong>; tra queste prenderemo come campione due testi assolutamente<br />

lontani fra loro. Il primo è un’intervista d’autore, quella di Daniela Padoan, Come una<br />

rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz 8 , fatta a tre<br />

donne Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi che molto hanno scritto e detto<br />

(anche nelle scuole) sulla loro esperienza e sull’olocausto.<br />

Perché ho scelto la testimonianza di tre donne? Perché esse sono “poveri”<br />

più dei loro compagni di sventura di sesso maschile; perché sono state più<br />

violate e meno ascoltate. C’è un passaggio molto interessante, in un articolo<br />

di Elena Loewenthal 9 : «Forgiata <strong>da</strong> un’alchimìa lessicale che invoca la decifrazione,<br />

Zhakor, la parola ebraica che si usa per dire ‘memoria’, giunge <strong>da</strong>lla<br />

stessa radice che significa ‘uomo’ nel senso di ‘maschio’. [Invece] a indicare<br />

4. L’espressione è di S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, Retrouver la guerre, Paris, Gallimard,<br />

2000, p. 7: “Ciò che è la materia stessa <strong><strong>del</strong>la</strong> Storia: il peso dei morti sui vivi”. Cfr. anche: S.<br />

Audoin-Rouzeau, La guerre des enfants 1914-1918, Paris, Colin, 1994.<br />

5. W. Owen, La parabola <strong>del</strong> vecchio e <strong>del</strong> giovane, in Poesie di guerra, a cura di S. Rufini,<br />

Torino, Einaudi, 1985.<br />

6. J. Keegan, The face of battle, 1976 [Trad. it. Il volto <strong><strong>del</strong>la</strong> battaglia, <strong>Milano</strong>, Mon<strong>da</strong>dori,<br />

1978, p. 275].<br />

7. Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione <strong>da</strong>lla Grande Guerra a Salò, Torino,<br />

Einaudi, 2005, pp. 175-76. Cfr. G. L. Mosse, le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei<br />

caduti, Roma-Bari, La<strong>terza</strong>, 1990.<br />

8. D. Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz,<br />

presentazione di Furio Colombo, <strong>Milano</strong>, Bompiani, 2004.<br />

9. E. Loewenthal, La forza <strong><strong>del</strong>la</strong> memoria, “La Stampa”, 25 gennaio 2002.<br />

113


Dopo lo studio di Claudio Pavone sulla “moralità <strong><strong>del</strong>la</strong> Resistenza” <strong>del</strong> 1991 e i molti<br />

contributi di altri, precedenti o successivi a questa <strong>da</strong>ta, non sono più misteriosi i motivi<br />

e le mo<strong>da</strong>lità <strong>del</strong> passaggio dei più giovani alla Resistenza. Non sono state invece<br />

studiate le reazioni di uomini nati ancora nell’Ottocento o ai primi <strong>del</strong> Novecento al<br />

passaggio <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Gli unici contributi che esistono al riguardo direi che sono due<br />

miei brevi saggi sepolti in una rivista e negli atti di un <strong>convegno</strong> e pressoché ignoti.<br />

In questa sede riprendo alcune di quelle osservazioni ampliandole e vi aggiungo <strong>del</strong>le<br />

considerazioni tratte <strong>da</strong>lla vicen<strong>da</strong> di alcuni pittori.<br />

Le fonti cui attingere per documentare il tema <strong>del</strong>le reazioni al passaggio <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

guerra e alle sue devastazioni sono gli epistolari e i diari. Per quanto riguar<strong>da</strong> i pittori<br />

ovviamente la produzione artistica e, quando vi sono, gli scritti di vario genere.<br />

Ottone Rosai<br />

GIOVANNI FALASCHI<br />

Università di Perugia<br />

Altro effetto <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra:<br />

la crisi interiore<br />

Ottone Rosai (Firenze 1885) muore a Ivrea, dove si trovava occasionalmente, nel<br />

1957. Ma fiorentino <strong>del</strong> tutto, anzi diciamo il rappresentante più autentico, in pittura,<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> fiorentinità <strong>del</strong> Novecento se questa esistesse.<br />

Il padre suici<strong>da</strong> nel 1922, mobiliere indebitato, lascia la famiglia nella più orren<strong>da</strong><br />

miseria. Povero per molti anni, Ottone non fa studi regolari perché espulso un paio di<br />

volte <strong>da</strong>lle scuole; l’unica cultura scolastica, ma molto importante per lui, gli viene<br />

<strong>da</strong>ll’aver frequentato l’Accademia.<br />

Personaggio difficile, aggressivo e manesco, a volte invece dolcissimo e indifeso<br />

come un bambino. Fiorentino becero e popolano d’Oltrarno, sostanzialmente dialettofono.<br />

E’ violentemente antiborghese, antiaccademico, ribelle per costituzione. E’<br />

fascista, direi anche squadrista, ma fu un fascista difficile che creò grane anche alle<br />

varie istanze <strong>del</strong> regime. Considerato anche poco raccoman<strong>da</strong>bile, perché giocatore<br />

(credo che questo fosse soprattutto un vizio di gioventù) e omosessuale, quindi traviatore<br />

di giovani. Mussolini ne detestava il ribellismo anarcoide. Era detestato anche<br />

<strong>da</strong>i critici più raffinati, (Longhi, Pallucchini, e si parva licet Ojetti), amato invece<br />

<strong>da</strong>gli intellettuali più giovani (Vittorini, Pratolini, Bilenchi), e <strong>da</strong> alcuni grandi pittori<br />

121


122<br />

(Morandi, Sironi, Carrà, quest’ultimo però dovette sopportare i suoi improvvisi sbalzi<br />

d’umore e la sua aggressività. Come anche capitò al suo protettore <strong><strong>del</strong>la</strong> prima ora,<br />

Soffici, e a Edoardo Persico, fon<strong>da</strong>tore <strong><strong>del</strong>la</strong> Galleria d’Arte “Il Milione”, la più importante<br />

galleria milanese dopo il 1930. Così come anche capitò con Papini). Ha rapporti<br />

difficili, fatti di alti e bassi, con Montale, che certamente snobbava questo fiorentino<br />

incolto e popolano “maleducato”.<br />

Violento contestatore <strong><strong>del</strong>la</strong> chiesa romana e <strong>del</strong> papato, sostanzialmente perché istituzioni,<br />

ha una sua religiosità naturalistica <strong>da</strong> primitivo. E’ cristiano, riducendosi per<br />

lui il Cristo al Cristo Patiens, al sofferente che si carica dei dolori <strong>del</strong> mondo. Concepisce<br />

l’arte come una missione cui l’artista si dedica mettendo al centro l’umanità intera<br />

sofferente e desiderosa di riscatto.<br />

Gli amici, <strong>da</strong>ta la sua indigenza, caldeggiano per lui l’ottenimento di riconoscimenti<br />

ufficiali: nel 1939 Bottai lo nomina professore di Figura Disegnata al R. Liceo artistico;<br />

nel 1942 ha la cattedra di pittura all’Accademia. Ora non ha più l’assillo <strong>del</strong>le<br />

preoccupazioni economiche che aveva contraddistinto la sua esistenza fino ad allora,<br />

ma vive ugualmente un periodo di incertezza e insicurezza per motivi ovviamente<br />

politici. L’8 settembre 43, mentre passeggia di notte, com’era sua antica abitudine, con<br />

alcuni amici, fra cui lo scrittore Piero Santi, viene avvicinato <strong>da</strong> un gruppo di giovani<br />

antifascisti, che ne conoscevano le imprese, e malmenato. Per questo motivo la notte<br />

abbandona lo studio di Via S.Leonardo, dove era an<strong>da</strong>to ad abitare nel 1933 e che era<br />

isolato, e va a nella casa <strong><strong>del</strong>la</strong> moglie in via dei Benci, pressoché nel centro <strong><strong>del</strong>la</strong> città.<br />

Nel 1944, ritenendo, come fascista noto in città, che la sua casa non sia sorvegliata, dà<br />

ospitalità al giovane pittore partigiano Enzo Faraoni, rimasto ferito in un attentato <strong>da</strong><br />

lui preparato con altri. In seguito ospiterà addirittura Bruno Fanciullacci, anch’egli ferito<br />

e ricercato <strong>da</strong>i fascisti come gappista pericolosissimo (era uno <strong>del</strong> commando che<br />

aveva ucciso Giovanni Gentile). Nell’agosto 1944, liberata Firenze, ne viene richiesta<br />

l’epurazione <strong>da</strong>ll’insegnamento. Episodio poco simpatico, non tanto in sé quanto perché<br />

i richiedenti erano altri pittori, il più noto dei quali Arrigoni. La richiesta riguar<strong>da</strong>va<br />

anche Colacicchi e Capocchini fra gli altri.<br />

I critici hanno già rilevato la crisi che Rosai attraversa a cominciare <strong>da</strong>l 1939 e che<br />

successivamente si aggrava, salvo la cosiddetta fase di Chiesanuova, corrispondente<br />

a un periodo di villeggiatura in cui il pittore trova un po’ di requie nel 1942. Nel 1941<br />

dipinge poco, quindi nella sua pittura si registra uno scombussolamento, evidente in<br />

questi <strong>da</strong>ti:<br />

1. la scelta di dipingere autoritratti, che egli non abbandonerà fino alla morte, dipingendone<br />

circa una ventina solo tra il 1942 e il 1944 (Pier Carlo Santini), mentre<br />

<strong>del</strong>l’intera sua attività precedente ne conosco soltanto due: l’autoritratto in figura di<br />

teppista, acquerello su carta molto noto e riprodotto, di <strong>da</strong>ta incerta ma comunque fra<br />

il 1911 e il 1912, e un autoritratto a olio <strong>del</strong> 1933. Questi <strong>del</strong> periodo di guerra sono<br />

contraddistinti <strong>da</strong> immagini violente, che nulla hanno <strong>da</strong> invidiare ai dipinti dei grandi<br />

espressionisti tedeschi, per quanto vi si possa captare la lezione degli autoritratti di<br />

Van Gogh: qui fronti aggrottate (è talora ricor<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>i contemporanei la ruga profon<strong>da</strong><br />

che tagliava verticalmente la fronte <strong>del</strong> pittore, così come appare <strong>da</strong>lle descrizioni di<br />

lui e <strong>da</strong>lle fotografie), zigomi molto rilevati, rughe, pieghe ai lati <strong><strong>del</strong>la</strong> bocca o sulle<br />

guance come squarci, linee fortemente deformanti, colori violenti e molto accesi e<br />

contrasti molto forti. In una storia ideale <strong>del</strong> ritratto Rosai dovrebbe essere collocato


in una linea che va <strong>da</strong> Van Gogh a Ligabue. E’ un’esperienza questa in cui Rosai raggiunge<br />

l’apice <strong>del</strong>l’espressività con autentici capolavori, alcuni dei quali senz’altro <strong>del</strong><br />

1947. Il suo interesse per i volti appare rivolto anche a quelli degli amici più cari o dei<br />

personaggi più insigni, come documentano i noti “tondini”, piccoli olii su tela, molti<br />

dei quali proprio <strong>del</strong> 1939-43.<br />

2. Parallelamente, proprio negli anni 1943-44, dipinge tele di soggetto religioso. Si<br />

sa che frequenta la chiesa di S. Procolo dove La Pira fa celebrare la Messa dei poveri,<br />

per altro fatta istituire <strong>da</strong> lui stesso: un disegno <strong>del</strong> 1945 (L.Cavallo, n.126) è proprio<br />

intitolato così. I soggetti preferiti sono le crocifissioni due <strong>del</strong>le quali risalgono al 1943,<br />

una è fortemente dominata <strong>da</strong>lla gamma cromatica <strong>del</strong> rosso, che si estende <strong>da</strong> quello<br />

acceso <strong>del</strong> manto di San Giovanni a diversa gra<strong>da</strong>zione più tenue <strong>del</strong> corpo di Cristo,<br />

fino al giallo. Si può pensare a un rapporto simpatetico, per la disposizione <strong>del</strong>le figure,<br />

con la crocifissione di Masaccio. E’ <strong>del</strong>lo stesso anno la tela, abbastanza grande (140 x<br />

190) Operaio in croce, in cui predomina un colore rosa cupo tendente al violaceo che<br />

si estende <strong>da</strong>lla figura <strong>del</strong> crocifisso allo sfondo di fabbriche e ciminiere. Ebbene, la<br />

testa <strong>del</strong>l’uomo è molto somigliante a quella devastata <strong>da</strong>l dolore e <strong>da</strong>llo smarrimento<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> serie degli autoritratti, come se al pittore fosse indifferente la varietà dei volti<br />

umani perché tutto riconducibili a un Volto solo, quello assoluto <strong>del</strong>l’uomo-Dio. Rosai<br />

sembra aver toccato la radice <strong>del</strong> suo cristianesimo e <strong><strong>del</strong>la</strong> sua profon<strong>da</strong> convinzione<br />

di artista quale derelitto che fa dono di sé all’umanità. Da una foto <strong><strong>del</strong>la</strong> sua camera<br />

risulta che a capo <strong>del</strong> letto era appesa proprio una crocifissione evidentemente dipinta<br />

<strong>da</strong> lui. Il tema non viene esaurito con gli anni di guerra: nel 1950 c’è un’altra crocifissione<br />

a olio e il disegno di un Giovinetto crocifisso.<br />

Piero Calamandrei<br />

Fiorentino, classe 1889 (muore nel 1956). E’ stato uno dei più grandi giuristi italiani;<br />

titolare <strong><strong>del</strong>la</strong> cattedra di Diritto processuale in varie Università, <strong>da</strong>l 1925 continuativamente<br />

a Firenze. Nonostante abbia <strong>da</strong>to un contributo notevole all’elaborazione <strong>del</strong><br />

nuovo codice civile, riuscì a non compromettersi mai col fascismo. Anzi fu in stretto<br />

rapporto con Giovanni Amendola e col gruppo antifascista <strong>del</strong> “Non mollare” (quindi<br />

con Salvemini). Nel 1941 aderisce a “Giustizia e Libertà”, nel 1942 partecipa alla fon<strong>da</strong>zione<br />

<strong>del</strong> Partito d’Azione per il quale viene eletto alla Costituente, contribuendo<br />

alla elaborazione <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra carta costituzionale. Nel dopoguerra fon<strong>da</strong> la rivista politico-letteraria<br />

“Il Ponte” e si attiva, con scritti e conferenze, per la celebrazione <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

Resistenza e la divulgazione dei principi <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra costituzione.<br />

Alla sua morte fu presa in considerazione <strong>da</strong>lla famiglia e <strong>da</strong>gli amici l’idea di pubblicare<br />

il corpus intero <strong>del</strong>le sue opere politiche e letterarie, ma il figlio Franco giudicò<br />

inopportuna la pubblicazione <strong>del</strong> diario non volendo che fosse reso pubblico il suo<br />

rapporto conflittuale col padre negli anni di guerra e temendo che ne venisse diminuita<br />

la figura morale col pubblicare un diario pieno di barzellette e aneddoti sul regime,<br />

nel quale l’autore si dimostrava angosciato e impotente di fronte ai fatti catastrofici di<br />

quegli anni. Questi argomenti non furono i motivi veri <strong>del</strong> ritardo nella pubblicazione<br />

di questo lunghissimo testo, però ci illuminano bene sulla fisionomia edificante ed<br />

eroica con cui nel 1956 si riteneva, a sinistra, di dover consegnare alla storia le figure<br />

123


124<br />

di antifascisti. Il figlio però autorizzò più tardi la pubblicazione e vi premise uno scritto<br />

in cui ci offre sincera testimonianza <strong>del</strong>le sue passate perplessità. Dunque il Diario<br />

1939-1945 è stato edito in due grossi tomi solo nel 1982 (La Nuova Italia) a cura di<br />

Giorgio Agosti, che vi ha premesso un’eccellente introduzione.<br />

Il Diario è a suo modo tragico, come confermano anche le barzellette che continuamente<br />

vi si leggono: esse erano l’unico modo per aggredire il regime <strong>da</strong> parte di un<br />

uomo solo che si era con<strong>da</strong>nnato all’impotenza. L’autore è abbastanza lucido <strong>da</strong> vedere<br />

che la linea di resistenza cui la sua generazione era ridotta coincideva col proprio tavolo<br />

<strong>da</strong> lavoro, <strong>da</strong> cui non si potevano man<strong>da</strong>re proclami ma solo maledizioni. In <strong>da</strong>ta 4<br />

maggio 1939 annota: «scrivo tanto per protestare, tanto per far sapere a me stesso, rileggendomi<br />

quello che ho scritto, che c’è almeno uno che non vuol essere complice».<br />

Uno dei percorsi <strong>da</strong> seguire all’interno di questo lunghissimo diario è la caduta <strong>del</strong>le<br />

certezze di questo intellettuale che definiremmo “europeo”, l’Europa essendo per<br />

lui costituita <strong>da</strong>ll’Occidente escluse ovviamente Spagna Italia e Germania. In <strong>da</strong>ta 3<br />

settembre 1939 annota a proposito <strong><strong>del</strong>la</strong> Francia: «la mia patria di uomo europeo sta<br />

per gettarsi volontariamente nell’incendio, per difendere la libertà di tutti gli uomini<br />

civili», e il 4 ottobre: «Io amo la Francia con tenrezza: mi par che essa sia quello<br />

che di più prezioso ha saputo produrre la civiltà». Caduta la Francia e affermatasi la<br />

tendenza collaborazionista scrive il 7 luglio 1941 «Un anno fa si piangeva sulla sorte<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> Francia. Ma che n’è avvenuto <strong><strong>del</strong>la</strong> Francia? Chi ci pensa più? L’Inghilterra sta<br />

per espugnare Beirut: pare una cosa naturale: non si pensa più che a difenderla ci sono<br />

i francesi. Non son più francesi: sono diventati anche loro quella folla anonima dei<br />

nemici che non c’importa più di veder morire». Ma alla <strong>da</strong>ta <strong>del</strong> 28 agosto 1941 ha la<br />

notizia <strong>del</strong>l’attentato al collaborazionista francese Laval e scrive: «Paul Colette, giovane<br />

di 20 anni, ha tirato contro il traditore Laval: c’è ancora un francese di 20 anni<br />

capace di questo sacrificio. La Francia è ancora viva […]».<br />

Se questa è la situazione <strong><strong>del</strong>la</strong> Francia non restava che sperare nell’Inghilterra. Calamandrei<br />

ci informa di <strong>leggere</strong> poco i giornali, ovviamente per protesta contro la<br />

falsità <strong>del</strong>le informazioni, ma ascolta sempre Radio Londra pur non comprendendo<br />

nulla d’inglese. Nel febbraio 1941 ascolta un discorso di Churchill che non capisce ma<br />

annota: «naturalmente ero commosso». Ma l’Inghilterra sembra tergiversare, e questo<br />

egli lo imputa all’opportunismo affaristico che sembra aver sempre contraddistinto<br />

la sua politica. Registra allora le sconfitte dei tedeschi sul fronte russo, ma i sovietici<br />

sono per Calamandrei e i suoi amici un enigma; si teme che contrattino la pace con la<br />

Germania senza preoccuparsi <strong>del</strong> resto <strong>del</strong>l’Europa.<br />

Conseguente alla caduta <strong><strong>del</strong>la</strong> speranza di un’ Europa che tenga testa ai nazifascisti<br />

cade anche l’ideologia ottimistica <strong>del</strong>lo storicismo che era l’asse portante <strong>del</strong>l’ideologia<br />

di questo intellettuale liberaldemocratico. Il quale ancora il 7 gennaio 1941 annotava:<br />

«Si conferma così storicamente la mia sensazione che risale al 1922: che i fascisti<br />

sono stranieri, che la dominazione fascista è stata una dominazione straniera»; questo<br />

in pieno accordo ovviamente con l’interpretazione crociana. Ma nell’an<strong>da</strong>mento vittorioso<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> guerra nazifascista questa certezza viene meno. Alla <strong>da</strong>ta <strong>del</strong> 12 agosto<br />

1941 scrive:<br />

Anche questo <strong>del</strong>lo storicismo è uno dei modi con cui gli uomini cercano<br />

di nascondere questa continua illogicità <strong><strong>del</strong>la</strong> loro condotta, in cui il pensiero


e l’azione vanno ognuno per conto suo. Se si volesse essere coerenti colla<br />

nostra filosofa, l’idea <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra mortalità, ella brevità di questa nostra apparizione,<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> precarietà di tutto ci porterebbe coerentemente al suicidio o<br />

all’inerzia fatalistica: tutto è uguale, nulla conta. E invece tutti si continua a<br />

lavorare disperatamente, febbrilmente, come se tutto questo avesse uno scopo,<br />

obbedendo a un incosciente e irreprimibile impulso vitale. Si sa che nulla<br />

serve a nulla, eppure si lavora e si fatica per far qualcosa: questa escogitazione<br />

<strong>del</strong>lo storicismo è un modo per cercare di nascondere questa contraddizione.<br />

E cita Leopardi, come sospeso tra nichilismo e lavoro.<br />

Questo problema <strong><strong>del</strong>la</strong> crisi <strong>del</strong>lo storicismo è centrale per identificare l’insufficienza<br />

<strong>del</strong> metodo idealistico e dei suoi strumenti di spiegazione dei fenomeni storici. Non<br />

è una cosa <strong>da</strong> poco, se si pensa che all’incirca nello stesso periodo un grande intellettuale<br />

come Giaime Pintor, poco più che ventenne, man<strong>da</strong> in soffitta lo storicismo<br />

e apre all’esistenzialismo. La stessa cosa Cesare Luporini, nato nel 1909, e i migliori<br />

rappresentanti <strong>del</strong>l’intellighentsjia italiana, in particolare settentrionale (esistenzialisti,<br />

fenomenologi e marxisti). Allo storicismo era inevitabilmente connessa la visione<br />

laica <strong><strong>del</strong>la</strong> storia. E’ Luigi Russo che scopre le carte in una conversazione privata a<br />

tre, con Pietro Pancrazi. Il quale nella Pasqua 1941 si mette all’occhiello un ramoscello<br />

dorato di ulivo benedetto, e Russo:<br />

“Ecco Pancrazi che s’è già convertito al cattolicesimo”. “E tu, al posto di<br />

queste superstizioni che ci hai?” “La storia…” “E non capisci che se non c’è<br />

il mondo di là, una formicola e la storia valgono lo stesso? E il mio rametto<br />

d’ulivo e la tua libertà e tutte le opere di bene valgono lo stesso?”. Disse Russo:<br />

“Lasciatemi questa illusione”. E noi: “E tu lascia a chi l’ha l’illusione di<br />

queste superstizioni…”. (p.328).<br />

In questo passo, a parte il disarmante semplicismo con cui gli amici scambiano le<br />

loro idee, è rilevante che Calamandrei le registri come sintomi di una caduta <strong>del</strong>le loro<br />

illusioni. Calamandrei e Pancrazi cominciano evidentemente a prendere sul serio la<br />

religione come fonte di illusioni ora che la fede nella razionalità <strong><strong>del</strong>la</strong> storia si è rivelata<br />

un dogma inutile, e comunque altrettanto illusorio (altre pagine sull’argomento le<br />

228-34). E il giurista liberal-democratico si rende conto non solo <strong><strong>del</strong>la</strong> sconfitta <strong>del</strong>l’idealismo<br />

ma anche di quella che potremmo chiamare la sconfitta <strong>del</strong>l’illuminismo.<br />

Annota:<br />

Uno dei più gravi errori <strong>del</strong> liberalismo e <strong><strong>del</strong>la</strong> democrazia è questo: di credere<br />

che la diffusione <strong>del</strong>le idee di libertà, di giustizia morale e di dignità<br />

umana abbiano la virtù taumaturgica di creare uomini degni di essa; ed arriva<br />

a dichiarare felici i popoli i cui dittatori sono liberali e non autoritari.<br />

Trova continue conferme <strong><strong>del</strong>la</strong> degenerazione <strong><strong>del</strong>la</strong> letteratura e degli intellettuali<br />

alla mo<strong>da</strong>, che lui chiama indistintamente gli ermetici, e fra cui annovera il figlio<br />

Franco. Scrive:<br />

125


126<br />

In realtà queste letterati, che paiono sentir la simpatia per gli uomini, sono<br />

degli egotisti incorreggibili, per i quali tutti gli altri uomini, genitori compresi,<br />

servono soltanto a popolar di figurine il teatrino dinanzi al quale essi<br />

stanno assisi in panciolle per fare il resoconto” (27 luglio 41)<br />

e poco sotto:<br />

essi dividono il mondo in due categorie: quelli che faticano per far nella<br />

vita la loro parte, e quelli (la classe eletta) che descrivono le fatiche degli altri<br />

stando in panciolle, e magari artisticamente si commuovono <strong><strong>del</strong>la</strong> loro bella<br />

resistenza.<br />

Se prova tenerezza è invece per i sol<strong>da</strong>ti che stanno partendo e che vede alla stazione.<br />

D’altra parte nessuna classe sociale sembra essere dotata di quei valori morali sui<br />

quali si potrebbe contare per un eventuale processo di rinnovamento: borghese di nascita<br />

e di condizione, Calamandrei riconosce nella sconfitta generale quella <strong><strong>del</strong>la</strong> propria<br />

classe, fatta di “milioni di servi, disposti a servire senza discernimento qualunque<br />

idea che sia imposta <strong>da</strong>l padrone. Parlo <strong><strong>del</strong>la</strong> borghesia più che <strong>del</strong> popolo” (I, p.238).<br />

Impressiona in questo diario il forte richiamo esercitato <strong>da</strong>lla religione fin <strong>da</strong>ll’inizio<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> guerra: precocemente il 25 gennaio 1940 immagina un redde rationem per il<br />

duce che, anche se lontano, sarà inevitabile:<br />

Ieri sera alle messa sentivo squillare la tromba <strong>del</strong> giudizio: Nihil inultum<br />

remanebit. Questo è il gran conforto <strong><strong>del</strong>la</strong> fede: la religione è una fede nella<br />

giustizia, più che una fede nella gioia e nella eternità personale. La religione<br />

cristiana finisce i secoli in un gran giudizio: per poter tollerare i dolori <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vita, non c’è altro che sperare che tutte le infamie vengano al termine e<br />

alla sentenza […] La giustizia <strong>del</strong> giorno finale non distinguerà i politici <strong>da</strong>i<br />

privati. Mussolini sarà un <strong>del</strong>inquente senza altre qualifiche. Dattela, MER-<br />

DONE.<br />

Soprattutto nei primissimi anni di guerra, quando il disorientamento è maggiore e<br />

il pessimismo è totale, il diario appare molto spesso come un coacervo di frammenti,<br />

annotazioni anche minute che informano su fatti di vita quotidiana, familiare e professionale,<br />

e soprattutto registrano pareri e comportamenti di amici e nemici. Erano,<br />

questi liberali tagliati fuori <strong>da</strong>lla vita politica, uomini che cercavano certezze e trovavano<br />

solo voci, le quali finivano per incrinare anche le loro più robuste certezze. In<br />

questa condizione deprimente le sue riflessioni sull’umanità sono spietate. Non solo la<br />

propria classe, ma tutti gli appaiono innegabilmente bestiali. Il 5 giugno 1941 annota:<br />

Siamo illusi, <strong>da</strong> lontano ci immaginiamo gli uomini sui quali fidiamo come<br />

forniti di quelle qualità che noi più stimiamo: intelligenti veritieri, disposti ad<br />

ogni sacrificio. Invece gli uomini sono, anche in Francia, anche in Inghilterra,<br />

anche in America, povere bestie che si muovono secondo l’interesse e che a<br />

un certo momento abbandonano la partita per stanchezza e tornaconto […]<br />

Anche sotto i tedeschi gli uomini continueranno a fare all’amore, a mangiare,


CTRL Z<br />

Università IULM <strong>Milano</strong><br />

Alla periferia di nessun centro<br />

Alla periferia di nessun centro, documentario realizzato <strong>da</strong>: Ctrl Z<br />

Formato: Mini Dv<br />

Durata <strong>del</strong>l’estratto: 26’ 51”<br />

L’idea di realizzare un documentario sulla città di <strong>Milano</strong> ci fu lanciata <strong>da</strong>l regista<br />

Marco Pozzi, che all’interno <strong>del</strong> Corso di Laurea in Televisione, Cinema e Produzione<br />

multimediale che noi frequentiamo presso l’Università Iulm, ci insegnava a muovere i<br />

primi passi nel mondo <strong>del</strong> cinema. Accogliemmo la proposta con entusiasmo: raccontare<br />

<strong>Milano</strong>, in fondo, non sembrava un’impresa così ardua. Sbagliato. Le prime riunioni,<br />

fatte di infiniti brainstorming e bellissime idee, ci fecero scontrare con la nostra<br />

naturale e giustificata inesperienza: imparammo che era necessario confrontarsi con<br />

i mezzi a disposizione e che, a volte, un’idea grandiosa può restare solo sulla carta se<br />

non si fanno dei calcoli con la realtà. I nostri mezzi erano soltanto <strong>del</strong>le telecamere digitali,<br />

nemmeno un soldo e nove teste molto creative ed entusiaste. Ma non ci scoraggiammo<br />

e , a poco a poco, le nostre idee iniziarono a prendere una forma. Raccontare<br />

una città complessa e sfaccettata come <strong>Milano</strong> attraverso un punto di vista che non<br />

fosse né scontato né banale, è sempre stata la nostra priorità: lo spirito più profondo di<br />

questa città è sfuggente, difficile <strong>da</strong> congelare in un’immagine o in una parola. <strong>Milano</strong><br />

cambia, muta, si trasforma, e lo fa in continuazione. Noi, con il nostro film, cerchiamo<br />

di seguirla: nessuno di noi lo ha mai deciso, nessuno ha scelto razionalmente di lavorare<br />

in questa maniera ma, quasi fosse una necessità, l’approccio a questo progetto è<br />

lentamente diventato una sorta di improvvisazione. Se sfogliando il giornale leggiamo<br />

che un sommergibile attraverserà la città o che nelle stazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> metropolitana verrà<br />

simulato un attacco terroristico, con un giro veloce di telefonate e e-mail, mettiamo in<br />

piedi una troupe che si precipiterà a filmare tutto. Può anche capitare che qualcosa rimanga<br />

inutilizzato: a volte creiamo e poi cancelliamo. Come quando si scrive qualcosa<br />

su un documento Word: se non ci piace più, basta schiacciare i tasti Ctrl Z.<br />

<strong>Milano</strong> che non si lascia raccontare, <strong>Milano</strong> che va inseguita, <strong>Milano</strong> che non ti<br />

permette di capire qual è il punto <strong>da</strong> colpire per tirare al bersaglio: in questo senso<br />

crediamo di trovarci alla periferia di nessun centro. Non sappiamo ancora dove ci<br />

troveremo alla fine di questo film. Lasceremo che le immagini, accostate le une alle<br />

135


136<br />

altre, dialoghino tra loro, raccontandoci una città che, forse, ci sembrerà di non aver<br />

mai conosciuto prima.<br />

Gli estratti <strong>del</strong> film presentati al <strong>convegno</strong> sono soltanto tre, una piccola ma interessante<br />

porzione <strong>del</strong>l’intero documentario. Abbiamo scelto di proiettare la sequenza dedicata<br />

alla zona <strong><strong>del</strong>la</strong> Bicocca, le interviste in Piazza Cadorna relative al monumento<br />

Ago, filo e nodo e l’intervista al poeta milanese Franco Loi.<br />

La Bicocca<br />

Prima degli anni ’80 il nome Bicocca era associato a quello di Pirelli, indicando<br />

quella zona alla periferia di <strong>Milano</strong> in cui avevano sede le fabbriche <strong><strong>del</strong>la</strong> nota azien<strong>da</strong><br />

milanese.<br />

Oggi la Bicocca è nota per ospitare il distaccamento <strong>del</strong>l’Università degli Studi di<br />

<strong>Milano</strong> e il Teatro degli Arcimboldi, costruito durante il periodo in cui La Scala era<br />

chiusa per restauro.<br />

Attorno al polo culturale costituito <strong>da</strong>l binomio Arcimboldi – Bicocca è seguito un<br />

consistente sviluppo edilizio. L’intero progetto, firmato <strong>da</strong>ll’architetto Gregotti, segue<br />

lo stile <strong>del</strong> razionalismo, segnato <strong>da</strong>lle architetture squadrate e <strong>da</strong>lle linee rette.<br />

La Bicocca è stato uno dei luoghi di <strong>Milano</strong> che più ci hanno interessato fin <strong>da</strong>ll’inizio<br />

<strong>del</strong> nostro progetto. L’idea che avevamo di questa zona era quella di un quartiere<br />

– fantasma, di giorno vivacizzato <strong>da</strong>lla presenza degli studenti universitari ma poi<br />

privo di una presenza umana costante. Un non luogo in cui l’insediamento umano non<br />

si sviluppa naturalmente, ma segue un progetto costruito razionalmente come le linee<br />

rette di Gregotti.<br />

La Bicocca per questa sua duplice vita diurna e notturna ci appariva inoltre come<br />

una metafora <strong>del</strong>l’intera città di <strong>Milano</strong>, riempita di giorno <strong>da</strong> migliaia di pendolari<br />

che non la abitano.<br />

Ci chiedevamo quindi come vivessero gli abitanti di un quartiere che non offre infrastrutture<br />

se non un’Università e un teatro (recentemente si è aggiunto un multisala). In<br />

realtà sembra che i milanesi non abbiano particolarmente a cuore l’estetica <strong><strong>del</strong>la</strong> zona<br />

(che potrebbe essere comparata a un’opera di De Chirico) e che apprezzino invece<br />

l’abbon<strong>da</strong>nza di spazio e la modernità <strong>del</strong>le costruzioni.<br />

Ago, filo e nodo<br />

Dal gennaio 2000 in Piazza Cadorna domina il monumento Ago, filo e nodo, creato<br />

<strong>da</strong>ll’artista svedese Oldenburg e posto al centro <strong>del</strong> piazzale <strong>da</strong>ll’architetto Gae Aulenti,<br />

che ne ha ripensato l’immagine.<br />

L’enorme scultura è composta <strong>da</strong> un ago d’acciaio, piantato nel terreno, alto 19 metri<br />

e <strong>da</strong> un filo in vetroresina armata lungo 86 metri. Il filo è infilato nell’ago, gli si avvolge<br />

attorno, e sbuca, come se passasse sotto l’asfalto, in un’enorme vasca d’acqua.<br />

L’ago è lo strumento che sottolinea il legame, spesso invisibile, tra la città e la sua<br />

produttività, il nodo rappresenta il punto di partenza di un processo produttivo il cui<br />

percorso è sottolineato, in concreto, <strong>da</strong>l filo. L’opera è insomma una grande metafora<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> produttività <strong><strong>del</strong>la</strong> città di <strong>Milano</strong>. Bene, noi tutto questo lo sappiamo. Ma i mi-


lanesi, cosa ne pensano? Conoscono il significato <strong><strong>del</strong>la</strong> scultura? E la apprezzano <strong>da</strong>l<br />

punto di vista estestico? Noi glielo abbiamo chiesto, e il risultato sono <strong>del</strong>le interviste<br />

surreali e divertenti. Ecco qualche risposta:<br />

1. Non ti saprei dire il significato di questa cosa… Io credo che sia l’ago, metaforicamente<br />

parlando, di quell’ago un po’ fastidioso che entra nei corpi nostri, no? in qualche<br />

maniera… i corpi di quelle persone che credono non sia possibile vivere in un’altra<br />

maniera… solo che qua subentra il paradosso perché mi sembra proprio fatto <strong>da</strong> quelle<br />

persone che credono che esista… che sia questa la vita giusta <strong>da</strong> vivere, no?… in<br />

qualche maniera…<br />

2. Quello vorrebbe essere la mo<strong>da</strong> che c’è a <strong>Milano</strong>, ago, cotone e non so… filo, ago…<br />

perché l’industria <strong><strong>del</strong>la</strong> mo<strong>da</strong>…però io la vedo inconsapevole…<br />

3. Il significato per loro sarebbe quello: che lo straniero che arriva <strong>da</strong> Malpensa deve<br />

considerare che l’ago col filo lega Malpensa a <strong>Milano</strong>… a me mi sembra una cosa difficile<br />

però che l’ago col filo così… che lo straniero che arriva vede e decide il legamento<br />

<strong>Milano</strong>-Malpensa…<br />

4. Perchè l’hanno comprato, non so, non mi ricordo <strong>da</strong> dove… un tale li aveva fatti e<br />

poi non era riuscito a venderli ed è venuto qui a <strong>Milano</strong>…<br />

137


138<br />

Franco Loi<br />

Franco Loi è nato a Genova nel 1930, ma vive a <strong>Milano</strong> fin <strong>da</strong> quando era bambino.<br />

Ha pubblicato una ventina di libri di poesia in dialetto milanese tra cui Stròlegh<br />

(1975), Teater (1978), L’aria (1981) e Isam (2002). Nel 2005 gli è stato assegnato il<br />

Premio Librex-Montale.<br />

Loi rappresenta una personalità importante nel panorama <strong>letterario</strong> milanese e, soprattutto,<br />

incarna la visione di una <strong>Milano</strong> che non c’è più: il ricordo di quella piccola<br />

Amster<strong>da</strong>m racchiusa <strong>da</strong>lla cerchia dei Navigli, di quella città <strong>da</strong>l fascino così straordinario<br />

che, nell’Ottocento, era definita <strong>da</strong> Stendhal come la più bella città d’Europa.<br />

Una città aperta all’altro, che ha fatto <strong>del</strong>l’operosità il suo credo e in cui perfino la<br />

spiritualità si manifesta nell’agire materiale <strong>del</strong>le persone. Quella di Loi è una lettura<br />

poetica con cui avevamo necessità di confrontarci, una visione radicata nel passato<br />

che era indispensabile per comprendere l’inafferrabile presente. Ecco i motivi che ci<br />

hanno spinto a intervistarlo.<br />

L’incontro con Loi è stata una <strong>del</strong>le prime tappe <strong>del</strong> nostro percorso e, inevitabilmente,<br />

ne ha influenzato i tracciati. Il poeta ci ha portato a riflettere su tematiche significative<br />

quali l’operosità, la vocazione commerciale <strong><strong>del</strong>la</strong> città e il suo fermento strutturale<br />

che ha <strong>da</strong> sempre alimentato la nascita di importanti movimenti sociali.<br />

L’intervista che abbiamo realizzato si presenta come un viaggio - racconto in una<br />

<strong>Milano</strong> d’altri tempi tra racconti d’infanzia e rime in dialetto. Dopo un breve tragitto<br />

in macchina, infatti, Loi ci ha portato sui luoghi <strong><strong>del</strong>la</strong> sua giovinezza, nel quartiere<br />

<strong>del</strong> Casoretto, e qui il poeta ha passeggiato nelle vie <strong>del</strong> rione e dei suoi ricordi. Ci ha<br />

raccontato quindi <strong>del</strong>le serate trascorse sui gradini <strong><strong>del</strong>la</strong> Camera <strong>del</strong> Lavoro a parlare<br />

con gli amici o a suonare la chitarra e di quella serie di personaggi bizzarri che popolavano<br />

la periferia milanese di allora: «Il Pasqualone, nuotatore grosso e grasso, ma<br />

agilissimo che an<strong>da</strong>va in giro in bicicletta con le gambe sopra il manubrio e sfi<strong>da</strong>va<br />

chiunque a fare giochi di agilità» era solo uno dei tanti.<br />

Infine, siamo arrivati <strong>da</strong>vanti a quella “villa scüra” in via Martini dove è ambientata<br />

la poesia che lo stesso Loi andrà a recitare subito dopo. Il componimento fa parte <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

raccolta L’angelo ed è la storia di un uomo che, professandosi un angelo, viene rinchiuso<br />

in manicomio e qui descrive il paradiso come l’insieme dei momenti più belli<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> propria esistenza, di quegli attimi di incantamento che illuminano di bellezza la<br />

vita degli uomini e che li situano in armonia con il mondo. Uno di questi momenti di<br />

incantamento è quello descritto nella poesia: il ricordo di un bambino che spiava una<br />

giovane novizia mentre si spogliava <strong>da</strong> dietro una finestra attraendo gli sguardi e i<br />

sogni <strong>del</strong> gruppo di piccoli amici:<br />

“Te sé segür?” “Se te disi che par, di ser,<br />

de vèss al cine…” “Ma… biott?” “Biott”…”E de quand?”<br />

Che sera sensa lüna, in via Martini:<br />

la villa scüra e vèrta la fenestra…<br />

“Vah, sü la müra el Topo…” “Brütt bastard…”<br />

“Feníss che vègn no…” e par un sògn…<br />

…el cachi, el prefüm di tilli, di müghètt,<br />

i facc de fögh, e là, due che’l bricòcch<br />

sa pèrd dré <strong>del</strong> scirés e la veran<strong>da</strong>


<strong>del</strong> Luciano svapora i sces, l’inora<br />

quél snegràss che l’è la sera <strong>del</strong> giardin,<br />

là, tra la nostra e la villa di mònegh,<br />

sü la müra a recâm <strong>del</strong> temp de guèra,<br />

gh’è la ban<strong>da</strong> <strong>del</strong> Zonca, el Mario Ferro,<br />

Giorgio, L’Avar, i fra<strong>del</strong>lin Lungun…<br />

“Sé fan?” “Sté vö che fan? Se fan di segh!”<br />

E la nott nera la va tra i rös slavadegh,<br />

l’erga canadesa, i grand lassü,<br />

e fina i pappatas rúnzen interna,<br />

j öcc di fjö, l’indurmentàss di fiur<br />

- quj cinq che pend’ me zücch de la fenestra,<br />

e quèla stansa vöja nel prefüm…<br />

“E’lura? Sé la fa?” “L’è dumâ vöna?”<br />

“Mí me par lunga…” “Cittu!”…Carnesina<br />

‘na sottoveste se sfira ne la lüs.<br />

Un gran silensi. A la bas’giur l’è l’aria<br />

A möv i brasc, quèl spettenàss de ner,<br />

e ne l’uscüritâ la <strong>da</strong>nsa bianca,<br />

de quj tendin’ me nívur, ché se arsa<br />

i spall de fonna tra i cavèj nel ciel…<br />

“La mònega?” “Nuvissia…” “Diu!... La se volta…”<br />

e nel duls cör de magg, biàncur’ me lüna,<br />

i do tettin în un suspir de lé.<br />

“Tè ‘ist?” “Û’ist…” “Madona…” …Dulsa,<br />

nel möess, se smorsa la fenestra,<br />

un gatt el scappa, luntan se sent un tram.<br />

139


140<br />

SERGIO D. ALTIERI<br />

Scrittore<br />

Guerra asimmetrica:<br />

a che ora è la fine <strong>del</strong> mondo?<br />

Guerra asimmetrica. Quanto poco conosciuto possa essere questo concetto, storicamente<br />

parlando, non è nè nuovo nè inedito. Come la definizione stessa suggerisce, una<br />

guerra asimmetrica è un conflitto in cui una <strong>del</strong>le parti belligeranti è in possesso di<br />

una quantità soverchiante di uomini, mezzi e logistica rispetto all’altra.<br />

Di conseguenza, la parte belligerante in condizioni di inferiorità è costretta a utilizzare<br />

la configurazione <strong>del</strong> terreno e mezzi “non convenzionali” – virgolette d’obbligo<br />

– nello sforzo di ridurre la asimmetria.<br />

Uno dei casi più eclatanti di guerra asimmetrica, o quanto meno di “battaglia<br />

asimmetrica”, è la Battaglia <strong>del</strong>le Termopili. Forse i guerrieri spartani che stallarono<br />

l’avanzata di un milione di sol<strong>da</strong>ti erano <strong>da</strong>vvero solamente trecento. Forse erano di<br />

più, oppure di meno. A tutti gli effetti, la gola <strong>del</strong>le Termopili si rivelò il fattore geografico<br />

determinante nello sforzo <strong>del</strong> “livellamento <strong><strong>del</strong>la</strong> simmetria”.<br />

Pressochè tutte le guerre combattute <strong>da</strong>ll’Impero Romano nei secoli <strong><strong>del</strong>la</strong> sua<br />

espansione furono guerre asimmetriche. I romani avevano <strong>da</strong>lla loro la disciplina,<br />

l’organizzazione e la tattica. Elementi questi che portarono i romani a trionfare quasi<br />

sistematicamente.<br />

Per contro, nell’era <strong>del</strong> primo imperatore Augusto, la sconfitta <strong>del</strong>le legioni di Varo<br />

nella Selva Nera a opera <strong>del</strong> capo germano Arminio è un altro esempio eclatante di<br />

“livellamento <strong><strong>del</strong>la</strong> simmetria” <strong>del</strong> conflitto. Falsi messaggi indussero Varo a deviare<br />

sempre più in profondità in aree ignote e a densa forestazione. L’effetto distruttivo <strong>del</strong>l’assalto<br />

a tenaglia lanciato <strong>da</strong>i germani di Arminio venne magnificato proprio <strong>da</strong>lla<br />

scarsa conoscenza <strong>del</strong> terreno <strong>del</strong>lo scontro <strong>da</strong> parte dei romani.<br />

Tre secoli dopo, nella cruciale Battaglia di Adrianopoli, combattuta in Asia Minore<br />

attorno al 350 d.C., la asimmetria <strong>del</strong>lo scontro era livellata <strong>da</strong>lla fiera determinazione<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> fanteria dei Goti, i quali sbaragliarono fanteria e cavalleria romana prendendo<br />

anche la testa <strong>del</strong>l’Imperatore. Da prettamente asimmetrica, la guerra pre-caduta <strong>del</strong>l’Impero<br />

Romano di Occidente aveva superato la cuspide simmetrica e stava spostandosi<br />

verso una asimmetria in senso opposto.<br />

Per intuito e per definizione, qualsiasi guerra di guerriglia è una guerra asimmetrica.


Saltando in avanti di quasi millecinquecento anni rispetto alla Battaglia di Adrianopoli,<br />

quello che gli storici identificano come “Conflitto Peninsulare” – il tentativo di<br />

conquista <strong><strong>del</strong>la</strong> penisola iberica <strong>da</strong> parte di Napoleone Bonaparte – resta un esempio<br />

<strong>da</strong> manuale di guerra asimmetrica. Le forze spagnole, sostenute <strong>da</strong>lla fanteria inglese<br />

– la celebri Green Jackets – erosero fino all’osso il più potente esercito d’Europa.<br />

L’ultima guerra simmetrica <strong><strong>del</strong>la</strong> storia europea fu la Prima Guerra Mondiale. Talmente<br />

simmetrica, infatti, <strong>da</strong> tramutarsi in guerra di trincea. La Prima Guerra Mondiale<br />

aveva la tecnologia <strong>del</strong> XIX Secolo ma ancora la strategia dei ranghi schierati<br />

frontalmente, evoluzione nemmeno troppo evoluta <strong><strong>del</strong>la</strong> primaria Falange Macedone.<br />

La Prima Guerra Mondiale fu un controsenso bellico. Il quale portò a un farneticante<br />

stillicidio di assalti reciproci verso posizioni tatticamente trascurabili e strategicamente<br />

inutili. Nella sola Battaglia di Verdun, 1916-1918, si calcola caddero un milione<br />

e duecentomila sol<strong>da</strong>ti <strong>da</strong> ambo le parti senza che il fronte si spostasse mai per più di<br />

qualche chilometro. In sostanza, la Prima Guerra Mondiale venne vinta <strong>da</strong>lla parte<br />

belligerante che non aveva più sol<strong>da</strong>ti <strong>da</strong> man<strong>da</strong>re al macello.<br />

I massacri <strong><strong>del</strong>la</strong> Prima Guerra Mondiale – e le evoluzioni tecnologiche nel ventennio<br />

successivo - spostarono il concetto bellico verso la “guerra di movimento”, asse<br />

portante <strong><strong>del</strong>la</strong> Secon<strong>da</strong> Guerra Mondiale.<br />

Le folgoranti blitz-krieg di Hitler furono simultaneamente il trionfo <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

asimmetrica e l’apoteosi <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra di movimento. La storia però ci insegna che<br />

quello che doveva essere un conflitto <strong><strong>del</strong>la</strong> durata di sei mesi, si tramutò in olocausto<br />

dilatato su sei anni che portò alla distruzione quasi completa <strong>del</strong>l’Europa Occidentale<br />

e <strong><strong>del</strong>la</strong> Unione Sovietica fino agli Urali.<br />

Nella Secon<strong>da</strong> Guerra Mondiale, la asimmetria <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra si spostò progressivamente<br />

<strong>da</strong> una parte belligerante all’altra: <strong>da</strong>ll’Asse agli Alleati. La sua conclusione<br />

– cento divisioni sovietiche lanciate contro Berlino, i bombar<strong>da</strong>menti nucleari americani<br />

di Hiroshima e Nagasaki - fu l’orgia <strong><strong>del</strong>la</strong> asimmetria rovesciata.<br />

Nessuna guerra combattuta dopo la Secon<strong>da</strong> Guerra Mondiale è stata una guerra<br />

simmetrica. Semplicemente perchè non poteva esserlo.<br />

Il problema più grosso <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra asimmetrica è squisitamente politico.<br />

Nelle società avanzate contemporanee – così aperte e soprattutto così “democratiche”<br />

– il caduto in guerra è diventato un imbarazzo elettorale. Nessuna brave madre<br />

voterà per un nuovo man<strong>da</strong>to il governo che ha man<strong>da</strong>to suo figlio a crepare per cause<br />

più o meno scure in luoghi più o meno remoti.<br />

Nell’ultima fase <strong><strong>del</strong>la</strong> totalmente asimmetrica Guerra <strong>del</strong> Vietnam gli stati Uniti<br />

avevano mezzo milione di uomini, tre flotte e svariate migliaia tra aerei ed elicotteri.<br />

Gli Stati Uniti furono costretti a ritirarsi, la loro coesione sociale era in pezzi, la loro<br />

economia era bancarotta. I sovietici furono parimenti costretti a ritirarsi <strong>da</strong>ll’Afganistan<br />

e quel conflitto puramente asimmetrico fu una <strong>del</strong>le cause primarie <strong><strong>del</strong>la</strong> fine <strong>del</strong><br />

comunismo in Russia.<br />

Come la prima guerra <strong>del</strong>l’Iraq, 1990, anche l’attuale secon<strong>da</strong> guerra <strong>del</strong>l’Iraq –<br />

eretta sulla frode <strong>del</strong>le armi di distruzione di massa di Sad<strong>da</strong>m Hussein - è puramente<br />

asimmetrica. Sussistono pochi dubbi su come stia an<strong>da</strong>ndo. La Coalition of the Willing<br />

è ormai sgretolata. Gli Stati Uniti hanno gettato a fondo perduto qualcosa come duemila<br />

miliardi di dollari. L’intero quadrante <strong>del</strong> Golfo Persico è destabilizzato in modo<br />

terminale. Non esiste una exit strategy americana.<br />

141


GIUSEPPE LANGELLA<br />

Università Cattolica di <strong>Milano</strong><br />

Ecce homo.<br />

Sulla letteratura <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra alpina<br />

Col suo carico immancabile di gesta e di carneficine, con le sue prove continue di<br />

coraggio e di a<strong>da</strong>ttamento, allo stremo <strong><strong>del</strong>la</strong> resistenza fisica e oltre, coi suoi cruciali<br />

appuntamenti, soprattutto, con la morte annunciata e con quella che non bussa neppure<br />

alla porta, ma colpisce a tradimento, la guerra in divisa rappresenta il più clamoroso<br />

e radicale sovvertimento <strong><strong>del</strong>la</strong> vita in abiti borghesi, dei suoi ritmi, dei suoi comodi,<br />

<strong>del</strong>le sue occupazioni quotidiane e persino, in certo modo, <strong>del</strong> suo destino. Benché<br />

in buona parte <strong>da</strong> ascrivere al retaggio polemico <strong>del</strong>l’ideologia vociano-lacerbiana 1 ,<br />

gli spiriti anti-borghesi di cui sono intrisi, in particolare, due classici <strong><strong>del</strong>la</strong> ‘grande<br />

guerra’ come Con me e con gli alpini di Piero Jahier e Le scarpe al sole di Paolo Monelli<br />

riflettono la piena coscienza di questo irriducibile contrasto, stigmatizzando la<br />

«città tumultuosa […] che odora di vizio e di vigliaccheria» 2 . Il fatto è che, nel bene<br />

e nel male, la guerra sottrae chi la prova al ‘grigiore’ <strong>del</strong>le giornate che si susseguono<br />

uguali e insignificanti sull’asse di un tempo in folle, senza storia e senza movimento 3 .<br />

Un’esistenza insulsa e gelatinosa non poteva sopportare il peso di una storia, nonché<br />

pubblica, neppure privata, né quindi <strong>da</strong>r luogo a un mythos, alla proiezione di un desti-<br />

1. Sul ruolo avuto <strong>da</strong>lle riviste fiorentine d’anteguerra nella campagna interventista, cfr. M.<br />

Isnenghi, Il mito <strong><strong>del</strong>la</strong> grande guerra (1970), Il Mulino, Bologna 1997, pp. 77-178. Si ve<strong>da</strong><br />

inoltre C. Donati, Gli scrittori e la guerra, in Letteratura Italiana Contemporanea, diretta <strong>da</strong><br />

G. Mariani e <strong>da</strong> M. Petrucciani, Lucarini, Roma 1979, I, pp. 881-895.<br />

2. P. Monelli, Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini di muli e di<br />

vino, Mon<strong>da</strong>dori, <strong>Milano</strong> 1971, p. 68. Ma la princeps è Cappelli, Bologna 1921. M. Schettini,<br />

nell’antologia La prima guerra mondiale. Storia/Letteratura, Sansoni, Firenze 1965, p. 697,<br />

riporta qualche stralcio <strong>del</strong>l’«esame di coscienza» <strong>da</strong> cui prende le mosse il libro di Monelli,<br />

per sottolineare quanto, nel favore fin troppo ingenuo e bal<strong>da</strong>nzoso inizialmente accor<strong>da</strong>to <strong>da</strong>ll’autore<br />

all’eventualità di una guerra, avesse influito, appunto, «il fastidio per la vita borghese»,<br />

«vuota» e «mediocre», col suo «studio muffoso» e l’ostinazione <strong><strong>del</strong>la</strong> «carriera». Di Con me<br />

e con gli alpini si dirà più avanti: ma cfr. in particolare, per questo aspetto, Consolazioni <strong>del</strong><br />

militare e Etica <strong>del</strong> montanaro.<br />

3. Per questo, nella sua monografia Isnenghi ha avuto buon gioco ad inseguire, attraverso<br />

le numerose testimonianze letterarie fiorite a ridosso <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra (prima, durante e dopo), il<br />

filo rosso di una giustificazione esistenziale <strong>del</strong>l’evento. Così, per limitarci ai due libri appena<br />

143


144<br />

no comune nell’intreccio di una vicen<strong>da</strong> esemplare. Per riaprire, perciò, una riflessione<br />

a tutto campo sul senso <strong><strong>del</strong>la</strong> vita, sulla dignità <strong>del</strong>l’uomo e sui valori <strong>da</strong> coltivare, e<br />

insieme per salvare una residua possibilità di racconto, la letteratura <strong>del</strong> Novecento<br />

non ha trovato di meglio che affi<strong>da</strong>rsi a qualche brusca e drammatica interruzione<br />

forzata degli affari correnti, a cominciare <strong>da</strong>l contrappasso violento <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, incomparabilmente<br />

più devastante <strong><strong>del</strong>la</strong> peggiore catastrofe naturale. Tenendo vivo il<br />

sentimento tragico <strong>del</strong>l’esistenza, il racconto <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra ha consentito l’estremo protrarsi,<br />

in piena modernità, di un genere <strong>letterario</strong> altrimenti con<strong>da</strong>nnato all’estinzione<br />

per mancanza di materia, come quello <strong>del</strong>l’epica. E invece Emilio Lussu può porre a<br />

epigrafe di Un anno sull’Altipiano il motto di Bau<strong>del</strong>aire «J’ai plus de souvenirs que<br />

si j’avais mille ans» 4 . Nelle forme antiretoriche tipiche <strong><strong>del</strong>la</strong> scrittura novecentesca, le<br />

memorie di guerra sono quel che resta <strong>del</strong>le antiche canzoni di gesta 5 .<br />

Ha scritto Giulio Bedeschi, al termine <strong>del</strong>le sue Centomila gavette di ghiaccio, dei<br />

superstiti di due campagne assurde e disastrose, prima tra i «valloni fangosi» e le «pietraie<br />

d’Albania» e quindi nel gelo sterminato <strong><strong>del</strong>la</strong> steppa russa: «la loro era una lunga<br />

e così tragica storia quale di rado gli uomini sono con<strong>da</strong>nnati a vivere sulla terra» 6 .<br />

L’esperienza <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra rappresenta, per l’uomo contemporaneo, la saison en enfer<br />

per eccellenza, e tanto più brutale e sconvolgente quanto meno attesa e desiderata.<br />

Nel suo ‘inferno’ artificiale Rimbaud si era infatti tuffato sua sponte, ricorrendo con<br />

luci<strong>da</strong> determinazione alle pratiche <strong>del</strong> vizio e <strong>del</strong> disordine morale per sfuggire alla<br />

morsa <strong>del</strong>l’alienazione borghese. L’inferno, invece, desolatamente comune, elementare<br />

e protratto <strong>del</strong>le trincee e <strong>del</strong>le marce estenuanti, <strong>del</strong>le bombe e <strong><strong>del</strong>la</strong> fame, <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

cancrena e <strong><strong>del</strong>la</strong> prigionia, sorpassa ogni più azzar<strong>da</strong>ta previsione, impone all’uomo<br />

in guerra la cru<strong>da</strong> legge di una necessità estrinseca e imperativa, <strong>da</strong>vanti alla quale è<br />

giocoforza soccombere, piegarsi o morire. Basta una «fucilata», al tenente degli alpini<br />

Paolo Monelli, per avvertire che la «macchina» <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

ti ha preso dentro inesorabilmente. Ci sei. Non ne uscirai più. Non ci credevi<br />

forse ancora, fino a ieri, giocavi con la posta <strong><strong>del</strong>la</strong> tua vita come con la<br />

certezza di poterla ritirare 7 .<br />

citati, Con me e con gli alpini è «una testimonianza non dubbia di quanto sia consistente e primaria<br />

la disposizione psicologica alla guerra, la fruizione esistenziale <strong><strong>del</strong>la</strong> grande occasione<br />

[…]. Il senso di spreco <strong>del</strong>l’esistenza, di rivolta psicologica alla massificazione, l’aspirazione<br />

a una totale rimessa in questione <strong><strong>del</strong>la</strong> vita, che s’erano espressi nel burocrate Gino Bianchi e<br />

nelle poesie interventiste, rappresentano la condizione preliminare <strong>del</strong> senso di appagamento,<br />

di realizzazione personale, che domina il tenente degli alpini. Anche qui, la guerra ripaga <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vita. Le ridona dignità e valore. Riscatta <strong>da</strong>lla quotidianità». Non diversamente <strong>da</strong> Jahier, l’autore<br />

<strong>del</strong>le Scarpe al sole aderisce alla guerra con «la sensazione di vivere una stagione unica,<br />

irripetibile, <strong><strong>del</strong>la</strong> propria esistenza di individuo – qualcosa che ripaga alla fine <strong>del</strong>le sofferenze<br />

e <strong>del</strong>le stanchezze» (Il mito <strong><strong>del</strong>la</strong> grande guerra, cit., pp. 188 e 214).<br />

4. E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Edizioni Italiane di Cultura, Parigi 1938; poi Einaudi,<br />

Torino 1945.<br />

5. Ma per un quadro più esauriente <strong><strong>del</strong>la</strong> «sopravvivenza <strong>del</strong>l’epica» in età moderna si ve<strong>da</strong><br />

S. Zatti, Il modo epico, La<strong>terza</strong>, Roma-Bari 2000, particolarmente pp. 5-15. A questo libro si<br />

riman<strong>da</strong> anche per una grammatica generale <strong>del</strong> codice epico.<br />

6. G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio (1963), Mursia, <strong>Milano</strong> 1994, p. 418.<br />

7. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., p. 18.


Ma la guerra non si può accettare con riserva, arrogandosi la facoltà di decidere fin<br />

dove rischiare e quando. Neppure a chi si è offerto di an<strong>da</strong>rci volontario, è concesso di<br />

considerarla alla stregua di una roulette in cui puntare a capriccio. La guerra, cieca e<br />

tiranna, s’impadronisce degli uomini, li riduce alla sua mercé.<br />

Ma proprio perché rappresenta un’esperienza-limite <strong>da</strong>i contorni infernali, essa<br />

pone drammaticamente l’uomo di fronte alle domande capitali <strong>del</strong> proprio essere al<br />

mondo, obbligandolo a fare una cernita rigorosa di ciò che conta <strong>da</strong>vvero <strong>da</strong> quanto è<br />

inessenziale. La guerra è infatti una scuola – per dirla con Jahier – di «vita assoluta»,<br />

in cui il sol<strong>da</strong>to pencola, vittima predestinata, sull’orlo <strong><strong>del</strong>la</strong> morte sempre in agguato 8 .<br />

Nella coscienza di chi combatte, la morte non è un’incognita aleatoria, un’eventualità<br />

più o meno remota, ma uno sbocco pressoché obbligato. Per questo essa diventa misura<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> vita, mettendo a nudo la ridicola inconsistenza <strong>del</strong>le passioni meschine, <strong>del</strong>le<br />

fisime e dei rancori che tanto affannano gli uomini in borghese. Quando «il destino ti<br />

scaraventa […], con un calcio, nella mislea» – annota Monelli – guai se non hai ancora<br />

imparato a gettare «il far<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>le cose vane dietro la schiena» 9 .<br />

La contemplazione quotidiana <strong><strong>del</strong>la</strong> morte è una via aurea, ancorché incresciosa,<br />

per giungere alla scoperta <strong>del</strong>le verità più importanti: «Ora noi andiamo verso la<br />

morte. È una stra<strong>da</strong> senza bugie» 10 . E Jahier fa il proposito di «profittare ogni giorno<br />

/ di questa chiarezza di moribondo che la guerra ha donato» 11 . Se il senso ultimo <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

vita non si coglie che sul punto di lasciarla, l’esposizione continua alla morte propria<br />

<strong>del</strong>l’uomo in guerra costituisce un osservatorio tragicamente privilegiato, di straordinaria<br />

lucidità. L’estrema familiarità con la morte fa anzi <strong>del</strong> combattente una categoria<br />

a sé, definibile proprio a partire <strong>da</strong>ll’imminenza di un destino segnato: Jahier si tiene<br />

per «moribondo», mentre Monelli, memore forse <strong>del</strong> saluto che i gladiatori, prima<br />

di affrontarsi nei circhi romani, lanciavano all’imperatore, si iscrive nella classe dei<br />

«morituri, presi nel macinio <strong><strong>del</strong>la</strong> battaglia disperata» 12 . E non c’è lettore <strong>del</strong> Sergente<br />

nella neve, il piccolo capolavoro di Mario Rigoni Stern sulla campagna di Russia, cui<br />

non sia rimasta impressa la doman<strong>da</strong> mille volte ripetuta <strong>da</strong> Giuanin, come un tarlo<br />

che non cessi mai di rodere e scavare: «ghe rivarem a baita?» 13<br />

Per questo, in certi momenti l’angoscia <strong><strong>del</strong>la</strong> morte si attacca, anche senza volerlo,<br />

alla pagina, come il viscido mare di fango <strong>del</strong>l’Albania battuta <strong>da</strong>lla pioggia o la neve<br />

gelata <strong>del</strong> terribile inverno russo. E tanto alto è stato il prezzo pagato alla guerra in<br />

termini di vite umane e di «inaudito patire», che non a torto Bedeschi ha potuto definire<br />

le sue Centomila gavette di ghiaccio una «storia di dolore e di morte», «vista, per<br />

così dire, <strong>da</strong>lla parte» dei «caduti» 14 . La memorialistica alpina è costellata di croci e di<br />

mesti, pietosi riti di sepoltura. Basti qui ricor<strong>da</strong>re, nel libro di Manlio Cecovini, il ricupero<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> salma <strong>del</strong> capitano Ferroni, precipitato in un salto <strong><strong>del</strong>la</strong> montagna durante<br />

8. P. Jahier, Scoramento e tentazione, in Con me e con gli alpini, Libreria <strong><strong>del</strong>la</strong> «Voce», Firenze<br />

1919. Ma si cita <strong>da</strong>ll’<strong>edizione</strong> Vallecchi <strong>del</strong>le Opere, III: Ragazzo - Con me e con gli alpini,<br />

Firenze 1967, pp. 212-213.<br />

9. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., pp. 78-79.<br />

10. P. Jahier, Criticano, in Con me e con gli alpini, cit., p. 134.<br />

11. P. Jahier, Fratello, in Con me e con gli alpini, cit., p. 151.<br />

12. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., p. 132.<br />

13. M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi <strong><strong>del</strong>la</strong> ritirata di Russia (1953), Einaudi,<br />

Torino 1962, pp. 20, 31, 140 e passim.<br />

14. G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, cit., pp. VII-VIII.<br />

145


146<br />

una marcia notturna, mentre infuriava la tormenta:<br />

Afferrammo il ca<strong>da</strong>vere per un braccio e lo voltammo di schiena. Non<br />

avrei mai pensato che un ca<strong>da</strong>vere potesse pesare tanto. Eravamo tutti tre<br />

grandi e forti, ma ci costò fatica a metterlo supino. Della faccia si vedeva<br />

<strong>da</strong>vvero poco: un gran naso quasi blu e la bocca aperta piena di neve. Gli<br />

occhi non si vedevano perché il ghiaccio aveva steso una patina uniforme <strong>da</strong>i<br />

sopraccigli agli zigomi. Il resto era coperto <strong>da</strong>l passamontagna. Scozziero,<br />

ch’era il più stanco, fu messo alla funicella; Zilio ed io tirammo. Alle dodici<br />

e mezzo eravamo sotto lo strapiombo. Legammo la cor<strong>da</strong> alla funicella <strong>da</strong><br />

ripiego che pendeva <strong>da</strong>ll’alto e demmo il segnale. Prima salì la cor<strong>da</strong> e poi il<br />

ca<strong>da</strong>vere. Si alzò tra di noi, stretti nel piccolo disagevole piano inclinato; si<br />

alzò proprio in piedi, grande e orrendo, colle braccia pendule e la testa che<br />

sussultava con grotteschi inchini. Giganteggiò enorme sulla punta dei piedi<br />

come un burattino apocalittico e infine fu un uomo impiccato, un giustiziato<br />

appeso alla forca. Colle facce rivolte all’insù l’ultima cosa che vedemmo di<br />

lui furono gli scarponi <strong>da</strong>lle suole chio<strong>da</strong>te; grandi scarponi che ballavano e<br />

sbattevano uno contro l’altro come fossero vivi, ancora vivi 15 .<br />

Nessuno vorrà negare, a questa pagina di raccapricciante bellezza, capace di avvolgere<br />

la scena in un’atmosfera <strong>da</strong> incubo surrealista, le più alte onoreficenze letterarie.<br />

Peraltro, in quel «burattino apocalittico» c’è la consapevolezza di trovarsi totalmente<br />

in balìa <strong>del</strong> destino, vittime sacrificali di un’idea superiore o di un disegno di cui<br />

s’ignorano, non di rado, vantaggi e contenuti. Il «popolo digiuno» di Jahier «non sa<br />

perché va a morire» 16 , né hanno le idee più chiare gli alpini di Monelli:<br />

Ma che sanno essi, ma che so io di quello che succede? Nulla. Si combatte<br />

si va si resta, numero nella massa che ondeggia, che manovra su questa fronte<br />

di montagna <strong>da</strong>i ghiacciai ai giaroni dolomitici – e nel cuore un rancore sordo,<br />

uno strazio di non sapere di non vedere, ombre nel fondo d’una valle nera che<br />

vanno senza una risposta al loro doman<strong>da</strong>re, rifuggendo <strong>da</strong> un male ignoto,<br />

affrettando a Dio sa quale male maggiore. Gregge. Domani ci diranno: Alt, e<br />

muori qui. E si morderà la neve lì, ignorando se ciò ha giovato o no, se almeno<br />

il sacrificio vuol dire una vittoria duecento chilometri più in là, per lo meno<br />

un paese salvato <strong>da</strong>l bombar<strong>da</strong>mento, una riscossa favorita per più felici tempi.<br />

[…] Ma dispacci cifrati e sigle e misteri ronzano le notti nei fili, quando noi<br />

s’è all’appostamento; e c’è lontano lontano di qui, in un bel castello ovattato<br />

di tappeti e di arazzi, un ufficiale che scrive, un <strong>da</strong>ttilografo che copia, un<br />

piantone che esce, un colonnello che sacramenta: la nostra mitologia, gli dèi<br />

misteriosi che tirano i fili <strong>del</strong> nostro destino.<br />

Questa è la guerra. Non il rischio di morte, non la rossa girandola <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

granata che accieca e seppellisce in un turbine sonoro […]: ma sentirsi così<br />

marionette nelle mani di un burattinaio ignoto gela talvolta il cuore 17 .<br />

15. M. Cecovini, Ponte Perati. La Julia in Grecia, Vallecchi, Firenze 1966, p. 158.<br />

16. P. Jahier, Dichiarazione, in Con me e con gli alpini, cit., p. 115.<br />

17. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., pp. 54-55.


La struttura frammentaria di questa letteratura di gesta, che anche quando non<br />

adotta manifestamente la forma-diario 18 allinea in sequenza puramente cronologica<br />

episodi slegati, bozzetti o rapide annotazioni, trova proprio nell’estrema precarietà<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> sorte e nell’ignoranza dei piani escogitati <strong>da</strong>i comandi militari la sua ragione<br />

fon<strong>da</strong>nte. L’assoluta mancanza d’intreccio non dipende, cioè, <strong>da</strong>lla scelta preventiva<br />

<strong>del</strong> genere <strong>letterario</strong> in cui collocare la narrazione, ma traduce la condizione al buio<br />

dei sol<strong>da</strong>ti al fronte, pedine mosse <strong>da</strong> lontano, continuamente in balìa di ordini superiori<br />

di cui non sono in grado di valutare né il movente, né la logica, né la portata, né la<br />

strategia. Chi fa la guerra non sa neppure cosa lo attende domani, se dovrà combattere,<br />

presidiare il suo posto o invece occupare un altro punto <strong>del</strong>lo scacchiere. Chi decide<br />

per lui, il ‘burattinaio ignoto’ che tiene in pugno i fili <strong><strong>del</strong>la</strong> sua come di innumerevoli<br />

altre vite e le intreccia in un’unica storia, rimane completamente inaccessibile, mente<br />

fuori campo che come una Sibilla disperde i decreti <strong><strong>del</strong>la</strong> sua volontà per i mille rivoli<br />

dei fonogrammi, <strong>del</strong>le consegne e dei fogli di servizio. Al povero sol<strong>da</strong>to, ‘numero nella<br />

massa che ondeggia’, non giunge che un frammento infinitesimo di quella volontà,<br />

<strong>da</strong>l quale non è più possibile risalire alla visione d’assieme. A lui tocca solo obbedire,<br />

e ‘consolarsi’ di questo. Scrive Jahier: «non hai <strong>da</strong> pensare a domani. Il tuo destino<br />

non dipende <strong>da</strong> te, ti viene <strong>da</strong> fuori. Tu sei un uomo che nasce alla sveglia e muore alla<br />

ritirata» 19 . Il senso ultimo <strong>del</strong> suo sacrificio gli sfugge. La guerra, per lui, non è un intreccio,<br />

ma un semplice séguito di azioni. La vita al fronte si vive e si muore giorno per<br />

giorno, alla cieca. Per chi combatte, la storia procede semmai in un’unica direzione,<br />

verso l’incontro, fortuito o coatto, in ogni caso assai probabile, con la morte.<br />

Si comprende, allora, come mai questa letteratura di memorie scarti a priori la prospettiva<br />

<strong>da</strong>ll’alto e <strong>da</strong>ll’esterno caratteristica <strong><strong>del</strong>la</strong> storiografia e dei dispacci militari,<br />

che per dominare col proprio sguardo onnisciente l’intero teatro <strong>del</strong>le operazioni finiscono<br />

per appiattirlo sullo scacchiere virtuale di un atlante o di una carta topografica,<br />

riducendo la guerra a uno spostamento di bandierine. La moderna scrittura di gesta<br />

opta al contrario – e non avrebbe potuto essere altrimenti – per una rappresentazione<br />

<strong>del</strong>le vicende belliche <strong>da</strong>l basso e <strong>da</strong>ll’interno, rinunciando piuttosto alla visione<br />

d’insieme pur di seguire <strong>da</strong> vicino le sorti di un gruppo di uomini in carne ed ossa,<br />

per i quali la guerra, combattuta in prima linea, non studiata a tavolino, resta un fatto<br />

18. Almeno di passaggio, vorrei qui ricor<strong>da</strong>re, per il loro cospicuo valore documentario, altre<br />

due cronache <strong><strong>del</strong>la</strong> sp<strong>edizione</strong> alpina sul Don, concepite entrambe in forma diaristica: il Diario,<br />

appunto, di Ferruccio Panazza (tenente di artiglieria in forza alla 33 a batteria <strong><strong>del</strong>la</strong> Tridentina),<br />

pubblicato <strong>da</strong>ll’Ateneo di Brescia come supplemento ai Commentari <strong>del</strong> 1997; e Vita quotidiana<br />

durante la campagna di Russia (1942-1943), di Pasquale Grignaschi (sottotenente <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

124 a compagnia artieri <strong><strong>del</strong>la</strong> Cuneense), edito <strong>da</strong> Interlinea, Novara 2000, con l’eccezionale<br />

corredo di oltre 100 fotografie inedite scattate <strong>da</strong>ll’autore. Si noti, peraltro, che i due resoconti<br />

sono il frutto di una rielaborazione successiva di appunti originariamente quanto mai scarni e<br />

lacunosi. Il mantenimento <strong>del</strong> genere <strong>letterario</strong> iniziale, con la rinuncia che comporta al punto<br />

di vista, nettamente più comodo in simili circostanze, <strong>del</strong> memorialista onnisciente che rievoca<br />

a posteriori, risponde a un proposito di fe<strong>del</strong>tà all’esperienza dominante e caratteristica di ogni<br />

uomo in guerra, vale a dire l’impossibilità di azzar<strong>da</strong>re qualsiasi ragionevole previsione su<br />

quanto potrà accadere nel futuro anche immediato.<br />

19. P. Jahier, Consolazioni <strong>del</strong> militare, in Con me e con gli alpini, cit., p. 189.<br />

147


SILVIA MORGANA<br />

Università degli Studi di <strong>Milano</strong><br />

Leggere per non dimenticare:<br />

lettere <strong>da</strong>i lager di internati militari italiani<br />

(1943-44) 1<br />

Non volevi la guerra, e sì, l’hai fatta.<br />

Eri un bravo, e scrivevi: “Mamma, quando<br />

finirà questa vita disperata?”<br />

E scrivevi ai fratelli come a figli,<br />

aspri rimbrotti, amorosi consigli.<br />

“Posso non ritornare, il babbo è un santo<br />

per noi; vi ho <strong>da</strong>to solo che dolori;<br />

perdonatemi, cari genitori”<br />

UMBERTO SABA<br />

Lo stile epistolare dei sol<strong>da</strong>ti italiani <strong><strong>del</strong>la</strong> Grande guerra è evocato nelle Poesie<br />

scritte durante la guerra in cui Saba, rivolgendosi a «Nino / Tibaldi che non torni a<br />

chi t’aspetta / che non torni <strong>da</strong> Monte Sabotino», ne stilizza alcuni tratti emblematici<br />

di scrittura popolare (l’uso incerto <strong>del</strong>le doppie e <strong>del</strong> che connettivo generico: disperatta,<br />

solo che dolori). 2<br />

I due conflitti modiali hanno rappresentato momenti cruciali anche per la storia linguistica<br />

italiana: fenomeni di grande portata avviati dopo l’Unità, come il progressivo<br />

indebolimento dei dialetti e l’avanzata <strong>del</strong>l’italiano, furono potenziati in modo decisivo<br />

<strong>da</strong>lla mescolanza di milioni di sol<strong>da</strong>ti di diversa classe sociale e provenienti <strong>da</strong><br />

diverse regioni. E’ stato giustamente osservato che la Grande Guerra chiude il primo<br />

imponente processo di trasformazione sociolinguistica <strong>del</strong> nostro paese, innescato <strong>da</strong><br />

fattori sociali ed economici quali l’industrializzazione , l’inurbamento, le emigrazioni<br />

all’interno e all’estero, la burocrazia, la scuola. 3 Due furono infatti le conseguenze<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> situazione creata <strong>da</strong>l conflitto: l’aumento <strong>del</strong>l’italofonia, per il bisogno di comunicare<br />

e di intendersi, che rendeva indispensabile abbandonare l’uso esclusivo <strong>del</strong><br />

1. La presentazione in Powerpoint a questo Convegno è stata ideata e curata <strong>da</strong>l mio allievo<br />

Oscar Brambani, che qui ringrazio.<br />

2. U.Saba, Il Canzoniere, Torino, Einaudi, 1961, p.159<br />

3. T.De Mauro, Storia linguistica <strong>del</strong>l’italia unita<br />

153


154<br />

proprio dialetto e impiegare l’italiano; e l’incremento <strong>del</strong>l’alfabetizzazione, per l’esigenza<br />

di mantenere attraverso le lettere una “conversazione a distanza” con la famiglia,<br />

che imponeva anche a persone <strong>del</strong>le classi inferiori di acquisire una certa abilità<br />

alla scrittura 4 . La prima significativa raccolta di testimonianze di italiano scritto <strong>da</strong>lle<br />

classi subalterne furono proprio le lettere dei prigionieri italiani <strong><strong>del</strong>la</strong> Grande Guerra<br />

trascritte <strong>da</strong>l linguista austriaco Leo Spitzer 5 , che durante il conflitto era addetto alla<br />

censura: interessi prevalentemente antropologici e psicologici stavano alla base <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

raccolta di Spitzer, che tuttavia sottolineava lo straordinario valore di documentazione<br />

linguistica <strong>del</strong>le lettere, scritte in massima parte <strong>da</strong> persone dialettofone di scarsa<br />

cultura. Non per niente proprio il libro di Spitzer ha avviato in Italia, negli anni ’70,<br />

il settore di ricerche sul cosiddetto “italiano popolare”, o meglio sulla scrittura popolare:<br />

un filone di studi significativo anche per le sue connessioni con i problemi <strong>del</strong>le<br />

strategie comunicative e <strong>del</strong>l’educazione linguistica 6 .<br />

Sull’on<strong>da</strong> di questi interessi per la scrittura popolare sono state pubblicate negli<br />

ultimi decenni varie raccolte di lettere di militari: ricordo Sanga 7 , Foresti 8 , Bellosi 9 e<br />

in particolare Revelli per la documentazione relativa alla secon<strong>da</strong> guerra mondiale 10 .<br />

Non sono state invece finora oggetto di attenzione le lettere scritte <strong>da</strong> una particolare<br />

tipologia di deportati militari, gli internati nei lager tedeschi <strong>da</strong>l 1943 al 1945,<br />

denominati IMI (Internati militari italiani): un acronimo che prese corpo solo a<br />

partire <strong>da</strong>l 20 settembre 1943, <strong>da</strong>ta in cui Hitler ordinò che i sol<strong>da</strong>ti italiani catturati in<br />

seguito all’armistizio <strong>del</strong>l’8 settembre (e diventati quindi nemici <strong>del</strong> Reich) dovevano<br />

essere considerati “internati militari”. La conseguenza più grave di tale etichetta fu di<br />

carattere giuridico, non potendo godere - ecco l’astuzia burocratica nazista - gli IMI<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> Convenzione di Ginevra, applicabile solamente ai Kriegsgefangenen (prigionieri<br />

di guerra), come lo erano i prigionieri inglesi, francesi, americani, per fare degli<br />

esempi.<br />

Le conseguenze principali di questo particolare stato giuridico furono, <strong>da</strong> un lato,il<br />

divieto di ricevere pacchi viveri e vestiari <strong>da</strong>lla Croce Rossa Internazionale; <strong>da</strong>ll’altro<br />

lo sfruttamento degli IMI come manodopera, soprattutto nelle industrie belliche <strong>del</strong><br />

Reich. Lo scarso interesse politico e storiografico nei confronti di questo aspetto <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

4. Sulla efficacia <strong>del</strong> servizio militare nel diffondere l’uso di italianismi nel dialetto e nel<br />

promuovere una koiné italiana popolare interdialettale, e <strong>del</strong>le scuole reggimentali nel ridurre<br />

la percentuale di analfabeti v. De Mauro, storia cit.ASI 1900 p.162<br />

5. Italienische Kriegsgefangenenbriefe, Bonn, 1921, trad.it.Lettere di prigionieri di guerra<br />

italiani 1915-1918, Torino, Boringhieri , 1976, con una Nota linguistica di Laura Vanelli.<br />

6. Una sintesi <strong>del</strong> dibattito sul concetto di “italiano popolare” in A.Masini, L’italiano contemporaneo<br />

e le sue varietà, in I.Bonomi, A.Masini, S.Morgana, M.Piotti, Elementi di linguistica<br />

italiana, Roma, Carocci, 2003, p.54 e ss.<br />

7. G.Sanga, Lettere di sol<strong>da</strong>ti e formazione <strong>del</strong>l’italiano popolare unitario, in La grande guerra:<br />

operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale (<strong>Milano</strong> 1980)<br />

8. F.Foresti, Italiano e italiano popolare nella corrispondenza di sol<strong>da</strong>ti <strong><strong>del</strong>la</strong> grande guerra,<br />

in Era come a mietere. Testimonianze orali e scritte di sol<strong>da</strong>ti sulla Grande guerra con immagini<br />

inedite, Biblioteca Comunale S.Giovanni in persiceto, 1982<br />

9. G.Bellosi, la voce in un pezzo di carta in Verificato per censura.Lettere e cartoline di sol<strong>da</strong>ti<br />

romagnoli nella prima guerra mondiale, Il ponte vecchio, cesena, 2002<br />

10. N. Revelli, L’ultimo fronte, lettere di sol<strong>da</strong>ti caduti o dispersi nella secon<strong>da</strong> guerra mondiale<br />

(Torino 1971)


deportazione militare ha mantenuto ancora oggi l’acronimo IMI sconosciuto ai più.<br />

Claudio Sommaruga, ex IMI milanese e studioso <strong><strong>del</strong>la</strong> deportazione, sottolinea nel<br />

suo volume Per non dimenticare anche il generale disinteresse editoriale per la documentazione<br />

e la letteratura <strong>del</strong>l’internamento:<br />

Va ricor<strong>da</strong>to che, per il disinteresse <strong><strong>del</strong>la</strong> gente e le rimozioni dei reduci,<br />

l’editoria <strong>del</strong>l’internamento, a differenza di quella <strong><strong>del</strong>la</strong> deportazione, è di<br />

fatto ignorata <strong>da</strong>i grandi editori e <strong>da</strong>i librai ed è scarsamente presente nelle<br />

biblioteche. Si sviluppa per lo più a carico degli autori o <strong>del</strong>le associazioni,<br />

appoggiandosi a piccoli editori o tipografie prestanome, con scarse sponsorizzazioni,<br />

tirature limitate, (poche centinaia di copie) e distribuzione circoscritta.<br />

Esiste poi una memorialistica sommersa di inediti: almeno 5000 diari e<br />

agendine segrete annotati “a futura memoria” ma poi rimasti nei cassetti o<br />

tutt’al più fotocopiati per parenti o amici. Sono quaderni ingialliti, sempre<br />

meno leggibili e intellegibili senza gli autori, reperibili per caso ma che dovrebbero<br />

venire rastrellati <strong>da</strong>lle associazioni, ma preziosa per i ricercatori<br />

storici e i laureandi. 11<br />

Di conseguenza, molto resta ancora <strong>da</strong> pubblicare e <strong>da</strong> documentare sulla sorte che<br />

vide coinvolti alcune centinaia di migliaia di nostri militari nel periodo intercorrente<br />

<strong>da</strong>ll’8 settembre fino al termine <strong>del</strong> conflitto: «ovvero, coloro che, una volta disarmati<br />

<strong>da</strong>i tedeschi e catturati, si rifiutarono di collaborare 12 ». Su 810.000 sol<strong>da</strong>ti catturati <strong>da</strong>i<br />

tedeschi dopo la proclamazione <strong>del</strong>l’armistizio, 94.000 diventano collaboratori immediatamente<br />

in seguito alla cattura e 103.000 sono gli optanti - altro modo per definire<br />

i collaboratori - nei Lager. I restanti 613.000 si sono rifiutati di collaborare col Reich<br />

e con la RSI.<br />

Un’occasione significativa per non dimenticare è offerta <strong>da</strong>lle circa 3000 lettere e<br />

cartoline di Internati Militari italiani depositate a <strong>Milano</strong> presso la sede <strong><strong>del</strong>la</strong> Fon<strong>da</strong>zione<br />

“Memoria <strong><strong>del</strong>la</strong> Deportazione - Archivio e Biblioteca Aldo Ravelli (via Dogana<br />

3): essa, sin <strong>da</strong>lla sua recente apertura, si propone come centro di documentazione<br />

sulla deportazione, a disposizione di studiosi e studenti. Le lettere degli IMI fanno<br />

parte <strong>del</strong> Fondo Pirola, e sono attualmente in corso di pubblicazione <strong>da</strong> parte di Oscar<br />

Brambani, che sta proseguendo il lavoro di inventariazione e trascrizione avviato per<br />

11. Ivi, pag. 7. Si aggiunga, inoltre la pubblicazione di 400 memorie e antologie contenenti<br />

testimonianze di reduci, in genere editi in proprio, con tirature modeste (300-200 copie per<br />

titolo), oggi fuori catalogo e difficile <strong>da</strong> reperire; si aggiungano 300 saggi postumi, anch’essi<br />

a tiratura limitata.<br />

12. «Ci illudevamo che i tedeschi ci avrebbero trattato umanamente, secondo la Convenzione<br />

di Ginevra <strong>del</strong> 1929 sui prigionieri di guerra, tutelati <strong>da</strong> una nazione neutrale e assistiti <strong>da</strong>lla<br />

Croce Rossa…Nossignore! Dal 20 settembre, per poterci sfruttare di più e senza controlli, i<br />

nazisti ci definiscono, con un falso storico, “disertori di Badoglio e sol<strong>da</strong>ti di Mussolini in<br />

attesa di impiego” e ci marcarono le divise con “IMI” (INTERNATI MILITARI ITALIANI),<br />

uno status illegale in paesi belligeranti! Poi a Sandbostel, due gerarchi fascisti ci invitano ad<br />

arruolarci come “legionari” in reparti speciali di SS italiane, ma fanno fiasco: su 10.000 sol<strong>da</strong>ti<br />

e 225 ufficiali recluteranno solo 84 sol<strong>da</strong>ti e 2 ufficiali.»<br />

155


166<br />

RINO CAPUTO<br />

Università di Roma “Tor Vergata”<br />

Modi di dire la guerra <strong>da</strong> <strong>Milano</strong> all’Italia:<br />

il tumulto<br />

Nella lettera <strong>da</strong>tata “Roma, 9 Febbrajo 1889” Piran<strong>del</strong>lo così racconta ai suoi familiari<br />

l’esperienza vissuta di una dimostrazione di piazza a Roma:<br />

Miei carissimi,<br />

siamo in pieno stato d’assedio. Le botteghe tutte chiuse, perfino i caffè.<br />

Un panico generale. Pattuglie di bersaglieri, di guardie di pubblica sicurezza,<br />

di guardie di città, di carabinieri, corrono (con a capo un <strong>del</strong>egato parato<br />

per l’occorrenza coi distintivi <strong>del</strong>l’ordine) le vie principali <strong><strong>del</strong>la</strong> città. Nelle<br />

piazze, dinanzi ai palazzi <strong>del</strong>le ambasciate, dei ministeri, e dei varî uffici<br />

governativi, al principio di ogni stra<strong>da</strong> e negli sbocchi più frequentati staziona<br />

la truppa armata, ma per fortuna con l’imposizione di non reagire che in<br />

caso di estrema difesa. Jeri i <strong>da</strong>nni sono stati gravissimi. Nella colluttazione<br />

a ponte di Ripetta, e in varî altri punti <strong><strong>del</strong>la</strong> città, molti i feriti, due guardie<br />

conciate malamente. Deplorando gli atti sconsigliati di van<strong>da</strong>lismo, questi<br />

operai rivoltosi io gli scuso e per una semplicissima ragione: hanno fame e<br />

vogliono lavorare. Jeri mattina si sono riuniti ai Prati di Castello, invitati <strong>da</strong>lla<br />

Commissione eletta precedentemente <strong>da</strong> loro stessi, la quale doveva comunicare<br />

la risposta <strong>del</strong>l’on. Fortis, sottosegretario al ministero <strong>del</strong>l’interno. Ma lo<br />

scopo <strong><strong>del</strong>la</strong> riunione è degenerato: non si ha più fiducia nel governo; hanno<br />

gri<strong>da</strong>to: - abbasso i ciarlatani! Bisognava trovarsi sul posto e udire quei discorsi,<br />

che erano fiamme. Tutti d’una volontà, in men che ve lo dico, si sono<br />

slanciati per le vie – alla cieca – e con sassi, con bastoni, a calci, a pugni,<br />

han rotto vetri, scassinato porte, devastato negozi con furia, con impeto nella<br />

grande ubbriachezza di distruzione. Jeri son passato per via Frattina – è una<br />

desolazione a vedere…Così via S.Lorenzo in Lucina, così via Due Macelli,<br />

così via <strong>del</strong> Tritone, via Quattro Fontane e molte e molte altre. Jeri sera Roma<br />

offriva uno spettacolo novo, imponente: un’agitazione, un fermento non mai<br />

veduti. Questa vecchia Roma dei nepotini di Remo (vera canaglia) si desta <strong>da</strong>l<br />

torpore che la possiede <strong>da</strong> tempo, come se qualcuno finalemnte si fosse deciso<br />

di <strong>da</strong>rle quel calcio che come i cani di Colonia descritti <strong>da</strong> Enrico Heine,<br />

doman<strong>da</strong> a ogni piede, tanto per scuotersi un po’. Avrete letto senza dubbio


la narrazione dei fatti su pei giornali; ma vi assicuro che resta molto inferiore<br />

alla realtà <strong>del</strong>le cose. Si tratta di ben peggio, che i giornali non dicano o non<br />

possano dire. Son rivolgimenti cagionati <strong>da</strong> un’idea che sempre più s’impone,<br />

più tosto che <strong>da</strong> favorevoli condizioni di cose. Oggi non è tutto finito. Non si<br />

è riusciti ad impedire una secon<strong>da</strong> sommossa. Una gran febbre agita tutta la<br />

città. Pare di essere a Parigi 1 .<br />

Risalta intanto in via preliminare l’insopprimibile istanza letteraria: la ‘realtà <strong>del</strong>le<br />

cose’ ha sempre bisogno, per Piran<strong>del</strong>lo, <strong>del</strong> sussidio <strong>del</strong>le rappresentazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> fantasia<br />

coagulate in immagini espresse <strong>da</strong>lle parole. La “canaglia” erede degenere <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

romanità è assimilata ai “cani di Colonia” (ma sono quelli di Stoccar<strong>da</strong> in Deutschland,<br />

ein Wintermaerchen, un poemetto di Heine) e merita calci. L’immagine tornerà<br />

in Suo Marito in un altro “tumulto”, come si vedrà, e sarà espressa in modo contrastivamente<br />

chiastico:<br />

- Cani! – gridò il mercante panciuto, rizzandosi ansante, paonazzo.<br />

Sotto il carretto stava sdrajato, più placido <strong>del</strong>lo spazzino, un vecchio cane<br />

spelato, con gli occhi tra le cispe socchiusi: al – Cani! – <strong>del</strong> mercante levò<br />

appena il capo <strong>da</strong>lle zampe, senza schiuder gli occhi, solo raggrinzando un<br />

po’ le orecchie, dolorosamente. Dicevano a lui? S’aspettava un calcio. Il calcio<br />

non venne; dunque non dicevano a lui; e si ricompose a dormire 2 .<br />

Del resto Piran<strong>del</strong>lo indulge allo straniamento umoristico imprevedibile: la canaglia<br />

talora è “onesta” così come i gentiluomini sono “ladri”. Il contesto è sempre quello,<br />

artistico e politico-ideologico, <strong><strong>del</strong>la</strong> discrasia tra l’apparenza e la realtà dei fatti,<br />

dei pensieri e dei modi <strong>del</strong>l’essere. Si ve<strong>da</strong> una <strong>del</strong>le primissime lettere inviate <strong>da</strong><br />

Piran<strong>del</strong>lo ai genitori appena giunto a Roma:<br />

Qui, dove io affogo, è il mondo piccino, dove il fittizio predomina e strozza<br />

il naturale, dove tutto è legge, costume, uso, menzogna e ipocrisia, il mondo<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> canaglia onesta e dei galantuomini ladri. Io andrei con una scure in<br />

mano a rovinare quest’ultime rovine d’un’età gloriosa, che il tempo e gli uomini<br />

oltraggiano con la viltà d’oggi, che lungamente avrà un dimani; andrei<br />

a rovinarle, perché? Mi fanno più male in vederle ancora in piedi, che non mi<br />

facciano meraviglia e stupore. Questa <strong>terza</strong> Roma, è purtroppo bisantina! 3 .<br />

Il giovane studente universitario immigrato <strong>da</strong>lla Sicilia è pervaso <strong>da</strong> impetuoso<br />

sdegno morale e civile, già attraversato tuttavia <strong>da</strong> una vena disperante, come si evince<br />

<strong>da</strong>lla chiusa <strong><strong>del</strong>la</strong> lettera succitata, non a caso incentrata su un episodio di vita accademica<br />

poco noto sia nella biografia di Piran<strong>del</strong>lo che in quella, peraltro molto differente,<br />

di Antonio Labriola:<br />

1. Cfr. L.Piran<strong>del</strong>lo, Epistolario Familiare Giovanile 1886-1898, Firenze, Le Monnier, 1986,<br />

pp. 33-34 (d’ora in poi EFG con l’indicazione <strong><strong>del</strong>la</strong> pagina).<br />

2. L.Piran<strong>del</strong>lo, Suo Marito in L.P. Tutti i Romanzi, a cura e con introduzione di G.Macchia e<br />

con la collaborazione di M.Costanzo, volume primo, pp. 587-873, in part. p. 592.<br />

3. EFG, 20, <strong>del</strong> 27 novembre 1887.<br />

167


168<br />

All’università oggi grande dimostrazione di studenti: hanno fischiato un<br />

professore, Antonio Labriola, che jeri spingeva gli operai a insorgere. Molti<br />

e molti però lo hanno applaudito – si è fatto un baccano, un baccano indescrivibile:<br />

vi rimando al principio <strong>del</strong> canto terzo <strong>del</strong>l’Inferno <strong>da</strong>ntesco. Tra<br />

tanti fischi e tanti applausi distruggentisi per comporre un pandemonio, io ho<br />

riso, conservando il mio sangue freddo, oltre che per imposizione <strong>del</strong> medico,<br />

anche perché più che a rabbia mi moveva a pietà tutta quella gente ragionevole,<br />

che ragionava così malamente e in diverso modo, senza rispetto alcuno<br />

alle opinioni che possono benissimo esser contrarie, ma debbono discutersi<br />

sobriamente in un luogo, che almeno dovrebbe esser fatto per questo. Come<br />

andrà a finire? 4 .<br />

E’ pur sempre il giovane siciliano già orientato al pessimismo politico, alla convinta<br />

sfiducia nella finalità costruttiva <strong><strong>del</strong>la</strong> “politica” vista come inganno interpersonale e<br />

sociale e, infine, come “fango”. Si ricordi la lettera inviata ai genitori <strong>da</strong>l neo studente<br />

che descrive efficacemente la peripezia disforica di un curioso e <strong>da</strong>vvero implausibile<br />

candi<strong>da</strong>to palermitano: Menico La Licata.<br />

Costui, come Don Chisciotte, è un pazzo, e vorrebbe, nel suo intento, raddrizzare<br />

il mondo. E’ un povero venditore di uccelli e vive solo con l’uccellatura[…]<br />

Ora, <strong>da</strong> che han proposto la sua candi<strong>da</strong>tura, non si vede più nel suo<br />

posto di vendita[…] il disgraziato nutre cieca fiducia nei voti, che egli sogna,<br />

e non ha dubbio alcuno sulla sua elezione[…] L’altra sera l’han fatto parlare<br />

ai suoi elettori. Sa <strong>leggere</strong> a pena; se sappia scrivere non so. Ha i capelli e la<br />

barba, lunghi, gli occhi vitrei, come di pazzo, alto, bruno, portamento ardito;<br />

quel cappello a cencio tirato sugli occhi gli dà l’aria di un tribuno. Un tribuno<br />

che andrà a finire al manicomio[…] Oggi, domenica, giorno di elezione, io sto<br />

in casa. Mi annoja e mi rattrista questa bassa comedia di affaristi che venduto<br />

l’onore e la dignità, fan camorra e diguazzano nel fango e <strong>del</strong> fango si compiacciono<br />

e vi ingrassano! Buon per loro e per me, che posso fare il dottore 5 .<br />

Piran<strong>del</strong>lo non prende parte e partito, a Palermo come a Roma. La democrazia, si<br />

sa, diventerà per lui “tirannia mascherata <strong>da</strong> libertà”, come fa dire a Adriano Meis nel<br />

Fu Mattia Pascal e a Palermo come a Roma egli si erge al disopra <strong>del</strong>le parti e dei<br />

partiti per ridere e irridere, sia pure amaramente, le illusioni degli individui e <strong>del</strong>le<br />

masse: i primi interpretati come intraducibili maschere e le seconde sostanzialmente<br />

ridotte a generica e aggressiva ‘folla’; e tanta parte <strong><strong>del</strong>la</strong> Weltanschauung piran<strong>del</strong>liana<br />

è geneticamente rintracciabile in queste immagini e in queste vicende trascritte nel<br />

testo epistolare giovanile 6 .<br />

Ma, tornando al “tumulto”, Piran<strong>del</strong>lo trascrive quasi fe<strong>del</strong>mente le scene descritte<br />

4. EFG, 34.<br />

5. EFG, 6.<br />

6. Cfr. per il riscontro <strong>del</strong> Fu Mattia Pascal L.P., Tutti i Romanzi, volume primo, cit., p. 448. Di<br />

particolare rilievo appare, sempre più, la ricerca di E.Providenti, Piran<strong>del</strong>lo impolitico in “Belfagor”,<br />

rispettivamente a. LII, n. 309, fasc. III, pp. 253-273; a. LIII, n.317, fasc. V, pp. 253-273 e


nella lettera <strong>del</strong> febbraio 1889 nell’esordio <strong>del</strong> romanzo Suo Marito. E, di contro alla<br />

testimonianza soggettiva e quasi personale <strong><strong>del</strong>la</strong> lettera giovanile, nel romanzo <strong>del</strong><br />

1906 è uno dei personaggi secon<strong>da</strong>ri, il sofisticato letterato Raceni, che compie controvoglia<br />

e, soprattutto, costretto <strong>da</strong> ineludibili cirscostanze, la peripezia attraverso la<br />

“dimostrazione”. Nella folla in tumulto, narra Piran<strong>del</strong>lo, <strong>Atti</strong>lio Raceni rimane infine<br />

“ soffocato, pesto, boccheggiante come un pesce” 7 .<br />

Ma è interessante notare lo svolgimento parossistico <strong><strong>del</strong>la</strong> vicen<strong>da</strong>:<br />

Un clamor confuso, lontano, un corri corri di gente verso Piazza Venezia[…]<br />

Ciarifanno. <strong>Atti</strong>lio Raceni si voltò a guar<strong>da</strong>rlo come per compassione.<br />

– Dimostrazione? E perché?...Lo spazzino osservò: - Hanno sciorto er comizzio…<br />

- E vogliono far la festa ai vetri, - aggiunse l’altro. – Sente? Sente?<br />

Un turbine di fischi si levò <strong>da</strong>lla prossima piazza e, subito dopo, un urlìo che<br />

arrivò al cielo.<br />

Il tumulto vi doveva essere grande. – C’è er cordone, nun se passaa[…]<br />

<strong>Atti</strong>lio Raceni s’avviò di fretta, contrariato[…] Ora ci voleva anche la canaglia<br />

che reclamava per le vie di Roma qualche nuovo diritto[…] Innanzi a<br />

piazza Venezia il volto d’<strong>Atti</strong>lio Raceni si allungò come se un filo interno gliel’avesse<br />

a un tratto tirato. Lo spettacolo violento gli riempì la vista e lo tenne<br />

lì un pezzo a bocca aperta, sopraffatto e compreso. La piazza rigurgitava di<br />

popolo. I cordoni dei sol<strong>da</strong>ti erano all’imboccatura di via <strong>del</strong> Plebiscito e <strong>del</strong><br />

Corso […] Nel dispetto rabbioso contro tutta quella feccia <strong>del</strong>l’umanità che<br />

non voleva starsi quieta, sorse improvvisamente ad <strong>Atti</strong>lio Raceni il proposito<br />

disperato d’attraversare a furia di gomiti la piazza. Pè pè pèèèè. La tromba.<br />

Il primo squillo. Scompiglio, serra serra: molti sospinti <strong>da</strong>lla piena nel forte<br />

<strong>del</strong> tumulto, volevan sguizzare e bàttersela, ma non potevano far altro che<br />

divincolarsi rabbiosamente, presi com’erano, pigiati e incalzati tutt’intorno <strong>da</strong><br />

altri a ridosso, mentre i più facinorosi, concitando, volevano rompere la calca,<br />

o meglio, cacciarsela <strong>da</strong>vanti, tra fischi e urli più tempestosi di prima 8 .<br />

“Sospinti <strong>da</strong>lla piena nel forte <strong>del</strong> tumulto”: l’immagine, che, pure, registra, come<br />

si è già anticipato, un’esperienza di vita vissuta <strong>del</strong>l’autore Piran<strong>del</strong>lo, trasferita nel<br />

personaggio <strong>del</strong> romanzo, è tuttavia letteralmente ripresa, nei sintagmi espressivi, <strong>da</strong>i<br />

Promessi sposi di Alessandro Manzoni 9 . Infatti, nel capitolo XI, la narrazione mette a<br />

fuoco la peripezia di Renzo che, dopo essere arrivato a <strong>Milano</strong> e dopo aver trascurato<br />

il consiglio <strong>del</strong> frate portinaio <strong>del</strong> convento di attendere in chiesa con la sua preziosa<br />

“pressante” missiva, guar<strong>da</strong> “verso l’interno <strong><strong>del</strong>la</strong> città, dove il brulichìo era più folto<br />

e più rumoroso” (p. 236). Manzoni sottolinea, con una prima e già icastica metafora<br />

incentrata sui movimenti scomposti <strong>del</strong>l’acqua, che “il vortice attrasse lo spettatore”.<br />

Poi, nel successivo capitolo XII, “Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se<br />

a. LIV, n. 319, fasc. I, pp. 25-45; ora in Elio Providenti, Piran<strong>del</strong>lo impolitico (<strong>da</strong>l radicalismo<br />

al fascismo), Roma, Salerno, 2000.<br />

7. Cfr. Suo Marito, cit., p. 594.<br />

8. Suo Marito, cit., p. 593.<br />

9. Cfr., d’ora in poi, con l’indicazione <strong><strong>del</strong>la</strong> pagina nel testo, A.Manzoni, I Promessi Sposi, a<br />

cura di S.S.Nigro, vol. II, tomo II, <strong>Milano</strong>, “Meridiani” Mon<strong>da</strong>dori, 2002.<br />

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