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Genepesca - Giacomo Bezzi

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1<br />

GIACOMO BEZZI<br />

GUIDA RAPIDA DELLA COSTA ETRUSCA<br />

(un viaggio ideale da Cecina a Tirrenia<br />

con visita della città di Livorno)


INDICE DEI CAPITOLI DELLA<br />

GUIDA RAPIDA DELLA COSTA ETRUSCA<br />

DA CECINA A TIRRENIA<br />

CON VISITA ALLA CITTÀ’ DI LIVORNO<br />

UNO SGUARDO D’INSIEME A TANTI PERCHÉ<br />

*******************************************<br />

1 LE VIE D’ACCESSO AUTOSTRADALI, QUELLE FERROVIARIE...<br />

2 ...E LA REGINA DELLE STRADE:<br />

IL TRATTO PISANO...<br />

...E QUELLO CECINESE<br />

1° ITINERARIO CLASSICO<br />

3 CECINA: DALLA PRIVATA LUXURIA ALLA FERROVIA CHE NON C’E’ PIÙ’<br />

4 VADA: LE SECCHE E LA SABBIA BIANCA<br />

5 ROSIGNANO : FRA SODA CAUSTICA E CIMELI ETRUSCHI<br />

6 CASTIGLIONCELLO: DA LUOGO DI DELIZIE ELLENISTICHE A TERRITORIO PER<br />

VIP (O PRESUNTI TALI)<br />

7 QUERCIANELLA: UN CASTELLO PER IL MINISTRO DEGLI ESTERI<br />

8 SULLE RAMPE DEL ROMITO: INCONTRI RAVVICINATI<br />

9 UN PASSO INDIETRO: LA SCUOLA DI CASTIGLIONCELLO<br />

10 MONTENERO: DUE DIVI DELL’OPERA ED UN SANTUARIO PER TUTTA LA<br />

REGIONE<br />

11 UN PO’ DI SOCIOLOGIA: A LIVORNO TUTTO E’ GRANDE: VIE, PIAZZE, PALAZZI,<br />

TEATRI , CINEMA E SPAZI PORTUALI<br />

2


2° ITINERARIO CLASSICO<br />

12 UN LUNGOMARE SIGNORILE CON BARACCH(IN)E, RICORDI DI PITTORI,<br />

CAVALIERI E CALCIATORI<br />

13 L’ACCADEMIA NAVALE, UN AMMIRAGLIO TESTARDO ED UN LAZZARETTO CHE<br />

NON C’E’ PIÙ’<br />

3<br />

14 ALTRI LAZZARETTI, UNA FONTE DI ACQUA VIVA E LA VILLA DELL’AMMIRAGLIO<br />

15 I BAGNI DIPINTI DA FATTORI E LA TERRAZZA DEL MUSICISTA CONTESTATO<br />

16 LO SCOGLIO DELLA REGINA, I SOGNI TURISTICI E LA REALTÀ’ SUGLI SCALI<br />

DEL CANTIERE NAVALE<br />

17 TRE EMBLEMI DELLA LIVORNESITA’: IL FOSSO REALE, I QUATTRO MORI E LE<br />

FONTANE DEL TACCA<br />

18 LA FORTEZZA VECCHIA: DA FORTILIZIO PISANO A PALCOSCENICO PER BALLETTI<br />

19 UN’ALTRA GRANDE FORTEZZA, LA NUOVA VENEZIA E LA CITTÀ’ MULTIETNICA<br />

20 TRE CHIESE PER TRE RITI, UNA REPUBBLICA DIMENTICATA, IL MERCATINO DEI<br />

SURPLUS ED UN MASCAGNI PRODUTTORE DI MOTOCICLETTE<br />

21 PIAZZA DECHIRICHIANA, TRE MONUMENTI A DUE GRANDUCHI, CISTERNINI E<br />

CISTERNONI<br />

22 IL LEONE DI SAN MARCO IN DIFESA DELLA REPUBBLICA, UNA SCISSIONE<br />

FAMOSA<br />

APPENDICE<br />

ED UN CANALE (TEORICAMENTE) NAVIGABILE<br />

23 LA CITTÀ’ MULTIETNICA A TAVOLA: DA UNA ZUPPA TURCA A UN CAZZOTTO<br />

INGLESE ED AL PARMIGIANO SUL NERO DI SEPPIA<br />

ELOGIO DEL CACCIUCCO, DEL PONCE E DEGLI ALTRI PIATTI DI LIVORNO<br />

24 SOPPRESSATE GIGANTESCHE E LA EX NUORA DELLA REGINA P.R.-WOMAN DEL<br />

SASSICAIA


ELOGIO DEL CINGHIALE E DEI VINI<br />

4<br />

ELOGIO DELL’OLIVA E DEL SUO OLIO<br />

L’AUTORE SENTE IL DOVERE DI RINGRAZIARE :<br />

• il Consorzio Tirreno Promo Tour - Cècina<br />

• la Coop. Caesar - Cècina<br />

• l’APT di Livorno e Costa degli Etruschi - Livorno<br />

• 30 Giorni, rivista mensile - Livorno<br />

• l’Agenda di Livorno millenovecentonovantanove, Giuliani Comm. Ed.-Livorno<br />

• Slow-Food ed. - Bra-CN<br />

• Aldo Santini<br />

• la Guida Turistica d’Italia, Ist. Geogr. De Agostini - Novara<br />

• Il Sommelier, rivista bimestrale della FISAR - Pisa<br />

• Tribuna Economica, notiziario mensile della CCIAA - Livorno


UNO SGUARDO D’INSIEME A TANTI PERCHÉ<br />

1 LE VIE DI ACCESSO AUTOSTRADALI...<br />

*************************************<br />

5<br />

er chi vuol recarsi a Livorno per - ad esempio - un imbarco sui traghetti per la Sardegna, la<br />

P<br />

Corsica o le Isole dell’Arcipelago Toscano, le vie autostradali da percorrere sono per<br />

sommi capi le seguenti:<br />

• se<br />

proviene dall’area fiorentina - e, conseguentemente, da quella bolognese o dal resto<br />

d’Italia toccato dall’Autostrada del Sole - deve percorrere l’autostrada A11 fino a Pisa<br />

Nord, innestarsi sulla A12 Genova-Rosignano e proseguire verso sud fino alla sua u-<br />

scita di Livorno;<br />

• se proviene, invece, dalla Versilia - e, conseguentemente, dall’area spezzina e dalle direttrici<br />

che proprio in quell’area provengono da Genova e da Parma - deve percorrere la A12 in dire-<br />

zione sud, uscendo al solito svincolo di Livorno;<br />

• se, infine , proviene da sud, e cioè dalla Maremma o più semplicemente da Cucina, deve per-<br />

correre all’incontrario la tratta Rosignano-Livorno della A12. Il percorso è breve e l’autostrada,<br />

poiché attraversa terreni che una volta erano fètide paludi ed acquitrini melmosi, poggia tutto su<br />

piloni.<br />

La spesa di costruzione di tutti quei piloni fu immensa e, per ammortizzarla, si pensò bene d'appli-<br />

care tariffe robuste. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la tratta autostradale Rosignano-Pisa (o vi-<br />

ceversa) dalla A12 è la più cara d’Italia e forse d’Europa, ed è evitata con cura dagli automobilisti<br />

incalliti e dai camionisti e, quindi, non è molto trafficata.<br />

Sennò, c’è sempre l’alternativa delle superstrade e delle vecchie quanto gloriose strade nazionali.<br />

Fra le prime, merita un cenno particolare, per chi proviene dall’area fiorentina di cui so pra,la


6<br />

* superstrada Firenze-Livorno (con diramazione per Pisa all’altezza di Pontedera, dove la FI-LI<br />

fa una grande ipsilon): non è mai stata un capolavoro di ingegneria e chiunque può constatarlo per<br />

i continui sobbalzi cui viene assoggettato soprattutto nella sua parte mediana, nel samminiatese<br />

ove sta per finire il Valdarno Inferiore ed inizia la Piana di Pisa.<br />

Per chi proviene da quella cecinese, c’è, invece,<br />

* il raddoppio della strada statale n° 1 Aurelia, chiamato tout-court La Variante: opera pubblica<br />

agognata per decenni e dall’appellativo talmente accattivante da dar nome persino ad una tratto-<br />

ria.<br />

Nasce nel Grossetano ma manca ancora- come nel tratto di Quercianella, alle porte di Livorno -<br />

di alcuni spezzoni per essere del tutto percorribile: anche in questo caso, ci sono dubbi in fatto di<br />

ingegneria stradale, ma è già molto che il raddoppio ci sia, con grande gaudio di camionisti e di<br />

automobilisti incalliti.<br />

.... QUELLE FERROVIARIE,<br />

***********************<br />

E’ ovvio che a Livorno si può arrivare anche comodamente in treno, dal momento che la città è si-<br />

tuata sulla linea Torino-Genova-Pisa-Roma e vi fermano tutti i treni, pendolini ed Eurostar com-<br />

presi.<br />

La stazione centrale di Livorno - ci sono anche altre stazioncine periferiche: alcune sono scali-<br />

merci in funzione del porto, altre (come Ardenza ed Antignano) sono per passeggeri ma hanno<br />

quasi con funzioni balneari - è gigantesca ed ha un atrio che la fa assomigliare un po’ a quella di<br />

Genova-Brignole. La facciata, poi, sembra a prima vista copiata da quella di Torino-Porta Nuova.<br />

Essendo una stazione di puro transito, non ha derivazioni: ma i cambi sono abbastanza frequenti e<br />

garantiti a Pisa, da dove si può agevolmente raggiungere o provenire da e per:


* Firenze-Bologna-Milano (o Bari) o Firenze-Arezzo-Roma, oppure da e per<br />

* Lucca-Pistoia-Prato o Aulla-via Garfagnana<br />

7<br />

Sulla linea inversa, e cioè verso Roma, ci si può fermare a Grosseto e di qui prendere le linee che,<br />

attraverso l’Alta Maremma e l’Amiatino, raggiungere Siena con vista sulle Crete, ora tanto di<br />

moda. Ma attenzione: la linea è a binario unico, e i treni sono tutti locali e perdipiù a nafta.<br />

L’unico difetto della stazione di Livorno-Centrale è nel fatto che essa è molto periferica (è quasi in<br />

campagna per cui ha una bella vista su orti rachitici e canneti) rispetto al centro commerciale della<br />

città, al Porto Mediceo ed alla Stazione Marittima.<br />

Il complesso è databile agli anni Venti e, forse, era destinato a far da fulcro allo sviluppo turistico-<br />

ambientale di una Livorno che sognava di conquistare la palma di Perla del Tirreno non ancora<br />

detenuta da Viareggio.<br />

Infatti erano i tempi degli annulli postali “Visitate l’Italia” ed una forma seppur primordiale di tu-<br />

rismo si stava affacciando. Il neonato Ente del Turismo di Livorno fece addirittura stampare dei<br />

manifesti nei quali si elencavano le attrattive turistiche della città che poteva offrire bagni di scoglio<br />

e di sabbia, fonti termali calde e salutari, alberghi confortevoli, escursioni in campagna, gite in bat-<br />

tello e via elencando.<br />

Ma era un sogno che rimase nel cassetto, perché poi venne il secondo conflitto mondiale e la città<br />

fu rasa al suolo dai bombardamenti alleati. Il dopoguerra fece il resto e la città puntò tutto, dopo la<br />

ricostruzione, su di un’industrializzazione in parte forzata.<br />

Il quartiere della stazione divenne, allora, sempre più periferico e circondato da rioni anonimi di<br />

case popolari, e di palazzine tutt’altro che capolavori di architettura.<br />

Uno stabilimento di acque termali - la Montecatini sul mare, diceva la pubblicità che allora si<br />

chiamava réclame - situato a fianco al suo corpo centrale della stazione chiuse i battenti.


8<br />

I collegamenti degli autobus urbani Stazione-Centro o Porto sono abbastanza frequenti durante il<br />

giorno (e per di più feriale): molto scarsi per non dir inesistenti, dopocena, la domenica e gli altri<br />

giorni comandati. Meno male che ci sono i tassì.<br />

2 ... E LA REGINA DELLE STRADE<br />

*******************************<br />

er i romantici ed ai nostalgici delle strade statali, invece, rimane pur sempre valido il per-<br />

P<br />

corso delle vecchia Strada Statale n°1 Aurelia che qualcuno chiamò, con non poca enfasi,<br />

la Regina delle Strade.<br />

Nasce a Roma come tutte le altre vie consolari e ha un andamento quasi parallelo alla costa<br />

tirrenica. Conduceva - e conduce tuttora - oltre Ventimiglia nel Midi della Francia, verso<br />

quella Provenza la cui etimologia è elementare: quella regione del sud della Gallia era una<br />

delle province dell’Impero ed è ricca tuttora dei segni lasciati dalla colonizzazione romana.<br />

Nel tratto toscano che conduce a Livorno, l’Aurelia ha tratti paesaggistici spettacolari alternati da<br />

altri insignificanti.<br />

IL TRATTO PISANO...<br />

Provenendo da Pisa, ad esempio, attraversa una pianura piatta che non presenterebbe al turista at-<br />

tento nessun elemento di curiosità se non vi fosse la presenza di due località che ebbero il loro mo-<br />

mento di triste notorietà alla fine del secondo conflitto mondiale.<br />

Prima, sulla sinistra di chi viaggia verso Livorno,<br />

• Coltano, dove, per un paio d’anni e dopo la fine delle ostilità, fu gestito dagli Alleati un gran-<br />

de campo di concentramento ove furono imprigionati sia i soldati della RSI sia i collaboratori di<br />

quell’ultimo disperato momento della storia del partito fascista: l’ospite più celebre di Coltano


9<br />

fu certamente Ezra Pound, ma c’è chi giura di avervi conosciuto Enrico Ameri, Giorgio Al-<br />

bertazzi e Walter Annichiàrico, che, pochi anni dopo, sarebbe divenuto Walter Chiari.<br />

Poi, poco oltre, sulla destra,<br />

• Tòmbolo, che fu, sì, un grande deposito di materiale bellico e di generi di conforto (sigarette,<br />

soprattutto) della Quinta Armata americana e della sua famosa 92ma divisione Buffalo - quella<br />

tutta di neri che sfondò nell’aprile del ‘45 la Linea Gotica ed arrivò fino a Genova - ma anche il<br />

ricettacolo di ogni nefandezza e di ogni vergogna. Fu persino tema (“Tòmbolo”, appunto, con<br />

Aldo Fabrizi) o sfondo (“Senza pietà” con Carla Del Poggio) di due pellicole neorealiste del<br />

‘46-47 che qualcuno avrà rivisto con curiosità perché riproposte anni fa sia dalla tivù nazionale<br />

sia da alcune emittenti private.<br />

Dei due affairs si parla ancora, nel pisano e nel livornese: ma sottovoce e con pudicizia..<br />

Oggi, a Coltano, che fu una grandissima tenuta agricola dei Medici, poi dei Lorena, del Demanio<br />

dello Stato unitario ed infine dell’Associazione Nazionale Combattenti, e dove Guglielmo Mar-<br />

coni installò un suo centro radio le cui antenne sono riprodotte sui biglietti da 2000 lire, si fa<br />

dell’agriturismo e vi sono delle colture sperimentali per la produzione biologica e biodinamica.<br />

Tòmbolo è, invece, da quel lontano 1944, una enclave americana chiamata Camp Darby: è circon-<br />

data da barriere di filo spinato e da molto mistero.<br />

Ambedue le località sono incluse nell’immenso territorio del Parco Naturale di San Rossore-<br />

Migliarino e Massaciuccoli, che si estende dalle porte di Livorno a quelle di Viareggio: compren-<br />

de di tutto, dalle grandi tenute agricole alle pinete litoranee, da un ippodromo all’unico lago della<br />

Toscana ove aleggia ancora lo spirito di <strong>Giacomo</strong> Puccini.<br />

L’attuale tracciato Pisa-Livorno dell’Aurelia è degli anni ‘30-40 di questo secolo: il vecchio per-<br />

corso, invece, è stato retrocesso al rango di strade provinciali che si chiamano Via Livornese, a Pi-<br />

sa, e, ovviamente, Via Pisana, a Livorno.


10<br />

Poco oltre Coltano e Tòmbolo, una zona dominata da una grande raffineria e da altri impianti della<br />

petrolchimica, ha un topònimo che la dice lunga su quella che doveva essere la salubrità del luogo:<br />

la zona si chiama, infatti, Stagno e non vi è alcun riferimento all’omonimo metallo.<br />

Infatti la parola stagno significa anche pozzanghera, acquitrino: acqua stagnante, in poche parole<br />

con conseguente malaria e tutte le complicazioni del caso.<br />

La grande raffineria dii cui si parla ora è di proprietà di una dei tanti bracci secolari dell’ENI, ma,<br />

in origine, era quella che oggi si direbbe una joint-venture tra la Montecatini, che ebbe come fon-<br />

datore il livornese Guido Donegani,e l’ANIC, acrostico di Azienda Nazionale Idrogenazione Car-<br />

buranti. Infatti, quest’ultima - forse una derivazione dell’AGIP ante-Mattei - avrebbe dovuto, at-<br />

traverso la sua tecnologia, raffinare scisti bituminosi, ligniti, rocce asfaltiche, petrolio greggio ru-<br />

meno, messicano ed albanese per dare a un paese stretto nelle gabbie delle sanzioni economiche i<br />

prodotti energetici di cui necessitava. Era il 1937; tre anni dopo, la raffineria di Stagno andò in ce-<br />

nere sotto i bombardamenti aereonavali britannici.<br />

Poi la ricostruzione, il subentro dell’americana Esso alla Montecatini, l’abbandono anche della Es-<br />

so fino ai nostri giorni.<br />

Un’alternativa all’Aurelia è una strada nazionale che i vecchi pisani, e non solo essi, chiamano la<br />

Via di Marina (sottinteso: di Pisa).<br />

All’inizio è un lungarno e, poi, un lungomare.<br />

Inizia da un incrocio sull’Aurelia a pochi metri dalla riva sinistra dell’Arno nella zona popolare di<br />

Porta a Mare dominata dal grande stabilimento della Saint-Gobain. Prosegue fino a Bocca<br />

d’Arno - e cioè alla foce del fiume - sotto una ininterrotta galleria di platani.<br />

Il viaggio è reso ancor più suggestivo dal fatto che, a metà di questo che è un vero e proprio<br />

lungarno, una breve deviazione sulla sinistra porta alla Basilica di San Piero a Grado, uno dei<br />

monumenti romanici più belli e meno conosciuti della Toscana e, per conseguenza, dell’Italia inte-<br />

ra. La tradizione vuole che la grande basilica sia stata costruita nel luogo ove San Pietro, giunto


11<br />

da Roma per catechizzare la gente della Tuscia settentrio nale, era sbarcato dopo aver risalito<br />

l’Arno. La Basilica di San Piero a Grado ha l’aspetto di una grande nave a secco di pietra verru-<br />

cana ed ha il particolare di avere due absidi e di non aver portale. Da non perdere.<br />

La strada, poi, giunta a Bocca d’Arno dove il fiume si getta nel Tirreno, fa una grande curva verso<br />

sud, per attraversare l’abitato di Marina di Pisa, cittadina costruita un po’ cerebralmente alla fine<br />

del secolo scorso per assecondare la voglia di bagni di mare della popolazione di Pisa.<br />

Prosegue in litoranea fino a Tirrenia - altra cittadina artificiosa nata sulla fine degli anni trenta sotto<br />

forma di città-giardino com’era di moda all’epoca e, per miracolo, rimasta tale - e la sorpassa.<br />

Dopo pinete ombrose e ruderi di vecchie colonie marine dell’Opera Balilla, la strada, infine, arriva<br />

nella zona industriale di Livorno fra depositi petroliferi costieri, docks, grandi stabilimenti chimi-<br />

ci, e canali di bonifica.<br />

...E QUELLO CECINESE<br />

Provenendo da Cècina, invece, dopo aver attraversato una zona ancora un po’ campagnola - ma do-<br />

ve sono insediate da decenni alcune importanti realtà della cantieristica italiana minore - l’Aurelia<br />

corre diritta come un fuso.<br />

Alla destra di chi corre verso Livorno appaiono in secondo piano alcune azzurre colline che ospita-<br />

no alcuni minuscoli paesi appartenenti amministrativamente alla provincia di Pisa. Sono<br />

nell’ordine:<br />

• Guardistallo,<br />

• Montescudaio e<br />

• Riparbella.<br />

Non direbbero nulla a nessuno, se nel secondo di essi non esistesse una produzione vinicola che og-<br />

gi si chiama di nicchia e che è molto considerata negli ambienti ultrasofisticati dell’enologia.


12<br />

Nel piccolo comune di Montescudaio si producono, infatti, tre vini a d.o.c. con una prevalenza di<br />

un rosso d’alto bordo. La produzione non è a livello industriale, ma è conosciuta nei locali di classe<br />

che ostentano cappelli e forchette varie e che, quindi, sono da affrontare con una buona dose di viri-<br />

lità.<br />

ITINERARIO CLASSICO<br />

3 CECINA DALLA PRIVATA LUXURIA ALLA FERROVIA CHE NON C’E’ PIÙ’<br />

***********************************************************************<br />

C are.<br />

ècina non ha alcunché che ne mostri un passato glorioso: è una cittadina ricostruita<br />

dopo le devastazioni del secondo conflitto mondiale ed è stata abitata fino ad un mez-<br />

zo secolo fa da una popolazione totalmente dedita all’agricoltura.<br />

Poi ha scoperto il m<br />

La sua Marina, le sue spiagge e le sue pinete, dopo essere state per decenni luogo di<br />

villeggiature familiari - perché la più a buon mercato della costa - di intere generazio-<br />

ni di fiorentini, di pisani e di livornesi, sono divenute col tempo tutto un campeggio.<br />

Poi, dopo i campeggi, si sono fatti avanti i villaggi turistici, i résidences e tutto quanto fa turismo<br />

balneare e Torre di Babele.<br />

Ma Cècina non ha mancato, in questi ultimi anni, di ricordarsi che, sulle colline alle spalle di quel-<br />

la zona paludosa finita di bonificare negli anni trenta del Novecento, avevano vissuto gli Etruschi.<br />

ed i Romani.<br />

Ha attrezzato un piccolo museo archeologico nella villa “La Cinquantina” che, dopo essere stata<br />

adibita a ricovero di coloni mandati colà a dissodare terreni fino a qualche anno prima paludosi,<br />

fu proprietà nientemeno che di Francesco Domenico Guerrazzi, che vi morì nel 1873.<br />

Il prolifico letterato e drammaturgo livornese, patriota e triumviro dei moti antilorenesi, l’aveva<br />

acquistata per farvi il suo buen-retiro estivo; eravamo in pieno periodo romanticod il fatto che il


13<br />

Guerrazzi avesse scelto quella zona di malaria, di miseria e di morte per le sue vacanze, fece<br />

colpo negli ambienti letterari dell’Italia appena unificata.<br />

La villa si trova nel bel mezzo della campagna, poco dopo l’abitato di San Piero in Palazzi che<br />

è la frazione di Cècina più settentrionale, andando verso Livorno. Dall’Aurelia bastano pochi chi-<br />

lometri in direzione-mare, e la villa appare col suo parco ombroso di al- beri ad alto fusto.<br />

Oggi la Cinquantina ospita, oltre al museino archeologico di cui sopra, anche un museo ru-<br />

rale - o di contadinerie - ove sono raccolti attrezzi e utensili adoperati dai poveri cristi che colo-<br />

nizzarono questo tratto di Maremma Toscana. Attiguo alle due zone museali, c’è anche un<br />

piccolo ristorante che serve piatti e prodotti tipici, nonché una piccola enoteca con assaggio di<br />

vini locali: servono per attirare verso la cultura bagnanti, turisti e campeggiatori all’insegna<br />

del prendeteli-per-la-gola.<br />

Cècina è alla foce del fiume omonimo che nasce dalle falde dei monti di Volterra, città dalla quale<br />

proveniva una famiglia agiata di origine etrusca che aveva latinizzato in Caecina il suo vero nome<br />

che era Ceikna.<br />

Quasi a metà strada tra la cittadina ed il mare, in località San Vincenzino e poco lontano da<br />

un vecchio zuccherificio, si credette di aver trovato la villa che fu di Albino Cècina, il patrizio<br />

che vi aveva residenza e che diede nome a tutta la zona.<br />

Non solo, ma gli antichi portolani indicavano proprio quel luogo, non lontano né dal mare né<br />

dalla foce del fiume Cècina, come Albini villa.<br />

La villa effettivamente era esistita, tant’è vero che se n’era parlato in diverse occasioni nel cor-<br />

so dei secoli. Fu solo nel Settecento che si capì che un piccolo poggio - poco più che una gobbetta<br />

della piatta campagna cecinese - doveva essere stato il luogo ove sorgeva la villa patrizia, da do-<br />

ve i suoi abitanti potevano guardare verso il mare che arrivava a lambirla. Si capì anche che, in<br />

epoca imperiale, la villa attribuita ad Albino Cècina doveva essere un grande complesso a metà<br />

strada tra il centro di una grossa tenuta agricola ed un luogo di delizie quasi di fronte al Tirreno.


14<br />

Gli scavi per l’individuazione certa della serie di edifici furono, nel corso dei due secoli suc-<br />

cessivi, piuttosto discontinui: solo in questi ultimi decenni, però, i lavori sono stati condotti in ma-<br />

niera sistematica e tutta la zona è divenuta un parco archeologico destinato alla fruizione di<br />

tutti.<br />

Allora, si scoprirà che la villa romana di San Vincenzino aveva giardini ed orti, cisterne per<br />

l’acqua piovana ed un efficientissimo sistema di riscaldamento, bagni e terme a volon tà: il tutto<br />

ricoperto di decorazioni raffinate. Mosaici, dipinti, sculture e bassorilievi. Una privata luxuria, per<br />

dirla con Cicerone.<br />

La valle del fiume Cècina (o Valdicècina) è un territorio molto esteso, amministrativamente e-<br />

quamente diviso tra le province di Livorno e di Pisa. Proprio la sua estensione fece, nel secolo<br />

scorso, un piccolo miracolo: la valle interna fu collegata a Cècina, che è sulla Torino-Roma, da un<br />

braccio ferroviario che congiunge tuttora la cittadina con Saline di Volterra . Qui da sempre si sca-<br />

va il salgemma che il Monopolio di Stato impacchettava per la distribuzione su tutto il territorio<br />

nazionale come sale da cucina.<br />

La stazione di Saline era, a sua volta, collegata con la sovrastante Volterra con un curioso quanto<br />

efficiente braccio ferroviario a cremagliera per il servizio-passeggeri che fu sempre abbastanza con-<br />

siderevole, anche se tutt’altro che allegro.<br />

Infatti la ferrovia a cremagliera serviva soprattutto a chi, da tutta l’Italia, doveva recarsi in quella<br />

città per visitare o parenti malati di mente od altri congiunti ergastolani.<br />

Volterra è stata, infatti, fino a qualche anno fa, la sede di uno degli ospedali psichiatrici più grandi<br />

d’Italia e mentre vi è tuttora, nella sua maestosa Fortezza Medicea, un carcere di massima sicurez-<br />

za con tanto di 41\bis.<br />

Il tronco ferroviario a cremagliera Saline-Volterra fu inaugurato nel 1912 con tre bande musicali<br />

ed un telegramma - risultato poi fasullo - di Gabriele D’Annunzio che a Volterra aveva soggior-<br />

nato per scrivere il suo “Forse che sì, forse che “ e che aveva definito di vento e di macigno<br />

quella città. E non aveva tutti i torti.


15<br />

l tronco a cremagliera, però, durò poco: una quarantina d’anni appena, prima di essere dismesso e<br />

poi demolito.<br />

Il fattaccio avvenne negli anni ‘50, quando si avvicinava l’èra del consumismo ed era meglio far<br />

fuori tutto quello che poteva sapere di antico, di stantìo e di sabaudo. Fu così che si perpetrò un<br />

orrendo delitto contro il turismo perché oggi il treno a cremagliera Sali ne-Volterra e viceversa<br />

sarebbe una attrazione non da poco: sarebbe oggetto di culto fra i non pochi amanti di storia delle<br />

comunicazioni in genere e delle ferrovie in particolare e attirerebbe con corse speciali scolaresche<br />

di mezza Europa, giapponesi attoniti e turisti di tutto il mondo.<br />

La storia della demolizione anni cinquanta della ferrovia a cremagliera Saline-Volterra è per cer-<br />

ti versi molto simile a quello che avvenne, qualche anno dopo, sull’Appennino Pistoiese, ove, a fu-<br />

ror di popolo, fu demolita la FAP (Ferrovia Alto Pistoiese) che con- giungeva la stazione<br />

FF.SS. di Pracchia, sulla linea Pistoia-Bologna detta Porrettana, a Mammiano, oltre San Marcel-<br />

lo: aveva la colpa di aver troppi passaggi a livello.<br />

Anche tra Pisa e Livorno un’altra ferrovia - ma questa volta turistico-balneare - fu demolita negli<br />

anni ‘60: quella che oggi ancora molti nostalgici ricordano come il Trammino e che collegava Pi-<br />

sa a Livorno via Bocca d’Arno, la sua Marina e quella che sarebbe poi divenuta Tirrenia.<br />

Da Pisa il Trammino partiva da Piazza Sant’Antonio, da dove oggi partono gli autobus per<br />

tutta la provincia pisana; a Livorno la sua stazione terminale era alla Barriera Margherita, pro-<br />

prio davanti all’Accademia Navale.<br />

Tanto per rimanere in Toscana, furono anche demolite, sempre negli stessi anni, la Pisa-<br />

Pontedera, la Pontedera-Lucca, e, perché no?, la ferrovia Carrara-Fantiscritti detta più sempli-<br />

cemente la Marmifera perché serviva essenzialmente al trasporto dei blocchi di marmo.<br />

Ma chissà quante altre ferrovie sono state in quegli anni demolite: ci sarà qualcuno che saprà tene-<br />

re questo conto?


16<br />

4 VADA: LE SECCHE E LA SABBIA BIANCA<br />

****************************************<br />

oco oltre Cècina e la sua Marina, altre spiagge.<br />

P<br />

Come<br />

quelle di Vada dalla sabbia sbiancata dagli scarichi a mare degli stabilimenti della<br />

Solvay.<br />

Nulla di pericoloso; anzi: una curiosità, dal momento che sul Tirreno spiagge<br />

bianche<br />

non ce ne sono mai state dalle ère geologiche in poi.<br />

Cosa molto importante per gli sportivi, invece, è il fatto che, nel mare davanti a questo pa-<br />

ese, una serie di secche - o bassi fondali - note appunto come Secche di Vada, siano fra i<br />

luoghi più pescosi di tutto il Mediterraneo.<br />

Sono a circa quattro miglia marine dalla costa ed in passato erano il terrore dei naviganti; oggi sono<br />

il paradiso dei pescatori subacquei che arrivano qui in ogni stagione dell’anno con le pinne, il fucile<br />

e gli occhiali.<br />

Che fossero luogo di naufragi d’altri tempi è testimoniato dal fatto che innumerevoli relitti di navi<br />

dell’epoca ellenistica e romana furono trovati in zona; spesso avevano a bordo carichi di anfore o-<br />

nerarie per il trasporto di olio, vino o di granaglie<br />

In epoche più recenti fecero naufragio alle Secche di Vada<br />

• il Tabarka, grosso mezzo da sbarco della Regia Marina che, proprio qui, urtò contro una mina<br />

vagante ed<br />

• il famoso <strong>Genepesca</strong>, grande nave frigorifera di ottanta metri che apparteneva all’omonima so-<br />

cietà peschereccia livornese.<br />

In tempi di autarchia, la <strong>Genepesca</strong> era il massimo nell’approvvigionamento ittico in Italia: poi tut-<br />

to cambiò ed ora ci pensano russi e giapponesi a rifornire di merluzzo il peschereccio dei Bastonci-<br />

ni Findus.


17<br />

Qualche chilometro prima di Vada, nella già citata frazione cecinese di San Piero in Palazzi, av-<br />

venne, verso la fine degli anni Cinquanta, una piccola rivoluzione industrale: due ex studenti<br />

d’ingegneria non ancora trentenni ed appassionati di mare diedero vita ad un cantiere navale.<br />

Nulla di eccezionale, se si pensa che eravamo ai primi saloni nautici di Genova, con tutto<br />

l’entusiasmo che ne seguì, in pieno miracolo economico italiano.<br />

Lo strano, invece, è che nel cecinese di cantieristica navale nessuno aveva mai sentito parlare: forse<br />

qualche maestro d’ascia aveva costruito qualche barcone nel secolo scorso. Ma qui si trattava non<br />

più di barche di legno, ma di panfili in vetroresina.<br />

E, poi, Cècina non era né Viareggio né Rapallo, col loro contorno di gente se non proprio ricca,<br />

almeno facoltosa: era appena uscita dalla sua antica fame di paese ai limiti della malaria e non di-<br />

sponeva neanche di qualche attracco come si deve, se non di una specie di porto-canale alla foce del<br />

fiume che prende il suo nome.<br />

I due studenti - ambedue, come si suol dire, di buona famiglia - si diedero da fare e vararono le pri-<br />

me barche da diporto che andarono a ruba.<br />

Poi, anche barche da lavoro, pescherecci e perfino motoscafi veloci per la Marina Militare.<br />

I soci, come sempre accade, un giorno si divisero: ognuno prese la propria strada, ed i cantieri di-<br />

vennero due.<br />

Oggi i cantieri navali del cecinese sono più di una ventina.<br />

Anche nei pressi di Vada, a San Gaetano, sono stati scoperti, durante campagne di scavo durate va-<br />

ri decenni e spesso interrotte, i resti di un complesso che comprendeva spaziosi magazzini, forse un<br />

mercato e due edifici adibiti in epoca romana a bagni pubblici.<br />

Le costruzioni dovevano far parte di un abitato romano che sorgeva sul mare fra la seconda me-<br />

tà del primo secolo ed il sesto d.C. e che doveva chiamarsi Vada Volaterrana, a dimostra-<br />

zione che l’influsso della città etrusca era ancora importante.<br />

Nei pressi, inoltre, doveva esserci un porto, od almeno un luogo atto agli attracchi, che gli ar-<br />

cheologi hanno ubicato nell’area che oggi è occupata dal pontile della Solvay.


I magazzini (od horrea) sono grandi vani rettangolari, hanno il pavimento in argilla e furono<br />

18<br />

senz’altro utilizzati per attività artigianali e commerciali.<br />

Confinanti con questa specie di ipermercato, gli edifici termali destinati ad attività igieniche e ri-<br />

creative.<br />

Il complesso nascondeva però altri piccoli segreti: si pensi che tutto fa credere che fosse sta-<br />

to costruito su un precedente insediamento etrusco, poiché sono state trovate tracce di capanne<br />

che i nostri enigmatici antenati usavano già nei secoli ottavo e settimo a.C. come postazioni<br />

di caccia o di pesca.<br />

Gli oggetti d’uso quotidiano che furono trovati fra i ruderi, sono gelosamente conservati nel Museo<br />

Archeologico di Rosignano Marittimo, al quale ci si può rivolgere, durante l’estate, per delle vi-<br />

site guidate.<br />

5 ROSIGNANO: TRA SODA CAUSTICA E CIMELI ETRUSCHI<br />

**********************************************************<br />

’Aurelia prosegue toccando Rosignano Solvay, un’appendice industriale del comune di<br />

L<br />

Rosignano Marittimo, dominata da un gigantesco stabilimento chimico tutto tubazioni e<br />

ciminiere sbuffanti di proprietà della Solvay. E’ questa una multinazionale belga che qui<br />

mise radici nei primi del secolo, cominciando con la produzione del bicarbonato di sodio,<br />

ma che oggi è la più grande produttrice italiana di soda caustica, prodotto base per tutta<br />

l’industria chimica nazionale.<br />

L’insediamento del grande stabilimento iniziò, infatti, nel 1914 e da allora il paese è la<br />

frazione più attiva del comune. 16.000 abitanti, oggi, contro gli zero di una ottantina d’anni fa,<br />

quando questo territorio della pianura costiera, altro non era che una landa desertica della Marem-<br />

ma Settentrio-nale.


In seguito la Solvay iniziò anche la costruzione dei villaggi per i propri dipendenti, sullo stile di<br />

19<br />

quanto avrebbero fatto, in seguito, a Pontedera la Piaggio ed a Pisa la Saint-Gobain, tanto per ci-<br />

tare gli interventi urbanistici di questo tipo più famosi in Toscana.<br />

Si trattò della costruzione dal nulla di una vera e propria città-giardino - della quale restano a te-<br />

stimonianza le larghe zone a verde e le case unifamiliari - dal momento che, in Europa, stava preva-<br />

lendo questo concetto di città ideale per i lavoratori.<br />

La Solvay appartiene a quella triade di industrie francòfone che, in Toscana, fecero fortuna e,<br />

senza le quali, parlar di industrializzazione nella regione è alquanto azzardato.<br />

Le altre due erano:<br />

* la Larderel, che, prima, sfruttò i soffioni boraciferi dell’Alta Valdicècina per la produzione<br />

di acido borico e derivati e, poi, produsse la prima energia elettrica di origine geotermica, ali-<br />

mentando delle turbine con la forza che scaturiva dalle viscere della terra. Diede anche nome<br />

ad un paese, Larderello, che oggi è abitato quasi esclusivamente da impiegati e pensionati<br />

dell’ENEL che ha fagocitato a suo tempo tutto quello che fu dei Larderel e delle varie società e-<br />

lettriche che seguirono. Il paese è famoso fra tutte le scolaresche d’Italia che vi sono trasci-<br />

nate a forza dagli insegnanti di scienze che vogliono farle assistere allo spettacolo dei soffio-<br />

ni in quella che alcuni chiamano un po’ enfati ca- mente La Valle dell’Inferno; da non<br />

perdere da parte dei fotografi, data la spettaco- larità del paesaggio industriale; e, poi<br />

* la Saint-Gobain che, a Pisa, nel rione di Porta a Mare ed ad un passo dal Canale di Na-<br />

vicelli, produsse i vetri piani per le finestre di quasi tutta l’Italia, prima di mettersi a produrre<br />

cristalli di sicurezza per auto ed, ora, vetri blindati per la difesa contro gli assalti della cri-<br />

minalità.<br />

Alle spalle di Rosignano Solvay, su un piccolo colle, sorge il capoluogo del comune: Rosignano<br />

Marittimo. Una deviazione è consigliabile, perché il paese è bello, in posizione amena e con pano-<br />

rama su tutta la costa.


20<br />

E’ sede municipale di un comune molto esteso che comprende, come si vedrà, anche località di alto<br />

livello: prende nome anch’esso da dei patrizi di campagna di origine etrusca: i Rosini.<br />

Alcuni eruditi parlano, invece, di Rasinii.<br />

Erano, come i loro affini Caecina già citati, dei ricchi possidenti con fattorie molto estese e centi-<br />

naia di schiavi al loro servizio. Lasciarono, tutti quanti, tracce che - passati i secoli bui, il Rinasci-<br />

mento portato dai conquistatori fiorentini, ed i secoli della Decadenza - vennero riscoperte e valo-<br />

rizzate nel secolo scorso ed in quello che sta per terminare. Tant’è vero che Rosignano Marittimo è<br />

sede di un piccolo ma succulento museo archeologico che ha sede in uno dei palazzi costruiti duran-<br />

te il periodo granducale.<br />

Il museo archeologico di Rosignano Marittimo, allestito nelle sale del Palazzo Bombardieri che è<br />

sito nel cuore del paese, custodisce reperti provenienti un po’ da tutto il territorio comunale, ed in<br />

particolare modo dagli scavi di San Gaetano di Vada e di Castiglioncello.<br />

E’ stato voluto nel 1957 da un gruppo di archeologi locali, ed ospita via via anche mostre di altri<br />

reperti provenienti da altri territori poco lontani ma ricchi di un passato etrusco-romano a dir poco<br />

affascinante: questi territori erano chiamati Agri Volaterrani e Pisani e corrispondevano grosso-<br />

modo all’attuale pianura costiera ed al promontorio dell’attuale Castiglioncello.<br />

Il nerbo dell’esposizione di Palazzo Bombardieri è costituito dai corredi della necropoli di<br />

quest’ultima località, che assommava a ben trecento tombe di varia epoca: da quella etrusca a quella<br />

ellenistico-romana: un arco di sette-otto secoli.<br />

Un’urna etrusca d’alabastro alla moda volterrana aveva custodito, due secoli prima di Cristo, le ce-<br />

neri di Velia Cerinei, forse una signora della nobiltà rurale della costa o della nuova società di ar-<br />

ricchiti che abitava il promontorio e ne aveva fatto luogo di delizie.<br />

Si trattava, in genere, di gente di origine etrusca che - fino a qualche generazione prima - non aveva<br />

nulla di nobile: anzi.


21<br />

Ma era gente ricca; che si era fatta tutta da sola coi commerci che si svolgevano nel porticciolo sot-<br />

tostante e che aveva mercanteggiato coi fenici ed altri nomadi del mare: conosceva a memoria il<br />

detto latino secondo il quale il denaro non puzza (pecunia non olet) e si era fatta costruire ville con<br />

giardino, aveva tradotto i cognomi etruschi (forse impronunziabili) in latino: quella che i milanesi<br />

chiamano bonariamente la dané-society.<br />

Tutta questa gente della borghesia oriunda etrusca, poi, una volta morta, era stata onorata dai paren-<br />

ti e dai discendenti con tombe ricche ed eleganti.<br />

Il primo archeologo di Castiglioncello fu, intorno al 1870, quel Diego Martelli politico e mecenate<br />

fiorentino, amico ed anfitrione dei pittori della Macchia e proprietario della tenuta che aveva come<br />

suo punto focale la zona ove è adesso il Castello Pasquini, e sotto la quale furono trovate le prime<br />

tombe. La sua opera fu proseguita una trentina d’anni dopo, agli inizi del ‘900, da Luigi Adriano<br />

Milani, che ricopriva la carica di soprintendente agli scavi ed ai musei archeologici dell’Etruria e di<br />

direttore del Museo Archeologico di Firenze.<br />

Il buon Milani volle, inoltre, che a Castiglioncello venisse allestito un museino con tutte le cose ri-<br />

trovate sotto il promontorio, e così fu fino al 1973, quando tutto fu trasferito a Firenze.<br />

Gli ultimi ritrovamenti risalgono a due o tre anni fa, quando furono ripresi gli scavi dopo anni di o-<br />

blio.<br />

Il Museo di Palazzo Bombardieri ospita anche<br />

• anfore ed orci provenienti da ritrovamenti subacquei alle Secche di Vada, e<br />

• altri oggetti d’uso quotidiano ritrovati in una necropoli più recente (V secolo d.C.) che trovata<br />

sotto il cuore di Rosignano, ed infine<br />

• numerosi reperti d’epoca medioevale e rinascimentale recuperati durante il restauro del Castello.<br />

Durante il Rinascimento si trasferì a Rosignano - che non si chiamava ancora Marittimo - una<br />

piccola colonia di abitanti di Montelupo Fiorentino, quel paese del Valdarno Inferiore che è fa-


22<br />

moso per essere di fronte a Capraia (“da Montelupo si vede Capraia, Dio li fa e poi li appaia”: è<br />

un detto popolare toscano che più o meno tutti conoscono).<br />

Su ordine dei Medici che a Rosignano, agli estremi confini settentrionali della malarica Marem-<br />

ma, avevano una delle loro più grandi tenute agricole - e dove anche Lorenzo il Magnifico si recò<br />

più volte per delle battute di caccia nel vicino padule di Vada - la colonia montelupina aprì alcune<br />

fornaci per la produzione di stoviglie ed altri manufatti in terracotta di uso quotidiano che, fino ad<br />

allora, erano importati da zone lontane.<br />

Un’operazione analoga, sempre nello stesso periodo storico e sempre con gente di Montelupo, fu<br />

fatta in un’altra zona toscana diametralmente opposta: nel Mugello, ove la famiglia Medici, che<br />

era di origini mugellane, aveva un’altra grande tenuta, a Cafaggiòlo.<br />

Montagne di cocci, rottami delle lavorazioni dei montelupini, sono state trovate sotterrate o sul<br />

fondo di pozzi alla maniera di Montelupo, in varie zone sia a Rosignano sia nel Mugello.<br />

Rosignano è detto Marittimo, ma non è sul mare: sembra un nonsenso, ma è proprio così.<br />

Ma se scorrerete la toponomastica di questa parte della Toscana litoranea, troverete numerose loca-<br />

lità che si definiscono marittime e che, invece, sono lontane dal mare parecchi chilometri: come<br />

• Campiglia Marittima,<br />

• Monteverdi Marittimo, e<br />

• Casale Marittimo.<br />

Proprio a Casale Marittimo, che è alle falde dei monti di Volterra, in un podere immerso in<br />

una campagna pressoché spopolata, si aveva da secoli la percezione che vi avessero abitato e<br />

sepolto i loro morti i nostri enigmatici padri etruschi.<br />

Era vero, perché già nell’Ottocento fu trovata una tomba a cumulo che fu smontata e porta ta al<br />

Museo Archeologico di Firenze ed ivi, seguendo la moda dell’epoca, ricostruita e ri montata in<br />

un giardino.


23<br />

Ma altri scavi seguirono nel tempo, e si scoprì che il luogo custodiva altre tombe etrusche. Fu-<br />

rono amorevolmente portati alla luce molti reperti che fecero dedurre agli studiosi che la ci-<br />

viltà etrusca di Casale Marittimo aveva delle strane quanto affascinanti affinità con altre civiltà<br />

del Mediterraneo Orientale, tant’è vero che si parla di una cultura orientalizzante.<br />

Questo nel linguaggio degli archeologi: ma, allora, che rapporti c’erano fragli Etruschi che vive-<br />

vano sulle colline della Maremma Toscana - e non erano navigatori -ed i popoli dell’Asia Mino-<br />

re?<br />

I reperti etruschi di Casale Marittimo - alcuni dei quali di rara bellezza - sono custoditi ora<br />

al piano superiore del museo archeologico della Villa Guerrazzi o della Cinquantina di Cècina:<br />

ci sono corredi funebri maschili e femminili, armi, oggetti di devozione e piccole cose di uso<br />

quotidiano, nonché due splendide sculture raffiguranti due personaggi forse<br />

altolocati perché dotati di cinturoni molto decorati.<br />

Rosignano prese l’appellativo di Marittimo nel 1862, perché c’è anche un Rosignano Monferrato,<br />

in provincia di Alessandria che proprio sul mare non è: ma gli altri paesi, perché sono marittimi ?<br />

Sempre all’interno, si trovano tre paesini che ricordano anch’essi qualcosa:<br />

* Castelnuovo Misericordia, che deve il suo appellativo al fatto di essere stato nel Me-<br />

dioevo al centro di ricchi possedimenti della Misericordia di Pisa, fondata da Giorda- no da Ri-<br />

valto, santo frate del Duecento ed inventore degli occhiali da naso e per questo citato da Umberto<br />

Eco nel suo “Il nome della rosa”; poi<br />

* Nibbiaia, tutta circondata da una folta macchia mediterranea e campo-base per e-<br />

scursioni nell’entroterra: è particolarmente cara ai naturalisti, perché è ricca di molte spe-<br />

cie botaniche come il leccio, il lentisco, l’erica e la ginestra. Infine,<br />

* Gabbro, che prende nome dal tipo di macigno su cui sorge, e dove passò gli ultimi anni di<br />

fervida vita artistica Silvestro Lega, uno dei massimi esponenti della corrente pittorica dei<br />

Macchiaioli. Particolare frivolo: a Gabbro è nata Nada.


24<br />

Durante la torrida estate del 1530, partì da Rosignano una colonna di volontari che, attraversata<br />

tutta la Valdicècina, si congiunse nei pressi di Volterra con l’esercito raccogliticcio di Francesco<br />

Ferrucci che era asserragliato in quella città; i rosignanesi vollero così dimostrare la loro fedeltà<br />

alla Repubblica Fiorentina della quale il Ferrucci era il massimo comandante militare, e della<br />

quale il loro paese era una delle ultime colonie meridionali dopo la caduta definitiva della Re-<br />

pubblica di Pisa.<br />

Non solo: ma la colonna dei rosignanesi seguì l’esercito fiorentino - quando le truppe di Ferrucci<br />

ebbero lasciato Volterra dopo una sortita temeraria dalle sue mura - fino all’Appennino Pistoiese,<br />

con una marcia forzata durata parecchi giorni. Era una disgresssione pensata ed attuata dal generale<br />

fiorentino e tendente a raggiungere alle spalle passando da Pistoia e Prato, Firenze che era asse-<br />

diata dagli spagnoli assoldati dai Medici cacciati dalla città.<br />

Ma la mossa strategica del Ferrucci non ebbe successo: le sue truppe furono inseguite e raggiunte<br />

dagli spagnoli comandati dal napoletano Fabrizio Maramaldo (o Marramao?) nei pressi<br />

dell’attuale San Marcello e furono sterminate col suo comandante, pochi chilometri oltre, a Gavi-<br />

nana.<br />

Nessuno dei rosignanesi sopravvisse.<br />

Sopravvive, invece, il ricordo di quel tragico fatto militare in una celebrazione che si tiene a Gavi-<br />

nana ogni anno d’estate, ed alla quale partecipa anche una delegazione di Rosignano Marittimo.<br />

A Rosignano ebbe i natali Pietro Gori, scrittore ed agitatore anarchico dei primi del secolo.<br />

Fu anche poeta e paroliere: suoi sono i versi di “Addio Lugano bella”, inno - fino a qualche decen-<br />

nio fa - dell’anarchismo italiano.<br />

Evocava un congresso che avrebbe dovuto aver luogo in terreno neutrale, in Canton Ticino, se gli<br />

anarchici non fossero stati ricacciati oltrefrontiera, in territorio dell’odiato Regno d’Italia, da quella<br />

che immediatamente fu bollata come una repubblica borghese.


6 CASTIGLIONCELLO: DA LUOGO DI DELIZIE ELLENISTICHE A TERRITORIO<br />

PER VIP (O PRESUNTI TALI)<br />

25<br />

*****************************************************************************<br />

olo pochi chilometri, ed ecco il piccolo promontorio di Castiglioncello, la frazione più no-<br />

S bile di Rosignano Marittimo, comune che, dopo l’unità d’Italia, era stato in provincia di<br />

Pisa, per poi passare dopo una specie di referendum, a quella di Livorno, istituita molto<br />

tempo dopo.<br />

A qualcuno Castiglioncello e le sue scogliere evocheranno senz’altro nomi di attori e di<br />

altri artisti romani che qui si insediarono negli anni sessanta, e che portarono a Castiglion-<br />

cello una ventata di dolce vita. Iniziò Marcello Mastroianni, seguito da Paolo Panelli e sua mo-<br />

glie (fiorentina) Bice Valori: anche Alberto Sordi vi ebbe residenza per qualche tempo.<br />

Ma, molto prima di loro, negli anni venti, aveva scelto come luogo di vacanza al mare - su queste<br />

scogliere profumate di salmastro e di ragia di pino - un’altra genìa di artisti: la famiglia degli Spa-<br />

dolini (il padre illustratore famoso di libri per ragazzi, ed i figli: lo scrittore e l’architetto) che si<br />

trasferiva qui ogni estate dalla sua Firenze.<br />

E prima ancora, alla metà del secolo scorso, vi aveva dimora Diego Martelli che ospitava nella sua<br />

grande fattoria tra il mare e le colline, quei pittori che avrebbero formato la Scuola di Castiglion-<br />

cello:<br />

Loro capo riconosciuto era Giovanni Fattori e qui lo avevano seguito Telèmaco Signorini, Raffa-<br />

ello Sernesi e tanti altri che avevano battagliato a Firenze contro la banalità dell’accademismo po-<br />

strisorgimentale e dipingevano a macchia. Se ne parlerà più diffusamente più oltre.<br />

Sul promontorio di Castiglioncello, proprio ove era il fulcro della fattoria di Diego Martelli, sorse<br />

alla fine del secolo scorso il Castello Pasquini.


26<br />

Prende nome dalla famiglia che volle quella costruzione in stile neogotico, che, oggi, è un centro<br />

polivalente di spettacoli musicali e coreografici, mostre d’arte a volte anche di alto livello, conve-<br />

gni scientifici, rappresentazioni teatrali, e quant’altro può attirare un pubblico sempre più esigente e<br />

colto.<br />

Il Castello Pasquini è anche la sede del Premio Castiglioncello, uno dei più importati premi ita-<br />

liani per la saggistica, che ha - curiosamente - anche una sezione dedicata alla letteratura turistica.<br />

Fregiarsi del titolo di vincitore di una delle sezioni del Premio Castiglioncello è onore e vanto di<br />

pochi saggisti italiani e di pochi e rari editori.<br />

La maggior fortuna turistico-mondana di Castiglioncello avvenne, però, nell’epoca a cavallo delle<br />

due guerre mondiali, perché proprio su questo piccolo promontorio si erano dati via via appunta-<br />

mento<br />

• Luigi Pirandello con Marta Abba,<br />

• le sorelle Gramatica, e tutta una serie di intellettuali, come<br />

• Massimo Bontempelli,<br />

• Ugo Ojetti ed<br />

• Emilio Cecchi, e con lui sua figlia<br />

• Suso e suo genero<br />

• Fedele d’Amico.<br />

A Castiglioncello ha resistito all’usura del tempo una Torre Medicea, fatta costruire dalla Signoria<br />

fiorentina nel XVI secolo sotto Cosimo I, a difesa della zona dalle incursioni piratesche saracene<br />

che, fino all’Ottocento, erano molto frequenti su tutto il litorale tirrenico.<br />

E’ gemella a quella di Calafuria che, però, è meno rimaneggiata.<br />

A fianco della Torre di Castiglioncello, esisteva anche una caserma per la guarnigione fiorentina,<br />

andata perduta a seguito ai vari rimaneggiamenti subìti dal promontorio durante i secoli.


27<br />

Durante i lavori per queste difese costiere rinascimentali andarono perduti, per esempio, pa-<br />

recchi ruderi che agli ingegneri fiorentini ed alle loro manovalanze interessavano ben poco.<br />

Erano i resti delle ville romane che sovrastavano un porto di epoca ellenistica; il tutto sorto su<br />

antichi insediamenti etruschi, ed erano la dimostrazione che il promontorio già nell’antichità era<br />

un luogo di delizie.<br />

Altri resti delle antiche civiltà furono trovati durante gli scavi per la costruzione della linea fer-<br />

roviaria: ma eravamo già nell’Ottocento e la coscienza archeologica si stava già affacciando, sep-<br />

pur pittorescamente, sul panorama culturale dell’Italietta dell’epoca.<br />

Fino a che non si occuparono della cosa prima i già citati Diego Martelli e Luigi Adriano Milani.<br />

Scavi ancora più recenti hanno portato alla luce molte altre tracce di queste tre civiltà sovrappo-<br />

stesi (l’etrusca, l’ellenistica e la romana): si possono ammirare presso il già citato Museo Archeo-<br />

logico di Rosignano Marittimo.<br />

A Castiglioncello esiste, come a Capri, una piazzetta: non è celebre come quella dell’isola<br />

dell’amore, ma via via è frequentata, durante l’estate, da personaggi vip o che si considerano tali.<br />

7 QUERCIANELLA: UN CASTELLO PER IL MINISTRO DEGLI ESTERI<br />

****************************************************************<br />

’Aurelia prosegue sbirciante, ma con un percorso affascinante quasi a picco sul mare, ver-<br />

L<br />

so Quercianella, ultima propaggine meridionale del comune di Livorno, del quale è una<br />

frazione a metà strada tra l’elegante ed il balneare.<br />

Ci sono bagni di scoglio, piccoli approdi per la nautica minore ed una pittoresca insenatu-<br />

ra alla foce del torrente Chioma, un fiumaccio che proviene dall’entroterra.<br />

Tutta questa zona tranquilla e molto borghesemente godereccia entrò repentina-<br />

mente nella cronaca (nera) italiana di qualche estate fa perché fu scenario di un incen-<br />

dio pauroso e di proporzioni gigantesche; mandò in fumo e cenere, in giorni e giorni di fiam-<br />

me e colonne di fumo nerastro, intere pinete e buona parte della macchia mediterranea.


28<br />

Furono impiegati, per lo spegnimento dell’incendio, quasi tutti i vigili del fuoco della Toscana e<br />

delle regioni circonvicine, un esercito di volontari di tutte le pubbliche assistenze e di tutte le Mise-<br />

ricordie del circondario, nonché alcuni reparti di paracadutisti dellaFolgore di stanza a Livorno<br />

ed a Pisa.<br />

Per qualche anno fu desolazione e morte, ma chi passa oggi da queste parti per la prima volta non<br />

si accorge di nulla: ad eccezione dei pini dei quali sono rimasti i fusti scheletriti (il pino, come tutte<br />

le resinose non ricresce dopo che è bruciato) tutta la macchia mediterranea è risorta ed è oggi di<br />

nuovo verdeggiante con i suoi cespugli di corbézzolo, i suoi lecci, il suo lentisco e, a giugno, le im-<br />

provvise esplosioni gialle della ginestra.<br />

Anche Quercianella ha il suo bel castello che è a picco sul mare. Fu, prima, un fortilizio fiorentino<br />

a difesa della costa, e, poi, residenza della famiglia Sonnino..<br />

Faceva parte di questa famiglia di ricchi possidenti pisani di origine ebraica Sidney Sonnino, par-<br />

lamentare ed uomo politico della belle-époque. E’ rimasto nella storia d’Italia per essere stato mini-<br />

stro degli esteri quando l’Italia dichiarò guerra, nel 1915, agli Imperi Centrali: quella Grande<br />

Guerra che il vecchio e mite papa genovese Benedetto XV definì un’inutile strage.<br />

La sua città natale, Pisa, ha dedicato a Sidney Sonnino un lungarno: quello dove c’è l’ex conven-<br />

to delle Benedettine, ora elegante centro convegni della locale Cassa di Risparmio.<br />

La stazioncina ferroviaria di Quercianella si chiamava fino a qualche anno fa Quercianella-<br />

Sonnino: seguendo la moda imperante negli anni ‘20-30, era stato aggiunto il cognome della casa-<br />

ta-genius-loci al toponimo originario che sembrava un po’ banale: un’operazione tipo Torre del<br />

Lago-Puccini o Castagneto-Carducci insomma.<br />

8 SULLE RAMPE DEL ROMITO: INCONTRI RAVVICINATI<br />

*****************************************************


29<br />

Da Quercianella in poi, l’Aurelia corre verso Livorno quasi a piombo sul mare: è la zo-<br />

na meglio conosciuta come Il Romito. Nessuno, oggi, ricorda che il luogo si chiama così<br />

perché vi abitavano nei secoli bui alcuni eremiti; come accadde anche a Firenze ed a<br />

Pontedera ove due rioni si chiamano anch’essi Romito.<br />

Oggi Il Romito è subito Il Sorpasso, ed è vero.<br />

Proprio su queste curve Vittorio Gassmann e Jean-Louis Trintignant, giovani ed<br />

aitanti come due dèi greci, furono, nel celebre film bianco-e-nero degli anni ‘60, gli eroi<br />

spensierati di un’epoca che forse non tornerà mai più, col suo twist, le sue alfette, le sue ragazze<br />

con la coda di cavallo.<br />

E non solo: poco più oltre, c’è la Calafuria, località che ricorderà a qualche signore di mezz’età un<br />

altro film italiano degli anni ‘40, con Carlo Ninchi che faceva il camionista.<br />

Senz’altro la zona è estremamente pittoresca e ricorda di tanti altri cinematografari, pittori e letterati<br />

che vi si sono ispirati o che, livornesi di nascita o di adozione, al Romito almeno un bagno l’hanno<br />

fatto.<br />

Per esempio:<br />

• nella torre di Calafuria ha studio Alberto Fremura, vignettista, disegnatore umoristico ed illu-<br />

stratore fra i migliori d’Europa in questo momento.<br />

Ma nopn solo: il Romito è un nome che è caro a tutti gli sportivi italiani<br />

Era, ed è tuttora, il percorso di allenamento di quella miriade di corridori ciclisti toscani che hanno<br />

affollato, da quando esiste questo sport a livello professionsitico, le pagine dei quotidiani sportivi e<br />

non.<br />

• Gino Bartali, sopra tutti, poi<br />

• il povero Gastone Nencini,<br />

• Fiorenzo Magni,<br />

• i fratelli Maggini, e


30<br />

• Franco Bitossi Cuorematto, tanto per citare i più famosi.<br />

Ma, prima di loro, anche<br />

• Bini, Bizzi e Di Paco (anni quaranta), e quel bravo passista di Sesto Fiorentino che risponde al<br />

nome di<br />

• Alfredo Martini (anni cinquanta): sì, proprio lui. E, cioè, colui che è stato il commisssario tec-<br />

nico della nazionale dei professionisti per la bellezza di ventitré anni.<br />

Allora le citazioni si accavallano e ne viene fuori un affresco di personaggi illustri e non:<br />

Fra i pittori,<br />

• Giovanni Fattori, già citato come caposcuola dei Macchiaioli ottocenteschi, e<br />

• Amedeo Modigliani, il pittore maledetto del ‘900 morto a Parigi (abbreviato all’uso francese, il<br />

suo cognome suonava Modì, che si può scrivere anche Maudit: maledetto, appunto; se ne parle-<br />

rà a lungo nel capitolo dedicato al Fosso Reale),<br />

• e tutta la serie infinita dei postmacchiaioli: Bartolena, Natali, i tre Tommasi, Benvenuti,<br />

Cappiello, Fanelli, Ghiglia, Kienerk, Liegi, Lloyd, Lori, Muller, Nomellini, Pagni, Puccini,<br />

Sforni, Torchi, che fu seguita dai pittori del Gruppo Labronico - esistente tuttora - di Romiti e<br />

Natali.<br />

E, poi ?<br />

Alla rinfusa:<br />

• Pietro Mascagni, musicista noto ai più solo per la Cavalleria Rusticana, ma invece anche auto-<br />

re di tante opere sperimentali come l’Iris, ed addirittura di operette come ‘Sì’ Recentemente ri-<br />

pescata dal dimenticatoio;<br />

• Francesco Domenico Guerrazzi, già citato, patriota e fecondo autore di romanzi storici e di<br />

drammoni che oggi nessuno recita più, come quello che aveva come sfondo un uxoricidio<br />

d’onore realmente avvenuto alla corte dei Medici, nella villa di Cerreto Guidi;


31<br />

• Ranieri de’ Calzabigi , che fu il librettista nientemeno che dell’Orfeo ed Euridice di Willi-<br />

bald Christoph Gluck, l’iniziatore del melodramma moderno,<br />

e, per rimanere nel colto, quel<br />

• Giovanni De Gamerra, che firmò, per la ripresa di Dresda del 1794 (tre anni dopo la morte tut-<br />

tora misteriosa del compositore), la traduzione italiana del libretto originale de Il Flauto Magico<br />

di W. A. Mozart. Per il Salisburghese aveva già scritto anche il libretto del Silla.<br />

E’ noto ai musicofili per alcune sue stramberie: scrisse i novantamila versi del poema satirico<br />

Corneide e, particolare macabro, conservò per più di vent’anni in casa sua la salma di sua mo-<br />

glie: si suppone che fosse mummificata.<br />

E, poi,<br />

• Galliano Masini, tenore lirico ed idolo delle folle degli anni Quaranta.<br />

Senza tenere in conto che al livornese Teatro Goldoni<br />

• Enrico Caruso conobbe quella che sarebbe divenuta sua moglie: la soprano fiorentina Ada Gia-<br />

chetti.<br />

Anche il Capo della Comunità Ebraica in Italia,<br />

• il Rabbino Elio Toaff, è livornese e fu, in gioventù, prima delle Leggi Razziali, l’ultimo allievo<br />

del Collegio Rabbinico Livornese, retto allora da suo padre Alfredo.<br />

Quest’ultimo, a sua volta, era uomo di grande cultura ed ebbe fra i suoi insegnanti Giovanni<br />

Pascoli e quel Rabbino Benamozegh al quale è intitolata l’attuale piazza della sinagoga.<br />

A Livorno, poi, è gloria cittadina uno dei due quotidiani toscani: nato da un’idea di un garibaldino,<br />

si chiamò per quasi un secolo “Il Telegrafo”. Oggi si chiama “Il Tirreno”, esce in formato tabloid<br />

ed è diretto da una signora bionda.<br />

Sia il vecchio Telegrafo che il nuovo Tirreno sono stati per anni palestra di penne divenute poi<br />

molto autorevoli, ed i giornalisti che vi hanno fatto gavetta non si contano più: molti, addirittura,<br />

sono assurti alla gloria televisiva, come


• Antonio Foresi, della Tivù di Stato, celebre per le sue corrispondenze da Bruxelles,<br />

32<br />

• Gino Bacci di Tuttosport, ospite fisso fino a poco tempo fa dei vari processi di Aldo Biscardi,<br />

ed un altro famoso giornalista sportivo:<br />

• Ezio De Cesari, dalla voce tonante, che fu anche direttore del Corriere dello Sport-Stadio,<br />

scomparso nel ‘98 ed anche lui ospite per anni della popolare trasmissione televisiva; e, poi,<br />

• Vittorio Orefice, principe dei cronisti parlamentari e depositario di tutti i pettegolezzi della<br />

Roma dei Palazzi del Potere, che ci ha lasciato anche lui nel ‘98, e suo fratello<br />

• Gastone Ortona, indimenticato corrispondente RAI da Washington.<br />

Poi gli sportivi e, primo fra tutti,<br />

• Armando Picchi, il primo vero libero del calcio italiano, dell’Inter del Mago e la sua storica<br />

formazione:Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Sua-<br />

rez e Corso. Scomparso prematuramente, non fece a tempo a partecipare al campionato mondia-<br />

le del ‘70 in Messico, ma è rimasto nel cuore di tutti gli italiani. Livorno gli ha intitolato il suo<br />

glorioso stadio comunale; poi<br />

• Federico Caprilli, che, nella belle-époque, fu il caposcuola a Pinerolo della monta all’italiana<br />

ed anticipò di molti decenni i fasti dei fratelli D’Inzeo. Anche a lui la sua città ha dedicato un<br />

famoso impianto sportivo: l’ippodromo cittadino che sorge, come l’impianto calcistico di cui so-<br />

pra, nel rione dell’Ardenza in riva al Tirreno,<br />

• Nedo Nadi, il più grande fiorettista italiano di tutti i tempi, che, alle Olimpiadi degli anni venti,<br />

sbaragliò tutto il mondo schermistico allora conosciuto. E’ sepolto nel piccolo cimitero di Porto-<br />

fino a picco sul mare, e<br />

• i fratelli ed i cugini Montano, vera e propria dinastia di altri schermidori che sono ancora nella<br />

memoria collettiva degli italiani per le loro gesta alle Olimpiadi degli anni settanta.<br />

La finanza?


33<br />

Livorno e dintorni non hanno mai avuto fra i loro abitanti gente ricca a palate né genii della borsa.<br />

Invece, c’è sempre stato molto popolino e molta piccola borghesia: tutti nati e cresciuti sulle ban-<br />

chine del porto o nelle migliaia di negozi che si affacciano sulle strade della città.<br />

Ma un’eccezione c’è: ed è<br />

• Carlo Azeglio Ciampi, che avrebbe potuto fare l’ottico come tanti suoi consanguinei se non a-<br />

vesse fatto carriera nella Banca d’Italia fino a diventarne Governatore: direttore generale, cioè.<br />

Poi, gli incarichi politici, con la poltrona di primo ministro, ma per poco tempo: quanto gli è<br />

bastato per portar l’Italia in Europa. E, infine, la presidenza della Repubblica.<br />

La sua prima visita ufficiale ad una città d’Italia l’ha voluta fare alla sua Livorno e, par-<br />

lando a braccio ha detto di essere dispiaciuto di aver perduto l’accento livornese e il suo<br />

“caro e terribile dé’”<br />

Al che “Il vernacoliere”, mensile umoristico e beffardo, infarcito di battute da caserma ma<br />

unico superstite in Italia di questo genere di editoria, gli ribatteva: “Un bluffe. Perché non<br />

beve ponce, non dice parolacce, parla in punta di lingua. E quindi non è livornese.”<br />

C’è stato, però, un personaggio-simbolo di una certa Italia in via di sviluppo degli anni Trenta: quel<br />

• Guido Donegani, ingegnere e manager di portata europea che fece divenire la Montecatini da<br />

un’azienda mineraria qualunque (sfruttava le miniere di Montecatini Valdicècina, attuale pro-<br />

vincia di Pisa, verso il Volterrano) a quel mostro di potenza chimica che,dopo essere passata fra<br />

molte mani e divenire Montedison dopo la fusione con la Edison, fu catapultata sulle pagine<br />

della cronaca nera con l’affaire-Gardini e relativo suicidio ai tempi di Mani Pulite. A lui si de-<br />

ve, nella sua città natale, la creazione dell’attuale raffineria di Stagno - già citata - nata ai tempi<br />

dell’autarchia per produrre benzina dal petrolio greggio di pessima qualità che sgorgava da alcu-<br />

ni pozzi perforati in Albania l’anno prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale.<br />

Fu un’operazione finanziaria che piacque molto al regime dell’epoca.


34<br />

E la politica, allora ? Tanta, a parole, e forse troppa: ed un panorama popolato di personaggi nean-<br />

che di alto livello, se si eccettuano:<br />

• Costanzo Ciano, piccolo armatore, fegataccio da siluratore durante il primo conflitto mondiale e<br />

poi capo storico del fascismo livornese. Assurse alla carica di ministro dei trasporti durante il<br />

primo periodo del Ventennio e fu un infaticabile tagliatore di nastri e di posatore di prime pietre<br />

di opere del Regime. Soprattutto tronchi ferroviari nuovi e stazioni gigantesche, come quella del-<br />

la sua città. A Pisa c’è ancora qualche sopravvissuto dell’antifascismo che gli rimprovera il fatto<br />

di aver fatto traslocare da quella città a Livorno le officine delle FF.SS.;<br />

e suo figlio<br />

• Galeazzo, che, sposato con la primogenita di Benito Mussolini, fu ministro degli affari esteri<br />

durante il periodo del Patto di Monaco. Fu fucilato a Verona nel freddo autunno del ‘43 perché<br />

condannato per alto tradimento: aveva avuto la colpa di aver sottoscritto, il 25 Luglio preceden-<br />

te, l’ordine del giorno Grandi che decretò la caduta di suo suocero e di tutto il suo regime.<br />

Questo per quanto riguarda la destra; ma la sinistra ?<br />

Anche le pietre sanno che a Livorno, nel 1921, in clima di guerra civile strisciante, fu fondato<br />

• il Partito Comunista d’Italia. Ne era stato promotore un gruppo di dissidenti socialisti - allora<br />

chiamati massimalisti - che si ispiravano, più che al socialismo umanitario dei Turati e dei Tre-<br />

ves, al pragmatismo bolscevico dei Lenin e dei Trozkji. I loro capi erano Bordiga e Gramsci<br />

che, però, non erano affatto livornesi: uno era napoletano e l’altro sardo. Al secondo ogni città<br />

d’Italia ha dedicato una strada od una piazza: al primo, niente. Aveva avuto anche lui delle col-<br />

pe: la più grave quella aver capito, una decina d’anni dopo il congresso di Livorno, cosa stava<br />

succedendo in Russia e nel nascente impero sovietico.<br />

E il centro? Non ha dato molto, nell’ultimo secolo; forse solo


35<br />

• Gianfranco Merli, democristiano della Base e anonimo deputato per diverse legislature, che ha<br />

però legato il suo nome alla severa legge sullo smaltimento delle acque: la Legge Merli, appun-<br />

to.<br />

9 UN PASSO INDIETRO: LA SCUOLA DI CASTIGLIONCELLO<br />

********************************************************<br />

acciamo un passo indietro, proprio come nei romanzi d’appendice.<br />

F<br />

Torniamo<br />

quindi a Castiglioncello ed al suo Castello Pasquini.<br />

Qui, come già accennato più innanzi, esisteva nel secolo scorso, la villa di Diego Martelli,<br />

grande<br />

proprietario terriero, critico d’arte, collezionista, mercante d’arte e amico di alcuni<br />

Impressionisti francesi.<br />

Conosciuti nell’ambiente della scapigliatura fiorentina alcuni pittori che si batte-<br />

vano contro l’accademismo imperante, li aveva invitati più volte a soggiornare a<br />

Castiglioncelllo, ospitandoli presso la sua villa. I soggiorni erano abbastanza continuativi e<br />

lunghi.<br />

Il luogo era ameno, il clima più che favorevole, l’anfitrione sempre disponibile.<br />

Cosa di meglio, al posto delle fumose trattorie fiorentine e del clima non certo mediterraneo<br />

della città-capoluogo?<br />

Fu così che, capeggiata da Giovanni Fattori , si avvicendò nella villa Martelli gente che<br />

sarebbe presto passata alla storia dell’arte moderna italiana.<br />

Fattori era nato a Livorno e quindi conosceva bene le delizie della costa livornese: però<br />

era cresciuto artisticamente a Firenze nell’ambiente dell’Accademia di Belle Arti.<br />

Grande illustratore di battaglie risorgimentali - da poco si erano spente le èco della terza<br />

guerra d’Indipendenza - e grande acquafortista, entrò in forte polemica coi suoi colleghi<br />

perché cominciò a dipingere non solo in studio, ma anche all’aperto.


36<br />

Dipinse scene di vita quotidiana dei dintorni di Firenze in quadri di non grandi dimensioni,<br />

ove però l’elemento di maggior spicco non era né il soggetto né il suo ambiente, ma la luce.<br />

E per raggiungere l’effetto che si prefiggeva, dipingeva sciabolate di luce con pennellate<br />

larghe: quasi macchie di colore disteso alla buona.<br />

Così nacque alla chetichella, in una Firenze che non era ancora salita al rango di capitale<br />

d’Italia ma che viveva come sempre di ricordi, la scuola della Macchia. I suoi adepti fu-<br />

rono chiamati ironicamente Macchiaioli.<br />

Di Giovanni Fattori pittore sono noti anche al grande pubblico sia le grandi tele di bat-<br />

taglie risorgimentali e le opere di ambiente militare, sia quelle ispirate alla vita dei contadini e<br />

dei bùtteri della Maremma Toscana. Celebri nell’aneddotica fattoriana anche le sue tavolette -<br />

ora veri e propri pezzi da museo trattate dalle aste internazionali a prezzi da capogiro - ri-<br />

cavate da coperchi delle scatole dei suoi inseparabili sigari.<br />

Come incisore ed acquafortista ha lasciato centinaia di opere, quasi tutte ispirate ai temi<br />

dominanti della sua pittura: la vita militare e quella delle campagne..<br />

La sua città natale gli ha dedicato una strada anonima non lontana dalla stazione centrale ed il mu-<br />

seo civico, ove si trovano molte opere sue e dei suoi seguaci.<br />

Il Museo Fattori è ospitato da pochi anni nella splendida Villa Mimbelli, non lontana dall’Acca-<br />

demia Navale, che fu di proprietà di un ammiraglio della Regia Marina discendente di una ricca<br />

famiglia di origine dalmata.<br />

Precedentemente, aveva sede nella Villa Fabbricotti, che fu fatta costruire nell’attuale cuore di<br />

Livorno dall’omonima famiglia carrarese di magnati ottocenteschi del marmo.<br />

Agiato e senza eredi, l’Ammiraglio Mimbelli lasciò la villa - un piccolo capolavoro dello stile e-<br />

clettico - alla comunità. Dopo varie peripezie ed il rischio di venir distrutta dai bombardamenti alle-<br />

ati, dagli acquartieramenti dei vari eserciti di passaggio durante il secondo conflitto mondiale, pri-<br />

ma, e dagli sfollati, poi, Villa Mimbelli è stata riportata da pochi anni al suo antico splendore do-<br />

po un sapiente e costosissimo restauro.


37<br />

Reinaugurata nel 1994, ospita, oltre al Museo Fattori, mostre d’alto livello imperniate sulla rivalu-<br />

tazione della pittura italiana dell’Otto-Novecento.<br />

Giovanni Fattori ed i suoi seguaci, ospiti di Diego Martelli a Castiglioncello, crearono in quella<br />

villa sul mare un vero e proprio cenacolo ed il loro lavoro in comune fu un continuo fervore di<br />

scoperte e di iniziative.<br />

Era nata la Scuola di Castiglioncello.<br />

Qualche nome dei discepoli?<br />

Giuseppe Abbati,<br />

Vincenzo Cabianca,<br />

Giovanni Boldini,<br />

Nino Costa,<br />

Silvestro Lega, (già citato a proposito di Gabbro),<br />

Telèmaco Signorini,<br />

Federico Zandoméneghi,<br />

Raffaello Sernesi ed<br />

Odoardo Borrani.<br />

Questi ultimi due, poi, erano stati fino dal 1861 assidui frequentatori estivi dellaMontagna Pi-<br />

stoiese, ove dipinsero dal vero i pascoli e le campagne intorno a San Marcello. Di lì, trasmisero il<br />

fascino di quei monti e delle loro povere genti all’ambienteartistico fiorentino che viveva le sue<br />

battaglie verbali tra un ponce al Caffè Michelangelo ed una trippa da Gigi Porco, e non solo<br />

a quello.<br />

Insieme ad altri pittori macchiaioli, fra i quali<br />

* lo stesso Fattori la cui moglie era di quelle parti,<br />

* l’emiliano Giovanni Boldini che affrescò la villa di un inglese ed


38<br />

* il pugliese Giuseppe De Nittis che entusiasmò Adriano Cecioni, che della Macchia fu il teo-<br />

rico, diedero vita ad una corrente premacchiaiola che alcuni eruditi chiamarono poi Scuola di<br />

San Marcello.<br />

I loro furono i primi paesaggi dipinti all’aperto e dal vero in Italia nel secolo scorso, e ne rife-<br />

rì, sei anni dopo, Telèmaco Signorini sul Gazzettino delle Arti del Disegno che si pubblicava a Fi-<br />

renze. Ne dissertò anche e a lungo il già citato Adriano Cecioni.<br />

Poi venne Diego Martelli, la sua munificenza, la sua villa sul mare e la Scuola di Castiglioncello.<br />

Alcuni pittori della congrega si recarono a Parigi, forse attratti dalle frequentazioni del Martelli<br />

con l’ambiente degli Impressionisti francesi.<br />

Parigi era allora, nel periodo della Terza Repubblica nata sulle ceneri del Secondo Impero -<br />

dopo la disfatta di Sedan ed i tragici fatti della Comune - non solo il faro della civiltà per tutte le<br />

arti, ma anche il fulcro mondiale di tutte le mode e di tutte le tendenze.<br />

I suoi salons andavano per la maggiore ed accedervi era, se non impossibile, almeno ifficile se uno<br />

era straniero e per di più macaronì.<br />

Qualcuno, come Boldini, ebbe successo e si fermò a Parigi; altri mestamente tornarono in To-<br />

scana rifacendo la strada percorsa all’andata.<br />

Furono lunghi giorni di viaggio su treni fumiganti sulle linea Parigi-Modane-Torino, appena co-<br />

struita dalla Société des Chemins-de-Fer de la Méditerranée che aveva avuto fra i fondatori quel<br />

Luigi De Ferrari Duca di Galliera, nobile finanziere genovese che fu grandioso protagonista della<br />

vita brillante della capitale durante la belle-époque insieme a ua bella moglie Maria, che, rimasta-<br />

ne vedova, sarebbe divenuta, poi, nella natìa Genova, una contraltare italiana della regina Vitto-<br />

ria d’Inghilterra.<br />

.


10 MONTENERO: DUE DIVI DELL’OPERA ED UN SANTUARIO PER TUTTA LA<br />

REGIONE<br />

**************************************************************************<br />

39<br />

orniamo sull’Aurelia: a chi si dirige da Quercianella verso Livorno-città,<br />

T<br />

sulla sinistra appaiono due torri, distanziate tra di loro da qualche chilometro: sono rispet-<br />

tivamente:<br />

• la Torre di Calafuria della quale si è già accennato a proposito di Alberto Fremura,<br />

• la Torre del Boccale, che fa parte di un complesso privato.<br />

Erano due torri di guardia fatte costruire dai Fiorentini per la difesa della costa dalle soli-<br />

te incur-sioni piratesche. Tutt’intorno, ora, si estende la riserva biogenetica di Calafuria,<br />

gestita dall’ Am-ministrazione Provinciale di Livorno come quella analoga dei Tòmboli (o dune) di<br />

Cècina.<br />

Anche Castello Sonnino di Quercianella, del quale si è già detto, sorge sui ruderi di un’altra torre<br />

di guardia fiorentina, fatta costruire colà da Cosimo III Medici.<br />

• sulla destra, invece, trionfa la vegetazione mediterranea della riserva. Tutt’ad un tratto, però,<br />

delle frecce segnaletiche che indicano una strada in salita per Castellaccio e Montenero.<br />

La prima di queste due località interessa marginalmente perché<br />

• Castellaccio è soprattutto il sito di molti ripetitori della televisione: un posto, insomma, sul tipo<br />

del Monte Serra quello “...per cui i Pisan veder Lucca non ponno”. La località, anche se non<br />

molto alta sul livello del mare, è fresca perché immersa - per usare un’espressione banale da a-<br />

genzia immobiliare - nel verde del Parco delle Colline Livornesi.<br />

La seconda, invece, è un mito perché<br />

• Montenero è conosciuta in tutta la Toscana - ed anche in altre regioni circonvicine - per la<br />

presenza di un famoso santuario mariano.<br />

Alla collina di Montenero ed al suo santuario si può accedere percorrendo due diverse vie:


40<br />

• quella già citata e che si diparte dall’Aurelia, e<br />

• quella che sale fino al santuario dalla Piazza delle Carrozze, a Montenero Basso.<br />

La prima delle due strade si inerpica sulla collina attraversando una zona quasi del tutto disabitata<br />

ma verdeggiante di macchia mediterranea, ed arriva al complesso mariano da sud.<br />

Non presenta alcuna attrattiva se non alcuni squarci di panorama sulla costa sottostante e sul mare.<br />

A chi ha fretta, consigliamo senz’altro questa prima strada.<br />

Ma chi ha un po’ di pazienza e vuol godersi davvero l’atmosfera di Montenero e del suo santuario<br />

mariano, deve proseguire qualche chilometro e, giungere ad un bivio che ha al suo vertice una chie-<br />

sa - detta dell’Apparizione - moderna quanto basta a renderla anonima se non fosse abbellita da<br />

un mosaico che ne adorna il frontone.<br />

Quivi giunto, deve svoltare a destra e proseguire fino alla Piazza delle Carrozze.<br />

Il rione si chiama Montenero Basso per distinguerlo, ovviamente, da quello Alto: è, comunque, una<br />

zona residenziale di qualche pretesa, soprattutto per la mancanza assoluta di grandi condomini e la<br />

presenza di ville, villini, palazzine e quelli che in Toscana si chiamano terratetti. Anzi; vi si respira<br />

un’atmosfera un po’ campagnola.<br />

A metà strada circa, tra il bivio con chiesa di cui sopra e la Piazza delle Carrozze, in un iccolo ci-<br />

mitero che è a destra di chi procede, sono sepolti Roberto Stagno e Gemma Bellincioni.<br />

Ci si può chiedere: chi erano costoro?<br />

Possono venire in soccorso amici (se uno li ha) che gravitano in ambienti tipo Amici della Lirica,<br />

che potranno dire che i due furono grandi cantanti d’opera del periodo a cavallo fra i due secoli.<br />

Aggiungiamo noi che Roberto Stagno e Gemma Bellincioni furono, soprattutto, due divi: erano<br />

una bella coppia, bell’uomo lui e bella donna lei, e lavoravano spesso assieme.<br />

Lei, fu addirittura la prima interprete di Santuzza nella Cavalleria Rusticana del suo concittadi-<br />

no Pietro Mascagni.


41<br />

Dopo anni di successi in tutto il mondo, la coppia lirica si ritirò poco lontano da dove è sepolta: in<br />

quella Villa Morazzana che è stata trasformata da pochi anni in un bel centro convegni con an-<br />

nesso albergo della gioventù.<br />

Chi ha qualche capello bianco in più, ricorderà con nostalgia la canzoncina che fu uno dei cavalli<br />

di battaglia del Quartetto Cetra negli anni Cinquanta-Sessanta; quel “Palco della Scala” nella<br />

quale si accennava alla coppia livornese così:<br />

“Quanta, quanta gente nella sala,<br />

“c’è tutta Milano in gran toilette,<br />

“per ascoltar Tamagno,<br />

“la Bellincioni e Stagno...”<br />

La canzoncina, un vero capolavoro di garbo, aveva come autori dei versi Garinei e Giovannini:<br />

autore della musica non poteva non essere di Gorni Kramer.<br />

Era il momento più felice della commedia musicale italiana, che non si ripeterà mai più.<br />

La Piazza delle Carrozze è detta così perché qui si davano convegno i devoti della Madonna di<br />

Montenero che giungevano in pellegrinaggio dalla Piana di Pisa, dalla Lucchesia e dai vari pae-<br />

sotti della costa livornese che non si chiamava ancora Costa degli Etruschi.<br />

Arrivavano su barrocci ed altri mezzi ippotrainati ed, all’inizio della salita verso il santuario, si u-<br />

nivano ai signorotti che qui arrivavano in carrozza.<br />

Delle due classi sociali, molti erano davvero dei devoti tant’è vero che facevano la salita al santua-<br />

rio con nelle scarpe dei fagioli o dei ceci in atto di penitenza.<br />

Con l’andar del tempo, il santuario dedicato a Nostra Signora delle Grazie - Madonna di Montene-<br />

ro tout-court, per i livornesi - divenne mèta di pellegrinaggi da tutta l’altra Toscana: dal Fioren-<br />

tino, dal Valdarno, dalla Versilia, dalla zona delle Apuane, dal Casentino, dalla Maremma e dai<br />

lontani Mugello, Valtiberina e Lunigiana.<br />

Non c’è, oggi, una parrocchia della Toscana che non organizzi annualmente un pellegrinaggio fino<br />

a quella collina che si affaccia sulla città di Livorno e sulla sua costa meridionale.


42<br />

Negli anni Quaranta, Pio XII dichiarò solennemente la Madonna di Montenero patrona della To-<br />

scana, e da allora ogni comune della regione ha fatto affiggere, in una galleria adiacente alla chiesa,<br />

.il suo stemma. Ce ne sono di tutti i tipi: da quelli in maiolica invetriata ad imitazione dei lavori dei<br />

Della Robbia e dei loro seguaci a quelli in marmo scolpito; da quelli più poverini a quelli ricchi di<br />

istoriazioni.<br />

Ma se per il popolo dei devoti il salire sul colle di Montenero è tuttora atto di fede e per taluni<br />

anche di penitenza, per altri, invece, era un’occasione di festa e di bisboccia.<br />

Ne è testimonianza una farsa in vernacolo livornese - autore Beppe Orlandi che fu un comico di<br />

varietà degli anni trenta - che è stata recuperata da poco come esempio di quel teatro tra il bècero<br />

ed il nazionalpopolare a base di qui-pro-quo, di doppisensi, battutacce da avanspettacolo e con<br />

attori en-travesti, che furoreggiò in Toscana - soprattutto a Firenze, a Livorno ed a Pisa - nel pe-<br />

riodo a cavallo delle due guerre ed anche oltre.<br />

La farsa vernacolare è intitolata “La ribotta di Montinero”, ove ribotta sta per bisboccia e Mon-<br />

tinero sta bene così, perché è la pronuncia livornese del topònimo Montenero.<br />

In Piazza delle Carrozze è situata la stazioncina di partenza della funicolare per il santuario:<br />

fu inaugurata nel 1908 ed è una delle tre esistenti in Toscana.<br />

Un’altra altra è quella che collega<br />

• Montecatini Terme con Montecatini Alto e che ha celebrato da poco il suo secolo di vita, metre<br />

la terza è stata attivata da pochissimo tempo a<br />

• Certaldo e collega la stazione ferroviaria di quella cittadina della Valdelsa al suo centro medio-<br />

evale.<br />

Il santuario si presenta subito con una breve scalinata che porta sul sagrato, ed il visitatore ha di<br />

fronte a sé,<br />

• al centro, una foresteria o casa del pellegrino,<br />

• alla sua sinistra, la basilica preceduta da un porticato, ed,


• a destra, il Famedio Livornese.<br />

Quest’ultima costruzione ad arcate fu fortemente voluta e fatta realizzare dallo scrittore patriota<br />

43<br />

Francesco Domenico Guerrazzi già più volte citato, che vi ebbe anche sepoltura in una cappella<br />

centrale. L’intendimento del Guerrazzi era non tanto di far seppellire sotto quei portici i suoi con-<br />

cittadini più illustri dell’epoca e far di quel luogo qualcosa di più di un cimitero, quanto far ricorda-<br />

re, davanti alla basilica della dedicata alla Vergine miracolosa e per mezzo dell’apposizione di la-<br />

pidi, i livornesi che si sarebbero resi famosi nel tempo.<br />

E’ così che il visitatore può scoprire che ci sono le lapidi dedicate non solo a grandi letterati od il-<br />

lustri scienziati ottocenteschi ormai dimenticati, ma anche quelle che ricorda-<br />

no, ad esempio,<br />

* Dario Niccodemi, commediografo e grande uomo di teatro in voga negli anni Venti- Trenta. Fu<br />

autore di celebri lavori teatrali come “La Nemica” e “La maestrina” che fecero spargere<br />

fiumi di lacrime ad almeno due generazioni di italiane;<br />

* Giovanni Marradi, delicato poeta di ogni livornesità: le sue liriche erano nelle antologie dei<br />

Regi Ginnasi, ed al quale Livorno ha intitolato una delle sua strade più centrali ed eleganti, e<br />

* Giosuè Borsi, giovane e brillante giornalista e scrittore cattolico dei primi anni del secolo, de-<br />

stinato ad un grande avvenire se non fosse caduto sul Carso poco dopo l’inizio del primo conflitto<br />

mondiale al quale aveva voluto partecipare da volontario.<br />

Altre lapidi ricordano Giovanni Fattori, Amedeo Modigliani, Pietro Mascagni, già citati in questo<br />

libello, ma anche Mario Puccini, tanti altri coloristi postmacchiaioli e Paolo Emilio Demi, sculto-<br />

re neoclassico ed autore del monumento livornese a Leopoldo II di Asburgo-Lorena, granduca di<br />

Toscana al quale la città deve molto.<br />

La basilica, preceduta come già detto da un portico, fu invece edificata nel 1710 da Giovanni Del<br />

Fantasia, architetto gradito agli ultimi Medici , che demolì la chiesetta antecedente.<br />

Quest’ultima era stata costruita nel 1390 sul luogo ove era avvenuta un’apparizione della Vergine,<br />

effigiata poi in un fondo-oro che appare tuttora sull’altare maggiore.


44<br />

Il santuario mariano di Montenero è amorevolmente retto da secoli dall’Ordine dei Vallombro-<br />

sani, uno dei tanti rami del monachesimo benedettino, così chiamato perché ha la casa-madre a Val-<br />

lombrosa, altro celebre santuario e centro monastico nel cuore dell’Appennino, ma non lontano da<br />

Firenze.<br />

L’interno è tipico del periodo settecentesco con ricchezza di ornati e di dorature, affreschi e soffitti<br />

dipinti dal Galletti, autore anche di altrettante tele poste nelle sei cappelle laterali.<br />

Ai lati dell’altare maggiore, due statue raffigurano San Bernardo e San Giovanni Gualberto, fon-<br />

datore dell’ordine vallombrosano.<br />

In alcune gallerie che conducono al chiostro, ed alle quali si accede da una porta laterale, sono af-<br />

fisse ed appese migliaia di ex-voto, tutti commoventi e pietosamente ingenui.<br />

I santuari mariani italiani ne sono pieni, ma quelli di Montenero sono un po’ particolari perché vi si<br />

riconosce una devozione popolare antica e profonda che contrasta con linguaggio attuale degli abi-<br />

tanti di Livorno, piuttosto inclini a sacramentare in ogni occasione.<br />

Alle spalle della collina di Montenero si estende, su di una superficie di 1.500 ettari a protezione<br />

integrale, il primo nucleo del Parco Provinciale delle Colline Livornesi.<br />

A questa considerevole estensione di terreni quasi totalmente boscosi, si devono aggiun- gere<br />

altri 2.000 ettari di Aree Naturali Protette facenti parte dei territori dei comuni di Livorno, Colle-<br />

salvetti e Rosignano, nelle quali sono presenti alcune attività artigianali e commerciali e dove è<br />

possibile, con molti limiti, anche la caccia.<br />

I confini della grande riserva naturale sono ancora in via di definizione e, solamente quando sa-<br />

ranno superate diverse pratiche burocratiche, il progetto di grande parco costiero sarà attuato.<br />

Sono previste fin da ora, agli ingressi del Parco, alcune porte attraversarlo le quali si potrebbe<br />

accedervi, e percorrerlo a piedi od in bici od a cavallo, seguendo alcuni percorsi quali:<br />

* un percorso religioso che, partendo dall’eremo della Sambuca, fino ad adesso quasi inaccessi-<br />

bile ma in fase di restauro, conduce al santuario di Montenero, od


45<br />

* un percorso naturale, che prenda avvio dalla zona di Calafuria, sul mare, e si spinga all’interno,<br />

sempre verso Montenero, od<br />

* un percorso archeologico che valorizzi alcune importanti tracce del passato come l’acquedotto<br />

lorenese di Cològnole, od, infine,<br />

* un percorso di paesaggio che permetta la riscoperta dei mulini e delle altre costruzioni rurali che<br />

erano presenti in loco in abbondanza fino all’abbandono delle campagne.<br />

A questi percorsi dovrebbero aggiungersene degli altri che, nel quadro del programma “A<br />

cavallo (o più semplicemente in bici) nei parchi” da tempo allo studio della Regione To- scana,<br />

dovrebbero portare molto più a sud, fino all’oasi di Orti-Bottagone ed al Parco di Montioni, nelle<br />

Colline Metallifere.<br />

11 A LIVORNO TUTTO E’ GRANDE: VIE, PIAZZE, PALAZZI, TEATRI E CINEMA<br />

*************************************************************************


Dal santuario di Montenero si può riprendere la funicolare, tornare sulla Piazza delle<br />

46<br />

Carrozze e riprendere il cammino verso l’Aurelia ripassando, prima, davanti al cimite-<br />

ro ove sono sepolti i due cantanti-divi dei primi del secolo e, poi, sull’incrocio, davanti<br />

alla chiesa con mosaico sul frontone.<br />

Si riprende, quindi, la strada verso destra, e cioè verso Nord, ed in breve si soprattassa il<br />

rio Ardenza.<br />

Questo torrente - come tanti altri in Toscana (e non solo in questa regione) - è quasi<br />

sempre in secco, spesso è ridotto a discarica di ogni bendiddio materassi e frigoriferi compresi,<br />

non ha alcuna attrattiva dal punto di vista pittorico; non ha, insomma, nulla che lo contraddistin-<br />

gua da tutti i torrenti d’Italia. Però, come tutti i torrenti che si rispettino, basta che piova per una<br />

settimana consecutiva e diventa una vera furia della natura.<br />

Non sono passati molti anni da quando il rio Ardenza mandò a bagnomaria, dopo qualche giorno<br />

di pioggia, tutta la vasta zona che è alle falde della collina di Montenero, con scene consuete in<br />

Valdarno: immense distese d’acqua putrida sulle quali galleggiano tutti i reliquari del consumi-<br />

smo, gente in canotto a salvare il salvabile, e, poi, tutti insieme appassionatamente a ricostruire il<br />

ricostruibile tra un mòccolo e l’altro.<br />

Montenero fa già parte del comune di Livorno, che è abbastanza esteso.<br />

Infatti, il suo territorio parte dai confini con Pisa e si dipana lungo la costa oltre Quercianella fino<br />

quasi a Castiglioncello.<br />

Ed è proprio oltrepassato il rio Ardenza che inizia da sud l’agglomerato urbano della città di Livor-<br />

no che inizia con i rioni di Antignano e di Ardenza, ambedue se non proprio sulle rive del mare,<br />

almeno non molto lontano dalla costa, in questo punto ancora tutta scogli e spiaggette di sabbia di<br />

grana grossa.<br />

Qui occorre, però, fare una piccola parentesi a base di sociologia a buon mercato.<br />

Bisogna partire da Lucca, perché in Toscana si dice che si va a Lucca per prendere il garbo: e<br />

questo è dovuto al fatto che sembra che la gente lucchese sia molto più gentile rispetto al modo di


47<br />

fare - e di agire - del resto della popolazione della regione. Anche la parlata dei lucchesi è<br />

più dolce rispetto ai vari vernacoli della Toscana interna o di quella litoranea: i lucchesi non han-<br />

no al posto della c dura l'acca aspirata dei fiorentini (che dicono buha al posto di buca), né propen-<br />

dono alla g come i versiliesi ed i garfagnini (che dicono spesso buga), né tolgono del tutto la famo-<br />

sa c dura di cui sopra come i pisani ed i livornesi (che dicono bua e buonanotte).<br />

Accadeva allora che gente dei contadi pisani, pistoiesi e fiorentini che andavano a far le gite coi<br />

treni popolari a Lucca, vi prendessero, sì, il garbo, ma si accorgessero che era una città vecchiot-<br />

ta, tutta negozietti minuscoli: sul Fillungo non mancavano neanche vecchi empori con esposizione<br />

di caratelli di aringhe e salacche.<br />

Cosa che non accadde quando scoprirono Livorno.<br />

A Livorno, invece, la gente era ordinaria (non aveva il garbo dei lucchesi, insomma) ma tutto in-<br />

torno era qualunque cosa era grande, se non addirittura gigantesca:<br />

* i negozi avevano tutti tre o quattro occhi e le loro vetrine erano stracolme di ogni tipo di merce,<br />

* le strade erano esageratamente larghe, i viali erano tutti dritti come fusi,<br />

* la stazione centrale era tanto grande che sembrava non finisse mai,<br />

* e di stazioni Livorno ne aveva anche altre tre,<br />

* i martelli pneumatici degli operai del cantiere navale facevano sulle lamiere delle navi in co-<br />

struzione un fracasso mai allora udito nelle campagne toscane,<br />

* il porto era tutto un formicolio di navi dalle ciminiere fumiganti e di barche di ogni genere,<br />

* i negozi rigurgitavano di ogni bendiddio (e non c’erano ancora i supermercati), e<br />

* persino le pareti delle botteghe dei barbieri erano tutte tappezzate di quadri.<br />

Ed, infatti, tutto è ancora così, tant’è vero che il piatto che più livornese non si può è il cacciucco:<br />

l’unica parola del vocabolario italiano che contenga cinque c.<br />

Livorno è città di provincia, ma grande.<br />

• Grande si chiama la sua via principale che conduce dalla grande Piazza della Repubblica - una<br />

volta detta più congruamente il Voltone - al porto, e vi si affaccia


• il politeama cittadino che si chiama, manco a farlo apposta, La Gran Guardia,<br />

48<br />

• Grande si chiama anche la piazza del duomo che divide in due la Via Grande: ed è inutile ag-<br />

giungere che vi si affaccia il Palazzo Grande che ospita il Cinema Grande<br />

La Via Grande, poi, secondo alcuni, si divide in<br />

* Prima Via Grande (quella che va dal duomo alla Piazza della Repubblica) e<br />

* Seconda Via Grande (quella che dal duomo conduce al Porto Mediceo).<br />

Poi, altre grandezze:<br />

• un grosso deposito d’acqua che, dal suo frontone a forma di conchiglia, è divenuto uno dei sim-<br />

boli della città, non è semplicemente una cisterna, ma Il Cisternone,<br />

• i prigionieri saraceni bronzei di Pietro Tacca (detti i Mori), incatenati alla base del monumento<br />

a Ferdinando I de’ Medici non possono essere che quattro;<br />

• il riconoscimento della città alla dinastia dei Lorena che tanto si adoperò per il suo sviluppo non<br />

potevano essere che due grandi statue e non una sola come a Pisa, in Piazza Santa Caterina,.<br />

Sono in bella vista nella<br />

• enorme piazza, che sembrerebbe concepita da Giorgio De Chirico, nata sulla copertura di uno<br />

dei canali che attraversano la città ed alla quale si è appena accennato, e,<br />

• dall’età rinascimentale in poi, infine, la difesa di Livorno, che era poco più che un borgo di po-<br />

che catapecchie, era affidata non ad un solo, ma a due fortilizi tuttora esistenti:<br />

* la Fortezza Vecchia e<br />

* quella Nuova.<br />

Come città portuale, poi, Livorno ha una peculiarità che altre non possedevano: aveva lo spazio,<br />

tanto grande spazio che non hanno né la<br />

• Genova circondata da monti scoscesi, né la<br />

• Napoli so praffatta da una metropoli sovrappopolata e brulicante, né la<br />

• Venezia con il suo scrigno di bellezze.<br />

Commento [*1]: Pagina:<br />

41


49<br />

Infatti, malgrado che il suo porto vivacchiasse alla bell’e meglio tra una bega sindacale e l’altra, la<br />

città di Livorno continuò - fino agli anni Sessanta - la sua vita mercantile circondata da enormi spa-<br />

zi vuoti, campagne brulle che nessuno avrebbe mai coltivato perché erano i resti melmosi di paludi<br />

prosciugate appena qualche decennio prima,<br />

Se ne accorsero ben presto, all’inizio dell’èra dei contenitori, gli armatori estremorientali e quelli<br />

nordeuropei, le case di spedizioni svizzere e tedesche, le agenzie marittime del Nord Italia: tutta<br />

gente occhiuta ma affamata di spazio.<br />

Da allora fu tutta una frenesia da occupazione di spazi alla periferia nord, dove la città finisce col<br />

grande cimiteri suburbano dei Lupi ed iniziava la campagna.<br />

Ne trovò giovamento tutta la città perché il suo porto dovette adeguarsi investendo nelle nuove tec-<br />

nologie di carico e scarico dei nuovi feticci; estesissimi depositi di containers sostituirono all’a-<br />

perto docks che in porto stavano andando in malora dalla vecchiaia; centinaia se non migliaia di au-<br />

tomobili di ogni provenienza europea furono stoccate nella pianura costiera pronte per l’imbarco<br />

verso l’Oltremare. Iniziò la conta di chi, fra i porti italiani movimentava più contenitori, perché di<br />

lì iniziava la nuova prosperità.<br />

Poi venne la frenesia da traghetto, perché nel vecchio Porto Mediceo, alle navi per le isole del-<br />

l’Arcipelago Toscano ed ai loro tristi carichi di ergastolani in manette, si aggiunsero presto quelle<br />

per le isole maggiori cariche di vacanzieri vocianti e di autotreni stivati di ogni merce possibile.<br />

Gli italiani e gli europei avevano scoperto, infatti, che la Sardegna e la Sicilia si potevano rag-<br />

giungere via nave non solo dalle lontana Civitavecchia e della ancora più lontana Napoli, ma anche<br />

da un porto meno sovraffollato di quello di Genova : gli armatori si adeguarono.<br />

Poi fu scoperta la Corsica, e ci s'accorse che non c’era bisogno di andare ad imbarcarsi a Nizza o a<br />

Marsiglia, quando l’isola è quasi davanti a Livorno.<br />

Di più: ai contenitori, alle petroliere ed ai traghetti che fanno la gioia degli amanti delle statistiche<br />

si aggiunsero le navi da crociera, sempre più belle, sempre più eleganti, sempre più grandi e sempre<br />

più cariche di gente danarosa.


50<br />

L’armamento ed i tour-operators suoi clienti avevano capito che Livorno è la porta della Toscana<br />

delle città d’arte, e fu così che qualche nave elegante e gremita di stranieri grondanti dollari e mar-<br />

chi aveva attraccato ad una calata dove una stazione marittima così così aveva preso il posto di un<br />

capannone dove, cinquant’anni prima, ai tempi del Piano Marshall e dell’UNRRA, arrivavano dagli<br />

USA gli stracci destinati ai cardatori di Prato.<br />

Poi, quasi tutti i croceristi finivano caricati su pullman fiorentini per improbabili quanto bersaglie-<br />

resche visite guidate:<br />

• di un giorno, della Firenze dei gelati e delle pizze al taglio, e<br />

• di un pomeriggio, della Pisa dei brigidini di Lamporecchio,<br />

col rischio di confondere Cimabue con Bonanno e Michelangelo con Galileo.<br />

Qualcuno di loro, che Firenze e Pisa le conosceva già bene e che rifiutava questo tipo di turismo<br />

usa-e-getta, preferì, invece, rimanere nella città d’attracco e partire alla scoperta di una città che<br />

d’arte ne aveva, sì, ma che non sapeva metterla in bella vista, e si accorse che Livorno non era poi<br />

proprio da scartare.


12 UN LUNGOMARE SIGNORILE CON BARACCH(IN)E, RICORDI DI PITTORI.<br />

CAVALIERI E CALCIATORI<br />

*****************************************************************************<br />

51<br />

hiusa la parentesi sociologica, non resta che ricordare ai lettori un illustre carneade, forse<br />

Cun antesignano della letteratura turistica: quel Prospero Fantuzzi, reggiano, che nel 1833<br />

si recò nel Granducato di Toscana per un viaggio di lavoro e ne trasse un diario manoscritto<br />

che oggi è divenuto un volumetto dal titolo “I.P.Fantuzzi, viaggi geografici”.<br />

Nel suo diario, quest'austero signore dell’epoca della Restaurazione fa un racconto dal<br />

quale si ar-guirebbe che, a quell’epoca, a Pisa abbondassero “ricchezza e nobiltà veden-<br />

dosi signori e signorine riccamente vestite, moderne e gaje carrozze con fini cavalli”<br />

Di Pisa il buon Fantuzzi aveva anche decantato la “veduta del Lung’Arno...vi scorre in mezzo<br />

l’Arno, fiume reale, navigabile, per cui si veggono barche dappertutto ed eleganti buccentori a di-<br />

vertimento dei cittadini. Il fiume è rinserrato tra muraglie e vi si scende per scalinate.”, e aveva<br />

notato che, mentre nelle campagne reggiane “si veggono da per tutto carra con buoi a tre e quattro<br />

paia, vacche grasse e pingui, qui (ed, in altre parole, nelle campagne pisane) rara volta s’incontra<br />

un barroccio o volantino con un paio di bovi bianchi.”<br />

A far da contraltare alle presunte ricchezze e nobiltà viste a Pisa, ecco invece un’osservazione lapi-<br />

daria del Fantuzzi su Livorno: “..in Livorno, città mercantile, non m’incappai che in mercanzie e<br />

dappertutto spirano contratti e cambiali.”<br />

Tale doveva, infatti, apparire al viaggiatore una città apparentemente senza storia, popolata di tipi<br />

neanche tanto raccomandabili tenuti a bada senza tanti complimenti da sbirri e guardie varie dei<br />

governi codini fedeli ai Lorenesi.<br />

Ma se questo accadeva nella prima metà dell’Ottocento, una vera e propria rivoluzione urbanistica e<br />

dei costumi avvenne nella seconda metà successiva del secolo, ed in quello che è appena spirato.<br />

Ne fa fede l’ingresso sud della città, da dove riprende il nostro viaggio.


52<br />

Oltrepassato, dunque, il piccolo ed elegante abitato del rione di Antignano, seguito immediatamen-<br />

te dalla nuova urbanizzazione della Banditella, si arriva all’altro elegante rione dell’Ardenza vera e<br />

propria che prende nome dal fiumaccio di cuisi è già parlato.<br />

Quest’ultimo rione si divide in due parti: Ardenza-Terra ed Ardenza-Mare.<br />

La prima parte (detta a terra, in altre parole interna) è quella ove ha sede<br />

• la grande caserma e relativi impianti della divisione Folgore del corpo dei Paracadutisti e da<br />

dove l’Aurelia transita per proseguire verso il cuore della città attraversando prima<br />

• un villaggio di case popolari che ha il poetico nome di La Rosa, forse dovuto alla presenza in al-<br />

tri tempi di una fattoria la cui proprietaria - o la consorte del signorotto padrone delle terre - ave-<br />

va un tale nome floreale, ed, infine,<br />

• una zona ove sono i cimiteri gestiti dalla locale Misericordia.<br />

La seconda parte (quella a mare) è facilmente raggiungibile deviando dall’Aurelia verso sinistra ad<br />

un bivio e seguendo la segnaletica.<br />

E’ , con Antignano, la parte signorile di Livorno, quella delle ville in stile liberty dei ricchi borghe-<br />

si spesso dai cognomi stranieri, dei bagni eleganti, dei porticcioli e dei circoli velici, delle scuole<br />

per subacquei, delle baracchine, che non sono delle capanne da terzo mondo, ma dei bei bar con<br />

tanti tavolini all’aperto.<br />

Di qui si snoda il lungomare della città che si chiama Viale Italia e che inizia da una zona che por-<br />

ta il nome di Rotonda dell’Ardenza.<br />

E’ un boschetto di pini e lecci a pianta circolare, ideale per prendere il fresco d’estate, che ospita di<br />

volta in volta manifestazioni di ogni genere, da quelle politiche a quelle di artigianato, dai mercatini<br />

d’antiquariato alle gare estemporanee di pittura.<br />

Proprio con una ex-tempore degli anni cinquanta, pensata e organizzata da Mario Bor giotti -<br />

buon pittore, grande amico di Pietro Mascagni, collezionista e mercante d’arte sopraffino - si riu-


53<br />

scì a coagulare una messe piuttosto eterogenea di pittori per una gara all’aperto che presto a-<br />

vrebbe decretato l’inizio della fama nazionale della Rotonda.<br />

Non tutti sanno che Livorno è, oltre che città portuale ed operaia, anche città di pittori: non tan-<br />

to perché sua stata la culla di tutte le correnti postmacchiaiole, quanto perché, pennelli in<br />

mano, i suoi abitanti realizzano sogni neanche pensabili quando c’è l’incubo dell’orologio e del<br />

cartellino. E siccome i pittori, come tutti gli artisti, sono individualisti, la lite e l’improperio sono<br />

pane quotidiano.<br />

Mario Borgiotti riuscì, invece, a mettere d’accordo la falange di pittori livornesi e li mise in<br />

gara fra di loro a chi dipingeva meglio all’aperto, e la cose fece notizia: ne parlarono tutti i gior-<br />

nali locali e ne parlò perfino la RAI nei suoi notiziari regionali, da sempre fiorentinodipendenti.<br />

Fu così che alla falange dei livornesi si aggiunsero ben presto molti pittori convenuti per dipingere<br />

alla Rotonda da ogni parte d’Italia, perché, nel frattempo, Via Margutta a Roma e Via Bagutta a<br />

Milano stavano perdendo colpi su colpi, e la fama del Premio Rotonda fu presto consolidata.<br />

Senza tener in conto che il Borgiotti riuscì a convincere tutti i dirigenti delle industrie livornesi -<br />

anche i più refrattari alle cose belle - a devolvere in premi-acquisto qualche biglietto da mille<br />

dell’epoca. Ora, a distanza di più di quarant’anni, i quadri premiati con questo ingegnoso sistema<br />

sono ancora appesi alle pareti delle algide sale dei consigli d’amministrazione e degli uffici di ma-<br />

nagers spocchiosi, e sono additati agli ospiti di riguardo come conquiste aziendali.<br />

Ora la grande ex-tempore della Rotonda non c’è più: c’è, invece, d’agosto, un premio di arti visive<br />

che il comune di Livorno ha giustamente intitolato a Mario Borgiotti.<br />

Dalla Rotonda il Viale Italia prosegue, alberato sul lato mare e senza alberi sul lato monte, la-<br />

sciando spazio libero davanti alle ville liberty ed ai piccoli, eleganti condomini della Livorno-bene.<br />

Proseguendo verso Nord, e cioè verso il cuore della città, l’attenzione è attirata dalla presenza di<br />

una serie di costruzioni non eleganti ma che hanno la loro peculiarità: sono disposte ad esedra, e<br />

cioè a ferro di cavallo.


Sono quelli che comunemente sono chiamati i Casini dell’Ardenza e sono tredici palazzine<br />

54<br />

d’epoca lorenese progettate da quell’arch. Cappellini che fu autore di molte costruzioni preunitarie<br />

nella città.<br />

Il viale prosegue toccando,<br />

• sul lato mare, un porticciolo turistico, mentre,<br />

• sul lato monte, le abitazioni lasciano posto ad una folta vegetazione spontanea circondata da mu-<br />

ri e muretti.<br />

E’ la parte retrostante dell’Ippodromo Federico Caprilli, che ha il suo ingresso principale sulla via<br />

parallela che ha il nome poetico di Via dei Pensieri.<br />

La città di Livorno ha voluto intitolare l’ippodromo cittadino a quel grande personaggio concitta-<br />

dino che fu, appunto, Federico Caprilli che, a Pinerolo, alla scuola di Cavalleria, fu l’inventore -<br />

se così si può dire - della monta all’italiana che fece conquistare ai nostri cavalieri glorie a bizzeffe<br />

alle Olimpiadi ed a tutti i concorsi di equitazione dei primi decenni del Novecento.<br />

All’Ippodromo Federico Caprilli si tengono prevalentemente riunioni di galoppo: durante l’estate<br />

molte di esse avvengono in notturna.<br />

Un altro impianto sportivo è poco lontano: è lo stadio calcistico comunale ove ha giocato, fino dagli<br />

anni Trenta, il Livorno Calcio.<br />

Quello - ma pochi lo ricordano: forse gli annuari - che, in periodo bellico, giunse a contrastare,<br />

l’egemonia del Torino.<br />

I suoi giocatori più rappresentativi furono Raccis e Degano:<br />

* il secondo era un’aletta velocissima e niente male;<br />

* il primo, invece, era un centravanti molto mobile che ebbe una carriera breve. Morì ancor giova-<br />

ne nel dopoguerra, prima della calata in Italia delle varie legioni straniere e degli eserciti di o-<br />

riundi.


55<br />

In questo momento, il Livorno non è niente di eccezionale e naviga spesso fra le secche della serie<br />

C. Malgrado abbia un pubblico fedele ed entusiasta, è spesso attraversato da crisi societarie che<br />

hanno visto avvicendarsi cogli anni presidenti danarosissimi provenienti dal Nord Italia e, fra di es-<br />

si, un grossista di lampadari, un importatore di auto di lusso ed un autotrasportatore proprietario di<br />

una flotta di TIR.<br />

13 L’ACCADEMIA NAVALE, L’AMMIRAGLIO TESTARDO ED UN LAZZARETTO<br />

SCOMPARSO<br />

***************************************************************************<br />

oche centinaia di passi, e, sul lato mare, appare il complesso degli edifici che ospitano<br />

P<br />

l’Accademia Navale Italiana.<br />

Non hanno un’unità stilistica perché alcuni sono di chiara impronta ottocentesca ed altri<br />

piuttosto<br />

moderni. L’ingresso principale non ha nulla di trionfale, ma l’osservatore attento<br />

può intravedere l’alberatura-scuola sulla quale si esercitano gli allievi dell’Accademia, sa-<br />

lendo e discendendo fra scale e cordami proprio come accadeva ai marinai dei romanzi di<br />

Emilio Salgari.<br />

Qui si formano, dopo anni di studi severi e di altrettanto severa disciplina, gli ufficiali della Marina<br />

Militare Italiana, risorta in questi ultimi cinquant’anni di pace sulle ceneri della Regia Marina, del-<br />

le sue sconfitte del secondo conflitto mondiale e delle storie ambigue di “Navi e Poltrone”..<br />

E’ l’università della Marina ed iniziò a Livorno la propria attività nel 1881.<br />

Fino ad allora, di Accademie o Scuole per ufficiali della Regia Marina dello stato unitario ce<br />

n’erano la bellezza di due:<br />

• una a Genova ed era il proseguimento della Marina Militare Sarda, ed


• una a Napoli che proseguiva l’antica tradizione della marineria del Regno delle Due Sicilie.<br />

56<br />

Fu l’ammiraglio Benedetto Brin che decise la fusione delle due scuole in un’unica Accademia Na-<br />

vale: e scelse come città ospitante la nuova scuola per ufficiali la pressoché sconosciuta Livorno.<br />

Non Venezia quindici anni prima ancora austriaca, né Genova o Napoli che avevano dato parecchie<br />

gatte da pelare al momento dello scioglimento delle loro due vecchie scuole, né La Spezia che per<br />

conto suo era già piazzaforte, ma una città toscana e per di più reduce da una crisi profonda deter-<br />

minatasi dall’abolizione, nel 1868, dei privilegi medicei del porto franco e dove il populismo la fa-<br />

ceva da padrone.<br />

Dopo anni di diatribe, il testardo Benedetto Brin riuscì a spuntarla e fece nascere a Livorno la<br />

scuola per gli ufficiali della Regia Marina.<br />

All’ammiraglio fautore e realizzatore dell’Accademia Navale è dedicato un grande busto di bronzo<br />

che sovrasta dal suo basamento di marmo un giardino pubblico posto quasi di fronte all’ingresso<br />

della scuole per ufficiali.<br />

L’Accademia fu fatta costruire da Benedetto Brin sul luogo ove Pietro Leopoldo di Asburgo-<br />

Lorena aveva fatto costruire neanche un secolo prima un lazzaretto.<br />

Questo ospedale d’emergenza - che era intitolato a San Leopoldo in onore forse del lorenese - ave-<br />

va sostituito un altro lazzaretto, chiamato di San Rocco, voluto da un Medici un paio di secoli pri-<br />

ma e che era situato in una zona di fronte al mare, poco lontano dal porto.<br />

Il Lazzaretto di San Leopoldo serviva, come tutti i lazzaretti d’Italia e d’Europa, in caso non tanto<br />

di pestilenze di ormai manzoniana memoria, quanto di epidemie di tifo e colera, che nell’Ottocento<br />

erano sempre in agguato ovunque. Soprattutto nelle città portuali, dove l’igiene, sulle calate come<br />

nelle abitazioni, era ridotta ai minimi termini.<br />

Il Lazzaretto di San Leopoldo era sul mare e - oggi si direbbe così - immerso nel verde della mac-<br />

chia mediterranea.<br />

Forse per far prendere aria buona e salmastra ai ricoverati, dal momento che le nozioni della<br />

classe medica, in materia di malattie infettive, non andavano molto avanti.


57<br />

Del Lazzaretto di San Leopoldo sappiamo che fosse composto da vari edifici dei quali non re-<br />

sta più nulla: è stata tramandato, invece, che c’era un palazzo, una elegante cappella, un portic-<br />

ciolo e numerosi locali ove venivano ospitati uomini, animali e merci in caso di quarantena.<br />

Oggi l’Accademia Navale, oltre ad essere il centro di formazione degli ufficiali della Marina, è<br />

anche una grande fucina sportiva.<br />

Ad ogni primavera, ad esempio, organizza le Giornate Veliche di Livorno che sono una serie di<br />

regate alle quali partecipano imbarcazioni appartenenti ad una ventina di classi di imbarcazioni a<br />

deriva ed a bulbo. E’ una grande festa del mare e della gioventù: nacque per caso qualche anno fa,<br />

ed è divenuta in breve tempo la più grande manifestazione velica dell’intero Mediterraneo.<br />

Uno spettacolo a parte, quando capita l’occasione, sono le uscite a mare delle due navi-scuola<br />

dell’Accademia:<br />

• la Vespucci, che tutti più o meno conoscono per averla vista in diverse occasioni televisive, e<br />

• l’Orsa Maggiore, più piccola ma per questo non meno bella.<br />

Sono due velieri di straordinaria eleganza che fanno la gioia dei fotografi, dilettanti e non.<br />

Sempre sul Viale Italia, all’altezza dell’Accademia Navale, due costruzioni ad arcate in uno stile<br />

floreal-monumentale di chiara origine ottocentesca - una a destra e l’altra a sinistra di chi viaggia -<br />

sono tuttora chiamate Barriera Margherita. Erano l’entrata della città da sud, e facevano la fun-<br />

zione delle porte dell’antichità. Ma erano anche dei caselli di quel dazio - od imposta di consumo -<br />

che fino all’entrata in vigore del regime IVA, era il maggior introito delle amministrazioni comuna-<br />

li italiane.<br />

La costruzione di destra porta tuttora la scritta lapidaria: Tramvie Elettriche Toscane, perché vi<br />

aveva sede il capolinea di quel tram Pisa-Livorno che tanti rimpianti ha lasciato nei vecchi pisani e<br />

nei vecchi livornesi che parlano ancora del loro trammino come di cosa ancora vivente.


14 ALTRI LAZZARETTI, UNA FONTE DI ACQUA VIVA E LA VILLA DELL’AM-<br />

MIRAGLIO<br />

58<br />

*************************************************************************<br />

Che tutta questa parte sud della città attuale fosse non solo aperta campagna, ma tutto un lazzaretto<br />

lo dimostra il fatto che un altro terzo ospedale d’emergenza era situato anche a metà strada- ma leg-<br />

germente più a monte - tra quello di San Rocco già citato e quello di San Leopoldo.<br />

Era il lazzaretto di San Jacopo: forse il primo ad essere stato costruito ed il primo ad essere stato<br />

demolito. Prendeva nome dall’Apostolo <strong>Giacomo</strong> (o Jacopo, o Iago secondo gli spagnoli) che è<br />

protettore da sempre dei malati e dei pellegrini e che, nei secoli scorsi, godeva di una particolare<br />

venerazione in tutta Europa.<br />

Leggenda vuole che nel Settecento, durante lo scavo di un canale di collegamento - forse un collet-<br />

tore di acque sporche - tra il lazzaretto di San Jacopo e quello di San Rocco, fosse scaturito di<br />

fronte al mare uno zampillo di acqua fresca e chiara: acqua viva, insomma.<br />

Ed, infatti, a pochi passi dall’Accademia, ecco sul mare la chiesa di San Jacopo in Acquaviva che<br />

vuole ricordare all’ignaro passante sia il lazzaretto sia la fonte scaturita durante lo scavo sette-<br />

centesco.<br />

La chiesa confina con l’Accademia, tant’è vero che il suo lato sinistro rispetto alla facciata è cir-<br />

condato da una rete metallica che delimita la zona militare.<br />

Dietro a quella rete, un monumento marmoreo rappresenta Leopoldo I ed è opera del tardo Sette-<br />

cento di Angelo Pelliccia, scultore carrarese ormai dimenticato.<br />

Dall’acqua viva prese anche nome un piccolo borgo e, successivamente, la chiesa che fu ri-<br />

cavata modificando radicalmente dei piccoli edifici esistenti sulla battigia.<br />

La chiesa di San Jacopo in Acquaviva, dal momento che la città cominciava la sua espansione ver-<br />

so sud, divenne troppo angusta e, verso la fine del secolo scorso, fu ingrandita fino ad assumere le<br />

dimensioni attuali.


59<br />

Le strutture portanti, però, sono quelle della vecchia chiesetta rurale dei primi del ‘700 e si posso-<br />

no osservare soprattutto nell’interno del tempio che è a croce latina.<br />

La facciata della chiesa - e lo ricorda una lapide - fu costruita a spese del mai tanto bene merito<br />

Ammiraglio Mimbelli.<br />

Dalla piazza antistante la chiesa - sulla quale sorge una delle baracchine di cui si è già detto - si di-<br />

parte una strada che attraversava uno dei rioni più eleganti ed esclusivi della città. La via porta lo<br />

stesso nome della chiesa ed è importante perché, verso la sua metà, è situata la già citata Villa<br />

Mimbelli che ospita, dal 1994, il Museo Civico Giovanni Fattori.<br />

La villa - che è un vero e proprio palazzo di tre piani, circondato da un ampio parco con giardini ed<br />

alberi ad alto fusto - è un piccolo capolavoro di quello stile eclettico che era tanto di moda fra i ric-<br />

chi dell’Ottocento.<br />

Vi si trovano, ad esempio,<br />

• un salotto in stile turchesco,<br />

• la ringhiera dello scalone, sorretta da putti di maiolica uno diverso dall’altro,<br />

• saloni con specchi e tante altre cose che servivano ai padroni di casa a dimostrare il proprio pote-<br />

re economico.<br />

L’Ammiraglio Mimbelli fu per parecchi anni direttore dell’Accademia Navale e, per questo moti-<br />

vo, è spesso citato per la sua munificenza nel corso delle cerimonie di inaugurazione delle varie<br />

mostre di alto livello che si tengono via via in quello che fu il suo piccolo regno dorato.


60<br />

14 I BAGNI DIPINTI DA FATTORI E LA TERRAZZA DEL MUSICISTA CONTESTATO<br />

*******************************************************************************<br />

Proseguendo sempre sul Viale Italia, sulla sinistra di chi viaggia, l’osservatore attento non può far<br />

a meno di notare:<br />

• il complesso dei Bagni Pancaldi, ed, immediatamente dopo,<br />

• la Terrazza Mascagni.<br />

Sono, ambedue, simboli della livornesità, e si sono aggiunti al primo tracciato di quella che è ora,<br />

contemporaneamente, strada di passeggio e via di scorrimento per un traffico anno dopo anno sem-<br />

pre più intenso.<br />

Non doveva essere stato così quando, con la crescita della borgata di San Jacopo, il gonfaloniere -<br />

così si chiamavano i sindaci dell’èra mediceo-lorenese - Fabbri decise di collegare il cuore della<br />

vecchia città ai suoi neonati rioni meridionali. La zona, infatti, era solo campagna anche se ospita-<br />

va quei lazzaretti di cui si è detto più innanzi, e qualche casermaggio.<br />

Ad unità d’Italia compiuta, nel 1866, uno di questi casermaggi fu demolito: era il Forte dei Caval-<br />

leggeri che, sul mare, aveva, dal 1595 in pieno Rinascimento e quindi poco dopo la fondazione di<br />

Livorno come città, ospitato un reggimento della cavalleria granducale.<br />

Rimase al suo posto un piazzale di terra battuta: il resto dei ricordi di questo fortilizio mediceo è af-<br />

fidato ad una strada che porta tale nome e che porta davanti alla Villa Mimbelli che è poco più a<br />

monte.<br />

Nel 1916 fu costruito, su quel piazzale, un Asilo Elioterapico che fu a sua volta smantellato per la<br />

costruzione dell’Acquario Comunale e del primo embrione della Terrazza.<br />

• I Bagni Pancaldi sono noti a molti per essere stati soggetto di alcuni famosi dipinti di Giovanni<br />

Fattori; ciò è la dimostrazione che, già nell’Ottocento, Livorno poteva vantarsi di aver degli sta-<br />

bilimento balneari.


61<br />

Ora è un complesso di cabine e di altre strutture in muratura, ma nell’Ottocento I bagni<br />

Pancaldi erano un insieme di eleganti capanni di legno ove la ricca borghesia livornese ed<br />

i suoi ospiti estivi - fiorentini, pisani, romani e lucchesi - passava i pomeriggi assaporando i<br />

bagnidi sole e di acqua salsa che, fino ad allora, neanche il popolino si era degnato di pro<br />

vare.<br />

• La Terrazza Mascagni, invece, è opera molto più recente e databile degli anni Venti-Trenta; in-<br />

titolata in un primo tempo a Costanzo Ciano, il genius-loci già citato, fu, dopo la caduta del re-<br />

gime fascista, dedicata a Pietro Mascagni, dopo roventi, lunghe e velenose polemiche.<br />

Ciò in quanto il musicista, malgrado non avesse mai abiurato la propria livornesità, era<br />

andato ad abitare - ed a morirvi nel 1945 - a Roma, fra i fasti e le feluche dell’Accademia<br />

d’Italia: cosa che aveva comportato la sua adesione entusiasta al regime di cui sopra e gli<br />

anatemi del CLN livornese.<br />

La Terrazza - come è chiamata tout-court dai livornesi - appare oggi nella sua bellezza, ma fino a<br />

pochi anni fa era caduta in un degrado indegno di una città civile: corrose dal salmastro le balau-<br />

strate, divelta in molti tratti la pavimentazione e ridotti a pubbliche discariche i giardini a prato,<br />

sembrava la rappresentazione di una città in coma.<br />

Qualcosa di bosniaco sul mare, insomma.<br />

Poi, finalmente, il restauro: o meglio, la ricostruzione.<br />

Al centro c’è<br />

* un gazebo che sarebbe più italiano chiamare palco per la musica, perché ospita concerti di bande<br />

musicali, e, davanti,<br />

* il mare: con vista delle isole dell’Arcipelago Toscano che spesso, nelle giornate invernali di tra-<br />

montana, si svelano tutte:<br />

• di fronte alla Terrazza, la Gorgona, piccola ed inaccessibile fino ad ieri perché sede di un peni-<br />

tenziario,


62<br />

• verso sud, la Capraia, con le sue due gobbe, poco popolata ma sempre di moda fra gli sportivi,<br />

poi<br />

• l’Elba, più lontana ancora, ma più voluminosa: fa capire di essere piuttosto grossa, e, infine,<br />

• la Corsica, della quale si intravede la punta settentrionale: Capo Corso, detto anche familiarmen-<br />

te il Dito della Corsica.<br />

Nel contesto della Terrazza Mascagni, al suo limite settentrionale, c’è un’altra istituzione livorne-<br />

se che sta per uscire dal limbo provinciale per divenire una realtà nazionale, e forse qualcosa di più.<br />

E’<br />

• l’Acquario “Diacinto Cestoni” che, una volta restaurato, ampliato e restituito al pubblico, sarà<br />

uno dei poli scientifici più importanti d’Italia nel mondo della biologia marina.<br />

Farà coppia, per gli amanti del sapere, con<br />

• il Museo di Storia Naturale del Mediterraneo, da poco rinato a nuova vita e che ha sede poco<br />

più a monte, nel cuore dei rioni residenziali della città, nella neoclassica Villa Henderson ed<br />

ove era l’antica Porta Maremmana<br />

15 LO SCOGLIO DELLA REGINA, I SOGNI TURISTICI E LA REALTA’ SUGLI SCALI<br />

DEL CANTIERE NAVALE<br />

*************************************************************************<br />

pochi passi dalla Terrazza Mascagni e dall’Acquario, una zona quasi nascosta da pa-<br />

A lizzate e da altre baracchine porta il nome poetico di Scoglio della Regina. A dir il vero<br />

di poetico non c’è molto, perché si tratta di un piazzale di terra battuta che ospita, lato<br />

mare, una costruzione a più piani fortemente degradata, sulla quale si possono leggere<br />

con un po’ di buona volontà delle scritte.<br />

Sono la sua storia.


63<br />

E’ la storia del primo stabilimento balneare dell’Italia turistica, nato nel periodo della Restaurazione<br />

per volontà di Maria Luisa di Borbone, vedova di quel Lodovico I, che fu, per un brevissimo pe-<br />

riodo in epoca postnapoleonica, re d’Etruria e che si è fatto ricordare per aver fatto costruire nella<br />

media Valle del Serchio la strada che conduce in Garfagnana e che porta ancora il suo nome.<br />

Anche Maria Luisa si rese benemerita a Lucca: fece costruire da Lorenzo Nottolini - quello del<br />

Ponte delle Catene sul torrente Lima - l’acquedotto della città, e la cosa è ricordata da una lapide<br />

apposta sul fronte del basamento del monumento fattole erigere dalla comunità lucchese davanti al<br />

Palazzo Ducale di Piazza Napoleone.<br />

Maria Luisa era una spagnola che, durante la sua permanenza in Toscana, si era lasciata attrarre da<br />

una moda appena arrivata in Italia dall’Inghilterra: quella dei bagni naturali in acqua marina.<br />

Poiché, già alla fine del Settecento, a Livorno erano nati dei piccoli stabilimenti per la talasso-<br />

terapia, la regina d’Etruria li potenziò facendo anche scavare un piccolo canale che li congiun-<br />

gesse ad un grappolo di scogli che emergevano dalla sabbia della spiaggia.<br />

Lo scavo proseguì ricavando dai macigni anche una piscinetta quadra - che è stata ritrovata nel cor-<br />

so di recenti lavori di restauro - dove la regina vedova poté bagnarsi in magnifico isolamento lon-<br />

tana dagli occhi della plebe<br />

La piscina aveva il particolare che, nel bel mezzo dei suoi quattro lati, una canaletta scavata nella<br />

roccia viva collegava la vasca al mare. In questa maniera, l’acqua fluiva nella piscina naturalmente,<br />

limpida e fresca, eternamente rinnovata per le regie bagnature, alla periferia della zona portuale o-<br />

dorante di pece greca.<br />

E’ stato così che, per seguire una moda inglese, una regina spagnola vedova di un francese si fece<br />

fautrice della nascita in Italia dei bagni di mare.<br />

Allo stabilimento iniziale si aggiunsero con gli anni altre sovrastrutture, e quel che resta del primo<br />

stabilimento balneare dell’Italia turistica è quell’edificio fatiscente di cui si è detto, che fu, per più


64<br />

di un secolo, anche albergo di un certo tono; come il gigantesco Hotel Palazzo che è di fronte alla<br />

Terrazza, chiuso ormai da anni .<br />

Erano i simboli di una Livorno che aveva ambizioni di città di svaghi, allietata da luoghi di delizia.<br />

Negli anni Venti-Trenta, la città si era autodefinita Perla del Tirreno per la sua offerta di<br />

bagni di sabbia e di scoglio, ma ben presto fu detronizzata da Viareggio.<br />

Aveva anche delle terme con annesso albergo e si era illusa di essere la Montecatini-sul-<br />

Mare, ma nessuno ricorda più che a Livorno ci si andasse per passare le acque.<br />

L’albergo con stabilimento termale era nato su una fonte di acque oligominerali, ottime<br />

perché diuretiche quanto basta, ed aveva come annessi uno stabilimento per la bevuta<br />

mattutina al suono di un’orchestrina ed un altro per l’imbottigliamento di acqua da tavola,<br />

aranciate e gazzose con la biglia. Venduti alla Cocacola che chiuse tutto.<br />

Era evidente che le sorti della città erano non tanto nell’aleatorio futuro turistico, quanto in un più<br />

concreto presente industriale.<br />

Il presente industriale di Livorno è una zona vastissima a nord-ovest della città, sulla strada che<br />

conduce a Tirrenia, dove il porto commerciale coi suoi ricchi traffici di merci varie lascia posto ad<br />

un porto industriale.<br />

Vi attraccano soprattutto petroliere e portarinfuse che alimentano a loro volta grandi stabilimenti<br />

chimici e petrolchimici, centrali termoelettriche, cementifici ed altre installazioni che compor-<br />

tarono, al momento della loro installazione, grandi investimenti di capitali, ma che assorbirono pe-<br />

raltro poca manodopera.<br />

Ma una grande e bella realtà industriale manifatturiera, di quelle che sono fonte di occupazione,<br />

confina proprio con lo Scoglio della Regina.<br />

E’ il Cantiere Navale Fratelli Orlando.<br />

La sua è una storia che inizia con l’unità d’Italia, quando un’area derivata dallo smantellamento del<br />

Lazzaretto di San Rocco ed in seguito bonificata, fu affittata all’Ingegner Luigi Orlando ed ai<br />

suoi fratelli..


65<br />

In precedenza, lo spiazzo resosi libero dalle costruzioni del vecchio lazzaretto mediceo era stato<br />

occupato da alcuni piccoli cantieri di calafati che vi riparavano delle imbarcazioni e da alcuni mae-<br />

stri d’ascia che provvedevano alla costruzione di qualche barca da pesca e da carico.<br />

Orlando e i suoi fratelli venivano dalla Sicilia da poco annessa al Regno d’Italia, ed avevano già<br />

fatto un bel po’ di fortuna a Genova, dove avevano fondato uno stabilimento metallurgico e dato<br />

l’inizio all’attività cantieristica che avrebbe reso celebre nel mondo la Superba.<br />

Industriali e finanzieri di raro intuito, sarebbero divenuti in un secondo tempo - ai tempi della Tri-<br />

plice Alleanza - una specie di santi protettori dell’industria toscana.<br />

Avevano, infatti, iniziato anche la produzione metallurgica - leghe del rame, soprattutto - prima a<br />

Fornaci di Barga nella media valle del Serchio dove la Lucchesia diventa Garfagnana e, poi,<br />

sull’Appennino Pistoiese a Campotizzoro ed a Mammiano.<br />

Perché annidarsi fra quei monti per far dei laminati d’ottone è presto detto: i laminati in questione<br />

erano prodotti per la fabbricazione di bossoli per la fucileria e per l’artiglieria, ed era più saggio<br />

stare il più lontano possibile dalle coste e da ogni minaccia che venisse dal mare.<br />

Gli Orlando furono anche, a modo loro, dei benemeriti del turismo toscano perché finanziarono la<br />

costruzione del Ponte Sospeso di Mammiano e della FAP (Ferrovia Alto Pistoiese): di<br />

quest’ultima si è già parlato a proposito delle ferrovie toscane che non ci sono più.<br />

Il cantiere navale fondato e gestito da Luigi Orlando e dai suoi fratelli fu un esempio della prima<br />

industrializzazione italiana e, dai suoi scali, furono varate, nel corso dei decenni, non solo navi da<br />

passeggeri e da carico, ma anche molte navi da guerra.<br />

Vi fu costruito, negli anni Venti, anche il primo - ed ultimo - incrociatore leggero della Regia Ma-<br />

rina. Era una nave armata ma non corazzata, che batté diversi primati di velocità ma che nulla poté<br />

fare durante lo strapotere nel Mediterraneo della Royal Navy britannica, che lo affondò ingloriosa-<br />

mente nel primo periodo della seconda guerra mondiale.


66<br />

Poi venne la crisi del dopo ‘29, e, come quasi tutti i cantieri navali italiani, anche il glorioso cantie-<br />

re livornese fu fagocitato dall’IRI e dal suo braccio secolare Fincantieri: lavorò a tutto ritmo per<br />

tutto il periodo anteguerra, poi fu distrutto dagli eventi bellici e ricostruito.<br />

Ricominciò a lavorare duro ed a varare navi di tutti i tipi fra una bega sindacale e l’altra, fra uno<br />

sciopero generale ed una carica della Celere, fino a che non si affacciarono all’orizzonte della ma-<br />

rineria mondiale coreani e giapponesi che spiazzarono tutti i cantieri del mondo con le loro superpe-<br />

troliere da 250mila e più che costavano una bazzecola al confronto di quelle europee ed americane.<br />

Fu l’inizio dell’obsolescenza, simpatica paroletta del sociologhese che significa invecchiamento<br />

degli impianti e costi di produzione da infarto.<br />

Gli ultimi decenni videro il cantiere livornese svuotarsi di tutta la sua manodopera dalle mani d’oro:<br />

cassa integrazione, mobilità ed altri meccanismi infernali detti ammortizzatori sociali fecero il resto.<br />

Nel frattempo, però, era caduto l’Impero e le sue ideologie dirigistiche.<br />

Un gruppo di dipendenti si accorse che, se il lavoro c’era, tanto valeva gestirselo da soli: ed il lavo-<br />

ro c’era davvero.<br />

In tutto il mondo, infatti, la cantieristica stava riprendendo il volo ma con altri obiettivi: non più<br />

superpetroliere e megaportacontenitori da coreani e giapponesi, ma navi specializzate.<br />

Ed anche il Cantiere Navale Fratelli Orlando ricominciò a lavorare.<br />

Oggi costruisce navi piccole ma tecnologicamente perfette: gasiere, chimichiere, traghetti super-<br />

veloci.<br />

Ha anche una sezione che produce e ripara panfili ed altri battelli della cantieristica minore e c’è chi<br />

sogna di trasformare un grande specchio d’acqua da un secolo in concessione al cantiere in un porto<br />

turistico per gente col portafoglio a fisarmonica.<br />

Cosa, quest’ultima, nemmeno pensabile prima del fatidico Ottantanove; prima di allora il politburò<br />

livornese non avrebbe ammesso un’intrusione della plutocrazia nell’area portuale..<br />

Luigi Orlando è ricordato da un monumento opera dello scultore siciliano Cangemi, posto sulla<br />

piazza che fronteggia l’ingresso principale del cantiere da lui fondato, e che da lui prende nome.


Con Piazza Luigi Orlando termina Viale Italia.<br />

67<br />

17 TRE EMBLEMI DELLA LIVORNESITA’: IL FOSSO REALE, I QUATTRO MORI E<br />

LE FONTANE DEL TACCA<br />

********************************************************************************<br />

erminato Viale Italia con Piazza Luigi Orlando, la strada, prima di tornare ad essere<br />

T<br />

lungomare, attraversa una grande piazza alberata, Piazza Mazzini, dalla quale si dipartono<br />

verso monte alcune vie che conducono al cuore elegante della città. Sono strade molto<br />

animate, piene di negozi di ogni genere e affiancate da condominii molto popolosi, abitati<br />

da gente chiassosa ma allegra: l’atmosfera è molto mediterranea.<br />

Proseguendo sempre a dritto ed oltrepassato il lungo edificio degli uffici del Cantiere<br />

Navale un tempo brulicante di disegnatori chini sui tecnigrafi fra un mare di matite, di<br />

bottiglini di inchiostro di china e lucidi, ritorna la passeggiata a mare.<br />

Chi ha un po’ di spirito d’osservazione, noterà che la toponomastica cambia: queste strade non si<br />

chiamano più vie o viali, ma scali: sono il contraltare livornese delle veneziane fondamenta.<br />

Si comincia, infatti, con gli Scali Novi Lena ove, a destra di chi viaggia, alcuni palazzi sono in<br />

parte destinati ad uffici ed, un po’ prima di un ponte su di un canale, anche a scuole: vi è infatti la<br />

sede dell’Istituto Nautico, ove si forma il personale di coperta e di macchina della Marina Mer-<br />

cantile.<br />

A sinistra, invece, la Darsena del Cantiere, che è lo specchio d’acqua già citato di cui si vagheggia<br />

la destinazione a porto turistico d’alto bordo, poi un piccolo bacino di carenaggio ed una specie di<br />

porto-canale affollato di pescherecci e, superato il ponte, si prosegue con gli Scali Cialdini che<br />

conducono alla radice della Via Grande già citata, e, di qui, in Piazza Micheli ove si trovano altri


simboli della livornesità.<br />

68<br />

Infatti, tutta questa pur piccola area compendia molte cose che il visitatore accorto deve sapere per<br />

capire lo spirito di questa città:<br />

• il Fosso Reale, che è il canale che si sorpassa col ponte di cui sopra,<br />

• il monumento a Ferdinando I Medici, detto più comunemente dei Quattro Mori, in Piazza<br />

Micheli, e<br />

• le fontane di Pietro Tacca, in Piazza Colonnella, all’inizio di Via Grande.<br />

IL FOSSO REALE...<br />

Il Fosso Reale circondava le fortificazioni della prima Livorno che erano state volute verso la fine<br />

del ‘500 da Ferdinando I Medici, Granduca di Toscana. La costruzione di queste fortificazioni<br />

lunghe circa cinque chilometri con mura a bastione durò la bellezza di quindici anni. Due secoli<br />

dopo le mura medicee furono demolite per lasciar spazio alla città, ma il canale fu risparmiato e<br />

tuttora penetra nel cuore della città.<br />

Non è più un’opera difensiva, ma siccome i tempi cambiano, è da un secolo circa adibito a rifugio<br />

per le imbarcazioni da diporto che vi ormeggiano a migliaia.<br />

Il Fosso Reale era - ed è tuttora - attraversato da soli tre ponti, vale a dire:<br />

• il Ponte Nuovo, sul lungomare,<br />

• il Ponte di Piazza Cavour, ed, infine<br />

• il Voltone, che costituisce l’impiantito dell’attuale Piazza della Repubblica, quella coi due mo-<br />

numenti ai Lorena.<br />

All’altezza dell’elegante Piazza Cavour, il Fosso Reale è soprappassato il ponte omonimo, poi<br />

costeggia<br />

• la chiesa degli Olandesi in stile neogotico, che è sulla sua destra ed<br />

• il Mercato Centrale, che è alla sua sinistra.


69<br />

Come su tutti i canali che circondano la vecchia Livorno, anche sul Fosso Reale si af-<br />

facciano a pelo d’acqua le cosiddette cantine: erano i magazzini dei mercanti d’altri tempi ai<br />

quali le barche, provenienti dal vicino porto, attraccavano per trasbordarvi le merci appena ar-<br />

rivate. Oggi, le cantine che sono tuttora sulle sponde dei canali (o fossi) di Livorno, sono a-<br />

dibite a ripostigli per associazioni del tempo libero che vanno dai circoli di vogatori agli<br />

immancabili pescatori dilettanti; altre, invece, sono di proprietà di pochi privilegiati privati<br />

come quella che fa parte di un palazzo moderno e che è l’uscita a pelo d’acqua di una gal-<br />

leria d’arte di buon livello.<br />

• La Chiesa degli Olandesi è da parecchi anni chiusa al culto ed ha una bella facciata in pietra se-<br />

rena che si specchia nel canale.<br />

Fu fatta costruire durante il secolo scorso, secondo il gusto imperante fra i luterani, dalla ricca colo-<br />

nia di sudditi del Regno dei Paesi Bassi riuniti nella Congregazione Olandese-Alemanna, che ha<br />

la sua origine nella presenza di quella Nazione a Livorno dal 1602..<br />

Il tempio ha un interno severo ed al tempo stesso elegante, con scanni per i fedeli e vetrate molto<br />

colorate. Dicono che abbia un’acustica quasi perfetta, tanto che sarebbe ideale trasformarlo in sala<br />

da concerti, se si sapesse esattamente chi ne è il proprietario: tutti i discendenti dei suoi fondatori,<br />

infatti, sono da tempo scomparsi.<br />

Un comitato di cittadini formatosi anni fa vorrebbe tentarne il recupero con l’aiuto dell’Ambasciata<br />

d’Olanda, prima che tutto vada in perdizione.<br />

• Il Mercato Centrale, che è poco lontano ma sulla sinistra di chi guarda da Piazza Cavour, fu<br />

costruito su di uno spiazzo ricavato dalla demolizione delle vecchia mura medicee che correvano<br />

in quel punto.<br />

La sua erezione lasciò allibiti i campagnoli che venivano a Livorno a far compere, e ne fu artefice<br />

nel 1894 l’architetto Angiolo Badaloni che fece quasi una fotocopia di quello fiorentino di San


70<br />

Lorenzo di poco anteriore. Il buon Badaloni non sapeva di aver progettato e fatto costruire un an-<br />

tesignano degli attuali centri commerciali.<br />

Seppur nel cuore di una città iperattiva ma piccola e provinciale, il Mercato Centrale di Livorno è<br />

sempre un polo di prim’ordine, perfettamente aerato e reso luminoso da grandi finestroni che occu-<br />

pano tutto il perimetro dell’edificio.<br />

E’ una grande costruzione in muratura con una copertura di ferro e ghisa che fu eseguita dalle Offi-<br />

cine Fratelli Gambaro su disegno di E. Spagnoli: era, infatti, l’epoca degli architetti-ingegneri<br />

che costruivano in metallo opere ardite entrate nella storia dell’arte e del costume come la Tour<br />

Eiffel di Parigi e la Galleria Vittorio Emanuele II di Milano.<br />

Il Mercato Centrale ha un grande salone centrale che ospita più di duecento banchi di vendita di<br />

generi vari, affiancati da oltre trenta banchi di generi alimentari; due saloni laterali, invece, sono<br />

adibiti alla vendita di pesce, l’uno, e frutta e verdura, l’altro.<br />

Nel sottosuolo, vi sono novantaquattro cantine con celle frigorifere, e ciò dà un’idea della maestosi-<br />

tà e della funzionalità dell’edificio.<br />

A poche centinaia di metri in linea d’aria dal Mercato Centrale, in un rione che è oggi uno dei più<br />

signorili del centro, abitava una famiglia agiata di lontana origine ebraica come tantedella città. Uno<br />

dei suoi ragazzi era pervaso dal furore dell’arte: plasmava, nello studio che aveva affittato non lon-<br />

tano dal mercato, sculturine accademiche e dipingeva alla maniera dei Macchiaioli.<br />

Fece a tempo a conoscere Giovanni Fattori e fu allievo di Guglielmo Micheli insieme a Llewelyn<br />

Lloid, Gino Romiti e Manlio Martinelli.<br />

Ben presto capì che non era quella la strada da seguire, perché già allora la sua città era piena di<br />

pittori, più o meno dilettanti, tutti più o meno bravi.<br />

Le idee e le stranezze dei Futuristi, però, cominciavano a farsi largo non tanto fra i benpensanti,<br />

quanto fra gli artisti più intelligenti, ed il ragazzo livornese volle seguire la loro maniera.


71<br />

Cominciò a ritrarre donne dal collo lungo come quelli dei cigni e a scolpire cose che sembravano<br />

venire dall’Africa.<br />

Poi emigrò a Parigi, e, fino al 1920 - era del 1884 - visse una vita di stenti e si autodistrusse<br />

nell’alcool, nell’oppio e nell’eros, travolgendo con la sua morte anche sua moglie che si uccise non<br />

si sa bene se dal dolore o dalla vergogna di aver amato un macaronì.<br />

E’ sepolto al cimitero di Père-Lechaise insieme a tanti altri artisti più o meno famosi della sua epo-<br />

ca, ed è tuttora considerato un genio dell’arte moderna.<br />

Si chiamava Amedeo Modigliani, e la sua città gli ha dedicato una strada anonima in un rione peri-<br />

ferico di case operaie non lontano dalla stazione ferroviaria.<br />

Una lapide, però, lo ricorda nel Famedio dei Livornesi che è davanti al Santuario di Montenero.<br />

Si favoleggiò per tanto tempo che Amedeo Modigliani, nel primo periodo vissuto nella sua città,<br />

avesse creato nel suo studio alcune sculture ricavandole da cordoli di macigno trovati in un can-<br />

tiere stradale: ma che, avendole giudicandole brutte ed approssimative, le avesse caricate una not-<br />

te su una carriola e le avesse gettate senza tanti complimenti nel Fosso Reale che scorre poco lon-<br />

tano.<br />

Un’ottantina d’anni dopo, alcuni soloni dell’arte moderna ripescarono la vecchia diceria e fecero<br />

dragare - a spese del Comune, ovviamente - il canale, alla ricerca delle sculture di Modigliani.<br />

Fra la attonita meraviglia di tutti ed il fruscio di decine di telecamere, una draga tirò su dal limo<br />

del canale tre o quattro pezzi di pietra che potevano anche raffigurare delle teste di donna: non<br />

potevano che essere le sculture gettate via dal giovane Modigliani.<br />

Qualche mese dopo la scoperta, che mobilitò tutti i mass-media del mondo, due o tre giova- not-<br />

ti livornesi si presentarono a Panorama con un video amatoriale da loro confe- zionato nel quale<br />

avevano registrato quella che doveva divenire la beffa più atroce di<br />

una città che beffarda è sempre stata.


72<br />

Erano loro, infatti, gli autori delle presunte sculture di Modigliani, fatte nel giardino della casa di<br />

uno dei burloni, con pezzi di macigno trovati chissà dove e scolpiti rozzamente con un trapano del-<br />

la Black & Decker, che forse aveva sponsorizzato l’operazione-beffa.<br />

Il filmato fu trasmesso anche in una puntata di Telemike e, poi, i burloni finirono nell’anonimato,<br />

ma i soloni dell’arte moderna continuarono a pontificare dalle loro cattedre universitarie.<br />

..I QUATTRO MORI...<br />

Immediatamente dopo la zona semaforica situata davanti al Porto Mediceo, uno slargo con albergo<br />

e ristorante è Piazza Micheli, famosa ovunque perché ospita il monumento detto familiarmente dei<br />

Quattro Mori.<br />

Questo monumento è, in realtà, una statua eretta in epoca seicentesca per onorare Ferdinando I<br />

Medici: è tutta di marmo bianco come il suo basamento.<br />

Ne fu l’autore lo scultore fiorentino Giovanni Bandini che la portò a compimento tra il 1617 e<br />

l’anno successivo.<br />

Alla base del grosso piedistallo furono anche collocate quattro statue di bronzo raffiguranti quattro<br />

saraceni (i mori) incatenati.Le prime due statue - quelle che guardano il porto - furono realizzate nel<br />

1623 e le altre due nel 1626.<br />

Modelli delle quattro sculture furono quattro prigionieri saraceni (tunisini, algerini, chissà) che era-<br />

no stati rinchiusi nel non lontano Bagno delle Galere, ed ai quali fu concessa la grazie e la libertà<br />

per la pazienza dimostrata durante la posa.<br />

Poco lontano da questo monumento - ma un po’ a monte - in una piazza detta del Logo Pio in ri-<br />

cordo di antiche devozioni livornesi, una chiesa sei-settecentesca restaurata ed aperta al culto, è<br />

dedicata a San Ferdinando: il motivo di ciò sta nel fatto che il mai tanto celebrato Ferdinando I<br />

fra le varie cose di cui poté andar fiero fu di aver fatto arrivare a Livorno un primo drappello di<br />

Padri Trinitari. Erano gli appartenenti ad una congregazione fonda ta a Cerfroid,in Francia, nel<br />

1098 da Giovanni De Mata, e che si distinse, già dal tempo delle Crociate, nel far liberare dalla<br />

schiavitù nella quale erano stati sottoposti dai Saraceni molti soldati delle milizie cristiane. In se-


73<br />

guito, la missione umanitaria dei Padri Trinitari proseguì nel Mediterraneo con sempre più nume-<br />

rosi scambi di prigionieri: tanti sara ceni contro altrettanti cristiani e viceversa.<br />

E, poiché Livorno aveva nel Bagno delle Galere molti prigionieri saraceni, il lavoro non mancò ai<br />

buoni Trinitari. Che, per ringraziamento a Ferdinando I, eressero una chiesa intitolata a San<br />

Ferdinando di Castiglia del quale il granduca portava il nome.<br />

Autore delle quattro sculture rappresentanti i quattro prigionieri saracesni fu il carrarese Pietro<br />

Tacca, molto attivo nel periodo della Maniera presso la corte dei Medici ed autore di opere che si<br />

possono ammirare a Firenze: suo il monumento equestre che è in Piazza della Santissima Annun-<br />

ziata.<br />

E’ luogo comune dire che c’è un punto di Piazza Micheli dal quale è possibile vedere tutti i quattro<br />

nasi dei mori (o saraceni, o magrebini) contemporaneamente: ed è vero. Per questo motivi non è<br />

difficile trovare sul luogo turisti che si fanno fotografare mentre guardano i quattro nasi.<br />

La città natale di Pietro Tacca, Carrara, ha eretto a questo grande scultore del periodo manieristi-<br />

co un monumento che lo raffigura mentre, con le mani dietro la schiena come se fosse incatenato,<br />

mima ad un moro la posizione che deve tenere per essere ritratto.<br />

Il monumento a Pietro Tacca è posto nei giardini difronte all’Accademia di Belle Arti, e la figura<br />

reclina altro non è che l’autoritratto dell’autore del monumento: quel Carlo Fontana, scultore car-<br />

rarese della belle-époque che si rese famoso, ai suoi tempi, per aver modellato la quadriga di bron-<br />

zo che sovrasta l’Altare della Patria a Roma.<br />

...E LE FONTANE DEL TACCA<br />

Da Piazza Micheli basta far quattro passi all’indietro ed imboccare Via Grande: dopo qualche de-<br />

cina di metri una piazzetta, spaccata in due dall’arteria, ospita a sua volta altre due sculture di Pie-<br />

tro Tacca.<br />

Sono le sue famose Fontane, bizzarre sculture a forma di animali altrettanto bizzarri, che ornavano<br />

i lati del monumento detto dei Quattro Mori,


Non sono gli originali, ma copie e la loro storia è, a sua volta, alquanto bizzarra.<br />

74<br />

Infatti, nel 1618 Cosimo II Medici fece erigere da Giovanni Bandini il monumento a suo padre<br />

Ferdinando I, vincitore dei saraceni.<br />

Qualche anno dopo, Pietro Tacca, che aveva aggiunto alla base del monumento al granduca le<br />

quattro sculture raffiguranti i saraceni vinti ed incatenati, ebbe l’incarico granducale di costruirvi ai<br />

lati due bizzarre fontanelle, che furono plasmate, fuse nel bronzo e collocate ove voleva Cosimo II,<br />

nel 1629.<br />

Sennonché, nel frattempo, Cosimo II era tornato alla casa del padre e suo figlio ed erede al trono,<br />

Ferdinando II si invaghì delle due opere del Tacca e, senza tanti complimenti, le fece smontare e<br />

rimontare a Firenze in Piazza della Santissima Annunziata ove chiunque può tuttora ammirarle.<br />

Toccava ai posteri stabilire se le due fontane fossero livornesi o fiorentine e fu trovato un compro-<br />

messo fra le due maggiori città di quello che fu il granducato.<br />

Firenze avrebbe continuato a tenersi gli originali, mentre Livorno avrebbe avuto come risarcimento<br />

le copie identiche. Così fu, ma non subito: dovettero passare alcuni secoli perché i fiorentini conse-<br />

gnarono le copie nientemeno che negli anni ‘50 del ‘900, ai tempi delll’amministrazione di quel ga-<br />

lantuomo che fu La Pira.<br />

Altro compromesso: delle copie delle due fontanelle, una sarebbe stata pagata dal Pantalone fioren-<br />

tino ed una dal suo simile livornese. E così fu.<br />

18 LA FORTEZZA VECCHIA: DA FORTE PISANO A PALCOSCENICO PER BALLETTI<br />

********************************************************************************


75<br />

Fatti quattro passi di numero oltre i l monumento del Quattro Mori, ci si ritrova in Piazza<br />

del Pamiglione: non c’è nulla di eccezionale, come il lettore può confermare, se, sulla si-<br />

nistra di chi viaggia - o meglio passeggia - non si scorgesse la mole rosa-violetto della<br />

Fortezza Vecchia, che sorge dall’acqua di una vecchia darsena. .<br />

Si dice che questo colore a mezzatinta delle mura esterne dell’antica fortificazione ispiri<br />

certe tavolozze di certi pittori livornesi che la fanno da padroni, d’estate e nei luoghi più<br />

impensati di vacanze, nei concorsi ex-tempore di pittura: la loro caratteristica, infatti, è di<br />

aver in tavolozza un color rosa-violetto che pochi altri hanno.<br />

La Fortezza Vecchia ha questo colore tipico perché è tutta di laterizio, e rassomiglia così tante al-<br />

tre fortificazioni fiorentine che si trovano nella Toscana Interna.<br />

Come, per esempio, nel comprensorio delle Colline Pisane - lontano da Livorno una quarantina di<br />

chilometri in linea d’aria - a Lari, paesotto piuttosto famoso in Toscana non solo come produttore<br />

di ciliege, ma anche per un fortilizio fiorentino chiamato dai larigiani ‘Il Castello’.<br />

La funzione di questi fortilizi era, inizialmente, di difesa: quando Firenze era in guerra con Pisa,<br />

Pisa con Lucca, Lucca con Volterra, Volterra con Siena, Siena con Firenze e via elencando.<br />

Poi i tempi piano piano cambiarono, Firenze ebbe il sopravvento, e, proprio da Firenze , par-<br />

tirono altre disposizioni: i fortilizi divennero sede di magistrature chiamate vicariati che aveva-<br />

no come scopo non tanto il comminare pene varie a ladri di polli od avvinazzati turbatori della<br />

quiete pubblica, quanto di tassare il più possibile con ogni tipo di gabella i malcapitati abitanti del-<br />

la Signoria prima e del Granducato poi.<br />

Ma questo solo nella Toscana Interna, perché lungo la costa, dall’attuale Bocca di Magra -<br />

che era genovese - a Roma, si estendeva una lunga pianura ricca solo di paludi: la Maremma.<br />

Malaria, miseria, desolazione e, in riva al mare, incursioni di pirati.<br />

A difendere la costa ed a tentare di renderne fertile il retroterra c’era stata, invero, la Repubblica<br />

Marinara di Pisa; ma dopo la sconfitta subìta coi genovesi alla fine del Duecento alla Meloria, era


76<br />

passata da un malgoverno all’altro, ed era caduta preda delle brame fio rentine che la fecero ca-<br />

dere e ne distrussero il potere costiero.<br />

Si presume che i fortilizi fiorentini di tal fatta fossero tutti di laterizio perché nati in zone dove non<br />

esistevano cave di macigno: o, perlomeno, dove il macigno col quale poter costruire doveva essere<br />

scavato in luoghi tanto distanti da non renderlo economico come materiale da costruzione.<br />

E, poiché tutt’intorno terraccia ed argilla abbondavano, ecco il nascere di fornaci fumiganti per la<br />

produzione di mattoni pieni, atti alla costruzione di qualunque edificio: anche di fortilizi.<br />

Quello che oggi si chiama Fortezza Vecchia fu fatto costruire nel Cinquecento da Giulio dei Me-<br />

dici, futuro Papa Clemente VII, che diede l’incarico del progetto ad Antonio da Sangallo il Vec-<br />

chio.<br />

Il fortilizio fu finito di costruire verso la fine di quel secolo, e la sua edificazione comportò<br />

l’inglobamento di un vecchio edificio a pianta quadrata e di una torre.<br />

Ambedue questi edifici preesistenti erano di origine pisana, dal momento che proprio poco lontano<br />

esisteva quel Porto Pisano del quale tutt’oggi si favoleggia, e dove dovevano avere ricovero le navi<br />

della Repubblica Marinara prima del suo interramento naturale definitivo.<br />

Essi erano<br />

• quella che oggi si chiama la Quadratura dei Pisani, rimanenza di quello che doveva essere il<br />

nucleo del sistema difensivo del porto della Repubblica, e<br />

• la Torre (o Mastio) di Matilde, così chiamata perché fatta costruire, ancor prima, nel secolo<br />

XII, da quella Contessa Matilde di Toscana rimasta nella memoria collettiva per l’affaire di<br />

Canossa.<br />

Torre e forte quadrato furono teatro, nei secoli successivi, di diverse sanguinose battaglie; furono<br />

più volte distrutti e ricostruiti da parte dei regnanti che via via si succedevano in quel periodo tor-<br />

mentato e nebuloso della nostra storia remota.


77<br />

Il fortilizio pisano era nato, oltre che a difesa di un improbabile porto militare e di un piccolo vil-<br />

laggio di pescatori, anche di un faro alto 51 metri che alcuni studiosi attribuiscono a Giovanni Pi-<br />

sano, scultore ed architetto del Trecento.<br />

Il faro, detto più comunemente Fanale, è ben visibile oltre le maestose mura della Fortezza Vec-<br />

chia, ed è apparentemente costituito da due torri a tronco di cono che ne fanno una<br />

costruzione piuttosto curiosa.<br />

La curiosità della costruzione sta nel fatto che le torri che lo compongono non sono due sole, ma la<br />

bellezza di sette: tutte a cilindri soprapposti ed a diametri decrescenti.<br />

Il Fanale resistette nei secoli fino al 1944, quando fu fatto saltar in aria dalle truppe tedesche in<br />

ritirata.<br />

Fu, poi, ricostruito com’era e dov’era e reinaugurato il 16 Settembre 1956, in occasione delle cele-<br />

brazioni del 350° anniversario della fondazione della città.<br />

Ma altre torri di guardia erano disseminate lungo la costa - in parte sabbiosa ed in parte tutta scogli<br />

affioranti dal mare - ed anche al largo.<br />

Ne sono rimasti due esempi, che sono citati nei libri di storia della navigazione e sono ambedue ben<br />

visibili da chi sosta nei pressi della Fortezza Vecchia.<br />

Esse sono:<br />

• la Torre del Marzocco, che è situata sulla diga omonima, e che è all’imboccatura del porto in-<br />

dustriale. Al momento della sua costruzione, nel Quattrocento, quella zona era totalmente acqui-<br />

trinosa e quindi difficilmente attaccabile da pirati o nemici: perciò la Signoria fiorentina la fece<br />

costruire ampia ed alta, degna di ospitare una guarnigione abbastanza numerosa rispetto ai pochi<br />

armati che occupavano, invece, le altre torri ora scomparse.<br />

La Torre del Marzocco - chiamata così in onore dell’insegna della Signoria, un leone che tie-<br />

ne fra le zampe lo scudo gigliato di Firenze - è alta 54 metri ed è interamente fasciata di marmo<br />

bianco.<br />

E’ di forma ottagonale ed ad ogni lato porta il nome del vento al quale il lato stesso è ri volto.


78<br />

E, ben visibile al largo anche ad occhio nudo, meglio con un binocolo anche modesto, la Torre del-<br />

la Meloria, fatta ricostruire nel 1598 dal solito e benemerito Ferdinando I Medici, sui resti di un<br />

primitivo faro pisano, andato distrutto nel 1284 durante la battaglia navale che vide la sconfitta del<br />

Pisani contro i Genovesi e la fine del predominio della Repubblica Marinara toscana sul Tirreno. La<br />

torre era a quattro miglia marine dalla costa, ed al centro di una zona dove gli scogli affiorano<br />

dall’acqua: le famose Secche della Meloria, oggi paradiso di pescatori di canna e subacquei.<br />

La torre medicea non ebbe, però, gran fortuna: il mare se la mangiò ben presto e ci volle un secolo<br />

di vicissitudini varie per la sua ricostruzione. Ciò avvenne nel 1709: la Torre della Meloria fu fatta<br />

riedificare da uno degli ultimi Medici in forma di parallelepipedo con quattro archi alla base.<br />

Dopo la sconfitta della Meloria, Pisa e la sua Repubblica Marinara decaddero a tal punto che tut-<br />

ta la zona costiera fu venduta più volte. Prima al Duca di Milano e, successivamente, alla Repub-<br />

blica di Genova.<br />

Quest’ultima si sbarazzò nel Cinquecento del luogo malarico ed insicuro, vendendo il tutto alla<br />

emergente Signoria di Firenze che non aveva sbocco al mare.<br />

Niente mare per i Fiorentini, ma molte ambizioni di potenza marittima antiturca perché, dopo due<br />

secoli di dominazione sulla affamata ed umiliata Pisa, si sentivano in dovere dì armare una flotta<br />

che eguagliasse quella dei loro odiati predecessori.<br />

Oggi la Fortezza Vecchia è visitabile solo su appuntamento da concordare con le guide turistiche<br />

della città, ma, durante l’estate, viene di volta in volta aperta al pubblico ed in quella che fu la<br />

Quadratura dei Pisani, si tengono anche degli spettacoli di balletto e concerti di musica colta.<br />

Il suo restauro è ancora in corso, ed è lungo e difficile perché, durante i secoli, il vec- chio<br />

fortilizio fiorentino fu adibito, come tutti i suoi confratelli, agli usi più diversi, carceri e bagni pe-<br />

nali compresi. Furono anche costruite nel suo perimetro delle sovrastrutture non certo da<br />

enciclopedia dell’architettura e, quasi certamente, ebbe dei danni - piuttosto vi- stosi dalle crepe<br />

che si intravedono qua e là lungo i suoi bastioni - a causa di alcuni ma remoti che avvennero da-


79<br />

vanti a Livorno e che coinvolsero anche la città: anche il non più recente secondo conflitto<br />

mondiale lasciò segni difficilmente cancellabili.<br />

Fu così che nacque la città di Livorno; ed il suo topònimo fu ricavato, dagli eruditi della fine del<br />

Cinquecento, da un Castrum Liburnii di origini alquanto incerte. Forse era il nome di un accam-<br />

pamento romano che poteva aver avuto sede nel luogo ove è la Fortezza Vecchia, e che costituì il<br />

primo nucleo di una città-porto fortificata.<br />

Fu chiamato, espressamente da Firenze, Bernardo Buontalenti.<br />

Egli si mise subito al lavoro, anche perché aveva già lavorato molto bene come architetto di corte<br />

dei Medici. Per esempio, aveva progettato - o comunque ispirato ad altri suoi colleghi meno famosi<br />

- quasi tutte le ville medicee che sono tuttora sparse in tutta la Toscana, dal Mugello alla Valdera<br />

Erano ville ai margini del Granducato, quasi tutte situate al centro di vasti possedimenti agricoli<br />

della famiglia Medici, ma ubicate in zone se non disagiate, in territori di confine ed in luoghi ove -<br />

briganti a parte - la gente era sempre pronta a menar le mani.<br />

Ville che assomigliano a fortilizi, quasi sempre con quattro torri ai vertici, con mura spesse e feri-<br />

toie ovunque.<br />

Arrivato sul posto, Bernardo Buontalenti si mise subito al lavoro e progettò una città ideale che<br />

ben presto prese la forma di un pentagono esatto:<br />

• il lato inferiore del pentagono era il mare e la Fortezza,<br />

• il vertice era un altro fortilizio da costruire al più presto,<br />

• i lati erano una potente cinta muraria circondata da due canali che convergevano verso il vertice.<br />

Uno dei due canali lo conosciamo già, perché è il Fosso Reale: l’altro sarebbe stato scavato qualche<br />

anno dopo la venuta del Buontalenti ed attualmente si chiama Fosso della Venezia.<br />

Regnava sul Granducato Ferdinando I Medici.


80<br />

19 UNA SECONDA GRANDE FORTEZZA, LA NUOVA VENEZIA E LA CITTÀ’ MULTI-<br />

ETNICA<br />

*******************************************************************************<br />

Davanti alla Fortezza Vecchia un canale che penetra nel cuore della città come il suo gemello detto<br />

Reale, porta il curioso nome di Fosso della Venezia: esso collega il fortilizio di cui sopra con<br />

un altro grande fortilizio.<br />

Il perché dell’affinità tra Livorno e Venezia non è dato solo da quei due canali e da altri che, con<br />

un po’ di pazienza e perseveranza, il lettore può mano a mano scoprire. Sono tutti navigabili, e, al-<br />

la domenica, percorsi da battelli per brevi gite turistiche.<br />

Tutto ciò è dovuto al fatto che, regnando il benemerito Ferdinando I Medici vincitore dei pirati sa-<br />

raceni, oltre all’esperimento del Buontalenti di costruire una città fortificata, sì, ma ideale, fu an-<br />

che sperimentata una copiatura di Venezia.<br />

Qualcuno di Firenze - se non il granduca stesso - era stato presso i Dogi ed era rimasto esterrefatto<br />

della bellezza magica della città tutta attraversata da canali. Si era chiesto: dato che qui noi ne stia-<br />

mo costruendo sul mare una nuova, proviamo a dotare il granducato di una città simile a quella dei<br />

Dogi.<br />

E così fu fatto, perché Ferdinando I aveva dato incarico al Cogorano, un architetto della corte me-<br />

dicea meno famoso del Buontanlenti ma non per questo meno bravo in materia di fortificazioni, di<br />

realizzare una nuova cinta muraria che aveva come vertice a monte un’altra grande fortezza.<br />

Lo stesso Claudio Cucurrano (o Cogorano), insieme ad Antonio Cantagallina e Padre Giovan-<br />

ni Antonio Mezzenta fu anche il responsabile dei lavori dello scavo del canale che poi si sarebbe


chiamato popolarmente Fosso Reale: un lavoro immane compiuto in pochi mesi, all’inizio del<br />

81<br />

1600, da 6.200 forzati che scavarono ventiquattr’ore su ventiquattro sotto la minaccia dello staffile<br />

dei sorveglianti e degli sbirri granducali e tormentati di miliardi di zanzare, al pari di migliaia di ca-<br />

valli, muli ed asini che trainavano carriaggi e barrocci.<br />

Quando il lavoro fu finit, il canale circondò una specie di isola - in pentagono ideato dal Bontalenti<br />

- lambendo la seconda fortezza<br />

E’ quella che attualmente è nota come Fortezza Nuova e che, nei primi tempi, era molto più am-<br />

pia di quanto è adesso: fu trasformata nell’Ottocento - una volta terminata la sua fun- zione mili-<br />

tare - in un giardino pubblico e fa parte del sistema degli spazi verdi della città di Livorno.<br />

Vi si svolgono anche manifestazioni all’aperto ed al chiuso: queste ultime si svolgono nei cunicoli<br />

che una volta erano magazzini. stalle e casematte<br />

Nei frenetici anni di regno ferdinandeo, fu compiuto anche il progetto della nuova Venezia sul Tir-<br />

reno o Nuova Venezia.<br />

Fu ridisegnaata la Fortezza Nuova appena costruita e, nella congiunzione fra le due fortezze che<br />

difendevano Livorno, una a mare e l’altra a monte, fu dato avvio ad un rione tutto intersecato da<br />

canali navigabili affiancati da ampi scali per il passaggio di carri e pedoni, sui quali potevano essere<br />

costruiti palazzi e chiese, edifici pubblici e privati.<br />

Non restava che popolare quella nuova città, ideale e nuova di zecca fin che si vuole ma ai li-<br />

miti di un territorio da sempre malarico e poco abitato.<br />

A Firenze ebbero un’intuizione che avrebbe meritato maggior considerazione da parte degli storici<br />

italiani e stranieri del tardo Rinascimento e de primi anni della Decadenza: fu decretato che la cit-<br />

tà fosse porto franco - e cioè senza barriere doganali: esentasse insomma - e che chi vi si fosse sta-<br />

bilito sarebbe stato il benvenuto.<br />

Occhiuti commercianti di tutta l’area del Mediterraneo seppero ben presto della decisione fiorenti-<br />

na e non si fecero dire due volte di traslocare nella neonata Livorno le loro attività, una volta av-<br />

vertiti della faccenda dell’esentasse. A loro seguì gente di ogni razza e religione: balcanici, dàlma-


82<br />

ti, turchi e libanesi, inglesi, armeni, fiamminghi, tedeschi e,soprattutto, ebrei sefarditi ancora in<br />

cerca di una patria dopo la loro cacciata da parte dei Re Cattolici dalla Spagna e dal Portogallo<br />

in seguito alla Reconquista del secolo pre- cedente.<br />

E, poi, i greci che ebbero addirittura, intorno alle fine del ‘600, un governatore della città: Imma-<br />

nuel Volterras che volle a Livorno la cerimonia bizantina della benedizione del mare. L’evento<br />

durò centootto anni fino alla disgregazione della comunità greco-livornese,<br />

ed il suo rito solenne quanto singolare è stato recentemente recuperato anche per volontà della<br />

diocesi cattolica locale, particolarmente sensibile all’ecumenismo.<br />

Ma c’è di più, perché fra il popolino livornese che scambiava la devozione con la superstizione era<br />

uso, in altri tempi, andar a chieder grazie alla Madonna farsi benedire a Montenero: ma, poi, se<br />

quanto chiesto alla Vergine Maria non veniva concesso, qualcuno passava dagli archimandriti gre-<br />

ci per ripetere il rito propiziatorio. Le litanie e le suppliche in greco bizantino pare che avessero<br />

più effetto di quelle in latino della Chiesa cattolica, e da allora è rimasta nel vernacolo livornesela<br />

locuzione“Va’ a farti benedì da’ Greci” che significa “Vattene un po’ a quel paese”.<br />

Le leggi granducali che permisero tutto questo e che fecero di Livorno una città libera e senza ghet-<br />

to, sono ricordate negli annali della storia minore d’Italia come Leggi Livornine, e, degli insedia-<br />

menti che seguirono, restano tuttora tracce indelebili: sia nella toponomastica, sia nei casati, sia nel-<br />

le tradizioni e nei culti.<br />

Malgrado fosse una città piccola, Livorno ospitava chiese e cimiteri di ogni rito cristiano più che<br />

ogni altra d’Italia: ci sono tuttora non solo chiese cattoliche governate dagli ordini maggiori, ma<br />

anche chiese<br />

• dei Greci Uniti (cattolici di rito greco)<br />

• dei Greci Ortodossi; poi, la già citata chiesa<br />

• degli Olandesi-Alemanni, una<br />

• dei Valdesi-luterani, ed una sinagoga moderna


• degli Ebrei-sefarditi.<br />

83<br />

Quest’ultima, costruita negli anni Cinquanta sulle rovine della precedente distrutta dai bombarda-<br />

menti alleati, ha la forma di una grande tenda del deserto: è situata in una piazza laterale rispetto a<br />

Via Grande, poco lontana dalle fontane del Tacca e che è intitolata al buon Rabbino Benamozegh<br />

che resse la comunità ebraica livornese nell’800.<br />

La puzza della pece greca, delle salacche, del baccalà e dei formaggi pecorini immagazzinati nelle<br />

cantine a fior d’acqua della Nuova Venezia, è ormai scomparsa da un bel pezzo, però rimangono<br />

vecchi palazzi signorili, ricordi di residenze di ricchi commercianti, ponti e strade strette come le<br />

calli della vera Venezia.<br />

E’ rimasto anche un edificio lungo e stretto che fu adibito per secoli a deposito dell’olio di oliva:<br />

ove le partite erano introdotte - e fatte poi uscire per l’imbarco per chissà dove, o per la distribu-<br />

zione nel territorio granducale - più o meno come si fa adesso col vino nelle cantine sociali.<br />

L’edificio si chiama I Bottini dell’Olio, dove bottino era il nome di un orcio (o giara) da olio in ter-<br />

racotta, interrato nel magazzino come una cisterna di piccole proporzioni.<br />

Sul portale della costruzione una lapide del latino ampolloso del Settecento ricorda un regnante lo-<br />

renese che volle questo magazzino, che è ora adibito a sede espositiva ed ove si svolgono mostre di<br />

ogni genere, da quelle d’arte a quelle legate al mondo dell’hobbismo.<br />

Altre manifestazioni si susseguono, proprio in questo piuttoresco rione, durante la prima settimana<br />

di ogni Agosto: la serie si chiama Effetto Venezia ed è un’orgia di cose goderecce organizzata dal<br />

Comune di Livorno, alla stregua di quanto si fa, qualche settimana prima, a Certaldo con Mercan-<br />

tia.<br />

Con le immancabili abbuffate a base di cacciucco negli antri della Fortezza Nuova e di concerti di<br />

musica colta in quella Vecchia, tutta la Nuova Venezia appare - in quelle serate d’estate in cui<br />

trionfa un’afa che neanche la brezza del mare che è lì a duecento metri riesce a sconfiggere - un gi-<br />

rotondo di cose stravaganti e di cose belle.


84<br />

Si va dal mercatino dell’antiquariato e del modernariato al teatro di strada, dai trampolieri agli in-<br />

dovini, dai fuochi artificiali finali allo spettacolo di luci al laser.<br />

Da non perdere a chi càpita ai primi d’agosto in Toscana; prima, cioè, che tutta la regione chiuda<br />

per ferie e diventi un cimitero di saracinesche chiuse.<br />

Nel rione della Nuova Venezia ci sono, però, anche alcuni importanti monumenti ed edifici di culto<br />

come<br />

• la chiesa di San Ferdinando, settecentesca, progettata da G.B.Foggini e con sontuosa decora-<br />

zione interna opera del carraraese Giovanni Baratta; oggi è luogo di culto della Chiesa Avven-<br />

tista,<br />

• la chiesa ottagonale di Santa Caterina, con grandiosa cupola e, all’interno, un’Incoronazione<br />

di Maria di Giorgio Vasari e, sul suo retro, il tetro edificio che ospitò, fino a qualche decennio<br />

fa,<br />

• il carcere di San Domenico: una lapide apposta sul lato che fronteggia un canale dice che, fra<br />

gli altri, vi soggiornò anche Sandro Pertini.<br />

20 TRE CHIESE PER TRE RITI, UNA REPUBBLICA DIMENTICATA , IL MERCATINO<br />

DEI SURPLUS ED UN MASCAGNI PRODUTTORE DI MOTOCICLETTE<br />

**************************************************************************<br />

A pochi passi dai Bottini dell’Olio, Via della Madonna conduce, oltrepassato l’omonimo ponte<br />

su di un canale, nella Via Grande, già citata.<br />

Ci sarebbe anche in questo caso poco da dire, perché il tragitto si svolge nel secondo tratto tra con-<br />

dominii-scatolone costruiti nel secondo dopoguerra e che non appaiono in nessuna enciclopedia<br />

dell’architettura.


85<br />

Anche la stessa Via Grande, nonostante i suoi portici che ne fanno uno dei rari esempi in To-<br />

scana di città un po’ alla bolognese, non ne è un compendio anche se si nota una certa influenza<br />

dell’architettura razionale: quella che i milanesi conoscono come architettura di San Babila<br />

e che molti intellettuali marxisti continuano ancor oggi a definire fascista.<br />

Tutta la Via Grande appartiene, invece, al periodo della ricostruzione dell’immediato secondo do-<br />

poguerra, dal momento che tutto il centro della città di Livorno, dal porto in poi, fu letteralmente<br />

raso al suolo da continui, terrificanti bombardamenti alleati fino al giorno dell’occupazione della<br />

città da parte delle truppe americane.<br />

Via della Madonna è importante per capire ulteriormente lo spirito della città e le sue origini mul-<br />

tietniche: infatti, si affacciano sulla sinistra di chi prosegue verso Via Grande, tre chiese in rapida<br />

successione:<br />

• la Chiesa degli Armeni, con portale barocco, unica cosa rimasta dopo un bombardamento e che<br />

alle origini fu della comunità cattolico-armena che vi celebrava con i suoi riti;<br />

• la Chiesa della Madonna vera e propria, settecentesca e di rito cattolico romano, e<br />

• la Chiesa della Visitazione, che fu dei Greci Uniti, e cioè dei cattolici di rito greco.<br />

Queste ultime due chiese furoino progettatte da A. Pieroni, ma, due secoli dopo, tutte e tre furono<br />

distrutte dai bombardamenti alleati.<br />

Poi furono ricostruite; ma, mentre la prima è sconsacrata ed adibita a centro sociale, le altre due la-<br />

sciano capire quale fosse la dovizia dei loro arredi, la profusione di marmi, i loro altari spesso opera<br />

di scultori carraresi ora dimenticati come il Baratta ed il Pelliccia.<br />

In quella greca, un grande pannello detto iconostasi è all’altezza dell’altare maggiore ed è dipinto<br />

alla maniera bizantina: emana un fascino discreto di cose orientali.<br />

Via Grande è la via dei grandi magazzini, dei negozi lussuosi e spaziosi, e del passeggio pomeri-<br />

diano dei livornesi purosangue e di quelli del contado. Come si è già accennato, collega il lungoma-


86<br />

re ed il porto mediceo con la Piazza della Repubblica o del Voltone sotto la quale passa il Fosso<br />

Reale.<br />

A dir il vero, e secondo i ricordi dei livornesi di una certa età, Via Grande, prima delle distruzioni<br />

della guerra e la successiva ricostruzione, non era granché.<br />

Anzitutto non aveva i portici se non nel tratto d’angolo con Piazza Grande: ne è rimasta memoria<br />

nel loggiato di un palazzotto d’angolo, chiamato Le Logge del Pieroni, e che prende nome da un<br />

architetto locale che edificò la zona nel Settecento.<br />

In secondo luogo, la strada era piuttosto stretta, perché limitata al traffico dell’epoca non certo<br />

intenso: qualche barroccio, alcune bici ed i tram.<br />

Era, come ora, divisa in due da Piazza Grande.<br />

Questo spazio cittadino era chiamato in origine Piazza d’Armi, perché vi si svolgevano tutte le at-<br />

tività connesse alla presenza di caserme e di militari: sfilate, alzabandiera, e parate.<br />

Vi fu piantato anche, nel 1849, l’Albero della Libertà durante l’effimera Repubblica di Livorno<br />

che ebbe poca fortuna: fu soffocata nel sangue e fece la fine della di quelle di Roma e di Vene-<br />

zia, ma solo pochi eruditi locali conoscono le vicende di questo che fu tra i primi esempi di governo<br />

democratico durante il Risorgimento. Nessun libro di storia delle scuole d’Italia, che pur è una re-<br />

pubblica, poi, cita la Repubblica di Livorno come fatto storicamente citabile. E dir che ne aveva<br />

parlato bene perfino Engels.<br />

La piazza era enorme e, fino al secondo conflitto mondiale, quando si chiamava Piazza Vittorio<br />

Emanuele II, andava dalla zona ove è il Palazzo Comunale a nord, fino al Duomo che è a sud.<br />

Rasa al suolo anch’essa, con tutti i suoi palazzotti ridotti a cumuli di macerie, si pensò bene, duran-<br />

te il periodo della ricostruzione, di dividere la Piazza Grande in due e, nel bel mezzo, vi fu co-<br />

struito il Palazzo Grande, anch’esso secondo i cànoni dell’architettura sambabilina, che ospita il<br />

Cinema Grande ed un inevitabile McDonald’s.


87<br />

Il tutto con le fermate di autobus cittadini, il capolinea di quelli che provengono da Pisa e, dietro<br />

l’abside della Cattedrale, quelli che vanno verso Cècina, una stazione di taxi ed altre cose che ne<br />

fanno il cuore della nuova città nata sulle rovine della guerra.<br />

Difronte al Palazzo Grande, la Cattedrale, che è intitolata a San Francesco: fu, anch’essa, rico-<br />

struita dopo la distruzione quasi totale e riconsacrata nel 1952.<br />

Dalle macerie si salvarono solamente cinque campane, che furono recuperate e dalla fusione delle<br />

quali furono ricavate le sei attuali, qualche pezzo di soffitto - peraltro ricostruito in muratura - ed<br />

una parte del pavimento.<br />

La Cattadrale di San Francesco era stata costruita nel 1595 su progetto di Antonio Cantagallina,<br />

un architetto della cerchia dei Medici, autore anche diella chiesetta di San Sebastiano, oltreché co-<br />

autore del Fosso Reale, assieme al Cogorano ed a Padre Giovanni Antonio Mazzenta..<br />

Divenne cattedrale solamente nel 1806, quando Livorno fu innalzata a dignità di diocesi.<br />

All’interno, prima della distruzione, era di settanta metri di lunghezza e presentava un ricco soffitto<br />

a cassettoni intagliati magistralmente secondo i dettami di quell’arte fiorentina.<br />

La facciata, da quanto si può arguire da alcune fotografie dell’anteguerra, era intonacata: e presen-<br />

tava un orologio al centro del timpano.<br />

Oggi, al posto dell’orologio, c’è uno stemma mediceo con tanto di palle; la facciata e le colonne<br />

del prònao sono in bardiglio, un marmo grigio spesso striato di nero che si scava nelle non lontane<br />

Alpi Apuane.<br />

All’interno, salvate in maniera rocambolesca dalla distruzione, alcune tele e pale di autori fiorentini<br />

del periodo della Maniera, come Jacopo Ligozzi, il Passignano e l’Empoli.<br />

Sul retro dell’edificio sacro, esisteva una fontana ora scomparsa.<br />

Sulla sinistra della Cattedrale, invece, d’angolo ad una strada che conduce in uno dei rioni che,<br />

benché centralissimo, è uno dei più popolani e che è quello che attornia Piazza Cavallotti, una pic-


88<br />

cola chiesa dalla facciata anonima custodisce quanto è di più sacro ai livornesi: la devozione a San-<br />

ta Giulia che è la patrona della città.<br />

Poco più oltre, dietro alla zona absidale della Cattedrale, si trova una piazza ad esedra con portici<br />

dal centro della quale si diparte una strada,<br />

• Via Cairoli, tutta di edifici austeri: è la massima concentrazione di banche della città.<br />

Poco più oltre ancora,<br />

• Piazza Cavour col suo ponte sul Fosso Reale già citato. Al suo centro, incombe il monumento<br />

al Grande Tessitore. Fu eretto per volotà della cittadinanza ad unità d’Italia compiuta ed è in<br />

marmo bianco di Carrara. Per la sua erezione furono indette tredici tombole pubbliche e, col lo-<br />

ro ricavato, furono pagati sia il marmo di cui sopra sia due scultori un po’ accademici. Uno, scol-<br />

pì la statua di Camillo Benso conte di Cavour, il secondo si occupò del pieditallo che è tuttora<br />

un grande parallelepipedo. Agli angoli del piedistallo sono raffigurate quattro aquile, ma Fran-<br />

cesco Domenico Guerrazzi, non appena le vide, sentenziò: “Sono quattro tacchini”. Da Piazza<br />

Cavour si diparte a sua volta l’elegante<br />

• Via Ricàsoli (un negozio di ottica è della famiglia del Presidente della Repubblica) che termina<br />

nella moderna<br />

• Piazza Attias, luogo serale di raduno di ragazzi. Il tragitto continua, in parallelo al mare, con<br />

• Via Marradi (ove ha sede l’Istituto Musicale Pietro Mascagni, piccola fucina di musicisti),<br />

come, lato monte,<br />

• Corso Amedeo, animato e pieno di negozi di abbigliamento, di elettrodomestici, di ferramenta e<br />

di cornici ed articoli per belle arti; questi ultimi molto frequenti in tutta la città, data la propen-<br />

sione della gente alla pittura<br />

All’inizio di questa strada, una via che porta il nome dello scrittore ottocentesco Enrico Meyer,<br />

e che corre parallelamente a Via Ricasoli, conduce ad uno dei templi della lirica della Toscana.


89<br />

E’ il Teatro Goldoni, ora da tempo in fase di restauro dopo che la proprietà lo aveva abbandona-<br />

to a sé stesso e che l’Amministrazione Comunale lo aveva acquisito per tentarne il recupero.<br />

La costruzione è neoclassica ed è databile alla metà dell’Ottocento, quando il Teatro Gol- do-<br />

ni di Livorno divenne una delle mète fisse dei grandi cantanti d’opera ottocenteschi.<br />

La tradizione continuò anche agli inizi del Novecento ed al Goldoni si avvicendarono le più<br />

belle voci ed i grandi divi dell’opera.<br />

Ma non solo quelli.<br />

Infatti, il teatro, seguendo le mode dell’epoca, fu trasformato in politeama per spettacoli di o-<br />

peretta, di varietà, di rivista e di arte varia: anche in questo caso divi della canzone e celebri<br />

fantasisti si davano appuntamento al Goldoni per la gioia del loro pubblico.<br />

Poi, il decadimento fatale dopo la conversione in cinema; poi ancora le rovine della guerra, la<br />

ricostruzione affrettata e, qualche decennio dopo, l’abbandono definitivo.<br />

Il suorestauro sarà un’opera difficile e dispendiosa, ma si suppone che ne verrà fuori un piccolo<br />

capolavoro.<br />

Come è un piccolo capolavoro quanto, per il momento, è agibile: si tratta del ridotto del Goldo-<br />

ni che si chiama La Goldonetta e che è un teatrino-bomboniera nel quale si fanno già concerti<br />

di musica colta, in attesa che la grande sala sia recuperata.<br />

Corso Amedeo s’incrocia con<br />

• Via Magenta dai molti negozi di orefici, che, a sua volta, sfocia in<br />

• Piazza della Vittoria, una piazza alberata che ospita un monumento ai Caduti del primo conflit-<br />

to mondiale. La scultura bronzea - dice un’iscrizione sul retro - fu il risultato della fusione di<br />

bronzo proveniente da armi austriache.<br />

Sulla piazza si erge uno degli edifici sacri più importanti della città: la chiesa della Madonna del<br />

Soccorso, ottocentesca e dalle dimensioni talmente grandiose da farla assomigliare ad una catte-<br />

drale.


90<br />

Anche il suo interno è grandioso ed in varie cappelle laterali non mancano opere di pittori otto-<br />

centeschi locali di buona fama.<br />

Ma la cosa curiosa è che questa grande chiesa ospita, in una cappella detta dell’Addolorata -<br />

a sinistra dell’altare maggiore - forse l’unico esemplare di arte rinascimentale di tutta la città.<br />

E’ un Volto del Cristo - un Gesù dolente e sanguinante - attribuito senza dubbi al Beato Angeli-<br />

co. Era di un ricco collezionista che ne fece dono a quel tempio. La chiesa del Soccorso era na-<br />

ta nel 1835 come ringraziamento alla Vergine dopo la fine di una grande epidemia di colera<br />

che. importata da una nave che proveniva da Marsiglia, aveva seminato per mesi morte e dolore<br />

in tutta la città.<br />

Dopo poche centinaia di metri da Via Magenta, ecco un’altra istituzione livornese:<br />

• Piazza XX Settembre, col suo il Mercatino Americano.<br />

La zona è pittoresca che di più non si può, e deve la sua fama al fatto che, nell’immediato dopo-<br />

guerra, vi fioriva un ricco mercato di surplus (od eccedenze) degli eserciti alleati che fino qualche<br />

tempo prima erano stati gli occupanti della città.<br />

Gli americani, soprattutto, non si riportarono via niente di quanto avevano portato in Italia. Le ap-<br />

parecchiature belliche furono regalate alle esangui forze armate italiane; il resto fu venduto al<br />

miglior offerente. Gli offerenti migliori spuntarono come i funghi.<br />

Livorno, come Napoli, Genova ed altre città più o meno marittime divennero ben presto tutto un<br />

mercato di queste cose considerate dagli americani poco più che inutili e fuori moda.<br />

E se a Genova, per esempio, scoppiò il fenomeno di Via Pré, fino ad allora strada po- polana e<br />

niente più ma con qualche borsaro nero di troppo, a Livorno ci fu quello di Piazza XX Settembre,<br />

o meglio del Mercatino Americano dove le sigarette si vendevano sciolte-e-a-pacchetti insieme ad<br />

occhiali Ray-Ban ed ad impermeabili da trincea (i Trench).<br />

Ora Piazza XX Settembre ha perduto il suo fascino di zona un po’ contrabbandiera e vi si vende<br />

tutto quanto si può anche reperire anche nei grandi magazzini.


91<br />

Da Piazza XX Settembre, ripercorrendo a ritroso la strada che conduce in Piazza Grande ed alla<br />

Cattedrale, si attraversa un rione densamente popolato ed fortemente commerciale che ha il suo<br />

cuore nella<br />

• Piazza Cavallotti già citata, ove ogni mattina si tiene, all’aperto, un pittoresco mercato della<br />

frutta e dalla verdura: per chi vuol sentire parlare il vero vernacolo livornese, è una tappa<br />

d’obbligo.<br />

Poco lontano, in<br />

• Via Buontalenti, che prende nome dall’architetto fiorentino Bernardo Buontalenti, già citato<br />

come il progettista del pentagono della città ideale che si chiamò poi Livorno, c’è un altro mer-<br />

cato all’aperto, ma composto di chioschi che vendono di tutto un po’, alla stregua di altri mercati<br />

ben noti ai vacanzieri italiani:<br />

• quello di Montecatini Terme, a ridosso della zona alberghiera più chic, e<br />

• quello di Viareggio, ove si affaccia la farmacia che fu della famiglia di Mario Tobino.<br />

Nel cuore di questo rione, nella piazza che allora si chiamava delle Erbe, e che porta in sé ancora<br />

vive le ferite delle distruzioni belliche, sulla facciata di una casa piuttosto modesta, una lapide ri-<br />

corda che proprio lì nacque Pietro Mascagni.<br />

Di Pietro Mascagni si sa ormai quasi tutto, dal momento che la sua avventura musicale fu<br />

addirittura soggetto di alcuni film degli anni quaranta-cinquanta. E parecchi altri film ita lia-<br />

ni di quell’epoca furono tratti dalla sua opera più conosciuta.<br />

Quella Cavalleria Rusticana il cui librettista, Giuseppe Targioni-Tozzetti, ricavò da una<br />

delle più lette novelle di Giovanni Verga: quella, appunto, che termina in un duello a colpi di col-<br />

tello, per motivi d’onore (o di corna, secondo i punti di vista) fra un barrocciaio ed un bulletto del-<br />

le campagne siciliane di fine Ottocento in un assolato mezzogiorno di Pa squa.<br />

L’opera, in un atto, rispetta i tempi aristotelici del dramma ed è rappresentata quasi sempre in ab-<br />

binamento con un’altra opera in un atto del periodo cosiddetto veristico e che tratta di un altret-


92<br />

tanto truce fatto di sangue e di coltello che ha per teatro un paesotto della Calabria: Pagliacci, di<br />

Ruggiero Leoncavallo.<br />

Ci sono delle analogie fra i due compositori, almeno per quanto attiene la Toscana:<br />

* Pietro Mascagni era livornese, e più toscano di così non si può, anche se i livornesi dicono di es-<br />

sere a-toscani;<br />

* Ruggiero Leoncavallo era, invece, napoletano, ma amava tanto la Toscana da volervi morire,<br />

a Montecatini Terme, durante il primo conflitto mondiale.<br />

A partire dalle prime rappresentazioni - tutti dovrebbero sapere che Cavalleria partecipò e vin-<br />

se un concorso per un’opera nuova indetto da una casa musicale milanese, quando Ma-<br />

scagni, lui toscano, era solo il direttore della banda di Cerignola - l’opera ebbe una suc-<br />

cesso strepitoso e non ci fu cantante d’opera che non l’avesse nel proprio repertorio. Non solo; ma<br />

i brani più conosciuti di Cavalleria erano, come si suole dire nel gergo pittoresco dei melòmani, i<br />

cavalli di battaglia di tutti i cantanti più famosi del secolo, ad iniziare da Enrico Caruso e Benia-<br />

mino Gigli, per finire, ai giorni nostri, a Luciano Pavarotti.<br />

Ma Pietro Mascagni non dormì sugli allori, e compose - al contrario del suo corregionale e con-<br />

temporaneo, il lucchese <strong>Giacomo</strong> Puccini - una messe enorme di opere per lo più dimenticate<br />

perché di difficile esecuzione, come Iris, L’Amico Fritz, Lodoletta, Il piccolo Marat, I Rantzau,<br />

Silvano, Le Maschere ed Isabeau.<br />

Si avventurò anche nella sperimentazione postwagneriana con un’opera,<br />

* Guglielmo Ratcliff, tutta dialogata e senza una romanza per la platea, che è la trasposi-<br />

zione in musica della traduzione italiana di un poemetto di Heinrich Heine,<br />

ed in quella decadentistica con una<br />

* Parisina, nientemeno che su libretto dell’allora imperante Gabriele D’Annunzio.<br />

Se ben si gaurda, però, anche la sua opera più conosciuta, la Cavalleria, aveva in sé il seme della<br />

sperimentazione, con quella serenata in dialetto siciliano a sipario chiuso e con quel finale urlato,<br />

quasi bestemmiato.


93<br />

Pietro Mascagni fu anche autore, durante il suo periodo creativo più intenso, di musiche religiose<br />

e di romanze da camera, dimenticate per quasi un secolo ma ora in corso di rivalutazione.<br />

Questa produzione vocale da camera di Pietro Mascagni echeggia melodie già sentite e che un<br />

buon orecchiante può accostare a quelle dei vari Francesco Cilea e Umberto Giordano suoi con-<br />

temporanei. Non a quelle di Francesco Paolo Tosti che, in quel periodo della belle-époque fu il ve-<br />

ro mattatore di questo particolare genere musicale, e le cui romanze sono tuttora in repertorio<br />

presso tenori e soprani di ogni risma.<br />

Coperto di gloria e di onori, cittadino onorario di mezza Italia e di buona parte delle città<br />

nord e sud-americane con forti colonie italiane, Mascagni fu fatto - cosa che non capitò a Puccini<br />

che era, nel frattempo, deceduto - Accademico d’Italia.<br />

Si trasferì dalla natìa Livorno a Roma, dove morì il 2 Agosto1945.<br />

Dieci anni prima aveva composto la sua ultimna opera, Nerone, e si era appena concluso il secon-<br />

do conflitto mondiale.<br />

Non si erano spenti, però,nella sua Livorno i livori conseguenti alla sua adesione al PNF, e ci vol-<br />

lero altri undici anni perché Pietro Mascagni fosse sepolto con tutti gli onori in una grande tomba-<br />

mausoleo che la sua città natale gli fece costruire, nel 1956, nel cimitero della Misericor-<br />

dia, sul tratto di Aurelia che conduce alle falde della collina di Montenero.<br />

Al contrario di Giovanni Fattori ed Amedeo Modigliani, a Pietro Mascagni non è stata intitolata<br />

una strada anonima di periferia, ma la bella Terrazza sul mare della quale si è già parlato.<br />

Ed, oltre all’istituto musicale di Via Marradi, Livorno ha voluto intitolare al suo musicista anche<br />

un piccolo museo mascagnano che è ospitato, poco lontano, nella Villa Maria di Via Calzabigi.<br />

Il figlio secondogenito di Pietro Mascagni, Edoardo detto Dino, nato a Cerignola e morto in Etio-<br />

pia durante la campagna d’Africa Orientale del ‘35-36, per non smentire la genialità della fami-<br />

glia, fu un brillante ingegnere meccanico ed inventore. Fondò una casa motoci clistica che pro-<br />

dusse per una decina d’anni la motocicletta Junior - in due versioni: una da 170 e l’altra da 350<br />

cc. - che ebbe un buon successo commerciale. La sua officina era a Castiglioncello e la moto co-


94<br />

stava 5.000 lire nella versione superiore. Ne esistono ancora cin que esemplari e sono oggetto di<br />

culto da parte di altrettanti collezionisti.<br />

Poi il marchio Junior passò ad una società genovese alla quale è attribuibile quella moto Veltro<br />

che fa parte della storia del motociclismo italiano dell’anteguerra.<br />

Una breve parentesi storico-gastronomica: l’opera Silvano contiene una barcarola che giace tutto-<br />

ra fra i dimenticati della produzione di Mascagni (la più celebre barcarola ed anche la più cono-<br />

sciuta nel mondo dei melòmani rimane comunque e sempre quella dai Racconti di Hoffmann di<br />

Jacques Offenbach) e che diede nome ad una trattoria dell’angiporto. Distrutto il rione dalle bom-<br />

be alleate, la trattoria si trasferì sul viale che conduce alla stazione ferroviaria centrale.<br />

Vi è tuttora ed è uno dei luoghi di ristoro più rinomati di tutta la costa tirrenica, perché è fra i de-<br />

positari della ricetta del cacciucco livornese.<br />

21 PIAZZA DECHIRICHIANA, TRE MONUMENTI PER DUE GRANDUCHI, UN CI-<br />

STERNONE E DUE CISTERNINI<br />

******************************************************************************<br />

ornati su Via Grande e procedendo verso monte, un piccolo slargo accoglie quanto di<br />

T<br />

questa strada è rimasto non tanto di antico, quanto di vecchio in tutto quel nuovo dei portici:<br />

• un edificio settecentesco con portale baroccheggiante detto Palazzo del Picchetto, ove<br />

ha sede il Circolo Ufficiali della città,<br />

• un monumento a Francesco Domenico Guerrazzi, il politico-scrittore già più volte ci-


tato, e<br />

95<br />

• il Cisternino, curiosa costruzione tutta in pietra serena ed eternamente in fase di restauro, fatto<br />

costruito ai primi dell’Ottocento su progetto del Poccianti per dare alla cittadinanza l’acqua per<br />

le necessità quotidiane. Vi ha sede la Casa della Cultura ove si organizzavano mostre di pittura<br />

ed altre cose dell’arte visiva. E’ stata molto attiva fino agli anni Ottanta: poi, forse perché è man-<br />

cato lo spirito polemico di chi la governava, si è un po’ afflosciata.<br />

Qui termina Via Grande, che si immette nella altrettanto grande Piazza della Repubblica che ha<br />

l’aspetto di un luogo progettato da Giorgio De Chirico.<br />

E’, invece, di più di un secolo anteriore al padre della pittura metafisica italiana, perché fu terminata<br />

dall’Ingegner Bettarini in epoca lorenese, ma terminata nel 1874, ad unità d’Italia compiuta da<br />

qualche anno..<br />

In precedenza, sotto il granducato degli Asburgo-Lorena, era avvenuto a Livorno l’ampliamento<br />

delle mura cittadine che erano rimaste, fino a metà dell’Ottocento, quelle secentesche: e ciò<br />

perché la città si allargava incontrollata a più non posso.<br />

Fu deciso, così, di coprire il tratto terminale del Fosso Reale (quello che si immette nel<br />

di uscita.<br />

Fosso della Venezia all’altezza della Fortezza Nuova) con una piazza che avesse varie vie<br />

Il tratto terminale del Fosso Reale non fu interrato, come sarebbe stato abbastanza facile a rea-<br />

lizzare, ma coperto, su progetto del Bettarini succitato, da una volta che costituì la struttura sulla<br />

quale nacque la piazza, che fu chiamata subito dal popolo Il Voltone: quel nome le è rimasto fino<br />

a che non è stata chiamata Piazza della Repubblica.<br />

La volta è lunga 240 metri ed il canale o fosso sottostante è perfettamente navigabile.<br />

All’inaugurazione ufficiale della piazza vi furono istallati dei lampioni a gas, delle panchine di<br />

marmo e paracarri di ghisa che la resero totalmente pedonale, impendendo il passaggio di<br />

carrozze e barrocci.


96<br />

In onore della dinastia degli Asburgo-Lorena che avevano regnato sulla Toscana e dato impulso<br />

allo sviluppo di Livorno, furono eretti sulla piazza, alla distanza di circa130 l’uno dall’altro, due<br />

monumenti a due dei granduchi austro-fiorentini.<br />

Un primo monumento fu eretto in onore di Ferdinando III, ed era opera dell’elbano - di Portofer-<br />

raio - Francesco Pozzi, mentre un secondo, opera del livornese Paolo Emilio Demi, era dedica-<br />

to a Leopoldo II.<br />

Ma i tempi erano cambiati, l’ultimo Lorena era fuggito da Firenze in seguito al plebiscito per<br />

l’annessione della Toscana al Regno d’Italia, ed il monumento di Piazza del Voltone fu rimosso.<br />

Gli eruditi amanti della storia minore della città dicono che rimase sepolto (ma non dicono dove)<br />

per più di una secolo, fino a che non fu piazzato non senza polemiche, al centro di Piazza XX Set-<br />

tembre, quella del Mercatino Americano.<br />

Il monumento che si vede ora far coppia in piazza con quello a Ferdinando III fu, invece scolpito<br />

da Emilio Santarelli e fu sistemato sul Voltone nel 1885, venticinque anni dopo la fuga<br />

dell’ultimo granduca.<br />

La piazza ha diversi sbocchi, ma quello principale, quasi di fronte a Via Grande, è la Via De Lar-<br />

derel, che prende il nome dalla famiglia francòfona già citata a proposito della Valdicècina, che<br />

ebbe nell’Ottocento un gran ruolo nella prima industrializzazione della Toscana.<br />

A metà di questa strada, molto trafficata perché congiunge il cuore della città all’Aurelia e vicever-<br />

sa, è situato un grande ed austero palazzo, che si presenta a destra di chi viaggia verso monte.<br />

E’ il Palazzo Larderel, che fu della famiglia già citata e poi sede della società che, fino agli anni<br />

sessanta e della nazionalizzazione dell’energia elettrica, gestiva l’erogazione di tal tipo d'energia in<br />

quasi tutta la Toscana.<br />

E’ ricco di volte affrescate e di grandi saloni come si addiceva alle dimore della gente molto facol-<br />

tosa, ma attualmente non è visitabile neanche sporadicamente perché è sede di importanti uffici giu-<br />

diziari.


97<br />

La strada prosegue e, dopo un incrocio, si erge, con la sua mole di pietra serena, un altro simbolo<br />

della livornesità: il Cisternone.<br />

Inaugurato nel 1842 sotto Leopoldo II Asburgo-Lorena, il grande edificio si presenta con un prò-<br />

nao con otto colonne doriche che compone la facciata, che, a sua volta, sorregge una grande nicchia<br />

a volta che dà al monumento l’aspetto caratteristico che oggi tutti conoscono.<br />

All’interno del prònao, due lapidi nel latino ufficiale quanto ampolloso del Sette-Ottocento ricorda-<br />

no il perché ed il ed il percome della costruzione dell’edificio.<br />

Doveva averne tanta di sete la Livorno del Settecento, se si dovette interpellare Firenze.<br />

E da Firenxe arrivò nel 1772 un decreto di Ferdinando III che fece iniziare i lavori di un ac-<br />

quedotto che portasse verso la città portuale e fortificata l’acqua che sgorgava abba stanza ab-<br />

bondante da una polla sita in una località di prima collina detta Cològnole, lontana dalla città e<br />

dal mare parecchi degli attuali chilometri.<br />

Iniziati di buona lena, i lavori durarono una ventina d’anni ma, come spesso succede anche og-<br />

gi, (vedi proprio a Livorno un palazzo dello sport la cui costruzione sembra non aver mai fine)<br />

furono spesso sospesi.<br />

Era iniziata, intanto, l’èra napoleonica e Livorno era stata occupata dalle truppe francesi che ave-<br />

vano ben altro da pensare che non al rifornimento idricodi una città che non amavano.<br />

Occorse un’altra ventina d’anni per riprendere i lavori: in piena Restaurazione, Ferdinando III<br />

ordinò da Firenze la prosecuzione dei lavori iniziati prima della sua caduta e, finalmente,<br />

l’acqua arrivò a Livorno, fra il grande giubilo della popolazione, ad una fontana a quattro getti<br />

sormontata da una pigna dorata e situata più o meno ove attualmente c’è Via del Seminario.<br />

Poi, dato che i consumi crescevano a vista d’occhio, Leopoldo II che era succeduto a Ferdinando<br />

III ordinò all’architetto Pasquale Poccianti, lo stesso del Cisternino, di convo gliare sulla città<br />

tutte le altre acque sorgive della zona di Cològnole: il Poccianti le con vogliò in un edificio-<br />

cisterna di sua progettazione, che sorse appena fuori le nuove mura della città.


98<br />

L’edificio è quello che si vede oggi: mancano però due statue - allegoria delle due sorgenti di<br />

Cològnole, Morra e Camorra - che il Poccianti avrebbe voluto far installare all’interno della nic-<br />

chia-conchiglia del suo piccolo capolavoro architettonico.<br />

Detto per inciso, nella bassa valle del Serchio, quasi ai confini tra le province di Lucca e<br />

Pisa, c’è un paesino che si chiama curiosamente anch’esso Cològnole; è famoso nel conta do<br />

pisano per la coltivazione delle pesche. Ma ancora più curioso è il fatto che,lì accanto , c’è un al-<br />

tro paesino, Filéttole, da dove viene pompata l’acqua che attualmente disseta Livorno.<br />

A quattro chilometri dalla città, fu fatto costruire dal Poccianti, in piena campagna in una località<br />

detta Pian di Rota, un altro Cisternino che aveva il compito di purgare le acque sorgive prossime<br />

al convogliamento nel Cisternone.<br />

Anche in questo caso i lavori durarono parecchio - quasi una dozzina d’anni - ma il piccolo e fun-<br />

zionale edificio assolse molto bene il proprio compito fino alla fine dell’Ottocento, quando fu ab-<br />

bandonato a sé stesso.<br />

Il complesso sistema del rifornimento idrico della città di Livorno è oggi oggetto di culto da parte<br />

degli appassionati di archeologia industriale, tant’è vero che vengono anche organizzate delle visite<br />

guidate ai vecchi impianti lorenesi.<br />

La facciata del Cisternone è stata restaurata ed illuminata scenograficamente qualche anno fa dopo<br />

quasi un secolo di degrado, mentre il Cisternino di Cològnole attende ancora qualcuno che si oc-<br />

cupi di sé.


22 IL LEONE DI SAN MARCO IN DIFESA DELLA REPUBBLICA, UNA SCISSIONE<br />

99<br />

STORICA ED UN CANALE (TEORICAMENTE) NAVIGABILE<br />

****************************************************************************<br />

Dopo il Cisternone e la piazza omonima, la strada continua dritta come un fuso - se si<br />

prosegue verso monte - verso l’Aurelia, prima, e, la Stazione Centrale, poi.<br />

Ma proprio davanti al Cisternone la segnaletica indica diverse località che si trovano<br />

nei rioni a nord della città.<br />

Svoltati a sinistra, dunque, ci si immette in alcune strade dritte ed anonime che condu-<br />

cono ad una piazza con un po’ di verde rachitico sulla quale incombe un tratto di mura<br />

ottocentesche ed una porta sormontata dal leone veneziano.<br />

E’ Porta San Marco, una delle due rimaste delle sei delle quali era dotata la città.<br />

Esse erano:<br />

• Porta Fiorentina, dalla quale si dipartiva la strada che conduceva a Pisa ed a Firenze; ma che<br />

ora si chiama Barriera Garibaldi, ed è sull’Aurelia, nei rioni a nord della città,<br />

• Porta a Mare, sul porto;<br />

• Porta Maremmana, nella zona ora residenziale di Via Roma;<br />

• Porta San Leopoldo, che era più o meno ove è il Cantiere Navale;<br />

• Porta della Dogana d’Acqua, ove aveva termine il Canale dei Navicelli, ed, appunto,<br />

• Porta San Marco, sita nei pressi di una stazione ferroviaria leopoldina, prima che la linea venis-<br />

se deviata a monte della città.<br />

Tutte queste porte facevano parte del sistema difensivo della città voluto da Leopoldo II che fece<br />

costruire un nuovo cerchio di mura, allargandola fino a zone allora di campagna.<br />

Qualche tratto di quelle mura lorenesi è ancora visibile, ma altri tratti sono nascosti da co- stru-<br />

zioni varie; altri, poi, furono distrutti tra l’Otto ed il Novecento, per i motivi di traffico che decre-


100<br />

tarono in ogni città della Toscana - meno che a Lucca ed, in parte, a Pisa - la scomparsa di mura e<br />

di bastioni.<br />

Porta San Marco è importante nella storia della città, non tanto perché alla sua sommità c’è un le-<br />

one veneziano, quanto per il fatto che fu teatro, nel Maggio del 1849, dell’ultima resistenza della<br />

Repubblica di Livorno contro gli austriaci che cercavano di entrare nella città che si era permessa<br />

di andar contro i voleri di Leopoldo II.<br />

Ci furono episodi di eroismo sublime ed altri di crudeltà efferata; ma, poi, come da copione, le trup-<br />

pe austriache riuscirono a sfondare, dopo vari tentativi.<br />

Enrico Bartelloni detto Il Gatto, che comandava gli ultimi rivoltosi, fu fucilato sul posto ed iniziò<br />

il processo di normalizzazione secondo i voleri granducali.<br />

Dieci anni più tardi, sopraffatto dagli avvenimenti, Leopoldo II - non più bel giovane biondo ma<br />

dai capelli color stoppa tanto da meritarsi il nomignolo di Canapone - lasciò l’ingrata e bècera Fi-<br />

renze per stabilirsi nella più tranquilla Vienna ove non c’erano a corbellarlo gli stenterelli, ma si af-<br />

facciava al successo la famiglia degli Strauss.<br />

Qualche centinaio di metri entro la cinta di Porta San Marco, lato mare, sulla facciata di quello<br />

che era il Teatro San Marco - distrutto anch’esso da un bombardamento e mai più ricostruito -<br />

una lapide non nel latino ampolloso dei lacchè dei Lorena, ma in un italiano che sembra uscito dal-<br />

le tetre cronache di antichi congressi sovietici degli anni Trenta, ricorda - citando Marx, Engels,<br />

Lenin e Stalin - che proprio qui avvenne, nel 1921, la famosa scissione dell’ala massimalista dal<br />

Partito Socialista Italiano e l’inizio della storia sessantennale del PCI finita con la caduta<br />

dell’impero sovietico.<br />

E di qui si ritorna nei pressi della Fortezza Nuova da dove la strada, attraversando un pezzo della<br />

Nuova Venezia, conduce al Porto Industriale ed ad una serie di grandi stabilimenti.<br />

Non ci sarebbe nulla da aggiungere, perché il viaggio si svolge in una zona piuttosto brulla e fra<br />

muri di cinta, depositi ferroviari e pile di containers.


101<br />

Ma, proprio all’inizio di questa zona fortemente industrializzata ed all’uscita della città antica, al<br />

limite delle mura lorenesi, esistono i ruderi di un edificio chiamato Dogana d’Acqua, che aveva le<br />

funzioni di casello daziario e doganale per tutto quanto entrava dal mare nel granducato.<br />

L’edificio fu fatto costruire nel 1841, regnante Leopoldo II, contemporaneamente alla nuova cinta<br />

muraria, su progetto dell’architetto austriaco Reiskammer.<br />

Ebbe funzione di dogana e di luogo di riscossione di dazi e gabelle varie per più di un secolo: an-<br />

che quando il granducato era finito da un pezzo.<br />

Oggi la zona è completamente sconvolta perché ai bombardamenti alleati che ridussero la Dogana<br />

d’Acqua ad un cumulo di macerie, si aggiunsero gli interramenti degli anni Cinquanta: anche que-<br />

sta volta, per motivi di traffico.<br />

E dire che la costruzione, tutta in stile con le mura ed edificata quindi con lo stesso pietra me, pog-<br />

giava su tre archi sotto i quali passavano i natanti, ed era abbellita da dei delfini di metallo, at-<br />

tualmente istallati davanti al porticciolo turistico dell’Ardenza.<br />

La Dogana d’Acqua era anche il terminale livornese del Canale dei Navicelli che congiungeva<br />

l’Arno al porto di Livorno: e che, teoricamente, lo congiunge ancora se le parti terminali non fosse-<br />

ro interrate..<br />

Questo canale navigabile nasceva a Pisa nel rione di Porta a Mare, all’altezza della Cittadella<br />

ove esiste tuttora un rudere che incuriosisce il passante - e più spesso i clienti di un grande negozio<br />

di fotografia ed ottica - ma che nessun ente del turismo né alcuna sovrintendenza alle belle arti si<br />

sono mai degnati di segnalare con una targa gialla.<br />

Il rudere, analogamente alla Dogana d’Acqua di Livorno, aveva un arco sotto il quale passavano le<br />

barche, non dopo aver pagato tasse e balzelli sia in entrata che in uscita.<br />

Il Canale dei Navicelli fu iniziato nel 1573, in epoca medicea, e terminato pochi anni dopo. Oc-<br />

corsero migliaia di manovali e, quasi certamente, molti di essi erano galeotti o, comunque, gente<br />

che con il lavoro poco aveva a che fare. Tanto sudore per scavare quel canale che doveva collegare


102<br />

il nascente porto di Livorno con l’Arno prendendo la pianura malarica in diagonale, ed evitando il<br />

mare aperto ed giro di Bocca d’Arno alle imbarcazioni da carico dette navicelli.<br />

Queste imbarcazioni, molto robuste e dal fondo piatto, assolvevano lungo l’Arno, il compito che<br />

avevano i leudi in Liguria.<br />

Avevano una vela latina, ma spesso venivano governate a remi se non addirittura trascinate da riva<br />

da squadre di uomini forzuti e. durante certi periodi non infrequenti di miseria, anche da donne.<br />

I navicelli trasportavano merci povere come legname, carbone, laterizi, sassi e quella pietra se-<br />

rena con la quale sono stai costruiti i monumenti più insigni di Firenze e delle altre città toscane<br />

che facevano parte della Signoria, prima e del Granducato, poi.<br />

I navicelli avevano anche la funzione di corriere; vale a dire, trasportavano piccole partite qua<br />

e là lungo il Valdarno Inferiore. Una fermata per uno scarico qui, poi ripartenza per un altro<br />

carico là, e così via per quattro secoli abbondanti.<br />

Tutto ciò accadeva fino a che l’Arno fu navigato dalla sua foce fino a Signa, ove esiste una località<br />

che si chiama tuttora Porto di Mezzo, perché si presume che ivi fosse il capolinea dei navicelli per<br />

il trasbordo su barrocci del carico diretto a Firenze.<br />

I navicelli non erano costruiti né a Livorno né menchemeno a Pisa, ma a Limite sull’Arno, allegro<br />

paesotto sito quasi davanti a Montelupo Fiorentino.<br />

Lì si era istallata, nel Seicento, una dinastia di maestri d’ascia di origine catalana: il suo cognome<br />

era impronunciabile per la gente del luogo, che li ribattezzò fiorentinamente Picchiotti.<br />

Uno di costoro, abilissimo e chiamato Becolino, brevettò - se così si può dire - un vascello che a-<br />

veva tutte le caratteristiche per essere adibito al trasporto giù per l’Arno fino a Pisa e, di qui, via<br />

canale mediceo, al porto della nascente Livorno.<br />

Alcuni discendenti di Becolino Picchiotti, poi, aprirono un cantiere navale proprio a Livorno; for-<br />

se per questioni di spazi portuali, detto cantiere, poi, si trasferì a Viareggio ove scrisse alcune pa-<br />

gine memorabili nella storia della nautica maggiore mediterranea.


103<br />

Gli storici della navigazione hanno contato a seicento il numero dei navicelli varati durante i secoli<br />

dal cantiere di Limite. Molti di essi continuarono a solcare le acque infide dell’Arno e quelle piatte<br />

del Canale dei Navicelli fino all’arrivo del consumismo: non ne esiste più neanche uno.<br />

Neanche una carcassa da farne un paragone con quei tre o quattro leudi che sono ancora in vita<br />

nella Riviera di Levante.<br />

Il navicello ebbe, nei secoli scorsi, addirittura una buona parte nell’industrializzazione della mon-<br />

tagna tosco-emiliana.<br />

Lassù, infatti, si istallò, verso il Cinquecento, la famiglia degli Appiani , signori di Piombino e pa-<br />

droni della Magona dell’Elba, cioè delle vena di ferro, che portò sulla Montagna Pistoiese l’arte<br />

della metallurgia.<br />

Per far arrivare il minerale di ferro dalle miniere dell’Elba all’Alta Valle del Reno (a cavaliere fra<br />

le attuali province di Pistoia e Bologna) fu escogitato un sistema di trasporto di questo tipo:<br />

• nave, per il trasporto dei corbelli (o coffe) di minerale dall’Elba fino a Livorno, poi<br />

• navicello, da Livorno a Pisa via Canale dei Navicelli, e proseguimento controcorrente fino a Si-<br />

gna, ove l’imbarcazione imboccava l’Ombrone Pistoiese per raggiungere Poggio a Caiano:<br />

quindi, trasbordo dei corbelli su<br />

• barrocci, fino a Pistoia ed, infine,<br />

• dorso di mulo, da Pistoia fino a Pracchia.<br />

I rari documenti ancora esistenti non parlano di termini di resa.<br />

Negli anni Cinquanta un gruppo di deputati della circoscrizione elettorale costiera, della quale Li-<br />

vorno faceva parte, fecero un’interpellanza al governo per sollecitare la costitu zione di<br />

una zona industriale fra Pisa e Livorno che sfruttasse il Canale dei Navicelli che, coi suoi<br />

sbocchi in mare ed in Arno, sarebbe stato la via di comunicazione ideale per il tra sporto di<br />

merci povere e materie prime.


104<br />

Non si combinò niente, malgrado che fra i deputati sottoscrittori dell’interpellanza ci fossero per-<br />

sonaggi del calibro del versiliese Leonetto Amadei che fu, poi, fra i primi presidenti della Corte<br />

Costituzionale, e Randolfo Pacciardi, grossetano, mazziniano e capo storico del Partito Repub-<br />

blicano Italiano ante-La Malfa Padre.<br />

La strada che sinora si è percorsa prosegue ancora fra grandi stabilimenti, poi<br />

• attraversa ponti su canali di bonifica e sul Canale Scolmatore che proviene da Pontedera e ser-<br />

ve a deviare le acque dell’Arno che, quando il padre dei fiumi toscani è in piena, sommergereb-<br />

bero tutta Pisa e la sua Piana; quindi<br />

• giunge nella zona di Calambrone (ma siamo già in comune di Pisa) già citata per le ex-colonie<br />

marine, ed, infine,<br />

• approda a Tirrenia dalle grandi spiagge di finissima sabbia, frequentatissime dai livornesi che<br />

non se la sentono di far il bagno di scoglio, ed ove termina il nostro viaggio.


APPENDICE N°1<br />

105<br />

23 LA CITTÀ MULTIETNICA A TAVOLA: DA UNA ZUPPA TURCA A UN<br />

CAZZOTTO INGLESE ED AL PARMIGIANO SUL NERO DI SEPPIA<br />

ELOGIO DEL CACCIUCCO<br />

ELOGIO DEL PONCE<br />

********************************************************************<br />

ELOGIO DEL CACCIUCCO...<br />

Se, alla Ruota della Fortuna, Mike Bongiorno chiedesse quale parola di italiano ha cinque<br />

cì-come-Como, pochi saprebbero rispondere: infatti, l’unica parola italiana con cinque c è<br />

Cacciucco.<br />

Che è il piatto tradizionale della città di Livorno.<br />

Un po’ come il risotto a Milano, le trenette col pesto a Genova, la bagnacàuda a Torino,<br />

la ribollita a Firenze, e via elencando.<br />

Secondo gli estensori di alcuni vocabolari italiani, la parola dalle cinque cì significa poco<br />

più che una zuppa di pesce che si fa a Livorno ed a Viareggio.<br />

Provate a dire una cosa del genere a Livorno e rischiate il linciaggio: cacciucco è solo livornese.<br />

Al massimo viene accettata come viareggina solo una zuppa di pesce (e non cacciucco, sia chiaro)<br />

piuttosto insipida perché mancante di alcuni elementi - come il peperoncino, o zenzero - che fanno<br />

del cacciucco livornese un unicum fuori dal comune.<br />

Poi, a Viareggio quella zuppa è ormai da locali storici; è offerta come rarità gastronomica in loca-<br />

li un po’ su, ed è abbinata a vini bianchi di pregio.<br />

Il cacciucco livornese, invece, viene ancora fatto in casa dalla massaie non ancora estinte; nelle<br />

trattorie che non vantano ancora forchette e cappelli vari; in posti comuni, insomma.<br />

E è abbinato - se così si può dire - con vino rosso e neanche tanto d.o.c..<br />

Unica cosa certa è che ci vuole una decina di pesci diversi tuffati in un intingolo ben tirato, con<br />

pane abbrustolito ed agliato generosamente e zenzero squillante.


106<br />

Non devono mancare seppie, fette di palombo (o nocciòlo), cicale, gamberi, murene, gronghi,<br />

capponi, scòrfani, gallinelle, con l’aggiunta di altre specie di pesci proletari che è dif- ficile trova-<br />

re sul mercato perché nessuno li vuole, tanto sono liscosi.<br />

Che altro dire di questo piatto?<br />

• che la parola pare provenga dal turco antico, ove katçùk aveva il significato di mescolanza;<br />

• che non abbia un inventore sicuro né una data precisa di riferimento,<br />

• che fosse il risultato della cottura casalinga di tutto ciò che i pescatori, a fine giornata, non erano<br />

riusciti ad esitare sul mercato e del pane raffermo; duro sì, ma da non gettare nella spazzatura<br />

come si fa oggi.<br />

• che, insomma, fosse lo specchio culinario della città multietnica e proletaria che si affacciava<br />

sulla ribalta della storia italiana.<br />

Il fatto è che, nel 1998, quando una delle varie multinazionali dell’alimentazione mandò in onda su<br />

tutte le emittenti uno spot pubblicitario nel quale Diego Abatantuono chiamava cacciucco una<br />

zuppa di pesce surgelata, ci fu, a Livorno, una specie di sollevazione popolare e si invocarono<br />

provvidenze comunitarie a difesa della livornesità del cacciucco.<br />

Ma c’è di più: un’associazione di cuochi livornesi si coalizzò ed offrì, ai colti ed agiati visitatori di<br />

una grande e raffinata mostra di opere di pittura dell’Ottocento che si teneva a alla Villa Mimbel-<br />

li, un pranzo a base di cacciucco livornese a 25.000 lire, vini, minerale, coperto e - perché no? Iva<br />

- inclusi.<br />

Un’inezia, per gente abituata a locali con nouvelle-cuisine da 100mila in su, vini eccetera esclusi.<br />

Per rimanere nel frivolo, ci fu anche un locale della media valle del Serchio, molto famoso perché<br />

molto caro, che propose il cacciucco di pesci d’acqua dolce: non si sa bene dove pescati, perché<br />

nel fiume di Lucca non è che ci sia tanto da pescare.<br />

DEL PONCE,...


107<br />

Nelle algide mattine d’inverno quando tutto è ancora sottozero e la brina non ce la fa a<br />

sciogliersi, c’è ancora chi si scalda con un cicchetto, malgrado i divieti imposti dai me-<br />

dici e gli anatemi degli igienisti: ciò avviene soprattutto in montagna, ove il culto del<br />

cicchetto ha radici antiche ed alpine.<br />

Ma sul mare?<br />

Sul mare, ponce: almeno qui a Livorno.<br />

La parola è di chiara origine inglese, perché punch (che si pronuncia pànc’) vuol dire,<br />

sì, pugno o cazzotto, ma ha anche il significato di una bevanda bollente a base di acqua calda e<br />

rhum usata come un cazzotto liquido a bordo delle navi di Sua Maestà Britannica durante le traver-<br />

sate dei freddi mari del Nord. E’ anche chiaro che, come tante parole straniere, anche punch fu<br />

storpiato in ponce da qualche marinaio livornese che aveva contatti con suoi omologhi inglesi bevi-<br />

tori del cazzotto liquido.<br />

Ma il ponce livornese non ha nulla a che fare col punch inglese.<br />

Tanto per cominciare<br />

• il rhum non è più tale, ma è il rumme; non proviene dalla Giamaica ma da fabbrichette locali, è<br />

a base di spirito, ed il suo gusto è dato da additivi permessi dalla legge. E, insomma, quello che<br />

si chiama anche rumme-fantasia;<br />

• l’acqua calda degli inglesi è stata sostituita dal caffè espresso, altro ingrediente che più italiano<br />

non si può;<br />

• il tutto, poi, viene portato a bollore con un soffio di vapore acqueo come solo i baristi provetti<br />

sanno fare. Si può zuccherare e farvi anche aggiungere<br />

• la vela, che è una scorzetta di limone.<br />

Nel caso la cura-ponce non bastasse, si può aggiungere alla dose<br />

• una persiana, che è un intruglio di colore verde e composto di liquori di menta ed anice.


...E DEGLI ALTRI PIATTI LIVORNESI<br />

108<br />

e buone massaie che ci leggono, però, sanno che un altro piatto di ormai diffusione nazio-<br />

Lnale è<br />

• la triglia alla livornese, ovvero in guazzetto, con prezzemolo, aglio ed appena un po’<br />

di pomodoro.<br />

Di più difficile catalogazione è<br />

• il baccalà alla livornese, fatto in stufato e con abbondanza di pomodoro. Secondo<br />

e per palati forti.<br />

Vincenzo Buonassisi, questo piatto regge bene il vino rosso, perché è piuttosto robusto<br />

Sempre per stare in campo di piatti a base di prodotti del mare, una stranezza è, invece,<br />

• il riso al nero di seppia, che non avrebbe nulla di strano - perché è un piatto veneziano e non<br />

esotico - se a Livorno non lo cospargessero di formaggio parmigiano grattugiato.<br />

Un’altra stravaganza sono<br />

• i fichi sottolio, una vecchia ricetta casalinga che è stata resuscitata da poco ma che merita di es-<br />

sere citata. Si tratta, in poche parole, di fichi che, raccolti freschi e ben integri, si fanno cuocere e<br />

stracuocere per poi imbarattolarli nel vetro sterilizzato. Messi a riposare, dopo qualche tempo<br />

emettono un sughetto dolcissimo ma giallastro che sembra olio. Di qui la strana dizione.


APPENDICE N° 2<br />

109<br />

SOPPRESSATE GIGANTESCHE E LA EX-NUORA DELLA REGINA P.R.-WOMAN<br />

DEL SASSICAIA<br />

ELOGIO DEL CINGHIALE<br />

ELOGIO DEI VINI<br />

ELOGIO DELL’OLIO<br />

*****************************************************************************<br />

ELOGIO DEL CINGHIALE...<br />

e la cucina di Livorno, intesa come città portuale e marinara, ha il sapore del pesce con<br />

S l’aggiunta di ingredienti non proprio da gente debole di stomaco, quella della costa che è a<br />

sud del capoluogo non ha una sua storia precisa.<br />

Il fatto - lo abbiano sottolineato più volte - è dovuto alle condizioni ambientali, pessime fi-<br />

no a qualche decennio fa quando tutto il territorio costiero non si chiamava Costa degli E-<br />

truschi, ma più semplicemente Maremma Settentrionale.<br />

E Maremma ha sempre significato vita grama e malaria.<br />

Si salvavano dalla disperazione solo alcuni paesini dell’entroterra che, alti qualche centinaio di me-<br />

tri sul mare, godevano di un clima leggermente migliore.<br />

Erano paesi di cacciatori incalliti di piuma e di pelo, ed il loro bersaglio preferito era il cinghiale.<br />

Questo strano animale selvatico e peloso della famiglia dei suini si è ora riprodotto in maniera e-<br />

sponenziale e rovina tutto quello che è possibile rovinare. Animalisti ed ambientalisti coalizzati ne<br />

hanno fatto vietare la caccia incontrollata; il suo abbattimento è addirittura regolato da leggi re-<br />

gionali.<br />

Ciononostante, il cinghiale è, all’inizio dell’inverno, oggetto di battute di cacciatori pro vetti<br />

e la sua fine è nelle casseruole delle case rurali e nelle macellerie dei paesi.<br />

Si uccidono ormai tanti cinghiali che ne è nata una specie di piccola industria; e la do manda è<br />

robusta, nei ristoranti di tutta la regione.


110<br />

D’inverno, soprattutto, dato che la sua carne è di non facile digestione ed occorrono, per mandarla<br />

giù, frequenti libagioni.<br />

Una delle trasformazioni più singolari del cinghiale è la soppressata, detta in diverse parti d’Italia<br />

anche testa-in-cassetta.<br />

Sono i rimasugli delle teste dei cinghiali che sono confezionati da abili macellai in proporzioni a<br />

volte gigantesche.<br />

Chi ha l’occasione d'andare a Novembre a San Miniato - un gioiellino di cittadina a metà strada tra<br />

Firenze e Pisa, nel Valdarno Inferiore - durante lo svolgimento della Festa del Tartufo, ne può<br />

vedere di dimensioni da Guinness.<br />

Ma anche nel retroterra dell’attuale Costa degli Etruschi, non scherzano: ci sono diverse Sagre del<br />

Cinghiale e la più famosa è quella di Suvereto, paesino medioevale celebre solo per questo.<br />

Ancora più all’interno, a Volterra, città di vento e di macigno, un piatto che sarebbe degno di mi-<br />

glior fortuna presso gli studiosi della gastronomia, è il cinghiale alla volterrana: uno stufato che<br />

era presentato con una corona di castagne lessate.<br />

...E DEI VINI<br />

on è molto - sì e no tre o quattro anni - che anche in Italia si sono create le Strade del<br />

NVino, in analogia a quanto già succedeva in Francia da parecchio tempo.<br />

In Toscana,<br />

che di vini ne produce a bizzeffe e tutti sulla bocca di tutti, dai più comuni ai<br />

più pregiati, la prima provincia a dotarsi di una strada del vino è stata quella di Livorno.<br />

Forse perché non molto estesa, forse perché la produzione non raggiunge i volumi di<br />

quelle di Firenze e Siena, forse perché c’è stato maggior impegno, forse perché si è ca-<br />

pito in anticipo il valore aggiunto del turismo enogastronomico.<br />

La Strada del Vino della Provincia di Livorno inizia alle spalle della città capoluogo, piega verso il<br />

territorio di Collesalvetti e prosegue verso sud seguendo grossomodo la direttrice dell’autostrada n°


111<br />

12 che proviene da Pisa e Genova. Giunge all’altezza di Vada e prosegue, poi, verso Piombino ove<br />

termina.<br />

In tutto questo territorio, molte sono le zone vitate, ma solo tre i siti ove si producono vini che han-<br />

no una d.o.c.; essi sono:<br />

• il territorio di Montescudaio e di alcuni piccoli comuni che sono alle spalle di Cècina, e, più a<br />

sud,<br />

• il territorio di Bòlgheri, in comune di Castagneto Carducci, nonché<br />

• la Val di Cornia, alle spalle di Piombino.<br />

Per questi ultimi due territori si può parlare di d.o.c. piuttosto recenti e, conseguentemente di pro-<br />

dotti non ancora ben conosciuti dal mercato (otto tipologie a Bòlgheri e quattro nella Val di Cor-<br />

nia).<br />

Fanno eccezione due grandi vini delle tenute dei Della Gherardesca e degli Incisa Della Rocchetta<br />

di Bòlgheri, il Sassicaia e l’Ornellaia, che hanno riempito di sé pagine e pagine di riviste specializ-<br />

zate; hanno fatto prendere la laurea ad honorem in agronomia al loro in ventore (perché di inven-<br />

zione in questo caso si tratta) hanno anche il fascino indiscreto delle cronache rosa per le frequen-<br />

tazioni in zona della ex-nuora della Regina d’Inghilterra. Sono considerati vini da collezione; val-<br />

gono cifre imprecisate ed è difficile, se non impos- sibile, trovarli nelle enoteche qualunque.<br />

Il piccolo comune di Montescudaio (amministrativamente compreso nella provincia di Pisa) inve-<br />

ce, è da sempre il fulcro della zona di produzione degli omonimi tre vini a d.o.c. che sono:<br />

• il Montescudaio Bianco, da uve Trebbiano, Malvasia e Vermentino; vino bianco secco e rin-<br />

frescante, adatto agli antipasti delicati, uova, crostacei e molluschi e preparazioni di pesce in<br />

bianco;<br />

• il Montescudaio Rosso, da uve Sangiovese, Malvasia Nera, Trebbiano, e (poca) Cabernet-<br />

Sauvignon; vino rosso secco, adatto a primi piatti a base di selvaggina, carni rosse alla brace,<br />

cacciagione e formaggio pecorino; ed, infine,


112<br />

• il Montescudaio Vin Santo, dalle stesse uve del Bianco ma invecchiato (o maturato come vuole<br />

Luigi Veronelli) nelle vinsantaie per almeno tre anni in caratelli di legno di.due ettolitri. Può es-<br />

sere secco, semisecco e dolce, è vino da fine-pasto (o da meditazione), e si accompagna bene con<br />

la pasticceria secca, crostate e cantuccini.<br />

Tutt’intorno, cresce e prospera l’olivo e da qualche anno anche la produzione oleicola è fra quelle<br />

emergenti della Costa degli Etruschi.<br />

Il suo Olio Extravergine d’Oliva ha ottenuto da poco la IGP (Indicazione Geografica Protetta)<br />

come Toscano e si produce coi suoi frutti, le olive, colti sulla pianta e spremuti a freddo nelle ven-<br />

tiquattr’ore successive alla raccolta.<br />

ELOGIO DELL’OLIVA E DEL SUO OLIO<br />

***************************************************************


113<br />

’albero dell’olivo vive nelle regioni temperate come la Toscana ed, in condizioni climati-<br />

L<br />

che favorevoli, diviene una pianta di incredibile longevità; quando è anziana, può raggiungere<br />

anche decine di metri di altezza e molti di circonferenza.<br />

Nel mondo se ne conoscono duemila varietà, che si chiamano tecnicamente cultivar; solo<br />

in Italia se ne contano trecentonovantacinque.<br />

Spesso i suoi frutti, le olive che, con termine botanico, sono drupe, hanno nomi a dir po-<br />

co poetici a seconda di queste varietà: e, così, ci sono le leccine, le moraiole, le frantoio,<br />

le caroleo, le caratine, le taggiasche, le agugge (aghi, in genovese), le manzanelle, le koroneiki,<br />

le chetoul, le lavagnine, le colombare, le pignole, le mortine e le razzole, solo per citare quelle<br />

più conosciute.<br />

I suoi rami dalle foglie grigio-argento, una volta potati, possono essere esitati durante la set-<br />

timana antecedente la Domenica delle Palme per essere venduti agli ingressi delle chie se per la<br />

loro benedizione: è una antica tradizione cattolica che ha radici nel Vangelo.<br />

Come fanno parte della tradizione cattolico-romana e di quella greco-ortodossa i sacra menti che<br />

hanno, come tramite tra la Divinità e l’uomo, l’olio che - date le origini mediter ranee della reli-<br />

gione cristiana e le sue radici bibliche - non può essere che di olive.<br />

Lo stesso vocabolo Cristo è aggettivo greco che vuol dire unto: e da chi se non dal Signore Dio<br />

dell’Universo?<br />

D’altra parte, partendo dalla stessa radice, si ha il sostantivo Crisma (volgarizzato in Cresima)<br />

che, sempre in greco, vuole dire unzione.<br />

E sono olii della tradizione cristiana quelli del battesimo, della cresima, quello della ordi- na-<br />

zione sacerdotale e quello dei malati. Quest’ultimo si chiamava, in era preconciliare, olio santo<br />

o, che peggio, estrema unzione, perché con esso veniva segnata con la croce la fronte dei<br />

moribondi.


114<br />

Oggi, si è tornati alla antica dizione di olio dei malati, ed infatti nelle vecchie chiese ci sono anco-<br />

ra piccoli tabernacoli ove tale olio veniva custodito, e che portano tuttora incisa nella pietra la<br />

scritta latina oleum infirmorum.<br />

E sempre in altra epoca preconciliare - ma in questo caso si parla non del Concilio Vaticano Se-<br />

condo, ma addirittura di quello di Trento che si tenne in pieno Rinascimento - erano proibiti il<br />

mercoledì, il venerdì, il sabato, per tutta la Quaresima ed i giorni di vigilia delle feste liturgica-<br />

mente importanti, il mangiare la carne e l’uso dei grassi di origine animale (burro, strutto, lardo,<br />

etc.).<br />

Nella fascia mediterranea si sopperiva alla bisogna con l’olio di oliva e con quello di noci - ricor-<br />

date Fra Galdino nei primi capitoli dei Promessi Sposi? - in quella prealpina.<br />

Ciò avveniva, ovviamente, nelle case dei nobili e dei prelati, ove si facevano pranzi e cene per stra-<br />

biliare di fronte agli ospiti e dar loro segno del proprio potere. Non si hanno, invece, notizie certe<br />

di quanto accadesse invece nelle case dei povericristi, ma è indubbio che dei pranzi e delle cene<br />

dei ricchi ci sono pervenuti addirittura i menù e gli ordini di servizio al personale di cucina e di di-<br />

spensa.<br />

E così si è venuti a sapere che, per esempio, nella dispensa dei palazzi di Lodovico Maria Sforza,<br />

l’ ultimo duca di Milano meglio conosciuto come Lodovico il Moro e protettore di Leonardo da<br />

Vinci, c’era, oltre allo strutto ed al burro, l’olio di oliva (forse importato dalla Liguria) come unico<br />

condimento lecito nei giorni proibiti.<br />

Stessa cosa doveva accadere nella dispensa della corte dei Medici, tanto per rimanere in Toscana,<br />

ed in quelle di tante altre celebri casate dell’Italia delle Signorie.<br />

Nei paesi musulmani non mediterranei, come quelli della Penisola Arabica, poi, l’olio d’oliva a-<br />

veva, invece, anche un significato medico se non taumaturgico: infatti, era venduto, fino a qualche<br />

anno fa, in ampolle o bottigliette nelle farmacie od in negozi similari.Oggi quasi certamente non<br />

più, perché anche paesi allora chiusi all’Occidente si sono omologati e sono entrati di forza anche<br />

loro nel mondo della globalizzazione.


115<br />

Anticamente, da noi, le foglie degli olivi potati venivano anche usate in farmacia per ottenerne un<br />

infuso ipotensivo: se ne trova traccia nelle erboristerie dove questo ipotensivo all’olivo è stato ri-<br />

lanciato e fatto passare come un medicamento alla moda. Le stesse foglie, però, nelle campagne ve-<br />

nivano più prosaicamente date come pastura a vacche, cavalli, asini e muli.<br />

I rami, invece, una volta seccati, erano bruciati ed il loro fuoco emanava un sottile profumo, ottimo<br />

per aromatizzare arrosti allo spiedo di carni e selvaggina di ogni tipo.<br />

La raccolta delle olive si chiamava brucatura ed aveva inizio a fine novembre per quelle maturate<br />

precocemente, comunque mai più tardi del 13 Dicembre, giorno di Santa Lucia: un proverbio di<br />

origine incerta diceva: “Per Santa Lucia lascia la ghianda e piglia l’ulìa”.<br />

Fino alla seconda guerra mondiale, la frangitura delle olive veniva fatta nei frantoi a macine an-<br />

nessi alle case coloniche od in quelli pubblici, ma la lavorazione era identica a quella dei tempi di<br />

Omero, prima, e di Gesù, poi..<br />

Pare, infatti, che la coltivazione degli olivi più o meno selvatici fosse stata introdotta in Liguria<br />

nella notte dei tempi dai Fenici o Focesi, che provenivano dall’attuale Libano ma che avevano<br />

colonizzato la zona delle foci del Ropdano e fondato una città che poi prese il no me di<br />

Marsiglia. Nell’Italia del Sud, invece, pare che la tale coltivazione fosse stata introdotta<br />

dai Greci.<br />

Fenici e Greci avevano conosciuto l’olivo da popoli caucasici come gli àzeri - quelli<br />

dell’Azerbaijan di ora, insomma - coi quali erano entrati in contatto per motivi di scambi commer-<br />

ciali.<br />

Cose che facevano certamente anche gli Etruschi che abitavano quelle che sono oggi la Toscana<br />

centrorientale ed il Lazio settentrionale.<br />

Etruschi, Fenici e Greci tramandarono le loro esperienze in fatto di coltivazione dell’olivo ai Ro-<br />

mani.<br />

Invece, la coltura razionale dell’olivo viene fatta risalire da alcuni storici ad epoche più recenti, e<br />

cioè alle Crociate, quando dei soldati portarono dalla Palestina delle piante d’olivo ai benedettini.


116<br />

I buoni frati-lavoratori le disposero ordinatamente nel corso delle loro bonifiche dell’Italia malari-<br />

ca e delle sue campagne abbandonate dopo il passaggio dei barbari, fino alla creazione di quelli<br />

che oggi sono gli oliveti.<br />

Le olive vi venivano raccolte ed, immesse in sacchi di iuta od in ceste di vimini , erano trasportate<br />

nei frantoi: qui erano schiacciate da macine a mole cilindriche di pietra e ridotte in una pasta che<br />

veniva a sua volta ingabbiata con la pala in altre ceste di tessuto vegetale o animale (canapa, cri-<br />

ne, giunco) per essere poi poste sotto lo strettoio (o strizzatoio) per sfruttarne per schiacciamento<br />

ogni goccia d’olio prodotto dalla frangitura.<br />

Le mole venivano mosse in un moto rotatorio continuo da un complicato sistema di viti senza fine<br />

(di legno, non essendo ancora conosciuta l’utilizzazione del ferro e dell’acciaio neanche nei mac-<br />

chinari più semplici) che veniva a sua volta messo in moto prima dagli schiavi, poi da animali pa-<br />

zienti quanto basta (asini o muli).<br />

Poi, scoperta la forza motrice, le mole vennero azionate prima con l’energia idraulica ed altret-<br />

tanto complicati sistemi di gore, bottacci e ruote a pale; infine, con motori a vapore e, da ultimo,<br />

elettrici.<br />

Nel Carrarese, oltre il paese di cavatori di Torano, esistono tuttora i resti di una cava da ove veni-<br />

vano estratti i blocchi destinati ad essere ridotti, a colpi di scalpello, a macine o mole cilindriche<br />

per frantoi e mulini. La pietra, che è stata scavata fino ad un secolo e mezzo fa, non è marmo per-<br />

ché la cava delle macine è ai margini di quelli che i geometri chiamano agri marmiferi: è, invece,<br />

macigno, quella pietra grigiastra e dura da selciati, lonta na parente della pietra serena con la<br />

quale fu costruita Firenze.<br />

Con la lunga macinatura delle olive e dalla pasta ricavatane, si otteneva così<br />

• l’olio extravergine (o di prima spremitura a freddo), mentre la pasta rimasta, miscelata ad ac-<br />

qua tiepida, veniva rimacinata e ristrizzata fino ad ottenere


117<br />

• l’olio di sansa, in genere di qualità a dir poco scadente ma di uso quasi quotidiano fra tutti i ceti<br />

sociali, sia per friggere che per condire.<br />

Quel che rimaneva dopo l’olio di sansa si chiamava morchia: era un impasto grasso, nero e piutto-<br />

sto puzzolente che serviva per lubrificare i mozzi delle ruote dei carri e dei barrocci che, in campa-<br />

gna, abbondavano.<br />

Fra i sottoprodotti della frangitura delle olive non si deve dimenticare<br />

• l’olio da illuminazione (o lampante) per quelle fumiganti e non certo profumate lampade che<br />

sono state usate nelle campagne e nelle periferie delle città toscane fino all’arrivo della corrente<br />

elettrica, e<br />

• la carbonella di sansa, ottenuta facendo carbonizzare i nòccioli delle olive; questa carbonella<br />

veniva venduta nei neri negozi dei carbonai e veniva usata per farne la brace degli scaldini o<br />

caldani, unici mezzi di riscaldamento per le mani piene di geloni delle nostre nonne.<br />

Le olive, insomma, erano un po’ come Verdi ed il maiale: non si buttava via niente<br />

Tornando all’olio extravergine, appena spremuto dalle olive scorreva dallo strizzatoio in un gorel-<br />

lo per finire in un recipiente di legno chiamato tinella od ad una conca di terracotta, insieme<br />

all’acqua di vegetazione sulla quale galleggiava. Veniva quindi raccolto per sfioramento col piatto<br />

(o nappo) ed introdotto in barili di legno; successivamente era messo a chiarire per un giorno in<br />

conche di terracotta pulite ed asciutte.<br />

Il giorno dopo, calate sul fondo tutte le impurità, l’olio veniva definitivamente messo negli orci;<br />

i locali dove maturava fino al consumo si chiamavano orciaie ed erano quello che, per il vino, sono<br />

le cantine.<br />

Gli olii extravergini o di prima spremitura a freddo appaiono per qualche mese verdognoli: è<br />

l’effetto della clorofilla ancora presente nelle olive un po’ più acerbe che, a volte, si sono confuse<br />

con quelle veramente mature.


118<br />

Da più di cinquant’anni, comunque, la spremitura delle olive e, conseguentemente, la produzione<br />

dell’olio hanno raggiunto forme industriali considerevoli, sia come tempi di lavorazione sia come<br />

purezza del prodotto.<br />

Questo, solo parlando dell’extravergine.<br />

L‘olio di sansa, invece, dopo essere stato lavorato in raffinerie, assume la denominazione generica<br />

di olio d’oliva. Ne sono strapieni gli scaffali dei supermercati, e fa compagnia agli oli di semi, frut-<br />

to di una moda importata, già nel primo dopoguerra, dai paesi del Nordeuropa.<br />

Il consumo di questi olii, prodotti a bassissimo costo dalla spremitura della copra (la polpa dei coc-<br />

chi seccata al sole africano), prima, e di quella dei semi di girasole, di soia, di colza, di mais ed<br />

ora addirittura di riso, soppiantò, per un buon mezzo secolo, quello dell’olio di oliva ritenuto a tor-<br />

to troppo mediterraneo e quindi troppo terrone.<br />

E’ stata, però, un’altra moda, quella della dieta mediterranea, a far tornare in auge l’olio di oliva e<br />

soprattutto l’extravergine.<br />

Oggi esistono anche, alla stregua dei sommeliers degli assaggiatori di vini, gli assaggiatori di<br />

olii di oliva extravergini che sono in grado di dare un’aggettivazione diversa a seconda del-<br />

la provenienza (od origine) e delle cultivar: si hanno così olii fruttati, maturi, medi o leggeri,<br />

dolci, profumati, mandorlati, amari, piccanti, lisci ed intensi.<br />

Si sono adeguati a queste mode alcuni ristoranti dai vari cappelli e dalle varie forchette e dalle ta-<br />

riffe piuttosto robuste, che ora hanno - oltre alla carta dei vini - anche il carrello degli olii.<br />

Non solo: ma scopiazzando un po’ l’uso francese, introdussero qualche anno fa presso una loro<br />

clientela tutt’altro che raffinata ma danarosa, la citronette e la vinaigrette che non so no altro<br />

che due salsette ottenute sbattendo con una forchetta un po’ d’olio ed un po’ di succo di limone,<br />

per la prima, ed un po’ d’aceto per la seconda. Ambedue le salsette necessitano anche di un pizzico<br />

di sale fino, e servirono a certi ristoratori a far alzare i loro prezzi già poco abbordabili<br />

In Francia queste due salsette sono, però, poco più che un esotismo, perché l’olio prodotto dal-<br />

la spremitura delle olive non fa parte che della cultura della sua fascia mediterranea: dalla Costa


119<br />

Azzurra che risente delle consuetudini alimentari liguri alla Linguadoca che guarda già oltre con-<br />

fine, verso la Catalogna. Il resto è mostarda.<br />

L’olio extravergine di oliva fa parte delle 103 denominazioni italiane protette dalla UE. Di que-<br />

ste, 72 con marchio DOP e 31 con IGP.<br />

21 denominazioni italiane protette sono relative all’olio extravergine DOP , ma una sola ad olio<br />

extravergine IGP: e quest’unica IGP si riferisce a quello che, se prodotto nella nostra regione, ha<br />

il diritto di chiamarsi Toscano.<br />

A sua volta, sono in corso di approvazione, da parte delle autorità comunitarie, alcune piccole va-<br />

rianti; infatti, oltre a Toscano IGP gli olii extravergini prodotti nella nostra regione potranno van-<br />

tarsi anche di alcune denominazioni locali.<br />

E, quindi, si sono avuti da poco tempo l’olio del Chianti Classico e quello delle Colline Sene-<br />

si,mentre sono in lista d’attesa quello delle Colline Lucchesi, quello della Lunigiana ed, addirittu-<br />

ra, l’olio di Bòlgheri, sulle ali del fenomeno Sassicaia.<br />

Sono tutte zone piutto sto limitate dal punto di vista dell’ampiezza del territorio, ma va detto che i<br />

microclimi della Regione sono parecchi e le cultivar degli olivi sono altrettante, come del resto<br />

lungo tutta la Penisola dalle Prealpi a più profondo Sud.<br />

Le denominazioni di fantasia, poi, sono state proibite dalla UE , mentre, al contrario, sono di ri-<br />

gore quelle protette, sia come denominazioni d’origine (le DOP) sia come indicazioni geografi-<br />

che (le IGP).<br />

Le DOP degli olii italiani extravergini si riferiscono all’olio<br />

• Aprutino-Pescarese, a quello di<br />

• Brisighella, al<br />

• Canino, a quella del<br />

• Cilento, a quello delle<br />

• Colline di Brindisi, di quelle


• Salernitane e di quelle<br />

• Teatine, ed a quello<br />

• Dauno. Ci sono, poi, gli olii del<br />

• Garda e dei<br />

• Laghi Lombardi, dei<br />

• Monti Iblei e della<br />

• Penisola Sorrentina, quello della<br />

• Sabina, delle<br />

• Terre di Bari e di quelle di<br />

• Otranto, quello della<br />

• Umbria, quello delle<br />

• Valli Trapanesi, quello di<br />

• Lametia, ed, quello della<br />

120<br />

• Riviera Ligure, quello - come riferito più innanzi - del<br />

• Chianti Classico ed, infine, quello delle<br />

• Colline Senesi.<br />

Quindi, se un olio è dichiarato, sì, extravergine, ma non vi sono nominate come protette né l’ori-<br />

gine né l’indicazione geografica, vuol dire non solo che è prodotto da olive non raccolte in loco,<br />

ma che addirittura può essere risultato della raffinazione di olii grezzi provenienti da altre aree pro-<br />

duttive del Mediterraneo comunitarie come Grecia e Spagna, od extracomunitarie come Turchia,<br />

Tunisia, Marocco e via elencando.<br />

Quindi, nessun olio che non sia interamente prodotto in Toscana in tutte le sue fasi potrà indebita-<br />

mente accreditarsi come Toscano. E ciò anche a seguito di una decisione della Corte Europea<br />

Ad immagine e somiglianza di quelle associazioni civiche che favoriscono il turismo enogastrono-<br />

mico, sul tipo delle Città del Vino e di quelle del Tartufo, è nata e sta prosperando anche


121<br />

l’Associazione delle Città dell’Olio che comprende circa 120 associati tra comuni che sono la<br />

maggioranza assoluta - camere di commercio ed altre istituzioni.<br />

La regione più rappresentata è, stranamente, la più piccola d’Italia, e cioè il Molise, mentre le me-<br />

no rappresentate sono la Basilicata e, dati i climi non proprio mediterranei, il Friuli, la Lombar-<br />

dia (riva bresciana del Garda) ed il Veneto (riva veronese del medesimo lago).<br />

In Toscana sono Città dell’Olio (rigorosamente in ordine alfabetico):<br />

Arcidosso,<br />

Castagneto Carducci,<br />

Castiglione d’Orcia,<br />

Cetona,<br />

Cinigiano,<br />

Montalcino,<br />

Montepulciano,<br />

Montespèrtoli,<br />

Pienza,<br />

Radicòndoli,<br />

Rapolano Terme,<br />

Reggello,<br />

San Casciano Bagni,<br />

San Gimignano,<br />

San Giovanni d’Asso,<br />

San Quirico d’Orcia,<br />

Sarteano,<br />

Seggiano,<br />

Siena,<br />

Sinalunga,


Suvereto e<br />

Trequanda.<br />

122<br />

Come si può notare, si tratta di località accentrate fra le province di Grosseto, Siena e Firenze, se si<br />

escludono Castagneto Carducci e Suvereto che fanno parte della provincia di Livorno.<br />

Le altre province, ad iniziare da quella di Lucca col suo olio bòno, quella di Pistoia con gli olii del<br />

Montalbano e quella di Pisa, con quelli del Monte Pisano e delle Colline Pisane, non hanno stra-<br />

namente nessuna località citata nell’elenco di cui sopra.<br />

Sullo stile, poi, delle Strade del Vino (quella della Costa degli Etruschi è stata la prima in Tosca-<br />

na), stanno nascendo, forse un po’ laboriosamente, anche le Strade dell’Olio: la prima in assoluto<br />

più conosciuta del capoluogo. è nata nell’entroterra della provincia di Imperia, da dove proviene<br />

la cultivar detta taggiasca dal paese di Taggia che ha sulla costa un’appendice balneare, Arma,<br />

molto frequentata e, pertanto, più comnosciuta dal grande pubblico.<br />

Agli inizi del ‘900, quando sulle tavole dei ricchi borghesi cominciava ad apparire l’olio raffinato e<br />

leggero di Oneglia, nacque il primo - e, per quasi mezzo secolo, unico - esempio di patrocinio cul-<br />

turale (meglio del anglolatino sponsorizzazione: da sponsor, colui che celebra le nozze).<br />

La ditta Sasso, produttrice dell’Olio Sasso che esiste tuttora, fece nascere, come evoluzione lettera-<br />

ria di una pubblicazione legata alla promozione dei suoi prodotti, “La Riviera Ligure”, una rivista<br />

che divenne un veicolo assolutamente innovativo nella cultura del Novecento. Ne diede le direzione<br />

a Mario Novaro e, sia dal punto di vista grafico sia dal quello contenutistico, fu ambita lettura di<br />

chi di poesia e di prosa poetica a quell’epoca s’intendeva. Ospitò firme abbastanza note nel pano-<br />

rama del primo Novecento: da epigoni del Classicismo come Francesco Gerace, Giuseppe Lip-<br />

parini, Giovanni Marradi (livornese) e Guido Mazzoni, fino a poeti che guardavano a Pascoli ed<br />

a D’Annunzio, come Luigi Orsini e Aurelio Ugolini.<br />

Senza aderire a particolari movimenti alla moda, Novaro fece pubblicare sulla propria rivista anche<br />

scritti di giovani disponibili a nuove esperienze, come Bino Binazzi, Filippo De Pisis, Lionello


123<br />

Fiumi, Francesco Meriano, Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa. Altri collaboratori del-<br />

la rivista, invece, lasciarono un segno profondo nella cultura italiana del ‘900, ed erano: Dino Cam-<br />

pana, Emilio Cecchi, Umberto Saba, Clemente Rebora, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi,<br />

Camillo Sbarbaro e Giuseppe Ungaretti.<br />

Esiste tuttora il Fondo Mario Novaro e della Riviera Ligure che, insieme a materiali stampati e<br />

fotografie relativi all’attività imprenditoriale dei Sasso, comprende quattromila lettere autografe e<br />

manoscritti dai collaboratori di quella antica rivista. Fra di essi, oltre i citati più sopra, Giovanni<br />

Pascoli, Guido Gozzano, Francesco Pastonchi, Corrado Govoni, Marino Moretti, Giovanni<br />

Boine, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Giovanni<br />

Papini, Salvatore Di <strong>Giacomo</strong>, Luigi Capuana, Aldo Palazzeschi e Piero Jahier.<br />

Al Fondo Novaro si sono aggiunte nel tempo numerose donazioni fatte da letterati ed uomini di<br />

cultura; tutta gente che non voleva disperdere testimonianze essenziali di un passato prossimo o re-<br />

cente, onde consentire la prosecuzione e lo sviluppo di particolari esigenze settoriali.<br />

Ecco cosa significava allora una sponsorizzazione culturale: ma erano anche i tempi di quell’enci-<br />

clopedia popolare che furono le figurine Liebig.<br />

Poi, vennero i concerti della Martini & Rossi.<br />

I nomi degli amici di Novaro se li ricordano solo i nostri nonni e qualche maestro elementare in<br />

pensione.

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