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C><br />

Nel suo diario, Fatos racconta anche la <strong>storia</strong> di Fetah Malasi, ufficiale comunista, espatriato<br />

clandestinamente dall’Albania, che dopo aver conosciuto l’Occidente decise di rietrare in<br />

patria <strong>per</strong> raccontare agli albanesi le menzogne diffuse dal regime comunista. Per poter<br />

rientrare in Albania, Fetah consegnò una richiesta scritta all’Ambasciata albanese in Italia. Il<br />

funzionario che accolse la domanda era un membro del Sigurimi e gli assicurò che avrebbe<br />

riferito il suo caso a Tirana e che si sarebbe premurato di aiutarlo, evitandogli qualsiasi<br />

punizione. In realtà, lo stesso funzionario comunicò a Tirana che stava <strong>per</strong> far rimpatriare un<br />

delinquente da tempo ricercato dal Sigurimi. Fu questa un’occasione favorevole <strong>per</strong> punirlo<br />

del fatto di non essersi pentito e di essere intenzionato a mettere in atto ulteriori<br />

provocazioni. Giunto in Albania, Fetah venne catturato, processato e condannato ad espiare<br />

la propria pena nel campo di Spaç, campo di lavori forzati a cui era stato destinato anche<br />

Fatos. Quest’ultimo ne fornisce una descrizione:<br />

“Il campo, la zona dove si lavora e le colline dove si trovano le gallerie delle miniere, sono<br />

recintati con filo spinato. Una rete di fili, come una gigantesca ragnatela, che durante la<br />

notte, <strong>per</strong> le luci dei fari, diventa fosforescente. Le torrette di vigilanza, distribuite ad<br />

intervalli regolari di cinquanta e cento metri, assomigliano al ciclope Polifemo: un corpo<br />

gigantesco e un unico occhio costituito dal faro che vigila sul ‘serpente nero’ o ‘il serpente<br />

buono’ come lo chiamano i carcerati: la lunga fila di condannati che escono dalle baracche<br />

del campo e s’inerpicano <strong>per</strong> il viottolo che li porta alla bocca delle gallerie...<br />

Dalla posizione del ‘serpente nero’ si snoda verso la collina, così come alla vista dei<br />

prigionieri che, finito il turno di lavoro, attendono all’a<strong>per</strong>to, fuori dalle gallerie, seduti tra<br />

le pietre di quella nuda distesa, il ritorno al campo, il Ciclope si staglia in lontananza.<br />

Fra poco, riunendosi e mettendosi in riga, anche quanti sono in attesa, formeranno un<br />

serpente nero che striscia scendendo dalla collina. Il suo colore è bruno, <strong>per</strong> la tinta<br />

approssimativa dei vecchi cappotti militari in dotazione ai detenuti. Il serpente, in salita, un<br />

po’ alla volta <strong>per</strong>de la sua coda di squadre inghiottite dalle prime gallerie ai piedi della<br />

collina, mentre il serpente in discesa si distende fino a raggiungere la sua lunghezza<br />

completa all’entrata del campo. L’occhio, come una telecamera, inquadra il serpente che<br />

discende dalla collina, lo attraversa interamente, dalla testa alla coda dove si ferma su due o<br />

tre condannati che, diversamente dagli altri in fila <strong>per</strong> due, procedono ad uno ad uno con le<br />

mani legate dietro la schiena. Fa un primo piano su questi. È Fetah. È ammanettato <strong>per</strong>ché<br />

non ha scavato i fornelli dell’esplosivo della miniera, ed ha lasciato gli altri detenuti senza il<br />

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