La soggettività e il dolore in ambito previdenziale ... - INCA Lombardia

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Supplemento
al Notiziario Inca
N. 4-5/2007
La soggettività
e il dolore
in ambito previdenziale
e della sicurezza sociale

Supplemento
al Notiziario Inca
N. 4-5/2007
direttore responsabile
Enrico Cardile
redazione
Sonia Cappelli
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del Tribunale di Roma
il 22.12.1983
Progetto grafico: Antonella Lupi
Stampa: Tipografia O.GRA.RO. srl
Vicolo dei Tabacchi, 1 - Roma
CHIUSO IN TIPOGRAFIA
OTTOBRE 2007
Questo Quaderno è stato curato da:
Cristiana Brambilla, Ferdinando Brandi,
Gianpiero Cassina, Lelia Della Torre,
Adalberto Ferioli, Mariaclara Guerreri
del Coordinamento medico legale
dell’Inca Cgil Lombardia
e da Maria Mangiaracina
dell’Inca Cgil Lombardia.
http://www.inca.lombardia.it/consulenza/indicemedico.htm
e per l’Ufficio Stampa Inca Cgil nazionale da:
Sonia Cappelli

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
◗ Presentazione 5
di Lelia Della Torre
▼ Relazioni
◗ Dolore e medicina: orientamenti attuali di valutazione e terapia 7
di Mauro Marinari
◗ La proposta valutativa sulle cefalee del Gruppo 13
di lavoro della Regione Lombardia per l’invalidità civile
di Paolo Pelizza
◗ Approccio olistico alla soggettività e al dolore 27
nell’invalidità e inabilità INPS
di Nadja Polimeni
◗ La valutazione della soggettività e del dolore in ambito Inail 51
di Patrizio Rossi
◗ La soggettività e il dolore in ambito previdenziale. 59
Riflessioni su alcuni casi INCA
di Adalberto Ferioli e Mariaclara Guerreri
▼ Approfondimenti 71
◗ Parere medico-legale sul mancato riconoscimento 73
di una ipoacusia professionale
di Lelia Della Torre
◗ Relazione di consulenza tecnica specialistica 77
◗ Sentenza del Tribunale di Lecco n. 103/07 81
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Sommario

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Presentazione
di Lelia Della Torre*
La medicina legale nel valutare il danno cerca di mettere insieme, assegnando
giudizi e percentuali, le varie parti del corpo che i medici
specialisti studiano e curano dividendoli in organi ed apparati.
Ma questa valutazione risulta complessa di fronte al dolore che sfugge a misurazioni
obiettive data l’estrema variabilità da soggetto a soggetto della sofferenza
conseguente ad una stessa patologia, infermità, danno. Il dolore è relativo
al modo di essere di quella specifica persona, di per sé unica e irripetibile
anche nel suo modo di esistere. La cognizione del dolore è un problema
culturale: il prof. Antonio Marigliano (1) indica la necessità di una relazione
empatica tra medico e interlocutore per «imparare da lui, dal suo linguaggio
verbale, da quello del corpo, dalla mimica, dal tono della voce, dagli
sguardi, il suo modo di soffrire per decodificarlo ed interpretarlo».
Ma può ritenersi misurabile e quantificabile il dolore in sé? Mentre il dolore
acuto è ragionevolmente considerabile come il sintomo di malattia o esito
di un trauma, il dolore cronico ricorrente è uno specifico problema medico,
una malattia vera e propria che va studiato e interpretato.
Il problema valutativo si pone in particolare per le limitazioni funzionale su
base antalgica, conseguenti ad esiti di infortunio e malattia professionale,
che sotto sforzo possono limitare in modo significativo la capacità lavorativa
di un soggetto come nei casi di una tendinite o di una lombalgia: di norma
la valutazione è effettuata a riposo con conseguente sottostima del danno.
Difficile risulta anche fare valutazioni di danno e di capacità lavorativa
nei casi in cui vi sia una evidente sproporzione tra i postumi «organici» ed i
riflessi di dolore-sofferenza riferiti dal soggetto: è possibile avvalersi di scale
di valutazione del dolore somministrate da strutture specialistiche come i
* Coordinatrice medico legale INCA CGIL Lombardia
(1) A. Marigliano, «Gli aspetti psichiatrici e psichiatrici-forensi», in Il dolore nella valutazione del medico
legale, a cura di Marcello Valdini, Giuffrè Editore, 2007.
5
Presentazione

Soggettività e dolore
6
centri di terapia del dolore? Questo corso di aggiornamento, promosso dalla
Scuola Italiana di Formazione e Ricerca in Medicina di Famiglia (società di formazione
promossa dalla Federazione dei Medici di Medicina Generale, con la
quale l’INCA nazionale ha stipulato un protocollo d’intesa per favorire
l’emersione del fenomeno delle malattie professionali) e in collaborazione con il
Coordinamento Medico Legale dell’INCA Lombardia e rivolto ai medici consulenti
di Patronati, medici del lavoro delle ASL, medici competenti, medici legali,
medici previdenziali, medici di medicina generale che operano sul territorio
e negli enti pubblici vuole rappresentare un momento di incontro e di discussione
su questi aspetti della medicina legale previdenziale rimasti fino ad
oggi un po’ nell’ombra.

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Dolore e medicina: orientamenti attuali
di valutazione e terapia
di Mauro Marinari *
Chi volesse descrivere, in estrema sintesi, la moderna medicina occidentale utilizzando
espressioni che ne individuino le caratteristiche fondamentali, probabilmente
ne sottolineerebbe l’elevata tecnologia, l’alto grado di specializzazione, la parcellizzazione
delle conoscenze e delle competenze, il collegamento indissolubile col
metodo scientifico e, quindi, la sua trasformazione da arte a scienza evidence based.
In realtà, a partire dal secolo scorso si è assistito allo sviluppo, per molti versi incredibile,
di una medicina che, imboccata con decisione la via del metodo scientifico,
ha acquisito una quantità enorme di conoscenze di base e, adottando appieno
le potenzialità offerte dalla tecnologia, si è totalmente trasformata. I successi
legati a questa metamorfosi sono sotto gli occhi di tutti e sono incontestabili:
malattie per secoli considerate inguaribili sono state sconfitte o sono addirittura
scomparse, molte altre sono divenute controllabili. Il limite alle possibilità
d’intervento sembra non più legato a conoscenze inadeguate o a carenza di strumenti
idonei ma, piuttosto, alla disponibilità di fondi. Il quadro generale è quello
di una scienza vincente per la quale non esistono frontiere a priori invalicabili.
Le battaglie non ancora vinte lo saranno non appena sforzi e investimenti avranno
raggiunto livelli adeguati.
Eppure, nel bel mezzo di questa crescita mai sperimentata prima, proprio mentre i
successi si moltiplicavano e gli ostacoli erano superati di slancio, sono comparsi anche
i segni delle contraddizioni e delle difficoltà insiti in questo modello di sviluppo.
Qualcuno, verso la metà del secolo scorso, ha avvertito che la nuova medicina
scientifica, tecnologica, specialistica aveva senza accorgersene, progressivamente ma
ineluttabilmente, cambiato non solo il suo metodo di lavoro ma anche l’oggetto
della sua azione.
* Già Presidente Società Italiana Cure Palliative e Direttore Hospice.
7
Relazioni

Soggettività e dolore
8
Lo specifico della medicina non era più l’uomo malato ma la malattia, l’organo, la cellula,
la molecola malata. Almeno in apparenza, questo poteva essere un problema secondario,
per così dire un effetto collaterale, non desiderato ma accettabile, considerati i
grandi vantaggi che venivano comunque raggiunti. In realtà questo distacco, questa
estraniazione della medicina dal suo oggetto naturale portava in sé il seme di una grave
disumanizzazione della medicina stessa. La separazione tra l’obiettivo di perseguire il bene
complessivo del paziente e l’obiettivo della guarigione dalla malattia che, quando le
possibilità tecniche della medicina erano limitate, non era quasi percettibile, con
l’aumentare dell’efficacia e delle potenzialità di queste ha portato ad una dicotomia sempre
più grande e manifesta.
Paradossalmente si verifica che la ricerca della sconfitta o del controllo della malattia non
solo non coincida con il meglio per la persona malata, ma addirittura costituisca un attacco
alla sua dignità e alla sua autonomia.
Negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, un’infermiera inglese, Cicely Saunders,
si rese conto, assistendo un giovane reduce dai campi di prigionia affetto da un tumore
«oltre i limiti di curabilità», che la medicina quando non era più in grado di vincere
la malattia, non solo era inerme e disorientata, ma semplicemente si ritirava, abbandonava
il campo: non aveva più niente da fare. La sua grande intuizione fu che, al contrario,
proprio in quella fase, per quel malato, c’era tantissimo da fare: alleviare i numerosi
sintomi fisici che la malattia avanzata causava, combattere l’isolamento e l’angoscia, offrire
cure attente non solo al suo corpo piagato ma anche alla sua mente e al suo cuore.
Da quella esperienza la Saunders capì la necessità che la medicina ritrovasse il vero obiettivo
del suo agire e dei suoi sforzi: l’uomo nella sua interezza di corpo e psiche, nella sua
individualità di persona, dotata di una storia, di una cultura, di legami affettivi e sociali,
di valori, di autonomia e dignità da difendere fino all’ultimo istante. Questa prospettiva,
nuova per la medicina moderna e scientifica ma, in realtà, propria della medicina
umanistica, modificava radicalmente il valore del «sintomo»: non più un epifenomeno,
un segno da utilizzare per la diagnosi e la cura della malattia ma il nemico da debellare
in quanto vero responsabile dell’inaccettabile qualità di vita del malato. La cura del sintomo,
nella nuova prospettiva, non deriva dalla possibilità di curare la causa che lo provoca
né, tanto meno, dalla sua importanza oggettiva, ma diventa indipendente e prioritaria:
il sintomo va eliminato per il suo valore soggettivo, per l’incidenza che esso ha sull’esperienza
di malattia, per la sofferenza che produce.
La lotta al dolore è il primo frutto di questo nuovo approccio. Il dolore fisico non è più
considerato il prezzo da pagare, il segno e il compagno inevitabile della malattia. Il dolore
può e deve essere combattuto, eliminato o, almeno, attenuato utilizzando tutti i
mezzi disponibili. Questo nuovo atteggiamento ha contribuito a notevole sviluppo della
ricerca in ambito algologico e al diffondersi di tecniche e di medicazioni antalgiche che
ha caratterizzato la seconda metà del Novecento.

Se il dolore non è più solo un campanello d’allarme, un segno fastidioso ma utile della
malattia che lo provoca, ma è invece considerato esso stesso malattia, ne consegue che richiede
un trattamento specifico.
Il dolore «sintomo» viene solitamente classificato, in base alle sue caratteristiche temporali,
in dolore acuto o dolore cronico e, a seconda della sua origine, in dolore benigno o
dolore da cancro o correlato al cancro.
Queste distinzioni sono spesso assolutamente inadeguate a descrivere le caratteristiche del
dolore e la sua gravità e altrettanto spesso sono alla base di gravi carenze terapeutiche.
Il cosiddetto dolore cronico benigno costituisce un problema sanitario e sociale assai più
vasto e grave di quanto comunemente si creda: ha una valenza economica rilevante e incide
profondamente sulla qualità della vita. È inoltre un problema in costante aumento
a causa dell’invecchiamento della popolazione ed è una importante causa di disabilità e
di perdita di autonomia.
Il dolore cronico benigno inoltre è sottodiagnosticato, sottovalutato nella sua entità e, di
conseguenza, trattato in maniera inadeguata e, soprattutto, mal trattato. Nella gran parte
dei casi non viene raccolta un’anamnesi specifica, non viene fatta una diagnosi di tipo di
dolore (nocicettivo, somatico, viscerale, neurogeno, misto...), non si utilizzano i test diagnostici
disponibili, non viene eseguita una valutazione quantitativa e qualitativa del dolore
e, infine, non si utilizzano le terapie disponibili che non sono solo farmacologiche.
La valutazione del dolore passa attraverso la identificazione delle sue caratteristiche temporali
(è continuo, intermittente, episodico, diurno, notturno...), della ricerca dei fattori
che lo provocano o lo accentuano e di quelli che lo attenuano, della sua localizzazione
spaziale e delle aree di irradiazione, delle sue caratteristiche (urente, trafittivo, sordo,
pungente, spasmodico,...) e della sua intensità come viene percepita dal paziente.
La misurazione della intensità può essere effettuata con metodiche unidimensionali o
multidimensionali.
Le prime valutano solo una dimensione e vengono effettuate utilizzando scale o indici:
le scale numeriche (1-10 o 1-100), le scale analogiche visive, le scale verbali a 4 o 5 items.
Le metodiche multidimensionali utilizzano questionari strutturati (p. es. Mc Gill Pain
Questionnaire) o semi strutturati. Nessuno dei metodi di valutazione del dolore è pienamente
soddisfacente ed è in grado di dare una valutazione realistica del sintomo che essendo
soprattutto una complessa esperienza individuale sfugge ai tentativi di semplificazione
clinica. Tuttavia la misurazione/valutazione del dolore è una guida indispensabile
alla diagnosi e al trattamento.
Il dolore oncologico è il paradigma del «dolore totale» multifattoriale: è una devastante
esperienza di sofferenza che vede variamente sommarsi componenti fisiche (nocicettive),
psicoemozionali, sociali e spirituali. È stato a lungo considerato un dolore intrattabile o
che richiedeva interventi terapeutici invasivi, eseguibili in centri altamente specializzati.
Un passo decisivo per la lotta al dolore oncologico è costituito dal documento Cancer
9
Relazioni

Soggettività e dolore
10
Pain Relief pubblicato da un gruppo internazionale di esperti per conto dell’OMS-
WHO. In questo documento si identificava il controllo del dolore da cancro come obbiettivo
prioritario delle politiche sanitarie dei governi, si indicavano le linee guida per il
controllo farmacologico del dolore utilizzando schemi terapeutici semplici e perciò applicabili
ovunque senza la necessità di strutture complesse o costose apparecchiature. Ma
questo documento è importante anche perché inquadra il controllo del dolore da cancro
in un approccio più ampio di controllo dei sintomi fisici ma anche degli aspetti sociali,
relazionali e spirituali della sofferenza indotta dalla malattia.
Le linee guida dell’OMS-WHO individuano nella «scala analgesica» a tre gradini la corretta
progressione nella scelta dei farmaci analgesici: FANS, oppioidi deboli e oppioidi
forti. Inoltre danno regole precise per le modalità di somministrazione dei farmaci e, infine,
individuano nella Morfina il farmaco principe per il trattamento del dolore da moderato
a severo.
A distanza di oltre venti anni dalla pubblicazione delle linee guida il nostro paese è ancora
agli ultimi posti nel mondo nell’utilizzo terapeutico della morfina. I miti relativi alla
pericolosità dell’uso degli oppioidi sono duri da eliminare nonostante una ormai vastissima
esperienza acquisita sul campo.
Ma anche nel campo del controllo del dolore acuto non necessario molta strada resta ancora
da percorrere nonostante da anni si sia lanciata, anche per legge, una campagna per
«l’ospedale senza dolore».
Siamo molto lontani dall’attuazione di un sistematico controllo del dolore post-operatorio,
come se il sentire dolore dopo un intervento chirurgico sia uno scotto inevitabile da
pagare.
Parimenti l’analgesia durante le manovre diagnostiche invasive è praticata in una piccola
parte dei centri, forse in nome o a vantaggio di una supposta maggiore velocità di esecuzione
o di minori costi.
Il parto indolore è anch’esso praticato in ancora pochi centri e in un numero per lo più
limitato di casi.
Anche per il dolore acuto vale la considerazione della insufficiente metodologia diagnostica
utilizzata. La stessa misurazione del dolore non viene sistematicamente attuata come
invece si continua a fare per la misurazione della temperatura o della pressione arteriosa.
Gli strumenti utilizzati, già di per sé poco precisi, diventano del tutto inaffidabili
se non somministrati in modo corretto e da personale adeguatamente addestrato.
Come si vede nonostante gli indubitabili e continui progressi che si sono verificati nella
conoscenza del dolore e dei suoi meccanismi fisiopatologici, nonostante la disponibilità
ampia di sistemi multimodali di diagnosi e di cura, il problema del controllo del dolore
sia acuto che cronico è ancora irrisolto, in particolare nel nostro paese.

▼ Bibliografia
1. Foley K.M., Arbit E., «Management of Cancer Pain», in De Vita V. Jr et al., ed. Cancer
Principles and Practice of Oncology, 3rd ed., Philadelphia, Lippincott, 1989, pp.
2064-2087.
2. The Use of Essential Drugs: Sixth Report of the WHO Expert Committee, Geneva,
World Health Organization, 1995 (WHO Technical Report Series, N. 850).
3. WHO Expert Committee on Drug Dependence: Twenty-eighth Report, Geneva, World
Health Organization, 1993 (WHO Technical Report Series, N. 836).
4. Inturrisi C.E., «Management of Cancer Pain: Pharmacology and Principles of Management»,
Cancer, n. 63, 1989, pp. 2308-2320.
5. Twycross R.G., Therapeutics in Terminal Cancer, 3rd ed., Oxford, Radcliffe Medical
Press, 1995.
6. Cancer Pain Relief and Palliative Care: Report of a WHO Expert Committee, Geneva,
World Health Organization, 1990 (WHO Technical Report Series, N. 804).
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Relazioni

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
La proposta valutativa sulle cefalee
del Gruppo di Lavoro della Regione Lombardia
per l’invalidità civile 1
di Paolo Pelizza*
▼ Introduzione: le motivazioni
La Direzione Generale Famiglia e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia ha,
tra gli altri compiti, quello di fornire indicazioni e direttive alle ASL lombarde in
ambito di invalidità civile, per garantire prestazioni secondo criteri di appropriatezza,
efficienza ed efficacia. Anche a tal fine ha costanti contatti sia con i Servizi di
Medicina Legale che con le Associazioni di Categoria od i singoli cittadini al fine
di monitorare la presenza di criticità organizzative.
Come esempio, all’atto di entrata in vigore del DPCM 13/01/2000 (atto di indirizzo
e di coordinamento per il collocamento mirato) si rese necessario istituire un tavolo
di lavoro per avviare in modo omogeneo su tutto il territorio regionale la nuova
tipologia di accertamenti introdotti dalla legge 68/99 2 . Concluso tale piano di lavoro,
si rese nuovamente necessario istituire un gruppo di lavoro finalizzato a dare
risposta a diversi problemi emergenti, sia tecnici che procedurali. Pertanto, con decreto
della Direzione Generale Famiglia e Solidarietà Sociale n. 3469 del 28.3.2006,
veniva nominato un nuovo Gruppo di Lavoro 3 con componenti misti (rappresentanti
della Regione, rappresentanti di area delle ASL e docenti universitari).
* Responsabile UO Invalidi Civili, Handicap e prestazioni correlate - Servizio Medicina Legale ASL
Brescia, Componente del Gruppo di lavoro della Regione Lombardia «Riqualificazione delle attività
delle Commissioni Sanitarie per l’accertamento dell’invalidità civile, della cecità civile, del sordomutismo,
dell’Handicap, della disabilità»
1 Son Circ. r. 14 dicembre 2006, n. 30 «Indicazioni operative per la valutazione delle cefalee nell’ambito
dell’invalidità civile». BUR Lombardia SO n. 3, 15 gennaio 2007.
2 DG Famiglia e Solidarietà Sociale: decreto n. 2878 del 09/02/2001 «Nomina di una Commissione
di Studio per la definizione di linee guida per la valutazione delle potenzialità lavorative dei disabili ai
sensi della L. 68/99 e del DPCM 13 gennaio 2000».
3 DG Famiglia e Solidarietà sociale: decreto n. 3469 del 28/03/2006 «Riqualificazione delle attività
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Relazioni

Soggettività e dolore
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Una delle prime, pressanti, richieste di intervento, proveniva dalla Associazione Italiana
per la lotta contro le Cefalee che rappresentava alla Regione la necessità di una migliore
considerazione dei pazienti affetti da forme di cefalea, malattia a forte incidenza sulla popolazione
soprattutto in età lavorativa, per i quali i comportamenti delle diverse commissioni
lombarde evidenziavano significative discrepanze/discrezionalità valutative.
A tutti gli operatori dell’invalidità è noto come lo strumento guida per le valutazioni medico-legali
in invalidità civile, costituito dalle tabelle di cui al Decreto del Ministero della
Sanità del 5 febbraio 1992, è, per necessità, alquanto essenziale, ma soprattutto, pur
continuando a costituire un imprescindibile riferimento normativo, in considerazione
degli avanzamenti diagnostici e terapeutici della medicina clinica, appare oggigiorno superato
in molti aspetti nosografici e valutativi.
Con riferimento al tema delle sindromi cefalalgiche, e alla valutazione delle algie in generale,
nelle tabelle ministeriali non esistono effettivamente riferimenti utilizzabili, neppure
in via analogica; conseguentemente in assenza di indicazioni si possono verificare (e
di fatto si verificano) discrezionalità valutative da parte delle Commissioni.
Si è ritenuto pertanto opportuno avviare l’attività del Gruppo di Lavoro affrontando il
tema della valutazione dei pazienti affetti da cefalea. A tale scopo si è proceduto ad un
primo confronto con specialisti neurologi, esperti in cefalee, per acquisire dati epidemiologici,
nosografici, diagnostici e di stima della gravità del quadro clinico 4 .
▼ Dati clinici
❚ Inquadramento nosografico delle cefalee
La «cefalea» è una forma morbosa di grande difficoltà diagnostica obiettiva, che richiede
estrema competenza specialistica per una precisa collocazione nosografica. Parlare genericamente
di «cefalea» è impreciso giacché diverse sono le «forme di cefalee» e diverse so-
delle Commissioni Sanitarie per l’accertamento dell’invalidità civile, della cecità civile, del sordomutismo,
dell’handicap, della disabilità».
Il gruppo di lavoro era così composto: coordinatore, d.ssa Rosella Petrali (Dirigente Unità Organizzativa Sistema
Socio-assistenziale della DG Famiglia e solidarietà sociale); componenti: prof. Fabio Buzzi (direttore
Istituto di Medicina Legale dell’Università degli studi di Pavia e consulente scientifico); dr. Umberto Genovese
(ricercatore Istituto di Medicina legale Università degli Studi di Milano); dr. Gian Franco Bertani (funzionario
DG Sanità); Dr. Alberto Germani (medico Legale ASL della Città di Milano); dr. Paolo Pelizza (medico
legale ASL della Provincia di Brescia); d.ssa Amneris Magella (medico legale ASL della Provincia di Como);
segreteria, d.ssa Lia Bottini Funzionario Unità Organizzativa Sistema Socio-assistenziale della DG Famiglia
e solidarietà sociale.
4 Vennero pertanto coinvolti, in veste di specialisti: G. Sances dell’UO Centro Regionale Diagnosi e Cura
delle Cefalee, IRCCS Fondazione Istituto Neurologico C. Mondino, Pavia; G. Sandrini e C. Tassorelli del
Centro Interuniversitario Cefalee e Disordini Adattativi (UCADH), Sezione di Pavia; G. Bussone dell’Istituto
neurologico nazionale Carlo Besta di Milano; M. Quarti dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano
e F. Freudiani del Policlinico Ponte San Pietro (Bg).

no le sintomatologie che le caratterizzano per tipologia e gravità. Il cosiddetto «mal di testa»
è un «sintomo» di svariati disordini neuro-biologici, tra i quali alcuni sono piuttosto
comuni e ubiquitari.
L’OMS nel marzo del 2000 5 diffondeva indicazioni elaborate al termine di una Consensus
Conference con medici e rappresentanti di organizzazioni non governative, provenienti
da 27 paesi, nelle quali si poneva in evidenza il «peso» disabilitante dei disturbi cefalalgici,
che colpiscono una popolazione giovane e produttiva (generalmente tra i 25 ed
i 50 anni anche se alcune forme possono interessare bambini ed adolescenti). Tuttavia i
dati epidemiologici riescono solo parzialmente a documentare la loro reale incidenza: per
esempio, l’emicrania è il «mal di testa» più ampiamente studiato, mentre la più comune
cefalea di tipo tensivo, la più disabilitante cefalea a grappolo e i sottotipi di cefalee croniche
giornaliere sono meno analizzati 6 .
I dati riportati dagli specialisti tendono ad evidenziare che le cefalee primarie rappresentano
una delle patologie di più comune riscontro sia negli ambulatori di medicina generale
che di neurologia, e sono causa molto frequente di accesso a strutture di emergenza.
L’epidemiologia e l’impatto sulla sfera personale, familiare, lavorativa e sociale delle «sindromi
cefalalgiche» meriterebbero di far rientrare tali patologie tra i principali problemi della
salute pubblica, ma, a causa della mancanza di consapevolezza, sia a livello sociale che a livello
sanitario, sono di fatto sottostimate e non adeguatamente trattate dal punto di vista
medico. A livello scientifico internazionale solo da pochi anni si è iniziato a considerare
l’impatto individuale e sociale di queste patologie; oltre a focalizzare l’attenzione sull’aspetto
dei «costi economici diretti ed indiretti» (spesa ingenerata dal consumo cronico di farmaci,
perdita di giornate lavorative) l’inquadramento della dimensione «socio-sanitaria» andrebbe
condotto analizzando i parametri forniti dall’OMS dei Disability Adjusted Life Years
(DALYs) 7 secondo i quali l’emicrania risulterebbe essere tra le principali patologie invalidanti
in termini di anni di vita persi per disabilità (YLDs) 8, 9 .
❚ La classificazione Internazionale delle Cefalee (ICHD-II)
Tra le cause della scarsa disponibilità di dati epidemiologici e, conseguentemente, anche
della scarsa considerazione clinica dei disturbi cefalalgici è anche l’eterogeneità classifica-
5 Headache Disorders and Public Health - Meeting on Headache and Related Disorders, WHO Geneva,
13-14 marzo 2000.
6 WHO Headache disorders Fact sheet n. 277, marzo 2004.
7 DALYs (Disability Adjusted Life Years) è un indice di mancanza di salute che estende il concetto di anni
potenziali di vita persi per morte prematura (YLL) per includere gli equivalenti anni di vita «sana» persi a
causa di uno stato di scarsa salute o disabilità (YLD). Combina in un’unica misura il tempo vissuto con disabilità
e il tempo perso per morte prematura.
8 The World Health Report, 2001, Mental Health, New Understanding, New Hope.
9 M. Leonardi, C. Mathers, Global Burden of Migraine in the Year 2000: Summary of Methods and Data
Sources. Consultabile all’indirizzo www.who.int/healthinfo/statistics/bod_migraine.pdf.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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tiva dei «dolori al capo». Proprio per definire rigorosamente, anche dal punto di vista diagnostico,
un problema di così grande impatto sociale, nel 1988 veniva pubblicata, dopo
circa tre anni di lavoro di una Commissione «ad hoc» istituita dalla International Headache
Society (IHS), una prima Classificazione Internazionale delle Cefalee da utilizzare
in campo clinico e di ricerca. A distanza di 15 anni tale classificazione è stata modificata
con una seconda edizione di cui è oggi disponibile una prima revisione 10 .
L’utilizzo di tale strumento, di evidente utilità in campo medico, ha tuttavia faticato a
diffondersi all’infuori dei settori specialistici.
La classificazione è basata esclusivamente sulle caratteristiche cliniche dei dolori cranio-facciali
e individua, unitamente alle categorie nosologiche, i criteri diagnostici per
ciascun disordine cefalalgico allo scopo di fornire, sia al medico di base che allo specialista,
un valido strumento per la definizione del quadro clinico. Diventa pertanto
uno strumento di lavoro indispensabile, considerando anche che gli studi nosografici
in grado di permettere una classificazione interamente basata sulla letteratura non sono
tuttora sufficienti.
La classificazione è strutturata gerarchicamente secondo un codice numerico a quattro
livelli, che permette di fare diagnosi via via più sofisticate: il primo e secondo livello sono
di solito sufficienti nella pratica clinica, mentre il terzo e quarto livello sono «riservati»
allo specialista o a fini di ricerca.
Tali primi rilievi, unitamente alla constatazione che l’ultima revisione della Classificazione
Internazionale delle Cefalee (ICHD-II) distingue oltre duecento forme di cefalee primarie
e nevralgie, hanno reso necessario, da parte del Gruppo di lavoro, l’individuazione
delle forme principali di cefalea primaria e di parametri utili ad un inquadramento finalizzato
alla valutazione medico-legale dell’invalidità. A tale fine si sono ritenuti rilevanti,
oltre alle caratteristiche del dolore peculiari di ogni forma cefalalgica, i dati relativi a frequenza,
durata ed intensità degli attacchi ed efficacia della terapia. Sulla base di tali necessari
elementi clinici, è stata quindi elaborata una griglia valutativa per queste condizioni
morbose.
❚ I parametri diagnostici
Le forme di cefalee primarie (CP) classificate nel primo livello dell’ICHD-II sono:
1. Emicrania
2. Cefalea di tipo tensivo (TTH Acronimo derivato dall’inglese Tension-Type Headache)
3. Cefalea a grappolo e altre cefalalgie autonomico-trigeminali
4. Altre cefalee primarie.
10 The International Classification of Headache Disorders, 2nd edition, Cephalalgia, 2004; 24 suppl. 1, pp.
1-160, reperibile anche in Internet al sito: www.ihs-klassifikation.de/it/.

Emicrania
L’Emicrania è il tipo di cefalea primaria più frequentemente studiata, con una prevalenza
11 media nella popolazione generale compresa tra l’8 e il 15%; insorge spesso nell’infanzia
o nei primi anni dell’adolescenza, con percentuali più alte nelle donne, ma i picchi
di prevalenza si situano, per entrambi i sessi, nelle fasce di età giovanile-adulta, intorno
alla terza-quarta decade di vita 12 . Viene annoverata dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità al 19° posto nella graduatoria delle patologie disabilitanti (YLDs = anni di
vita persi per disabilità) 13 .
L’emicrania è distinta in due sottotipi maggiori:
1.1 Emicrania senza aura, sindrome clinica caratterizzata da cefalea con aspetti peculiari
e sintomi associati, e
1.2 Emicrania con aura, caratterizzata da sintomi neurologici focali che generalmente
precedono, ma talora accompagnano la fase algica.
Alcuni pazienti presentano, inoltre, una fase premonitoria, che si verifica ore o addirittura
giorni prima della comparsa del dolore, e una fase di risoluzione. I sintomi tipici della
fase premonitoria e di risoluzione sono rappresentati da iperattività, ipoattività, depressione
dell’umore, ricerca di cibi particolari, sbadigli ripetuti; ma altri tipi di sintomi sono
stati riferiti da alcuni soggetti.
L’impatto negativo dipende dal fatto che gli attacchi emicranici sono caratterizzati da dolore
di intensità media o severa (tale da interferire con le attività quotidiane), che tende
a peggiorare con i movimenti e l’attività fisica (es. salire le scale, sollevare un peso, correre).
Al dolore si associano tipici fenomeni come nausea, ipersensibilità a luci, rumori. Nei
casi più gravi sono presenti intolleranza sensoriale a tutti gli stimoli, vomito ripetuto,
diarrea, offuscamento della vista, marcata astenia.
Nelle forme non trattate (o trattate senza successo) gli attacchi durano da 4 a 72 ore.
Sono disponibili varie terapie di tipo sintomatico (analgesici o triptani da assumere al
momento dell’attacco o del riacutizzarsi di cefalee croniche) e di tipo preventivo (farmaci
di profilassi, da assumere per cicli di mesi per ridurre la frequenza/intensità del dolore).
Da segnalare che non tutti i pazienti rispondono in modo soddisfacente ai farmaci.
Cefalea di tipo tensivo (TTH)
È la forma più frequente di cefalea che, nei paesi sviluppati, interessa due terzi dei maschi
adulti e oltre l’80% delle femmine (sinonimi, utilizzati in passato erano: cefalea ten-
11 La prevalenza misura la proporzione di individui di una data popolazione affetti da una certa malattia durante
un determinato intervallo di tempo.
12 G. Bussone, D. D’Amico, «Cefalee: dati epidemiologici e incidenza invalidante sulla attività quotidiana/lavorativa».
Relazione all’interno del Gruppo di Lavoro Regione Lombardia «Riqualificazione delle attività
delle Commissioni Sanitarie per l’accertamento dell’invalidità civile, della cecità civile, del sordomutismo,
dell’handicap, della disabilità».
13 WHO Headache Disorders Fact. sheet n. 277, marzo 2004.
17
Relazioni

Soggettività e dolore
18
siva, cefalea muscolo-tensiva, cefalea psicomiogena, cefalea da stress, cefalea comune, cefalea
essenziale, cefalea idiopatica e cefalea psicogena). Nello stesso tempo è la cefalea primaria
meno studiata, nonostante produca l’impatto socio-economico più elevato.
Mentre in passato questa forma di cefalea veniva considerata di natura prevalentemente
psicogena, un certo numero di studi apparsi dopo la prima edizione della Classificazione
Internazionale delle Cefalee suggerisce fortemente l’esistenza di una base neurobiologica,
perlomeno per i sottotipi più gravi.
Il dolore è tipicamente bilaterale, di qualità gravativo-costrittivo, di intensità da lieve a
media e non risulta aggravato dall’attività fisica di routine. La nausea è assente (può comparire
nella forma cronica), ma possono essere presenti fotofobia o fonofobia.
Nella attuale classificazione si distinguono:
◗ una forma sporadica (meno di un episodio di cefalea al mese di durata variabile da
minuti a giorni.) che ha un impatto minimo sugli individui e non merita molta attenzione
da parte del medico;
◗ una forma frequente (frequenti episodi di cefalea di durata variabile da minuti a giorni)
che può andare incontro a una considerevole disabilità, che talvolta richiede l’uso
di farmaci costosi e trattamenti di profilassi;
◗ ed una forma cronica (evolve da una cefalea di tipo tensivo episodica, con episodi di
cefalea quotidiani o molto frequenti, comunque ≥15 giorni al mese da >3 mesi e di
durata variabile da minuti a giorni), disabilitante con costi elevati, sia sul piano personale
che su quello socio-economico
Cefalee a grappolo
La cefalea a grappolo rientra nelle cefalalgie «autonomico-trigeminali» caratterizzate da
episodi di cefalea associata a sintomi che derivano dall’interessamento del sistema parasimpatico
cranico. Indagini neuroradiologiche condotte nell’animale e nell’uomo suggeriscono
che, in queste sindromi, si verifichi l’attivazione di un riflesso trigemino-parasimpatico
fisiologico, mentre i segni determinati da un deficit del sistema simpatico sarebbero
fenomeni secondari.
In passato era indicata come Nevralgia ciliare, eritromelalgia del capo, eritroprosopalgia
di Bing, emicrania angioparalitica, emicrania nevralgiforme cronica, cefalalgia istaminica,
cefalea di Horton, malattia di Harris-Horton, nevralgia emicranica (di Harris), nevralgia
petrosa (di Gardner).
Gli attacchi sono caratterizzati da dolore intenso, strettamente unilaterale, orbitario, sovraorbitario,
temporale, o in varie combinazioni di tali sedi, della durata di 15-180 minuti,
che si manifestano con una frequenza variabile da una volta ogni due giorni a 8 volte
al giorno. Gli attacchi si manifestano in periodi attivi, denominati «grappoli», della durata
di settimane o mesi e sono intervallati da fasi di remissione della durata di mesi o anni.
Il 10-15% dei soggetti presenta un andamento cronico senza periodi di remissione.

Gli attacchi si associano a uno o più dei seguenti segni omolaterali al dolore: iniezione congiuntivale,
lacrimazione, congestione nasale, rinorrea, sudorazione della fronte e del volto,
miosi, ptosi, edema palpebrale. Molti pazienti sono irrequieti o agitati durante l’attacco.
Negli attacchi più intensi il dolore diventa pressoché insopportabile. Il paziente di solito
non riesce a mantenere la posizione clinostatica e tipicamente cammina avanti e indietro.
L’età all’esordio si colloca tra 20 e 40 anni. Per motivi ancora sconosciuti la prevalenza
è 3-4 volte maggiore negli uomini rispetto alle donne.
Hemicrania parossistica
Altra forma di cefalalgia «autonomico-trigeminale» con attacchi simili alla cefalea a grappolo
per quel che riguarda il dolore (dolore unilaterale, di forte intensità, in sede orbitaria,
sovraorbitaria e/o temporale) e i sintomi associati, ma che presentano una minore
durata (2-30 minuti) e una maggiore frequenza delle crisi (superiore a 5 al giorno per più
della metà del tempo, anche se possono presentarsi periodi con una frequenza inferiore).
Questa cefalea è più frequente nel sesso femminile e presenta una risposta completa all’indometacina.
SUNCT (Short-lasting unilateral neuralgiform headache attacks with conjunctival
injection and tearing) - Cefalea unilaterale di tipo nevralgico di breve durata con
iniezione congiuntivale e lacrimazione
Questa sindrome è caratterizzata da attacchi di dolore unilaterale, in sede orbitaria, sovraorbitaria
o temporale, trafittivo o pulsante, di durata nettamente inferiore a quanto
osservato in qualsiasi altra cefalea autonomico-trigeminale (da 5 a 240 secondi). La frequenza
degli attacchi è compresa tra 3 e 200 al giorno. Nella maggior parte dei casi si associano
lacrimazione intensa e iperemia congiuntivale omolaterali. Le SUNCT sono rare
e le forme descritte sono in prevalenza croniche.
Hemicrania continua
L’hemicrania continua è una forma di cefalea caratterizzata da dolore unilaterale, senza
alternanza di lato, frequenza quotidiana e continua, senza periodi di remissione ed intensità
di grado medio, ma con esacerbazioni di dolore forte. È anche considerata una forma
particolare di cefalalgia autonomico-trigeminale in quanto la componente vegetativa
cranica è presente in maniera incostante. Strettamente unilaterale, trae beneficio dal trattamento
con indometacina (remissione completa). Non è ancora noto se esistano dei sottotipi
di questa forma in base alla persistenza dei sintomi e alla durata del disturbo.
Cefalea quotidiana persistente «ab initio» (New Daily - Persistent Headache - NDPH)
In precedenza indicata come Cefalea cronica de novo, cefalea cronica con esordio acuto.
La cefalea è quotidiana e senza remissioni sin dall’esordio, o lo diviene entro 3 giorni.
19
Relazioni

Soggettività e dolore
20
Il dolore è tipicamente bilaterale, gravativo o costrittivo, di intensità lieve-media. Possono
associarsi fotofobia, fonofobia o nausea lieve. Benché esistano notevoli somiglianze
con la TTH, la NDPH è caratterizzata da un andamento quotidiano sin dall’esordio,
o quasi, e dal fatto che solitamente si manifesta in soggetti con anamnesi negativa
per cefalea. Per porre la diagnosi è indispensabile che il soggetto affetto sia in grado di
ricordare con sicurezza un tale tipo di esordio della cefalea. La NDPH può presentare
caratteristiche cliniche sia di tipo emicranico che tensivo. È sempre opportuno escludere,
mediante l’esecuzione di indagini appropriate, forme secondarie a ipotensione o
ipertensione liquorale, una cefalea post-traumatica e una cefalea attribuita a infezioni
(virali in particolare). Ne esiste un sottotipo, autolimitantesi, che si risolve senza trattamento
nell’arco di alcuni mesi, e un sottotipo refrattario, che resiste ai trattamenti farmacologici,
anche aggressivi.
Nevralgia del trigemino classica e altre nevralgie del capo
Il dolore craniofacciale è mediato, per la gran parte del territorio e nella maggioranza dei
pazienti, dal sistema trigeminale, dai nervi intermedio, glossofaringeo e vago e dalle radici
cervicali superiori attraverso i nervi occipitali. La stimolazione di questi nervi mediante
compressione, distorsione, esposizione al freddo e altri stimoli irritativi, oppure una lesione
delle vie centrali, può causare dolore lancinante o costante nell’area di distribuzione.
La nevralgia del trigemino è un disturbo unilaterale caratterizzato da dolori di breve durata,
a tipo scossa elettrica; il dolore – tipicamente – inizia e termina in modo brusco ed
è limitato al territorio di distribuzione di una o più branche trigeminali. Il dolore è spesso
innescato da stimoli (fattori scatenanti) innocui e comuni, quali lavarsi il volto o i denti,
radersi, fumare, parlare, ma spesso si presenta anche spontaneamente. Piccole aree del
solco naso-labiale e/o del mento sono particolarmente suscettibili allo scatenamento del
dolore («zone grilletto» o trigger). Il decorso presenta solitamente fasi di remissione di
durata variabile. In alcuni casi, la causa può essere ovvia, come nell’infezione da herpes
zoster o in presenza di un’anomalia strutturale evidenziata alle indagini neuroradiologiche,
ma in alcuni casi non è possibile identificare alcuna causa apparente.
La nevralgia trigeminale classica di solito inizia a livello della seconda o terza branca, interessando
più frequentemente la guancia o il mento. In meno del 5% dei casi interessa
la prima branca. Il dolore non si estende mai controlateralmente (se si presenta bilateralmente
è probabilmente una forma sintomatica, più frequentemente associata a sclerosi
multipla). Fra un attacco e l’altro il paziente solitamente non presenta sintomi, anche se
dopo molti anni di malattia può manifestarsi un dolore sordo più persistente. Gli attacchi
dolorosi sono solitamente seguiti da un breve periodo refrattario durante il quale il
dolore non può essere scatenato. In alcuni casi, l’attacco può essere scatenato da stimoli
somatosensoriali extratrigeminali, per esempio localizzati a un arto, o da altre stimolazioni
sensoriali, come luce, rumore o sapori, di elevata intensità. Il dolore spesso evoca con-

trazioni della muscolatura facciale del lato affetto (da cui, il termine di tic douloureux).
L’esplorazione chirurgica della fossa cranica posteriore e la risonanza magnetica (RM), effettuate
sempre più frequentemente, hanno dimostrato che molti, forse tutti i pazienti
affetti da questa condizione, presentano compressione della radice trigeminale da parte
di vasi aberranti o tortuosi.
La nevralgia trigeminale classica solitamente risponde, almeno inizialmente, alla terapia
farmacologica.
▼ Valutazione del grado di invalidità e graduazione
percentuale
Di tali forme, individuate con il confronto con gli specialisti, sono state analizzate e rappresentate
le caratteristiche di frequenza, durata e intensità, formulando, sulla scorta di
tali presupposti, una tabella nella quale le principali forme cliniche sono state distinte in
base, appunto, alla frequenza degli attacchi (bassa, media, alta e cronicizzazione) e alla risposta
alla terapia.
In base alla frequenza sono state individuate le seguenti tre fasce:
frequenza medio-bassa
◗ per emicrania e cefalea di tipo tensivo: fino a 3 attacchi/mensili,
◗ per la cefalea a grappolo: fino a 1 attacco nelle 24 ore per periodi attivi di durata ≤1
mese,
◗ per hemicrania parossistica e nevralgia del trigemino: fino al 10% della giornata con
dolore per ≤1 mese all’anno;
frequenza medio-alta
◗ per emicrania e cefalea di tipo tensivo: 3 attacchi/mensili,
◗ per la cefalea a grappolo: 1 attacco nelle 24 ore con periodi attivi di durata > 1 mese,
◗ per hemicrania parossistica e nevralgia del trigemino: oltre al 10% e fino al 30% della
giornata con dolore per > 1 mese all’anno;
cronicità
◗ per emicrania e cefalea di tipo tensivo: ≥ 15 giorni al mese da almeno 3 mesi,
◗ per cefalea a grappolo ed hemicrania parossistica cronica: attacchi da almeno 1 anno
con remissioni di durata < 1 mese,
◗ per nevralgia del trigemino: attacchi da almeno 1 anno, senza remissioni di durata superiore
ad 1 mese.
Nota: l’hemicrania continua e la NDPH sono croniche per definizione
21
Relazioni

Soggettività e dolore
22
In base alla risposta ai trattamenti si è distinto:
Soddisfacente: la cefalea si riduce di almeno il 50% con il trattamento di profilassi e/o
la risposta ai sintomatici è completa (riduzione significativa della sintomatologia o sua
scomparsa entro due ore dall’assunzione).
Scarsa: la cefalea si riduce di < 50% dopo almeno 4 trattamenti con farmaci di profilassi
di comprovata efficacia, assunti con dosaggio e durata adeguati. La risposta ai sintomatici
è parziale.
Refrattaria: nessun beneficio a 4 trattamenti con farmaci di profilassi di comprovata efficacia,
assunti con dosaggio e durata adeguati.
Comorbilità: nella quantificazione dell’invalidità occorre tenere conto, ovviamente,
della possibile presenza di comorbilità, che nel caso di emicrania possono essere: ipertensione,
depressione e ansia; nel caso di cefalea di tipo tensivo: depressione, ansia,
stress psicosociale.
Nella classificazione non sono state considerate le forme secondarie di cefalea, rimandando,
in tal caso, ai criteri vigenti per la patologia organica di base.
▼ Documentazione sanitaria
Il problema valutativo che assume un’importanza cruciale quando l’attenzione su tali patologie
si sposta dal versante clinico al versante medico-legale, risiede nel fatto che la diagnosi
non si fonda su elementi obiettivi (esami strumentali, imaging) e quindi facilmente
riproducibili e «verificabili», ma si basa sulla osservazione clinica, sulla visita, sul colloquio,
sul diario e su questionari appositamente costruiti. È chiaro quindi che la diagnosi
di cefalea è fortemente dipendente dalla sintomatologia soggettiva riferita dal paziente
e dalla accortezza/capacità del clinico.
Allo stato attuale delle conoscenze, nessuna indagine ha valore di test diagnostico: quasi
sempre infatti la diagnosi è clinica e basata su una accurata raccolta anamnestica ed un
adeguato periodo di osservazione e trattamento. L’utilizzo di questionari diagnostici
(quali il MIDAS, l’HIT6, lo SF36) appositamente costruiti per precisare lo stato di disagio,
la perturbazione delle abitudini ed il peggioramento della qualità di vita, sono
di comprovato e comune utilizzo in clinica. Tuttavia essendo basati su percezioni soggettive
del paziente sul proprio stato di salute, sono di limitato uso per finalità medico-legali.
La condizione psicologica di un paziente può infatti essere influenzata dai
sintomi e, allo stesso tempo, essa può influenzare la percezione dei sintomi. Inoltre
nella valutazione psicologica, il dolore può influenzare i risultati di un questionario, di
modo che bisognerebbe tenere conto dello stato del paziente al momento della valu-

tazione 14 . Oltre a ciò, se somministrati nel contesto di un accertamento finalizzato ad
ottenere benefici «non terapeutici», risultano non attendibili. Peraltro, le Commissioni
medico-legali delle ASL necessitano di fondare le loro valutazioni su elementi obiettivabili
e misurabili, anche per permettere successivi controlli da parte delle Commissioni
ministeriali di verifica.
L’esigenza di definire rigorosamente dal punto di vista diagnostico le diverse forme di patologia
cefalalgica ha indotto pertanto a prescrivere che le certificazioni prodotte alle
Commissioni delle ASL provengano da Centri per le Cefalee di rilevanza nazionale. Successivamente
al lavoro della Commissione sono stati riconosciuti dalla Regione Lombardia
tre centri di riferimento per le cefalee, che possono pertanto corrispondere a tali requisiti:
i centri presso gli IRCCS Mondino di Pavia e Besta di Milano e il centro presso
gli Spedali Civili di Brescia.
La necessità di graduare l’impatto invalidante della patologia, sulla base della frequenza,
durata ed intensità degli attacchi nonché della risposta terapeutica, impone che le certificazioni
provenienti dai centri di riferimento riflettano un periodo di osservazione, del
caso, della durata di almeno un anno.
❚ Note in tema di codifica dell’invalidità
Un ultimo appunto riguarda la codificazione delle diagnosi a fini statistici; è sentita da
tempo anche in ambito medico-legale la necessità di ripensare alla modalità di stesura
delle diagnosi nel campo delle disabilità che tengano conto delle indicazioni date dall’OMS
in tema di Classificazioni Internazionali. In particolare se dal punto di vista clinico
è largamente diffusa l’adozione e l’utilizzo della codifica basata sul sistema ICD (International
Classification of Disease) giunta già alla 10° revisione (sebbene sia correntemente
utilizzata ancora la 9 a ) ai fini ad esempio dei sistemi DRG, in ambito socio-sanitario,
e in particolare in ambito medico-legale, nessuna ufficiale adozione di un sistema
standardizzato delle codifiche secondo l’ICF (International Classification of Functioning)
è stata ancora discussa e condivisa. Un precedente per la verità è costituito proprio
dalle tabelle ministeriali del ‘92 che si rifacevano ai precursori dell’ICF (ICDH), ormai
culturalmente superati.
Un tentativo di codifica alle patologie in questione può essere proposto con riferimento
alla diagnosi clinica delle cefalee (basata sull’ICD10) ed alla diagnosi funzionale (basata
sull’ICF) dove il riferimento sarà costituito dalla componente «funzioni corporee» (b).
Nello specifico la voce che meglio si adatta alle cefalee è quella relativa alla categoria «funzioni
sensoriali e dolore», sottocategoria di II livello «dolore» (b280), sottocategoria di IV
14 G. Bertolotti, G. Vidotto, E. Sanavio, F. Freudiani, «Psychological and Emotional Aspects and Pain»,
Neurological Sciences, n. 24 (2) maggio, 2003, pp. s71-s75.
23
Relazioni

Soggettività e dolore
24
livello «dolore al capo o al collo (b28010) con il qualificatore previsto per indicare
l’estensione o la gravità della menomazione:
0 Nessun problema 0-4 %
1 Problema lieve 5-24 %
2 Problema moderato 25-49 %
3 Problema severo 50-95 %
4 Problema completo 96-100 %
8 non specificato
9 non applicabile

0-15% 16-30%
31-46%
A)
FORME EPISODICHE A
FREQUENZA DI ATTACCHI
MEDIO-BASSA E SODDI-
SFACENTE RISPOSTA AL
TRATTAMENTO
ICF = B28010.0
1) EMICRANIA SENZA
E CON AURA
ICD10 = G43
2) CEFALEA DI TIPO
TENSIVO FREQUENTE
ICD10 = G44.2
3) CEFALEA A GRAPPOLO
EPISODICA
ICD10 = G44.01
4) HEMICRANIA
PAROSSISTICA EPISODICA
ICD10 = G44.03
8) NEVRALGIA DEL
TRIGEMINO CLASSICA
E ALTRE NEVRALGIE
DEL CAPO
ICD10 = G44.847
B1)
FORME EPISODICHE A
FREQUENZA DI ATTACCHI
MEDIO-ALTA E SCARSA
RISPOSTA
AL TRATTAMENTO
ICF = B28010.1
1) EMICRANIA SENZA
E CON AURA
ICD10 = G43
2) CEFALEA DI TIPO
TENSIVO
ICD10 = G44.2
3) CEFALEA A GRAPPOLO
EPISODICA
ICD10 = G44.01
4) HEMICRANIA
PAROSSISTICA EPISODICA
ICD10 = G44.03
8) NEVRALGIA DEL
TRIGEMINO CLASSICA
E ALTRE NEVRALGIE
DEL CAPO
ICD10 = G44.847
B2)
FORME CRONICHE
CON RISPOSTA PARZIALE
AL TRATTAMENTO
ICF = B28010.2
1) EMICRANIA CRONICA
ICD10 = G43
2) CEFALEA CRONICA
QUOTIDIANA CON O
SENZA USO ECCESSIVO
DI ANALGESICI
ICD10 = G44.2
3) CEFALEA A GRAPPOLO
CRONICA
ICD10 = G44.02
4) HEMICRANIA
PAROSSISTICA CRONICA
ICD10 = G44.03
5) SUNCT (Short-lasting
Unilateral Neuralgia with
Conjunctival injection
and Tearing)
ICD10 = G44.08
6) HEMICRANIA
CONTINUA
ICD10 = G44.80
7) NDPH (New Daily Persistent
Headache)
ICD10= G44.2
8) NEVRALGIA DEL
TRIGEMINO CLASSICA
E ALTRE NEVRALGIE
DEL CAPO
ICD10 = G44.847
C)
FORME CRONICHE
REFRATTARIE AL
TRATTAMENTO
ICF = B28010.3
1) EMICRANIA CRONICA
ICD10 = G43
2) CEFALEA CRONICA
QUOTIDIANA CON O
SENZA USO ECCESSIVO
DI ANALGESICI
ICD10 = G44.2
3) CEFALEA A GRAPPOLO
CRONICA
ICD10 = G44.02
4) HEMICRANIA
PAROSSISTICA CRONICA
ICD10 = G44.03
5) SUNCT
ICD10 = G44.08
6) HEMICRANIA
CONTINUA
ICD10 = G44.80
7) NDPH (New Daily Persistent
Headache)
ICD10= G44.2
8) NEVRALGIA DEL
TRIGEMINO CLASSICA
E ALTRE NEVRALGIE
DEL CAPO
ICD10 = G44.847
(nella tabella, rispetto alla versione elaborata dal gruppo di lavoro, l’Autore ha aggiunto un suggerimento
di codifiche secondo l’ICD e l’ICF).
25
Relazioni

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Approccio olistico alla soggettività e al dolore
nell’invalidità e inabilità INPS
di Nadja Polimeni*
▼ 1. Inquadramento del tema: la medicina legale
classica e la (ir)rilevanza del dolore
Soggettività e dolore sono termini che stimolano diffidenza nel medico a formazione
medico-legale.
◗ Il dolore è un’esperienza soggettiva, non oggettivabile, non misurabile, non
dimostrabile, non univoca in quanto condizionata nella sua espressione dalla soglia
individuale della nocicezione, e influenzata dal contesto familiare-socialeculturale-religioso.
La soggettività è quel composito insieme di sensazioni e stati d’animo, espressione
dell’alterazione della cenestesi individuale, cioè quel complesso di percezioni
che nascono dall’armonico funzionamento del corpo umano, e che si concreta
in un senso di equilibrio che varca appena la soglia della coscienza. La soggettività
sfuma dal semplice turbamento psicologico, contornato da manifestazioni
spiacevoli (astenia, facile affaticabilità, sensazione di malessere generale…), al vero
e proprio disturbo psico-patologico, e non è possibile suffragarla con riscontri
obiettivi fino a quando non sfoci in manifestazioni di patologia psichica, constatabile
con i metodi di puntualizzazione semeiologica e di classificazione nosografia
elaborati dal DSMIV.
◗ In campo medico-legale rilevano invece, quasi «per definizione», l’obiettività
e il dimostrabile.
La metodologia valutativa del medico legale si basa sul «rigorismo obiettivo», necessario
per impedire speculazioni formulate su soggettivismi, per definizione
non comprovabili con certezza, e non sempre autentici.
* Dirigente Medico legale 2° livello INPS Monza
27
Relazioni

Soggettività e dolore
28
Il medico legale valuta il danno o risolve quesiti legali, utilizzando le proprie conoscenze
medico-biologiche e rigorosi criteri scientifici, e, in questo compito, è alla costante ricerca
di fatti concreti, dimostrabili e comprovabili, sforzandosi di acquisire quantomeno
elementi di probabilità, in quanto l’approccio medico-legale, per essere corretto, deve tener
conto delle esigenze di prova.
La Medicina legale classica, sia per la propria formazione organicistica, che proviene dalla
esperienza sul cadavere, sia per la consuetudine di «parcellizzare» l’individuo nelle valutazioni
risarcitorie, considera la persona solo in relazione al «danno» che ha subito in
capo a questo o quell’organo, e non nel suo insieme.
Il dolore, di conseguenza, di regola entra a far parte della valutazione medico-legale
quando specificamente riguarda un singolo organo leso o una particolare funzione menomata,
oggetti di valutazione.
Nella fase acuta della malattia, la quantificazione del dolore non crea problemi in quanto,
essendo il dolore considerato come componente integrante della lesione, è già sottointeso
nella valutazione del pregiudizio.
Il dolore, infatti, nel comune convincimento, è una modalità sensoriale, di norma corollario
della lesione, che rappresenta solo una sorta di campanello di allarme che mette
in guardia l’individuo nei confronti di eventi nocivi: in altre parole, è solo un sintomo
della malattia.
Nella fase cronica di affezioni universalmente riconosciute come dolorose il medico legale,
nella sua valutazione, per lo più ignora il dolore, o, tutt’al più, lo considera come semplice
coefficiente maggiorativo della percentuale del danno obiettivabile per quella affezione.
◗ A volte, tuttavia, in casi che di regola evolvono senza residui postumi dolorosi, il dolore
persiste anche quando la malattia si è conclusa, come entità a sé stante: in questi
casi l’atteggiamento del medico legale è di perplessità e incredulità e al dolore di
prassi non viene riconosciuta dignità di danno risarcibile o indennizzabile.
In realtà, questo dolore cronicizzato o ricorrente, che si prolunga oltre i tre mesi dall’evento
lesivo o dall’inizio della malattia che lo ha inizialmente causato, ormai del tutto
autonomo dal danno tessutale e verosimilmente sostenuto da un’alterazione dei sistemi
di neurotrasmissione del dolore, configura una malattia a sé stante, un «dolore
malattia», cioè il dolore cronico o ricorrente. Si tratta di una entità nosologica autonoma,
già da oltre vent’anni inquadrata dall’IASP (International Association for the Study
of Pain) e ormai accreditata dai moderni orientamenti, e che investe l’intera persona
e si accompagna a cambiamenti di personalità, stile di vita, calo delle performance.
Anzi, attualmente il dolore cronico rappresenta uno dei più importanti problemi
sanitari nel mondo occidentale, sia per le implicazioni sanitarie che per i risvolti economico-sociali
(in Italia, 11 milioni di persone soffrono di dolore cronico).
Tuttavia, in campo medico-legale, risultano problematici il riconoscimento e la quantificazione
della «malattia dolore».

◗ Il medico legale si sforza di indagare tutti i sintomi denunciati nel tentativo di individuare
dati obiettivi che possano rendere attendibile quanto lamentato dal paziente e
attribuibile ad una precisa lesione organica. Può utilizzare tutti gli strumenti di valutazione
fisica e psicologica messi a disposizione dai centri per la cura del dolore, ma
difficilmente soddisfa la propria esigenza di prova, considerata la sostanziale indeterminatezza
dei risultati.
Per l’accertamento del dolore può utilizzare i test individuati dalla clinica: radiografie,
TC, RMN, scintigrafia, termografia, EMG, blocchi anestetici locali. Queste indagini,
più che altro, tentano di identificare la presenza di patologia fisica che corrisponda al
dolore riferito, che, tuttavia, nel caso di dolore cronico, spesso è assente.
Al fine di misurare il dolore può usare (...trascurando i metodi in uso un tempo nell’algesiometria,
atti a riprodurre artificialmente il dolore attraverso stimolazioni nocicettive
graduabili, definiti dal Moricca, uno dei pionieri dell’algologia italiana, «mezzi
di tortura»!) le scale analogiche visive, le scale a categorie verbali, le scale di valutazione
numerica e le scale multidimensionali con questionari (di questi ultimi il più
frequentemente usato è il McGill Pain Questionnaire, MPQ, composto da tre parti
che comprendono: una scala descrittiva dell’intensità del dolore – lieve, fastidioso, angosciante,
intollerabile, atroce –; il disegno della figura umana, ventrale e dorsale, su
cui il paziente deve segnare la localizzazione del dolore; una selezione di aggettivi che
rispecchiano le componenti sensitiva, affettiva e cognitiva del dolore).
Per valutare la capacità di impegnarsi in attività funzionali vi sono, poi, test che indagano
un vasto spettro di attività fisiche e la gravità del dolore durante queste attività,
– come salire le scale, sollevare pesi, eseguire attività della vita quotidiana… – (Roland-Morris
Disability Scale, Functional Status Index, Sickness Impact Profile…).
Si tratta, tuttavia, in entrambi i casi, di strumenti basati sull’autovalutazione dei
pazienti e con esclusive finalità diagnostiche e terapeutiche: le valutazioni quantitative
del dolore e gli indici di disabilità così ottenuti, di certo, non possono essere tradotte
in percentuali di invalidità.
◗ La medicina legale, sempre pronta a redigere tabelle e linee guida valutative nei vari
ambiti, a lungo ha ignorato invece il problema valutativo del dolore.
D’altra parte, in molti paesi, tra i quali il nostro, anche il danno alla sfera psichica, per
molto tempo non ha assunto dignità autonoma nelle valutazioni medico-legali, ritenuto
a volte far parte del danno morale, altre volte considerato come pretestazione, simulazione
o esagerazione. E in ambito civilistico, se oggi il danno biologico di natura
psichica viene valutato dal medico, grazie anche ai criteri diagnostici specifici inclusi nel
DSM IV, che ne hanno permesso una sistematizzazione, invece il dolore, non medicalmente
apprezzabile e quantificabile, tutt’oggi, viene più facilmente inserito nel novero del
danno morale, e la sua monetizzazione, il cosiddetto «pretium doloris», delegata alla discrezionalità
del giudice.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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D’altra parte – come si è già rilevato –, la presenza del dolore nel paziente, non essendo
apprezzabile dai sensi, può essere solo creduta. Ma il medico legale è sospettoso in
quanto conscio che il paziente può modulare la rappresentazione del dolore o la sua descrizione
anamnestica, ad arte, derivandogli dal positivo apprezzamento un «beneficio»
risarcitorio. Né, quand’anche sia convinto dell’effettiva presenza del dolore, ritiene di
poter fare affidamento su conoscenze o procedure adeguate ad una sua valutazione.
◗ In realtà, è nozione comune che l’esistenza di per sé del dolore possa anche essere accettata,
qualora la sofferenza teoricamente sia compatibile con il quadro patologico:
l’esperienza clinica insegna che molte malattie possono essere dolorose.
Ma la stessa causa eziopatogenetica può produrre sensazioni dolorose diverse in senso
quali-quantitativo in soggetti differenti. Infatti l’estrinsecazione delle sensazioni varia
da soggetto a soggetto in funzione della soglia individuale di tolleranza, della sensibilità
soggettiva, del background sociale e della storia personale. Persino la religione ha
un ruolo nel modulare la risposta della persona al dolore.
Inoltre lo stesso stimolo algogeno può generare anche nello stesso individuo in momenti
differenti una diversa esperienza dolorosa.
◗ Possiamo così enunciare una prima conclusione: mentre è facile accettare come genuina
l’esistenza di dolore (l’an), diversamente è più difficilmente stimabile l’entità
della sofferenza (il quantum), soprattutto quando dalla sua quantificazione deriva al
paziente un beneficio economico: essendo un sintomo soggettivo, può essere volutamente
amplificato, occultando la simulazione.
▼ 2. I recenti tentativi di creare delle linee guida
per la valutazione medico-legale del dolore
Difficoltà non significa, tuttavia, rinunciare ad una valutazione: se in Italia il problema
della valutazione medico-legale del dolore non è ancora stato pragmatizzato, in altri
paesi tentativi di inquadramento tabellare sono già disponibili.
Nella Guida alla valutazione dell’invalidità permanente dell’American Medical Association,
nella IV edizione del 1993, sono state incluse le linee guida per la valutazione
e la stima del danno permanente dovuto al dolore. La Guida dell’AMA affermava che
«il dolore cronico ed il comportamento da dolore correlato non sono, per sé, danni, ma
dovrebbero dare il via a valutazioni riguardanti la capacità di funzionare ed eseguire le attività
quotidiane». Tale dichiarazione suggeriva che il dolore potrebbe essere una causa di
disabilità, sebbene non sia di per sé un danno.
Tuttavia, criteri specifici per la valutazione del danno dovuto a dolore cronico, in assenza
di una anormalità organica, vennero suggeriti solo nella V edizione della Guida, nell’anno
2000. Nelle premesse del capitolo 18 è sottolineato che «non esiste alcun termometro
del dolore, cioè alcun parametro biologico strettamente correlato alla sintomatologia do-

lorosa riferita da un individuo» ed è proposto un metodo di determinazione del danno
correlato al dolore attraverso valutazioni della gravità del dolore, della limitazione dell’attività
e dell’effetto del dolore sul tono dell’umore (ricavati da dati anamnestico-clinici e
con punteggi da 0 a 10), combinati con l’osservazione dei comportamenti legati al dolore
e una valutazione globale della credibilità della persona. Dal calcolo del punteggio totale
ricavato dagli elementi sopra descritti si perviene a determinare la gravità del dolore
(in cinque classi di gravità), a cui corrispondono cinque categorie di invalidità.
◗ È evidente che il metodo di valutazione del danno correlato al dolore non ha
quella base oggettiva che caratterizza le altre stime americane del danno: soggettivi
sono gli elementi anamnestici sui quali si basano i primi parametri, soggettive sono
le valutazioni dell’esaminatore relative agli ultimi parametri. In ultimo, la Guida segnala
la non attendibilità della valutazione nei casi in cui gli individui indagati siano
poco credibili.
Anche la Società di Medicina Legale e di Criminologia di Francia ha elaborato una
scala delle souffrances endurées, in sette livelli di gravità, impiegando, quali parametri di
valutazione, la diagnosi di lesione, il tipo di trattamento e il periodo di astensione lavorativa.
Le tabelle francesi, pertanto, misurano più il disagio che il dolore.
In Italia, solo di recente, è stata proposta da Ronchi e Cucci (in Il dolore nella valutazione
del medico legale, a cura di Valdini, Giuffrè Editore, 2007, pp. 117-130) una griglia di
quantificazione del grado di sofferenza.
La griglia prevede cinque parametri (durata dell’iter clinico, tipo di terapia farmacologica
impiegata per lenire il dolore, tipo di presidio ortopedico-chirurgico posizionato per
curare la lesione, tipo di intervento chirurgico, grado di rinuncia alle attività quotidiane)
e per ciascun parametro cinque differenti steps per crescente gravità. Sommando i singoli
valori si ottiene uno score totale che, moltiplicato per cento, fornisce un valore in centesimi
del quantum di sofferenza. In realtà, il Ronchi, con la griglia valutativa proposta,
ha voluto indicare una via di valutazione di quella quota del danno morale che può essere
ricondotta alla percezione sensoriale dolorosa del sistema nervoso, e pertanto intimamente
connessa alla lesione, al fine di sganciarla dall’iniqua liquidazione del danno
morale attraverso un automatismo, come è di prassi nella giurisprudenza.
◗ In ultimo, nelle Tabelle del decreto legislativo 38/2000 in uso all’INAIL, il «dolore»
viene incluso, al solo fine di graduare la percentuale prevista per specifiche voci, nella
valutazione del danno biologico di poche accezioni, per lo più di natura osteoarticolare
(la s. dello stretto toracico, le lesioni della caviglia, la patologia vertebrale, la pancreatite
cronica), e la soggettività viene citata solo nella sindrome soggettiva del traumatizzato
cranico, che viene valutata «fino a 4».
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Soggettività e dolore
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◗ Possiamo così affermare che in termini generali, le difficoltà di valutazione medico-legale
del dolore non hanno impedito la prospettazione di criteri o procedure per stimare
il grado di sofferenza. Tecniche che, come vedremo possono valere, a maggior
ragione, in ambito INPS.
▼ 3. La rilevanza e la valutazione del dolore in ambito INPS:
aspetti teorici
È noto che per la valutazione delle prestazioni previdenziali INPS il legislatore ha fissato
due livelli di rischio assicurativo, per i quali ha scelto una soglia volutamente non
percentualistica (per invalidità ed inabilità INPS vige la regola del tutto o niente), in
quanto un sistema tabellare sarebbe risultato troppo vincolante e avrebbe impedito la
personalizzazione del giudizio.
In ambito previdenziale, poi, il rischio assicurato non è il danno biologico, ma il danno
alla capacità lavorativa (riferito alle occupazioni confacenti o a qualsiasi attività lavorativa)
e pertanto il danno-conseguenza di natura patrimoniale. Ciò fa sì che all’esigenza
di uniformità valutativa, tradotta dai barème, si contrapponga la flessibilità valutativa che
deriva dalla personalizzazione del giudizio INPS.
Inoltre, nel procedimento valutativo INPS non è rilevante la causa della malattia né
l’eziopatogenesi dell’infermità che è causa della menomazione, e in particolare non va verificato
il nesso di causa tra evento lesivo e infermità.
In ultimo, il medico valutatore INPS, diversamente dai colleghi che devono quantificare
un danno biologico in ambito di responsabilità civile o infortunistica sociale, valuta
la persona nella sua globalità, accertando contestualmente e reciprocamente integrando,
il complesso patologico clinico-disfunzionale, i fattori soggettivi intrinseci al lavoratore
e le sue attitudini lavorative.
Proprio per il fatto che la valutazione medico-legale INPS non sia vincolata a rigidi valori
tabellari, che prescinda dalla verifica del nesso di causa, che non sia relativa soltanto
ad uno specifico organo leso ma riguardi l’individuo nella sua complessità e che il globale
stato di infermità vada integrato con le individuali potenzialità lavorative, l’approccio
alla soggettività in ambito INPS è più semplice.
Più agevole deve anche risultare, a mio giudizio, la individuazione e valutazione del dolore
cronico e la determinazione della presenza o meno di invalidità/inabilità riconducibili
al dolore in sé (e non solo o non tanto a patologie somatiche).
Procedo in tale prospettiva ad esaminare le modalità secondo cui il medico INPS, nell’esercitare
la sua discrezionalità tecnica, può, a mio avviso, tenuto conto della casistica
più ricorrente, prendere in adeguata considerazione il dolore come specifica causa incidente
sulla capacità lavorativa.

▼ 4. Approccio al dolore cronico in ambito INPS
Negli ambulatori INPS, dal colloquio col paziente, emerge molto frequentemente il racconto
di esperienze dolorose.
Di consueto l’approccio medico consiste nel ricercare riscontri fisici obiettivi e dati strumentali
che comprovino la presenza di una patologia somatica.
La conoscenza della storia clinica è una parte importante dell’esame di un paziente affetto
da una patologia dolorosa persistente e può aiutare ad individuare il tipo di patologia
dolorosa e suggerire alcune implicazioni che contribuiscono ai meccanismi di risposta del
paziente al dolore e alla terapia.
È necessario raccogliere i dati relativi alla storia personale: livello culturale (maggiore è il
grado di cultura, più probabile è il beneficio derivante dalla terapia); attuale lavoro (statisticamente
i lavoratori a tempo pieno traggono maggiori benefici dalla terapia rispetto
a coloro i quali sono a riposo per malattia o disoccupati); ambiente familiare (per possibilità
di un condizionamento verso la cronicizzazione).
Bisogna poi determinare le caratteristiche del dolore: intensità, qualità, irradiazione, momento
della comparsa (indicativi sia per la diagnosi che per la terapia), la localizzazione
(aiuta a stabilire se patologia centrale o periferica), la durata (se i sintomi dolorosi durano
da più di due anni è improbabile che rispondano ai trattamenti), la causa di comparsa
del dolore (se si è manifestato in seguito a infortunio lavorativo o intervento chirurgico
o incidente stradale la risposta alla terapia sarà inferiore), la risposta del dolore alle attività
(quali attività lo alleviano e quali lo aggravano: può facilitare l’individuazione delle
cause e della terapia più adatta), la presenza di sintomi associati (torpore, parestesie,
debolezza, alterazioni della temperatura, aumento della sudorazione, cianosi, edema, dolorabilità,
iperestesia o iperalgesia, affaticabilità, compromissione della concentrazione,
turbe del sonno, ansia, depressione (i pazienti affetti da dolore raramente hanno una lamentela
predominante: di solito sono presenti diversi sintomi associati).
È importante conoscere i trattamenti medici e chirurgici attuati per il controllo della sintomatologia
dolorosa e la loro efficacia e l’eventuale uso o abuso di alcool e fumo (l’alcool
può essere assunto per alleviare il dolore e ogni abuso ostacola il successo della terapia;
alcune patologie vasospastiche possono essere aggravate dal tabacco).
Utile poi raccogliere notizie sulle attività sociali, ricreative e sessuali del paziente (il dolore
ha effetto pluridimensionale sul paziente che si riflette in cambiamenti delle sue attività),
sulle limitazioni funzionali (necessità di sdraiarsi per lunghi periodi di tempo) e
sui comportamenti messi in atto per ridurre il dolore (assumere farmaci, utilizzare il sistema
di assistenza sanitaria).
Inoltre, occorre fare attenzione al comportamento emotivo dell’esaminando durante il
colloquio anamnestico, in particolare il trasporto con il quale viene descritta la storia clinica,
e come il paziente collabora.
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Soggettività e dolore
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Quindi si procede all’esame fisico nelle diverse posizioni (seduto, in posizione clinostatica,
ortostatica e infine osservando la deambulazione) in modo da pervenire, integrando
i dati anamnestici ed obiettivi, a stabilire la possibile fisiopatologia.
Vanno evidenziati comportamenti dolorosi esagerati (spesso la minima palpazione provoca
un allontanamento della parte palpata con marcate torsioni del corpo, per effettivo timore
che il dolore venga avvertito maggiormente o per volontaria accentuazione, messa in atto
allo scopo di convincere l’esaminatore che il dolore è reale) e la mancata collaborazione.
Per ultimo si procede all’esame psichico, alla ricerca di turbe della personalità, dell’umore,
deficit cognitivi e disturbi psichiatrici, sia per la differenziazione tra dolore psicogeno
e dolore reale, sia per la ricerca di quei fattori psicoaffettivi che possono aumentare
l’instabilità emotiva e contribuire al dolore.
Circa il 50% delle persone con sindromi da dolore cronico soffre di depressione. La causa
è da rapportare ad un senso di perdita: la perdita della mobilità fisica, la perdita dei
ruoli occupazionale e sociale, la perdita dei contatti sociali e della frequenza di attività
piacevoli e la perdita dell’autostima. Sempre presenti sono l’ansia, dovuta alla percezione
di un danno fisico progressivo, la collera verso la causa percepita del problema doloroso
e la frustrazione per l’incapacità di impegnarsi in attività che vengono considerate importanti
(lavoro, sport).
Importante inoltre è il riscontro di quelle manifestazioni comportamentali tipiche tramite
le quali i pazienti comunicano agli altri la propria sofferenza. I pain behaviors comprendono
espressioni verbali, espressioni paralinguistiche (sospiri, lamenti) espressioni facciali
(smorfie, sussulti) posture e gesti (zoppicare, massaggiare una parte del corpo dolente).
Questi atteggiamenti possono essere perpetuati dai rinforzi contingenti piuttosto che dal
dolore (per esempio se lo zoppicare attira l’attenzione dei familiari si può stabilire un rinforzo
positivo e il dolore può non essere più necessario a mantenere la zoppia).
◗ Come abbiamo già ripetutamente sottolineato, non esistono indagini che possano
inequivocabilmente dimostrare e oggettivare il dolore, ma solo possibili indizi, validi
per un numero ridotto di casi.
Di solito si effettuano accertamenti su fenomeni che in qualche modo sono correlati
al dolore e la cui presenza potrebbe identificare la causa o la sede di origine o il meccanismo
responsabile del dolore.
I test diagnostici comunemente usati nella diagnosi del dolore sono studi di imaging,
l’elettromiografia e l’elettrofisiologia, e i blocchi diagnostici.
Le immagini ottenute con Rx, Tc, RMN, ecografia, mielografia, termografia scintigrafia
ossea, SPECT non danno informazioni utili alla diagnosi della causa del dolore,
ma, tutt’al più, permettono di rilevare patologie di organi o segmenti corporei
che potrebbero risultare dolorose, ma che spesso sono presenti anche in soggetti del
tutto asintomatici.

Gli studi di conduzione nervosa vengono utilizzati per identificare la presenza e la natura
della neuropatia, alla quale correlare il dolore, mentre mancano di specificità nel dolore
radicolare.
I blocchi diagnostici vengono utilizzati per stabilire la sede di origine del dolore neuropatico
e viscerale.
Tuttavia, per l’individuazione delle cause di dolore, solitamente, piuttosto che gli esami
strumentali, risulta utile un accurato esame clinico.
Non sempre, con tutto ciò, i rilievi obiettivi e strumentali supportano l’esistenza di una
patologia organica.
▼ 5. Rilevanza della malattia con dolore
e del dolore-malattia ai fini valutativi INPS
Una causa somatica definita del dolore può essere individuata solo nel 10-20% dei
casi, nei casi restanti il dolore è «aspecifico», e, al riguardo, è frequente attribuire al sintomo
«dolore» un’origine emotiva, psicogena. A volte la causa è misconosciuta perché si
tratta di patologie che non sono conosciute come dolorose.
◗ In quella quota di casi in cui la genesi organica del dolore è dimostrabile, gli apparati
coinvolti sono i più disparati: il sistema nervoso, l’apparato osteoarticolare, i visceri,
la psiche.
Al primo posto tra le cause del dolore cronico ci sono le neoplasie, la seconda causa è
rappresentata dalle patologie degenerative in generale, seguono le lesioni conseguenti
alla chirurgia, e al quarto posto i postumi di traumi.
◗ La malattia tumorale è, come ho detto, la più frequente causa di dolore cronico. Gli
studiosi ritengono che circa la metà dei pazienti affetti da neoplasia maligna sia afflitta
da sintomatologia dolorosa e un terzo da dolore implacabile.
Il dolore oncologico è un’ulteriore sofferenza che si somma alla componente affettiva,
reattiva alla consapevolezza di essere affetto da patologia grave.
Il dolore nel soggetto affetto da tumore riconosce vari meccanismi patogenetici: può
derivare dal diretto interessamento da parte del tumore dei tessuti molli, dell’osso, delle
strutture nervose (60-80% dei casi) o dal danno causato dalla terapia antiblastica,
chirurgica, chemioterapica e radioterapica (20-25% dei pazienti), o, non correlato al
tumore, può coesistere, determinato da patologia pregressa (3-10% di frequenza).
Il dolore provocato direttamente dalla massa neoformata può derivare dalla compressione
o invasione di radici, tronchi o plessi nervosi (i carcinomi del lobo superiore del
polmone possono provocare una grave plessopatia brachiale, i tumori della pelvi possono
infiltrare il plesso femorale, localmente possono interessare piccole diramazioni
nervose originando neuropatie periferiche); o dall’infiltrazione dei vasi sanguigni, con
conseguente congestione venosa o ischemia locale; o dall’ostruzione, con conseguen-
35
Relazioni

Soggettività e dolore
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te distensione, di un viscere cavo; o dall’infiammazione, edema, o necrosi dei tessuti
invasi; o dall’aumento della pressione intracranica.
Il dolore somatico, causato da metastasi ossee o dall’attivazione dei nocicettori posizionati
nei tessuti profondi o cutanei, è costante, ben localizzato, tormentoso e a volte
lancinante.
Se sono coinvolti i tessuti viscerali, come nel tumore del pancreas e del fegato, il dolore
è profondo, oppressivo e scarsamente localizzato.
Quando origina dalle strutture nervose assume le caratteristiche urenti e poco localizzate
del tipico dolore neuropatico da deafferentazione.
I pazienti affetti da tumore di frequente presentano dolore fin dalla comparsa della
malattia, altre volte solo con la progressione di essa.
I progressi scientifici degli ultimi decenni hanno permesso di ottenere notevoli miglioramenti
della sopravvivenza dei pazienti oncologici, con la diretta conseguenza che
maggiore importanza hanno assunto quei fattori che condizionano la qualità di vita:
tra questi il trattamento del dolore oncologico.
Attualmente i malati che hanno subito un trattamento terapeutico per tumore, in
molti casi, possono tornare al lavoro e condurre una vita attiva, purché sia sotto controllo
il sintomo dolore. Gli specialisti hanno fornito al malato validi presidi terapeutici
antidolorifici: farmaci analgesici somministrati per via orale o parenterale, narcotici
per infusione intratecale e intraspinale, neurolitici, trattamenti di radioterapia,
chemioterapia e terapia ormonale palliative.
In alcuni casi, tuttavia, la stessa terapia è foriera di sintomatologia dolorosa, che, però,
di solito, regredisce al cessare della somministrazione.
I pazienti neoplastici che vengono visitati presso gli ambulatori dell’INPS, avendo presentato
domanda di invalidità o inabilità, vengono di prassi valutati in funzione della
patologia di base. Obbiettivamente, la stima della gravità della malattia assume rilievo
prioritario, rispetto alla riferita, e plausibile, sintomatologia dolorosa connessa.
Questo non vuol dire che venga sistematicamente ignorata. Nel caso in cui la neoplasia
non abbia, già di per sé, una prognosi sfavorevole (le neoplasie e l’AIDS sono le
uniche patologie per le quali il medico INPS effettua una valutazione prognostica e
non esclusivamente funzionale), come sempre, il medico INPS effettua una valutazione
globale della persona. Il dolore oncologico, i disturbi dell’affettività, le complicanze
somatiche e funzionali del tumore e della sua terapia, vengono sempre individualmente
valutati. Non assume rilievo, invece, di consueto, il fatto che sia in corso la terapia
antiblastica. In sé, il sottoporsi a cicli di terapie, anche se queste causano un importante
stato di malessere, non comporta una «infermità» né determina una permanente
incapacità lavorativa. Tutt’al più si tratta di uno stato di «inabilità temporanea»,
e, in tal caso, il malato può usufruire, tra le prestazioni previdenziali, della indennità
economica di malattia.

◗ Quando il paziente che richiede una prestazione previdenziale non lamenta dolore di
origine oncologica, di norma, il primo dato che si prende in considerazione durante
la visita medica è la sede del dolore, in quanto considerando la localizzazione è possibile
indirizzare l’indagine diagnostica.
Un dolore toracico cronico per lo più è in rapporto con patologie cardiache di natura
ischemica, di cui rappresenta il sintomo maggiormente eclatante, o conseguente a interventi
cardiochirurgici, o causato da reflusso gastroesofageo, o di origine muscoloscheletrica
(frattura patologica o chirurgica sternale, dolore al manubrio sternale nel contesto di
una artrite psoriasica, condrodinia costo-sternale dopo chirurgia toracica, nevralgia intercostale
o post-erpetica, dolore miofasciale). In questi casi la valutazione medico-legale del
dolore è sottintesa nella stima della patologia di base della quale è sintomo principale.
Un dolore cronico localizzato all’addome può essere causato da infiammazioni locali,
da malattie sistemiche, da formazioni tumorali dei visceri addominali, o avere origine in
strutture vascolari o muscolo-scheletrico-articolari, o essere di natura neuropatica, psicologica
o funzionale.
I dolori viscerali sono mal localizzati e si accompagnano a risposte autonomiche ed emotive,
frequentemente il dolore è il sintomo preminente, spesso associato a disturbi del
transito intestinale e dell’alvo. Gli esami di laboratorio e i test di imaging sono generalmente
chiarificanti la causa eziopatogenetica, ad eccezione delle forme funzionali, che
vengono diagnosticate per esclusione.
In campo previdenziale la valutazione si riferirà alla patologia di base, ma la presenza e
l’entità del dolore cronico addominale, evidenziato all’anamnesi, potrà essere determinante
per la valutazione dell’invalidità, soprattutto in alcune patologie: per esempio nella
colite ulcerosa e nel Morbo di Crohn
Un dolore cronico della regione pelvica viene lamentato dal 12-15% delle donne. Di
solito la sua intensità è maggiore rispetto a quella che la patologia potrebbe comportare,
per l’influenza di fattori psicologici.
La sovrapposizione dell’innervazione tra i sistemi riproduttivo, genitourinario e gastrointestinale
e la comune innervazione della parete addominale inferiore e regione lombare
con gli organi pelvici fanno sì che il dolore sia proiettato alla parete addominale e sia difficilmente
individuabile la sua origine.
È frequentemente indotto da aderenze post-chirurgiche, endometriosi, dolore miofasciale
e affezioni ginecologiche. Non di rado, tuttavia, non ne è evidenziabile l’eziologia.
Queste pazienti frequentemente presentano disturbi di personalità e dell’umore e somatizzazioni
e tra loro sono comuni storie di abusi sessuali e di problemi relazionali. Di frequente
il trattamento è inefficace con le modalità terapeutiche tradizionali e non è raro
che le pazienti vengano anche sottoposte a ripetuti interventi chirurgici, per lo più con
limitato successo.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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La valutazione medico-legale è difficile, in quanto, essendo sconosciuta nella maggioranza
dei casi l’eziologia, la stima deve tener conto del solo dato soggettivo.
In uno studio americano è riportata una riduzione della produttività di queste pazienti
pari al 45% e un aumento del 15% dell’assenteismo nelle donne con dolore pelvico cronico
(Mathias et al., «Chronic Pelvic Pain: Prevalence, Health-Related Quality of Life,
and Economic Correlates», Obstet Gynecol., n. 87, 1996, pp. 321-327).
Indubbiamente, pur in assenza di una patologia organica dimostrata, il complesso doloroso
associato al disturbo distimico realizza una rilevante influenza dannosa sull’intera
persona e integra una condizione di ridotta capacità lavorativa, che, comunque, deve essere
opportunamente graduata in funzione del contesto lavorativo ove opera.
Il dolore localizzato al collo, alla schiena e agli arti è per lo più conseguente a malattie
sistemiche o traumatiche e pertanto la valutazione medico-legale conseguirà alla stima
della malattia di base e alla compromissione funzionale articolare.
La cervicoalgia e la cervicobrachialgia croniche sono disturbi frequenti (prevalenza annuale
del 14%, aumenta con l’età e nel sesso femminile) sostenuti principalmente da
traumi distorsivi della colonna cervicale, e in minore frequenza da patologie croniche come
l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante, le discopatie e l’artrosi e, nei casi più
gravi, da tumori, aneurismi dissecanti, ematomi spinali.
La lombalgia cronica consiste nel mal di schiena che dura da almeno 3 mesi in modo
continuo o ricorrente. La prevalenza annuale è del 16%. È conseguente a patologia discale,
con conseguente compressione radicolare, nel 40% dei casi, negli altri casi origina
dalle altre strutture dell’articolazione vertebrale o dall’articolazione sacroiliaca. Rappresenta
la causa più comune ed economicamente più gravosa di disabilità cronica nei giovani
adulti (impegna l’80% delle risorse sanitarie).
L’artralgia cronica riferita alle articolazioni di spalla, anca, ginocchio, e alle piccole articolazioni
è un sintomo di malattie reumatiche su base immunitaria, infettiva, infiammatorio-degenerativa
e di osteoartrosi e osteoporosi.
◗ Quando, ai fini di un giudizio di invalidità, si valutano patologie nosologicamente
ben inquadrabili, di solito si stima la compromissione funzionale e il conseguente
grado di invalidità attenendosi ai protocolli diagnostico-valutativi, se già disponibili,
o, secondo la propria esperienza, sulla scorta di un ragionamento medico-legale
che tenga conto di tutti i dati clinici riscontrati, integrati con quelli desumibili dagli
accertamenti. Per le patologie ben definite le conclusioni valutative fanno riferimento
a quei parametri tipici delle specifiche patologie.
◗ Se nel complesso sintomatologico, di norma, il dolore non ricopre importante significatività,
si incorre nel rischio di non considerare affatto la sua incidenza invalidante,
sottostimando il pregiudizio effettivo.

Per esempio, è opinione diffusa che nelle patologie neurologiche la prevalenza del dolore
cronico sia irrilevante. In realtà il dolore in tutto lo spettro dei disordini neurologici è
comune, e può presentarsi come neuropatico (derivante direttamente dagli effetti della
malattia sui neuroni somatosensitivi periferici o centrali – per esempio il dolore urente
degli arti nella siringomielia o la nevralgia posterpetica –), o nocicettivo (derivante dagli
effetti motori della malattia sul sistema locomotore, con attivazione del sistema nocicettivo
– per esempio lo spasmo muscolare doloroso degli arti inferiori nella sclerosi multipla,
la spalla congelata dopo l’ictus –).
Però, mentre in una malattia somatica il sintomo dolore indica il funzionamento normale
dell’apparato della somestesi, sollecitato da stimoli anormali, invece, il dolore neurologico
è la risposta anormale di un sistema nervoso alterato ad eccitamenti afferenti
d’ordine fisiologico.
Più precisamente, il dolore-malattia è la conseguenza dello squilibrio nelle interazioni tra
sistema lemniscale e sistema extralemniscale, in cui il primo (apparato conoscitivo e mezzo
d’esplorazione ed azione) esercita normalmente una funzione inibitoria sul secondo,
e il sistema extralemniscale (apparato d’allarme incaricato di proteggere l’organismo)
esplica normalmente un eccitamento sul primo.
Pertanto, nel caso di malattie neurologiche, il dolore rappresenta non solo un sintomo di
danno tessutale, più o meno cronicizzato, ma può essere lui stesso parte della patologia.
Nella sclerosi multipla, per esempio, è descritto un dolore urente mielopatico agli arti inferiori
(da demielinizzazione), un dolore cronico di schiena di origine muscolo-scheletrica
nocicettivo (connesso alla spasticità muscolare, agli effetti meccanici dei muscoli spastici
sulle strutture adiacenti e all’immobilità), e un dolore parossistico (la nevralgia del trigemino).
Tuttavia, nel caso in cui si debba valutare, ai fini dell’invalidità pensionabile, un
soggetto affetto da SM, è più facile che, riferendosi alle linee guida, si ponga attenzione
alla classificazione EDSS, al numero delle poussées incorse, alla difficoltà della marcia, ai
disturbi oculari, sfinterici, cerebellari, psichiatrici, ma c’è il rischio che il dolore, anche se
denunciato con enfasi, non venga preso in considerazione (1).
Così pure avviene nel caso del Parkinson, di solito descritto solo tramite la triade «bradicinesia
- rigidità - tremore». Eppure, a volte, addirittura, il dolore precede ogni effetto
motorio clinicamente evidente della malattia, e nei pazienti parkinsoniani con risposta
on-off alla L-dopa, un dolore agli arti, di origine muscolo-tendinea (nocicettivo), può essere
associato con disordini sia iper che ipocinetici: di tipo crampiforme nella fase off e
da «stiramento muscolare» nella fase on. E inoltre, questi malati possono lamentare un
dolore urente orale e genitale, sia pure meno frequente, di tipo centrale, correlato alla terapia
con L-dopa.
Anche in questo caso il soggetto va considerato nella sua globalità ed è necessario un sereno
apprezzamento del dato soggettivo, del tutto plausibile, che deve essere tenuto in
conto oltre alle classiche menomazioni della patologia per la opportuna valutazione.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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Nei soggetti con lesioni da ictus cerebri può svilupparsi, anche se solo nel 2-8% dei casi,
un «dolore centrale», monolaterale ad un emisoma, costante o intermittente, urente,
associato ad allodinia al tocco lieve e al freddo, iperalgesia, iperpatia, iperestesia (2).
Di consueto, la valutazione di casi di lesione ischemica del SNC privilegia la stima del
difetto motorio. Quando la compromissione funzionale non è sufficiente per raggiungere
la soglia invalidante o nel caso in cui l’emiparesi sia regredita è opportuno dare il necessario
rilievo all’incidenza del dolore centrale sulla validità del soggetto.
Certamente è più facile valutare, da un punto di vista medico-legale, quelle patologie
neurologiche dove il sintomo «dolore» è frequente, e, anzi, molte volte, prevalente.
È il caso della S. di Guillain-Barré, o delle neuropatie periferiche (metaboliche, tossiche,
carenziali, autoimmuni, virali, da compressione e da intrappolamento), nelle quali
il dolore è costante, sia pure nelle sue diverse modalità di espressione: spontaneo (indipendente
dallo stimolo) o indotto (da iperalgesia quando la risposta ad uno stimolo normalmente
doloroso è esagerata, o da allodinia quando la sensazione dolorosa è indotta
da uno stimolo che normalmente non provoca dolore) (3).
◗ Accade di dover valutare soggetti con storie di importante patologia dolorosa cronica,
localizzata ad una area del corpo, senza evidenza di altra apparente patologia.
In questi casi idiopatici in cui la componente dolorosa assume una connotazione autonoma
e rilevante, sganciata da substrati organici dimostrabili, la nostra attenzione,
di medici legali, deve essere rivolta alla valorizzazione di quei dati che possano dare
consistenza e credibilità all’anamnesi. Di solito si evidenziano storie cliniche che si
protraggono da svariati anni, caratterizzate da molteplici accessi presso diverse strutture
sanitarie e vari specialisti medici, e terapie di ogni tipo che, nonostante la loro adeguatezza,
risultano, comunque, sempre inefficaci. Questi pazienti esibiscono copiosa
documentazione medica, comprensiva di accertamenti strumentali anche dolorosi.
Frequentemente hanno già subito interventi chirurgici senza ricavarne beneficio.
In questi casi è corretto procedere ad una valutazione autonoma del dolore nella sue ripercussioni
sulla capacità lavorativa ai fini del riconoscimento dello stato di invalidità.
Ricordiamo che, come ha affermato uno studioso di terapia del dolore, «la valutazione
del dolore è la valutazione del paziente che riferisce dolore e non della mera patologia organica
causa del dolore» (Dennis C. Turk, Akiko OKifuji, Trattamento clinico del dolore
- Dolore cronico, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2000, 5, p. 74).
Nei casi in cui le doglianze, pur manifestate enfaticamente, risultano invece non supportate
dal substrato organico, non documentate, non compatibili con l’obiettività, in contraddizione
con i pain behaviors, e il soggetto nell’esposizione anamnestica si dimostri
non affidabile, si deve sospettare la simulazione o l’esagerazione.
◗ Come ho detto in precedenza, ben nell’80% dei casi di affezioni cronicamente dolorose
non è individuabile una causa organica.

Fa parte delle sindromi dolorose essenziali la nevralgia del trigemino idiopatica, quando
non sia evidenziabile una lesione del nervo lungo il suo decorso per processi patologici
ben definiti. La nevralgia del trigemino è una condizione molto dolorosa, difficilmente
trattabile, e, in alcuni casi, nonostante i tentativi farmacologici e chirurgici, si assiste
ad una inesorabile progressione. Durante i periodi dolorosi gli accessi possono essere
pluriquotidiani e di tale gravità da indurre pensieri autolesivi. L’esame obiettivo è sempre
normale, come pure gli esami strumentali. La sottostima di questa patologia, non dimostrabile
strumentalmente, è la norma (4).
Quando il dolore è associato ad allodinia e iperalgesia, alterazioni vasomotorie, sudomotorie
e trofiche, e all’anamnesi è possibile individuare pregressi eventi traumatici, è lecito
pensare a quelle sindromi che sono note come «sindromi dolorose regionali complesse»
(CRPS) I e II (5).
Nell’ambito della «sindrome dolorosa regionale complessa di tipo I» rientrano i casi di
nevralgia iatrogena. Si tratta di «dolore cronico post-chirurgico» che insorge dopo una
procedura chirurgica tecnicamente riuscita (6).
In questi casi di dolore cronico descritto come formicolio urente, puntura di spilli, crampi,
bruciore, che insorge, spontaneamente o evocato da stimoli cutanei non dolorosi o
dal semplice movimento, nella regione interessata da una pregressa procedura chirurgica,
il nostro approccio deve consistere, anzitutto, nel cercare di evidenziare oggettivamente
la lesione nervosa. Quando all’interno del territorio d’innervazione dei nervi situati
lungo il percorso chirurgico è dimostrabile una paralisi muscolare e una perdita sensitiva,
sia clinicamente che strumentalmente tramite eletromiografia, studi di conduzione
nervosa e test sensitivo quantitativo (confrontato con il nervo controlaterale), la diagnosi
è incontestabile.
Tuttavia, più frequentemente il danno nervoso è conseguenza della lesione di piccole fibre
sensitive e pertanto non sono rilevabili disturbi motori e l’esame neurologico convenzionale
e gli studi neurofisiologici non sono in grado di evidenziare alcunché; e ancora più
difficile è l’accertamento della nevralgia jatrogena quando sono coinvolti nervi profondi
che innervano visceri, ossa e segmenti articolari, in quanto, a fronte di significativo dolore,
non sussiste debolezza muscolare o perdita sensitiva, e di conseguenza l’esame neurologico
convenzionale e i test non riescono a supportare la diagnosi.
Questi pazienti sono, inoltre, difficilmente trattabili, e possono presentare una importante
risposta psicologica alla loro situazione.
In alcuni casi, le manifestazioni dolorose, pur localizzate, accompagnate da importanti
problemi psicologici, esercitano una rilevante influenza dannosa sull’intera persona, e, nonostante
la mancanza di criteri diagnostici universalmente accettati, possono giungere a
creare i presupposti per il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale.
Invero, è frequente raccogliere la lagnanza dei pazienti che riferiscono sequele dolorose di
interventi chirurgici, e, in sincerità, è altrettanto consueta l’incomprensione da parte del
41
Relazioni

Soggettività e dolore
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medico che più facilmente etichetta il paziente come nevrotico o il dolore come psicogeno.
Inoltre spesso questi pazienti esprimono sentimenti di rabbia e di rivalsa, estesi nei
confronti di tutta la categoria medica, che considerano responsabile della loro sofferenza,
e assumono atteggiamenti che suscitano insofferenza nell’esaminatore.
In effetti, quante volte ho ascoltato, distratta, pazienti che accusavano dolore persistente
in sede di toracotomia, o di sternotomia, o al cavo ascellare dopo linfoadenectomia, o al
ginocchio operato! Raramente, se non in occasione di dolore all’arto fantasma, ho dato
credito alle lamentele del paziente.
A tutti noi medici è capitato di ascoltare soggetti operati di by-pass aorto-coronarico che
lamentavano persistenza di dolore toracico in regione precordiale, pur avendo test ergometrici
che documentavano l’elevata tolleranza allo sforzo e coronarografie che confermavano
l’ottimale rivascolarizzazione miocardica. In tali circostanze l’attenzione si concentra
solitamente sulla negatività strumentale per segni di ischemia residua, trascurando
quella quota di dolore riferita, non documentabile strumentalmente, non anginosa,
ma, in realtà del tutto plausibile e statisticamente accertata in oltre il 70% dei pazienti
sottoposti ad intervento cardiochirurgico, come conseguenza del prelievo dell’arteria
mammaria sinistra con sezione dei nervi intercostali.
(È opportuno, tuttavia, tener conto che in alcuni casi la sensazione dolorosa che residua
ad un intervento chirurgico non riconosce una causa neurologica ma è conseguente all’intrappolamento
di tessuto all’interno della cicatrice chirurgica per cui si vengono a determinare
stenosi e aderenze – è il caso del dolore addominale successivo a chirurgia intestinale
o del linfedema doloroso al braccio dopo mastectomia – e in questo caso il dolore
può essere risolto mediante correzione chirurgica.)
Altre sindromi dolorose croniche, in assenza di dimostrato substrato organico, sono
quelle che interessano le parti molli e possono essere localizzate ad una regione (il capo,
il collo, la schiena…) o diffuse ai muscoli di tutto il corpo. La diagnosi spesso sfugge perché
i sintomi sono comuni a diverse malattie. Quando un dolore continuo in un’area
muscolo-scheletrica, che appare rigida, viene esacerbato in seguito alla pressione su un ristretto
punto specifico, e non si riscontrano deficit neurologici, né modificazioni ematochimiche,
né alterazioni strumentali, e sono associati sensazione soggettiva di debolezza
muscolare, dolore ai movimenti e lieve riduzione della loro ampiezza, sintomi psicologici
quali ansia, depressione e rabbia, comportamenti maladattativi come insonnia, anoressia,
apatia, è possibile orientare la diagnosi verso i disturbi primari della percezione del
dolore: il dolore miofasciale e la fibromialgia.
Il Dolore miofasciale (DMF) è la causa più frequente di dolore regionale persistente
(responsabile del 55% dei casi di dolore al capo e al collo e dell’85% del dolore alla
schiena; del 30% delle cause generali di dolore), mentre la fibromialgia (FM) è una tra
quelle più comuni di dolore diffuso a tutto il corpo (statistiche diverse riportano prevalenze
nella popolazione generale del 3,7-20%, e il 75% di pazienti con FM sono donne
di 30-60 anni).

Tuttavia spesso la diagnosi di DMF e di FM viene ritardata in quanto mancano reperti
obiettivi e strumentali patognomonici (gli studi di imaging e l’EMG non rilevano alcuna
alterazione a carico del muscolo o del tessuto connettivo, né alcuna alterazione o particolarità
istologica significativa può essere evidenziata sulle biopsie effettuate nelle sedi muscolari)
e spesso queste malattie sono associate ad altre patologie con analoghe caratteristiche
(artropatie, patologie discali, infezioni virali, AR, LES, sclerodermia) e presentano
problemi comportamentali e psicosociali, come tutte le condizioni dolorose croniche.
Nella storia clinica di questi malati, infatti, è consueto rilevare che abbiano consultato più
medici e si siano rivolti a diverse strutture sanitarie, e che abbiano ricevuto varie tipologie
di trattamenti farmacologici e fisioriabilitativi con scarso beneficio. Tuttavia, ormai, pazienti
di questo tipo vengono indirizzati sempre più frequentemente a reparti ospedalieri
di terapia del dolore, dove viene posta la diagnosi corretta e instaurata idonea terapia.
La prognosi nella FM è peggiore rispetto a quella del DMF: solo il 5% dei pazienti portatori
di FM ha remissioni durature dopo il trattamento.
Pertanto nella stima dell’invalidità di pazienti che lamentano dolore muscolare localizzato,
in assenza di significative limitazioni articolari e alterazioni agli esami di imaging e sieronegativi
per malattie immunitarie, che non abbiano una diagnosi formulata da struttura
specialistica, deve essere presa in considerazione la possibilità che siano affetti da
DMF, ed è opportuno indirizzarli alle strutture specialistiche competenti per un corretto
inquadramento clinico. Ma anche nel caso in cui già sia stata individuata la patologia,
si deve considerare che la maggior parte dei pazienti può continuare ad esercitare il proprio
ruolo professionale seguendo una idonea terapia.
Analogamente, nel caso di dolore muscolare diffuso, bisogna sempre prendere in considerazione
la possibilità che si tratti di FM. Ma, diversamente dal DMF, nel caso di FM
accertata, la validità del soggetto è frequentemente compromessa in quanto questa entità
patologica è più grave, la terapia non sempre ha successo e consiste comunque in complessi
trattamenti terapeutici a lungo termine e intensi programmi riabilitativi e psicoterapici
che polarizzano tutte le energie della persona. È già capitato, nella mia esperienza
professionale all’INPS, di dover valutare soggetti con FM accertata e certificata da Divisioni
ospedaliere di Medicina del dolore, e in quei casi, dopo sofferta e ragionata valutazione,
ho riconosciuto il diritto all’invalidità e in un caso anche all’inabilità.
Il rischio paventato da alcuni, di simulazione, è facilmente evitabile in quanto i simulatori
(come pure nel caso di reumoartropatia psicogena) riferiscono dolorabilità su quasi
ogni area esaminata con palpazione o digitopressione, e, spesso, manifestano una distribuzione
delle aree dolorabili che differisce sensibilmente da un’osservazione all’altra.
◗ In ultimo è necessario, quantomeno, ricordare il dolore psicogeno, forma di sofferenza
cronica elaborata, involontariamente, e senza alcun beneficio, dalla mente.
Nel termine «psicogeno» è insita una caratteristica di minor concretezza del dolore rispetto
a quello da causa fisica.
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Soggettività e dolore
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Quando c’è sproporzione tra il dolore riferito e il globale stato di salute riscontrato può
essere presa in considerazione la possibilità che la componente psicologica rivesta un ruolo
di primo piano nella genesi e nel mantenimento del sintomo dolore, cioè che alla base
del dolore ci sia un disturbo psico-patologico. In questi casi il soggetto per mascherare
la propria sofferenza psichica «somatizza», cioè riferisce la propria sofferenza psicologica
ad affezioni inesistenti o amplifica l’entità del dolore somatico.
Nel DSM-IV sono classificati, nell’ambito dei disturbi somatoformi, il disturbo di somatizzazione,
il disturbo somatoforme indifferenziato e il disturbo algido, entità che
possono sostenere la condizione dolorosa cronica purché vengano assolti i criteri indicati
nel manuale.
Il dolore somatoforme è descritto in modo teatrale e con estrema partecipazione nella rievocazione
della storia clinica. A differenza del dolore somatico, che di regola è costante nelle
sue manifestazioni, assume di volta in volta differenti caratteristiche: e, a volte, ricalca le
modalità di espressione di un’evenienza dolorosa pregressa o analoga a quella di familiari.
Né può essere tralasciato quel dolore che non è semplicemente un sintomo passivo della
malattia, ma una malattia aggressiva per se stessa: il vero e proprio dolore psichico che
si identifica con il disturbo depressivo, la cui diagnosi e stima è, però, di esclusiva competenza
psichiatrica.
▼ 6. Sintesi e prospettive
Il fatto che il dolore sia una patologia invalidante in sé, da isolare e valutare a prescindere
dalla patologia organica che può averlo occasionato od in cui si colloca, è ormai un
dato di comune consenso.
Altrettanto il fatto che sia meglio una stima, ancorché approssimativa, piuttosto che nessuna
stima, anche se ciò implica, almeno in casi limite, una rinuncia ai tradizionali criteri
di rigore e obiettività della medicina legale: prevarranno prove indirette o indiziarie,
presunzioni semplici (o hominis) – ossia elementi tendenzialmente incompatibili con
l’assenza di dolore –, rispetto a prove dirette.
Scopo del medico legale deve essere, tramite un affinamento delle tecniche, da un lato
ridurre o eliminare le ipotesi in cui il dolore, pur esistendo, non viene valutato in quanto
manca ogni relativa prova, diretta o indiretta; dall’altro, eliminare i casi in cui vengono
accolte come situazioni invalidanti mere simulazioni o accentuazioni.
Finalità che, in ambito INPS, date le caratteristiche della relativa classificazione (graduata
in inabilità, invalidità e non invalidità, riferite alla capacità lavorativa), possono essere
raggiunte in maniera più apprezzabile rispetto al generale ambito del danno biologico a
rilevanza medico-legale.
A tal fine, in linea col titolo della relazione assegnatami, per un miglioramento delle tecniche
di indagine da parte del valutatore, parrebbe in ogni caso essenziale (anche al di

fuori del campo INPS) un suo approccio globale alla situazione dell’assicurato, una
anamnesi che ripercorra le modifiche non temporanee nei suoi comportamenti, nel suo
umore, nella sua interazione con la famiglia e con l’ambiente di lavoro e di svago, nella
sua percezione della «qualità della vita».
Compiti, questi, e indagini che, in quanto tendono ad esulare dalle normali capacità del
medico INPS, si possono realizzare anzitutto curando la preparazione e la sensibilità a livello
di specialistica e creando un filo diretto, anche con sistemi informatici, per una consultazione
dello specialista ove il dolore si evidenzi come specifico fattore invalidante, e
non come normale (nell’an e nel quantum) esito di altre patologie.
NOTA 1
Sono stati condotti numerosi studi per verificare l’impatto della sclerosi multipla sulla vita dei pazienti
e delle loro famiglie; sono stati elaborati vari indici che definiscono una misura numerica della qualità
della vita, utile per valutare e confrontare situazioni diverse, progressi o peggioramenti.
Con quelli attualmente in uso si misura lo stato di invalidità (Expanded Disability Status Scale,
EDSS), la funzione cognitiva (Mini Mentale State Examination, MMSE), il livello di depressione
(Hamilton Rating Scale for Depression, HRSD), la fatica (Fatigue Severity Scale, FSS), la qualità della
vita (Helth-Releated Quality Of Life, HRQOL).
Il valore finale scaturisce da questionari a punteggio.
In base a questi indici è stato dimostrato che la fatica e la difficoltà di movimento interferiscono pesantemente
nelle attività quotidiane, come mangiare, bere, camminare, guidare.
A livello lavorativo le conseguenze sono indiscutibili: in molti casi diventa necessario cambiare lavoro
o comunque tipo di attività; spesso, purtroppo, subentrano fattori di disagio, di imbarazzo: barriere
architettoniche e umane che spingono il malato ad abbandonare
NOTA 2
Il dolore centrale può originare oltre che da accidenti cerebrovascolari dell’encefalo, anche da lesioni,
per lo più traumatiche, del midollo spinale. Nelle forme in cui la lesione encefalica è reversibile, si otterrà
anche la remissione del dolore centrale, ma questo processo può necessitare anni; e, analogamente,
se la lesione parenchimale peggiora anche il dolore si acuisce.
Il meccanismo patogenetico all’origine del dolore centrale consiste in processi riorganizzativi anomali
delle vie sensitive afferenti con formazione patologica di nuovi contatti sinaptici, nella sede della lesione
ischemica. Questi meccanismi riorganizzativi richiedono molto tempo per svilupparsi, e ciò spiega
il ritardo nell’insorgenza del dolore dal momento della lesione.
NOTA 3
La nevralgia del trigemino è caratterizzata da improvvisi intensi parossismi dolorosi, trafittivi o a scossa
elettrica, a salve, di breve durata, localizzati al territorio di distribuzione di uno o di più rami del
V nervo cranico. Di regola il dolore è monolaterale (in 3-4% dei casi può essere bilaterale ma con accesi
non contemporanei), scatenato da uno sfioramento superficiale sulla trigger zone (a volte indotto
dalla semplice parola, la masticazione, un soffio d’aria). Le crisi raramente compaiono durante il sonno,
e vi è alternanza di periodi dolorosi e fasi di remissione, anche prolungate. Il dolore trigeminale è
considerato una forma di dolore neuropatico causato dal contatto tra la radice sensitiva del nervo, in
vicinanza del Ganglio di Gasser nel suo punto di ingresso nel ponte, con vasi sanguigni anormalmente
sinuosi o ateromasici o con la stessa carotide interna alla sua emergenza dalla rocca petrosa.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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L’aggressione meccanica, sia pur discreta, del contatto determina la perdita della guaina mielinica e la
conseguente disorganizzazione del messaggio afferente con conseguente ipereccitabilità neuronale e produzione
di potenziali di azione ectopici che sfociano in scariche degli interneuroni del nucleo trigeminale
e nell’attivazione dei neuroni trigemino-talamici con conseguente dolore. L’esame obiettivo è sempre
normale, come pure gli esami strumentali, ad eccezione della RMN e angiorisonanza magnetica
che possono mettere in rilievo il contatto neurovascolare.
La nevralgia del trigemino può essere anche secondaria a processi patologici che ledono il nervo lungo
il suo decorso: lesioni espansive (colesteatoma, meningioma o neurinoma dell’angolo ponto-cerebellare,
tumori del tronco cerebrale, processi leucemici), malformazioni vascolari (aneurisma del tronco basilare
o della carotide), patologie ischemiche o degenerative cerebrali (sindrome di Wallenberg, sclerosi
multipla, siringobulbia).
NOTA 4
Nella CRPS I, nota anche come distrofia simpatica riflessa, RSD, la lesione nervosa non è dimostrabile:
forse si tratta di lesioni attribuibili a microtraumi o a un eccessivo uso. Nella storia clinica risultano
pregresse distorsioni, stiramenti, fratture, ustioni, interventi chirurgici, o eventi che comportino
un danno tessutale come IMA e ictus.
Nella CRPD II, detta anche causalgia, la causa del danno nervoso è una lesione parziale del tronco di
un nervo maggiore, più frequentemente il nervo mediano e lo sciatico, forse a causa della maggiore
componente di fibre sensitive e simpatiche in questi nervi rispetto ad altri nervi. Quest’ultima sindrome
dolorosa è stata evidenziata dopo le guerre mondiali e caratterizzata da riscontro anamnestico di
traumi di ogni tipo.
I soggetti lamentano dolore di solito urente, lancinante, a volte invece sordo, e con intensità che oscilla
spontaneamente o che è esacerbato a da esposizione al freddo, dall’esercizio fisico, da situazioni di ansia
o di stress. A volte, anche una leggera pressione sulla parte colpita scatena sensazioni dolorose: nell’area
del danno tessutale c’è una zona di iperalgesia primaria dovuta alla sensibilizzazione dei nocicettori
meccanotermosensibili, e nell’area adiacente a quella danneggiata c’è una zona di iperalgesia secondaria
dovuta alla sensibilizzazione centrale conseguente alla rigenerazione di fibre mieliniche che
sostengono una attivazione persistente. Nella CRPS I il dolore e l’iperalgesia sono localizzati oltre il territorio
di un singolo nervo periferico, nella CRPS II sono limitati a livello di un’articolazione o dell’area
colpita, e, in entrambe la loro intensità è sproporzionata rispetto all’evento iniziale.
A livello cutaneo si possono rilevare modificazioni della temperatura e rossore, produzione aumentata
o ridotta di sudore, alterazioni trofiche della cute e degli annessi, e movimenti involontari e clonie.
Il meccanismo patogenetico è ancora sconosciuto, ma la costante associazione a sintomi di disregolazione
autonomica (vasomotori e sudomotori) ha fatto ipotizzare una responsabilità del sistema nervoso
simpatico nella genesi della sindrome, per questo definita distrofia simpatica riflessa, cioè conseguente
ad un sistema simpatico disfunzionale.
Completano la sindrome chiazze di demineralizzazione ossea (atrofia di Sudek) soprattutto periarticolari
che sono rilevabili alla radiografia.
Una psicopatologia presistente può predisporre alla cronicità e il dolore, a sua volta, può slatentizzare
disturbi dell’umore e disturbi di personalità premorbosi. Consiste in stati dolorosi particolarmente associati
a sternotomia mediana, toracotomia laterale, mastectomia, colecistectomia, resezione rettale,
amputazione di un arto, correzione dell’ernia inguinale.
NOTA 5
Alla base del dolore post-chirurgico c’è una lesione jatrogena dei nervi, acuta (sezione o ischemia) o tardiva
(aderenze e intrappolamento del nervo da parte del tessuto cicatriziale).

Alcuni nervi sono maggiormente esposti al rischio di insulto iatrogeno: il plesso brachiale (conseguentemente
al posizionamento errato dell’arto superiore durante l’anestesia generale o durante artroscopia
di spalla), il ramo cutaneo-palmare del nervo mediano (durante interventi endoscopici di decompressione
del tunnel carpale), ramo cutaneo infrapatellare del nervo safeno (durante interventi a cielo aperto
o in artroscopia sul ginocchio), nervi ileoinguinale, ileoipogastrico, genitofemorale e femorale (nel
corso di ernioplastica inguinale per via laparoscopica, la rettopessia addominale), i nervi toracico lungo,
intercostali e intercostobrachiale (dopo toracotomia e mastectomia).
La lesione nervosa può essere parziale e può interessare selettivamente i rami sensitivi e, di solito, prevalentemente
le piccole fibre. La lesione parziale del nervo è spesso correlata a dolore più intenso rispetto
alla sezione completa, e può essere localizzato in un’area anche distante dalla ferita chirurgica ma,
comunque, all’interno del territorio di distribuzione del nervo leso.
Quando la lesione deriva da un intrappolamento del nervo all’interno del tessuto cicatriziale esuberante
il dolore è sostenuto, in assenza di danno nervoso, dall’irritazione delle fibre nervose e dall’attivazione
dei nerva nervorum (dalle fibre nervose danneggiate vengono generati impulsi nocicettivo ectopici).
Il dolore può essere spontaneo o evocato da stimoli cutanei e, di frequente, è associato a iperfenomeni
sensitivi (allodinia ed iperalgesia).
In alcuni casi il dolore post-chirurgico non ha soluzione di continuità con il dolore acuto perioperatorio,
ma di solito la sua comparsa è ritardata, a volte anche di mesi.
NOTA 6)
Il dolore miofasciale è caratterizzato da una dolorabilità alla palpazione di trigger point, punti di ipersensibilità
localizzati nel contesto di uno o più muscoli, e da un dolore sordo continuo in una zona di
irradiazione su cui proiettano i trigger point.
I trigger point, ossia zona grilletto del DMF, consistono in una porzione circoscritta di muscolo o fascia
(banderella palpabile), del diametro di 2-5 mm, indurita e dolente alla palpazione, sovrastata da
cute più calda.
La digitopressione in corrispondenza del trigger point evoca dolore a distanza nella cosiddetta «target
area». L’area di irradiazione del dolore non segue, tipicamente, la regola dermatomerica o il decorso di
un nervo. I muscoli colpiti possono presentare aumentata faticabilità, rigidità, debolezza soggettiva, dolore
nei movimenti e lieve riduzione della loro ampiezza.
La fase acuta del dolore miofasciale, una volta che è insorto, dura da due settimane a due mesi. Quando
non viene diagnosticato, o non adeguatamente curato o non curato affatto si va verso la fase cronica
o la cronicizzazione vera e propria la cui durata non è prevedibile.
Quando si eseguono trattamenti idonei i trigger point vengono inattivati a lungo ed i pazienti possono
reagire ad eventuali riacutizzazioni dei sintomi senza necessità di ulteriori interventi terapeutici.
Nel caso di cronicizzazione della sindrome dolorosa miofasciale per abuso dei muscoli colpiti, per cattivo
uso dei farmaci o per inadeguata terapia locale è possibile che i trigger point divengano, una volta
sviluppati, ipersensibili e possano diventare maggiormente vulnerabili ad una successiva riattivazione.
Gli eventi che possono riattivare i trigger point sono le attività fisiche eccessive, l’inattività prolungata
o posture anomale del muscolo, stress particolarmente intensi, brusche modificazioni climatiche,
artriti, malattie generalizzate come un’infezione virale (ad esempio l’influenza).
Vari quadri clinici ad espressione locale o regionale possono presentare manifestazioni simili al DMF.
La raccolta anamnestica accurata e un attento esame obiettivo possono, comunque, sempre offrire
strumenti efficaci di differenziazione. Nella diagnosi differenziale deve essere preso in considerazione
il dolore di borsiti o tendiniti: è sempre abbastanza ben circoscritto, e anche laddove dà luogo a dolore
irradiato o riferito, questo non segue mai pattern definiti, a differenza di quello del DMF che è
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Relazioni

Soggettività e dolore
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più sordo, non ben delimitabile, e profondo, e che spesso si estende ad aree di dolore riferito ben codificate.
Anche la polimialgia reumatica determina, specie in pazienti anziani, dolori al cingolo scapolare
o pelvico analoghi al DMF. Dirimente è la presenza di valori molto elevati di VES, e una risposta
eccezionalmente positiva alla somministrazione di basse dosi di corticosteroidi, completamente
inefficaci nel DMF.
Nello sviluppo del DMF intervengono meccanismi neuropatologici periferici e centrali. L’individuo,
soggetto a stress fisici ed emotivi, può reagire con meccanismi fisiologici di difesa: aumento di tono e
contrattura di difesa dei muscoli, modificazioni vasomotorie, iperattività simpatica. Uno specifico
punto più sensibile di un muscolo o di una fascia ipertonici e stressati si affatica e segnala la sua condizione
sfavorevole al sistema nervoso centrale. La risposta più facilmente prevedibile coinvolge i riflessi
motori: diversi muscoli associati al punto trigger diventano contratti e cominciano a stancarsi.
Le risposte simpatiche inducono modificazioni vasomotorie nel contesto dell’area grilletto e attorno ad
essa. Si produce allora ischemia locale, che provoca alterazioni nell’ambiente extracellulare delle cellule
affette, con liberazione di mediatori algogeni (istamina, chinine, prostaglandine), modificazioni
osmotiche e del pH, che insieme incrementano la sensibilità dei nocicettori di quella zona. L’attività
simpatica può anche provocare la contrazione della muscolatura liscia prossima ai nocicettori stessi,
eccitandone in tal modo l’attività. L’aumento del flusso di impulsi in partenza dai nocicettori concorre
al perpetuarsi del circolo vizioso, poiché accresce l’attività motoria e simpatica, che a sua volta
incrementa il dolore. Quando la contrazione incomincia ad affaticare i muscoli, in una situazione
di stimolazione simpatica e di alterazioni biochimiche locali, anche i punti trigger di tali muscoli cominciano
ad attivarsi, sommandosi al circuito di feedback positivo ed allargando il dolore ai muscoli
contigui. Alla fine lo stress dovuto al dolore e alla fatica, sommato all’aumento della tensione muscolare
e del tono simpatico in tutto l’organismo, si traduce nell’attivazione di zone grilletto in muscoli
situati a distanza dall’iniziale area del dolore.
Tender point nella fibromialgia

La fibromialgia consiste nella dolorabilità elettiva in 18 siti anatomici specifici, i tender
point (occipite, cervicale inferiore, trapezio, sovraspinato, 2 a costa, epicondilo laterale,
gluteo, grande trocantere, ginocchio) e dolore diffuso costante preciso che interessa una
vasta superficie corporea (presente nella parte destra e sinistra del corpo al di sopra e al
di sotto della vita) ed è più intenso che nel DMF.
I tender point della FM, riprodotti nella figura allegata, richiedono una palpazione digitale
standardizzata (una forza di 4 kg) e una risposta positiva in almeno 11 dei 18 punti,
al fine della diagnosi. La maggior parte dei tender point coincidono con trigger point
noti, confermando l’ipotesi di una analoga base fisiopatogenetica. All’origine di entrambe
le condizioni dolorose intervengono meccanismi neuropatologici periferici e centrali,
con prevalenza di quelli periferici nel DMF e con ruolo più importante di quelli centrali
nella FM. Mentre il meccanismo patogenetico del DMF è di frequente riconoscibile
in un danno della struttura muscolare (traumatico o conseguente a posture e abitudini a
tenere i muscoli in tensione), sulla genesi della FM influiscono i fattori che modulano il
sistema nervoso centrale: stress, disturbi del sonno, depressione.
I sintomi delle forme diffuse possono essere indistinguibili dalle manifestazioni precoci
di altre condizioni reumatologiche (ad es: artrite reumatoide, connettivopatie, spondiloartropatie
sieronegative) o di alcune patologie neurologiche (ad es: sclerosi multipla,
morbo di Parkinson), oppure essere causati da disturbi metabolici (come l’ipotiroidismo,
l’ipoparatiroidismo, l’osteoporosi).
(da: Il dolore miofasciale, di A. De Nicola, Salus.it)
Diagnosi differenziale tra fibromialgia e dolore miofasciale
Elemento Fibromialgia Dolore miofasciale
sesso specie femminile nessuna prevalenza
frequenza poco frequente molto comune
dolore provocato 12-13 tender points trigger points miofasciali
ben individuati e definiti in numero variabile e
reperibili in un qualsiasi muscolo
tipo di dolore diffuso e cronico dipendente in qualità ed
da oltre 3 mesi estensione dalla posizione
del TP. Non curato cronicizza
e genera altri TPs.
interferenza con il sonno tipiche non comune
influenza delle variazioni frequente comune
meteorologiche
rigidità generalizzata confinata ai muscoli interessati
debolezza muscolare comune rara
limitazione funzionale dubbia frequente e relativa ai muscoli colpiti
risposta localizzata dubbia frequente;
in contrazione del muscolo segno patognomonico se presente
cura polispecialistica disattivazione dei trigger points
49
Relazioni

Soggettività e dolore
50
▼ Bibliografia
Abram S.E., Il dolore. Manuale clinico, Ed. It. A. Menarini, 1991.
Buzzi F., «Critica pragmatica agli intenti di quantificare il danno da dolore», in Il dolore
nella valutazione medico legale, Ed. Giuffrè, 2007, pp. 103-115.
Buzzi F., Vanini M., Il danno biologico di natura psichica. Definizione e valutazione medico
legale, Ed. Cedam, 2001.
Cambier J., Masson M., Neurologia, Ed Utet Masson.
De Nicola A., Il dolore miofasciale, da Salus.it.
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Farneti A., «Critica metodologica», in Il dolore nella valutazione medico legale, Ed. Giuffrè,
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Jensen T.S., Wilson P.R., Rice A.S.C., Trattamento clinico del dolore. Dolore cronico, Ed.
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Marigliano A., «Gli aspetti psichiatrici e psichiatrico-forensi», in Il dolore nella valutazione
medico legale, Ed. Giuffrè, 2007, pp. 47-92.
Micheli F., «Gli aspetti algologici», in Il dolore nella valutazione medico legale, Ed. Giuffrè,
2007, pp. 27-46.
Ronchi E., Cucci M., «Proposte valutative», in Il dolore nella valutazione medico legale,
Ed. Giuffrè, 2007, pp. 117-130.
Valdini M., «Il problema dolore nella prassi medico legale», in Il dolore nella valutazione
medico legale, Ed. Giuffrè, 2007, pp. 1-4.

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
La valutazione della soggettività e del dolore
in ambito INAIL
di Patrizio Rossi *
▼ Premessa
Il sistema di tutela delle conseguenze degli infortuni e delle malattie professionali è
stato sostanzialmente riformato dal decreto legislativo n. 38/2000 che ha introdotto
l’indennizzo del danno biologico, figura giuridica e medico-legale già consolidata
in ambito di responsabilità civile.
Pertanto, mentre in precedenza, ai fini della valutazione percentuale del danno, il
riferimento era all’astratto ed anacronistico concetto di capacità lavorativa generica,
oggi detta valutazione viene effettuata sulla base del risentimento biologico-relazionale
effettivamente patito dalla persona.
Il sistema innovato dal decreto citato, accanto all’indennizzo del danno biologico,
disciplina e prevede, inoltre, l’indennizzo per le conseguenze patrimoniali determinate
dalla menomazione dell’integrità psico-fisica, vale a dire il danno all’attività lavorativa
svolta dal leso.
Gli strumenti attraverso il quale il Legislatore ha regolamentato le due forme
d’indennizzo (danno biologico e danno patrimoniale) sono stati promulgati con
decreto ministeriale 12 luglio 2000 e prevedono una «tabella delle menomazioni»
per la stima percentuale della menomazione biologica, una «tabella dei coefficienti»
per la stima del danno alla capacità di svolgere l’attività lavorativa, una «tabella
dell’indennizzo» per la traduzione economica della percentuale di menomazione,
già valutata con la prima delle tre tabelle.
▼ Principi e modalità d’uso della «tabella
delle menomazioni» e di quella dei coefficienti
Ogni sistema di valutazione del pregiudizio alla salute della persona sconta i limiti
di dover ricomprendere all’interno di tabellazioni medico-legali e/o statisti-
* Sovrintendenza Medica Nazionale INAIL
51
Relazioni

Soggettività e dolore
52
co-attuariali le infinite variabili che la soggettività biologica e la multiforme espressività
sociale-relazionale dell’individuo riesce ad esprimere. Se a tale palese limitazione,
propria di ogni sistema fondato su indicazioni tabellari orientative, si aggiunge il carattere
ancora più restrittivo di una tabellazione vigente a norma di legge, come nel
caso del d.lgs. n. 38/2000, ben si comprende la capacità di condizionare e di restringere
l’ambito di stima, d’apprezzamento e di ristoro della menomazione biologica da
parte del medico valutatore.
La consapevolezza di ciò ha indotto il legislatore a costruire un sistema tabellare che limitasse
in concreto le imposizioni e facesse valere l’esigenza medico-legale di attribuire
una stima percentuale e/o un coefficiente di patrimonialità quanto più rispondente
alla singola obiettività ed alla specifica menomazione, consentendo in effetti di superare
molti dei condizionamenti prima accennati.
È per queste ragioni che la tabella delle menomazioni, al di là di alcune inevitabili previsioni
percentuali tassative consente sempre e comunque:
◗ di adeguare la stima percentuale alla realtà clinica del leso (vedasi al riguardo la metodologia
applicativa in ordine al danno composto, al sistema della stadiazione aperta,
ecc.);
◗ di personalizzare e tipizzare il danno (vedasi al riguardo il sistema del «fino a»);
◗ di valorizzare le conseguenze patrimoniali della menomazione (vedasi al riguardo il
sistema di attribuzione del coefficiente).
In definitiva, la lettura d’insieme del sistema di tutela, innovato con il d.lgs. n.
38/2000, applicato mediante la tabella delle menomazioni e quella dei coefficienti, ci
fornisce un quadro generale diverso da quello temuto. Esso, infatti, sotto il profilo valutativo
consente di realizzare un’utile connessione di elementi, anche interdipendenti
tra loro, tra i quali la sindrome dolorosa assume particolare rilevanza.
In altri termini, la realtà anamnestico-personale e clinico-strumentale emersa all’accertamento
trova nelle regole che governano le tabelle gli strumenti per far aderire quanto
più possibile l’attribuzione «numerica» al caso concreto, superando tassatività e convenzioni
numeriche inadeguate ed improprie per la singola fattispecie.
Al contempo, la necessità di motivare medico-legalmente rende contezza anche al lettore
non medico dell’iter logico e concettuale che ha guidato l’attribuzione in questione,
consentendo per un verso la valorizzazione di quadri soggettivi e dolorosi congrui
e correlabili con le evidenze lesive e la loro evoluzione, per l’altro la più agevole condivisione
o confutazione del parere in sede collegiale o di giudizio.
I risultati al 2007 del sistema di monitoraggio del danno biologico, attivato dall’istituto
sin dalla vigenza della novella legislativa, hanno sostanzialmente confermato gli auspici
di elasticità e congruenza dell’impianto di riforma di cui all’art. 13 del d.lgs. n.
38/2000.

▼ La valutazione della soggettività
e del dolore in ambito INAIL
Gli interventi preordinati dagli organizzatori hanno affrontato con puntualità e completezza
di argomentazioni gli orientamenti attuali in tema di valutazione e di terapia delle sindromi
soggettive, così pure hanno proposto una esaustiva attualizzazione dell’algodisfunzionalità
della patologia muscolo-scheletrica e osteoarticolare (settore di maggiore ricorrenza
valutativa) così pure i riflessi invalidanti in ambito previdenziale e dell’assistenza sociale.
Le problematiche restano, pertanto, circoscritte agli aspetti meramente valutativi ed alle
modalità di percentualizzazione nel presente ambito.
In tal senso, le questioni inerenti alla valutazione della soggettività e del dolore in ambito
assicurativo sociale INAIL non sono, invero, assai dissimili da quanto rappresentabile
per le invalidità INPS, ricomprendendo in queste anche quelle del sistema dell’invalidità
civile, ricadenti oggi nella specifica competenza dell’istituto di previdenza.
La stima del danno biologico permanente e quella dei riflessi dislavorativi specifici effettuata
dall’INAIL per tutti gli eventi post 24 luglio 2000 annoverano a pieno titolo le
componenti menomative derivanti al leso dalla soggettività e dal dolore patito. Tale impostazione
trova le sue ragioni:
1) nell’evidenza clinica che il riflesso doloroso (o sintomatologico diverso) comporta,
2) nelle necessità terapeutiche che lo stesso impone.
Va premesso che il sistema valutativo della tabella delle menomazioni, derivante dall’applicazione
dei criteri d’uso e dall’interpretazione delle descrizioni nosografiche delle voci,
non giustifica riserve e/o approssimazione alcuna in tema di accoglimento di quadri
dolorosi e/o di quelli soggettivi diversi. Al riguardo si richiama quanto già rappresentato
in altre occasioni e sintetizzato nel paragrafo precedente, vale a dire che la realtà anamnestico-personale
e clinico-strumentale emersa all’accertamento trova nelle regole che governano
le tabelle gli strumenti per far aderire quanto più possibile l’attribuzione «numerica» al
caso concreto, superando tassatività e convenzioni numeriche inadeguate ed improprie per la
singola fattispecie.
D’altronde, se la tabella delle menomazioni ha voluto costituire, nell’ambito delle procedure
di accertamento di ogni complesso menomativo, un momento di rivalutazione
della componente anche solo «anatomica», ne deriva evidente che componenti invalidanti
correlate alla sofferenza soggettiva, ancorché non disfunzionale, devono trovare
sempre adeguata percentualizzazione. In estrema ipotesi, infatti, va rilevato come il dolore
possa assumere i caratteri di una malattia che però, del sintomo, mantiene tutta la
soggettività. Il punto critico riposa, invece, nella circostanza che, per quanto esistano
scale efficaci ed universalmente riconosciute per misurare, il dolore resta molto difficile
classificarlo in maniera standardizzata. Basti pensare alla tipica soggettività dell’espressione
stessa del dolore: stimoli di identica intensità che producono anche speri-
53
Relazioni

Soggettività e dolore
54
mentalmente risposte completamente differenti. Se poi si aggiunge che, a sua volta, a
parità di stimolo, una quantità di analgesico produce effetti completamente differenti
in un soggetto piuttosto che un altro, è possibile capire come il fenomeno dolore sia
soggettivo non solo nell’espressione, ma anche nella risposta alla terapia. Ad ogni buon
conto restano capitoli di particolare rilevanza quelli del dolore nei pazienti neoplastici
ed in specifiche sindromi neurologiche, condizioni patologiche in grado di riverberarsi
severamente sulla qualità delle vita. Tutte queste osservazioni ci riconducono alla tecnica
ed alle finalità dell’accertamento medico-legale, forse idoneo, più di ogni altro videat
clinico, a circoscrivere ed a tradurre il pregiudizio alla validità biologica, alle attività gestionali
ed a quelle relazionali derivanti dalla sofferenza dolorosa.
Allo stesso modo può dirsi dei quadri soggettivi diversi. Al riguardo non appare superfluo
richiamare quanto previsto nell’allegato 1 in tema di acufeni, ovvero le previsioni tabellari
di altre menomazioni strumentalmente non oggettivabili a tipo ipo/anosmia e crisi
asmatiche senza deficit respiratorio.
Le sindromi dolorose che complicano le lesioni osteoarticolari se per un verso possono
avere inquadramento nel contesto di quadri algo-distrofici più agevoli da apprezzare e
stimare percentualmente, per l’altro, laddove correlati alla sola componente menomativa
anatomica e privi di una evidenza clinico-strumentale inequivoca, possono restare al
di fuori del complesso dannoso indennizzato. Basti pensare, in via esemplificativa, alle
sindromi dolorose correlate a condropatia per la quale a fronte anche di degenerazione
cartilaginea non severa può sussistere un risentimento algico loco-regionale importante.
In tal senso, è procedura medico-legale congrua con la professionalità dell’esaminatore
ed adeguata anche con ruolo di medico previdenziale studiare sistematicamente tutte le
componenti menomative attese, ammettendo ad indennizzo, senza remore e senza rinvio
ad accertamenti diversi e successivi (giudiziari ad esempio) tutte le sindromi soggettive
e/o dolorose meritevoli di accoglimento. Né appare procedura indicata quella di svilire
l’attribuzione percentuale per la «menomazione soggettiva» in cambio di un’ammissione
a tutela del pregiudizio solo plausibile.
Un discorso a parte meritano poi gli esiti dei traumatismi cranici per i quali l’incostante
rilievo di disturbi soggettivi non testabili può indurre ad una sottostima o misconoscimento
di sequele anche importanti. Tenuto presente ciò vanno indagati nel contesto di
una approfondita indagine anamnestica cefalea ed altri sintomi di instabilità nervosa
post-traumatica post-commotiva. Il presente contributo non costituisce occasione per
dettagliare questa come altre sindromi soggettive, giova invece ribadire la loro rilevanza
menomativa unitamente alla necessità di un accertamento del danno approfondito, puntuale
e scientificamente fondato. L’attribuzione della percentuale deve, pertanto, conseguire
ad una procedura tesa a scotomizzare ogni approssimazione e/o semplificazione.
Nell’ambito di una pratica medico-legale così fondata, con specifico riferimento alle
sindromi in discussione, non potrà, poi, non attribuirsi il corretto significato ai fatto-

i preesistenti (pregiudizio anteriore), contestuali (co-azione lesiva) o sopravvenuti
(complicazioni), idonei a modificare, anche in misura significativa, la natura e l’entità
di disturbo soggettivo.
Sotto il profilo strettamente tecnico, a tenore di criteri e tabella INAIL, la valutazione
delle sindromi soggettive può prevedere il ricorrere e l’apprezzamento di una componente
menomativa specifica, tra le quali quelle sopra richiamate, più spesso e correttamente
può prevedere l’evidenza cronicizzata del sintomo all’interno di un complesso menomativo
variegato. Ebbene è proprio per queste fattispecie che il medico valutatore dovrà verificare
se la soggettività riscontrata, per entità e frequenza, si staglia al di sopra del naturale
risentimento atteso, realizzando con un processo di autonomizzazione menomativa
il postumo al quale attribuire distinta e specifica percentuale.
Le ragioni sopra esposte per la valutazione del danno biologico permanente sono sostanzialmente
ripetibili anche per l’individuazione dei riflessi dislavorativi che presuntivamente
la tabella dei coefficienti statuisce per le menomazioni dal 16% al 100%. La previsione
normativa relativa alla facoltà di attribuzione di coefficiente diverso da quello di
fascia è riservata a tutte quelle condizioni per le quali ricorrono eccezionalità del postumo,
peculiarità dell’attività di lavoro svolta, inefficacia dei presidi riabilititivi e di reinserimento.
Ebbene a tale riguardo va rappresentato come, al momento della valutazione
del postumo oltre la soglia di rendita, procedura spesso precoce, la soggettività dolorosa
possa costituire la componente menomativa in grado di giustificare, proprio nella prima
fase di ripresa lavorativa, quella maggiore limitazione lavorativa che il coefficiente di fascia
superiore meglio interpreta. Ovviamente dovrà essere altrettanto tempestiva e precoce
la verifica della sussistenza della condizione che ha dato luogo al diritto.
Sgomberato il campo dalla riaffermazione, in tema di valutazione del danno biologico
permanente, della rilevanza della componente soggettività e dolore, va segnalato come la
stessa sottenda ad un momento propedeutico costituito dall’iter logico di asseverazione
del disturbo. In tal senso, il primo momento è costituito dalla verifica di congruità e correlazione
del quadro sindromico soggettivo/doloroso rispetto alle lesioni diagnosticate ed
alla loro evoluzione, così come riscontrabile sino al momento della valutazione dei postumi.
Anche gli istituti particolari introdotti dal decreto legislativo n. 38 del 2000, nello
specifico quello dell’accertamento provvisorio, sono destinati a consentire un apprezzamento
medico-legale a postumi sostanzialmente consolidati, allorquando la persistenza
di un risentimento soggettivo importante potrà a ragione costituire componente menomativa
percentualizzabile.
Un ultimo cenno va riservato alla rilevanza della soggettività e del dolore in tema di invalidità
temporanea e quindi di incapacità a svolgere la propria attività di lavoro, solo
pregiudizio quest’ultimo per il quale l’INAIL eroga una prestazione economica.
Ebbene, a tale riguardo va sinteticamente ribadito come la valutazione medico-legale in ordine
alla temporanea assoluta inabilità vada espressa, appunto, con riferimento alla possibi-
55
Relazioni

Soggettività e dolore
56
lità per il lavoratore infortunato di attendere al proprio mestiere e non ad una qualsiasi attività
proficua. In altre parole, si tratta di un’astensione effettiva, concreta dalla sua attività specifica.
In tal senso, l’impedimento che sostanzia, normativamente, la condizione di malattia,
dalla quale derivi una inabilità temporanea assoluta, prevede oltre alla impossibilità fisica o
psichica all’espletamento della specifica attività lavorativa, anche l’incompatibilità di quest’ultima
con esigenze terapeutiche, imposte dalle lesioni patite: l’impedimento è altresì ravvisabile
quando concrete esigenze di prevenzione di un danno alla salute consiglino un periodo
di riposo, o meglio l’interruzione dell’esposizione lavorativa.
È più spesso al riguardo di tali ultime notazioni che assumono rilevanza le sindromi soggettive,
complicative o riesacerbanti uno stato anteriore pregiudicato. In ogni caso,
l’azione tra i due fattori, che sinergicamente conclamano un’inabilità lavorativa, non vede
pregiudicata la tutela dell’evento ricorrendo un’efficace azione lesiva. Da ultimo, nella
definizione di temporanea inabilità INAIL, è stato omesso il limite definitorio di tale
intervallo, non ponendo alcuna determinazione esplicita al di fuori di quella che può essere
estrapolata dallo stesso aggettivo «temporanea». Per questo è possibile esprimere un
giudizio di conclusione dell’inabilità, improntato ai criteri medico-legali, nel momento
in cui si osservi nell’infortunato che la lesione abbia raggiunto lo stadio di «stabilizzazione»,
in modo che non si possa prevedere un ulteriore miglioramento con cure complementari.
In tema di soggettività e dolore, laddove ricorra uno stato anteriore patologico,
l’evoluzione delle sindromi conduce spesso ad un prolungamento notevole del periodo
di temporanea con difficoltà ad individuarne il termine. Ebbene, in tal fatta, è possibile
ritenere che la temporanea si sia esaurita nel momento in cui, sostanzialmente ristabilito
lo stato anteriore, si proceda alla soppressione del trattamento intrapreso dopo
l’infortunio (ormai qualificabile come inefficace) e sia possibile la ripresa di un lavoro
produttivo, senza che questo nuoccia all’infortunato.
▼ Bibliografia
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in Atti del Convegno Nazionale La malattia. Problema clinico, sociale e
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Tolomeo A., «Il danno alla salute a carattere temporaneo. Rapporti con il danno morale
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D.M. 5 febbraio 1992 n. 43: Approvazione della nuova tabella indicativa delle percentuali
d’invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti, Supplemento ordinario alla
Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26.2.1992.
57
Relazioni

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
La soggettività e il dolore in ambito previdenziale.
Riflessioni su alcuni casi INCA
di Adalberto Ferioli* e Mariaclara Guerreri**
▼ Premessa
Oltre certi livelli di intensità il dolore non è più il sintomo di una malattia, ma malattia
esso stesso e può rappresentare di per sé il fattore maggiormente invalidante.
Come ripreso nel titolo che si è voluto dare al corso, il sintomo dolore è «anche»
espressione della soggettività dell’individuo, da alcuni chiamata «soglia individuale
del dolore», in rapporto alla quale differenti soggetti possono percepire in modo più
o meno intenso uno stesso stimolo doloroso.
Fattori anatomici, fisiologici e culturali (questi ultimi intesi in una accezione molto
ampia) interagiscono nel definire la soglia individuale di percezione del dolore.
Nell’ambito della medicina legale il dolore non è oggettivabile: non esistono attualmente
apparecchiature di uso comune che ne consentano la quantificazione, non
rappresenta un «danno» per il quale esistano tabelle risarcitorie: a causa di questi limiti
metodologici, spesso viene sottostimato.
Esistono varie scale di valutazione della percezione dolorosa che, prevalentemente tramite
la somministrazione di questionari standardizzati, consentono una stima della
sofferenza. In alcune sindromi (come ad esempio nel caso dell’algodistrofia) accertamenti
strumentali e dati clinici possono coadiuvare nella formulazione diagnostica.
La stima dell’intensità del dolore sofferto è pertanto una «operazione» complessa;
l’alta professionalità riscontrata in varie UO Ospedaliere per la Terapia del Dolore
rende queste strutture un importante punto di riferimento.
I casi che verranno illustrati sono esempi di come il dolore possa rappresentare esso
stesso una vera e propria disabilità e di come attraverso l’osservazione clinica,
l’attenta analisi anamnestica e, in alcuni casi, con il contributo delle strutture operative
ospedaliere citate, si possa arrivare ad una più precisa stima del danno conse-
* Consulente medico INCA Legnano e Varese.
** Coordinatore medico INCA Milano.
59
Relazioni

Soggettività e dolore
60
guente. Per ogni caso illustrato sono riportati gli elementi salienti contenuti nella perizia
di parte e, nelle conclusioni del CTU e l’esito della sentenza.
▼ Casi clinici
1. Operaio edile: dolore cronico conseguente ad intervento per ernia inguinale destra.
Causa nei confronti dell’INPS per la mancata concessione dell’assegno di invalidità
a) Dalla perizia di parte (6 gennaio 2002)
Dal 1997 è titolare di una rendita concessa dalla Assicurazione Federale per l’Invalidità
(Svizzera) in quanto gli è stato riconosciuto un grado di invalidità del 75%. Tale rendita
è stata confermata in sede di revisione effettuata nel 2000.
Nel 1998 ha presentato domanda per l’assegno di invalidità all’INPS, respinta in tutti i gradi
di ricorso medico-amministrativo ivi compreso il cosiddetto precontenzioso, svoltosi nel
maggio 2001 tra INPS e consulente medico del Patronato INCA (conclusione discorde).
◗ ANAMNESI LAVORATIVA
Ha iniziato a lavorare all’età di 15 anni, svolgendo per un breve periodo l’attività di meccanico.
Poi per circa 32 anni ha svolto l’attività di operaio edile.
Non lavora più dal 1996, a causa della patologia accusata.
◗ ANAMNESI PATOLOGICA
Nell’aprile 1995, all’età di 47 anni, fu sottoposto ad intervento di ernioplastica inguinale
destra.
Alcuni giorni dopo, comparsa di intenso dolore ai quadranti addominali inferiori e in regione
inguinale destra, con irradiazione all’arto inferiore omolaterale. Il dolore si accentuava
al minimo sforzo e limitava di molto la funzionalità dell’arto.
Per tale motivo subì numerosi ricoveri nel periodo 96/97, fino alla neurolisi dei nervi
ileo-inguinale, genito-femorale e ileo ipogastrico destro, senza significative modificazioni
del quadro clinico.
A seguito di una valutazione neurologica del febbraio 2000, venne esclusa la possibilità
di ogni ulteriore intervento in quanto «…una possibile causa iniziale da tempo non (è)
più identificabile…»: veniva prescritta la consultazione presso un centro di terapia del
dolore cronico.
Le terapie infiltrative anestetiche eseguite da specialisti risultarono inefficaci nel controllo
del dolore: fu pertanto sottoposto a trattamento analgesico mediante Contramal, Surmontil
ed antinfiammatori non steroidei per via orale con scarso beneficio.
Il quadro clinico rimaneva immodificato nel corso degli anni, sia per sede che per intensità,
e fu causa di sofferenza ed esauribilità con affaticamento cronici (dolore presente anche
di notte, ostacolando fortemente il sonno). All’esame clinico, il paziente presentava

allentamento della marcia (inibita dal dolore); poteva svolgere solo attività fisiche leggere,
poiché l’intensità della sintomatologia dolorosa aumentava in modo incontrollato ed
insopportabile con lo sforzo.
◗ CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Come è noto, la legge 12 giugno 1984, n. 222, prevede la concessione dell’assegno ordinario
di invalidità in presenza di una riduzione permanente della capacità lavorativa a
meno di un terzo, in attività confacenti proprie attitudini.
Tenuto conto di quanto esposto nei paragrafi precedenti, appare evidente che la sintomatologia
dolorosa rilevata a carico dell’assistito ne determini l’impossibilità a svolgere la
propria attività di operaio edile. Analogamente, appare indiscutibile che la patologia «dolore
cronico» comporti anche una riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo
in attività «confacenti».
Infatti, come risulta dall’anamnesi lavorativa, l’assistito ha svolto per 32 anni attività di
operaio edile, maturando la propria esperienza professionale solo in questo settore senza
– peraltro – acquisire una peculiare specificità operativa: pertanto, le sue attitudini lavorative
rientrano unicamente nel settore edilizia e le sue capacità lavorative sono quelle di
un operaio con attività operaie generiche, manuali. Alla luce di tali osservazioni, tenuto
conto del quadro clinico doloroso, risulta impossibile per l’assistito svolgere a pieno titolo
la propria attività nel settore dell’edilizia. Infatti, a parere di chi scrive la «confacenza
lavorativa» è determinata dall’esperienza lavorativa maturata e non dalla semplice qualifica
professionale; pertanto la confacenza lavorativa nel caso in discussione è da ricercare
nell’ambito dell’unico lavoro svolto nel corso della vita professionale.
Alcuni considerano più ampi ambiti di confacenza suddividendo, schematicamente le tipologie
di lavoro in generiche attività operaie, impiegatizie, ecc. In questo caso, quindi,
ambiti di confacenza potrebbero forse essere ricercati in altri settori, per esempio nell’industria,
dove però la specificità lavorativa dell’assistito lo farebbe indirizzare verso attività
a basso livello di qualificazione e, pertanto, attività prevalentemente manuali con significativo
impegno fisico.
Il lavoro in fabbrica si è, infatti, molto evoluto nel tempo e si assiste alla progressiva
scomparsa degli operai generici (attività alla quale potrebbe essere eventualmente addetto)
che vengono relegati ad attività di fatica, manuali, quali il fornire di materiali gli specializzati
sulle linee di produzione. Alla luce delle limitazioni elencate in precedenza anche
in questo caso, vista la realtà attuale del lavoro di fabbrica, sussisterebbero le condizioni
per il riconoscimento di uno stato di invalidità.
b) Dalla Consulenza Tecnica d’Ufficio (11 febbraio 2003)
◗ VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Il ricorrente risulta affetto da una sindrome nevralgica del nervo ileo-inguinale e genitofemorale
di destra insorta successivamente ad un intervento di ernia inguinale destra. Ta-
61
Relazioni

Soggettività e dolore
62
le situazione clinica è stata trattata chirurgicamente e successivamente mediante cure mediche
ed infiltrazioni epidurali lombari senza alcun beneficio. A seguito di tale patologia
è comparso anche un rilevante stato ansioso-depressivo reattivo per cui è tuttora in cura
farmacologia.
Tale complesso quadro patologico determina rilevanti difficoltà nella prolungata stazione
eretta o protratta deambulazione, nelle flessioni del tronco e negli accosciamenti. Per
tali motivi è da ritenere invalido nella misura superiore a due terzi in attività confacenti
alle sue attitudini. La decorrenza di tale condizione patologica risale al mese di aprile
1998, data della domanda di invalidità.
c) Sentenza (30 giugno 2003)
…dichiara che la capacità lavorativa del ricorrente in occupazioni confacenti alle sue attitudini
è ridotta in modo permanente a meno di 1/3 a far tempo dal mese di aprile 1998
e, per effetto, condanna l’INPS a pagare in favore del ricorrente l’assegno ordinario di invalidità
a decorrere dal 1° maggio 1998…
2. Ausiliario ospedaliero: dolore cronico da plurimi interventi a carico del rachide
lombare. Causa nei confronti dell’INPS per la mancata concessione dell’assegno di
invalidità
a) Dalla perizia di parte (9 febbraio 2004)
Presentò all’INPS il 21/6/00 (all’età di 52 anni) domanda di pensione di inabilità che
venne respinta il 24/10/00; anche la domanda di assegno di invalidità presentata in via
subordinata non venne accolta.
In data 10/3/01 l’INPS comunicò la respinta del ricorso per l’ottenimento dell’assegno
di invalidità e in data 24/2/03 al termine della procedura di precontenzioso patrocinata
dal Patronato INAS confermò il giudizio clinico di non invalidità.
Si rivolse successivamente al patronato INCA CGIL che patrocinò la causa per il riconoscimento
dell’assegno di invalidità.
◗ ANAMNESI LAVORATIVA
Dal 1974 ausiliario presso ospedale pubblico. Licenziato nell’aprile 2000 per superamento
del periodo di comporto.
◗ ANAMNESI PATOLOGICA
In seguito a lombosciatalgia destra ingravescente per ernia extraforaminale del 4° disco
con compressione della radice di L4 fu operato il 20/9/93 con asportazione per via extraforaminale
dell’ernia.

Dato il persistere di dolore lombare irradiato fu sottoposto il 24/12/93 a TAC lombare
che evidenziò «…a livello di L4-L5 si sono osservati gli esiti di un pregresso intervento
con parziale laminectomia e faccettotomia L5 superiore dx. I corrispondenti tessuti paraspinali
risultano caratterizzati dalla presenza di una ganga cicatriziale che appare riconoscibile
sino in corrispondenza della regione anatomica del forame di coniugazione dx.
Il disco intersomatico presenta segni degenerativi… protrusione che può essere compatibile
con una recidiva a carattere erniario. Fra tale componente discale e la cicatrice le
strutture radicolari non sono più riconoscibili con chiarezza…».
Una successiva visita di controllo (11/1/94) evidenziò «Persistenza di lombalgia alla stazione
eretta che impedisce le normali attività…».
Il 5 aprile 1994 fu sottoposto a RMN con somministrazione del mezzo di contrasto
che evidenziò «…Si conferma la presenza di una grossolana componente cicatriziale in
sede extraforaminale destra, in corrispondenza dello spazio intersomatico L4-L5…
presenza di microframmenti metallici in rapporto al pregresso intervento chirurgico…
Lo stesso disco L4-L5 presenta modesta protrusione sotto legamentosa mediana e paramediana
sinistra…».
Nel novembre 1994 fu ricoverato per il persistere della sintomatologia dolorosa. Una
RMN eseguita il 15/11/94 confermò nella sostanza il precedente accertamento; in particolare
«…A livello L4-L5 sede del pregresso intervento chirurgico, si notano, in sede
intra foraminale e appena all’uscita del forame di coniugazione ds, fenomeni di tipo fibroaderenziale
che inglobano la radice di L4…». Fu sottoposto a ciclo di terapia infiltrativa
con ricontrollo a 60 giorni.
Nel febbraio 1995 fu sottoposto a discografia L3-L4 e L4-L5 per lombosciatalgia ribelle
e successivamente, nel marzo 1995 a intervento di stabilizzazione vertebrale L3-S2 con
placca e viti e mediante innesti autoplastici postero laterali.
Dato il persistere di una importante sintomatologia dolorosa fu ricoverato nel giugno
1995 ed una Rx lombosacrale evidenziò «…appaiono parzialmente riassorbiti gli innesti
ossei… le viti di sintesi più caudali appaiono parzialmente sfilate…» e fu programmato
un ricovero nel luglio 1995 per rimozione parziale mezzi di sintesi.
Nel novembre dello stesso anno subì un nuovo ricovero per cicli di fisiochinesi terapia e
venne dimesso con diagnosi di «esiti di intervento di artrodesi - radicolite lombo sacrale
- lombalgia».
Nel corso del 1996 non avvertì alcun miglioramento dei sintomi e in seguito a controlli
clinici non meglio precisati fu sottoposto nel luglio 1997 ad intervento di rimozione
dei mezzi di sintesi.
A novembre del 1997 fu nuovamente ricoverato per il persistere della sintomatologia dolorosa
e sottoposto a cicli di fisiochinesi terapia. Al momento del ricovero riferì» …instabilità
durante la stazione eretta con necessità di appoggio… non tollera tale posizione per
più di 5 minuti a causa dell’instaurarsi di parestesia coscia destra antero laterale che si al-
63
Relazioni

Soggettività e dolore
64
levia con la deambulazione; …limitazione funzionale della flessoestensione…». Fu dimesso
con diagnosi di «Spondilolistesi, artrodesi, ricovero per trattamento riabilitativo».
Analogo ricovero nel novembre 1998 e dimesso con diagnosi di «Lombosciatalgia in postumi
atrodesi L3-S1».
Una visita specialistica neurologia del novembre 1999 certificò «Paziente con storia tipica
di sindrome cronica da plurimi interventi nel rachide…I successivi interventi sono
stati motivati dalla situazione di cronica lombalgia, con reinterventi per emendare situazioni
di instabilità (secondaria agli interventi)… segni non gravi di sofferenza radicolare
L3-L4 destra ed è invalidato dal quadro di dolore cronico lombare che si è nel tempo instaurato
riducendo obiettivamente la autonomia motoria e la performance lavorativa. Il
quadro ora di dolore cronico si associa a depressione, turbe del sonno, tendenza a condotta
di ripiego e di astensionismo, abuso di analgesici…».
Una RM del settembre 2002 ha rilevato «…al secondo spazio… evoluzione di tipo sclerotico
di fenomeni degenerativi… il diametro sagittale canalare appare un poco ridotto
per concomitanza di fenomeni spondiloatrosici interapofisari… presenza di fenomeni cicatriziali
ipertrofici endocanalari… Il II disco risulta sfiancato circonferenzialmente… al
penultimo spazio… presenti fenomeni fibrotici… il sacco durale risulta comunque un
poco deformato verso tali sedi…».
In seguito al persistere della sintomatologia dolorosa ha iniziato nel 2003 terapie presso
il Centro Terapia del Dolore e in seguito ai controlli e terapie eseguite nel periodo luglionovembre
2003 è stata posta indicazione (visita dell’11/11/03) per «terapia neuromodulatoria
con metodiche invasive di neurostimolazione midollare o di infusione intratecale
di farmaci» per «Lombosciatalgia severa, in FBSS, ingravescente».
Successivamente alla stesura della perizia veniva ricoverato in data 11/3/04 per
l’impianto di un elettrostimolatore antalgico la cui efficacia sul controllo del dolore fu
molto limitata nel tempo. Successivamente fu instaurata terapia con oppiacei, purtroppo
mal tollerata.
◗ CONSIDERAZIONI FINALI
All’origine della causa c’è la convinzione che la «sindrome dolorosa cronica» di cui soffre
il nostro assistito in conseguenza delle lesioni anatomiche ben documentate determini
una condizione psico-fisica che comporta una riduzione a meno di un terzo della sua capacità
lavorativa in attività confacenti.
La patologia principale è una sindrome dolorosa cronica, esito dei numerosi interventi al
rachide lombare – Sindrome da chirurgia del rachide fallita (vedi visita specialistica del
26/11/99) – che si caratterizza per la presenza di un intenso dolore in regione lombare
con irradiazione all’arto inferiore destro, sub-continuo, che si viene ad esacerbare col
mantenimento di posizioni coatte e sotto sforzo, causa di frequenti episodi di blocco articolare
antalgico e di difficoltà al cammino. Tale dolore, inoltre, presenta frequenti esacerbazioni
notturne che causano serie difficoltà del sonno.

È certo che «la misura del dolore», cioè la valutazione, nel nostro caso, se il dolore è di
intensità tale da potersi configurare come una malattia che ha causato una riduzione a
meno di un terzo della capacità lavorativa dell’assistito in attività confacenti non risulti
cosa agevole, mancando gli strumenti che possano oggettivare tale misura e, pertanto, il
giudizio il più delle volte si forma dall’analisi e valorizzazione di elementi indiretti.
In primo elemento da considerare nella valutazione dell’intensità del dolore sono le conseguenze
che questo ha comportato sulla vita della persona. Nel caso in esame la sindrome
dolorosa cronica è stata nella sostanza causa del suo licenziamento, dopo 26 anni di
lavoro, per superamento del periodo di comporto.
Inoltre, la sintomatologia dolorosa si è progressivamente intensificata a partire dall’intervento
subito nel 1993, fino a divenire di intensità tale da rendere necessari ripetuti
ricoveri, interventi chirurgici, terapie riabilitative ed accertamenti specialistici protrattisi
dal 1993 fino ai giorni nostri, quando – a seguito di visita specialistica dell’11/03 –
fu prescritta terapia neuromodulatoria invasiva, a scopo palliativo, per lombosciatalgia
severa ingravescente
Esemplificativa della condizione sofferta dal Sig. Alonge risulta essere la già citata relazione
del novembre 1999.
In conclusione il nostro assistito, disoccupato, ha svolto per 26 anni l’attività di ausiliario
ospedaliero. In seguito a ripetuti interventi al rachide lombare e alla grave sindrome
dolorosa conseguente è stato licenziato per superamento del periodo di comporto.
In base alle considerazioni sulla gravità del dolore sofferto che come tale non rappresenta
più un sintomo ma una vera e propria malattia e in considerazione degli stretti ambiti
della sua confacenza lavorativa, così come nello spirito della legge 222/1984, si ritiene
che sia da considerare invalido.
b) Dalla Consulenza Tecnica d’Ufficio (17 gennaio 2005)
◗ CONCLUSIONI
Si conferma che fu sottoposto ad intervento di asportazione di ernia discale L4-L5 nel
settembre 1993 e successivamente a plurimi interventi di fissazione vertebre lombari per
listesi in cicatrice esuberante interna.
Per detta patologia e per l’insorgenza di importantissima sintomatologia dolorosa invalidante,
si sottopose a plurime terapie con scarso beneficio ed effetti collaterali devastanti.
L’applicazione di neurostimolatore a scopo antalgico si rivelò fallimentare. Si segnala
inoltre l’insorgenza di sindrome depressiva reattiva alla malattia stessa ed al licenziamento
dopo 25 anni di servizio in ambito sanitario. Si riconosce una invalidità superiore ai
2/3 ex legge 222/1984 con decorrenza 11/3/2004 [data del ricovero per l’impianto del
neurostimolatore poi risultato inefficace].
65
Relazioni

Soggettività e dolore
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c) Sentenza (21 aprile 2005)
…dichiara che la capacità lavorativa del ricorrente in occupazioni confacenti alle sue attitudini
è ridotta in modo permanente a meno di 1/3 a far tempo dall’11 marzo 2004 e,
per effetto, condanna l’INPS a pagare in favore del ricorrente l’assegno ordinario di invalidità
a decorrere dal 1° aprile 2004…
3. Operaio metalmeccanico: sindrome algodistrofica e neuromi d’amputazione terzo
dito mano destra. Causa nei confronti dell’INAIL sulla valutazione del grado di
inabilità permanente (ex T.U.)
a) Dalla perizia di parte (23 febbraio 2004)
◗ STORIA DEL CASO
Il lavoratore subiva in data 30 marzo 2000 un trauma da strappamento e schiacciamento
al 3° dito della mano destra (soggetto destrimane) con estesa perdita di tessuti molli e
detroncazione falange ungueale. Fu sottoposto in pari data a debridment della lesione e
copertura cutanea con lembo di scivolamento (v. certificato INAIL del 22/8/00).
Come riportato nello stesso certificato «…attualmente l’infortunato presenta moncone
doloroso di amputazione con iniziali segni di algodistrofia; ha effettuato ginnastica di
mobilizzazione del dito e FKT di desensibilizzazione senza beneficio…».
Per tale motivo fu sottoposto in data 25/9/00 ad intervento di «pulizia chirurgica più
asportazione neuromi dolenti all’apice del moncone».
Successivamente, dato il persistere dei dolori a carico del moncone e la comparsa di secrezioni
siero corpuscolate dal solco sottoungueale (certificato INAIL del 28/8/01 e certificato
Ortopedia e Traumatologia Ospedale di Circolo di Varese dell’1/10/01) fu sottoposto
l’11/1/02 ad onicectomia ed asportazione di neuromi per «Moncone doloroso falange
distale III dito mano destra».
Tale intervento non modificò il quadro sintomatologico tanto che il mese successivo fu
visitato presso il Centro Terapia del Dolore dell’Ospedale di Circolo di Varese dove «…il
quadro algologico e la presenza di segni di attivazione simpatica depongono per diagnosi
di algodistrofia al primo stadio. Si programma blocco del sistema regionale con infusione
retrograda endovenosa di guanetidina… Prossima visita con blocco simpatico il
giorno 6 marzo 2002…».
Il giorno 12 marzo fu sottoposto ad ulteriore «blocco tronculare nel neurone con integrazione
blocco nervo mediano…».
Il giorno 25 marzo 2002, vista l’inefficacia delle terapie rifiutò ulteriori interventi. Data
l’intensità del dolore, nella primavera del 2003 fu sottoposto ad ulteriore blocco tronculare
senza esiti di rilievo.

All’inizio del 2004 dopo una ulteriore visita presso l’Ambulatorio di Clinica Ortopedica
e Traumatologia dell’Ospedale di Circolo di Varese fu valutato come «…Visto lo scarso risultato
della terapia chirurgica non si ritiene opportuno reintervenire chirurgicamente».
◗ ESAME OBIETTIVO
Riferisce intensa dolorabilità (ipersensibilità dolorosa) al moncone quando sottoposto a
sforzo e al tocco, con anche sensazione di scossa elettrica all’apice del moncone e alla superficie
radiale dello stesso. Per esposizione a freddo, o per contatto con superfici fredde,
riferisce alterazioni vascolari di rilievo con moncone francamente cianotico e aumento
della ipersensibilità dolorosa. Riferisce inoltre significative difficoltà nell’uso della mano
a causa del moncone doloroso, con un suo utilizzo sempre più limitato e comparsa di facile
stancabilità a carico di tutta la mano, con frequenti crampi a livello del palmo. La situazione
è tale che per lavorare deve spesso legare il moncone all’indice.
Attualmente si evidenzia a carico della mano una marcata ipotrofia delle eminenze tenar,
ipotenar, interossei palmari. Riduzione significativa della forza con pinze ipovalide. Ipotrofia
del moncone con alterazioni nella vascolarizzazione (cianosi di tutto il moncone).
Anchilosi in estensione dell’interfalangea distale. Intensa dolorabilità alla digito pressione
all’apice del moncone e lungo la sua superficie dorsale e radiale.
◗ CONCLUSIONI
Appare evidente dalla storia clinica e dall’obiettività attuale come l’assistito, in conseguenza
dell’infortunio del marzo 2000, presenti una significativa limitazione nell’uso
della mano destra in conseguenza di un moncone doloroso (3° dito della mano), resistente
a plurimi interventi chirurgici e terapie antalgiche. Nell’ultima visita specialistica
del gennaio 2004 viene di fatto abbandonata ogni possibilità di soluzione chirurgica.
L’INAIL con riferimento alle Tabelle del Testo Unico del 1965 (DPR 30 giugno 1965,
n. 1124), ha riconosciuto al lavoratore postumi permanenti dell’8% per «Amputazione
parziale falange distale 3° dito mano destra, rigidità in estensione dell’interfalangea distale,
lieve atrofia ossea».
La valutazione dell’INAIL non appare congrua in quanto non considera, in aggiunta a
quanto definito come postumi, l’importante sintomatologia algodistrofica a carico del
moncone che lo rende funzionalmente non utilizzabile e anzi responsabile di una significativa
limitazione nell’uso della mano destra.
In considerazione di quanto esposto si chiede venga riconosciuto all’assistito un grado di
inabilità permanente pari al 13%.
b) Dalla Consulenza Tecnica d’Ufficio (10 marzo 2005)
◗ ESAME OBIETTIVO
Mano dx: aspetto ipotrofico, sudaticcio, ricoperta da cute con aspetto ipotrofico, lucida
arrossata. Il terzo dito appare parzialmente amputato a livello della terza falange con con-
67
Relazioni

Soggettività e dolore
68
servazione dell’articolazione interfalangea distale. La conservazione dell’apparato tendineo
ne permette, anche se in misura limitata, la flesso estensione. Alterazione della sensibilità
(per quanto esplorabile in quanto il contatto con il dito esaminante provoca dolore)
da neuroma d’amputazione sia sul lato radiale che su quello ulnare del dito. Il segno
di Tinel lungo il nervo mediano appare positivo fino alla piega del polso. Obiettivabile
una difficoltà nello svolgere con il dito la funzione di pinza.
◗ CONCLUSIONI CLINICHE
Idoneo alla mansione di trafilatore, sua attuale occupazione, che riesce comunque a svolgere.
Vi sono però da considerare le limitazioni causate sia dal dolore indotto dal neuroma
d’amputazione che da quello provocato dalla sindrome algodistrofica di cui il paziente
è senza dubbio affetto e che non permettono una corretta utilizzazione della mano dx
in soggetto destrimane. Si ritiene quindi di poter fare diagnosi di «Algodistrofia riflessa
della mano dx in soggetto destrimane in esiti di detroncazione falange distale terzo dito.
Neuromi d’amputazione multipli.
◗ GIUDIZIO EPICRITICO
Possiamo affermare che sono residuati postumi permanenti indennizzabili valutabili
sulla base del Testo Unico 1124/65 nella misura del dodici per cento (12%) della capacità
lavorativa generica operaia. Questo in quanto anche se non siamo in presenza
della perdita anatomica del terzo dito di fatto siamo di fronte alla sua perdita funzionale
in quanto il dolore che da esso si origina con la sindrome algodistrofica indotta
arreca anche discreto nocumento alla funzione generica della mano considerata nella
sua globalità.
(In seguito a delle obiezioni poste dal CTP INAIL, dopo discussione delle parti di fronte
al giudice, viene convocata una nuova CTU per integrazione)
c) Dalla Integrazione alla Consulenza Tecnica d’Ufficio (21 novembre 2005)
In particolare mi si è richiesto di integrare la mia precedente relazione anche in merito
alla nota a margine della CTU presentata dal CTP INAIL.
Nella citata nota si contesta la diagnosi di algodistrofia formulata dal CTU e si contesta
il punteggio assegnato. Si sottolinea inoltre che il ricorrente non ha mai fatto ricorso al
medico aziendale e che nessun provvedimento restrittivo è stato preso a livello aziendale
nei confronti del ricorrente.
Il ricorrente ha ripetuto quanto affermato in precedenza e cioè di non poter usare la mano
se non unendo il terzo dito al quarto con un elastico o un guanto pena dolori urenti e che
il freddo acuisce la sintomatologia provocandone la insorgenza anche a completo riposo.
Nel corso dell’esame si viene a conoscenza dallo stesso ricorrente che, a seguito di visita del medico
di Fabbrica del 16 marzo 2005, è stato licenziato per giusta causa in data 23 marzo

2005 in quanto non idoneo, a causa dei postumi dell’infortunio, alla attività in ambito produttivo
presso i vari reparti dell’azienda per cui lavora.
Obiettivamente si rilevano reperti clinici invariati, in particolare si verifica come il semplice
sfioramento del terzo dito provochi dolori, la presenza del segno di Tinel a livello
del polso, la normalità della cute dei polpastrelli del I e II dito a fronte dell’aspetto lucido,
ipotrofico e sudaticcio di quella del III, IV e, un poco meno, V dito.
La pinza tra il primo e il terzo dito appare impossibile mentre è possibile quella tra primo
e secondo.
Ne deriva quindi la conclusione di ritenere tuttora valide le conclusioni raggiunte in precedenza.
Non è da presumere un miglioramento anche con intervento chirurgici, di cui
due già eseguiti senza esito, come spesso succede in questa patologia, affermazione che
mi permetto di fare anche per l’esperienza maturata in oltre quaranta anni di attività chirurgica
ospedaliera. (Vengono poi verbalizzate le conclusioni dei CTP)
CTP INAIL: anche l’altra mano appare sudaticcia, vi è rappresentazione cutanea da uso,
interessante il primo e secondo dito e normo mobilità delle articolazioni metacarpo falangea
e interfalangea prossimale del secondo dito, nonché normo mobilità del quarto e
quinto dito che partecipano efficacemente alla formazione del pugno e nella efficienza
prensile della mano, inoltre non risultano eseguite indagini strumentali, il quadro riscontrato
non permette di identificare sindrome algodistrofica.
CT parte ricorrente: il quadro clinico risulta sovrapponibile a quanto descritto in sede
di precedente CTU, in particolare si rileva ipersudorazione a dx rispetto alla controlaterale,
assenza di callosità al palmo, l’articolarità rilevata non è rappresentativa della funzionalità
dell’arto nelle comuni attività quotidiane e non può quindi essere considerata
dato di normalità.
Ribadisce che la storia clinica riassunta in tre interventi chirurgici, quattro blocchi del
simpatico regionale con iniezioni di guanetidina e due diagnosi di algodistrofia formulate
da due enti differenti [INAIL e Centro di Terapia del Dolore] confermano nella forma
e nella sostanza la diagnosi posta dal CTU.
Il recente licenziamento per giusta causa, conferma, qualora ce ne fosse ulteriore necessità,
le gravi limitazioni della mano durante il suo normale utilizzo.
d) Sentenza (4 maggio 2006)
a) dichiara il diritto del ricorrente all’indennizzo di grado pari al 12%;
b) condanna l’INAIL al pagamento della relativa prestazione.
L’Ente assicuratore ha interposto appello con discussione della causa fissata per il
1°.4.2008.
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Relazioni

Soggettività e dolore
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◗ CONCLUSIONI
La valutazione di «quanto» può valere il dolore, è materia complessa, soprattutto se si
persiste nel valutare il danno come sola espressione di deficit funzionali misurati in ambulatorio.
I casi presentati sono, da un certo punto di vista, «casi facili» in quanto la storia
individuale e l’ampia documentazione prodotta possono indirizzare verso un giudizio
equilibrato. Esistono però decine di altri casi per i quali il dolore è «solo» un sintomo riferito
e non esiste alcuna prova a supporto. È abbastanza frequente in queste situazioni
leggere perizie in cui pur sottolineando che, ad esempio, il soggetto non può sollevare
pesi per un dolore articolare, la percentuale del danno viene valutata in base alla sola limitazione
dell’escursione di quella data articolazione.
Come nell’ultimo caso discusso, il consulente di parte INAIL fa una corretta disamina
delle articolarità dei singoli segmenti, negando nella sostanza l’importanza del dolore sofferto
nel limitare funzionalmente la mano nell’uso ad essa deputato e confermando la valutazione
del danno quale espressione di una pura lesione anatomica. All’opposto questa
stessa disabilità è stata giudicata da un medico del lavoro causa di non idoneità all’espletamento
di attività produttive in un settore metalmeccanico, provocando con questo giudizio
il licenziamento del lavoratore per giusta causa. In sostanza il medico del lavoro ha
valutato la funzionalità di questa mano gravemente compromessa a causa degli esiti
«complessivi» dell’infortunio subito dal lavoratore.
Il dolore, come più volte ribadito, è anche espressione di una soggettività e pertanto sarebbe
altresì sbagliato considerarlo sempre, in modo acritico, un fattore aggravante una
determinata patologia o lesione anatomica. In alcune situazioni, pertanto, in assenza di
validi elementi di supporto a quanto riferito, sarebbe opportuno avvalersi della consulenza
degli specialisti che operano nelle UO Ospedaliere per la Terapia del Dolore.

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Approfondimenti
In questa sezione dei Quaderni di Medicina Legale del Lavoro si vuole dedicare
spazio ad alcuni temi che presentano importanti ricadute sul versante della tutela
delle lavoratrici/lavoratori.
Si riporta di seguito il parere medico-legale, la consulenza tecnica specialistica e la
sentenza n. 103/2007 del Tribunale di Lecco sul riconoscimento di ipoacusia professionale
in un lavoratore edile, che, dopo i primi anni di attività come apprendista
e muratore, ha svolto prevalentemente fino alla data di pensionamento
l’attività di conduttore di automezzi e macchine di spostamento terra. Si ritiene
in particolare interessante il dato riferito alla casistica personale del Consulente
tecnico dott. Dario Brini che conferma i risultati del gruppo di lavoro della Regione
Lombardia.
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Approfondimenti

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Parere medico-legale sul mancato riconoscimento
di una ipoacusia professionale
di Lelia Della Torre*
▼ Parere medico-legale sul mancato riconoscimento
dell’ipoacusia professionale presentata
dal sig. ………………………………………….……………………….
Il Sig. ……………….. presenta una ipoacusia percettiva bilaterale neurosensoriale,
come da esami audiometrici del 24.09.02 eseguito presso l’ambulatorio di Audiologia
dell’Ospedale di Merate e dell’01.06.04 eseguito presso l’Ambulatorio di
Audiologia Industriale della Clinica del Lavoro di Milano, tracciati compatibili con
un quadro di ipoacusia professionale.
L’INAIL non riconosce l’origine professionale dell’ipoacusia in quanto non sarebbe
stata sufficientemente provata l’esposizione al rischio.
❚ Anamnesi lavorativa
Il Sig. ………………… ha lavorato:
◗ per circa quattro anni, dal 1965 al 1969, come manovale in edilizia
◗ dal 1970 al 31.12.02 addetto alla guida di camion, ruspa, rullo compressore, ruspa
con martellone per scavi in edilizia prevalentemente civile (poca edilizia stradale)
per allacciamenti fognari, marciapiedi, ecc.
Uso saltuario ma ripetuto di martello elettrico e/o pneumatico (poche ore alla settimana),
senza disporre di otoprotettori, fino ai primi anni ‘90, in attività di demolizioni
in aiuto dei compagni di lavoro.
Nell’ultimo decennio l’attività svolta è stata quasi esclusivamente quella di autista
di camion.
* Consulente medico legale INCA CGIL Lombardia
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Approfondimenti

Soggettività e dolore
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❚ Esposizione al rischio
Non si è in possesso delle misurazioni fonometriche effettuate presso le diverse aziende
ma è presumibile che siano dello stesso ordine di grandezza di quelle relative agli addetti
alle varie lavorazioni edili (escavatore, pala, martello elettrico e pneumatico ecc.) riportate
in letteratura con Lep, livello di esposizione personale a rumore, compreso tra 86 e
95 dBA, come da:
1. Valutazione effettuata dal Settore Fisico Ambientale, Presidio Multizonale di Prevenzione,
USL 2, Piacenza, presentata al XXI Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana
di Acustica Padova 31 marzo - 2 aprile 1993 (fotocopia in allegato) in cui si rileva
che in edilizia «l’applicazione del D.L. 277/91 comporta notevoli difficoltà metodologiche.
Un primo problema è sicuramente legato all’ambiente di lavoro che non è fisso,
né ha caratteristiche specifiche ma si differenzia anche in misura notevole da caso a
caso, in quanto ogni singolo cantiere risulta in qualche misura diverso dagli altri ed
inoltre subisce continui mutamenti nel corso del tempo. Allo stesso modo l’attività
svolta da un lavoratore edile può variare notevolmente da cantiere a cantiere ed anche
all’interno dello stesso cantiere in relazione all’avanzamento dei lavori… risulta che il
rischio rumore rappresenta uno dei principali fattori di nocività ambientale per il comparto
edile e che tale comparto si colloca al 3° posto (dopo il settore metalmeccanico e
chimico) per numero di denunce di ipoacusia professionale... nella Tabella 1 sono riportati
i valori medi di rumorosità rilevati in postazione operatore che risultano pari a:
94,1-102,2 durante l’uso del martello demolitore elettrico
104,3-111,2 durante l’uso del martello demolitore pneumatico
72,2 operatore alla guida di autocarro
86,0 operatore autocarro comandi gru
87,7-94,6 durante l’uso di pala escavatore».
2. Stima dell’esposizione estrapolata dalle tabelle ISO/R 1999 a seguito dell’indagine
audiologica svolta su 1.058 lavoratori di 97 imprese edili in «Le malattie da lavoro
in edilizia» di G. Mosconi e coll., Atti del Convegno tenutosi a Bergamo il 18 giugno
1999 (fotocopie in allegato). I risultati dell’indagine audiologica documentano
che circa il 50% degli indagati presenta un deficit da rumore. Risultando molto difficile
stimare, attraverso l’effettuazione di misure ambientali, l’esposizione a rumore
dei lavoratori del settore in quanto è complesso definire i compiti ed i tempi delle
attività svolte dagli operatori del cantiere, gli autori hanno stimato utilizzando le
tabelle ISO/R 1999 l’esposizione a rumore, che risulta superiore ai 90 dBA per muratori,
carpentieri ed operai comuni e superiore agli 85 dBA per autisti, gruisti ed
impiegati tecnici.

3. Valutazione, promossa dal Comitato Paritetico territoriale per la Prevenzione Infortuni,
l’Igiene e l’Ambiente di Lavoro di Torino e Provincia finanziata dalla CEE, che ha
analizzato il livello di esposizione a rumore degli addetti in relazione ai vari tipi di cantiere,
alle diverse fasi di lavorazione ed ai diversi macchinari utilizzati. Ne è scaturito
un voluminoso studio (Prontuario dei rilievi strumentali) da cui vengono tratte le informazioni
sulla esposizione al rischio rumore qui riportate (fotocopie delle schede di
rilevazione in allegato):
◗ l’uso di martello pneumatico espone l’addetto a valori medi di 101,4 dBA (foglio
N12);
◗ l’uso di martello elettrico demolitore espone l’addetto a livelli di 96,8-100,8 dBA
(foglio 13);
◗ l’autista di autocarro ha un Leq medio di 77,6 dBA (foglio N1);
◗ l’operatore di pala ha un Leq medio di 89,7 dBA (foglio N1);
◗ l’operatore di escavatore ha un Leq medio di 82,7- 88,1 dBA (foglio N1);
◗ l’addetto al martello su escavatore ha un Leq di 95,7 dBA (foglio B.13).
La lavorazione di «perforazione con martello pneumatico» è tabellata (lettera n voce 50
DPR 336/94) presumibilmente per l’elevatissimo livello di rumorosità prodotto in tale
lavorazione, ben noto in letteratura, per cui anche un utilizzo discontinuo del martello
pneumatico espone l’addetto a livelli otolesivi. Si consideri per esempio che l’operaio
utilizzi per sole 2 ore al giorno il martello pneumatico e che per le altre operazioni svolte
sia esposto ad un livello di 84 dBA per 6 ore. Passando agli antilogaritmi (13,804 per
101,4 e 0,2512 per 84 dBA) posso pesarli rispetto al tempo di esposizione:
2 / 8 x 13,804 + 6 / 8 x 0,2512
ottengo un valore 3,73940 che mi permette di valutare il Lep giornaliero cioè il livello
di esposizione personale dell’addetto ritornando ai logaritmi: 95,75 dBA livello decisamente
elevato e sicuramente otolesivo.
4. In «La valutazione dell’esposizione professionale al rumore: procedure, errore di misura,
criterio di decisione» (S. Atzeri, P.L. Cocco, Med. Lav., 2004; 95, 3: 198 - 210)
si evidenzia che «una esposizione parziale a 110 dBA per soli 5 minuti è in grado di
incrementare un’esposizione quotidiana da 84 dBA ad oltre 91 dBA... in presenza di
spostamenti non regolari dell’operatore, inoltre, il tempo di esposizione nelle diverse
aree può essere stimato solamente in termini probabilistici, introducendo un ulteriore
elemento di incertezza nella ricostruzione dell’attività lavorativa come sovrapposizione
di fasi elementari... in presenza di condizioni variabili di esposizione, in conseguenza
della variabilità temporale del rumore e/o della mobilità dell’operatore, se il fenomeno
acustico non è misurato integralmente, la misura può risultare affetta da un
errore non stimabile, tale da rendere la determinazione non attendibile».
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Soggettività e dolore
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▼ Considerazioni
Il danno uditivo da rumore si manifesta a carico delle strutture nervose dell’orecchio interno
in maniera subdola ed in genere inavvertita. La gravità del danno è proporzionale
alla quantità di energia sonora per rumori di tipo continuo di livello costante mentre le
lesioni sono più marcate per rumori di tipo impulsivo, come quelli presenti in edilizia, che
sembra agiscano con meccanismo di tipo meccanico con distruzione delle cellule nervose.
Anche l’età per processi di invecchiamento riduce la capacità uditiva provocando la
cosiddetta presbiacusia; rumore ed età sembrano agire in modo sinergico nella patogenesi
del danno con alterazioni vascolari, metaboliche e degenerative. In sintesi il danno da
rumore dipende dal livello di rumore, dal tipo di rumore (impulsivo o continuo), dalla durata
dell’esposizione, dalla suscettibilità individuale.
Il danno da rumore si caratterizza per un tracciato audiometrico tipico (in cui all’inizio
sono danneggiate le frequenze acute e solo in tempi successivi quelle medio basse) per
cui nel caso di un soggetto portatore di un deficit con le caratteristiche dell’ipoacusia da
rumore, dalla cui storia non emerge alcuna causa (terapie farmacologiche, diabete, ecc.)
che possa essere responsabile del danno uditivo, tranne l’aver lavorato per un certo numero
di anni esposto a rumore, è corretto fare diagnosi di ipoacusia da rumore.
Il Sig. ………………… ha lavorato per più di 30 anni in edilizia con esposizione a rumore
otolesivo, documentata in lavorazioni analoghe.
Poiché non risultano altre esposizioni extra-professionali a traumi sonori continuati né
altre patologie all’origine del danno e poiché il tracciato audiometrico presenta i caratteri
dell’ipoacusia da rumore (danno bilaterale, simmetrico, percettivo, più grave per le alte
frequenze) si ritiene che esistano tutti gli elementi per considerare che l’ipoacusia presentata
dal Sig. …………….. sia di natura professionale, presumibilmente contratta nei
primi decenni di esposizione al rischio quando non svolgeva solo la mansione di autista
di camion ma anche le altre sopra riportate.
Dott.ssa Lelia Della Torre
Imbersago 24.08.2004

Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Relazione di consulenza tecnica specialistica
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Quaderni
di Medicina Legale del Lavoro
Sentenza del Tribunale di Lecco n. 103/07
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