Tra falso e mito, Michael Gaismair e i suoi presunti Statuti - EmScuola
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<strong>Tra</strong> <strong>falso</strong> e <strong>mito</strong>,<br />
<strong>Michael</strong> <strong>Gaismair</strong><br />
e i <strong>suoi</strong> <strong>presunti</strong> <strong>Statuti</strong><br />
di Giorgio Politi<br />
215<br />
CINQUECENTO 83
<strong>Tra</strong> <strong>falso</strong> e <strong>mito</strong>,<br />
<strong>Michael</strong> <strong>Gaismair</strong><br />
e i <strong>suoi</strong> <strong>presunti</strong> <strong>Statuti</strong><br />
Se si facesse un’apposita indagine si scoprirebbe, credo, che il termine “<strong>falso</strong>”<br />
viene ricollegato dal senso comune storiografico ai secoli “bui” dell’età di mezzo.<br />
Una simile impressione sarebbe però sbagliata; la presenza del <strong>falso</strong> documentario<br />
percorre trasversalmente tutte le epoche della storia e tende, casomai, ad<br />
accentuarsi man mano che si moltiplicano le occasioni del <strong>falso</strong> stesso, cioè man<br />
mano che cresce il ruolo della comunicazione sociale: è proprio l’epoca in cui viviamo,<br />
quindi, a risultare particolarmente esposta ai rischi della falsificazione — come<br />
chiunque può verificare in prima persona ripensando agli avvenimenti di questi ultimi<br />
tempi.<br />
Quando, del resto, alcuni anni or sono, decisi di dedicare un corso al problema del<br />
<strong>falso</strong> in età moderna, reperire materiale non mi costò alcuna fatica. Ma la sorpresa più<br />
grande fu constatare che la comparsa e l’efficacia del <strong>falso</strong> prescindono dall’esistenza<br />
d’un falsario; per quanto infatti i falsari siano bravi (e spesso lo sono) il loro ruolo<br />
rimane meramente tecnico, si limita cioè a materializzare credenze, desideri, timori<br />
già esistenti e dotati di vita autonoma. I veri falsari, insomma, siamo noi, che con un<br />
atto di volontà decidiamo di credere qualcosa che ci viene proposto o addirittura di<br />
crearlo, quando nessuno lo proponga: da questo punto di vista la genesi del <strong>falso</strong> è<br />
prossima a quella del <strong>mito</strong> e con questa s’intreccia.<br />
Ho voluto premettere queste considerazioni allo scopo d’inquadrare meglio il problema<br />
costituito dai cosiddetti <strong>Statuti</strong> rivoluzionari tirolesi per molto tempo (anche se non<br />
da sempre, né da tutti) attribuiti al celebre capo dei contadini <strong>Michael</strong> <strong>Gaismair</strong>, cui<br />
ho dedicato oltre dodici anni di ricerche. Questo mio interesse si ricollegava a un’indagine<br />
molto più ampia, riguardante le origini e i caratteri degli stati territoriali sorti<br />
nel basso medioevo europeo, con particolare riguardo all’Italia centro-settentrionale,<br />
alla Penisola iberica e all’Impero tedesco. L’analisi dei conflitti che quasi ovunque<br />
hanno accompagnato la nascita di questo tipo di stato, ma soprattutto l’esame delle<br />
due maggiori rivoluzioni europee protomoderne, la guerra delle comunidades di Castiglia<br />
nel 1520-21 e il cosiddetto Bauernkrieg nel 1525-26, mi aveva convinto che il<br />
concetto di “rivoluzione dell’uomo comune”, proposto da P. Blickle in riferimento<br />
alla seconda, e la tesi d’un confronto, verificatosi agli inizi dell’età moderna appunto,<br />
fra un modello proto-assolutista di stato e uno federale-corporativo, dovevano essere<br />
generalizzati; e che proprio la cosiddetta Landesordnung poteva essere assunta a manifesto<br />
esemplare d’un tale tipo di stato alternativo, “democratico” quanto poteva esserlo<br />
una formazione istituzionale al cadere del medioevo.<br />
Alcune cose, però, non mi risultavano chiare, soprattutto rispetto al problema della<br />
tradizione del testo, di come cioè questi <strong>presunti</strong> statuti erano pervenuti fino a noi e di qual<br />
fosse il loro esatto tenore. Com’è noto, il documento ci è giunto in tre diverse redazioni<br />
manoscritte, una delle quali conservata nello Haus-, Hof- und Staatsarchiv di Vienna, l’altra<br />
nell’Archivio diocesano di Bressanone e la terza nell’Archivio di stato di Bolzano. L’ultimo di<br />
questi testimoni risulta smarrito a partire dalla seconda guerra mondiale; nessuno ha più potuto<br />
utilizzarlo dopo che A. Hollaender, il quale l’aveva ritenuto “la versione più antica, contemporanea”<br />
del documento, vi ebbe “fondato” una famosa edizione del documento stesso, comparsa<br />
nello “Schlern” del 1932. Gli altri due testimoni, però, esistono ancora: ogni riesame del<br />
problema della tradizione del testo doveva dunque partire di qui. Quale fra questi due testimoni<br />
era il più antico? Quali rapporti intercorrevano fra loro?<br />
84 CINQUECENTO<br />
216
215. Al crepuscolo uomini a<br />
pesca di gamberi, Tiroler<br />
Fischereibuch, XVI sec.<br />
216. Testimone di Vienna.<br />
Filigrana verticale su tre filoni<br />
raffigurante un bucefalo a<br />
corna convergenti con orecchie,<br />
occhi discosti e marchio<br />
triangolare in fronte sormontato<br />
da un biscione a due<br />
spire avvolto attorno ad una<br />
croce (scala 1:1).<br />
217. Testimone di<br />
Bressanone. Filigrana verticale<br />
su due filoni raffigurante<br />
un’aquila bicipite con occhi,<br />
lingue, sette penne per<br />
ciascun’ala, coda a tre penne<br />
e rostri di quattro dita ciascuno,<br />
recante sul petto la<br />
lettera K (scala 1:1).<br />
217<br />
La risposta a questi quesiti doveva<br />
essere trovata in base a<br />
elementi il più possibile obiettivi<br />
e non a mere valutazioni<br />
personali, come troppo spesso<br />
la storiografia precedente<br />
aveva fatto. Pensai quindi di<br />
ricorrere a un esame assai<br />
semplice, ma a cui nessuno<br />
aveva ancor pensato, quello<br />
delle filigrane, e il risultato fu<br />
perentorio: il testimone<br />
viennese risaliva agli anni<br />
1525-29, era cioè contemporaneo<br />
alla rivoluzione tirolese,<br />
(cfr. fig. 216) mentre quello<br />
brissinense era stato eseguito,<br />
senza possibilità di dubbio,<br />
negli ultimi anni del Cinquecento<br />
(cfr. fig. 217); queste<br />
conclusioni erano compatibili<br />
anche con i dati paleografici,<br />
cioè con l’analisi della scrittura<br />
dei documenti.<br />
Ora, non sappiamo se il testimone<br />
viennese rappresenti un<br />
originale; quello brissinense<br />
invece, se non altro per motivi<br />
di cronologia, può essere<br />
solo una copia. E poiché è impossibile<br />
copiare un testo<br />
qualsiasi di ragionevole lunghezza<br />
senza commettere errori, un esame attento di quelli riconoscibili nel testo brissinense<br />
dimostra ch’esso è una copia proprio del testimone viennese. Non solo: alcuni di questi errori<br />
risultano condizionati dallo Zeitgeist, derivano cioè dalla distanza temporale interpostasi fra<br />
l’amanuense tardo-cinquecentesco e il Tirolo degli inizi del XVI secolo. L’esempio più chiaro<br />
in proposito è la totale incomprensione del copista brissinense verso il mondo delle miniere,<br />
un ramo economico che, quando egli scriveva, aveva abbandonato da anni le valli tirolesi.<br />
Veniamo ora al testimone di Bolzano. L’opinione generalmente accettata, ch’esso sia perduto,<br />
non corrisponde del tutto alla realtà, poiché di esso sono perduti i soli caratteri cosiddetti<br />
estrinseci (carta, inchiostro, scrittura), non già quelli intrinseci, e cioè il testo; un secolo prima<br />
dell’edizione Hollaender, infatti, il testimone di Bolzano era stato copiato in una raccolta<br />
manoscritta oggi alla biblioteca Dipauliana del Ferdinandeum di Innsbruck; questa medesima<br />
copia uscì poi a stampa nell’appendice documentaria della Geschichte der Regierung Ferdinand des<br />
Ersten di F. B. von Bucholtz, pubblicata a Vienna nel 1838.<br />
Se dunque ci mancano sia le filigrane che la scrittura del testimone di Bolzano, possiamo<br />
sempre giovarci della filologia e constatare come il copista compia gli stessi errori di quello<br />
brissinense, errori cioè storicamente condizionati: ad esempio, egli non è più in grado di cogliere<br />
la pregnanza ideologica dell’aggettivo gemein, una vera e propria bandiera della rivoluzione<br />
del 1525, e scambia il gemaines lands notdurft, cioè i bisogni del Paese comune, del nuovo<br />
Stato che ha abolito i ceti privilegiati di nobiltà e clero, con il gemainer landsnottdurft, cioè con i<br />
bisogni ordinari del Paese. È chiaro dunque che anche il testimone di Bolzano è una copia,<br />
eseguita nella medesima temperie politico-religiosa di quella del testimone brissinense, cioè<br />
alla fine del Cinquecento.<br />
Ma non basta. Allegata al testimone di Vienna troviamo ancor oggi un’annotazione autografa<br />
di A. Hollaender, datata 8 ottobre 1932, ov’egli fornisce un’informazione decisiva, non riportata<br />
poi nel suo famoso saggio sullo “Schlern”, in base a cui nel documento sarebbero stati<br />
CINQUECENTO 85
“interpolati due nuovi articoli, non presenti nella copia bolzanese: Man soll ain wag, ain ellen und<br />
ainerlay satzung in ganzen lannd haben; man soll die confinen und päß in gueter verwarung haben”.<br />
Perché quest’informazione è così importante? Uno degli errori più frequenti nelle copie è<br />
quello che i filologi chiamano salto da omeoteleuto e che nasce dalla volontà inconscia<br />
dell’amanuense di abbreviare un lavoro poco gratificante: il copista salta da una parola a una<br />
parola uguale posta più oltre nel testo, eliminando tutto ciò che si trova fra le due.<br />
Questo è precisamente il nostro caso. In questa parte del testo, infatti, la cosiddetta Landesordnung<br />
consta d’una serie di brevi frasi che iniziano tutte con Man soll; ed è evidente che il copista ha<br />
saltato le due frasi citate da Hollaender, comprese fra Man soll hinfuran nur ain markht e Man soll<br />
ain taphere suma. Ma ciò significa che non è il testimone di Vienna a costituire una copia di<br />
218<br />
quello di Bolzano, come credeva Hollaender, ma esattamente il contrario. Questa conclusione<br />
è confermata da un altro errore: nell’articolo dedicato all’agricoltura, dove si dice che man<br />
möchte auch an vill orten ölpaumb setzen, l’amanuense di Vienna ha omesso la lettera “u”,<br />
sovrascrivendo però il segno diacritico (un mezzo arco) usuale nella scrittura gotica per distinguere<br />
la “u” da altre lettere graficamente simili, quali la “m”, la “n”, le “i”, ecc., sì che di fatto<br />
si legge, nel luogo in esame, “ölpamb” ; bene, il copista bolzanese scrive proprio ölpam.<br />
219<br />
Da tutto ciò possiamo trarre alcune prime conclusioni. Innanzitutto, l’attuale dispersione di<br />
diversi esemplari della cosiddetta Landesordnung in tre archivi diversi non ha nulla che fare né<br />
con la sua origine, né con un’ipotetica diffusione della stessa durante la rivoluzione del 1525-<br />
26, ma rappresenta una mera conseguenza della dispersione dell’archivio del Principato vescovile<br />
di Bressanone, ove tutti e tre i testimoni erano custoditi, in seguito alla soppressione del<br />
Principato stesso nel 1803; secondo, non esistono affatto tre diverse versioni del testo, ma<br />
solo una, nata durante la rivoluzione tirolese — il testimone di Vienna — e due copie di<br />
questa, eseguite quasi settant’anni più tardi nella cancelleria principesco-vescovile, probabilmente<br />
a opera della stessa persona.<br />
Non è difficile comprendere perché queste due copie fossero eseguite proprio allora. Dopo<br />
che i contadini erano rimasti tranquilli per tutto il Cinquecento, una nuova rivolta era scoppiata<br />
in Alta Austria fra il 1594 e il 1597; già nel 1592 v’erano state agitazioni in Allgäu e nel 1605<br />
le autorità d’Innsbruck paventeranno che nuovi torbidi, ancora in Allgäu, possano contagiare<br />
86 CINQUECENTO<br />
218. 219. Il testo del testimone<br />
di Vienna della presunta<br />
Landes Ordnung (particolari).
il confinante Tirolo. Fu proprio questo riaccendersi di conflittualità a rendere di nuovo attuale<br />
la vecchia carta del 1525.<br />
Questo documento però — il testimone di Vienna — è, come si dice tecnicamente, adespota,<br />
cioè anonimo, non reca alcuna indicazione d’autore: non possediamo neppure l’ombra d’una<br />
prova capace di riferirlo a <strong>Gaismair</strong>. Il collegamento fra esso e la figura del famoso capo<br />
“contadino” è stato fatto in realtà dagli esecutori (o dall’esecutore) delle due copie di fine<br />
Cinquecento: sono stati loro (lui) ad aggiungere al testo un preambolo e una conclusione che<br />
lo attribuiscono appunto al segretario brissinense divenuto, in un Tirolo oramai del tutto<br />
asburgico-controriformista, la figura negativa per eccellenza, il traditore eretico della Patria<br />
cui addebitare ogni possibile male. Del resto, il controllo su tutte le fonti originali dei dati<br />
biografici di cui disponiamo attorno a <strong>Gaismair</strong> nel periodo fra la sua fuga da Innsbruck e la<br />
sua morte a Padova nel 1532, cui ho proceduto, ha dato esito negativo: nessuno fra i contemporanei<br />
ha mai attribuito a <strong>Gaismair</strong> qualcosa che possa anche lontanamente essere identificato<br />
con il testo di Vienna. Risulta confermato quindi che questo testo è stato collegato a <strong>Gaismair</strong><br />
quasi settant’anni dopo la sua morte non in base a dati di fatto, ma a una leggenda.<br />
Fino ad oggi la cosiddetta Landesordnung è sempre stata letta nella convinzione che fosse stata<br />
scritta da <strong>Gaismair</strong> come programma o manifesto d’una progettata incursione nella Contea<br />
tirolese durante la primavera del 1526. Ma ora, che nulla può più esser dato per scontato,<br />
occorre esaminare il testo senza sottacerne contraddizioni, stranezze, ogni possibile traccia<br />
alternativa. Ora che abbiamo risolto il problema della tradizione, infatti, disponiamo sì d’un<br />
testo sicuro, ma molto abbiamo anche perduto: non sappiamo chi lo abbia redatto, né come, né<br />
perché.<br />
Questo scritto è stato davvero concepito come una sorta di statuto provinciale? Si possono<br />
avanzare molte riserve in merito. Gl’ignoti destinatari dell’appello iniziale avrebbero dovuto<br />
giurare infatti che avrebbero cercato di dar vita a una legge interamente cristiana; poco più oltre si<br />
prevede, d’altra parte, d’instaurare unità di misura unitarie e un’unica legge in tutto il Paese. Perché<br />
mai, però, un testo che di per se stesso avrebbe dovuto costituire uno statuto provinciale<br />
prescrive la compilazione d’uno statuto provinciale?<br />
Questo scritto è stato davvero concepito come un testo legislativo o prescrittivo? La cosa è<br />
dubbia. L’amanuense di Bressanone ha compiuto un errore, al proposito, assai significativo,<br />
male interpretando i “capitani di quartiere” (viertlhauptleut) che, in base al testimone di Vienna,<br />
avrebbero dovuto esser messi a capo di tutto il Paese, e ha letto: “Bisogna che noi capitani siamo<br />
posti a capo di tutto il Paese” (So soll wier hauptleith uber das gantz land gesetzt werden). Poiché<br />
l’antigrafo inizia con un’allocuzione (“Primo, prometterete e giurerete in questi termini …”) e,<br />
poco più oltre, si ritrova ancora un articolo in forma soggettiva (“Riguardo alle dogane mi<br />
parrebbe bene che …”), il copista brissinense, che ha attribuito il testo al capitano <strong>Gaismair</strong>,<br />
trasforma i viertlhauptleut, per lui incomprensibili, in wier hauptleith, mostrando d’intendere l’intero<br />
scritto come il testo d’un discorso che il capitano <strong>Gaismair</strong>, appunto, rivolgerebbe agli<br />
altri capitani, i quali invaderanno con lui la Contea tirolese. La Landesordnung diventa così una<br />
sorta d’oratio ficta — un lettura, peraltro, che l’antigrafo viennese non impone, ma neppure<br />
esclude.<br />
In tal modo la presunta Landesordnung, strappata a ogni contesto archivistico e senza nessuna<br />
sicura paternità, diventa un vero e proprio libro dai sette sigilli. Costituisce essa un testo<br />
unitariamente concepito o si tratta solo d’un elenco di proposizioni prive di congruenza, o<br />
magari di capi d’accusa stesi da un giudice o da un controversista per proprio uso personale?<br />
Certo, questo presunto manifesto è pieno di stranezze, difficoltà e contraddizioni: la lingua<br />
dell’articolo dedicato alle miniere è molto più popolare e discorsiva di quella del resto del<br />
documento; l’articolo sulle saline (Pfannhaus) appare un corpo estraneo; da un lato si punta a<br />
istituire un’amministrazione meno costosa e dall’altro si prevedono almeno undici fonti d’entrata,<br />
il che è assurdo; e così via.<br />
È peraltro possibile fissare alcuni punti fermi. In particolare, appare chiaro come i motivi che,<br />
durante il secolo appena trascorso, hanno scatenato così accesi dibattiti in merito a questo<br />
documento siano del tutto infondati: esso infatti non contiene nulla che possa richiamare le<br />
moderne teorie socialiste o comuniste.<br />
Non rappresenta alcuna anticipazione del comunismo il celebre articolo dedicato alle miniere.<br />
“Statalizzare” o “socializzare” le miniere infatti — questo hanno visto nel testo autori quali<br />
Franz, Macek, Blickle o Bücking — non era necessario, in quanto esse facevano già parte del<br />
CINQUECENTO 87
demanio dello Stato, ovvero del principe, il<br />
quale poteva certo impegnarle a compagnie private,<br />
ma non alienarle. Questa circostanza è<br />
menzionata del resto dallo stesso articolo in<br />
esame, là ove afferma che la nobiltà e le odiate<br />
compagnie commerciali concessionarie “si<br />
sono arricchite ai danni del patrimonio del Principe”<br />
(in fürstliche vermugen gereicht); le misure<br />
politiche qui previste, quindi, non costituiscono<br />
una statalizzazione nel senso del comunismo<br />
moderno, bensì un riscatto, forzoso e senza<br />
indennizzo, di regalìe — una misura rivoluzionaria,<br />
certo, ma nel senso del secolo XVI.<br />
Il secondo pilastro di ogni interpretazione della<br />
cosiddetta Landesordnung in chiave proto-socialista<br />
è poi costituito dall’articolo dedicato al<br />
commercio, ove sono previste, in sostanza, tre<br />
misure: il trasferimento a Trento di tutte le at- 220<br />
tività artigianali, essenzialmente tessili; la vendita<br />
obbligata di tutte le merci (a quanto sembra di capire) d’importazione in certi spacci da<br />
istituirsi nel Paese; la nomina d’un pubblico officiale incaricato di sovrintendere all’esecuzione<br />
di tali provvedimenti.<br />
Gli storici hanno ritenuto fino a poco tempo fa che questo articolo prescrivesse una<br />
statalizzazione integrale di manifattura e commercio, proibendo ogni esercizio di tali attività<br />
da parte di privati; nel testo però non si trova niente del genere, al contrario: se questo fosse il<br />
caso, infatti, su chi mai avrebbe dovuto vigilare l’officiale pubblico ivi previsto? L’equivoco è<br />
nato probabilmente dalla parola d’ordine del giusto prezzo, che il documento indica come il<br />
proprio obiettivo di fondo e che gli storici hanno fatto coincidere con il puro prezzo di costo<br />
delle merci, a esclusione di quello che noi consideriamo il profitto. Ma in tutto l’antico regime<br />
il giusto guadagno del commerciante o dell’artigiano veniva compreso fra i costi e non era affatto<br />
considerato un profitto; determinare e far rispettare questo giusto guadagno era l’obiettivo di<br />
fondo degli innumerevoli calmieri che in tutte le città europee si sono fatti per secoli — e, in<br />
effetti, nient’altro che un calmiere è quanto viene prescritto dal nostro articolo.<br />
Anche la concentrazione di tutti gli esercenti di un determinato ramo mercantile o artigianale<br />
in un unico posto, facilmente controllabile, rappresentava una misura comune nelle città europee<br />
medievali e moderne; spesso, del resto, esisteva uno stretto rapporto fra tale concentrazione<br />
e l’imposizione d’un calmiere. Talvolta la determinazione dei prezzi per legge non rappresentava<br />
un’opzione, ma una vera e propria necessità: il consumatore infatti non aveva di<br />
fronte soggetti economici isolati in concorrenza fra loro, ma controparti organizzate in corporazioni<br />
che operavano in regime di monopolio ed erano quindi anche in grado, al caso, di<br />
attuare pratiche monopolistiche.<br />
Anche i divieti d’esercitare in campagna sia l’artigianato che il commercio intermediario dei<br />
tessuti compaiono spesso negli statuti cittadini come parte dei privilegi urbani, pur se poi, il<br />
più delle volte, restavano lettera morta; tali misure infatti erano troppo anticontadine per<br />
poter essere messe davvero in pratica. Quando, d’altra parte, il borgomastro di Zurigo Hans<br />
Waldmann fece introdurre nel 1489 norme di questo genere dal Consiglio piccolo si ebbe, per<br />
tutta risposta, la più grande rivolta contadina nella storia del Cantone.<br />
Il nostro esame della cosiddetta Landesordnung si chiude così con una clamorosa sorpresa;<br />
considerato a lungo un manifesto rivoluzionario contadino, essa rivela invece elementi<br />
urbanocentrici talmente forti da far ritenere che nessuna persona ragionevole l’avrebbe mai<br />
adottata per reclutar seguaci nelle campagne. Di <strong>Gaismair</strong> però, che ben sapeva quello che<br />
faceva, risulta con assoluta certezza ch’ebbe sempre e solo un seguito contadino. L’analisi dei<br />
contenuti sembra quindi confermare i risultati della ricerca formale e rendere sempre più<br />
profondo il solco fra il celebre leader rivoluzionario e il testo che, per lungo tempo, gli è stato<br />
attribuito.<br />
Queste le principali linee argomentative esposte ne Gli statuti impossibili, l’opera con cui, nel<br />
1995, ho “agitato tempestosamente le acque” (come ha scritto A. Stella) dell’oramai imponen-<br />
88 CINQUECENTO<br />
220. Combattimento fra<br />
Carnevale e Quaresima,<br />
Pieter Bruegel il Vecchio,<br />
1559 (particolare).
te ricerca gaismairiana. A distanza di nove anni, e a bocce ormai ferme, credo valga la pena di<br />
tentare un bilancio.<br />
Nonostante l’interesse verso <strong>Gaismair</strong> e la “guerra contadina” in genere fosse visibilmente<br />
calato già a partire dalla metà degli anni Ottanta, credo di poter dire che il libro ha colto i<br />
propri obiettivi, raggiungendo — e in massima parte convincendo — sia il pubblico degli<br />
addetti ai lavori che quello, ben più ampio, di tutti coloro i quali sono a vario titolo interessati<br />
a questi argomenti; numerose sono state le università (Zurigo, Trento, Padova, Perugia) e le<br />
istituzioni culturali (a Bellinzona, Innsbruck, Bressanone, Bolzano, Trieste, Torre Pellice) dove<br />
ho potuto esporre le mie analisi; e molto numerose e approfondite sono state anche le recensioni.<br />
Al termine di questo ricco dibattito credo di poter dire che solo Aldo Stella, pur apprezzando<br />
e utilizzando il lavoro filologico da me speso nella restituzione del testo, non ha modificato<br />
le proprie posizioni e ha continuato a riasseverare l’autografia gaismairiana del documento,<br />
senza peraltro entrare nel merito neppure di una delle prove da me addotte; 1 tutti i<br />
recensori restanti (ad eccezione di G. Gullino che, prodigo di apprezzamenti, dichiara però la<br />
propria incompetenza nel merito) 2 si sono trovati concordi almeno su tre punti fondamentali:<br />
che il testimone di Vienna da me edito è l’unico valido, che il testo non risale direttamente a<br />
<strong>Gaismair</strong> ma è un assemblaggio di cancelleria, che i geniali precorrimenti del socialismo visti<br />
in esso sono frutto di un’allucinazione storiografica.<br />
Aldilà di questo comune denominatore, le posizioni variano poi dall’adesione entusiastica a<br />
quanto da me sostenuto di G. Albertoni e del Südtiroler Illustrierte al consenso meditato e critico<br />
di M. Meriggi. Un discorso a parte richiede D. Girgensohn, l’unico che si sia cimentato con i<br />
dettagli della ricostruzione filologica; anche Girgensohn riconosce che il testo in nostro possesso<br />
rappresenta un prodotto di cancelleria verisimilmente realizzato attraverso la cucitura<br />
d’informazioni provenienti da fonti diverse, ma tenta di sostenere che, comunque, tali informazioni<br />
rispecchierebbero, in misura peraltro non precisabile, il pensiero dell’esule di Sterzing<br />
— questo è il senso esatto della degradazione di <strong>Gaismair</strong> da Verfasser a wahrscheinlicher Urheber<br />
della presunta Landesordnung che figura nel titolo del suo saggio; peccato però ch’egli, per<br />
sostenere questa tesi, sia costretto a evocare un misterioso testimone X, intermediario fra<br />
Vienna e Bolzano-Bressanone, che esiste solo nei <strong>suoi</strong> auspici, visto che a favore dell’esistenza<br />
d’esso Girgensohn non è in grado di addurre nessuna prova, tantomeno di carattere testuale. 3<br />
Ai miei generosi critici risponderò presto con tutta la dovizia di argomentazioni che questo<br />
breve articolo non consente, ma senza illudermi troppo: i falsari — cioè noi — sono sempre<br />
all’opera e i crocicchi del <strong>mito</strong> stanno ancora lì, pronti a sviare i passeggeri. Un saggio recentemente<br />
comparso attribuisce a <strong>Gaismair</strong>, all’insegna della più pura fantasia, addirittura un’opera<br />
teatrale. 4 E allora? Allora, come tu mi vuoi: non c’è prove contrarie che tengano, quando si<br />
vuol credere!<br />
Giorgio Politi<br />
Note<br />
1 Cfr. la recensione di Stella in “Rivista di storia della chiesa<br />
in Italia”, a. XLIX, n. 2 (1995 lug.-dic.), pp. 533-538, nonché<br />
la più recente monografia Il “Bauernführer” <strong>Michael</strong><br />
<strong>Gaismair</strong> e l’utopia d’un repubblicanesimo popolare, Bologna 1999.<br />
2 Cfr. “Studi veneziani” n. s., XXXVII (1999), pp. 330-331.<br />
3<br />
ALBERTONI G., Ricostruzione di un <strong>falso</strong> “L’Indice” 1 (gennaio<br />
1996), pp. 40-41; Die Südtiroler Illustrierte, a. 16, n. 3 del<br />
3.6.1995; MERIGGI M., <strong>Statuti</strong> rivoluzionari, “Storica” I, n. 3<br />
(1995), pp. 116-124; GIRGENSOHN D., Die “Landesordnung”<br />
von 1526 und ihr wahrscheinlicher Urheber <strong>Michael</strong> <strong>Gaismair</strong>,<br />
“Geschichte und Region/Storia e regione” V (1996), pp.<br />
40-41.<br />
4<br />
BADA F., I Fastnachtspiele tirolesi di Vigil Raber e la commedia<br />
pavana di Ruzante. Esperienze teatrali a confronto, in PECORARI<br />
P. (a cura di), Europa e America nella storia della civiltà. Studi in<br />
onore di Aldo Stella, Treviso 2003, pp. 116-119.<br />
GIORGIO POLITI è nato nel 1947 a Milano;<br />
dopo aver insegnato presso l’Accademia<br />
di belle arti e l’Università<br />
degli studi si è trasferito nel 1980 presso<br />
la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università<br />
Ca’ Foscari di Venezia,<br />
dove tiene attualmente, come professore<br />
straordinario, una delle due cattedre<br />
di Storia moderna. Le sue opere<br />
principali sono gli studi ora raccolti<br />
nel volume La società cremonese<br />
nella prima età spagnola, Milano,<br />
Unicopli, 2002, l’inventario analitico<br />
Antichi luoghi pii di Cremona, 2 voll.,<br />
1979 e 1985 e, naturalmente, la monografia<br />
Gli statuti impossibili. La rivoluzione<br />
tirolese del 1525 e il “programma”<br />
di <strong>Michael</strong> <strong>Gaismair</strong>, Torino,<br />
Einaudi, 1995. Ha fondato e dirige,<br />
con R. C. Mueller, la collana “em-early<br />
modern - Studi di storia europea<br />
protomoderna”.<br />
CINQUECENTO 89
Fonti iconografiche<br />
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85, 86, 87, 88, 91, 91a, 91b, 91c, 92, 92a, 94, 95, 99, 109, 111, 122, 125, 126, 127, 128, 135, 136, 137, 139, 143, 157,<br />
164, 165, 167, 169, 171, 172, 173, 174, 176, 178, 179, 180, 181, 185, 191, 193, 194, 195, 196, 197.<br />
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