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l'Italia al futuro - Confindustria

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Centro Studi<br />

LIBERTÀ<br />

E BENESSERE:<br />

L'ITALIA AL FUTURO<br />

APRILE 2010


In copertina disegno di Domenico Rosa.<br />

La pubblicazione, curata da Luca Paolazzi, si è avv<strong>al</strong>sa della collaborazione di Gianna<br />

Bargagli e Lorena Scaperrotta.<br />

Editore S.I.P.I. SpA<br />

Vi<strong>al</strong>e Pasteur, 6 - 00144 Roma


INDICE<br />

1.<br />

2.<br />

3.<br />

4.<br />

5.<br />

6.<br />

7.<br />

8.<br />

Libertà e benessere: la lezione della storia, l’agenda del presente . . . . . . . . pag. 5<br />

Nel secolo breve il lungo b<strong>al</strong>zo del benessere degli it<strong>al</strong>iani . . . . . . . . . . . . . » 15<br />

D<strong>al</strong> PIL <strong>al</strong> benessere: nuovi indicatori per misurare<br />

il progresso della società . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 61<br />

La popolazione muove la frontiera dello sviluppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 87<br />

La libertà di intrapresa in Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 111<br />

Breve storia della libertà economica in It<strong>al</strong>ia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 137<br />

Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 165<br />

La piccola impresa nello sviluppo economico it<strong>al</strong>iano. . . . . . . . . . . . . . . . . » 191<br />

Libertà e benessere in tempi di crisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 223<br />

Questionario Demos & Pi - popolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 269<br />

Questionario Demos & Pi - imprese. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 273<br />

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 277<br />

3


LIBERTÀ E BENESSERE: LA LEZIONE DELLA STORIA,<br />

L’AGENDA DEL PRESENTE<br />

Luca Paolazzi<br />

L’It<strong>al</strong>ia è tra le prime dieci economie nel mondo. Il reddito dei suoi cittadini è elevato, da<br />

nazione ricca. Sono conquiste ottenute per la gran parte in molto meno di cent’anni, un<br />

tempo breve se considerato con lo sguardo lungo della storia. Fino <strong>al</strong> secondo dopoguerra<br />

la sua economia era ancora largamente contadina.<br />

L’aumento del benessere non si è limitato <strong>al</strong> PIL, tot<strong>al</strong>e e per abitante. Ha toccato molti<br />

aspetti della vita quotidiana: d<strong>al</strong>la s<strong>al</strong>ute <strong>al</strong>la dimensione e <strong>al</strong> comfort delle abitazioni, d<strong>al</strong>l’istruzione<br />

<strong>al</strong>l’ampiezza e <strong>al</strong>l’impiego del tempo libero, d<strong>al</strong>la partecipazione <strong>al</strong>l’attività politica<br />

<strong>al</strong>l’apertura verso il mondo, grazie <strong>al</strong>la maggiore accessibilità dei mezzi di<br />

comunicazione e di trasporto.<br />

Il progresso nel PIL è stato più rapido nelle fasi in cui l’economia si è aperta a una più <strong>al</strong>ta<br />

integrazione negli scambi internazion<strong>al</strong>i ed è stata esposta a una più intensa concorrenza.<br />

Entrambe moltiplicano le possibilità di scelta, come è avvenuto dopo il secondo conflitto<br />

mondi<strong>al</strong>e.<br />

Se sessant’anni fa gli strepitosi risultati raggiunti fossero stati indicati qu<strong>al</strong>i traguardi anche<br />

lontani, l’annuncio sarebbe stato accolto <strong>al</strong>la stregua di uno slogan propagandistico. Sono<br />

diventati re<strong>al</strong>tà e perciò è stato coniato il termine «miracolo economico» (<strong>al</strong>trettanto è avvenuto<br />

in Germania, il partner-concorrente-modello di riferimento: Wirschaft Wunderbar è<br />

l’appellativo usato dai tedeschi che traduce quello it<strong>al</strong>iano).<br />

Ma quei progressi sono duraturi? V<strong>al</strong>gono una volta per tutte? Come quando si fanno nuove<br />

scoperte e ingegnano innovazioni? Oppure sono reversibili e vanno continuamente difesi e migliorati,<br />

come avviene nella manutenzione di una casa? Siamo, cioè, «ricchi per sempre» 1 ?<br />

Nel passato lontano ci sono state lunghe fasi di declino e margin<strong>al</strong>izzazione dell’economia<br />

it<strong>al</strong>iana, insegnano gli storici. E le vicende del Paese negli ultimi cent’anni dimostrano che<br />

il benessere materi<strong>al</strong>e e il vivere civile non solo non aumentano in modo lineare ma possono<br />

anche indietreggiare. Le due grandi guerre hanno prodotto forti arretramenti, è ovvio.<br />

Ma pure fuori da esse l’economia e la società it<strong>al</strong>iane hanno sofferto, a causa di politiche<br />

sbagliate, qu<strong>al</strong>i quelle dell’autarchia fascista.<br />

1. Per riprendere il titolo di un bel libro di Pierluigi Ciocca pubblicato nel 2007.<br />

5<br />

INTRODUZIONE


INTRODUZIONE<br />

Neppure le dinamiche recenti sono state particolarmente rassicuranti e soddisfacenti. Da<br />

quasi un ventennio, infatti, l’economia it<strong>al</strong>iana fatica ad avanzare. Gravata d<strong>al</strong>le eredità<br />

delle scelte politiche compiute tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi Novanta del<br />

secolo scorso e d<strong>al</strong>la successiva lentezza e incompiutezza delle riforme.<br />

L’It<strong>al</strong>ia, in effetti, era in sofferenza competitiva già prima del 2008, <strong>al</strong> principio della Grande<br />

recessione. Era «in crisi prima della crisi» e perciò è risultata particolarmente esposta ai<br />

venti della tempesta glob<strong>al</strong>e, sperimentando la contrazione della produzione in anticipo e<br />

più profondamente di quanto accaduto nella maggior parte delle nazioni avanzate. Questo<br />

è accaduto nonostante la minor vulnerabilità del suo sistema bancario e dei bilanci delle famiglie.<br />

Per<strong>al</strong>tro ha potuto contare su un sostegno d<strong>al</strong> bilancio pubblico decisamente inferiore,<br />

a causa dei noti vincoli imposti d<strong>al</strong>la montagna del debito pubblico (anch’essa lascito<br />

velenoso degli errori passati).<br />

Quella sofferenza è tuttora denunciata dagli imprenditori. Ed è resa evidente d<strong>al</strong> princip<strong>al</strong>e<br />

indicatore di competitività di una nazione: la capacità di creare ricchezza per i suoi abitanti.<br />

Il PIL pro capite it<strong>al</strong>iano, d<strong>al</strong> 2000 <strong>al</strong> 2007, è rimasto pressoché fermo in termini assoluti (se<br />

includiamo l’ultimo biennio è andato indietro del 4,1 per cento) ed è arretrato in rapporto<br />

a quello dei partner dell’area euro di ben 10 punti, sc<strong>al</strong>ando d<strong>al</strong>la settima <strong>al</strong>la dodicesima<br />

posizione (nel 2009). Stando <strong>al</strong>le proiezioni del Fondo monetario internazion<strong>al</strong>e, continuerà<br />

a retrocedere in termini relativi nei prossimi anni.<br />

Quando gli standard di vita ristagnano o diminuiscono, come spiega Benjamin Friedman 2 ,<br />

la società incattivisce e si mettono in moto meccanismi di riv<strong>al</strong>sa che riducono la tolleranza,<br />

l’equità e la mobilità soci<strong>al</strong>e. La carenza di crescita potrebbe avere, nel lungo andare,<br />

conseguenze molto negative. Fino a minare le basi stesse della democrazia.<br />

Un’indicazione di questo degrado si avverte nelle stesse campagne elettor<strong>al</strong>i, dove, scrive<br />

Friedman, la retorica antimmigrazione e la resistenza a misure a favore delle minoranze<br />

hanno giocato un ruolo crescente. “Perfino il linguaggio politico nei dibattiti pubblici – aggiunge<br />

Friedman – ha ultimamente perso gran parte del suo già scarso contegno civile, fondandosi<br />

invece su accuse person<strong>al</strong>i, indagini e recriminazioni”. Friedman si riferisce <strong>al</strong>le<br />

presidenzi<strong>al</strong>i negli USA, ma è una descrizione che c<strong>al</strong>za a pennello anche <strong>al</strong> clima politico<br />

it<strong>al</strong>iano.<br />

La crescita (o la sua assenza) ha, dunque, un <strong>al</strong>to v<strong>al</strong>ore mor<strong>al</strong>e. Se consideriamo pienamente<br />

questo aspetto <strong>al</strong>lora gli obiettivi di crescita devono essere <strong>al</strong>zati.<br />

Anche la leg<strong>al</strong>ità, o meglio i v<strong>al</strong>ori che ne <strong>al</strong>imentano il rispetto, è connessa a doppio filo<br />

con lo sviluppo economico. Da un lato, infatti, la cultura del lavoro, la disciplina, la parsi-<br />

2. “The mor<strong>al</strong> consequences of economic growth”, in Society, 2006.<br />

6


monia, la coscienziosità e il senso del dovere, oltre a essere riconosciuti come v<strong>al</strong>idi principi<br />

in sé, formano il terreno fertile per lo sviluppo; d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro, traggono <strong>al</strong>imento d<strong>al</strong>l’aumento<br />

dello standard di vita, sia perché è premiante sia perché rende la società più aperta,<br />

tollerante, democratica, rispettosa delle norme.<br />

All’opposto, il diffondersi dell’illeg<strong>al</strong>ità e la stagnazione economica si nutrono a vicenda in una<br />

spir<strong>al</strong>e perversa. Non è un caso che la mancanza della certezza del diritto, per la confusione<br />

normativa e la lentezza della giustizia, siano indicate in It<strong>al</strong>ia tra le cause della lenta crescita<br />

e che si riscontri nel Paese il diffondersi di comportamenti meno osservanti delle leggi.<br />

È questo già un primo sintomo di disagio soci<strong>al</strong>e dovuto <strong>al</strong>la scarsità della crescita. Un <strong>al</strong>tro<br />

è l’aumento dell’incertezza verso il <strong>futuro</strong>. Entrambi appaiono in contrasto con i risultati<br />

del sondaggio Demos & Pi per il CSC secondo il qu<strong>al</strong>e gli it<strong>al</strong>iani dichiarano un elevato<br />

grado di felicità person<strong>al</strong>e e tendono a non essere d’accordo con quanti si comportano scorrettamente<br />

(usando le raccomandazioni o evadendo le tasse).<br />

Questo paradosso è solo apparente e trova spiegazione nella rassegnazione e nella capacità<br />

di adattarsi e accontentarsi, le qu<strong>al</strong>i se da un lato evitano tensioni soci<strong>al</strong>i maggiori, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro<br />

generano assuefazione <strong>al</strong>le aspettative decrescenti e autolimitate. Uno stato ment<strong>al</strong>e sfavorevole<br />

perché fa perdere la voglia di lottare, di rimboccarsi le maniche, per migliorare le<br />

proprie condizioni. Non proprio il contesto più propizio a far scattare di nuovo la scintilla<br />

dello sviluppo.<br />

Per aiutare a rompere questa catena che immiserisce, per far cambiare prospettiva <strong>al</strong> Paese<br />

e insieme celebrare il Centenario di <strong>Confindustria</strong>, il CSC ha scelto di leggere la storia dell’economia<br />

it<strong>al</strong>iana e i suoi potenzi<strong>al</strong>i sviluppi futuri attraverso le parole chiave della libertà<br />

e del benessere. Anch’esse legate a doppio filo. La libertà è infatti l’emblema di quell’insieme<br />

di v<strong>al</strong>ori e regole, scritte e non, su cui si fonda l’economia di mercato che genera benessere.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, l’aumento del benessere è foriero di maggiore libertà (sostanzi<strong>al</strong>e, seguendo<br />

l’insegnamento di Amartya Sen) perché accresce il ventaglio delle scelte delle persone, le<br />

rende appunto più libere, disposte <strong>al</strong> cambiamento e aperte <strong>al</strong> nuovo. Maggiore libertà,<br />

dunque, per creare più benessere. Maggiore benessere che accresce la libertà.<br />

La libertà va intesa in senso ampio, non solo quella di iniziativa economica e di impresa.<br />

Infatti, solo in una società aperta, ricettiva del nuovo, mobile soci<strong>al</strong>mente e vivace cultur<strong>al</strong>mente<br />

fioriscono i t<strong>al</strong>enti, si è disposti ad assumere rischi e a investire nel <strong>futuro</strong> (anche<br />

demograficamente). Così lo sviluppo riceve slancio. Tutto ciò non è dato se vi è insufficiente<br />

leg<strong>al</strong>ità. I paesi più ricchi sono infatti quelli dove c’è maggior certezza del diritto, dove le<br />

regole sono chiare e vengono fatte rispettare.<br />

Nei saggi che compongono questo volume il cammino dell’economia e della società it<strong>al</strong>iane<br />

viene ripercorso seguendo i binari della libertà e del benessere, per trarne insegnamenti e INTRODUZIONE<br />

7


INTRODUZIONE<br />

puntare a nuovi traguardi. Il primo tassello dell’an<strong>al</strong>isi guarda agli straordinari avanzamenti,<br />

materi<strong>al</strong>i e non, nelle condizioni di vita della popolazione.<br />

Molte sono state le conquiste. D<strong>al</strong>l’Unità <strong>al</strong> 2007, prima della crisi, il reddito medio degli<br />

it<strong>al</strong>iani è s<strong>al</strong>ito di otto volte e mezzo (il PIL per abitante è passato d<strong>al</strong>l’equiv<strong>al</strong>ente di 2.500<br />

a 21.700 euro, in potere di acquisto del 2000), la vita si è <strong>al</strong>lungata da trenta a ottant’anni,<br />

l’an<strong>al</strong>fabetismo in senso stretto è stato sradicato (anche se Tullio De Mauro ritiene che quello<br />

di ritorno, inteso come incapacità di comprendere un testo, colpisce ben il 70 per cento<br />

degli it<strong>al</strong>iani), le automobili sono un bene di consumo di massa (siamo una delle nazioni<br />

con il maggior tasso di motorizzazione), per non parlare degli elettrodomestici e dei telefoni<br />

cellulari. Il paniere della spesa 150 anni fa era per i due terzi destinato <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>imentazione,<br />

oggi lo è per meno di un quinto, con molto spazio dedicato <strong>al</strong> tempo libero e <strong>al</strong><br />

divertimento.<br />

L’ascesa del benessere è stata abbastanza continua nelle dimensioni non economiche: la s<strong>al</strong>ute,<br />

nella qu<strong>al</strong>e siamo considerati tra i primi <strong>al</strong> mondo, nonostante gli scand<strong>al</strong>i della m<strong>al</strong>asanità;<br />

la longevità, tra le più <strong>al</strong>te; la mort<strong>al</strong>ità infantile, tra le più basse; l’istruzione, dove<br />

però non primeggiamo nella comparazione internazion<strong>al</strong>e; la statura; l’estensione del diritto<br />

di voto.<br />

Nell’andamento delle variabili economiche si possono, invece, distinguere tre fasi: d<strong>al</strong>l’Unità<br />

<strong>al</strong> 1950, quando la maggioranza degli it<strong>al</strong>iani (non la tot<strong>al</strong>ità) si è affrancata d<strong>al</strong>la miseria<br />

millenaria; d<strong>al</strong> 1950 <strong>al</strong> 2000, quando il PIL per abitante è aumentato di 5,5 volte; d<strong>al</strong><br />

2000 in poi quando invece è sceso, e non solo per effetto della crisi.<br />

Nel confronto con le <strong>al</strong>tre nazioni, infatti, l’arretramento era già iniziato un decennio prima. Il<br />

paragone con gli Stati Uniti è illuminante: il reddito per abitante it<strong>al</strong>iano è aumentato d<strong>al</strong> 40,1<br />

per cento di quello statunitense nel 1950 <strong>al</strong> 77,6 per cento nel 1991, per poi ridiscendere <strong>al</strong><br />

64,3 per cento nel 2009. C’è quindi un ritardo da recuperare pari <strong>al</strong> 50 per cento del PIL it<strong>al</strong>iano:<br />

un enorme potenzi<strong>al</strong>e di sviluppo.<br />

Pare ban<strong>al</strong>e dirlo, ma forse non lo è tanto, considerato il diffondersi delle posizioni nogrowth<br />

(che accompagnano quelle no-glob<strong>al</strong>): il benessere degli it<strong>al</strong>iani, in senso lato, non<br />

potrà riprendere ad avanzare se il Paese non tornerà a crescere. Ciò richiede di sciogliere<br />

<strong>al</strong>cuni nodi: la questione dell’istruzione e quella meridion<strong>al</strong>e (entrambe non originano d<strong>al</strong>la<br />

mancanza di risorse, ma d<strong>al</strong> loro cattivo impiego), i bassi investimenti in capit<strong>al</strong>e fisso soci<strong>al</strong>e<br />

e in ricerca, la scarsa attenzione <strong>al</strong>la distribuzione person<strong>al</strong>e del reddito (viziata d<strong>al</strong>la<br />

vasta area dell’evasione, che in <strong>al</strong>cuni comparti arriva <strong>al</strong> 50 per cento del v<strong>al</strong>ore aggiunto).<br />

Tutti fattori che, attraverso la più solida conoscenza e l’inn<strong>al</strong>zamento delle possibilità, portano<br />

insieme a maggiori libertà e benessere.<br />

La multidimension<strong>al</strong>ità del benessere, però, richiede di riflettere sulla qu<strong>al</strong>ità della crescita.<br />

O meglio, sul fatto che non basta aumentare il PIL per produrre maggior benessere. Anche<br />

8


se, come abbiamo visto, le grandezze che formano il secondo dipendono in misura rilevante<br />

d<strong>al</strong>l’incremento del primo. È questo il secondo tassello nelle an<strong>al</strong>isi del CSC.<br />

La riflessione sulla necessità di individuare nuovi indicatori di benessere, più onnicomprensivi,<br />

è internazion<strong>al</strong>e, come dimostrano tra gli <strong>al</strong>tri i risultati della Commissione Stiglitz<br />

voluta in Francia d<strong>al</strong> Presidente Sarkozy e i programmi dell’OCSE. Economisti e statistici<br />

stanno compiendo ricerche in questa direzione e sarebbe controproducente per le imprese<br />

ignorare o addirittura mostrarsi insensibili a t<strong>al</strong>e movimento. Il diffondersi di bilanci ambient<strong>al</strong>i<br />

e di quelli relativi <strong>al</strong>la responsabilità soci<strong>al</strong>e provano che non lo sono.<br />

D’<strong>al</strong>tronde, non si tratta di sostituire il PIL ma di inserirlo in un quadro concettu<strong>al</strong>e più<br />

ampio. All’interno del qu<strong>al</strong>e, per<strong>al</strong>tro, l’It<strong>al</strong>ia mostra <strong>al</strong>cuni indicatori in posizione avanzata<br />

e <strong>al</strong>tri arretrata (lo abbiamo scritto sopra). Promuovere il miglioramento di questi ultimi porterebbe<br />

anche a un PIL più elevato, cioè a un maggior benessere coniugato a più <strong>al</strong>ti gradi<br />

di libertà che sono fondament<strong>al</strong>i per l’elevata qu<strong>al</strong>ità della vita.<br />

Il terzo tassello è costituito dai fattori demografici che sono un motore cruci<strong>al</strong>e della crescita<br />

del benessere. In essi l’It<strong>al</strong>ia ha compiuto una vera e propria rivoluzione d<strong>al</strong>l’Unità a<br />

oggi, con il raddoppio della popolazione e gli <strong>al</strong>tri miglioramenti che hanno <strong>al</strong>lungato la durata<br />

della vita. Questi successi potrebbero però arrestarsi o addirittura invertire la rotta. La<br />

denat<strong>al</strong>ità è un primo campanello d’<strong>al</strong>larme. Un secondo è l’aumento dell’obesità, che<br />

mette a repentaglio l’<strong>al</strong>ta speranza di vita.<br />

Per numero di abitanti l’It<strong>al</strong>ia sarà sempre più «nana», <strong>al</strong> pari del resto d’Europa, nel confronto<br />

internazion<strong>al</strong>e. A maggior ragione occorre prendersi cura della sua popolazione che<br />

ne rappresenta la princip<strong>al</strong>e, se non l’unica, risorsa, il suo vero capit<strong>al</strong>e.<br />

Bisognerà agire sulle condizioni che rendono gli abitanti del Paese in grado di vivere bene<br />

oltre che a lungo, di essere liberi nelle scelte riproduttive, di comporre le aggregazioni familiari<br />

consone, di non essere ingessati negli insediamenti abitativi. Solo così la popolazione<br />

tornerà a essere fattore di sviluppo.<br />

Per far ciò le politiche devono muovere in tre direttici: restituire ai giovani le prerogative<br />

perse (d<strong>al</strong>la formazione <strong>al</strong>la procreazione, d<strong>al</strong>l’abitazione <strong>al</strong>l’esperienza di lavoro miste a<br />

studio, in It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong>l’estero); rendere inscindibili lavoro femminile e maternità; assecondare<br />

il radicamento degli immigrati, facendo sì che il loro insediamento sia di lunga durata. Ancora<br />

una volta, il benessere <strong>futuro</strong> passa per la conquista di una più ampia libertà.<br />

Una caratteristica della popolazione, cioè del capit<strong>al</strong>e umano, dell’It<strong>al</strong>ia è la grande vit<strong>al</strong>ità<br />

imprenditori<strong>al</strong>e. Simboleggiata dagli oltre quattro milioni di «aziende». Anche se il numero<br />

di imprese può ingannare, perché non a ciascuna di esse corrisponde un autentico<br />

imprenditore, cioè un innovatore, un attore che mette insieme lavoro, capit<strong>al</strong>e e tecnologie<br />

per aprire strade nuove verso il progresso economico e soci<strong>al</strong>e. Attraverso un suo person<strong>al</strong>e INTRODUZIONE<br />

9


INTRODUZIONE<br />

progetto di vita che non ha mai come unico scopo l’arricchimento. Che svolge, insieme <strong>al</strong>l’attività<br />

economica, un ruolo civile cruci<strong>al</strong>e nell’integrare e am<strong>al</strong>gamare persone e culture.<br />

Ciò è soprattutto vero per le piccole e medie imprese.<br />

Eppure, la cultura del nostro paese, incarnata nelle normative, continua ad avversare le iniziative<br />

imprenditori<strong>al</strong>i, tanto da premiare più il non fare che il fare. L’impresa non è <strong>al</strong> centro<br />

e ciò spiega, o contribuisce a spiegare, il progressivo r<strong>al</strong>lentamento della crescita, fino<br />

<strong>al</strong> suo arresto. Il quarto tassello dell’an<strong>al</strong>isi presentata in questo volume è incentrato sull’indice<br />

della libertà di intrapresa elaborato per il CSC d<strong>al</strong>l’Istituto Bruno Leoni. Il qu<strong>al</strong>e colloca<br />

l’It<strong>al</strong>ia sullo sc<strong>al</strong>ino più basso della graduatoria europea. Frutto dell’ultimo posto per<br />

le politiche fisc<strong>al</strong>i, del quintultimo per l’invadenza dello Stato, del penultimo per le norme<br />

sull’attività d’impresa, di nuovo <strong>al</strong>l’ultimo per la regolamentazione. Solo nel lavoro, con il<br />

sedicesimo posto e un punteggio an<strong>al</strong>ogo <strong>al</strong>la media europea, il Paese non sfigura (ma nemmeno<br />

svetta). Liberare le imprese condurrebbe <strong>al</strong>l’inn<strong>al</strong>zamento del benessere.<br />

Le lacune storiche dell’It<strong>al</strong>ia nel campo delle libertà economiche non sono confinate <strong>al</strong>la<br />

libertà d’impresa. Il quinto tassello è la radiografia di t<strong>al</strong>i lacune. La tutela della concorrenza<br />

è arrivata tardi e appare ancora come un’incompiuta. Anche se il protezionismo<br />

esterno è stato smantellato con l’adesione <strong>al</strong>l’Unione europea. La qu<strong>al</strong>e ci ha costretto ad<br />

abbandonare gli aiuti pubblici che distorcono il campo competitivo e indotto a far ritirare<br />

il settore pubblico d<strong>al</strong>la produzione di beni e servizi che <strong>al</strong>trove sono affidati ai privati. In<br />

Borsa la costituzione di un’autorità di supervisione è pure giunta molto più tardi che nelle<br />

<strong>al</strong>tre nazioni e in gener<strong>al</strong>e i risparmiatori non paiono ancora pienamente difesi.<br />

Il rapporto tra cittadini e Stato è sempre stato improntato a sfiducia e sospetto reciproci. Tanto<br />

che prev<strong>al</strong>e il principio di prescrivere minuziosamente per legge ciò che è consentito fare,<br />

anziché quello contrario di permettere tutto ciò che non sia espressamente vietato. La spesa<br />

pubblica non solo non è bassa nel confronto internazion<strong>al</strong>e, ma appare di cattiva qu<strong>al</strong>ità.<br />

Lungo quasi tre decenni, nella seconda metà del secolo scorso, l’It<strong>al</strong>ia ha ricorso <strong>al</strong>l’illiber<strong>al</strong>e<br />

debito pubblico e <strong>al</strong>l’iniqua tassa dell’inflazione per riconciliare le tensioni soci<strong>al</strong>i. E<br />

continua a dimostrare una certa riluttanza a convivere con le regole della stabilità finanziaria<br />

e monetaria imposte d<strong>al</strong>l’appartenenza <strong>al</strong>l’Unione monetaria europea.<br />

La carrellata degli avvenimenti nel primo secolo e mezzo di storia unitaria rivela la genetica<br />

incapacità del pubblico e del privato di fare gioco di squadra, a cominciare d<strong>al</strong>le relazioni<br />

tra pubblica amministrazione e imprese. In t<strong>al</strong>i relazioni il successo della<br />

semplificazione e della liber<strong>al</strong>izzazione è subordinato a un cambio di ment<strong>al</strong>ità, che avviene<br />

con un processo lento e incerto. Per avere libertà e benessere occorrono insieme «più Stato<br />

e più mercato», come recitava il titolo di <strong>al</strong>cune ricerche condotte da <strong>Confindustria</strong> anni or<br />

sono. Soprattutto ciò è vero per il Mezzogiorno: il du<strong>al</strong>ismo territori<strong>al</strong>e permanente e irrisolto<br />

è proprio il frutto di uno Stato che non fa lo Stato e di un mercato avvilito d<strong>al</strong>la crimin<strong>al</strong>ità<br />

e d<strong>al</strong>la rete di favoritismi e clientele.<br />

10


Qu<strong>al</strong> è stato il ruolo delle imprese industri<strong>al</strong>i nello sviluppo economico it<strong>al</strong>iano? Il sesto e<br />

il settimo tassello affrontano questo tema. Le grandi imprese manifatturiere sono state le<br />

vere vittime di un ambiente poco favorevole. La loro storia in It<strong>al</strong>ia passa per quattro fasi: la<br />

nascita e l’affermazione della grande industria tra l’Unità e la crisi del ’29; la costituzione<br />

di un nutrito gruppo di imprese controllate d<strong>al</strong>lo Stato come conseguenza di quella crisi;<br />

queste, insieme a quelle private, ebbero un ruolo propulsivo decisivo negli anni del miracolo<br />

economico; poi la progressiva politicizzazione della loro gestione le fece degenerare<br />

e il rimedio fu la privatizzazione (s<strong>al</strong>vo che per <strong>al</strong>cune di esse). Le grandi imprese private,<br />

nel frattempo, si sono enormemente ridimensionate nel numero e nel peso sull’economia.<br />

La quasi estinzione delle grandi aziende costituisce un’anom<strong>al</strong>ia it<strong>al</strong>iana nel panorama internazion<strong>al</strong>e<br />

e può essere annoverata tra le cause della frenata dell’It<strong>al</strong>ia, oltre a essere un<br />

segno di minore libertà. Mentre un sostegno <strong>al</strong>la crescita è venuto d<strong>al</strong>le imprese medie, più<br />

che raddoppiate nel numero durante il decennio tra 1997 e 2007 e con una performance<br />

di v<strong>al</strong>ore aggiunto nettamente superiore <strong>al</strong>la media nazion<strong>al</strong>e.<br />

Nella storia dell’economia it<strong>al</strong>iana costante è stata, invece, la forte presenza delle piccole<br />

imprese. Che hanno avuto un ruolo cruci<strong>al</strong>e per la crescita del benessere e la sua diffusione<br />

soci<strong>al</strong>e e territori<strong>al</strong>e. Nel secondo dopoguerra il loro peso occupazion<strong>al</strong>e nel manifatturiero<br />

è addirittura cresciuto: d<strong>al</strong> 46,4 per cento del 1951 <strong>al</strong> 60,1 per cento del 2007 (passando<br />

per il 42,0% del 1971), specularmente <strong>al</strong> ritirarsi di quello delle grandi 3 . Questa perdurante<br />

rilevanza può essere ricondotta <strong>al</strong>la particolare funzione che campagne e piccoli centri urbani<br />

hanno avuto nelle vicende non solo economiche del Paese.<br />

L’aggregazione geografica in distretti industri<strong>al</strong>i ha dato <strong>al</strong>le piccole imprese più efficienza,<br />

sostituendo con le economie esterne, ambient<strong>al</strong>i, quelle interne e di sc<strong>al</strong>a. I venti della glob<strong>al</strong>izzazione<br />

hanno però scompaginato gli equilibri e spostato verso l’<strong>al</strong>to la dimensione ottim<strong>al</strong>e.<br />

Tanto che proprio nei distretti si sono affermate le medie imprese di cui si è parlato<br />

poco sopra. Sarà questa la nuova caratteristica del capit<strong>al</strong>ismo it<strong>al</strong>iano?<br />

La ricerca del CSC si chiude guardando <strong>al</strong>l’oggi e <strong>al</strong> domani con gli occhi dei cittadini e degli<br />

imprenditori associati a <strong>Confindustria</strong>, attraverso le risposte che essi danno a una serie di domande.<br />

Come vengono percepiti oggi libertà e benessere? Come sarà l’economia it<strong>al</strong>iana tra<br />

cinque anni? Qu<strong>al</strong>e ruolo vi giocherà l’industria? Qu<strong>al</strong>i strade andranno esplorate d<strong>al</strong>le imprese?<br />

Come rilanciare lo sviluppo? Qu<strong>al</strong>i sono le scelte strategiche per uscire d<strong>al</strong>la crisi peggiore<br />

degli ultimi ottant’anni con uno slancio maggiore di quello con cui l’It<strong>al</strong>ia vi era entrata?<br />

Sono questioni intimamente connesse tra loro. Per le imprese costituiscono il sestante nelle<br />

decisioni che devono assumere. Ma interessano tutti i cittadini. Lo dimostrano i risultati dei<br />

sondaggi condotti da Demos & Pi per il CSC.<br />

3. Per piccole si intendono qui le aziende con meno di 50 addetti.<br />

11<br />

INTRODUZIONE


INTRODUZIONE<br />

Benessere e libertà vengono ancora percepiti come elevati, seppure è ampia la quota di chi<br />

ritiene che il benessere non sia aumentato negli ultimi vent’anni. C’è però grande inquietudine<br />

e preoccupazione riguardo <strong>al</strong> <strong>futuro</strong>, le qu<strong>al</strong>i innescano una voglia di protezione.<br />

Al contempo è diffusa la coscienza che servano riforme per rilanciare il Paese. Riforme ispirate<br />

a concorrenza, merito, leg<strong>al</strong>ità, competenza, apertura verso l’immigrazione. L’industria<br />

continua a essere vista come fondament<strong>al</strong>e per lo sviluppo. Gli imprenditori temono che nel<br />

suo insieme il settore manifatturiero sia destinato a perdere competitività nei prossimi cinque<br />

anni, ma sono convinti che quella della propria azienda sia destinata a migliorare. È l’ottimismo<br />

della volontà e del fare.<br />

La crisi è destinata a durare ancora a lungo nei giudizi della popolazione (che ha una visione<br />

più pessimistica) e per le imprese. Le qu<strong>al</strong>i per superarla puntano molto sull’innovazione di<br />

prodotto e di processo, su una maggiore aggressività commerci<strong>al</strong>e, sull’entrata in nuovi mercati<br />

e sul marchio. La qu<strong>al</strong>ità del prodotto è indicata come la leva competitiva princip<strong>al</strong>e e<br />

inevitabilmente racchiude in sé anche l’innovazione e il tempismo nelle consegne (in un’ottica<br />

di maggior contenuto di servizio).<br />

Le riforme più gettonate dagli imprenditori di <strong>Confindustria</strong> riguardano il fisco, la pubblica amministrazione<br />

e il mercato del lavoro, con differenze a seconda del grado di internazion<strong>al</strong>izzazione<br />

e della pressione concorrenzi<strong>al</strong>e patita d<strong>al</strong>la Cina. In secondo piano sono poste<br />

istruzione e giustizia. L’insieme della popolazione it<strong>al</strong>iana invece predilige anzitutto il mercato<br />

del lavoro (per ricercare più stabilità dell’occupazione), poi il fisco, la giustizia e l’istruzione.<br />

Il progresso economico, dunque, è accompagnato da quello più ampio del vivere civile,<br />

della libertà. Entrambi vanno difesi e riconquistati in continuazione, adattando modelli e istituzioni<br />

ai cambiamenti esterni. Sapendo che da sempre conoscenza e innovazione sono le<br />

chiavi per aprire nuovi mercati, dentro e fuori i confini nazion<strong>al</strong>i ed europei, ed espandere<br />

le produzioni, lungo un sentiero sempre più fatto più di qu<strong>al</strong>ità.<br />

L’inn<strong>al</strong>zamento degli standard di vita di centinaia di milioni di persone nei paesi emergenti<br />

sp<strong>al</strong>anca opportunità nuove, ma anche molto diverse da quelle passate, per ragioni di cultura,<br />

pressione concorrenzi<strong>al</strong>e, distanza geografica. Anche se comporta il ridimensionamento<br />

del peso it<strong>al</strong>iano nello scacchiere internazion<strong>al</strong>e.<br />

Pur essendo piccola per popolazione (con lo 0,9% degli abitanti della Terra), l’It<strong>al</strong>ia produce<br />

attu<strong>al</strong>mente il 2,6 per cento del prodotto glob<strong>al</strong>e e detiene il 3,3 per cento del v<strong>al</strong>ore delle<br />

esportazioni mondi<strong>al</strong>i. Queste quote sono destinate però a scendere con l’affermarsi dei<br />

paesi emergenti. In sé si tratta di un evento fisiologico.<br />

Sarebbe perciò un errore di prospettiva viverlo come una perdita. Perché è una tendenza ineluttabile,<br />

che accomuna tutte le nazioni avanzate, incluse le maggiori e più potenti. E che<br />

presenta nuove opportunità di sviluppo per una popolazione che ha saputo stupire per la<br />

12


qu<strong>al</strong>ità e la novità delle sue produzioni, grazie a un’imprenditori<strong>al</strong>ità che non ha egu<strong>al</strong>i per<br />

vivacità e diffusione e a lavoratori con un bagaglio di saperi non comuni e adatti ai prodotti<br />

del made in It<strong>al</strong>y.<br />

Queste sfide ne ripropongono <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia un’<strong>al</strong>tra ancora più impegnativa: diventare nazione,<br />

cioè un sistema anziché una somma di interessi e forze. Ciò richiede obiettivi condivisi e<br />

un agire comune, per il bene di tutti. Ritrovando quello spirito che in un passato non lontano<br />

ha consentito di fare il b<strong>al</strong>zo nel consesso dei paesi ricchi e industri<strong>al</strong>mente più evoluti.<br />

La crisi, con le sue perdite e le sue sofferenze (tutt’<strong>al</strong>tro che concluse), rappresenta<br />

l’occasione storica per avviare una mutazione genetica del carattere nazion<strong>al</strong>e. Il Centenario<br />

di <strong>Confindustria</strong> e il bienn<strong>al</strong>e del CSC offrono gli spunti per muovere in quella direzione.<br />

Sono un appello a rimettere in moto l’It<strong>al</strong>ia.<br />

13<br />

INTRODUZIONE


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO<br />

DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Gianni Toniolo, Giovanni Vecchi<br />

Nell’anno dello sbarco di Garib<strong>al</strong>di a Mars<strong>al</strong>a, viveva a Napoli la famiglia Esposito. Non sappiamo<br />

se fosse di fede garib<strong>al</strong>dina o borbonica; probabilmente le preoccupazioni quotidiane<br />

erano t<strong>al</strong>i da lasciare poco spazio <strong>al</strong>la passione politica. Gli Esposito erano quattro:<br />

Gennaro, il capofamiglia, piccolo artigiano, sua moglie Maria, cas<strong>al</strong>inga, e due figli non<br />

ancora in età da lavoro. In un anno, Gennaro riusciva a mettere insieme 650 lire piemontesi<br />

che si possono stimare pari a circa 2.900 euro a potere d’acquisto attu<strong>al</strong>e, poco più di<br />

240 euro <strong>al</strong> mese. Il 57 per cento di questo reddito se ne andava per portare qu<strong>al</strong>cosa sulla<br />

tavola. Se Gennaro non si faceva mancare una mezza caraffa di vino <strong>al</strong> giorno, la famiglia<br />

mangiava carne di montone e frutta solo una volta la settimana, legumi due o tre volte, il<br />

resto era pasta e pane. Restavano circa 100 dei nostri euro <strong>al</strong> mese per il carbone, l’olio del<br />

lume, l’affitto del basso e il vestiario. Il risparmio era impensabile: gli Esposito erano vulnerabili<br />

<strong>al</strong>le emergenze, guai se la m<strong>al</strong>attia avesse colpito Gennaro. Secondo gli standard<br />

attu<strong>al</strong>i della Banca Mondi<strong>al</strong>e, gli Esposito – che potevano spendere a testa 1,99 euro <strong>al</strong><br />

giorno - erano molto vicini <strong>al</strong>la linea di povertà assoluta stabilita in circa 1,4 euro (2 dollari)<br />

<strong>al</strong> giorno per persona.<br />

A distanza di centocinquanta anni, il bis-bis nipote di Gennaro, Giuseppe, operaio a Napoli<br />

con una famiglia di quattro persone, spende ogni mese 1.905 euro, otto volte e mezzo più<br />

del suo avo, di cui circa il 30 per cento é dedicato <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>imentazione. La spesa per la casa<br />

assorbe circa un quinto del tot<strong>al</strong>e. Il resto serve per l’automobile, gli elettrodomestici, il vestiario<br />

e il tempo libero. Giuseppe ha un conto in banca e risparmi che gli conferiscono una<br />

sicurezza negata <strong>al</strong> suo avo. La famiglia Brambilla di Milano (anch’essa di quattro persone<br />

con padre operaio) spende oggi quasi 3.200 euro ogni mese, ne dedica meno degli Esposito<br />

(20 per cento) <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>imentazione e molti più <strong>al</strong> tempo libero 1 .<br />

L’enorme divario fra Gennaro che, pur con un lavoro e un tetto, sarebbe oggi prossimo a essere<br />

dichiarato povero d<strong>al</strong>la Banca Mondi<strong>al</strong>e, e il suo discendente Giuseppe non si limita<br />

ai consumi. Al momento della nascita, i figli di Gennaro potevano sperare di vivere poco più<br />

di trenta anni, erano destinati a lavorare sin dagli 8 anni se non prima, e a rimanere pertanto<br />

an<strong>al</strong>fabeti, non potevano pensare di partecipare con il proprio voto <strong>al</strong>le scelte collettive,<br />

che pure tanta influenza avevano sul loro destino. I figli dell’odierno bis-bis nipote Giu-<br />

Gianni Toniolo, Research Professor of Economics and History Duke University e Professore <strong>al</strong>l’Università LUISS Guido Carli di Roma.<br />

Giovanni Vecchi, Professore Associato di Economia <strong>al</strong>l’Università di Roma Tor Vergata.<br />

Siamo grati a Lorena Scaperrotta per la superba assistenza di ricerca e l’attenta rilettura del testo, a Luca Paolazzi per l’usu<strong>al</strong>e acutezza<br />

dei commenti a una prima versione di questo lavoro.<br />

1. Nostre elaborazioni sui consumi delle famiglie ISTAT, anno 2008. Il divario tra la spesa degli Esposito e i Brambilla si riduce significativamente<br />

se si tiene conto che i prezzi nel Mezzogiorno sono in media inferiori a quelli del Nord di circa il 20 per cento.<br />

15<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

seppe, oltre a non patire mai la fame (devono semmai temere l’obesità), vivranno probabilmente<br />

oltre gli ottanta anni, andranno a scuola fino <strong>al</strong>meno a 14 anni, con discrete probabilità<br />

di arrivare <strong>al</strong>la laurea, saranno cittadini a pieno titolo.<br />

Le pagine che seguono si propongono di documentare il percorso che ha prodotto in centocinquanta<br />

anni un vorticoso cambiamento in tutte le dimensioni della qu<strong>al</strong>ità della vita,<br />

nel susseguirsi delle generazioni dell’ipotetica famiglia Esposito e dei suoi concittadini delle<br />

<strong>al</strong>tre regioni it<strong>al</strong>iane. All’indomani dell’Unificazione d’It<strong>al</strong>ia, la maggioranza degli it<strong>al</strong>iani<br />

non viveva in condizioni sostanzi<strong>al</strong>mente diverse da quelle dei loro avi: il tenore di vita era<br />

simile a quello degli artigiani e degli operai dell’antica Roma e dell’It<strong>al</strong>ia mediev<strong>al</strong>e.<br />

Il progresso compiuto in un secolo e mezzo non è stato lineare, non ha avuto intensità costante,<br />

né ha distribuito i propri benefici in modo uniforme fra la popolazione. In una prima<br />

fase, durata grosso modo un secolo (1850-1950), l’It<strong>al</strong>ia ha sconfitto la miseria, con un po’<br />

di ritardo rispetto ai paesi dell’Europa Nord Occident<strong>al</strong>e pionieri della Rivoluzione industri<strong>al</strong>e.<br />

Alla vigilia della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e redditi e consumi per abitante erano cresciuti<br />

di quasi due volte e mezza rispetto <strong>al</strong> 1861. Abbastanza per soddisfare i bisogni di base<br />

e consentire <strong>al</strong>la grande maggioranza degli it<strong>al</strong>iani di uscire d<strong>al</strong>le condizioni millenarie di<br />

miseria. Non molto più di questo. In una seconda fase, apertasi dopo la fine della guerra,<br />

l’It<strong>al</strong>ia si è unita <strong>al</strong> gruppo, <strong>al</strong>lora piuttosto ristretto, dei paesi che hanno creato – nello spazio<br />

di un battito di ciglia, se lo si misura col metro della storia – una società dei consumi di<br />

massa che ha mutato per sempre il tenore di vita materi<strong>al</strong>e, ogni <strong>al</strong>tro aspetto dei comportamenti<br />

individu<strong>al</strong>i e collettivi.<br />

Queste due fasi sono chiaramente individuabili osservando gli aspetti materi<strong>al</strong>i, misurabili<br />

con il metro della moneta, delle condizioni di vita. Come vedremo, la cesura attorno <strong>al</strong><br />

1950 non potrebbe essere, sotto questo profilo, più netta. Nel caso di <strong>al</strong>tre dimensioni del<br />

benessere, prima fra tutte la durata della vita media, fasi e cesura tendono a sfuocarsi, forse<br />

a sparire. Il superamento della condanna <strong>al</strong>la morte prematura (in media inferiore ai trenta<br />

anni) che aveva schiacciato per millenni il genere umano è conquistato, come vedremo, in<br />

modo meno discontinuo.<br />

Le pagine che seguono danno conto, in modo sintetico, del grande miglioramento registrato<br />

in It<strong>al</strong>ia nelle tante dimensioni del benessere per le qu<strong>al</strong>i è stato possibile recuperare materi<strong>al</strong>e<br />

statistico affidabile. In una prima parte diremo della trasformazione, quantitativa e qu<strong>al</strong>itativa<br />

dei consumi. La seconda parte, preceduta da brevi considerazioni di metodo, dirà<br />

delle variabili che non si prestano a essere facilmente misurabili col metro monetario. Alcuni<br />

dati che offriremo sono preliminari, frutto di ricerche in corso. Sono t<strong>al</strong>i anche t<strong>al</strong>uni<br />

tentativi di interpretazione.<br />

16


1.1 DALLA SUSSISTENZA AL CONSUMO DI MASSA<br />

Si stimano i consumi medi annui degli it<strong>al</strong>iani nel 1861 in 1.123 euro pro capite a potere<br />

d’acquisto attu<strong>al</strong>e. Dieci anni dopo erano s<strong>al</strong>iti solo del 5 per cento, a 1.182 euro di oggi.<br />

Sono v<strong>al</strong>ori certamente superiori rispetto a quelli della famiglia Esposito della qu<strong>al</strong>e abbiamo<br />

detto ma questa media comprende tutti gli it<strong>al</strong>iani, d<strong>al</strong> re, ai grandi industri<strong>al</strong>i, ai<br />

professionisti sino, appunto, agli artigiani e ai braccianti. Poiché la distribuzione del reddito<br />

era <strong>al</strong>lora molto inegu<strong>al</strong>e, coloro che vivevano come gli Esposito erano certamente la maggioranza.<br />

Nemmeno tra i lavoratori i consumi erano ugu<strong>al</strong>mente distribuiti. A mo’ di esempio<br />

prendiamo l’indagine condotta nel 1895 da Gina Lombroso, figlia di Cesare, nel<br />

quartiere Crocetta di Torino, povero ma non il più povero della città. Le 25 famiglie di cui<br />

la Lombroso dà conto riportano un reddito medio per persona di 907 in euro (sempre a potere<br />

d’acquisto attu<strong>al</strong>e) pari <strong>al</strong> 65 per cento della media nazion<strong>al</strong>e (s<strong>al</strong>ita <strong>al</strong>lora a 1.380<br />

euro). All’interno di questo quartiere operaio le differenze di reddito sono notevoli: se i<br />

membri della famiglia del ferroviere spendevano in un mese 142 euro ciascuno, quelli che<br />

dipendevano d<strong>al</strong> carrettiere dovevano cavarsela con 35 euro a persona.<br />

All’inizio del Ventesimo secolo, l’it<strong>al</strong>iano medio dedicava ancora il 67 per cento della propria<br />

spesa ai consumi <strong>al</strong>imentari e <strong>al</strong> tabacco. Tolto l’affitto, che pesava relativamente poco – solo<br />

il 9 per cento del tot<strong>al</strong>e – restavano a ciascuno circa 30 euro attu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> mese per soddisfare a<br />

tutti gli <strong>al</strong>tri bisogni: vestiario, risc<strong>al</strong>damento, istruzione, medici e medicine. Possiamo immaginare<br />

quanto restasse per viaggi e divertimenti. Ciò conferma quanto detto sopra: nei decenni<br />

seguenti l’unificazione politica la grande maggioranza dei braccianti e degli operai aveva (difficile<br />

dire «godeva di») un tenore di vita non troppo superiore a quello odierno dei poveri dell’Africa,<br />

dell’Asia e dell’America Latina. Consumavano forse un buon 20-25 per cento in meno<br />

dei contadini e degli operai dell’It<strong>al</strong>ia centro-settentrion<strong>al</strong>e <strong>al</strong>l’inizio del Quindicesimo secolo.<br />

Nel 1911, <strong>al</strong>l’apice della cosiddetta prima glob<strong>al</strong>izzazione – d<strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e l’economia it<strong>al</strong>iana<br />

seppe trarre molti benefici – il consumo medio degli it<strong>al</strong>iani era s<strong>al</strong>ito a 1.700 euro annui, con<br />

un incremento di oltre il 50 per cento rispetto <strong>al</strong> 1861. Il cinquantenario dell’Unità poté essere<br />

celebrato con qu<strong>al</strong>che legittima dose di soddisfazione, pur con una crescita (0,8 per cento l’anno)<br />

che sarebbe oggi ritenuta modesta. La quota della spesa dedicata agli <strong>al</strong>imenti era però restata<br />

sostanzi<strong>al</strong>mente invariata (in media vicino <strong>al</strong> 65 per cento): gli it<strong>al</strong>iani si nutrivano meglio ma<br />

avevano ancora ben poche risorse da dedicare agli acquisti che rendono la vita più comoda e<br />

interessante. La civiltà dei consumi era ancora lontana per i nipoti del nostro Gennaro Esposito.<br />

Solo <strong>al</strong>la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso la spesa <strong>al</strong>imentare scese sotto il 50 per<br />

cento dei consumi tot<strong>al</strong>i, cresciuti a circa 3.400 euro annui per persona, sempre a prezzi attu<strong>al</strong>i.<br />

Compiuta la ricostruzione, recuperati e superati i livelli pre-bellici di reddito per abitante,<br />

l’economia it<strong>al</strong>iana sorprese protagonisti e osservatori re<strong>al</strong>izzando una crescita senza<br />

precedenti, quasi senza ugu<strong>al</strong>i nell’Europa di <strong>al</strong>lora, della produzione e del reddito. Nell’immaginario<br />

di molti questa fase ventenn<strong>al</strong>e di sviluppo economico assunse i connotati di un<br />

vero e proprio miracolo. La dinamica dei consumi accelerò di pari passo a quella del reddito.<br />

17<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

D<strong>al</strong>la metà degli anni Cinquanta a oggi, i consumi dell’it<strong>al</strong>iano medio sono cresciuti di quattro<br />

volte e mezzo, raggiungendo circa 15.500 euro nel 2008. Oggi l’<strong>al</strong>imentazione non<br />

prende più del 18-20 per cento dei consumi tot<strong>al</strong>i, dedicati in larga parte <strong>al</strong>l’abitazione (27<br />

per cento), ai trasporti (14 per cento), <strong>al</strong>l’acquisto di mobili, elettrodomestici e <strong>al</strong>tri servizi<br />

per la casa (6 per cento) e <strong>al</strong> tempo libero (4 per cento). Il dato nazion<strong>al</strong>e nasconde sostanzi<strong>al</strong>i<br />

differenze fra le princip<strong>al</strong>i aree geografiche: una famiglia del Nord spende ogni mese<br />

il 20 per cento in più della media nazion<strong>al</strong>e, mentre nel Sud e nelle Isole la spesa media è<br />

inferiore, rispettivamente, del 18 per cento e del 27 per cento <strong>al</strong>la media nazion<strong>al</strong>e.<br />

Non è dunque esagerazione usare l’abusata parola «rivoluzione» per descrivere l’esplosione<br />

dei consumi privati re<strong>al</strong>izzata nell’ultimo sessantennio 2 . Diamo oggi per scontati l’adeguatezza<br />

dell’<strong>al</strong>imentazione (si veda il riquadro: Gli it<strong>al</strong>iani: (quasi) mai sottonutriti), il comfort<br />

della casa, il tempo libero guadagnato con l’uso di lavatrice e lavapiatti, la libertà di movimento<br />

consentita d<strong>al</strong>l’automobile, l’intrattenimento domestico offerto d<strong>al</strong>la televisione, le<br />

vacanze, i viaggi, le comunicazioni istantanee con persone conosciute e sconosciute. Ma<br />

pochi si rendono conto di quanto recente sia l’uscita da un mondo, quello dei nostri padri e<br />

nonni, in cui erano rari quei consumi non di lusso che rendono un po’ più piacevole la vita:<br />

un abito elegante, la gita domenic<strong>al</strong>e fuori porta, uno spettacolo teatr<strong>al</strong>e, la lettura di un libro<br />

e dello stesso giorn<strong>al</strong>e quotidiano. Alla metà del Ventesimo secolo, soddisfatti i bisogni essenzi<strong>al</strong>i<br />

di cibo, vestiario e (modesta) abitazione, il consumo voluttuario si riduceva (per il<br />

solo capofamiglia) <strong>al</strong> bicchiere di vino con gli amici <strong>al</strong>l’osteria e <strong>al</strong>l’immancabile sigaro.<br />

2. L’aggettivo «rivoluzionario» è abusato e va usato con parsimonia ma il suo significato di «caratterizzato da profonde trasformazioni,<br />

apportatore di radic<strong>al</strong>i rinnovamenti» (Devoto-Oli) non potrebbe essere più appropriato <strong>al</strong> tema qui in discussione.<br />

Gli it<strong>al</strong>iani: (quasi) mai sottonutriti<br />

Nel 2008, pur destinando solo il 19 per cento della propria spesa tot<strong>al</strong>e a cibo e bevande,<br />

l’it<strong>al</strong>iano medio spendeva per nutrirsi quasi quattro volte più del suo antenato del<br />

1861. Questo semplice dato potrebbe indurre a pensare che la famiglia del nostro Gennaro<br />

Esposito fosse cronicamente sottonutrita. Benché nell’Ottocento fossero numerosi<br />

i casi di <strong>al</strong>imentazione insufficiente <strong>al</strong> norm<strong>al</strong>e funzionamento della persona, le ricerche<br />

quantitative più recenti temperano il pessimismo di molta storiografia tradizion<strong>al</strong>e.<br />

L’andamento della disponibilità di c<strong>al</strong>orie e di proteine giorn<strong>al</strong>iere per abitante nel corso<br />

dell’ultimo secolo e mezzo mostra come, nel primo cinquantennio unitario, le disponibilità<br />

c<strong>al</strong>oriche sono state t<strong>al</strong>i da consentire che la popolazione it<strong>al</strong>iana non abbia mai<br />

avuto – mediamente – un deficit energetico (Tabella A). Sin d<strong>al</strong> primo decennio dopo la<br />

proclamazione del Regno, con circa 2.500 chilo-c<strong>al</strong>orie giorn<strong>al</strong>iere per persona, l’it<strong>al</strong>iano<br />

medio si collocava già <strong>al</strong> di sopra della soglia comunemente utilizzata dagli esperti<br />

per demarcare l’area di sottonutrizione 1 . L’apporto c<strong>al</strong>orico dell’<strong>al</strong>imentazione cresce<br />

1. La soglia di demarcazione della sottonutrizione varia tra le 2000 e le 2500 chilo-c<strong>al</strong>orie <strong>al</strong> giorno per persona adulta.<br />

18


quindi senza soste sino ai consumi attu<strong>al</strong>i che si potrebbero definire addirittura eccessivi,<br />

soprattutto se si tiene conto della molto minore incidenza odierna, rispetto <strong>al</strong>l’Ottocento,<br />

del lavoro manu<strong>al</strong>e pesante che richiede un apporto c<strong>al</strong>orico elevato.<br />

Tabella A - Una dieta più ricca<br />

(Disponibilità di c<strong>al</strong>orie e proteine)<br />

C<strong>al</strong>oriea Proteineb di cui di origine anim<strong>al</strong>e<br />

1861 2.522 86 0,19<br />

1871 2.489 88 0,16<br />

1881 2.602 83 0,20<br />

1891 2.667 79 0,22<br />

1901 2.817 84 0,19<br />

1911 2.952 97 0,19<br />

1921 2.662 95 0,21<br />

1931 2.710 95 0,23<br />

1941 2.502 85 0,24<br />

1951 2.330 66 0,31<br />

1961 2.678 78 0,40<br />

1971 3.189 94 0,47<br />

1981 3.277 101 0,54<br />

1991 3.409 109 0,58<br />

2001 3.420 109 0,59<br />

2005 3.447 109 0,49<br />

a Chilo-c<strong>al</strong>orie per persona <strong>al</strong> giorno.<br />

b Grammi per persona <strong>al</strong> giorno.<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e FAO.<br />

Considerazioni an<strong>al</strong>oghe si possono fare per il contenuto proteico della dieta, sostanzi<strong>al</strong>mente<br />

adeguato – nel v<strong>al</strong>ore medio - sin d<strong>al</strong>l’inizio e crescente lungo i 150 anni<br />

successivi 2 . Il consumo medio giorn<strong>al</strong>iero di carne cresce molto lentamente sino <strong>al</strong>la seconda<br />

guerra mondi<strong>al</strong>e, per raddoppiare nel dopoguerra sino a raggiungere un massimo<br />

nel 1991. L’aumento post-bellico della spesa <strong>al</strong>imentare si traduce in un<br />

incremento (in parte forse indesiderabile) delle c<strong>al</strong>orie tot<strong>al</strong>i e in una diversificazione<br />

della dieta nella qu<strong>al</strong>e <strong>al</strong>imenti proteici costosi come carne e pesce spiazzano quelli<br />

tradizion<strong>al</strong>i meno cari (tipicamente i vari generi di legumi). Ricerche recenti hanno<br />

messo in luce nuovi dettagli sulla dinamica della composizione della dieta nel primo<br />

cinquantennio post-unitario: (i) i carboidrati fornivano circa l’80 per cento del tot<strong>al</strong>e<br />

delle c<strong>al</strong>orie, una percentu<strong>al</strong>e in linea con molte economie europee ottocentesche e<br />

paesi in via di sviluppo di oggi, (ii) il consumo di grassi – inizi<strong>al</strong>mente basso – è cresciuto<br />

senza soste nel tempo. Si noti che il grasso produce riserve di energia e dunque una<br />

2. La quantità di proteine raccomandata dai nutrizionisti è oggi pari a 56 grammi per adulto <strong>al</strong> giorno. Il contenuto proteico della dieta dell’it<strong>al</strong>iano<br />

medio è sempre stato largamente <strong>al</strong> di sopra di t<strong>al</strong>e livello.<br />

19<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

maggiore protezione nel caso di episodi di carenza o scarsità di cibo (in <strong>al</strong>tri termini, riduce<br />

la vulnerabilità <strong>al</strong>imentare); (iii) circa i micronutrienti (miner<strong>al</strong>i e vitamine), emergono<br />

chiare insufficienze nel primo ventennio (con l’importante eccezione del ferro), ma<br />

si registrano rapidi nel periodo 1881-1911 (+10% ferro, +13% niacina 3 , + 19% di vitamina<br />

A 4 ).<br />

Di fronte a queste statistiche, che inducono a ritoccare l’immagine di un’It<strong>al</strong>ia genericamente<br />

sottonutrita, sorge spontanea la classica questione del pollo di Trilussa. Una recente<br />

ricerca ha mostrato come nel 1881 quasi il 32 per cento della popolazione fosse<br />

sottonutrita, disponendo di meno di 2.000 chilo-c<strong>al</strong>orie giorn<strong>al</strong>iere, quota che c<strong>al</strong>a <strong>al</strong><br />

27 per cento nel 1911: il miglioramento <strong>al</strong>imentare medio si tradusse in un beneficio più<br />

che proporzion<strong>al</strong>e per i più poveri fra i poveri, soprattutto <strong>al</strong> Nord del Paese, culla dell’industri<strong>al</strong>izzazione<br />

it<strong>al</strong>iana di fine Ottocento. Al Sud, viceversa, non si notano miglioramenti:<br />

gli indicatori di sottonutrizione restarono stabili o addirittura peggiorarono tra<br />

il 1881 e il 1901. Questa constatazione potrebbe essere indagata ulteriormente se si potessero<br />

rapportare le necessità biologiche degli individui <strong>al</strong>le loro esigenze, diverse a seconda<br />

dell’età, del sesso, dello stile di vita, della massa corporea e del metabolismo<br />

bas<strong>al</strong>e. Purtroppo gli studi in argomento sono rari per il Diciannovesimo secolo. Tra le<br />

eccezioni vi è un lavoro condotto da Manfredi attorno <strong>al</strong> 1890 sul «popolo minuto» (le<br />

classi povere) di Napoli, per le qu<strong>al</strong>i rileva un’<strong>al</strong>imentazione “abbastanza variata, mista,<br />

ma prev<strong>al</strong>entemente veget<strong>al</strong>e, nella qu<strong>al</strong>e entrano di tanto in tanto il pesce e la carne<br />

e il formaggio sotto forma di prodotti scadenti o guasti”. Il pregio del lavoro di Manfredi<br />

non consiste tanto nella descrizione della dieta quanto nell’avere fornito per un piccolo<br />

ma significativo campione di proletari napoletani informazioni che ci hanno consentito<br />

di stimare per ciascun individuo la massa corporea e, dunque, l’adeguatezza dell’apporto<br />

c<strong>al</strong>orico.<br />

Il primo risultato interessante di <strong>al</strong>cune nostre elaborazioni sui dati di Manfredi è che –<br />

sulla base dell’indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI), importante indicatore<br />

sintetico dello stato di s<strong>al</strong>ute di una persona - nessuno degli individui an<strong>al</strong>izzati da Manfredi<br />

sarebbe classificato come «sottonutrito»: v<strong>al</strong>ori compresi fra 18,5 e 24,5 sono oggi<br />

considerati «norm<strong>al</strong>i» per un individuo in età adulta (Tabella B). La seconda considerazione<br />

riguarda il deficit c<strong>al</strong>orico. Considerate le caratteristiche fisiche di ciascun individuo<br />

e l’attività svolta – utilizzando una delle formule comunemente usate dai<br />

nutrizionisti - vediamo che solo la metà degli individui an<strong>al</strong>izzati presenta un deficit<br />

c<strong>al</strong>orico e che esso è pari a circa il 20 per cento, v<strong>al</strong>ore relativamente basso e probabilmente<br />

ben sopportabile. In <strong>al</strong>tre parole, tenuto conto di età, sesso e intensità del lavoro<br />

fisico, nel 1891, non vi è evidenza di sottonutrizione severa neppure tra il «popolo<br />

minuto» di Napoli.<br />

3. La niacina è una vitamina del gruppo B che permette la metabolizzazione delle proteine. Un’insufficiente assunzione di nicina porta,<br />

nel tempo, <strong>al</strong>l’insorgenza della «pellagra».<br />

4. La vitamina A è fattore cruci<strong>al</strong>e per la riduzione della mort<strong>al</strong>ità infantile, nonché per la riduzione del rischio di contrarre infezioni.<br />

20


Tabella B - Fabbisogno energetico del «popolo minuto» di Napoli, 1891<br />

Nome e cognome Professione Età Altezza Peso C<strong>al</strong>orie C<strong>al</strong>orie S<strong>al</strong>do<br />

(anni) (cm) (kg) BMI 1<br />

ingerite richieste energetico<br />

(kc<strong>al</strong>/giorno) (kc<strong>al</strong>/giorno) (%)<br />

Felice Condelmo Ciabattino 34 166 55,0 20,0 1997 2551 -21,7<br />

Nicola Maiella Garzone 18 155 47,5 19,8 2423 2481 -2,3<br />

Carmela Madrignano Mendicante 70 136 38,1 20,6 1794 1577 13,7<br />

Vincenzo Avitabile F<strong>al</strong>egname 40 162 62,3 23,7 2855 2612 9,3<br />

Maria N. Serva di piazza 40 140 48,3 24,6 1848 1943 -4,9<br />

N. N. Muratore 29 165 55,2 20,3 2156 2596 -17,0<br />

Luigi Sentinella Lazzarone 25 162 50,2 19,1 1982 2515 -21,2<br />

Antonietta Guarino Venditrice ambulante 30 146 52,9 24,8 1727 2122 -18,6<br />

1<br />

Body Mass Index.<br />

Fonte: elaborazioni su dati Manfredi (1893).<br />

Un carattere interessante, dei consumi <strong>al</strong>imentari è la stabilità delle quote di spesa nelle<br />

varie categorie di beni. Alcune nostre elaborazioni sulla base dell’Indagine sui consumi<br />

delle famiglie it<strong>al</strong>iane mostra come tra il 1968 e il 2008 la struttura della spesa per generi<br />

<strong>al</strong>imentari resti sostanzi<strong>al</strong>mente costante (Tabella C): destiniamo oggi <strong>al</strong> pane, <strong>al</strong>la<br />

carne, ai latticini, <strong>al</strong>le verdure una quota di spesa sostanzi<strong>al</strong>mente ugu<strong>al</strong>e a quella di<br />

quaranta anni fa. È inoltre eloquente osservare come la struttura della spesa <strong>al</strong>imentare<br />

dell’it<strong>al</strong>iano medio di oggi sia sostanzi<strong>al</strong>mente ugu<strong>al</strong>e a quella della famiglia di un aristocratico<br />

genovese del 1614. Se si tiene conto che la spesa tot<strong>al</strong>e per <strong>al</strong>imenti è fortemente<br />

cresciuta in v<strong>al</strong>ore assoluto la costanza nel tempo della composizione del bilancio<br />

<strong>al</strong>imentare indica una preferenza per una dieta bilanciata pur in presenza di mutamenti<br />

dei prezzi relativi delle vivande. Indica, inoltre, un miglioramento qu<strong>al</strong>itativo delle derrate<br />

consumate.<br />

Tabella C - La dieta mediterranea<br />

(Struttura % della spesa in generi <strong>al</strong>imentari)<br />

It<strong>al</strong>ia Aristocratico<br />

genovese<br />

1968 1972 1988 2008 1614<br />

Pane e cere<strong>al</strong>i 14 13 14 17 19<br />

Carne e pesce 34 36 37 31 28<br />

Latte, formaggi e uova 12 12 13 14 12<br />

Olii e grassi 9 8 5 4 7<br />

Frutta e verdura 10 10 17 18 12<br />

Zucchero, caffè e <strong>al</strong>tro 12 12 6 7 5<br />

Bevande 10 10 8 9 17<br />

100 100 100 100 100<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Novelli (1955) per il 1614.<br />

21<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

1.2 CASA, DOLCE CASA<br />

Soddisfatti i bisogni primari dell’<strong>al</strong>imentazione e del vestiario, il possesso di una casa il più<br />

possibile adeguata ha sempre costituito la priorità assoluta per ogni persona o nucleo familiare.<br />

Anche oggi, le indagini demoscopiche di Eurobarometro non lasciano dubbi: l’adeguatezza<br />

dell’abitazione è considerata, insieme a un buon lavoro, la condizione princip<strong>al</strong>e<br />

per una vita di buona qu<strong>al</strong>ità.<br />

Un indicatore rozzo ma efficace per v<strong>al</strong>utare l’adeguatezza dell’abitazione è l’indice di affollamento.<br />

La presenza di troppe persone per stanza favorisce la diffusione di m<strong>al</strong>attie infettive<br />

e aumenta la probabilità di incidenti domestici, ha effetti negativi sul benessere<br />

ment<strong>al</strong>e, accresce la probabilità di disgregazione familiare ed è, comunque, dannoso <strong>al</strong>lo<br />

sviluppo di legami <strong>al</strong>l’interno della comunità residenzi<strong>al</strong>e.<br />

Nel 1951 l’indice di affollamento delle abitazioni it<strong>al</strong>iane era pari a 1,31 persone per stanza,<br />

di poco inferiore a quello di vent’anni prima (1,36) 3 . Nel 1973, l’indice era sceso a 0,96,<br />

circa una stanza per persona dunque. La famiglia media, composta nel 1973 da 3,3 persone,<br />

viveva in una casa di 3,4 stanze. Nel 2001 l’indice di affollamento si era ridotto a 0,62.<br />

Nello stesso anno, la dimensione media della famiglia era scesa a 2,6 componenti e la dimensione<br />

media della casa era aumentata a 4,2 stanze.<br />

Appaiono diverse le condizioni abitative del Centro Nord e del Meridione (Grafico 1.1).<br />

Nell’area settentrion<strong>al</strong>e l’indice di affollamento è sempre inferiore a quello rilevato nel Mezzogiorno<br />

ma il divario si riduce considerevolmente nel tempo. Nel ventennio 1931-1951,<br />

“tutte le regioni centr<strong>al</strong>i e settentrion<strong>al</strong>i mostrano una tendenza <strong>al</strong>la diminuzione, e perciò<br />

un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, mentre tutte quelle meridion<strong>al</strong>i,<br />

tranne gli Abruzzi e Molise e la Sardegna, presentano un aumento del numero medio<br />

delle persone per stanza” (Capodiferro, 1965). A partire d<strong>al</strong> 1951, tuttavia, l’indice di affollamento<br />

si è ridotto più rapidamente nella parte meridion<strong>al</strong>e d’It<strong>al</strong>ia.<br />

Il confronto con <strong>al</strong>tri paesi europei indica che l’affollamento abitativo in It<strong>al</strong>ia è più elevato<br />

che in Francia, Germania e Regno Unito, e simile a quello di Grecia, Spagna e Portog<strong>al</strong>lo.<br />

Secondo la prima indagine europea sulla qu<strong>al</strong>ità della vita, nel 2003 se si considera un’ipotetica<br />

famiglia di 4 persone, rispetto <strong>al</strong>la casa di 6 stanze di cui disponeva in It<strong>al</strong>ia, in Germania<br />

ne aveva 7,6, in Francia 8 e addirittura 10,4 nel Regno Unito.<br />

In mezzo secolo, l’abitazione dell’it<strong>al</strong>iano medio è molto cambiata. Nel 1948 la stanza da<br />

bagno era un lusso inst<strong>al</strong>lato solo nel 27 per cento delle case e anche la toilette con acqua<br />

corrente era il privilegio solo del 60 per cento delle famiglie. Se l’elettricità era già univers<strong>al</strong>mente<br />

diffusa, solo un’abitazione su dieci era raggiunta d<strong>al</strong> telefono, ma oltre la metà<br />

godeva di intrattenimento domestico offerto d<strong>al</strong>la radio. Il frigorifero (<strong>al</strong>lora si chiamava<br />

3. Non esistono dati comparabili per anni precedenti.<br />

22


ghiacciaia elettrica) era assente da quasi tutte le abitazioni (ne godeva solo un 3 per cento<br />

di super-privilegiati). Due famiglie su tre avevano una stufa a legna o a carbone. Il risc<strong>al</strong>damento<br />

centr<strong>al</strong>e era un lusso inst<strong>al</strong>lato nel 10 per cento delle case.<br />

Grafico 1.1 - Abitazioni meno affollate<br />

(Numero di persone per stanza)<br />

1,95<br />

1,75<br />

1,55<br />

1,35<br />

1,15<br />

0,95<br />

0,75<br />

0,55<br />

1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001<br />

Se nel 1948 il 31 per cento delle famiglie viveva in abitazione di proprietà, nel 2001 la proprietà<br />

si era diffusa <strong>al</strong> 74 per cento delle famiglie.<br />

Nel 2001, la famiglia media composta da 2,6 persone viveva in un’abitazione di 96 mq,<br />

composta da 4,2 stanze, con <strong>al</strong>meno un loc<strong>al</strong>e bagno separato, termosifoni a gas, frigorifero,<br />

lavatrice, televisore. Oltre la metà delle abitazioni era dotata di box per l’immancabile automobile<br />

(posseduta d<strong>al</strong>l’80 per cento delle famiglie).<br />

1.3 ELETTRODOMESTICI E QUATTRO RUOTE<br />

Nel 1945, le Officine Meccaniche Eden Fumag<strong>al</strong>li di Monza, produttrici di strumenti per<br />

macchine utensili di precisione, crearono la Candy Modello 50, pubblicizzata come la<br />

prima lavabiancheria tutta it<strong>al</strong>iana. Fu l’inizio di un successo di produzione, esportazione<br />

e consumo che caratterizzò parte importante del «miracolo» it<strong>al</strong>iano.<br />

Prima della guerra, anche nei paesi economicamente più evoluti (Stati Uniti e Gran Bretagna),<br />

la diffusione della macchina lavabiancheria era limitata a quelle famiglie a reddito<br />

medio-<strong>al</strong>to che l’aumento dei s<strong>al</strong>ari aveva obbligato a ridurre progressivamente il servizio<br />

domestico. Nel dopoguerra, in tutto l’Occidente, l’enorme sviluppo degli elettrodomestici<br />

fu dovuto a un circolo virtuoso nel qu<strong>al</strong>e mutamenti cultur<strong>al</strong>i e soci<strong>al</strong>i interagirono con<br />

23<br />

Centro Nord<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Mezzogiorno<br />

Fonte: elaborazioni su dati Capodiferro (1965) per gli anni 1931 e 1951 e ISTAT per gli anni 1973-2001.<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

quelli tecnologici. La crescente partecipazione della donna <strong>al</strong> mercato del lavoro fece esplodere<br />

la domanda per tutto ciò che consentiva un risparmio di tempo nelle faccende domestiche;<br />

la tecnologia fordista rese possibile la produzione a prezzi decrescenti degli<br />

elettrodomestici; l’uscita della donna d<strong>al</strong>le mura domestiche creò un reddito aggiuntivo che<br />

permise a una massa crescente di famiglie l’acquisto dei nuovi beni di consumo durevole.<br />

Le economie di sc<strong>al</strong>a resero possibili ulteriori diminuzioni di prezzo, incentivando così <strong>al</strong>tre<br />

donne a cercare impieghi remunerati fuori casa.<br />

Il consumismo che colse quasi di improvviso l’It<strong>al</strong>ia post-bellica si espresse nei beni di consumo<br />

durevole: gli elettrodomestici, le due e le quattro ruote. Sono questi gli oggetti massimi<br />

del desiderio nei due o tre decenni in cui si re<strong>al</strong>izza la definitiva e tumultuosa uscita da una<br />

società sino ad <strong>al</strong>lora parsimoniosa nei consumi. Si tratta di beni che soddisfano <strong>al</strong> tempo<br />

stesso bisogni effettivi (riduzione del lavoro domestico, libertà di movimento) e quelli, ugu<strong>al</strong>mente<br />

impellenti, dell’affermazione di un nuovo status economico, se non anche soci<strong>al</strong>e.<br />

Frigorifero e lavatrice non costituiscono più, da tempo, oggetto del desiderio consumista:<br />

ogni famiglia it<strong>al</strong>iana possiede entrambi (nel 2007 il 99,3 per cento delle famiglie aveva il<br />

frigorifero, e il 97 la lavatrice). All’inizio degli anni Cinquanta, invece, gli elettrodomestici<br />

bianchi erano molto rari. Nel 1952, a Milano (la città più ricca e «moderna») solo il 4,6 per<br />

cento delle famiglie possedeva un frigorifero e solo il 2,3 per cento una lavatrice. È ragionevole<br />

ipotizzare che nel resto d’It<strong>al</strong>ia queste percentu<strong>al</strong>i fossero inferiori.<br />

La diffusione del frigorifero cominciò negli anni Cinquanta, quella della lavatrice qu<strong>al</strong>che<br />

anno dopo. Nel 1958 già il 13 per cento delle famiglie it<strong>al</strong>iane possedeva un frigorifero, ma<br />

solo il 3 per cento una lavatrice. Negli anni successivi, la diffusione di entrambi fu straordinariamente<br />

rapida (Tabella 1.1). L’esplosione della domanda di beni di consumo durevoli<br />

e la capacità delle imprese it<strong>al</strong>iane di soddisfarla (e di esportare gli stessi beni sfruttando le<br />

economie di sc<strong>al</strong>a generate d<strong>al</strong>la domanda interna) fu uno dei caratteri più evidenti del «miracolo»<br />

degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1965, più della metà delle famiglie it<strong>al</strong>iane possedeva<br />

un frigorifero, quasi un quarto una lavatrice. Nel 1980 solo il 5 per cento delle<br />

famiglie it<strong>al</strong>iane non aveva un frigorifero.<br />

È facile ipotizzare che la diffusione ritardata della lavatrice rispetto a quella del frigorifero<br />

sia legata <strong>al</strong> ritardo con cui si verificò in It<strong>al</strong>ia la trasformazione della tradizion<strong>al</strong>e famiglia<br />

monoreddito. Lo spostamento della popolazione d<strong>al</strong>la campagna <strong>al</strong>la città lasciò inizi<strong>al</strong>mente<br />

<strong>al</strong>le donne il tempo per il lavoro domestico che aveva sostituito quello nei campi.<br />

Mentre il frigorifero era essenzi<strong>al</strong>e <strong>al</strong>la conservazione dei cibi in un contesto urbano, la lavatrice<br />

poteva aspettare: il lavoro domestico femminile era ancora «a buon mercato» e la<br />

donna vi si sottoponeva ancora pazientemente. La lavatrice e, successivamente, la macchina<br />

lavastoviglie si affermarono con l’avvento anche in It<strong>al</strong>ia di una generazione di donne<br />

desiderose di appropriarsi del proprio tempo vuoi per lavorare fuori casa, vuoi per dedicarsi<br />

a compiti meno ingrati del lavaggio di panni e piatti.<br />

24


Tabella 1.1 - Frigorifero e lavatrice per tutti<br />

(Famiglie che possiedono il bene durevole, quote %)<br />

ITALIANI<br />

DEGLI BENESSERE DEL BALZO LUNGO IL BREVE SECOLO NEL 1.<br />

1952 solo Milano 4,6 2,3<br />

1958 13,0 3,0<br />

1959 15,0 4,0<br />

1960 17,0 5,0<br />

1961 24,0 6,0<br />

1962 32,0 8,0<br />

1963 40,0 13,0<br />

1964 48,0 18,0<br />

1965 55,0 23,0<br />

1970 76,4 50,3<br />

1980 95,3 83,8<br />

1985 95,7 87,0<br />

1988 96,6 90,9<br />

1990 96,3 92,5<br />

1995 97,4 93,5<br />

2001 99,4 96,7<br />

2007 99,3 97,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati DOXA e ISTAT.<br />

Non vi sono oggi differenze significative tra aree geografiche nella diffusione di frigoriferi e lavatrici.<br />

Almeno per il frigorifero, tuttavia, il processo 25 di diffusione è avvenuto in tempi diversi<br />

nelle diverse zone del Paese. Nel 1961 la percentu<strong>al</strong>e di famiglie del Nord che lo possedeva<br />

era più che doppia di quella delle famiglie del Mezzogiorno (rispettivamente 32 e 14 per cento).<br />

La FIAT, destinata a plasmare una parte non trascurabile della storia industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana e a<br />

fornire l’oggetto di desiderio forse tuttora più importante del consumatore giovane di sesso<br />

maschile, fu fondata nel 1899. Cinque anni dopo, le automobili erano ancora rarissime. Il<br />

primo fascicolo dell’Annuario statistico delle città it<strong>al</strong>iane, pubblicato nel 1906, registra il<br />

numero di automobili nei capoluoghi di provincia. In 16 di essi non era presente neppure<br />

un’auto. Milano, con 445 autovetture (0,8 ogni mille abitanti) guidava la classifica. A Genova<br />

c’erano 0,5 automobili per mille abitanti, a Torino – patria della FIAT – 0,3, a Roma e<br />

Firenze 0,2, a Napoli e P<strong>al</strong>ermo 0,1. C’erano a Venezia tante gondole, costosissime e destinate<br />

solo <strong>al</strong>la più ricca aristocrazia, per mille abitanti quante automobili a Milano. La «macchina»<br />

era, e restò ancora per molti decenni, bene di gran lusso, consumo cospicuo delle<br />

fasce di reddito più elevate.<br />

Ancora <strong>al</strong>la vigilia della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e, solo lo 0,7 per cento degli it<strong>al</strong>iani possedeva<br />

un’auto, nel Meridione la loro densità era circa la metà di quella del Settentrione (Ta-<br />

25<br />

Frigorifero Lavatrice


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

bella 1.2). La rapida diffusione delle quattro ruote cominciò anch’essa negli anni Cinquanta.<br />

In un decennio il numero di autovetture ogni mille abitanti aumentò di oltre cinque volte<br />

passando d<strong>al</strong>le 9 del 1951, livello paragonabile a quello odierno di Camerun e Pakistan, <strong>al</strong>le<br />

48 del 1961. Negli anni Sessanta il numero delle autovetture pro capite quadruplicò. Nel<br />

1971 circolava un’autovettura ogni 5 abitanti. Nei decenni successivi i tassi di crescita furono<br />

considerevolmente inferiori. Nel 2001 c’erano 583 autovetture ogni mille abitanti, 12 volte<br />

il v<strong>al</strong>ore del 1961 e circa 3 volte quello del 1971. Con una macchina ogni 1,5 abitanti (contati<br />

anche i bambini) l’It<strong>al</strong>ia risulta ai primi posti nel mondo per il tasso di motorizzazione.<br />

Nel Mezzogiorno le auto hanno sempre avuto minore diffusione che nel resto del Paese. Nel<br />

1951 c’erano solo 4 autovetture ogni mille abitanti, contro le 12 del Nord. Tuttavia, fu il<br />

Tabella 1.2 - La motorizzazione è di massa<br />

(Autovetture per mille abitanti)<br />

Nord Centro Mezzogiorno It<strong>al</strong>ia<br />

1921 1 1 0 1<br />

1933a 7 6 3 5<br />

1938b 9 8 3 7<br />

1951 12 11 4 9<br />

1961 61 60 27 48<br />

1971 242 248 143 209<br />

1981 381 380 235 329<br />

1991 558 569 394 501<br />

2001 599 647 527 583<br />

a) Parco veicoli 1933/popolazione 1931.<br />

b) Parco veicoli 1938/popolazione 1936.<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e FAO.<br />

Mezzogiorno a registrare negli anni Cinquanta il maggiore tasso di crescita delle quattro<br />

ruote. I dati del 2001 mostrano che la minore diffusione nel Mezzogiorno permane, anche<br />

se i differenzi<strong>al</strong>i sono molto attenuati rispetto <strong>al</strong> passato. Al Sud il numero di autovetture è<br />

pari <strong>al</strong> 90 per cento della media nazion<strong>al</strong>e, e <strong>al</strong>l’81 per cento di quella del Centro (la ripartizione<br />

geografica oggi con la maggiore diffusione).<br />

Il costo enorme dell’espansione delle quattro ruote a uso privato è costituito dagli incidenti<br />

strad<strong>al</strong>i che, in t<strong>al</strong>une fasce di età, costituiscono oggi una delle princip<strong>al</strong>i cause di morte.<br />

Nel 1938 morirono sulle strade it<strong>al</strong>iane 2.490 persone, s<strong>al</strong>ite a 10.104 nel 1971. D<strong>al</strong>l’inizio<br />

degli anni Settanta, questo terribile tributo pagato d<strong>al</strong>la collettività <strong>al</strong>l’espansione della<br />

motorizzazione è venuto diminuendo sino <strong>al</strong>le 4.731 morti per incidenti strad<strong>al</strong>i registrate<br />

nel 2008. La riduzione degli incidenti mort<strong>al</strong>i è stata particolarmente rapida da quando,<br />

con sorprendente auto-disciplina, gli it<strong>al</strong>iani hanno largamente accettato l’uso del casco e<br />

della cintura di sicurezza.<br />

26


1.4 LO SPETTACOLO IN CASA<br />

Sin verso la metà del Novecento, solo le persone davvero benestanti potevano godere in<br />

modo regolare di spettacoli teatr<strong>al</strong>i e music<strong>al</strong>i. Questi venivano di tanto in tanto organizzati<br />

dai sovrani e dai governi nazion<strong>al</strong>i e loc<strong>al</strong>i in luoghi aperti <strong>al</strong> pubblico per intrattenere la<br />

massa dei cittadini che non avrebbe avuto <strong>al</strong>trimenti accesso a questo tipo di svago. Queste<br />

iniziative, non prive di v<strong>al</strong>enze politiche sin d<strong>al</strong>l’antichità, erano comunque di carattere<br />

occasion<strong>al</strong>e. L’avvento della radio e, soprattutto, della televisione costituì un cambiamento<br />

impossibile da sopravv<strong>al</strong>utare nella disponibilità di intrattenimento e svago. È oggi una dimensione<br />

fondament<strong>al</strong>e, da tutti data per scontata, della vita quotidiana.<br />

Esistono oggi in It<strong>al</strong>ia 521 licenze televisive per ogni mille abitanti, più di una per famiglia.<br />

Nella classifica internazion<strong>al</strong>e della diffusione delle licenze (una statistica che sottov<strong>al</strong>uta<br />

il numero di apparecchi), gli Stati Uniti, con 740 televisori per mille abitanti, occupano il<br />

terzo posto nel mondo, mentre l’It<strong>al</strong>ia è ventunesima, seguita però da paesi qu<strong>al</strong>i l’Austr<strong>al</strong>ia,<br />

il Regno Unito, il Belgio; una collocazione, sotto questo profilo, a un livello intermedio<br />

tra i paesi a elevato reddito.<br />

La diffusione degli strumenti di intrattenimento domestico data da tempi recenti. La prima statistica<br />

disponibile registra l’esistenza nel 1928, in tutta It<strong>al</strong>ia, di 63 mila apparecchi radio, uno<br />

e mezzo per ogni mille abitanti: ancora un bene raro, quasi di lusso. Nel 1931 se ne contavano<br />

già 6 e nel 1940 circa 31. Nel 1958, l’anno di massima espansione di questo mezzo di<br />

intrattenimento, vi erano in It<strong>al</strong>ia poco più di 6 milioni di radio, 127 per mille abitanti. Nel<br />

trentennio 1928-58 la quantità di apparecchi radiofonici raddoppiava ogni 5 anni.<br />

In un periodo di tempo di lunghezza comparabile dopo il primo apparire (1954-1984), le<br />

licenze televisive sono aumentate ogni anno del 17,8 per cento l’anno (raddoppiavano ogni<br />

4 anni). Nel 1984, un it<strong>al</strong>iano su quattro era titolare di licenza televisiva (un dato che certamente<br />

sottostima la diffusione dei televisori).<br />

L’intrattenimento domestico continuo, anche se non sempre di qu<strong>al</strong>ità, avvicina forse più di<br />

ogni <strong>al</strong>tra cosa lo standard di vita del cittadino comune, anche di reddito basso, a consumi<br />

che, in epoca pre-industri<strong>al</strong>e erano disponibili solo ai pochissimi in grado di pagare compagnie<br />

teatr<strong>al</strong>i perché tenessero rappresentazioni a domicilio. A questa considerazione va<br />

aggiunta quella dell’enorme numero di spettacoli disponibili in ogni casa, a ogni ora del<br />

giorno e della notte. Se la qu<strong>al</strong>ità degli stessi può essere messa in dubbio, la crescente possibilità<br />

di scelta aggiunge v<strong>al</strong>ore <strong>al</strong>la diffusione di questo mezzo.<br />

27<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

1.5 NON TUTTO IL BENESSERE È MISURABILE IN MONETA<br />

Le dimensioni del benessere delle qu<strong>al</strong>i abbiamo parlato sin qui si riferiscono <strong>al</strong>la sfera del<br />

consumo (e del reddito) privato. I beni dei qu<strong>al</strong>i abbiamo parlato hanno un prezzo di mercato<br />

e sono pertanto misurabili con il metro monetario. La loro somma costituisce la domanda<br />

privata, la componente maggiore (in tempo di pace in genere superiore <strong>al</strong> 60 per<br />

cento) dell’uso che viene fatto delle risorse prodotte d<strong>al</strong> paese (PIL). Il consumo, tuttavia, per<br />

quanto importantissimo soprattutto fino a quando non giunge a soddisfare tutti i bisogni essenzi<strong>al</strong>i,<br />

non esaurisce le dimensioni del benessere. La qu<strong>al</strong>ità della vita non dipende solo<br />

dai beni di cui disponiamo: la s<strong>al</strong>ute e l’istruzione, per esempio, ne sono componenti essenzi<strong>al</strong>i.<br />

Ma come misurarle? Qu<strong>al</strong>e peso dare a queste variabili in una v<strong>al</strong>utazione complessiva<br />

del benessere di una collettività? Qu<strong>al</strong>i <strong>al</strong>tre variabili, di minore immediata<br />

percezione, includere in questa v<strong>al</strong>utazione?<br />

Gli economisti, insieme ad <strong>al</strong>tri scienziati soci<strong>al</strong>i, si sono posti da tempo il problema di come<br />

misurare le dimensioni del benessere per le qu<strong>al</strong>i non si forma un prezzo di mercato e, compito<br />

ancora più difficile, di come creare indicatori sintetici che riassumano le diverse dimensioni<br />

del benessere. Inutile dire che i problemi tecnici e logici insiti nella costruzione di questi<br />

indicatori sono di difficile soluzione. Prendiamo l’esempio più noto. Da molti anni, le Nazioni<br />

Unite hanno sviluppato un indice dello sviluppo umano (Human Development Index)<br />

dei singoli paesi che tiene conto del benessere materi<strong>al</strong>e (misurato d<strong>al</strong> PIL per abitante), della<br />

durata media della vita (misurata d<strong>al</strong>la speranza di vita <strong>al</strong>la nascita) e del cosiddetto capit<strong>al</strong>e<br />

umano (misurato d<strong>al</strong>l’incidenza dell’<strong>al</strong>fabetizzazione o della scolarizzazione). Un simile<br />

indice pone due problemi princip<strong>al</strong>i: quello della scelta delle variabili e quello della loro<br />

ponderazione. Si tratta, <strong>al</strong>la fine, di scelte basate su premesse di v<strong>al</strong>ore. Le Nazioni Unite hanno<br />

saggiamente selezionato due variabili sull’importanza delle qu<strong>al</strong>i vi è larghissimo consenso:<br />

pochi negano che la durata della vita umana sia un v<strong>al</strong>ore essenzi<strong>al</strong>e (e una componente<br />

basilare del benessere umano) e che l’istruzione consenta <strong>al</strong>l’uomo non solo di ottenere un<br />

reddito più elevato ma anche di «funzionare» autonomamente in modo più pieno in tutte le<br />

dimensioni della vita. Ma, se si aggiungessero – come molti suggeriscono e tentano di fare –<br />

<strong>al</strong>tre variabili, sarebbero queste <strong>al</strong>trettanto univers<strong>al</strong>mente accettate? Possiamo immaginare la<br />

virulenza dei dibattiti che susciterebbe l’inclusione tra gli indicatori di benessere della libertà<br />

o meno per le donne di tenere il velo a scuola. Questo è forse un esempio limite, ma è difficile<br />

pensare che il grado di libertà goduto d<strong>al</strong>le persone, la possibilità di determinare il proprio<br />

destino e di concorrere a re<strong>al</strong>izzare quello collettivo non costituiscano – come ha sottolineato<br />

fra gli <strong>al</strong>tri Amartya Sen – un elemento importante del benessere. Non appena si passa<br />

<strong>al</strong>la scelta degli indicatori, a decidere qu<strong>al</strong>i libertà includere negli indici di benessere, i giudizi<br />

di v<strong>al</strong>ore, le scelte di campo, le stesse v<strong>al</strong>utazioni politiche contingenti diventano inevitabili.<br />

Attenzione: nemmeno gli indicatori misurabili quantitativamente in moneta sono «oggettivi»,<br />

slegati da v<strong>al</strong>utazioni soggettive. Un buon esempio è dato d<strong>al</strong> dibattito sulle condizioni<br />

di vita (il benessere) degli operai durante la rivoluzione industri<strong>al</strong>e. Il trasferimento delle<br />

persone d<strong>al</strong>la campagna <strong>al</strong>la città, d<strong>al</strong> lavoro campestre <strong>al</strong>la fabbrica ha migliorato il tenore<br />

di vita degli operai? Il dibattito dura da quasi due secoli. È sufficiente stabilire che, a parte<br />

28


la fase inizi<strong>al</strong>e della rivoluzione industri<strong>al</strong>e, i s<strong>al</strong>ari re<strong>al</strong>i – il potere d’acquisto, i consumi – degli<br />

operai sono aumentati? Sì, hanno detto gli «ottimisti», no ha ribattuto per decenni la scuola<br />

«pessimista». All’inizio del Ventesimo secolo, quest’ultima non negava che i s<strong>al</strong>ari re<strong>al</strong>i fossero<br />

cresciuti ma rilevava come parte di essi venisse spesa in beni (per esempio gin e birra) che<br />

– a loro parere – lungi d<strong>al</strong>l’accrescere il benessere lo diminuivano, sottolineando gli effetti devastanti<br />

dell’<strong>al</strong>colismo nelle città inglesi di primo Ottocento. A questa visione veniva opposta<br />

una critica radic<strong>al</strong>e: se l’operaio decideva di spendere il proprio reddito aggiuntivo nel consumo<br />

di <strong>al</strong>col ciò indica una precisa preferenza per quel bene e, dunque, produce un aumento<br />

del benessere oppure ha conseguenze negative sulla qu<strong>al</strong>ità della vita di una persona? Su qu<strong>al</strong>e<br />

base i «pessimisti» fondavano la v<strong>al</strong>utazione negativa di t<strong>al</strong>uni consumi invece di <strong>al</strong>tri?<br />

Un’ulteriore difficoltà, evidenziata tra l’<strong>al</strong>tro d<strong>al</strong>la costruzione dell’indice di sviluppo umano<br />

è quella della cosiddetta aggregazione. Come si giunge a un indicatore sintetico? Come si<br />

mettono insieme variabili tanto diverse, misurate in modo tanto diverso, qu<strong>al</strong>i reddito, speranza<br />

di vita e istruzione? Le Nazioni Unite hanno risolto s<strong>al</strong>omonicamente il problema<br />

dando a ciascuna delle tre un peso ugu<strong>al</strong>e nella formazione dell’indice. Il problema è che<br />

nessuno può dire a priori se un aumento del 10 per cento nella durata della vita accresca il<br />

benessere quanto a un aumento del 10 per cento nei consumi. Un modo per uscirne è quello<br />

di chiederlo ai diretti interessati. Le indagini soci<strong>al</strong>i sulla qu<strong>al</strong>ità della vita si stanno moltiplicando<br />

e sappiamo oggi molto più di quanto sapessimo qu<strong>al</strong>che decennio addietro sulle<br />

preferenze delle persone. Questa metodologia implica, natur<strong>al</strong>mente, l’accettazione dell’ipotesi<br />

che ciascuno di noi sappia meglio di chiunque <strong>al</strong>tro che cosa sia «bene» per sé. Con<br />

questa premessa, il problema del consumo di <strong>al</strong>col nella Manchester del primo Ottocento<br />

o del velo a scuola nella banlieue parigina di oggi si risolverebbe da solo.<br />

Come si esce da queste difficoltà filosofiche prima ancora che metodologiche che potrebbero<br />

facilmente condurre a un agnosticismo tot<strong>al</strong>e e, dunque, a rinunciare a ricercare indicatori<br />

di benessere non riconducibili <strong>al</strong> metro monetario?<br />

Tanto l’agnosticismo radic<strong>al</strong>e quanto il fideismo acritico nella bontà di qu<strong>al</strong>unque indicatore<br />

sono ingiustificati. È necessario essere consapevoli che ogni statistica (ogni indicatore)<br />

va v<strong>al</strong>utata sulla base dello scopo conoscitivo che essa si propone. Nel nostro caso vogliamo<br />

mettere in luce l’evoluzione del benessere degli it<strong>al</strong>iani, nelle sue diverse dimensioni. La<br />

scelta di ciascuna delle variabili che presentiamo è, pertanto, aperta <strong>al</strong>la critica sulla sua idoneità<br />

o meno a catturare elementi importanti del complessivo benessere individu<strong>al</strong>e e soci<strong>al</strong>e.<br />

Ci siamo fatti guidare in questa scelta in parte d<strong>al</strong>la letteratura in argomento, in parte<br />

– per necessità – d<strong>al</strong>la disponibilità di dati. I risultati che presentiamo sono il frutto parzi<strong>al</strong>e<br />

di una ricerca in corso, non ancora conclusa, che tenta la ricostruzione di dati comparabili<br />

sulla base di elementi sparsi nelle fonti più disparate.<br />

29<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

1.6 LA DURATA DELLA VITA E LA SALUTE<br />

“Negli ultimi 300 anni – scrive Fogel – e soprattutto nell’ultimo secolo, gli esseri umani<br />

hanno conquistato un grado senza precedenti di controllo dell’ambiente in cui vivono – un<br />

grado di controllo tanto elevato da porli in un insieme separato non solo d<strong>al</strong>le <strong>al</strong>tre specie<br />

viventi ma anche d<strong>al</strong>le precedenti generazioni di homo sapiens” (Fogel, 2004). Questa trasformazione<br />

ha due effetti: l’eliminazione della condanna <strong>al</strong>la fame e l’<strong>al</strong>lungamento della<br />

vita media. In It<strong>al</strong>ia questa rottura con il passato pluri-millenario è iniziata in ritardo rispetto<br />

<strong>al</strong>l’Europa Nord Occident<strong>al</strong>e, culla delle rivoluzioni agraria e di quella industri<strong>al</strong>e, ma si è<br />

svolta poi secondo una dinamica simile a – e t<strong>al</strong>volta più virtuosa di – quella dei paesi dell’Occidente<br />

oggi a reddito elevato.<br />

Della fame abbiamo detto. Diciamo ora qu<strong>al</strong>cosa su longevità e s<strong>al</strong>ute. Ciascuno di noi, se<br />

non afflitto da nichilismo radic<strong>al</strong>e, v<strong>al</strong>uta la vita come il bene supremo e si sforza di farla<br />

durare il più a lungo possibile. La durata della vita media è, dunque, un indicatore di benessere<br />

sul qu<strong>al</strong>e esistono poche controversie. Nel 1872, il primo anno per il qu<strong>al</strong>e disponiamo<br />

di stime credibili, quella che i demografi chiamano «speranza (cioè v<strong>al</strong>ore atteso) di<br />

vita <strong>al</strong>la nascita» era di circa 30 anni. Non esiste oggi paese <strong>al</strong> mondo ove si registri un v<strong>al</strong>ore<br />

tanto basso: i paesi dell’Africa che detengono il triste primato della più breve vita attesa<br />

(Angola, Zambia, Lesotho, Mozambico, Sierra Leone) si collocano tutti sopra i 40 anni.<br />

Uno dei maggiori problemi it<strong>al</strong>iani <strong>al</strong> momento dell’Unità era, dunque, l‘elevatissimo tasso<br />

di mort<strong>al</strong>ità, anzitutto infantile. Il confronto con l’antica Roma, dove si stima che la speranza<br />

di vita <strong>al</strong>la nascita fosse intorno ai 25-26 anni, rende l’idea di quanto modesti fossero<br />

stati i progressi registrati nel corso dei millenni precedenti.<br />

Se <strong>al</strong> momento dell’Unità, l’It<strong>al</strong>ia occupava in Europa uno degli ultimi posti per la speranza<br />

media di vita, a circa 150 anni di distanza, la durata della vita dell’it<strong>al</strong>iano medio è seconda<br />

nel mondo soltanto a quella del giapponese. I confronti internazion<strong>al</strong>i non sono sempre<br />

precisi e le statistiche non sono unanimi nell’indicare questo secondo posto dell’It<strong>al</strong>ia, ma<br />

la conclusione è comunque robusta: il nostro è uno dei paesi in cui si vive più a lungo.<br />

Questo dato è di una eloquenza difficile da eguagliare per chi voglia documentare le proporzioni<br />

del successo – in termini di benessere – della società it<strong>al</strong>iana.<br />

La speranza di vita dei due sessi ha andamenti diversi (Grafico 1.2). Sino quasi <strong>al</strong>la prima<br />

guerra mondi<strong>al</strong>e, contrariamente a quanto avveniva in <strong>al</strong>tri paesi, maschi e femmine it<strong>al</strong>iani<br />

avevano <strong>al</strong>l’incirca la medesima speranza di vita <strong>al</strong>la nascita. Il gender gap nasce nella<br />

prima decade del Novecento (ma resta contenuto, meno di un anno), per poi quasi triplicare<br />

(da 1,1 a 2,8 anni) tra 1920 e 1938. Nel 1950 la differenza di speranza di vita tra i due<br />

sessi era pari a 5 anni, che divennero 6 nel 1970 fino a sfiorare un massimo di 7 anni nel<br />

1979. Oscillò intorno a questi livelli fino <strong>al</strong> 1992 per iniziare poi a ridursi stabilmente. L’ultimo<br />

dato disponibile, per il 2006, mostra un gap di 5,5 anni. Per gli anni recenti, sono soprattutto<br />

il complesso dei tumori e le m<strong>al</strong>attie cardiovascolari a essere responsabili del<br />

divario di anni di vita media tra i due sessi.<br />

30


Dati affidabili sulla speranza di vita a livello di ripartizioni geografiche esistono solo a partire<br />

dagli anni Settanta del secolo scorso. Nel 1974, la maggiore longevità (74 anni in media)<br />

si registrava nelle regioni centr<strong>al</strong>i seguite d<strong>al</strong> Mezzogiorno (72,9) e d<strong>al</strong> Nord (72,3). Nel<br />

2006, la speranza di vita <strong>al</strong> Nord (81,4) aveva raggiunto quella del Centro (81,5); il Sud era<br />

solo margin<strong>al</strong>mente indietro (80,7), a causa di una mort<strong>al</strong>ità infantile più elevata.<br />

Le cause del drammatico <strong>al</strong>lungamento della vita media sono molteplici. Molte di esse legate<br />

ai progressi della scienza medica, <strong>al</strong>tre legate <strong>al</strong>lo sviluppo economico. Tra queste ultime le<br />

princip<strong>al</strong>i sono l’eliminazione della sottonutrizione, il cambiamento degli stili di vita e la creazione<br />

di ambienti domestici e urbani più s<strong>al</strong>ubri. L’accresciuto livello di istruzione medio è<br />

stato, da parte sua, veicolo indispensabile <strong>al</strong>la diffusione di norme e comportamenti igienici<br />

adeguati, anzitutto <strong>al</strong> livello familiare nel qu<strong>al</strong>e il ruolo della donna si è rivelato essenzi<strong>al</strong>e.<br />

Grafico 1.2 - Vita più lunga...<br />

(It<strong>al</strong>ia, speranza di vita in anni)<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

1872<br />

1878<br />

1884<br />

1890<br />

Femmine Maschi<br />

1896<br />

1902<br />

1908<br />

1914<br />

1920<br />

1926<br />

Fonte: elaborazioni su dati Human Mort<strong>al</strong>ity Database.<br />

1932<br />

1938<br />

31<br />

1944<br />

1950<br />

1956<br />

1962<br />

1968<br />

1974<br />

1980<br />

1986<br />

1992<br />

1998<br />

Vivere più a lungo non significa tuttavia vivere anche meglio. Sorge dunque spontanea la<br />

domanda: i guadagni ottenuti sul fronte della durata della vita, sono anni in buona o cattiva<br />

s<strong>al</strong>ute? A essa è impossibile dare risposta adeguata per il lungo periodo. Oggi tuttavia viene<br />

elaborato un indicatore che si chiama «speranza di vita in buona s<strong>al</strong>ute», definito come il<br />

numero medio di anni che restano da vivere per ogni classe di età in condizioni di buona<br />

s<strong>al</strong>ute. In It<strong>al</strong>ia, si considerano in buona s<strong>al</strong>ute le persone che - in occasione dell’indagine<br />

ISTAT in argomento - hanno dichiarato di sentirsi «bene» o «molto bene». I progressi compiuti<br />

in questo campo dagli it<strong>al</strong>iani tra il 2000 e il 2005 (Tabella 1.3) sono da interpretare<br />

con la dovuta cautela.<br />

L’ISTAT stima che nel 2005 circa il 61 per cento della popolazione it<strong>al</strong>iana si considerava<br />

in buona s<strong>al</strong>ute mentre il 6,7 per cento dava una v<strong>al</strong>utazione negativa delle proprie condizioni<br />

di s<strong>al</strong>ute. Si noti che la proporzione di quanti dichiarano di sentirsi m<strong>al</strong>e o molto m<strong>al</strong>e<br />

2004<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

è più elevata tra le donne e che il divario aumenta <strong>al</strong> crescere dell’età. Degli 83,7 anni mediamente<br />

vissuti da una donna, solo 51,6 sono percepiti come in buona s<strong>al</strong>ute mentre per<br />

un uomo dei 78,1 anni vissuti in media sono 54,5 quelli in buona s<strong>al</strong>ute. Il gender gap sarebbe<br />

qui rovesciato: rispetto <strong>al</strong>le donne, gli uomini vivono un numero minore di anni ma<br />

li vivono in un migliore stato di s<strong>al</strong>ute.<br />

Tabella 1.3 - ... e in buona s<strong>al</strong>ute<br />

(Speranza di vita in buona s<strong>al</strong>ute, in anni)<br />

Maschi Femmine<br />

Età 2000 2005 2000 2005<br />

0 50,0 54,5 46,6 51,6<br />

15 36,7 40,7 33,0 37,4<br />

45 13,0 15,6 10,9 13,3<br />

65 3,6 4,7 3,2 4,0<br />

75 1,6 2,0 1,5 1,9<br />

Fonte: elaborazioni su dati Ministero del lavoro, della s<strong>al</strong>ute e delle politiche soci<strong>al</strong>i (2009).<br />

In termini di speranza di vita in buona s<strong>al</strong>ute, l’It<strong>al</strong>ia esce molto bene dai confronti internazion<strong>al</strong>i.<br />

L’indice HALE 4 (He<strong>al</strong>thy Life Expectancy at Birth) elaborato d<strong>al</strong>l’Organizzazione<br />

Mondi<strong>al</strong>e della Sanità, vede l’It<strong>al</strong>ia – insieme a Spagna, Svizzera, Svezia e Austr<strong>al</strong>ia – immediatamente<br />

dopo il Giappone e prima degli <strong>al</strong>tri paesi (Tabella 1.4).<br />

Per individuare cause e beneficiari dei miglioramenti registrati nella speranza di vita e nella<br />

s<strong>al</strong>ute e i beneficiari degli stessi è utile considerare i tassi di mort<strong>al</strong>ità, sia quello gener<strong>al</strong>e sia<br />

quelli per fasce d’età e per cause. Il tasso di mort<strong>al</strong>ità gener<strong>al</strong>e intorno <strong>al</strong>l’Unità non era probabilmente<br />

inferiore <strong>al</strong> 30 per mille (Grafico 1.3). Negli stessi anni, l’Inghilterra e la Svezia<br />

– paese <strong>al</strong>lora povero quanto l’It<strong>al</strong>ia – avevano già ridotto la mort<strong>al</strong>ità a v<strong>al</strong>ori intorno <strong>al</strong> 20<br />

per mille. Francia e Germania si collocavano intorno <strong>al</strong> 25 per mille. I progressi compiuti in<br />

150 anni d<strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia nel ridurre la mort<strong>al</strong>ità gener<strong>al</strong>e sono stati documentati esaminando la speranza<br />

di vita, sostanzi<strong>al</strong>mente. L’unificazione politica del Paese e la formazione di uno Stato<br />

nazion<strong>al</strong>e moderno “costituiscono un decisivo fattore di svolta che, se stenta a produrre risultati<br />

consistenti nel primo ventennio post-unitario, a partire d<strong>al</strong>la seconda metà degli anni<br />

1880 determina una rilevante e rapida caduta del tasso di mort<strong>al</strong>ità” (Sori, 1984). Il punto di<br />

arrivo, come si è visto, è la posizione di vertice occupata d<strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia nella graduatoria mondi<strong>al</strong>e<br />

dei paesi con minore mort<strong>al</strong>ità. Tra i tassi di mort<strong>al</strong>ità specifici v<strong>al</strong>e la pena evidenziare<br />

quello di mort<strong>al</strong>ità infantile (nel primo anno di vita), prezioso indicatore delle condizioni<br />

igieniche nelle qu<strong>al</strong>i opera una collettività, dello stato di s<strong>al</strong>ute e di nutrizione della madre<br />

e, natur<strong>al</strong>mente, della diffusione ed efficacia dei presidi sanitari a tutela della maternità. La<br />

storia della mort<strong>al</strong>ità infantile in It<strong>al</strong>ia (Grafico 1.4) si può riassumere così: per ogni cento<br />

bambini che morivano <strong>al</strong> tempo dell’Unità d’It<strong>al</strong>ia, oggi ne muore uno (1,2 per la precisione).<br />

4. L’indice è definito d<strong>al</strong>l’Organizzazione Mondi<strong>al</strong>e della Sanità come segue: “Average number of years that a person can expect to live<br />

in «full he<strong>al</strong>th» by taking into account years lived in less than full he<strong>al</strong>th due to disease and/or injury”.<br />

32


Tabella 1.4 - It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong> top nella longevità<br />

(Speranza di vita media per genere, in anni)<br />

maschi femmine<br />

Rank Paese Maschi + Femmine Femmine Maschi<br />

1 Giappone 75 78 72<br />

2 It<strong>al</strong>ia 73 75 71<br />

3 Spagna 73 75 70<br />

4 Svezia 73 75 72<br />

5 Svizzera 73 75 71<br />

6 Austr<strong>al</strong>ia 73 74 71<br />

7 Canada 72 74 70<br />

8 Francia 72 75 69<br />

9 Germania 72 74 70<br />

10 Norvegia 72 74 70<br />

11 Austria 71 74 69<br />

12 Belgio 71 73 69<br />

13 Finlandia 71 74 69<br />

14 Grecia 71 73 69<br />

15 Israele 71 72 70<br />

16 Paesi Bassi 71 73 70<br />

17 Regno Unito 71 72 69<br />

18 Nuova Zelanda 71 72 69<br />

19 Danimarca 70 71 69<br />

20 Irlanda 70 72 68<br />

21 Singapore 70 71 69<br />

22 Stati Uniti 69 71 67<br />

Fonte: elaborazioni su dati dell’Organizzazione Mondi<strong>al</strong>e della Sanità.<br />

Grafico 1.3 - C<strong>al</strong>a la mort<strong>al</strong>ità...<br />

(It<strong>al</strong>ia, morti per mille abitanti)<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

1861-1870<br />

30,9<br />

1876-1880<br />

1886-1890<br />

27,0<br />

22,9 24,3<br />

1896-1900<br />

1906-1910<br />

1911-1915<br />

1916-1920<br />

1921-1925<br />

Fonte: elaborazioni su dati Human Mort<strong>al</strong>ity Database.<br />

17,3 15,9<br />

1926-1930<br />

1931-1935<br />

33<br />

1936-1940<br />

1941-1945<br />

14,6<br />

11,7<br />

9,9 9,5<br />

1946-1950<br />

1951-1955<br />

1955-1959<br />

1960-1964<br />

1965-1969<br />

1980<br />

1990<br />

2000<br />

2006<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Grafico 1.4 - ... anche dei bambini<br />

(Morti per mille bambini nati vivi)<br />

350<br />

300<br />

250<br />

200<br />

150<br />

100<br />

50<br />

0<br />

1863<br />

289<br />

1890<br />

215<br />

1900<br />

188 168<br />

1910<br />

1920<br />

Fonte: elaborazioni su dati Human Mort<strong>al</strong>ity Database.<br />

165<br />

122 113<br />

1930<br />

1940<br />

34<br />

1950<br />

70<br />

1960<br />

46 30 15 9 5<br />

Nel 1863 il tasso di mort<strong>al</strong>ità infantile in It<strong>al</strong>ia era pari a 290 (v<strong>al</strong>e a dire che di mille bambini<br />

nati vivi, 290 morivano entro il primo anno di vita), un v<strong>al</strong>ore leggermente inferiore a<br />

quello contemporaneo tedesco ma superiore di quasi il 50 per cento a quello francese (201)<br />

e di quasi il 100 per cento a quello di Inghilterra e G<strong>al</strong>les (149).<br />

Pur riducendo sensibilmente, nei decenni successivi <strong>al</strong>l’Unità, il gap con i paesi più avanzati,<br />

l’It<strong>al</strong>ia fino <strong>al</strong>la vigilia della Grande guerra si segn<strong>al</strong>ava per una mort<strong>al</strong>ità infantile superiore<br />

ai più <strong>al</strong>ti livelli che si possano osservare oggi nel mondo in paesi qu<strong>al</strong>i la Sierra<br />

Leone, la Liberia e l’Angola dove si registrano tassi intorno a 150-160 per mille nati vivi. Il<br />

vantaggio dei paesi poveri odierni rispetto a quelli dell’Ottocento sta soprattutto nella diffusione<br />

della sterilizzazione e degli antibiotici. Il processo di convergenza della mort<strong>al</strong>ità infantile<br />

it<strong>al</strong>iana verso quella di paesi come la Francia e l’Inghilterra si interruppe nel periodo<br />

fra le due guerre durante il qu<strong>al</strong>e il differenzi<strong>al</strong>e non solo con questi due paesi, ma anche<br />

con Germania e Stati Uniti restò persistente. È solo nei decenni più recenti, tuttavia, che<br />

l’It<strong>al</strong>ia riesce a colmare la distanza che la separa dai paesi più virtuosi (Grafico 1.5).<br />

Nel caso della mort<strong>al</strong>ità infantile, l’andamento medio cela una storia forse poco nota, quella<br />

di una morte geograficamente selettiva, e sempre più t<strong>al</strong>e fino a decadi molto recenti. Si<br />

può osservare un netto processo di divergenza tra le regioni it<strong>al</strong>iane rispetto a questo importante<br />

indicatore di benessere (Grafico 1.6). Ancora oggi la mort<strong>al</strong>ità infantile del Mezzogiorno (Basilicata,<br />

Puglia, C<strong>al</strong>abria e Sicilia in primis) è più elevata della media nazion<strong>al</strong>e.<br />

Se assumiamo, con autorevoli autori, che le nascite illegittime avvenissero soprattutto nelle<br />

classi più povere, un confronto fra la mort<strong>al</strong>ità dei bambini illegittimi e quella legittima offre una<br />

1970<br />

1980<br />

1990<br />

2000<br />

2006<br />

3


indicazione netta del divario nelle condizioni igienico-sanitarie tra la media della popolazione<br />

e le classi più svantaggiate 5 . Nel corso dei primi 50-60 anni di vita unitaria la riduzione dei tassi<br />

di mort<strong>al</strong>ità infantile si fece strada lentamente nei segmenti più poveri della popolazione (Grafico<br />

1.7). Per una convergenza tra i due tassi di mort<strong>al</strong>ità occorre attendere il secondo dopoguerra<br />

e con esso le politiche soci<strong>al</strong>i che garantirono misure assistenzi<strong>al</strong>i adeguate anche nel<br />

caso di gravidanze e di parti di donne non coniugate e nei confronti dei nati illegittimi.<br />

Grafico 1.5 - Mort<strong>al</strong>ità infantile: It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong>lineata...<br />

(Morti per mille bambini nati vivi)<br />

350<br />

300<br />

250<br />

200<br />

150<br />

100<br />

50<br />

0<br />

1863<br />

1868<br />

1873<br />

1878<br />

1883<br />

1888<br />

1893<br />

1898<br />

1903<br />

1908<br />

1913<br />

1918<br />

1923<br />

1928<br />

1933<br />

1938<br />

1943<br />

1948<br />

1953<br />

1958<br />

1963<br />

1968<br />

1973<br />

1978<br />

1983<br />

1988<br />

1993<br />

1998<br />

2003<br />

Fonte: elaborazioni su dati Human Mort<strong>al</strong>ity Database.<br />

Grafico 1.6 - ... Sud arretrato<br />

(Mort<strong>al</strong>ità infantile per regione, It<strong>al</strong>ia = 100)<br />

160<br />

140<br />

120<br />

100<br />

80<br />

60<br />

35<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Francia<br />

Germania<br />

Inghilterra e G<strong>al</strong>les<br />

Stati Uniti<br />

1863-1866 1903-1906 1923-1933 1935-1938 1954 -1957<br />

Piemonte e V<strong>al</strong>le d’Aosta<br />

Liguria<br />

Lombardia<br />

Trentino Alto Adige<br />

Veneto<br />

Friuli Venezia Giulia<br />

Fonte: elaborazione su dati Sori (1984).<br />

Emilia Romagna<br />

Marche<br />

Toscana<br />

Umbria<br />

Lazio<br />

Abruzzi e Molise<br />

Campania<br />

Puglia<br />

Basilicata<br />

C<strong>al</strong>abria<br />

Sicilia<br />

Sardegna<br />

5. Gli illegittimi rappresentavano poco più del 5 per cento del tot<strong>al</strong>e dei bambini nati nel 1861. Questa percentu<strong>al</strong>e aumentò fino <strong>al</strong>l’8<br />

per cento nel 1883 per stabilizzarsi nuovamente intorno <strong>al</strong> 5 per cento fino <strong>al</strong>la seconda guerra mondi<strong>al</strong>e.<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Grafico 1.7 - Chiusa la forbice della filiazione<br />

(Morti per mille bambini nati vivi)<br />

300<br />

250<br />

200<br />

150<br />

100<br />

50<br />

0<br />

1881-1890 1891-1900 1901-1910 1911-1920 1921-1930 1931-1940 1941-1950 1951-1960<br />

Fonte: elaborazioni su dati Tizzano (1965).<br />

Di che cosa morivano gli it<strong>al</strong>iani? Le cause di morte sono variate enormemente nel tempo<br />

(Tabella 1.5). Patologie che <strong>al</strong>la metà dell’Ottocento erano <strong>al</strong>tamente mort<strong>al</strong>i sono oggi tot<strong>al</strong>mente<br />

debellate (è questo il caso del vaiolo) o hanno tassi di mort<strong>al</strong>ità prossimi a zero<br />

(scarlattina, morbillo, difterite, pellagra, m<strong>al</strong>aria, tifo, colera, e la stessa comune influenza<br />

che un secolo e mezzo fa ancora mieteva molte vittime ogni anno soprattutto fra anziani e<br />

bambini). Questo cambiamento va sotto il nome di «transizione epidemiologica», espressione<br />

usata per descrivere il passaggio da un regime caratterizzato da <strong>al</strong>ti tassi di mort<strong>al</strong>ità,<br />

specie infantile, a causa della prev<strong>al</strong>enza delle m<strong>al</strong>attie infettive, a un regime caratterizzato<br />

da tassi di mort<strong>al</strong>ità assai minori e d<strong>al</strong>la prev<strong>al</strong>enza delle m<strong>al</strong>attie cronico degenerative.<br />

Nella prima fase il quadro nosologico riflette una società carente di infrastrutture igieniche<br />

e sanitarie, nella qu<strong>al</strong>e i bambini pagano il prezzo più <strong>al</strong>to. I tassi di mort<strong>al</strong>ità iniziarono,<br />

come abbiamo visto, a diminuire nel corso degli anni Ottanta dell’Ottocento, con un riflesso<br />

speculare nell’aumento della speranza di vita. Sono questi gli anni in cui inizia «l’età<br />

della recessione delle pandemie», nella qu<strong>al</strong>e la speranza di vita aumenta rapidamente (dai<br />

30 anni inizi<strong>al</strong>i ai 50 <strong>al</strong>le soglie della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e).<br />

Fra gli anni Trenta e il 1960 vengono introdotti prima i sulfamidici, poi gli antibiotici e infine<br />

la pratica della vaccinazione. Grazie a questi fattori accompagnati d<strong>al</strong>le migliori condizioni<br />

nutritive, igieniche e abitative, attorno <strong>al</strong> 1960 la cosiddetta rivoluzione della s<strong>al</strong>ute<br />

può dirsi compiuta, con la radic<strong>al</strong>e trasformazione del profilo delle cause di morte. Tra queste,<br />

dominano da <strong>al</strong>lora le m<strong>al</strong>attie del sistema cardiovascolare seguite d<strong>al</strong> cancro. Sono<br />

state debellate m<strong>al</strong>attie antiche (quelle infettive, incluse costituiscono ora solo il 6-7 per<br />

cento delle cause di morte), <strong>al</strong>tre - per esempio il diabete e le sindromi depressive - hanno<br />

acquisito una nuova importanza.<br />

36<br />

Legittimi<br />

Illegittimi


Tabella 1.5 - Le m<strong>al</strong>attie sconfitte e quelle insorgenti<br />

(Tassi di mort<strong>al</strong>ità per cause e genere)<br />

Maschi Femmine<br />

1910 1930 1960 1970 1985 1986 1910 1930 1960 1970 1985 1986<br />

M<strong>al</strong>attie infettive<br />

(incluse quelle<br />

gastrointestin<strong>al</strong>i) 35 31 8 6 2 2 38 35 9 6 2 2<br />

Bronchite, polmonite,<br />

influenza 21 21 10 9 5 5 20 21 11 9 4 4<br />

Sistema circolatorio 12 16 30 30 33 33 13 17 32 33 34 34<br />

Cancro 3 4 14 18 29 28 3 5 15 18 27 28<br />

Cause violente 3 5 9 11 10 10 2 2 3 5 - -<br />

Fonte: elaborazioni su dati Caselli (1996).<br />

1.7 LA STATURA, EFFICACE INDICATORE DI BENESSERE<br />

Si discute, lo abbiamo visto, se un aumento dei s<strong>al</strong>ari abbia migliorato le condizioni di vita<br />

degli operai inglesi durante la rivoluzione industri<strong>al</strong>e, posto che esso veniva speso in beni<br />

«dannosi» qu<strong>al</strong>i birra e gin. Nel giudicarli «dannosi» era implicito un giudizio etico, di v<strong>al</strong>ore.<br />

C’è, dunque, l’esigenza di cercare indicatori il più possibile esenti da v<strong>al</strong>utazioni soggettive,<br />

scientificamente inadeguate, del benessere. In questa ricerca, gli economisti hanno<br />

prestato attenzione ad auxologi (coloro che studiano lo sviluppo del corpo umano) e genetisti,<br />

i qu<strong>al</strong>i insegnano che l’<strong>al</strong>tezza di un individuo adulto è determinata d<strong>al</strong>l’interazione di<br />

fattori ereditari e ambient<strong>al</strong>i. Mentre i primi (il genotipo, il patrimonio genetico che deriva<br />

da entrambi i genitori) stabiliscono il potenzi<strong>al</strong>e di crescita di un organismo, i secondi determinano<br />

la misura in cui il potenzi<strong>al</strong>e viene re<strong>al</strong>izzato d<strong>al</strong>l’individuo durante lo sviluppo.<br />

A livello individu<strong>al</strong>e l’80 per cento della variazione osservata nelle <strong>al</strong>tezze è sotto il controllo<br />

della genetica: per questo motivo, nessuno penserebbe mai di utilizzare l’<strong>al</strong>tezza come<br />

indicatore di benessere per il singolo individuo. Le cose cambiano quando si considerano<br />

gruppi sufficientemente numerosi e omogenei di individui: le variazioni della statura fin<strong>al</strong>e<br />

di una popolazione nel tempo, nonché quelle fra gruppi socio-economici, dipendono in<br />

larga misura d<strong>al</strong>le differenze della dieta, dell’ambiente epidemiologico, dello stile di vita: in<br />

una parola, d<strong>al</strong>le differenze nelle condizioni di vita. Ai nostri fini l’<strong>al</strong>tezza può essere interpretata<br />

come una misura della nutrizione netta, il s<strong>al</strong>do che risulta fra le richieste di energia<br />

da parte del corpo (le c<strong>al</strong>orie richieste d<strong>al</strong> metabolismo bas<strong>al</strong>e più quelle richieste per lo<br />

svolgimento dell’attività fisica quotidiana) e l’energia ingerita. La statura media di un gruppo<br />

di individui è, dunque, un buon indicatore del benessere del gruppo stesso, un indicatore<br />

multidimension<strong>al</strong>e, in quanto sintetizza un ampio insieme di variabili, quelle che congiuntamente<br />

definiscono l’ambiente che condiziona la fase evolutiva di un gruppo soci<strong>al</strong>e.<br />

37<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Per dare un esempio concreto, forse non ban<strong>al</strong>e agli occhi di un osservatore moderno, abbiamo<br />

preso in considerazione uno studio condotto nell’anno 1872 da un medico, Luigi<br />

Pagliani, su un campione di oltre ottocento fanciulli torinesi 6 . Pagliani si proponeva di “matematicamente<br />

v<strong>al</strong>utare l’energia dell’influenza delle condizioni igieniche dell’ambiente in<br />

cui l’uomo vive sulla sua attività di accrescimento”. I divari di statura sono efficaci nell’approssimare<br />

l’ampiezza dei divari soci<strong>al</strong>i e costituiscono, dunque, un buon indicatore sintetico<br />

del benessere (Grafico 1.8).<br />

Grafico 1.8 - Statura in centimetri per età e classe soci<strong>al</strong>e<br />

Statura<br />

180<br />

170<br />

160<br />

150<br />

140<br />

130<br />

120<br />

110<br />

Fonte: elaborazioni su dati Pagliani (1876).<br />

Classe agiata<br />

Classe povera<br />

8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19<br />

6. Pagliani elaborò, per incarico di Crispi, l’ordinamento igienico sanitario della nazione.<br />

7. Si tratta di un database che riporta le <strong>al</strong>tezze di circa 21 milioni di individui: non un sondaggio campionario ma un censimento completo.<br />

I dati – standardizzati <strong>al</strong> ventesimo anno d’età – sono disponibili a livello provinci<strong>al</strong>e. Esiste inoltre una serie delle <strong>al</strong>tezze per i<br />

nati d<strong>al</strong> 1927 <strong>al</strong> 1980.<br />

38<br />

Età<br />

12,6 cm<br />

L’an<strong>al</strong>isi della statura è particolarmente utile per epoche o paesi per i qu<strong>al</strong>i <strong>al</strong>tri indici di benessere<br />

sono difficili da elaborare. Robert Fogel, vincitore del premio Nobel per l’economia<br />

nel 1993, è stato il pioniere nella raccolta di dati sulle <strong>al</strong>tezze dei coscritti e uno straordinario<br />

utilizzatore di t<strong>al</strong>i dati per an<strong>al</strong>isi di benessere lungo il tempo e nello spazio. Per l’It<strong>al</strong>ia<br />

sono state recentemente ricostruite le serie delle stature dei coscritti <strong>al</strong>la leva per i nati<br />

negli anni 1855-1910 7 . L’andamento della statura media dei coscritti dell’esercito per anno<br />

di nascita, mostra che nei 120 anni successivi <strong>al</strong>l’Unificazione, l’it<strong>al</strong>iano medio è cresciuto<br />

di oltre 12 centimetri (Grafico 1.9). È molto? Rispetto agli olandesi, il popolo mediamente<br />

più <strong>al</strong>to del mondo, non pare sia così. Nel 1860 gli olandesi misuravano in media 165 centimetri,<br />

nel 1990 misuravano 181centimetri. Per la Spagna, la differenza di statura fra le coorti<br />

nate nel 1837 e nel 1980 è pari a 12,9 centimetri, un incremento simile a quello it<strong>al</strong>iano,<br />

tenuto conto della diversità degli anni di partenza della rilevazione.<br />

Comunque si v<strong>al</strong>uti l’ampiezza del progresso re<strong>al</strong>izzato d<strong>al</strong>la statura media, un aspetto particolarmente<br />

rilevante del caso it<strong>al</strong>iano è che nel corso di un secolo e mezzo esso non ha<br />

mai avuto momenti di declino, contrariamente a quanto avvenuto in <strong>al</strong>tri paesi qu<strong>al</strong>i gli Stati<br />

Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Svezia e <strong>al</strong>tri nel corso delle prime fasi del loro sviluppo


economico. Sarebbe qui troppo lungo soffermarsi sulle cause di questa peculiarità it<strong>al</strong>iana<br />

che sono, probabilmente, riconducili <strong>al</strong> contesto nel qu<strong>al</strong>e si re<strong>al</strong>izza l’avvio dello sviluppo<br />

economico moderno nel nostro paese.<br />

Grafico 1.9 - It<strong>al</strong>iani più <strong>al</strong>ti<br />

(Statura media in centimetri dei coscritti nati tra il 1860 e il 1910)<br />

168<br />

167<br />

166<br />

165<br />

164<br />

163<br />

162<br />

161<br />

160<br />

162,2<br />

162,9<br />

163,2<br />

39<br />

163,8<br />

164,3<br />

165,1<br />

1860 1870 1880 1890 1900 1910<br />

Fonte: elaborazioni su dati A'Hearn, Peracchi e Vecchi (2009).<br />

It<strong>al</strong>ia Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole<br />

Il risultato nazion<strong>al</strong>e è confermato a livello di ripartizioni geografiche. Con riferimento <strong>al</strong><br />

primo cinquantennio della storia it<strong>al</strong>iana, quello per il qu<strong>al</strong>e l’<strong>al</strong>tezza ha maggiore significato<br />

come misura del benessere, tutte le macro aree del Paese – senza eccezioni – hanno<br />

sperimentato un aumento incessante della statura. Lo stesso risultato v<strong>al</strong>e anche a livello region<strong>al</strong>e<br />

(Tabella 1.6) e addirittura provinci<strong>al</strong>e.<br />

A livello region<strong>al</strong>e, i miglioramenti sono stati univers<strong>al</strong>i ma di diversa entità. Notevolissimi<br />

nel Nord Ovest (soprattutto in Liguria e Piemonte) che raggiunge il Nord Est, inizi<strong>al</strong>mente<br />

l’area con stature più elevate. Tutte le <strong>al</strong>tre aree crescono grosso modo <strong>al</strong> medesimo tasso,<br />

senza tuttavia che si verifichi una convergenza di quelle a statura media inizi<strong>al</strong>mente più<br />

bassa, confermando la sostanzi<strong>al</strong>e staticità delle posizioni relative economiche e di benessere<br />

delle macro-aree it<strong>al</strong>iane, pur in presenza di un miglioramento consistente e continuo<br />

di ciascuna di esse. Se però si passa d<strong>al</strong>l’esame delle macro aree a quello delle singole regioni<br />

il quadro si fa più variegato. Alcune regioni meridion<strong>al</strong>i sono in posizioni di testa. La<br />

statura dei c<strong>al</strong>abresi cresce più rapidamente della media nazion<strong>al</strong>e, quella dei pugliesi in<br />

linea con t<strong>al</strong>e media. I veneti, inizi<strong>al</strong>mente più <strong>al</strong>ti, crescono molto più lentamente della<br />

media. Dunque, non solo il Mezzogiorno è stato partecipe dell’aumento post-unitario del<br />

benessere (<strong>al</strong>meno secondo questo metro importante) ma, <strong>al</strong>meno nel caso della C<strong>al</strong>abria,<br />

sembra esserlo in misura maggiore di molte regioni settentrion<strong>al</strong>i e del Centro. Tra il 1927<br />

e il 1980, il progresso relativo delle regioni meridion<strong>al</strong>i è stato ancora più marcato: in ciascuna<br />

di esse la statura media delle reclute cresce più rapidamente della media nazion<strong>al</strong>e 8 .<br />

8. I dati di fonte Arc<strong>al</strong>eni (2006) forse non sono pienamente comparabili con quelli del periodo 1860-1910.<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Tabella 1.6 - I liguri superano i veneti<br />

(Statura media dei nati tra il 1860 e il 1910)<br />

1.8 L’ISTRUZIONE, BENE PREZIOSO<br />

1860 1870 1880 1890 1900 1910 1910/ 1910/<br />

1860 1860<br />

(cm) (%)<br />

Liguria 164,1 164,7 165,1 165,6 166,6 168,5 4,4 2,7<br />

Piemonte 162,7 163,5 164,1 164,8 165,7 167,0 4,3 2,6<br />

Lombardia 163,3 163,9 164,4 164,9 165,6 166,5 3,2 2,0<br />

C<strong>al</strong>abria 159,2 160,5 161,2 161,5 161,8 162,2 3,0 1,9<br />

Puglia 160,4 161,3 162,0 162,4 162,8 163,1 2,7 1,7<br />

Emilia Romagna 163,9 164,2 164,5 164,8 165,5 166,6 2,7 1,6<br />

Sicilia 160,9 161,4 161,6 161,7 162,2 163,4 2,5 1,6<br />

Toscana 164,1 164,4 164,7 165,2 165,9 166,6 2,5 1,5<br />

Abruzzi e Molise 160,6 161,4 161,8 162,2 162,5 163,0 2,4 1,5<br />

Lazio 162,3 163,0 163,7 164,3 164,6 164,6 2,3 1,4<br />

Umbria 162,3 162,8 162,9 163,1 163,6 164,6 2,3 1,4<br />

Basilicata 158,8 159,1 159,4 159,9 160,5 160,9 2,1 1,3<br />

Veneto 165,3 165,5 165,7 166,0 166,4 167,3 2,0 1,2<br />

Sardegna 158,8 159,5 160,0 160,3 160,5 160,7 1,9 1,2<br />

Marche 162,2 162,8 162,9 163,1 163,5 164,1 1,9 1,2<br />

Campania 160,9 161,6 161,9 162,2 162,4 162,7 1,8 1,1<br />

Nord Ovest 163,1 163,8 164,4 164,9 165,7 166,8 3,7 2,3<br />

Nord Est 164,6 165,0 165,1 165,4 166,0 167,0 2,4 1,5<br />

Centro 163,1 163,6 164,0 164,4 164,9 165,4 2,3 1,4<br />

Sud 160,3 161,1 161,6 162,0 162,3 162,6 2,3 1,4<br />

Isole 160,4 161,0 161,3 161,4 161,9 162,8 2,4 1,5<br />

It<strong>al</strong>ia 162,2 162,9 163,2 163,8 164,3 165,1 2,8 1,7<br />

Le regioni sono ordinate secondo l'aumento percentu<strong>al</strong>e della statura.<br />

Fonte: elaborazioni su dati A'Hearn, Peracchi e Vecchi (2009).<br />

Il nostro lettore non ha bisogno di essere convinto che il livello di istruzione è un elemento<br />

importante del benessere, individu<strong>al</strong>e e soci<strong>al</strong>e. In un certo senso, si può dire che la conoscenza<br />

sia la chiave di volta di quasi tutte le dimensioni del benessere delle qu<strong>al</strong>i stiamo parlando.<br />

Quando ci si riferisce <strong>al</strong> capit<strong>al</strong>e umano si pensa <strong>al</strong>la capacità che esso conferisce<br />

di produrre e, quindi, guadagnare. A capit<strong>al</strong>e umano più elevato corrispondono spesso redditi<br />

più elevati. Ma questa dimensione dell’istruzione non ne esaurisce l’importanza per il<br />

benessere individu<strong>al</strong>e e collettivo. Le conoscenze che si acquisiscono a scuola e una formazione<br />

che consenta di approfondirle e <strong>al</strong>largarle nella vita successiva consentono di raggiungere<br />

gradi via via più elevati di benessere, nelle sue diverse dimensioni. Il livello di<br />

istruzione influenza in senso positivo le scelte di consumo, la gestione del corpo e della s<strong>al</strong>ute,<br />

la partecipazione <strong>al</strong>la vita soci<strong>al</strong>e, civile e politica. Instaura un circolo virtuoso inter-<br />

40


generazion<strong>al</strong>e attraverso gli orientamenti scolastici impartiti dai genitori ai figli. Infine, l’istruzione<br />

è in sé un enorme fattore di benessere. Il grande storico di Oxford, Max Hartwell, soleva<br />

dire <strong>al</strong>le proprie figlie: “Non so se l’istruzione vi consentirà di guadagnare di più, certo<br />

vi permetterà di godere meglio la vita”. Le cose che rendono l’esistenza più ricca e soddisfacente<br />

– la fruizione dell’arte, della letteratura, della musica, la comprensione del mondo<br />

fisico e soci<strong>al</strong>e – dipendono tutte d<strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità dell’istruzione ricevuta.<br />

Sulla «cultura degli it<strong>al</strong>iani», Tullio De Mauro ha scritto pagine tanto appassionate quanto<br />

obiettive. Oggi, ci ricorda, “solo il 10 per cento delle famiglie spende annu<strong>al</strong>mente qu<strong>al</strong>che<br />

euro per acquistare libri non scolastici, mentre contiamo, nell’intera popolazione, il 38<br />

per cento di adulti o an<strong>al</strong>fabeti (5%) o semian<strong>al</strong>fabeti (33%)” (De Mauro, 2010). Tra le diverse<br />

dimensioni del benessere delle qu<strong>al</strong>i ci stiamo occupando, l’istruzione è una di quelle<br />

nelle qu<strong>al</strong>i gli it<strong>al</strong>iani hanno raggiunto livelli relativamente meno soddisfacenti. Intendiamoci:<br />

i progressi compiuti negli ultimi 150 anni sono stati enormi anche nel campo educativo<br />

ma, sia rispetto <strong>al</strong>le esigenze sia nel confronto internazion<strong>al</strong>e, essi sono nettamente<br />

inferiori a quelli re<strong>al</strong>izzati, per esempio, nel campo della s<strong>al</strong>ute. Ciò pone una seria ipoteca<br />

sulle potenzi<strong>al</strong>ità di crescita ulteriore del benessere degli it<strong>al</strong>iani.<br />

Circa mezzo secolo dopo la proclamazione del Regno, nel 1908, il governo affidò a Camillo<br />

Corradini, direttore gener<strong>al</strong>e per l’istruzione primaria e popolare, la conduzione di un’inchiesta<br />

uffici<strong>al</strong>e sulle condizioni della scuola elementare. In quattro anni di lavoro, Corradini<br />

e la sua equipe raccolsero una corposa documentazione sulla percentu<strong>al</strong>e di an<strong>al</strong>fabeti<br />

e sulle condizioni delle scuole secondo le loc<strong>al</strong>ità, la condizione degli edifici, l’efficienza<br />

delle istituzioni sussidiarie e complementari. La pubblicazione dell’inchiesta mise in evidenza,<br />

con sorpresa di molti, le gravi carenze dell’istruzione di base in It<strong>al</strong>ia. La maggior<br />

parte dei comuni, ai qu<strong>al</strong>i il compito era demandato, non era in grado di provvedere <strong>al</strong>l’istituzione<br />

delle scuole elementari e, nel 1907, un milione di ragazzi non frequentava <strong>al</strong>cuna<br />

scuola. L’inchiesta mise anche in luce come neppure le scuole private riuscissero a<br />

sostituire in parte lo Stato, essendo in maggioranza distribuite nelle regioni dove più numerose<br />

erano le scuole pubbliche. Il nuovo Stato aveva dunque f<strong>al</strong>lito nel compito, moderno<br />

e lungimirante, che si era dato <strong>al</strong>l’indomani della sua creazione di provvedere<br />

<strong>al</strong>l’educazione elementare di tutti i bambini? Vediamo <strong>al</strong>cuni dati.<br />

Dei 22 milioni di abitanti accertati <strong>al</strong> 31 dicembre 1861, non raggiungeva il milione il numero<br />

di coloro che sapevano leggere. Il 78 per cento della popolazione era classificata<br />

come an<strong>al</strong>fabeta (84 per cento l’an<strong>al</strong>fabetismo femminile, 72 per cento quello maschile). La<br />

percentu<strong>al</strong>e di an<strong>al</strong>fabeti era assai minore nelle regioni del Nord Ovest che nel resto d’It<strong>al</strong>ia<br />

9 (Tabella 1.7). Nel 1860, meno del 25 per cento dei bambini it<strong>al</strong>iani di età compresa tra<br />

9. La tradizione scolastica piemontese era legata <strong>al</strong>le riforme promulgate nel 1729 da Vittorio Amedeo II che, primo fra i sovrani it<strong>al</strong>iani,<br />

aveva organizzato le scuole secondarie sottraendole <strong>al</strong> monopolio dei gesuiti. La scuola elementare si era sviluppata soprattutto durante<br />

il periodo napoleonico, ma anche dopo la Restaurazione la classe dirigente aveva mostrato interesse verso l’organizzazione degli<br />

asili e le nuove tecniche di insegnamento elementare. Nel lombardo-veneto fin d<strong>al</strong> 1786 era stato adottato il sistema austriaco, che prevedeva<br />

le Trivi<strong>al</strong>-Schulen in ogni comune, le Mittel-Schulen in ogni centro urbano e le Norm<strong>al</strong>-Schulen per la preparazione dei maestri<br />

in ogni capoluogo di provincia. Anche in questo caso l’istruzione primaria era stata potenziata durante la dominazione francese.<br />

41<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

i 5 e i 14 anni era iscritto <strong>al</strong>la scuola elementare. Con una percentu<strong>al</strong>e di iscritti inferiore a<br />

quella della Spagna, l’It<strong>al</strong>ia si collocava <strong>al</strong> penultimo posto in Europa, seguita solo d<strong>al</strong> Portog<strong>al</strong>lo.<br />

In Francia era iscritto <strong>al</strong>la scuola elementare il 47 per cento dei bambini di quella<br />

classe di età, in Prussia addirittura il 72 per cento. L’evoluzione secolare dell’an<strong>al</strong>fabetismo,<br />

oltre a essere un fenomeno diffuso mostra un carattere di notevole persistenza se, nel 1951,<br />

ne era affetto ancora il 13 per cento degli it<strong>al</strong>iani e se, ancora oggi, in <strong>al</strong>cune regioni affligge,<br />

come ha ricordato De Mauro, quasi il 5 per cento degli abitanti. Si noti, tra l’<strong>al</strong>tro, che sotto<br />

questo importante profilo il divario interregion<strong>al</strong>e – misurato d<strong>al</strong> coefficiente di variazione<br />

– aumenta costantemente nel corso della storia unitaria.<br />

I motivi del basso livello di istruzione degli it<strong>al</strong>iani <strong>al</strong> momento dell’Unità sono in parte riconducibili<br />

<strong>al</strong> basso livello del reddito per abitante che, come abbiamo visto nel caso della<br />

famiglia di Gennaro Esposito, lasciava ben poche risorse disponibili per consumi diversi<br />

d<strong>al</strong>le esigenze primarie dell’<strong>al</strong>imentazione, della casa e del vestiario. Non solo i libri erano<br />

costosi e le scuole spesso molto lontane da casa ma, soprattutto, il piccolo reddito che la<br />

famiglia poteva trarre d<strong>al</strong> lavoro dei minori costituiva un’aggiunta preziosa ai modestissimi<br />

bilanci familiari. Probabilmente però, la spiegazione economica non basta a dare interamente<br />

conto di un livello di istruzione tanto basso. La Prussia non godeva, a metà Ottocento,<br />

di un reddito pro capite superiore a quello it<strong>al</strong>iano eppure, lo abbiamo visto, era il<br />

leader europeo in termini di diffusione dell’istruzione elementare; d’<strong>al</strong>tra parte, il Regno<br />

Unito – con il reddito per abitante più elevato d’Europa – mandava nello stesso anno a<br />

scuola solo il 52 per cento dei bambini in età scolare, una percentu<strong>al</strong>e inferiore a quella di<br />

paesi «poveri» come erano <strong>al</strong>lora Svezia e Norvegia. L’impegno dello Stato a creare scuole<br />

pubbliche gratuite, obbligatorie e capillarmente diffuse sul territorio, insieme a un efficace<br />

controllo del soddisfacimento dell’obbligo, spiega queste differenze. Ma l’impegno dei poteri<br />

pubblici in questo campo dipendeva, prima dell’introduzione del suffragio univers<strong>al</strong>e,<br />

d<strong>al</strong>l’atteggiamento delle élite nei confronti dell’educazione di massa. Nel caso it<strong>al</strong>iano, De<br />

Mauro nota il peso di un’eredità non solo “di scarsa attenzione, ma di avversione aggressiva<br />

nei confronti della scuola, della scuola elementare in particolare”. Gli studiosi hanno<br />

inoltre notato un minore tasso di an<strong>al</strong>fabetismo nei paesi nei qu<strong>al</strong>i si era diffusa la Riforma<br />

luterana che aveva non solo per prima introdotto la traduzione della Bibbia in lingua volgare<br />

ma aveva insistito su una lettura person<strong>al</strong>e della stessa.<br />

Vincenzo Masi, autore del capitolo sull’istruzione della grande opera celebrativa del cinquantennio<br />

dell’Unità curata d<strong>al</strong>l’Accademia dei Lincei nel 1911, scrisse: “[<strong>al</strong> momento<br />

dell’Unificazione] imperava un an<strong>al</strong>fabetismo, si può dire, gener<strong>al</strong>e, su (...) tutta la classe<br />

dei poveri, degli operai, dei contadini”. M<strong>al</strong>grado i numerosi provvedimenti presi, “nel decennio<br />

che corse fra il 1861 e il 1871, la preoccupazione politica della indipendenza e<br />

dell’unità della patria prev<strong>al</strong>se sopra qu<strong>al</strong>unque <strong>al</strong>tro pensiero”. Insomma, le risorse erano<br />

poche e le priorità erano <strong>al</strong>tre. Come vedremo, solo con Giolitti l’impegno pubblico su questo<br />

fronte divenne più deciso e incisivo.<br />

42


Tabella 1.7 - La vittoria sull’an<strong>al</strong>fabetismo<br />

(Quote % di an<strong>al</strong>fabeti sul tot<strong>al</strong>e della popolazione)<br />

1861 1871 1881 1891 1911 1951 2001<br />

Piemonte e V<strong>al</strong>le d’Aosta 60 50 42 24 11 3 0,7<br />

Liguria - 62 52 34 17 4 0,6<br />

Lombardia 60 53 46 28 13 3 0,5<br />

Trentino Alto Adige - - - - - 1 0,3<br />

Veneto - 70 61 44 25 6 0,5<br />

Friuli Venezia Giulia - - - - - 4 0,3<br />

Emilia Romagna 80 75 68 54 33 8 0,7<br />

Toscana 77 67 77 55 37 11 0,8<br />

Marche 85 82 77 68 51 14 0,9<br />

Umbria 86 83 77 67 49 14 1,1<br />

Lazio - 72 63 50 33 10 0,9<br />

Abruzzi e Molise 88 84 83 75 58 20 2,0<br />

Campania - 82 78 70 54 23 2,8<br />

Puglia - 83 87 75 59 24 2,7<br />

Basilicata - 90 87 80 65 29 4,2<br />

C<strong>al</strong>abria - 89 87 82 70 32 4,7<br />

Sicilia 90 87 84 76 58 24 2,8<br />

Sardegna 91 88 83 74 58 22 1,9<br />

It<strong>al</strong>ia 78 73 67 55 38 13 1,5<br />

CV 0,145 0,167 0,216 0,334 0,491 0,755 0,904<br />

Il coefficiente di variazione (CV) misura il divario interregion<strong>al</strong>e.<br />

Fonte: elaborazioni su dati censuari per gli anni 1861 e il 1881 e dati di Felice (2007).<br />

La legge Casati del 1859, adottata d<strong>al</strong> neonato Regno d’It<strong>al</strong>ia, prevedeva la gratuità e l’obbligatorietà<br />

dell’istruzione elementare per <strong>al</strong>meno due anni ma lasciava ai comuni, privi di<br />

risorse, sia l’organizzazione delle scuole sia la verifica dell’obbligo. La Legge Coppino del<br />

1877, stabilì l’obbligo scolastico in tre anni, d<strong>al</strong> sesto <strong>al</strong> nono anno di età, e inasprì le sanzioni<br />

per i responsabili dell’inadempimento ma non aumentò le risorse destinate <strong>al</strong>la scuola.<br />

Tuttavia, a partire d<strong>al</strong>la fine degli anni Ottanta l’an<strong>al</strong>fabetismo cominciò a diminuire più rapidamente<br />

che nei decenni precedenti, riducendosi del 21 per cento tra 1891 e 1911, contro<br />

una riduzione del 9 per cento tra 1861 e 1881.<br />

Nel complesso, la situazione di inizio secolo, m<strong>al</strong>grado gli indubbi progressi compiuti, dava<br />

ragione <strong>al</strong> temperato pessimismo dell’inchiesta Corradini. In un cinquantennio, la frequenza<br />

scolastica era quasi raddoppiata (d<strong>al</strong> 25 <strong>al</strong> 45 per cento) ma restava molto da fare se ci confrontiamo<br />

con l’85 per cento della Francia, che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva<br />

attuato una vigorosa politica per la re<strong>al</strong>izzazione dell’obbligo scolastico elementare.<br />

43<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

L’inchiesta Corradini ebbe il grande merito di diffondere presso l’opinione pubblica la percezione<br />

dell’inefficienza delle istituzioni scolastiche affidate <strong>al</strong>l’esclusiva competenza delle<br />

autorità loc<strong>al</strong>i. Nel 1911 la legge Daneo-Credaro avocò <strong>al</strong>lo Stato della gestione di tutte le<br />

scuole elementari a eccezione di quelle dei comuni capoluoghi di provincia e del circondario,<br />

che avevano comunque la facoltà di rinunciare <strong>al</strong>l’autonomia trasferendo le proprie<br />

competenze <strong>al</strong>lo Stato. Fu questo il momento dell’effettiva introduzione in It<strong>al</strong>ia dell’istruzione<br />

elementare obbligatoria. Gli effetti sul tasso di <strong>al</strong>fabetizzazione si videro, tuttavia,<br />

solo a distanza di decenni.<br />

Speculare rispetto <strong>al</strong>l’obbligo scolastico è, in ogni economia sottosviluppata, il fenomeno<br />

del lavoro minorile, anch’esso componente importante del benessere di una collettività.<br />

L’It<strong>al</strong>ia post-unitaria era caratterizzata da un’incidenza molto elevata del lavoro nelle classi<br />

di età comprese tra i 9 e i 14 anni (Grafico 1.10); seppure in un arco di tempo assai lungo,<br />

questa piaga soci<strong>al</strong>e è stata fortemente ridotta. Una industri<strong>al</strong>izzazione, quella it<strong>al</strong>iana, «benevola»<br />

nei confronti dei bambini, dunque. Si tratta di un aspetto importante, anche se poco<br />

studiato, del modello di sviluppo it<strong>al</strong>iano: importante per il bilancio storiografico del nostro<br />

paese, molto virtuoso – sotto questo aspetto – rispetto <strong>al</strong>l’esperienza di <strong>al</strong>tri paesi qu<strong>al</strong>i il<br />

Regno Unito, ma importante anche per comprendere le cause della resistenza che il lavoro<br />

minorile sta mostrando oggi in contrade non lontane d<strong>al</strong>la nostra. Importante, infine, per i<br />

nostri giorni. Sebbene la cronaca politico-economica non dia molto spazio <strong>al</strong>le indagini<br />

condotte nel nostro paese, il fenomeno del lavoro minorile non risulta affatto sradicato:<br />

stime recenti, soggette a notevole incertezza, suggeriscono che circa 400 mila bambini dai<br />

7 ai 14 anni siano obbligati a lavorare (sottopagati).<br />

La varianza region<strong>al</strong>e del lavoro dei fanciulli risulta essere molto elevata (Tabella 1.8). Negli<br />

anni Settanta del Novecento, l’obbligo scolastico fu esteso a otto anni con la re<strong>al</strong>izzazione<br />

Grafico 1.10 - Lavoro minorile abbattuto<br />

(Quote %)<br />

250<br />

200<br />

150<br />

100<br />

50<br />

0<br />

Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).<br />

Tutti Maschi Femmine<br />

1881 1901 1911 1921 1931 1936 1951 1961<br />

44


Tabella 1.8 - I divari nel lavoro minorile<br />

(Quote %)<br />

1881 1901 1911 1921 1931 1936 1951 1961<br />

Piemonte 46,3 46,1 46,5 34,5 30,3 49,3 8,4 3,1<br />

Lombardia 55,5 50,3 43,4 28,7 25,7 36,1 3,9 2,1<br />

Trentino Alto Adige - 52,8 48,0 32,2 11,0 34,9 3,5 1,3<br />

Veneto 52,8 51,2 49,2 29,0 27,3 28,6 12,3 4,2<br />

Friuli Venezia Giulia - 49,0 41,3 24,3 13,3 32,9 6,8 2,0<br />

Liguria 52,7 38,5 31,6 21,6 18,4 31,7 2,8 1,1<br />

Emilia Romagna 55,2 56,1 49,5 35,0 32,7 35,6 12,7 4,4<br />

Toscana 66,3 55,8 52,2 35,6 32,6 37,4 13,3 4,4<br />

Umbria 67,4 63,5 54,8 46,2 49,9 41,4 22,0 6,1<br />

Marche 78,6 65,4 58,4 44,6 45,1 41,9 23,3 8,5<br />

Lazio 60,8 47,1 40,4 27,9 23,8 29,0 6,1 2,4<br />

Abruzzi e Molise 83,8 61,8 52,3 40,4 32,1 38,4 12,7 4,1<br />

Campania 70,2 48,2 42,4 30,7 24,5 24,7 8,9 3,5<br />

Puglia 76,9 47,9 43,7 31,0 24,0 23,5 13,5 5,6<br />

Basilicata 86,1 56,9 51,8 41,0 37,4 37,0 18,9 5,1<br />

C<strong>al</strong>abria 92,7 57,5 52,6 39,6 28,0 30,0 11,5 4,0<br />

Sicilia 74,4 39,0 31,9 24,5 21,5 20,6 9,7 3,4<br />

Sardegna 57,5 35,2 31,5 22,8 21,7 24,3 8,2 2,9<br />

It<strong>al</strong>ia 64,3 49,9 44,8 31,5 27,4 32,1 10,0 3,6<br />

Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).<br />

della cosiddetta «scuola media unica»; negli anni Ottanta, tenuto conto dei ripetenti, il tasso<br />

di iscrizione <strong>al</strong>la scuola media inferiore raggiunse il 100 per cento.<br />

Scuola media superiore e università restarono a lungo, e restano anche oggi, il t<strong>al</strong>lone<br />

d’Achille del sistema formativo it<strong>al</strong>iano. Lo testimoniano i bassi tassi di iscrizione lordi 10 nei<br />

due segmenti dell’istruzione del post-obbligo (Tabella 1.9). Nel 1951 solo un decimo delle<br />

persone fra i 14 e i 18 anni frequentava scuole medie superiori e solo nel 2007 t<strong>al</strong>e tasso<br />

raggiunse il 93 per cento. Anche per questo ordine di scuola, come per la media inferiore,<br />

i tassi di crescita medi annui più elevati si registrarono negli anni Sessanta e Settanta (rispettivamente<br />

7,1 e 7,8 per cento). Sui tassi di iscrizione <strong>al</strong>l’università – che pure restano<br />

bassi nel confronto internazion<strong>al</strong>e - hanno inciso, oltre <strong>al</strong>le più elevate iscrizioni negli ordini<br />

di scuola precedenti, la liber<strong>al</strong>izzazione degli accessi universitari dopo il 1969.<br />

10. Il tasso di iscrizione «lordo», contrariamente a quello netto utilizzato per la scuola elementare, si riferisce <strong>al</strong> numero di iscritti rispetto<br />

<strong>al</strong>la classe di età nella qu<strong>al</strong>e dovrebbero compiere il percorso scolastico. Poiché numerosi sono i ripetenti e numerosissimi i fuori corso<br />

<strong>al</strong>l’università, il tasso lordo sovrastima la partecipazione delle persone <strong>al</strong>la scuola o <strong>al</strong>l’università.<br />

45<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Tabella 1.9 - La scolarità si diffonde<br />

(Tassi di iscrizione lordi)<br />

Scuola media superiore Università<br />

1881 - -<br />

1891 - 0,6<br />

1901 - 0,8<br />

1911 - 0,8<br />

1921 - 1,2<br />

1931 - 1,0<br />

1941 - 3,5<br />

1951 10,3 2,8<br />

1961 20,4 4,2<br />

1971 43,0 12,4<br />

1981 52,2 14,2<br />

1991 71,9 19,3<br />

2001 89,8 26,9<br />

2007 93,2 31,3<br />

Il dato per il 1991 del tasso di iscrizione della scuola secondaria nel suo complesso si riferisce <strong>al</strong> 1990.<br />

Fonte: elaborazioni su dati Checchi (1997) fino <strong>al</strong> 1991 e ISTAT per i restanti anni.<br />

Nel complesso, per quella gran parte del benessere che traiamo d<strong>al</strong>l’istruzione, gli it<strong>al</strong>iani<br />

sono stati meno favoriti dei cittadini di <strong>al</strong>tri paesi anche a parità di reddito per abitante. Ciò<br />

è vero sia d<strong>al</strong> lato quantitativo, del qu<strong>al</strong>e abbiamo brevemente detto, sia da quello qu<strong>al</strong>itativo<br />

documentato d<strong>al</strong>le inchieste PISA sui livelli di apprendimento che vedono costantemente<br />

l’It<strong>al</strong>ia agli ultimi posti tra i paesi OCSE.<br />

1.9 I CONSUMI COLLETTIVI<br />

L’Inchiesta sulle condizioni dell’igiene e della sanità nei comuni del Regno, condotta nel 1885<br />

da Agostino Bertani su incarico del governo Depretis mise in evidenza come oltre la metà<br />

della popolazione it<strong>al</strong>iana vivesse in comuni sprovvisti di sistema fognario. Più di 5.000 comuni<br />

mancavano di acquai, mentre in <strong>al</strong>tri 1.277 gli acquai sboccavano direttamente sulle vie<br />

o in cortili interni. Un terzo degli it<strong>al</strong>iani beveva acque classificate come mediocri o cattive.<br />

Basta questo richiamo a fare capire l’importanza dei consumi collettivi tra le dimensioni del<br />

benessere. Si tratta di beni e servizi che – per le economie di sc<strong>al</strong>a nella produzione, per la<br />

natura a rete, per l’elevata probabilità di f<strong>al</strong>limenti nel coordinamento – vengono meglio prodotti<br />

dai pubblici poteri o su licenza e supervisione degli stessi. Si tratta, tipicamente, dei<br />

servizi delle infrastrutture fognarie, strad<strong>al</strong>i, portu<strong>al</strong>i e ferroviarie, dell’illuminazione delle<br />

città, delle comunicazioni telegrafiche e post<strong>al</strong>i.<br />

46


L’inchiesta Bertani fotografava, dunque, un quarto di secolo dopo l’Unificazione, un Paese<br />

arretrato rispetto <strong>al</strong>l’Europa Nord Occident<strong>al</strong>e in un settore tanto vit<strong>al</strong>e per il benessere<br />

quanto quello delle strutture igienico-sanitarie di base. Un secolo dopo, nel 1987, la situazione<br />

dell’It<strong>al</strong>ia sotto questo profilo appariva adeguata: solo il 2,3 per cento della popolazione<br />

viveva in comuni sprovvisti di fognature (Tabella 1.10). Anche in questo caso, il<br />

progresso maggiore è stato compiuto nel secondo dopoguerra. Nel 1951, il 46 per cento dei<br />

comuni era ancora privo di fognatura (erano il 77 per cento nel 1885). Dodici anni dopo,<br />

solo il 29 per cento dei comuni it<strong>al</strong>iani mancava di questo servizio essenzi<strong>al</strong>e.<br />

Tabella 1.10 - Più igiene per tutti<br />

(% senza accesso <strong>al</strong>le strutture fognarie)<br />

1885 1987<br />

Piemonte 67,8 1,4<br />

Liguria 44,2 0,9<br />

Lombardia 58,4 0,6<br />

Veneto 66,5 8,2<br />

Emilia 33,5 0,0<br />

Toscana 13,9 0,2<br />

Marche 23,5 0,0<br />

Umbria 24,2 0,0<br />

Lazio 22,1 0,0<br />

Abruzzi e Molise 61,8 0,4<br />

Campania 46,6 1,1<br />

Puglie 63,3 10,3<br />

Basilicata 85,6 0,0<br />

C<strong>al</strong>abrie 72,4 0,1<br />

Sicilia 49,0 5,5<br />

Sardegna 76,8 1,3<br />

It<strong>al</strong>ia 51,2 2,3<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.<br />

A partire d<strong>al</strong>la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, a un livello medio molto <strong>al</strong>to di dotazione<br />

di infrastrutture fognarie corrisponde anche una notevolissima attenuazione dei divari<br />

region<strong>al</strong>i. Nel 1885 solo il 14,4 per cento della popolazione della Basilicata viveva in<br />

comuni dotati di fognature, mentre in Toscana si raggiungevano livelli già molto vicini a quelli<br />

odierni (86,1 per cento). Le regioni del Centro erano quelle dove l’infrastruttura fognaria raggiungeva<br />

le maggiori quote di popolazione. Le quote più basse si riscontravano in tre regioni<br />

del Mezzogiorno (oltre <strong>al</strong>la Basilicata, la Sardegna e la C<strong>al</strong>abria), seguite da due del Nord<br />

(Piemonte e Veneto). Nel 1987, la regione dove la minor quota di popolazione raggiunta (la<br />

Puglia) si collocava <strong>al</strong>l’89,7 per cento, tutte le <strong>al</strong>tre registravano v<strong>al</strong>ori superiori.<br />

Nel 1861 esistevano in It<strong>al</strong>ia 2.773 chilometri di linee ferroviarie, concentrate soprattutto <strong>al</strong><br />

Nord. I confronti internazion<strong>al</strong>i non sono agevoli nel caso delle infrastrutture a rete non essendo<br />

chiaro se sia preferibile il paragone sulla base degli abitanti o su quella della superfi-<br />

47<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

cie (a parità di <strong>al</strong>tre circostanze, un paese di ampia dimensione geografica e scarsa densità<br />

di popolazione ha bisogno di maggiori chilometri di ferrovie). Ci limitiamo dunque a osservare<br />

come, <strong>al</strong>l’epoca della nostra Unificazione nazion<strong>al</strong>e, Francia e Germania avessero rispettivamente<br />

9.627 e 11.497 chilometri di rete ferroviaria. Il Regno Unito, con una<br />

popolazione e un’estensione territori<strong>al</strong>e grosso modo paragonabili a quelli it<strong>al</strong>iani del 1870<br />

aveva, in quell’anno, un’estensione delle linee ferroviarie tre volte superiore a quella it<strong>al</strong>iana<br />

che pure era più che raddoppiata nel primo decennio unitario. Tra il 1861 e il 1913, i governi<br />

it<strong>al</strong>iani compirono uno sforzo considerevole nell’investimento ferroviario: <strong>al</strong>la vigilia della<br />

Grande guerra, la rete era cresciuta di 6,8 volte (a 18.873 chilometri), il che corrisponde a<br />

un tasso annuo di sviluppo del 3,6 per cento, quasi doppio rispetto <strong>al</strong> tasso di crescita del PIL.<br />

L’estensione della rete ferroviaria it<strong>al</strong>iana raggiunse la massima espansione durante la seconda<br />

guerra mondi<strong>al</strong>e (23.227 chilometri nel 1942). Da <strong>al</strong>lora sino <strong>al</strong>l’inizio di questo secolo oscillò<br />

attorno ai 19-20 mila chilometri per diminuire successivamente a seguito della ristrutturazione<br />

dell’azienda pubblica di trasporto ferroviario. Ferrovie It<strong>al</strong>ia opera oggi una rete di circa 16<br />

mila chilometri, pari grosso modo a quella esistente in It<strong>al</strong>ia durante la prima guerra mondi<strong>al</strong>e.<br />

Alla fine dell’era di espansione delle ferrovie corrispose, nel secondo dopoguerra, una forte<br />

crescita della rete strad<strong>al</strong>e, figlia del boom delle quattro ruote <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e abbiamo fatto cenno.<br />

Tra il 1945 e il 1985, l’estensione delle strade stat<strong>al</strong>i fu più che raddoppiata, quella delle<br />

strade provinci<strong>al</strong>i più che triplicata. Nel campo del trasporto su gomma, la grande innovazione<br />

del dopoguerra fu l’autostrada a due carreggiate separate e, in genere, a pagamento<br />

che però avvenne con ritardo rispetto <strong>al</strong>lo sviluppo complessivo della rete strad<strong>al</strong>e. Tra il<br />

1945 e il 1957, non fu aperto <strong>al</strong> traffico in It<strong>al</strong>ia un solo chilometro di autostrada: rimasero<br />

in esercizio solo i 479 chilometri che esistevano nel 1938. Seguì un ventennio di costruzioni<br />

frenetiche che portò la rete autostrad<strong>al</strong>e a 5.900 chilometri nel 1979. Nei successivi trenta<br />

anni furono costruiti solo 632 chilometri di autostrade.<br />

L’espansione della rete di comunicazione (poste, telegrafo, telefono) e la drastica riduzione<br />

del costo dell’uso della stessa da parte dei cittadini sono un <strong>al</strong>tro tratto caratteristico dell’evoluzione<br />

dei consumi pubblici negli ultimi 150 anni. Quello post<strong>al</strong>e è un servizio antico:<br />

nel 1860 gestiva già ogni anno 108 milioni di lettere e pacchi che s<strong>al</strong>irono a un miliardo<br />

e mezzo <strong>al</strong>la vigilia della prima guerra mondi<strong>al</strong>e e a tre miliardi <strong>al</strong>la vigilia di quella successiva,<br />

per raddoppiare ancora entro gli anni Sessanta. Il telegrafo si espanse enormemente<br />

tra la metà dell’Ottocento e quella del secolo successivo. Da <strong>al</strong>lora la crescita di questo<br />

mezzo di comunicazione si è arrestata per la concorrenza del telefono, del fax e poi di internet.<br />

Quanto <strong>al</strong> telefono, nel 1883, primo anno per il qu<strong>al</strong>e si possiedono dati, c’erano in<br />

It<strong>al</strong>ia 6 mila apparecchi, s<strong>al</strong>iti a 12 mila nel 1890, numero paragonabile a quello della Francia.<br />

Da <strong>al</strong>lora, la crescita della telefonia in quest’ultimo paese fu molto più rapida che in It<strong>al</strong>ia,<br />

raggiungendo i 310 mila apparecchi nel 1913 contro i 90 mila dell’It<strong>al</strong>ia (chi ha letto La<br />

concessione del telefono di Camilleri non avrà difficoltà a darsi ragione di questa differenza).<br />

Nel 1940 i telefoni it<strong>al</strong>iani erano circa 700 mila. Nel dopoguerra l’espansione fu rapidissima,<br />

nel 1967, con oltre 7 milioni di apparecchi, l’It<strong>al</strong>ia superava (seppure di un soffio)<br />

48


la Francia nella diffusione di questo mezzo di comunicazione. La crescita della telefonia fissa<br />

continuò fino <strong>al</strong>l’inizio degli anni Novanta quando si raggiunsero i 30 milioni di apparecchi<br />

per poi fermarsi, probabilmente per la concorrenza del telefono mobile. Ci sono oggi in<br />

It<strong>al</strong>ia circa 26 milioni di telefoni fissi.<br />

Pur non essendo l’aria pulita un consumo pubblico ma un vero e proprio «bene pubblico»<br />

secondo la definizione che ne danno gli economisti, non possiamo non ricordare brevemente<br />

che l’espansione dei consumi privati e pubblici ebbe un costo ambient<strong>al</strong>e che non<br />

può essere sottov<strong>al</strong>utato anche come dimensione del benessere. La ricostruzione di serie storiche<br />

dell’inquinamento atmosferico è ben più difficile di quella, già assai complessa, del<br />

PIL. Tuttavia il Carbon Dyoxide Information Center, ripreso d<strong>al</strong>l’ISTAT, ci ha provato e stima<br />

che nel 1861 ogni it<strong>al</strong>iano metteva nell’aria annu<strong>al</strong>mente 10 chili di anidride carbonica<br />

contro i 300 chili per persona dei tedeschi e dei francesi e i 1.640 chili di ogni abitante<br />

delle isole britanniche. Il tasso di inquinamento pro capite it<strong>al</strong>iano si mantenne relativamente<br />

basso sino <strong>al</strong> 1950 quando aveva raggiunto i 240 chili contro i 1.300 dei francesi e<br />

i 2.000 circa dei tedeschi che avevano quasi raggiunto gli inglesi. Il maggiore o minore peso<br />

delle attività industri<strong>al</strong>i nei diversi paesi si correla bene, come è facile intuire, con i livelli<br />

di inquinamento. Questi, dunque, esplosero anche in It<strong>al</strong>ia nel dopoguerra, sino a raggiungere<br />

le due tonnellate pro capite <strong>al</strong>la fine degli anni Ottanta. Da <strong>al</strong>lora le emissioni inquinanti<br />

per abitante hanno fluttuato tra le 2 e le 2,2 tonnellate, v<strong>al</strong>ori superiori a quelli dei<br />

virtuosi francesi (1,7 tonnellate) ma inferiori a quelli dei tedeschi e degli inglesi.<br />

1.10 LA DISUGUAGLIANZA DELLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO<br />

La relazione tra uguaglianza e benessere di una collettività è controversa. È difficile dire se<br />

la re<strong>al</strong>izzazione di una società utopica nella qu<strong>al</strong>e tutti avessero a disposizione esattamente<br />

la stessa quantità di beni accrescerebbe il benessere di ciascuno. O, in un mondo dominato<br />

d<strong>al</strong>l’invidia, se il benessere derivante ad <strong>al</strong>cuni d<strong>al</strong> sapersi più ricchi di <strong>al</strong>tri compenserebbe<br />

la perdita di benessere di coloro che si vedono superati nelle classifiche del «possesso». Ci<br />

asterremo dunque d<strong>al</strong> v<strong>al</strong>utare la maggiore o minore uguaglianza distributiva in sé come una<br />

delle dimensioni del benessere limitandoci ad <strong>al</strong>cune notazioni sull’andamento della distribuzione<br />

del reddito in It<strong>al</strong>ia, lasciando a ciascuno di trarre le proprie conclusioni.<br />

Tra i paesi dell’Europa continent<strong>al</strong>e, l’It<strong>al</strong>ia è oggi quella con distribuzione del reddito più<br />

inegu<strong>al</strong>e nei primi anni del Ventunesimo secolo (Grafico 1.11). Se operato sui consumi, il<br />

confronto vedrebbe una riduzione dei divari ma non un sostanzi<strong>al</strong>e sovvertimento della posizione<br />

relativa dell’It<strong>al</strong>ia rispetto agli <strong>al</strong>tri paesi.<br />

È sempre stato, il nostro, un paese caratterizzato da <strong>al</strong>ta disuguaglianza? Con ogni probabilità<br />

negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo, i primi per i qu<strong>al</strong>i disponiamo di <strong>al</strong>cune<br />

stime, il consumo era distribuito in modo più inegu<strong>al</strong>e di quanto sia oggi (Tabella 1.11).<br />

49<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

Possiamo forse paragonare, sotto questo profilo, l’It<strong>al</strong>ia dell’epoca <strong>al</strong>la Russia o <strong>al</strong> Messico<br />

di oggi, paesi con la maggiore disuguaglianza distributiva. Il secolo successivo fu, probabilmente,<br />

caratterizzato da una lenta ma costante riduzione dell’ineguaglianza, con una<br />

probabile battuta d’arresto negli anni Trenta in corrispondenza della grande crisi e delle politiche<br />

autarchiche. Si noti che, i «livelli» di disuguaglianza riferiti <strong>al</strong> consumo, non possono<br />

paragonarsi con quelli riferiti <strong>al</strong> reddito: è plausibile, tuttavia, che la direzione del<br />

cambiamento non venga sostanzi<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>terata. All’inizio degli anni Novanta si è verificato<br />

un notevole inn<strong>al</strong>zamento della disuguaglianza che non è stato successivamente corretto pur<br />

non avendo subito un ulteriore significativo aumento.<br />

Grafico 1.11 - It<strong>al</strong>ia indietro nella distribuzione del reddito<br />

(Indice di Gini, It<strong>al</strong>ia = 100)<br />

Messico 2004<br />

Russia 2000<br />

Stati Uniti 2004<br />

Regno Unito 2004<br />

It<strong>al</strong>ia 2004<br />

Spagna 2000<br />

Grecia 2000<br />

Canada 2004<br />

Austr<strong>al</strong>ia 2003<br />

Austria 2003<br />

Belgio 2000<br />

Francia 2000<br />

Germania 2000<br />

Norvegia 2004<br />

Svezia 2004<br />

Olanda 1999<br />

Danimarca 2004<br />

Fonte: elaborazioni su dati Toniolo e Vecchi (2007).<br />

0 20 40 60 80 100 120 140 160<br />

Resterebbe da dire di un tema importante: la povertà. L’It<strong>al</strong>ia conta oggi i propri poveri verificando<br />

qu<strong>al</strong>e frazione della popolazione non raggiunge il 60 per cento del reddito mediano.<br />

Si tratta dunque di una misura di «povertà relativa». Più interessante sarebbe disporre<br />

di una misura di «povertà assoluta» che identifichi come poveri coloro che non dispongono<br />

delle risorse per raggiungere una soglia «minima» di potere d’acquisto, delle risorse cioè necessarie<br />

per l’acquisto di un paniere di beni e servizi “essenzi<strong>al</strong>i, in grado di assicurare <strong>al</strong>le<br />

famiglie uno standard di vita che eviti forme di esclusione soci<strong>al</strong>e” (ISTAT, 2004b). Dopo<br />

un tentativo intrapreso nella seconda metà degli anni Novanta, nel 2009 l’ISTAT ha pubblicato<br />

stime di povertà assoluta secondo le qu<strong>al</strong>i “il 4,0 per cento delle famiglie residenti in<br />

It<strong>al</strong>ia presenta un v<strong>al</strong>ore di spesa per consumi mensile pari o inferiore <strong>al</strong> v<strong>al</strong>ore della soglia<br />

di povertà assoluta”. I divari fra macroaree sono notevoli: vanno d<strong>al</strong> 2,7 per cento di Nord<br />

e Centro <strong>al</strong> 6,8 per cento del Mezzogiorno. Non è possibile tentare una v<strong>al</strong>utazione dell’andamento<br />

della povertà assoluta nei decenni precedenti.<br />

50


Tabella 1.11 - Ma la distribuzione è migliorata<br />

(It<strong>al</strong>ia, indice di Gini)<br />

Spesa per consumi Reddito disponibile<br />

1881 0,448 -<br />

1891 0,431 -<br />

1901 0,397 -<br />

1931 0,362 -<br />

1936 0,363 -<br />

1951 0,320 -<br />

1961 0,295 -<br />

1968 - 0,402<br />

1971 - 0,400<br />

1981 - 0,345<br />

1991 - 0,327<br />

1995 - 0,370<br />

2000 - 0,367<br />

2006 - 0,374<br />

Fonte: elaborazioni su dati RTV (2001) per la spesa per consumi e Brandolini (vari anni) su dati SHIW Banca d'It<strong>al</strong>ia per<br />

il reddito disponibile.<br />

1.11 DEMOCRAZIA E BENESSERE<br />

L’ottimismo liber<strong>al</strong>e (Whig) di primo Ottocento immaginava che la crescita economica e<br />

quella delle libertà democratiche sarebbero procedute mano nella mano, sostenendosi a vicenda<br />

in un progresso senza fine. La prima parte del Ventesimo secolo si è incaricata di dimostrare<br />

quanto poco fondata fosse questa convinzione. Ancora oggi, paesi a elevato tasso<br />

di crescita del benessere materi<strong>al</strong>e stentano a trovare forme solide e moderne di democrazia<br />

politica. Altri, classificati come democratici, hanno minore successo economico di t<strong>al</strong>une<br />

autocrazie. Queste constatazioni non bastano, tuttavia, a escludere l’esistenza di legami<br />

tra democrazia, crescita economica e benessere. Le contraddizioni di medio periodo non<br />

sono sufficienti a negare che esista una congruenza di lungo andare tra le espressioni democratiche<br />

e molti aspetti positivi della vita economica e soci<strong>al</strong>e. Legami bi-direzion<strong>al</strong>i<br />

d<strong>al</strong>la democrazia <strong>al</strong> benessere e da questo <strong>al</strong>la democrazia si intravedono chiaramente nell’arco<br />

dei centocinquanta anni di storia unitaria del nostro paese.<br />

L’estensione dei diritti democratici, primo fra tutti quello essenzi<strong>al</strong>e a essere rappresentati<br />

nelle assemblee legislative da persone liberamente elette, produce sovente effetti desiderabili<br />

su variabili che accrescono il benessere delle persone e delle collettività. Prendiamo un<br />

caso esemplare del qu<strong>al</strong>e ci siamo appena occupati, quello dell’istruzione. Un’an<strong>al</strong>isi ba-<br />

51<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

sata su ventuno paesi nel periodo 1880–1930 trova una relazione positiva tra la diffusione<br />

del diritto di voto e quella della scolarizzazione. Ciò parrebbe indicare che la democrazia<br />

giochi un ruolo rilevante nello spiegare perché <strong>al</strong>cuni paesi si sono mossi più rapidamente<br />

di <strong>al</strong>tri lungo il sentiero dell’estensione dell’istruzione obbligatoria. Ma il nesso caus<strong>al</strong>e potrebbe<br />

essere opposto: le società più istruite divengono anche più democratiche. Ecco un<br />

esempio della complessità del legame tra democrazia e importanti elementi del benessere<br />

collettivo. Il problema dell’uovo e della g<strong>al</strong>lina si risolve, in questo caso, guardando <strong>al</strong>la sequenza<br />

tempor<strong>al</strong>e degli eventi: si nota, per esempio, che il grande b<strong>al</strong>zo nelle iscrizioni<br />

scolastiche che caratterizza la Francia tra il 1870 e il 1890 era stato preceduto di molti anni<br />

d<strong>al</strong>l’estensione quasi univers<strong>al</strong>e del diritto di voto avvenuta a seguito della rivoluzione del<br />

1848. Il caso it<strong>al</strong>iano sembra essere simile, seppure con un ritardo di <strong>al</strong>meno quaranta anni.<br />

Un <strong>al</strong>tro esempio importante di legame tra democrazia e benessere collettivo riguarda<br />

l’estensione della spesa pubblica soci<strong>al</strong>e per pensioni e sanità (il cosiddetto welfare state).<br />

Anche in questo caso non mancano le ambiguità. Nell’Ottocento, le cosiddette «democrazie<br />

di élite», nelle qu<strong>al</strong>i il diritto di voto era ristretto a un numero relativamente piccolo di<br />

cittadini benestanti (per esempio Gran Bretagna, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) furono più<br />

lente delle autocrazie tedesca, austriaca e giapponese nell’aumentare i trasferimenti di denaro<br />

pubblico ai cittadini meno abbienti sotto forma di pensioni. Molti regimi autoritari<br />

erano attenti a mantenere il consenso delle classi popolari, del qu<strong>al</strong>e consolidate «democrazie<br />

di élite», con classi dirigenti forti e coese, avevano meno bisogno. Diverso è il caso<br />

delle democrazie piene, senza qu<strong>al</strong>ificazioni, del Ventesimo secolo: il suffragio univers<strong>al</strong>e<br />

maschile e, soprattutto, l’accesso delle donne <strong>al</strong> diritto di voto producono una spinta potente<br />

nella direzione dell’aumento dei trasferimenti pubblici a pensioni e sanità. È quanto avviene<br />

in It<strong>al</strong>ia nel secondo dopoguerra.<br />

Vi è un <strong>al</strong>tro modo di considerare la democrazia nell’ambito della nostra an<strong>al</strong>isi delle varie<br />

dimensioni del benessere: quello di vedere la partecipazione <strong>al</strong>la vita politica, <strong>al</strong>la determinazione<br />

delle scelte collettive nazion<strong>al</strong>i e loc<strong>al</strong>i in sé come una delle dimensioni non<br />

trascurabili del benessere stesso. Il premio Nobel, Amartya Sen, ha enfatizzato come la crescita<br />

delle facoltà e possibilità individu<strong>al</strong>i nella sfera pubblica sia elemento cruci<strong>al</strong>e nella<br />

crescita del benessere. Con una delle partecipazioni <strong>al</strong> voto tra le più elevate del mondo,<br />

gli it<strong>al</strong>iani hanno dimostrato, <strong>al</strong>meno d<strong>al</strong> 1946 a oggi, di v<strong>al</strong>utare molto questo diritto essenzi<strong>al</strong>e<br />

di cittadinanza.<br />

Se i plebisciti per l’adesione dei singoli stati pre-unitari <strong>al</strong> Regno d’It<strong>al</strong>ia si svolsero a suffragio<br />

univers<strong>al</strong>e maschile, il nuovo Stato - una volta creato - fu molto parsimonioso nella concessione<br />

del diritto di voto (la cosiddetta franchigia). La legge elettor<strong>al</strong>e con la qu<strong>al</strong>e si svolsero<br />

le elezioni per la Camera dei Deputati d<strong>al</strong> 1861 <strong>al</strong> 1880, concedeva il diritto di voto<br />

ai cittadini maschi che godevano dei diritti civili e politici, avevano compiuto il venticinquesimo<br />

anno di età, sapevano leggere e scrivere e pagavano un censo annuo per imposte<br />

dirette pari <strong>al</strong>meno a 40 lire. Con criteri tanto restrittivi, nelle condizioni soci<strong>al</strong>i del tempo,<br />

non sorprende che, nel primo ventennio unitario, solo il 2 per cento della popolazione venisse<br />

ammessa <strong>al</strong>la cabina elettor<strong>al</strong>e (Grafico 1.12). Non è possibile qui discutere le com-<br />

52


plesse ragioni politiche, soci<strong>al</strong>i, ideologiche che indussero la destra ad adottare una tanto<br />

drastica limitazione della franchigia. Ricordiamo solo che Francia e Svizzera avevano esteso<br />

il diritto di voto a tutta la popolazione maschile adulta sin d<strong>al</strong> 1848. La legge elettor<strong>al</strong>e del<br />

Regno Unito del 1867 aveva reso elettori circa 5,5 milioni di cittadini (un po’ meno del 18<br />

per cento della popolazione). Se dunque, come riteniamo, questo fondament<strong>al</strong>e diritto civile<br />

costituisce una componente non secondaria anche del benessere delle persone se non<br />

<strong>al</strong>tro per la dignità di cittadini a pieno titolo che esso conferisce, gli it<strong>al</strong>iani erano sotto questo<br />

profilo meno fortunati degli abitanti dei princip<strong>al</strong>i paesi dell’Europa Occident<strong>al</strong>e (ma<br />

non di quelli della Germania Imperi<strong>al</strong>e).<br />

Grafico 1.12 - Un elettorato molto attivo<br />

(It<strong>al</strong>ia, % di votanti sugli aventi diritto)<br />

100<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

VIII - 1861<br />

X - 1867<br />

XII - 1874<br />

Elettori (per 100 abitanti)<br />

Votanti (per 100 elettori)<br />

XIV - 1880<br />

XVI - 1886<br />

XVIII - 1892<br />

XX - 1897<br />

XXII - 1904<br />

XXIV - 1913<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT, Schepis (1958), Ministero dell'agricoltura, dell'industria e del commercio, Biblioteca<br />

della Camera dei deputati e sito del Ministero dell'interno.<br />

Nemmeno la sinistra mostrò fretta nell’<strong>al</strong>largare il suffragio se solo nel 1882 fu varata una<br />

riforma elettor<strong>al</strong>e che prevedeva quello che Depretis definì «il suffragio univers<strong>al</strong>e possibile».<br />

L’elettorato attivo venne portato a 21 anni, fu abolito il criterio del censo ma venne<br />

mantenuto il requisito dell’<strong>al</strong>fabetismo. Gli aventi diritto <strong>al</strong> voto passarono così d<strong>al</strong> 2,2 per<br />

cento (1880) <strong>al</strong> 7 per cento della popolazione (da circa 600 mila a poco più di due milioni).<br />

Dato il gran numero di an<strong>al</strong>fabeti, del qu<strong>al</strong>e abbiamo detto, il «suffragio univers<strong>al</strong>e possibile»<br />

restava – de facto – assai poco univers<strong>al</strong>e.<br />

Giolitti fece approvare nel 1912 una legge elettor<strong>al</strong>e che, mantenendo sostanzi<strong>al</strong>mente invariati<br />

i criteri del 1882 per i cittadini maschi tra i 21 e i 30 anni, <strong>al</strong>largò il suffragio a tutti i cittadini<br />

maschi che avessero compiuto il trentesimo anno di età, senza qu<strong>al</strong>ificazioni di<br />

istruzione o censo, oppure, se più giovani, avessero prestato servizio militare. Il corpo eletto-<br />

53<br />

XXVI - 1921<br />

XXVIII - 1929<br />

A.C. - 1946<br />

II - 1953<br />

IV - 1963<br />

VI - 1972<br />

VIII - 1979<br />

X - 1987<br />

XII - 1994<br />

XIV - 2001<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

r<strong>al</strong>e b<strong>al</strong>zò d<strong>al</strong>l’8 <strong>al</strong> 23 per cento della popolazione. Questa legge venne utilizzata solo per le<br />

elezioni del 1913. Nel 1919 venne introdotto il suffragio univers<strong>al</strong>e per i maschi di età superiore<br />

ai 21 anni. Si noti che un anno prima, nel 1918, l’<strong>al</strong>tra metà del cielo aveva conquistato<br />

il diritto di voto nel Regno Unito e negli Stati Uniti (in <strong>al</strong>cuni stati dei qu<strong>al</strong>i le donne votavano<br />

sin d<strong>al</strong> 1869). La Francia, che pure era stata tra i primi paesi in Europa a introdurre il suffragio<br />

univers<strong>al</strong>e maschile aspetterà sino <strong>al</strong> secondo dopoguerra per estenderlo <strong>al</strong>le donne.<br />

Il suffragio univers<strong>al</strong>e maschile e femminile per chiunque avesse raggiunto la maggiore età<br />

(21 anni, ridotti a 18 nel 1975) divenne fin<strong>al</strong>mente una re<strong>al</strong>tà con la legge elettor<strong>al</strong>e del 1946.<br />

Le donne ebbero per la prima volta la possibilità di recarsi <strong>al</strong>le urne nelle elezioni amministrative<br />

di marzo-aprile 1946, seguite poco tempo dopo da quelle per l’assemblea costituente.<br />

Il diritto di voto fu esteso così d<strong>al</strong> 24,3 per cento (1934) <strong>al</strong> 61,3 per cento della popolazione.<br />

Da <strong>al</strong>lora, con un’affluenza ai seggi che non ha ugu<strong>al</strong>i nelle democrazie occident<strong>al</strong>i, gli it<strong>al</strong>iani<br />

dimostrarono di dare grande v<strong>al</strong>ore <strong>al</strong>la propria partecipazione <strong>al</strong>le scelte collettive attraverso<br />

l’elezione dei rappresentanti nelle assemblee legislative (Tabella 1.12). Ciò consente<br />

di ipotizzare che essi diano molto v<strong>al</strong>ore <strong>al</strong> proprio diritto di voto e che l’esercitarlo, costituisca,<br />

dunque, una gratificazione che ne accresce il benessere. Anche sotto questo profilo,<br />

dunque, il periodo che si apre con la fine della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e si conferma come<br />

un momento di forte accelerazione nella qu<strong>al</strong>ità della vita della popolazione it<strong>al</strong>iana. Si<br />

noti, tuttavia, che l’affluenza <strong>al</strong>le urne è stata, per tutto il secondo dopoguerra, significativamente<br />

inferiore nel Mezzogiorno e nelle Isole rispetto <strong>al</strong>le regioni del Centro Nord.<br />

Tabella 1.12 - Votanti più ligi <strong>al</strong> Nord<br />

(% di votanti per 100 elettori)<br />

1948 1958 1968 1979 1987 1994 2001 2006<br />

Nord 93,3 95,2 95,7 94,2 92,0 91,3 85,3 87,0<br />

Centro 92,7 95,4 95,0 93,3 91,8 88,4 83,8 85,8<br />

Sud 90,8 91,7 88,9 85,0 83,0 78,1 75,9 78,8<br />

Isole 88,7 91,0 86,2 82,6 80,3 75,8 72,7 75,7<br />

It<strong>al</strong>ia 92,2 94,0 93,0 90,7 88,4 85,8 81,3 83,6<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Ministero dell'agricoltura, dell'industria e del commercio.<br />

Pur in assenza di rigorose an<strong>al</strong>isi in argomento è facile ipotizzare, con Lindert, che l’introduzione<br />

piena del suffragio univers<strong>al</strong>e e, soprattutto, la partecipazione delle donne <strong>al</strong>la<br />

competizione elettor<strong>al</strong>e, abbia quantomeno accelerato (se non generato) i processi politici<br />

che hanno condotto <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>izzazione di importanti riforme soci<strong>al</strong>i (in particolare l’introduzione<br />

del sistema sanitario nazion<strong>al</strong>e e l’inn<strong>al</strong>zamento dell’obbligo scolastico) che costituiscono,<br />

come si è visto, una componente decisiva del benessere individu<strong>al</strong>e e collettivo.<br />

54


1.12 LA LUNGA CRESCITA DEL BENESSERE E LE SUE LEZIONI<br />

Il centenario della nascita della <strong>Confindustria</strong>, che si celebra quest’anno, immediatamente<br />

seguito d<strong>al</strong>la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’It<strong>al</strong>ia, possono aiutare a riflettere sul passato<br />

guardando <strong>al</strong> <strong>futuro</strong>. Di tanto in tanto, è utile sia agli individui sia <strong>al</strong>le collettività creare<br />

occasioni di ripensamento. Parafrasando il vecchio Winston, la storia è troppo importante<br />

per essere lasciata solo agli storici. Capire da dove veniamo, guardare <strong>al</strong>le ragioni di successi<br />

e sconfitte, aiuta a progettare il <strong>futuro</strong> e questo è il compito di tutti.<br />

La creazione e la diffusione di una buona qu<strong>al</strong>ità della vita per il più grande numero possibile<br />

di cittadini è uno dei compiti essenzi<strong>al</strong>i delle comunità nazion<strong>al</strong>i. In che misura ci è riuscita<br />

l’It<strong>al</strong>ia negli ultimi 150 anni? Una risposta sintetica a questa domanda non è facile, data<br />

la molteplicità delle dimensioni del benessere individu<strong>al</strong>e e collettivo che non si prestano<br />

a essere aggregate in un singolo indicatore.<br />

L’It<strong>al</strong>ia Unita ha generato un robusto «sviluppo economico moderno». Alla metà dell’Ottocento,<br />

il reddito pro capite degli it<strong>al</strong>iani – <strong>al</strong>meno di quella Centro settentrion<strong>al</strong>e – era probabilmente<br />

più basso di quello dei loro progenitori di cinque secoli prima. La Penisola era<br />

un’area periferica e arretrata dell’Europa occident<strong>al</strong>e. Il suo PIL per abitante raggiungeva<br />

appena il 60 per cento di quello del Regno Unito e dei Paesi Bassi. Da <strong>al</strong>lora iniziò una<br />

lenta crescita della produzione. D<strong>al</strong> 1861 sino <strong>al</strong>l’inizio del Ventunesimo secolo (2001),<br />

anno dopo anno gli it<strong>al</strong>iani hanno prodotto in media l’1,86 per cento in più dell’anno precedente.<br />

È poco? La legge del tasso composto può sorprendere: ciascuno di noi produce oggi<br />

una quantità di beni e servizi 13 volte superiore a quella prodotta dai nostri progenitori che<br />

combatterono nelle guerre di indipendenza. I vari periodi della storia it<strong>al</strong>iana non furono tutti<br />

di ugu<strong>al</strong>e successo sul piano dello sviluppo economico. La crescita fu relativamente lenta<br />

nei decenni post-unitari. Accelerò durante la cosiddetta prima glob<strong>al</strong>izzazione: <strong>al</strong>la vigilia<br />

della Grande guerra il PIL pro capite superava dell’80 per cento il livello del 1861. Nel 1939<br />

era cresciuto di un <strong>al</strong>tro 40 per cento. Gran parte dell’enorme b<strong>al</strong>zo produttivo che caratterizza<br />

la nostra storia unitaria è stato re<strong>al</strong>izzato a partire d<strong>al</strong> secondo dopoguerra. Negli anni<br />

Cinquanta e Sessanta, la crescita fu tumultuosa, «miracolosa» dissero <strong>al</strong>cuni: nel ventennio<br />

il PIL pro capite aumentò di 2,6 volte. Lo sviluppo successivo fu meno spettacolare ma rimase<br />

robusto, anche nel confronto internazion<strong>al</strong>e, sino <strong>al</strong>l’inizio degli anni Novanta. Da <strong>al</strong>lora<br />

il ritmo è stato assai meno soddisfacente, ben <strong>al</strong> di sotto della media secolare.<br />

In termini aggregati, l’It<strong>al</strong>ia unita ha dato, sino a quindici anni fa, risultati lusinghieri sul piano<br />

della crescita economica. Questi risultati sono stati accompagnati, non sempre in stretta relazione<br />

caus<strong>al</strong>e, da profonde transizioni e t<strong>al</strong>volta autentiche rivoluzioni: quella dei consumi,<br />

quella demografica, quella epidemiologica, quella dell’istruzione, quella della democrazia.<br />

Gli it<strong>al</strong>iani, divisi e margin<strong>al</strong>i, non parteciparono a quella prima rivoluzione dei consumi,<br />

re<strong>al</strong>izzata in Inghilterra e nei Paesi Bassi a partire d<strong>al</strong> Diciassettesimo secolo, che vide le<br />

classi popolari acquisire beni e stili di vita tipici delle classi superiori (per esempio l’abitu- 1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

55


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

dine di bere il tè in tazze di porcellana <strong>al</strong>le cinque del pomeriggio). L’It<strong>al</strong>ia fu invece pienamente<br />

investita d<strong>al</strong>la seconda rivoluzione di consumi, caratterizzata in tutto l’Occidente,<br />

d<strong>al</strong>la diffusione dei beni di consumo durevole. A partire d<strong>al</strong> secondo dopoguerra, in pochi<br />

anni, il frigorifero, la lavatrice, la televisione e, soprattutto, l’automobile resero irriconoscibile,<br />

nello spazio di una generazione, la vita quotidiana dell’it<strong>al</strong>iano medio.<br />

Le <strong>al</strong>tre rivoluzioni colpirono meno di quella dei consumi l’immagine che gli it<strong>al</strong>iani avevano<br />

di sé, furono più nascoste ma forse ancora più importanti d<strong>al</strong> punto di vista della qu<strong>al</strong>ità<br />

della vita. D<strong>al</strong> momento dell’Unità, la vita media si è costantemente <strong>al</strong>lungata per il<br />

miglioramento della dieta, delle condizioni igieniche, della diffusione dei progressi della<br />

medicina, dello stile di vita. Alla vigilia della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e l’it<strong>al</strong>iano medio poteva<br />

aspettarsi di vivere 60 anni, il doppio di quanto potessero sperare i suoi bisnonni nel<br />

1861. Lo sviluppo della statura indica quanto sia migliorata anche la qu<strong>al</strong>ità fisica della vita.<br />

Oggi gli it<strong>al</strong>iani sono uno dei popoli più longevi del mondo. Le rivoluzioni della speranza<br />

di vita e della s<strong>al</strong>ute sono probabilmente quelle nelle qu<strong>al</strong>i l’It<strong>al</strong>ia Unita ha avuto maggiore<br />

successo, anche nel confronto internazion<strong>al</strong>e. Lo stato unitario ha creato buone condizioni<br />

igieniche in tutti gli agglomerati urbani, <strong>al</strong> Nord come <strong>al</strong> Sud; ha istituito un servizio sanitario<br />

nazion<strong>al</strong>e a carattere univers<strong>al</strong>istico che, con tutte le sue deficienze e disparità territori<strong>al</strong>i,<br />

garantisce il diritto fondament<strong>al</strong>e <strong>al</strong>la s<strong>al</strong>ute ed è giudicato tra i migliori <strong>al</strong> mondo<br />

d<strong>al</strong>l’Organizzazione Mondi<strong>al</strong>e della Sanità.<br />

Meno soddisfacenti, per certi aspetti f<strong>al</strong>limentari, sono i risultati ottenuti d<strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia nella re<strong>al</strong>izzazione<br />

della moderna rivoluzione dell’istruzione. L’an<strong>al</strong>fabetismo fu debellato più lentamente<br />

che in <strong>al</strong>tri paesi, anche più poveri del nostro. L’obbligo scolastico fu per quasi un<br />

secolo imposto solo nomin<strong>al</strong>mente e largamente evaso. L’istruzione media superiore e universitaria<br />

ha faticato e fatica a estendersi. La qu<strong>al</strong>ità di tutto il sistema, stando ai confronti<br />

internazion<strong>al</strong>i, è tuttora non lusinghiera. I motivi di questa autentica débacle nazion<strong>al</strong>e non<br />

sono stati sufficientemente indagati. Al momento pare difficile trovare spiegazione più convincente<br />

di quella offerta da numerosi studiosi: l’élite it<strong>al</strong>iana - economica, sindac<strong>al</strong>e, politica<br />

e, purtroppo, anche intellettu<strong>al</strong>e – ha sempre dimostrato un incomprensibile disinteresse<br />

per la questione scolastica.<br />

Scorrendo la nostra elencazione dell’evoluzione delle diverse dimensioni del benessere, il<br />

lettore anche distratto è colpito d<strong>al</strong>la grande dimensione dei divari interregion<strong>al</strong>i e d<strong>al</strong> loro<br />

persistere nel tempo. Nel 1860, l’It<strong>al</strong>ia era un mosaico di stati assai diversi tra loro per storia,<br />

livello di reddito, istituzioni politiche, cultura. I nostri dati mostrano ancora una volta che<br />

l’Unificazione politica e amministrativa non è stata seguita, nel tempo, d<strong>al</strong>la riduzione dei<br />

divari in molti campi della vita economica e soci<strong>al</strong>e. Intendiamoci: la crescita del benessere,<br />

in tutte le dimensioni esaminate, ha coinvolto Nord, Centro e Sud. Le rivoluzioni che abbiamo<br />

descritto hanno coinvolto tutte le regioni della Penisola. Ma in molte dimensioni del<br />

benessere è mancata quella crescita più rapida delle aree inizi<strong>al</strong>mente meno fortunate che<br />

avrebbe dovuto portare a una riduzione dei divari.<br />

56


I consumi pro capite di <strong>al</strong>cuni beni durevoli sono ormai quasi ugu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> Nord e <strong>al</strong> Sud e<br />

quest’ultimo ha migliorato più rapidamente del primo le condizioni abitative della popolazione<br />

ma, nel complesso, il consumo per abitante resta più basso nella parte meridion<strong>al</strong>e<br />

d’It<strong>al</strong>ia. Una correzione per tenere conto del diverso livello dei prezzi lungo l’arco secolare<br />

è in cantiere: i primi risultati mostrano che essa attenua ma non elimina il divario. Una dimensione<br />

nella qu<strong>al</strong>e le differenze geografiche sono oggi minime è quella della speranza<br />

di vita <strong>al</strong>la nascita ma permangono i divari sia nella mort<strong>al</strong>ità infantile (nel primo anno di<br />

vita) sia nella statura (<strong>al</strong>meno fino a quando l’abolizione della leva ci ha privato di questo<br />

interessante indicatore). La rivoluzione dell’istruzione è rimasta incompiuta nelle regioni<br />

meridion<strong>al</strong>i più che nel resto del Paese: l’an<strong>al</strong>fabetismo, estirpato nel Centro Nord, supera<br />

il 4 per cento in t<strong>al</strong>une regioni meridion<strong>al</strong>i. I tassi di frequenza scolastica e la qu<strong>al</strong>ità dell’apprendimento<br />

sono, <strong>al</strong> Sud, del tutto insoddisfacenti. Se aggiungessimo <strong>al</strong> nostro elenco<br />

<strong>al</strong>tre dimensioni del benessere qu<strong>al</strong>i il capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e e la sicurezza non potremmo che<br />

constatare ulteriori divari. La «questione meridion<strong>al</strong>e» ha accompagnato tutta la storia unitaria,<br />

le migliori menti l’hanno studiata e proposto rimedi ma essa è ancora con noi. Benché,<br />

come abbiamo ripetuto, non sia possibile formulare indicatori sintetici i dati che<br />

possediamo sono concordi nell’indicare che la qu<strong>al</strong>ità della vita nel Mezzogiorno è meno<br />

elevata che nelle <strong>al</strong>tre regioni.<br />

Se il divario interregion<strong>al</strong>e persiste la crescita di tutte le variabili considerate è univoca e di<br />

dimensione t<strong>al</strong>e da non lasciare dubbi sul fatto che l’it<strong>al</strong>iano medio goda oggi di una qu<strong>al</strong>ità<br />

della vita immensamente superiore a quella dell’it<strong>al</strong>iano del 1861, del 1900 o del 1950.<br />

In ogni dimensione del benessere, tranne quella della qu<strong>al</strong>ità dell’aria che respira, l’it<strong>al</strong>iano<br />

ha fatto passi da gigante rispetto ai propri genitori, nonni e trisavoli. Qu<strong>al</strong>e è stata la percezione<br />

soggettiva dell’enorme miglioramento sul qu<strong>al</strong>e i dati non lasciano dubbi?<br />

Nel 1947, anno di bassi redditi ed elevata inflazione, il 34 per cento degli it<strong>al</strong>iani si dichiarava<br />

«molto» o «abbastanza felice» (Tabella 1.13). Dieci anni dopo, m<strong>al</strong>grado un reddito cresciuto<br />

del 75 per cento e grandi miglioramenti registrati in tutte le dimensioni del tenore di<br />

vita, la percentu<strong>al</strong>e dei «molto» o «abbastanza felici» era solo impercettibilmente cresciuta,<br />

<strong>al</strong> 37 per cento. A partire dagli anni Settanta disponiamo di un indice comparabile per diversi<br />

paesi sul grado di soddisfazione percepita dagli abitanti (che varia da una soddisfazione minima<br />

di 0 a una massima di 10). L’indice per l’It<strong>al</strong>ia è cresciuto, con fluttuazioni, da un minimo<br />

di poco più di 5 nel 1976 a un massimo vicino a 6,5 nei primi anni Novanta per poi<br />

muoversi attorno a 6 sino agli anni più recenti (Grafico 1.13). È interessante notare che la soddisfazione<br />

per la vita in It<strong>al</strong>ia mostra maggiore variabilità nel corso del tempo di quella di <strong>al</strong>tri<br />

paesi e che il suo livello si colloca sempre in basso, insieme a quello di Francia e Giappone;<br />

i cittadini dei nove paesi dell’Unione Europea, della Germania Ovest, del Regno Unito e<br />

degli Stati Uniti si dichiarano costantemente più soddisfatti dei nostri connazion<strong>al</strong>i.<br />

Volendo dare credito <strong>al</strong>le indagini demoscopiche, sembrerebbe che gli enormi progressi ottenuti<br />

nell’ultimo mezzo secolo in tutte le dimensioni del benessere abbiano influito in modo<br />

che a prima vista appare relativamente modesto sulla soddisfazione della vita percepita dagli 1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

57


1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI<br />

it<strong>al</strong>iani. Ciò non stupisce. Ciascuno di noi v<strong>al</strong>uta le condizioni proprie e dell’ambiente in cui<br />

vive in ciascun momento con scarso riferimento <strong>al</strong> passato. I livelli di benessere raggiunti<br />

dagli individui e d<strong>al</strong>le collettività vengono presto dati per scontati. Gli psicologi usano il termine<br />

habituation per definire questo fenomeno. La memoria storica di un passato anche relativamente<br />

vicino si perde rapidamente. È questa una ragione in più per approfittare degli<br />

anniversari di <strong>Confindustria</strong> e dell’Unità per ricordare, come abbiamo cercato di fare qui,<br />

l’enormità del progresso compiuto da <strong>al</strong>lora in tutte le variabili rilevanti per la qu<strong>al</strong>ità della<br />

vita in un lasso di tempo che, <strong>al</strong>meno agli occhi degli storici, appare brevissimo.<br />

Tabella 1.13 - Più felici dopo il boom<br />

(Dati in %)<br />

Tot<strong>al</strong>e Maschi Femmine<br />

Si sente... 1947 1956 1947 1956 1947 1956<br />

Molto felice 5 7 4 6 6 8<br />

Abbastanza felice 29 30 30 32 29 29<br />

Né felice né infelice 44 42 45 44 42 41<br />

Piuttosto infelice 18 15 16 12 20 17<br />

Molto infelice - 2 - 3 - 2<br />

Non so 4 4 5 3 3 3<br />

Fonte: elaborazioni su dati DOXA.<br />

Grafico 1.13 - It<strong>al</strong>iani meno soddisfatti<br />

(Della vita, %)<br />

8,5<br />

8,0<br />

7,5<br />

7,0<br />

6,5<br />

6,0<br />

5,5<br />

5,0<br />

4,5<br />

1973<br />

1975<br />

1977<br />

1979<br />

1981<br />

1983<br />

1985<br />

1987<br />

It<strong>al</strong>ia Germania Ovest Francia<br />

Regno Unito UE-9 USA<br />

Fonte: elaborazioni su dati World Database of Happiness, Erasmus University Rotterdam.<br />

1989<br />

58<br />

1991<br />

1993<br />

1995<br />

1997<br />

1999<br />

2001<br />

2003<br />

2005<br />

2007<br />

Giappone


La soddisfazione degli it<strong>al</strong>iani era minima nel 1975, anno di crisi economica e grande incertezza,<br />

è cresciuta poi in anni di ripresa dello sviluppo fino <strong>al</strong> 1991-92 quando nuovamente<br />

l’economia e la società it<strong>al</strong>iane hanno attraversato momenti difficili, testimoniati<br />

anche d<strong>al</strong>la brusca crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. L’indice si<br />

è stabilizzato sino <strong>al</strong> 2006 per poi declinare nuovamente. Pur con la loro miopia rispetto <strong>al</strong><br />

passato, sembra che la soddisfazione dichiarata dagli it<strong>al</strong>iani per la propria vita abbia seguito<br />

l’andamento dell’economia it<strong>al</strong>iana. Essa riflette, nel trend piatto di un quindicennio, la m<strong>al</strong>aise<br />

economica che ci ha colpito. Da tre lustri la produttività quasi ristagna, il reddito per<br />

abitante cresce meno che nel resto d’Europa, la posizione relativa dell’economia it<strong>al</strong>iana si<br />

deteriora anno dopo anno. È impossibile che questo stato di cose non si rifletta sulla percezione<br />

che abbiamo della nostra qu<strong>al</strong>ità della vita. Se avessimo potuto disporre di variabili<br />

che riflettono l’accresciuta vulnerabilità di fasce soci<strong>al</strong>i margin<strong>al</strong>i, poco protette, questa<br />

dimensione del benessere avrebbe probabilmente evidenziato un peggioramento.<br />

La storia non impartisce lezioni. Evidenziando la dinamica economica e soci<strong>al</strong>e, aiuta a capire<br />

le direzioni prese e le correzioni da apportare per il <strong>futuro</strong>. Nel caso della qu<strong>al</strong>ità della<br />

vita, i cento o centocinquanta anni che stiamo ricordando mostrano (i) che la crescita economica<br />

ha un impatto fondament<strong>al</strong>e sulla maggior parte delle dimensioni del benessere;<br />

(ii) che la quantità delle risorse disponibili non è, in t<strong>al</strong>une cruci<strong>al</strong>i dimensioni, sufficiente<br />

a migliorare la qu<strong>al</strong>ità della vita.<br />

L’ulteriore miglioramento del tenore di vita complessivo della nostra collettività dipende anzitutto<br />

d<strong>al</strong>l’uscita, dopo la crisi attu<strong>al</strong>e, d<strong>al</strong>la situazione di semi-ristagno che ha caratterizzato<br />

l’economia it<strong>al</strong>iana degli ultimi quindici anni. In mancanza di ciò i consumi privati e<br />

collettivi potranno crescere poco. La crescita, tuttavia, non basterà: i suoi frutti dovranno essere<br />

più equamente distribuiti, gli investimenti in capit<strong>al</strong>e fisso soci<strong>al</strong>e e ricerca dovranno<br />

essere rilanciati. Ricette diverse da quelle applicate nell’ultimo secolo dovranno essere inventate<br />

per risolvere la questione meridion<strong>al</strong>e. Nel caso della scuola, la dimensione forse<br />

tra tutte più importante nel Ventunesimo secolo, non servono molte risorse aggiuntive: la storia<br />

mostra che in questo campo molto si può fare anche con mezzi relativamente modesti.<br />

Serve una «conversione» collettiva <strong>al</strong>la priorità assoluta della questione scolastica.<br />

Più in gener<strong>al</strong>e, avrebbe detto Abramovitz, l’It<strong>al</strong>ia deve riacquistare quella «capacità soci<strong>al</strong>e»<br />

di generare crescita di benessere che non le è mancata in <strong>al</strong>tre fasi della propria storia.<br />

59<br />

1. NEL SECOLO BREVE IL LUNGO BALZO DEL BENESSERE DEGLI ITALIANI


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI<br />

PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Enrico Giovannini<br />

Negli ultimi cento anni il mondo ha visto un aumento senza precedenti del benessere materi<strong>al</strong>e,<br />

anche se le disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri sono ancora fortissime, così<br />

come quelle tra persone ricche e povere <strong>al</strong>l’interno di ciascun paese. L’incontestabilità di<br />

t<strong>al</strong>e affermazione è merito della statistica, la qu<strong>al</strong>e è stata capace di sviluppare schemi concettu<strong>al</strong>i<br />

per misurare i fenomeni economici e soci<strong>al</strong>i e di metterli in pratica, fornendo <strong>al</strong>la collettività<br />

uno strumento conoscitivo indispensabile per prendere decisioni, disegnare politiche<br />

e v<strong>al</strong>utarne gli effetti, cioè per il funzionamento stesso della società e della democrazia.<br />

Se, quindi, possiamo dire, sulla base degli indicatori statistici disponibili, che la crescita del<br />

benessere materi<strong>al</strong>e è stata straordinaria, possiamo anche affermare che le nostre società<br />

siano migliori di quelle di un secolo fa? Possiamo cioè dire, per esempio, che il nostro paese<br />

abbia conseguito un vero «progresso» e che, quindi, gli it<strong>al</strong>iani stiano meglio di come stavano<br />

<strong>al</strong>lora? La risposta è ancora positiva se ci riferiamo a un arco tempor<strong>al</strong>e così ampio,<br />

ma diventa molto più incerta se guardiamo a dieci anni fa. In t<strong>al</strong>e arco tempor<strong>al</strong>e, infatti, accanto<br />

a una crescita economica ancora positiva (ancorché contenuta) si sono manifestati <strong>al</strong>tri<br />

fenomeni meno positivi o decisamente negativi che probabilmente ci farebbero rispondere<br />

<strong>al</strong>la domanda di cui sopra con un «dipende».<br />

Se il lettore condivide questo modo di vedere le cose, <strong>al</strong>lora non dovrebbe avere remore a<br />

iscriversi tra coloro i qu<strong>al</strong>i, e sono un numero crescente in tutto il mondo, ritengono che misurare<br />

il progresso della nostra società guardando princip<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>l’aumento del prodotto<br />

interno lordo (PIL) sia insoddisfacente o addirittura sbagliato o pericoloso. Come il tipico cinquantenne<br />

che, dopo aver passato la vita a lavorare intensamente per diventare ricco a scapito<br />

della s<strong>al</strong>ute e delle relazioni interperson<strong>al</strong>i, sperimenta la «crisi di mezz’età», così il<br />

mondo Occident<strong>al</strong>e si interroga oggi sul modello di sviluppo che gli ha consentito di ottenere<br />

grandi risultati, ma che <strong>al</strong>lo stesso tempo sta compromettendo l’ambiente natur<strong>al</strong>e,<br />

provocando un aumento senza precedenti delle m<strong>al</strong>attie depressive e mettendo a rischio la<br />

coesione soci<strong>al</strong>e. Contemporaneamente, nell’epoca della glob<strong>al</strong>izzazione, tante comunità<br />

loc<strong>al</strong>i, sia nei paesi sviluppati sia in quelli emergenti, cercano di organizzarsi per migliorare<br />

la qu<strong>al</strong>ità della vita complessiva dei propri cittadini, declinando questo obiettivo <strong>al</strong>la luce<br />

delle loro specificità cultur<strong>al</strong>i e non soltanto sulla base di un obiettivo di crescita economica.<br />

Infine, nei paesi asiatici (dove la crescita economica è stata straordinariamente elevata negli<br />

Enrico Giovannini, Presidente dell’Istituto Nazion<strong>al</strong>e di Statistica (ISTAT) e Professore presso la Facoltà di Economia dell’Università di<br />

Roma Tor Vergata.<br />

61<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

ultimi anni) si moltiplicano i tentativi di sviluppare modelli di sviluppo diversi da quelli occident<strong>al</strong>i<br />

(«società armoniosa» in Cina, «economia sufficiente» in Tailandia, «felicità» in<br />

Bhutan, «crescita verde» in Corea), contribuendo ad <strong>al</strong>imentare un movimento che, insieme<br />

<strong>al</strong>le iniziative ecologiste e a quelle fautrici della «decrescita», sta <strong>al</strong>largandosi rapidamente<br />

in tutto il mondo.<br />

Pur riconoscendo che le critiche <strong>al</strong> PIL come misura del benessere non sono certo nuove e<br />

che molto è stato scritto sulla necessità di sviluppare nuove visioni della società, e quindi<br />

nuove metriche per v<strong>al</strong>utare il suo progresso, <strong>al</strong>la luce dell’evidenza disponibile (ben documentata<br />

d<strong>al</strong>la knowledge base disponibile sul sito www.oecd.org/progress) e qui brevemente<br />

citata, l’ipotesi che si sia <strong>al</strong>le soglie di un «cambio di paradigma» nel modo con cui<br />

si v<strong>al</strong>uta il progresso delle nostre società, e quindi di un mutamento degli indicatori statistici<br />

attraverso cui leggiamo il loro stato di s<strong>al</strong>ute, non può essere scartata. Questo spiega perché<br />

il tema sia considerato strategico da leader politici e organizzazioni internazion<strong>al</strong>i.<br />

Per<strong>al</strong>tro, anche le imprese stanno guardando a queste tematiche con crescente interesse,<br />

introducendo cambiamenti non solo nei sistemi di produzione (per contribuire <strong>al</strong>la sostenibilità<br />

ambient<strong>al</strong>e o <strong>al</strong> miglioramento del benessere dei propri lavoratori), ma anche nelle<br />

politiche di corporate soci<strong>al</strong> responsibility, sviluppando indicatori di impatto sulle comunità<br />

in cui operano che vadano <strong>al</strong> di là di quelli puramente economici e finanziari e utilizzandoli<br />

anche per migliorare la propria immagine nei confronti di consumatori sempre più attenti<br />

a queste tematiche. Ad esempio, l’approccio triple bottom line (basato sui tre pilastri<br />

people, planet, profit) sintetizza la visione che vede l’impresa come il luogo in cui non si<br />

producono semplicemente profitti, ma dove si re<strong>al</strong>izza il coordinamento dei portatori d’interesse<br />

(stakeholder) e non solo quello degli azionisti (shareholder). Il par<strong>al</strong>lelo tra t<strong>al</strong>e approccio<br />

(e nella sua versione estesa, in cui si aggiunge un quarto pilastro, rappresentato<br />

d<strong>al</strong>la governance), secondo il qu<strong>al</strong>e ogni impresa dovrebbe dare conto della propria attività<br />

con indicatori di carattere economico, soci<strong>al</strong>e e ambient<strong>al</strong>e, non rappresenta <strong>al</strong>tro che l’<strong>al</strong>tra<br />

faccia di quanto sta avvenendo per la società nel suo complesso, il che conferma l’idea<br />

che il cambiamento di paradigma sia vicino, o addirittura già in atto.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, lo sviluppo di strumenti di misurazione dei diversi aspetti del benessere di<br />

una società appare solo uno degli aspetti da affrontare per raggiungere una nuova visione<br />

di cosa costituisca progresso. Ecco perché la riflessione sugli strumenti di misurazione si intreccia<br />

con quelle del rapporto esistente tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa,<br />

e tra governanti e governati nell’era del web 2.0. Ed ecco perché in questo<br />

lavoro ci concentreremo sia sugli aspetti tecnici, sia su quelli politici del problema, <strong>al</strong>lo<br />

scopo di mostrare come la discussione sugli indicatori di progresso assuma una v<strong>al</strong>enza<br />

cruci<strong>al</strong>e ai fini della governance democratica della società del Ventunesimo secolo.<br />

62


2.1 DOVE STIAMO ANDANDO?<br />

Quando negli anni Trenta Simon Kuznets e il suo piccolo team svilupparono i concetti di<br />

quello che sarebbe poi diventato il Sistema dei Conti Nazion<strong>al</strong>i così come noi lo conosciamo<br />

oggi, gli Stati Uniti e il mondo intero si dibattevano nella Grande depressione, cioè<br />

un periodo caratterizzato da una caduta senza precedenti dei corsi di Borsa, della produzione<br />

e del commercio con l’estero. In quegli anni la disoccupazione di massa mise a dura<br />

prova la tenuta delle istituzioni democratiche in molti paesi, mentre in <strong>al</strong>tri portò <strong>al</strong>la nascita<br />

di movimenti che <strong>al</strong>imentarono le tensioni sfociate nella seconda guerra mondi<strong>al</strong>e.<br />

Il paragone con la situazione che il mondo sta vivendo oggigiorno, <strong>al</strong>meno sul piano economico,<br />

dopo ottanta anni d<strong>al</strong>la crisi del ’29 sarebbe facile e molto è già stato scritto sulle<br />

similarità e le differenze tra la crisi odierna e quella di <strong>al</strong>lora. Non dovrebbe stupire, quindi,<br />

che come la crisi del ’29 portò <strong>al</strong>lo sviluppo di nuovi modi di misurare l’attività di un paese,<br />

vista in termini di livello di produzione (o PIL), le difficoltà odierne <strong>al</strong>imentino iniziative<br />

volte a stabilire nuove misure del progresso delle nostre società che vadano oltre il PIL. In<br />

re<strong>al</strong>tà, le differenze, <strong>al</strong>meno sul piano della ricerca statistica, tra ciò che avvenne a quell’epoca<br />

e quello che osserviamo oggi sono notevoli e certamente superiori <strong>al</strong>le an<strong>al</strong>ogie. Ma<br />

se guardassimo solo agli aspetti tecnici del problema, trascurando quelli di carattere cultur<strong>al</strong>e<br />

e politico, commetteremmo un grave errore di sottov<strong>al</strong>utazione delle forze che stanno<br />

dietro <strong>al</strong>le odierne discussioni di carattere metodologico.<br />

In effetti, proprio mentre Kuznets stava lavorando a ciò che sarebbe poi diventato il Sistema<br />

dei Conti Nazion<strong>al</strong>i, il Presidente degli Stati Uniti d’America, F. D. Roosevelt, nel corso dei<br />

suoi famosi discorsi <strong>al</strong> caminetto e in <strong>al</strong>tre occasioni pubbliche, si rivolgeva agli americani<br />

con queste parole:<br />

“La gente di questo Paese è stata erroneamente incoraggiata a credere che si potesse aumentare<br />

<strong>al</strong>l’infinito la produzione e che un mago avrebbe trovato un modo per trasformare<br />

la produzione in consumi e in profitti per i produttori”.<br />

“Senza distinzione di partito, la grande maggioranza del nostro popolo cerca l’opportunità<br />

di far prosperare l’umanità e di trovare la propria felicità. Il nostro popolo riconosce che il<br />

benessere umano non si raggiunge unicamente attraverso il materi<strong>al</strong>ismo e il lusso, ma che<br />

esso cresce grazie <strong>al</strong>l’integrità, <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>truismo, <strong>al</strong> senso di responsabilità e <strong>al</strong>la giustizia”.<br />

Può sembrare strano che, proprio nel mezzo di una crisi economica senza precedenti, il<br />

Presidente Roosevelt usasse un linguaggio non dissimile da quello che, nel 1972, Jgme Singye<br />

Wangchuck, Re del Bhutan, utilizzò per lanciare l’idea di sostituire il PIL con il concetto<br />

di «felicità interna lorda», recentemente ribadito d<strong>al</strong>l’attu<strong>al</strong>e Re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck<br />

nel suo discorso di insediamento, nel novembre del 2008:<br />

“Eppure noi dobbiamo sempre ricordare che il nostro paese, in questo tempo di cambiamento,<br />

deve affrontare nuove ed immense sfide ed opportunità e che qu<strong>al</strong>unque lavoro noi<br />

63<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

facciamo e qu<strong>al</strong>unque obiettivo noi ci diamo – e non importa come questi elementi possano<br />

mutare in un mondo in cambiamento – senza pace, sicurezza e felicità noi non abbiamo<br />

nulla”.<br />

Tra questi due discorsi ci sono differenze tempor<strong>al</strong>i e cultur<strong>al</strong>i enormi. Negli ottanta anni che<br />

li separano, infatti, i paesi Occident<strong>al</strong>i, e gran parte del mondo, hanno sperimentato un cambiamento<br />

epoc<strong>al</strong>e negli stili di vita e un aumento senza precedenti del benessere materi<strong>al</strong>e.<br />

Allo stesso tempo, la teoria e la politica economica hanno subito radic<strong>al</strong>i mutamenti, così<br />

come le teorie e le pratiche politiche. Infine, la rivoluzione tecnologica e la glob<strong>al</strong>izzazione<br />

hanno reso nell’ultimo decennio il mondo molto diverso da quello che si era sviluppato a partire<br />

d<strong>al</strong> secondo dopoguerra. Si potrebbe facilmente dire che nulla è più com’era ottanta anni<br />

fa. Eppure, i capi di Stato di due nazioni diversissime dopo tanto tempo esprimono concetti<br />

an<strong>al</strong>oghi, riconoscendo che il progresso di un paese non deriva solo d<strong>al</strong>la crescita economica.<br />

In effetti, per restare negli Stati Uniti, già nel 1968, poco prima di essere ucciso, Robert Kennedy<br />

disse:<br />

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra person<strong>al</strong>e soddisfazione nel mero<br />

perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo<br />

misurare lo spirito nazion<strong>al</strong>e sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese<br />

sulla base del prodotto interno lordo (PIL). … Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro<br />

coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né<br />

la devozione <strong>al</strong> nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente<br />

degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi<br />

di essere americani”.<br />

An<strong>al</strong>ogamente, nel 2008, nel corso del suo discorso di accettazione della candidatura a<br />

Presidente degli Stati Uniti per il Partito Democratico, Barak Obama ha affermato:<br />

“Noi abbiamo una visione molto diversa di ciò che costituisce progresso per il nostro paese.<br />

Noi misuriamo il progresso da quante persone hanno un lavoro che gli consente di pagare il<br />

mutuo, o di risparmiare qu<strong>al</strong>cosa <strong>al</strong>la fine del mese per vedere un giorno il proprio figlio laurearsi<br />

… e non d<strong>al</strong> numero di miliardari nella classifica di Fortune 500, ma d<strong>al</strong> fatto che qu<strong>al</strong>cuno<br />

con una buona idea possa rischiare e creare una nuova impresa, d<strong>al</strong>la possibilità che una<br />

cameriera che vive grazie <strong>al</strong>le mance possa prendersi un giorno di congedo per curare il proprio<br />

figlio m<strong>al</strong>ato, d<strong>al</strong> fatto di avere un’economia che rende onore <strong>al</strong>la dignità del lavoro”.<br />

Ovviamente, concetti an<strong>al</strong>oghi sono <strong>al</strong>la base dei discorsi di molti <strong>al</strong>tri leader politici e di dichiarazioni<br />

sottoscritte nel corso di summit internazion<strong>al</strong>i, o a fronte di impegni solenni,<br />

qu<strong>al</strong>e la Dichiarazione del Millennio adottata d<strong>al</strong>le Nazioni Unite nel 2000. Ciò vuol dire che<br />

in tutta la storia recente dell’umanità le aspirazioni a raggiungere un benessere più ampio di<br />

quello puramente economico si sono manifestate regolarmente e continuano a manifestarsi<br />

oggigiorno. Eppure, se si guarda <strong>al</strong>la comunicazione offerta dai media classici (giorn<strong>al</strong>i, te-<br />

64


levisioni, ecc.) l’attenzione ai temi economici appare spasmodica, anche nelle fasi economiche<br />

positive. Ai dati economici e finanziari, benché siano fortemente erratici e scarsamente<br />

comprensibili <strong>al</strong>la gente comune, vengono spesso dedicate le prime pagine dei giorn<strong>al</strong>i<br />

e dei telegiorn<strong>al</strong>i o spazi appositi, anche quando hanno presentato variazioni infinitesim<strong>al</strong>i<br />

rispetto <strong>al</strong> giorno prima. Al contrario, dati importanti di carattere soci<strong>al</strong>e e ambient<strong>al</strong>e trovano<br />

molto minor eco sui princip<strong>al</strong>i mezzi di comunicazione, sebbene potrebbero aiutare a comprendere<br />

modificazioni di carattere struttur<strong>al</strong>e, e come t<strong>al</strong>i, difficilmente reversibili.<br />

Ricordando che la parola «statistica» viene da «scienza dello Stato», non deve stupire che<br />

la produzione degli istituti nazion<strong>al</strong>i di statistica segua la domanda che proviene d<strong>al</strong>la società.<br />

Infatti, essi misurano ciò a cui la collettività tiene, cioè quello che noi v<strong>al</strong>utiamo come<br />

importante per le nostre scelte e per il nostro <strong>futuro</strong>. Allo stesso tempo noi, come individui<br />

e come società, poniamo attenzione a ciò che misuriamo e osserviamo. Di conseguenza,<br />

una riflessione sui metodi attraverso i qu<strong>al</strong>i ci autorappresentiamo in termini statistici diviene<br />

un modo per discutere i v<strong>al</strong>ori che guidano le nostre scelte, per guardare a come le<br />

nostre società sono organizzate e come vogliamo che esse evolvano in <strong>futuro</strong>. Come Amartya<br />

Sen, Premio Nobel per l’economia, ricorda spesso, discutere di indicatori è un modo per<br />

parlare dei fini ultimi di una società e della direzione che essa intende intraprendere. Ecco<br />

<strong>al</strong>lora che, in un momento di crisi e di incertezza come l’attu<strong>al</strong>e, una riflessione su questi<br />

aspetti può contribuire a rispondere <strong>al</strong>la domanda che tante persone oggi si pongono: dove<br />

stiamo andando?<br />

Guardando ai cinque anni passati tra il primo Forum Mondi<strong>al</strong>e dell’OCSE su «Statistica, Conoscenza<br />

e Politica», tenutosi a P<strong>al</strong>ermo nell’ottobre 2004 e il terzo evento della serie, svoltosi<br />

a Busan (Corea del Sud) <strong>al</strong>la fine del 2009, si nota che si sia andato consolidando un<br />

vero e proprio movimento glob<strong>al</strong>e sul tema della misurazione, in teoria e in pratica, del<br />

progresso delle nostre società. La ragione princip<strong>al</strong>e del successo di t<strong>al</strong>e movimento, articolato<br />

in centinaia di iniziative in tutto il mondo, risiede nel fatto che esso cerca di rispondere<br />

a una «domanda di senso» che le crisi <strong>al</strong>imentare, energetica, finanziaria, economica<br />

e soci<strong>al</strong>e sperimentate negli ultimi anni da aree consistenti del globo hanno instillato in milioni<br />

di persone, facendo emergere una crescente insicurezza anche in strati consistenti<br />

della popolazione dei paesi ricchi.<br />

Anche i politici e le istituzioni internazion<strong>al</strong>i stanno dimostrando un sempre più forte interesse<br />

per questo argomento, soprattutto a partire d<strong>al</strong>l’estate del 2009. Infatti, cominciando<br />

d<strong>al</strong>la pubblicazione della comunicazione della Commissione Europea «PIL e oltre: misurare<br />

il progresso in un mondo in evoluzione» avvenuta ad agosto, passando per la pubblicazione<br />

del rapporto della Commissione sulla «Misurazione della performance economica e<br />

del progresso soci<strong>al</strong>e» (noto come Rapporto Stiglitz), per la riunione di Pittsburg del G20, il<br />

cui comunicato fin<strong>al</strong>e sottolinea che “visto che ci impegniamo a mettere in pratica un nuovo<br />

modello di crescita sostenibile, dovremmo incoraggiare il lavoro sui metodi di misurazione<br />

volti a meglio tenere conto delle dimensioni soci<strong>al</strong>i ed ambient<strong>al</strong>i dello sviluppo econo-<br />

mico”, per la roadmap annunciata d<strong>al</strong>l’OCSE <strong>al</strong> termine del Forum di Busan, per le recenti 2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

65


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

dichiarazioni di presidenti e primi ministri (ad esempio, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel)<br />

che sottolineano l’importanza di questi temi, si è assistito a un vero e proprio crescendo di<br />

riflessioni e discussioni che, forse, condurrà a quello che si definisce un «cambio di paradigma»<br />

nel modo di v<strong>al</strong>utare il successo di un paese.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, come spesso avviene quando nuove tendenze emergono nella società, il rischio<br />

di ban<strong>al</strong>izzazione del tema è molto elevato: basta guardare a come certa stampa ha<br />

accolto il Rapporto Stiglitz, considerandolo una operazione di marketing voluta d<strong>al</strong> Presidente<br />

Sarkozy per rilanciare il «modello francese» rispetto a quello americano, o come in<br />

It<strong>al</strong>ia, dopo la pubblicazione di t<strong>al</strong>e Rapporto, <strong>al</strong>cuni siano corsi ad assemblare una manciata<br />

di indicatori per sostenere che, <strong>al</strong>ternativamente, l’It<strong>al</strong>ia sia molto migliore o molto<br />

peggiore di come emerga d<strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi dei dati tradizion<strong>al</strong>i. Chi si comporta in questo modo<br />

dimostra di non cogliere le motivazioni profonde che guidano quanti si impegnano su questo<br />

tema e, forse, ottiene solo il risultato di far ritardare la presa di coscienza del problema<br />

tra i leader politici, r<strong>al</strong>lentando così un processo che, a parere di chi scrive, influenzerà significativamente<br />

i prossimi anni.<br />

2.2 DAL PIL ALL’INDICE DI SVILUPPO UMANO<br />

Come già ricordato, la Contabilità Nazion<strong>al</strong>e odierna ha le sue origini nel lavoro fatto da Kusnets<br />

per il Dipartimento del Commercio americano e poi ripreso da studiosi come Richard<br />

Stone in Inghilterra e molti <strong>al</strong>tri. Il loro lavoro fu poi ulteriormente sviluppato dapprima d<strong>al</strong>l’Organizzazione<br />

Europea per la Cooperazione Economica (OECE), la qu<strong>al</strong>e nel 1961 si trasformò<br />

nell’attu<strong>al</strong>e Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE),<br />

e poi d<strong>al</strong>le Nazioni Unite, cosicché nel 1953 fu pubblicato il primo volume organico sul Sistema<br />

dei Conti Nazion<strong>al</strong>i, il qu<strong>al</strong>e consisteva di una serie di sei conti e 12 tabelle standard.<br />

Le revisioni successive portarono, nel 1968, <strong>al</strong>la pubblicazione di un nuovo<br />

documento decisamente più articolato e complesso, ma è con la versione del 1993, poi rivista<br />

nel 2008, che il Sistema dei Conti Nazion<strong>al</strong>i assume quella completezza e coerenza<br />

che rendono t<strong>al</strong>e strumento il pilastro su cui si basano tutte le statistiche economiche<br />

odierne. Per<strong>al</strong>tro, con l’abbandono del sistema contabile basato sul concetto di «prodotto<br />

materi<strong>al</strong>e» e utilizzato dai paesi ex-comunisti per decenni, e con le estensioni re<strong>al</strong>izzate<br />

nell’ultimo quindicennio per ricomprendere le dimensioni ambient<strong>al</strong>i e soci<strong>al</strong>i, il Sistema<br />

della Contabilità Nazion<strong>al</strong>e oggi si pone come il più completo insieme di classificazioni,<br />

concetti e definizioni che gli statistici internazion<strong>al</strong>i siano mai stati capaci di sviluppare e<br />

mettere in pratica. I dati prodotti attraverso di esso condizionano profondamente le politiche<br />

economiche e le scelte delle imprese, con evidenti riflessi sulla vita quotidiana di tutta<br />

la popolazione mondi<strong>al</strong>e.<br />

Grazie <strong>al</strong>la disponibilità dei Conti Nazion<strong>al</strong>i siamo stati in grado di misurare i risultati straordinari<br />

raggiunti d<strong>al</strong>le diverse aree del mondo in termini di produzione, consumi e benes-<br />

66


sere materi<strong>al</strong>e a partire d<strong>al</strong> secondo dopoguerra. Siamo stati in grado di orientare scelte individu<strong>al</strong>i<br />

e collettive fin<strong>al</strong>izzate <strong>al</strong> miglioramento delle condizioni di vita, di v<strong>al</strong>utare l’efficacia<br />

relativa di politiche economiche tra paesi e tra aree geografiche dello stesso paese, di<br />

capire le crescenti interrelazioni tra paesi diversi, nonché tra settori differenti del sistema economico,<br />

di sviluppare nuove teorie dei comportamenti degli operatori economici, di effettuare<br />

previsioni relativamente accurate sul <strong>futuro</strong> sviluppo dell’economia mondi<strong>al</strong>e e<br />

sull’effetto di politiche economiche e soci<strong>al</strong>i. Insomma, i Conti Nazion<strong>al</strong>i hanno rappresentato<br />

e rappresentano tuttora uno strumento indispensabile per orientare le decisioni di milioni<br />

di agenti economici, per v<strong>al</strong>utare i risultati conseguiti e per prevedere il <strong>futuro</strong> delle<br />

nostre società.<br />

Ciononostante, i Conti Nazion<strong>al</strong>i hanno <strong>al</strong>cuni limiti che li rendono inadatti, da soli, a rappresentare<br />

compiutamente il progresso di una società. Le ragioni per cui t<strong>al</strong>i limiti potranno<br />

difficilmente essere superati sono fondament<strong>al</strong>mente due:<br />

i Conti Nazion<strong>al</strong>i adottano una metrica monetaria, essendo stati sviluppati per misurare<br />

il v<strong>al</strong>ore delle transazioni che passano per il mercato e <strong>al</strong>cune di quelle non-market (tipicamente<br />

le attività svolte d<strong>al</strong>le amministrazioni pubbliche). Poiché a molti degli elementi<br />

che determinano il progresso di un paese non è possibile assegnare in modo<br />

ragionevolmente accurato un prezzo, non è possibile semplicemente aggiungere o togliere<br />

d<strong>al</strong> PIL il v<strong>al</strong>ore prodotto o distrutto da t<strong>al</strong>i elementi;<br />

il PIL è una misura della produzione attu<strong>al</strong>e di una collettività; benché il Sistema dei<br />

Conti Nazion<strong>al</strong>i contenga molte <strong>al</strong>tre variabili utili per misurare il benessere materi<strong>al</strong>e<br />

delle famiglie, esso non può ricomprendere tutti gli aspetti che determinano il loro benessere<br />

complessivo, nonché misure soddisfacenti della sua distribuzione tra gli individui<br />

(equità) e tra le generazioni (sostenibilità).<br />

T<strong>al</strong>i limiti sono stati ben presenti a chi ha sviluppato il Sistema dei Conti Nazion<strong>al</strong>i, cosicché<br />

negli ultimi quaranta anni si sono moltiplicate le iniziative di ricerca per sviluppare indicatori<br />

<strong>al</strong>ternativi o complementari <strong>al</strong> PIL. Molti lavori sono stati dedicati negli ultimi anni<br />

a fornire una rassegna di queste proposte e quindi non v<strong>al</strong>e la pena proporre un’<strong>al</strong>tra lista<br />

di iniziative 1 . Nonostante queste attività, e <strong>al</strong> di là della maggiore o minore correttezza od<br />

origin<strong>al</strong>ità metodologica di queste iniziative, solo nel caso dell’Indice di Sviluppo Umano<br />

(ISU), re<strong>al</strong>izzato nel 1980 e annu<strong>al</strong>mente pubblicato d<strong>al</strong> programma per lo sviluppo delle<br />

Nazioni Unite (UNDP), possiamo parlare di un prodotto a cui i media, i politici e l’opinione<br />

pubblica pongono sistematicamente attenzione.<br />

L’ISU è un indice composito basato sul PIL pro capite, sulla speranza di vita (rappresentativa<br />

delle condizioni sanitarie della popolazione) e sul tasso di scolarizzazione primaria<br />

(rappresentativo del livello educativo). L’indice, sviluppato nel tentativo di rendere operativo<br />

l’approccio proposto da Amartya Sen orientato <strong>al</strong>le capability, è relativamente semplice e<br />

1. Si veda, ad esempio, P. Parra Saiani (2009).<br />

67<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

produce una classifica di tutti i paesi <strong>al</strong> mondo; la pubblicazione della qu<strong>al</strong>e richiama una<br />

grande attenzione mediatica (la sua semplicità rende il risultato apparentemente molto intuitivo)<br />

e spesso produce forti polemiche politiche in quei paesi che perdono posizioni nella<br />

graduatoria, mentre è usato per scopi propagandistici in quelli che invece guadagnano posizioni.<br />

Tuttavia, visto anche il fatto che l’indice viene pubblicato d<strong>al</strong>l’UNDP <strong>al</strong>l’interno<br />

dello Human Development Report, l’indice viene soprattutto utilizzato per v<strong>al</strong>utare la situazione<br />

dei paesi in via di sviluppo, mentre in quelli avanzati l’eco che esso suscita è molto<br />

più limitata.<br />

L’uso di indicatori compositi è uno dei modi (forse il più semplice) di andare «oltre il PIL».<br />

Lo stesso UNDP conduce regolarmente una rassegna di tutti gli indicatori compositi sviluppati<br />

nel mondo per v<strong>al</strong>utare lo stato di «s<strong>al</strong>ute» complessivo di un paese, o aspetti particolari<br />

(la competitività, la sostenibilità ambient<strong>al</strong>e, la libertà dei media, ecc.). T<strong>al</strong>e rassegna<br />

dimostra quanto fiorente sia l’industria degli indicatori compositi, <strong>al</strong> punto t<strong>al</strong>e che nel 2008<br />

ne esistevano oltre 160, 50 in più dell’anno precedente (e tra il 2008 e il 2009 <strong>al</strong>tri sono stati<br />

costruiti e pubblicati). La princip<strong>al</strong>e ragione di questo successo è data d<strong>al</strong>l’apparente semplicità<br />

con la qu<strong>al</strong>e t<strong>al</strong>i indici possono essere costruiti e d<strong>al</strong>l’interesse dei media per le «classifiche»<br />

che da essi si possono trarre. Se, infatti, costruire un sistema di conti nazion<strong>al</strong>i che<br />

incorpori aspetti economici, ambient<strong>al</strong>i e soci<strong>al</strong>i richiede un investimento massiccio di risorse<br />

e incontra grandi difficoltà concettu<strong>al</strong>i a causa della necessità di esprimere le grandezze<br />

nella metrica monetaria, assemblare un paniere di indicatori che coprono i diversi<br />

aspetti del benessere, standardizzarli, assegnare loro dei pesi e poi aggregarli richiede un impegno<br />

finanziario nettamente minore, <strong>al</strong>la portata di ogni centro di ricerca.<br />

In re<strong>al</strong>tà, volendo «fare le cose per bene» le difficoltà di costruzione di un indice composito<br />

non sono affatto ban<strong>al</strong>i 2 . Le scelte compiute a ogni passo del processo hanno, infatti, un<br />

ruolo decisivo nel determinare il risultato fin<strong>al</strong>e, cosicché, in molti casi, le graduatorie ottenute<br />

risultano scarsamente «robuste» <strong>al</strong> variare del metodo di standardizzazione scelto o<br />

della ponderazione. Per<strong>al</strong>tro, quando si aggregano indicatori che esprimono fenomeni correlati<br />

negativamente tra di loro (l’aumento della produzione industri<strong>al</strong>e può determinare un<br />

peggioramento delle condizioni ambient<strong>al</strong>i), è molto difficile interpretare l’andamento tempor<strong>al</strong>e<br />

dell’indice o i confronti spazi<strong>al</strong>i. Infine, guardando <strong>al</strong>la classifica, sorge spontanea la<br />

domanda sul perché un paese occupi una certa posizione e rispondere a t<strong>al</strong>e quesito richiede<br />

di andare <strong>al</strong> di là dell’indice composito, guardando <strong>al</strong>le singole dimensioni considerate.<br />

Agli indicatori compositi si riconosce quindi una forte utilità comunicativa,<br />

soprattutto vista l’esigenza di semplificazione che i media esprimono, ma una certa fragilità<br />

metodologica e una scarsa utilizzabilità a fini an<strong>al</strong>itici.<br />

Se, dunque, i Conti Nazion<strong>al</strong>i presentano limitazioni evidenti nella loro capacità di comprendere<br />

ciò che conta per il progresso di un paese e gli indicatori compositi soffrono di <strong>al</strong>tri<br />

2. Si veda Giovannini, Hoffman, Nardo, Saisana, S<strong>al</strong>telli e Tarantola (2005); pubblicazione che rappresenta l’unica trattazione sistematica<br />

esistente sull’argomento.<br />

68


problemi che li rendono inaffidabili o soggettivi, qu<strong>al</strong>e strada va intrapresa per soddisfare<br />

questa ansia di misurazione del progresso? Per rispondere a questa domanda, e quindi per<br />

illustrare una possibile «terza via», dobbiamo prima comprendere meglio il ruolo della statistica<br />

nei processi politici.<br />

2.3 STATISTICA, POLITICA E DEMOCRAZIA NELLA SOCIETÀ DELL’INFORMAZIONE<br />

Grazie <strong>al</strong>lo sviluppo dell’an<strong>al</strong>isi economica e dell’applicazione di modelli nati in ambito<br />

economico <strong>al</strong>le scienze soci<strong>al</strong>i, il ruolo fondament<strong>al</strong>e dell’informazione nelle scelte politiche<br />

degli individui è univers<strong>al</strong>mente riconosciuto, a partire d<strong>al</strong> contributo di Anthony Downs<br />

del 1957, il qu<strong>al</strong>e propose un modello per il comportamento razion<strong>al</strong>e degli elettori, guardando<br />

<strong>al</strong>le scelte di voto come un «mercato» dove i politici offrono le differenti piattaforme<br />

politiche, le qu<strong>al</strong>i vengono domandate dagli elettori, che devono decidere se e per chi votare.<br />

Per far questo, un generico elettore deve v<strong>al</strong>utare un differenzi<strong>al</strong>e tra le utilità derivanti<br />

d<strong>al</strong> votare per l’uno o per l’<strong>al</strong>tro partito: se questa utilità è superiore <strong>al</strong> costo di votare (che<br />

include quello di acquisire l’informazione rilevante sulla situazione del paese, sulle piattaforme<br />

politiche, ecc.), scontato per la differenza che l’i-esimo voto può produrre sul risultato<br />

delle elezioni, l’elettore andrà a votare.<br />

In questi modelli, l’elettore viene visto come un «ignorante razion<strong>al</strong>e», che minimizza l’acquisizione<br />

dell’informazione su ciò che lo circonda, visto il piccolo ruolo che il proprio voto<br />

produce per il risultato fin<strong>al</strong>e. Altri modelli dimostrano che, in situazioni come queste, i vari<br />

partiti convergeranno verso il centro, <strong>al</strong>la ricerca del voto dell’elettore mediano, e sostengono<br />

che l’assunzione di impegni chiari nei confronti degli elettori può fare la differenza nel<br />

comportamento degli elettori e che l’esistenza di indicatori statistici sui risultati ottenuti d<strong>al</strong>le<br />

varie decisioni politiche può obbligare i politici a re<strong>al</strong>izzare le promesse fatte in campagna<br />

elettor<strong>al</strong>e, mentre la loro assenza può avere un effetto dirompente sulla loro accountability.<br />

Infine, modelli più recenti, che interpretano il rapporto tra elettori ed eletti <strong>al</strong>la luce della<br />

«teoria dei giochi», concludono che l’asimmetria informativa tra questi due gruppi di persone<br />

spiega gran parte dei comportamenti dei politici, che possono sfruttare t<strong>al</strong>e asimmetria<br />

per giustificare i propri errori o l’assenza di azioni volte a risolvere i problemi che stanno<br />

a cuore agli elettori. Infatti, il meccanismo «carota-bastone», per cui un politico è rieletto<br />

se re<strong>al</strong>izza buoni risultati ed è deposto nel caso contrario, funziona solo se gli elettori hanno<br />

effettivamente la possibilità di osservare, attraverso indicatori appropriati, i risultati ottenuti.<br />

Se così non è, il problema diviene simile a quello degli azionisti di una grande impresa, i<br />

qu<strong>al</strong>i non sono in grado di monitorare ciò che fanno le gerarchie aziend<strong>al</strong>i che possiedono<br />

l’informazione e la capacità di leggerla, <strong>al</strong> contrario dei primi. In particolare, <strong>al</strong>cuni modelli<br />

mostrano come rendere disponibili agli elettori indicatori statistici sulle azioni intraprese dai<br />

politici e i risultati raggiunti aumenti il benessere della società nel suo complesso, riducendo<br />

gli incentivi monetari che devono essere dati ai politici per prendere le decisioni «giuste»<br />

(cioè quelle capaci di risolvere i problemi che stanno a cuore ai cittadini).<br />

69<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Questa breve rassegna sottolinea il ruolo che gli indicatori statistici possono svolgere in un<br />

sistema democratico. In particolare, sono gli indicatori di risultato fin<strong>al</strong>e (outcome) che possono<br />

fare la differenza, non necessariamente quelli relativi <strong>al</strong>le risorse impiegate (input),<br />

anche se il rapporto tra i due (cioè una misura di efficienza degli interventi) può indicare una<br />

scorretta <strong>al</strong>locazione delle risorse e quindi l’incapacità dei politici di assumere le decisioni<br />

meno costose per la collettività. Ovviamente, questi modelli possono apparire molto astratti,<br />

ma mettono a fuoco un serio problema in cui si dibattono tutte le democrazie odierne,<br />

anche perché le nuove tecnologie dell’informazione stanno trasformando profondamente il<br />

modo in cui la società funziona e i cittadini acquisiscono e si scambiano l’informazione.<br />

Alcuni anni fa, Eric Schmidt, CEO di Google, ipotizzò che un giorno, grazie a Internet, tutti<br />

gli elettori saranno in grado di verificare, prima di esercitare il proprio diritto di voto, come<br />

i singoli politici hanno votato nel corso della legislatura passata e qu<strong>al</strong>i risultati t<strong>al</strong>i voti<br />

hanno prodotto, utilizzando appropriati indicatori statistici. Pura fantasia? Forse molto meno<br />

di quanto si immagini. Prendiamo, ad esempio, il caso di Bogotà, dove tutti i candidati <strong>al</strong>la<br />

carica di sindaco sono obbligati, prima delle elezioni, a sottoscrivere l’impegno a confrontarsi,<br />

una volta eletti, con un’assemblea cittadina, <strong>al</strong>lo scopo di definire una lista di indicatori<br />

di risultato e di comunicare regolarmente <strong>al</strong>la cittadinanza t<strong>al</strong>i indicatori, pena l’avvio<br />

di una procedura di impeachment. Questo modello, che configura una form<strong>al</strong>izzazione del<br />

patto elettori-eletti implicito nei modelli sopra ricordati, si sta estendendo ad <strong>al</strong>tre città del<br />

Sud America e forse rappresenta un esempio di come funzionerà la governance democratica<br />

in <strong>futuro</strong>.<br />

Prendiamo poi il caso il Jacksonville, in Florida, dove un organismo con il compito di monitorare<br />

il progresso della contea, è riuscito a far sedere <strong>al</strong>lo stesso tavolo i rappresentanti<br />

del Ku Klux Klan e della comunità nera per elaborare, a partire da indicatori statistici condivisi<br />

sulla discriminazione razzi<strong>al</strong>e, una lista di raccomandazioni sottoscritte da ambedue<br />

i gruppi. Il fatto straordinario non è che una t<strong>al</strong>e operazione sia riuscita, ma che, re<strong>al</strong>izzata<br />

otto anni fa, sia stata ripetuta di recente.<br />

Il «movimento glob<strong>al</strong>e» a cui si è accennato in precedenza è fatto di centinaia di iniziative<br />

di questo tipo, sviluppate sia a livello nazion<strong>al</strong>e, sia, e soprattutto, a livello sub-nazion<strong>al</strong>e,<br />

in paesi avanzati (Stati Uniti, Canada, Francia, Regno Unito, ecc.) e in via di sviluppo. Molte<br />

di queste iniziative sono fin<strong>al</strong>izzate: a) a definire un’idea condivisa di benessere della comunità<br />

di riferimento e del suo progresso nel tempo; b) a raccogliere indicatori statistici capaci<br />

di misurare le dimensioni del benessere sulle qu<strong>al</strong>i si è concordato; c) a informare la<br />

comunità dell’andamento degli indicatori, per favorire lo sviluppo di un dibattito democratico<br />

basato su dati condivisi e affidabili 3 .<br />

3. Per tornare <strong>al</strong>la «predizione» di Eric Schmidt, si può citare il sito http://parlamento.openpolis.it/, dove è disponibile un software grazie<br />

<strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e è possibile monitorare il comportamento dei parlamentari it<strong>al</strong>iani in termini di dichiarazioni e voti espressi. Forse il prossimo<br />

passo sarà quello di associare a ciascuna votazione indicatori statistici per monitorare il suo effetto.<br />

70


2.4 UNO SGUARDO AL FUTURO<br />

Dopo quanto detto, l’affermazione precedentemente fatta sullo stretto legame tra statistica,<br />

o meglio tra indicatori statistici, e democrazia dovrebbe suonare molto più comprensibile<br />

e condivisibile. Ma c’è un’<strong>al</strong>tra prospettiva che dobbiamo prendere in considerazione per<br />

comprendere appieno perché la discussione di questi temi non dovrebbe risultare «eccentrica»<br />

rispetto agli <strong>al</strong>tri saggi raccolti in un volume volto a celebrare cento anni di storia di<br />

un’istituzione come la <strong>Confindustria</strong>. Per introdurre t<strong>al</strong>e prospettiva ricorrerò <strong>al</strong>le considerazioni<br />

svolte recentemente da Geoff Mulgan, presidente della Young Foundation ed exconsigliere<br />

di Tony Blair durante gli anni di governo. In una conferenza su questi temi svoltasi<br />

<strong>al</strong>la Roy<strong>al</strong> Statistic<strong>al</strong> Society, Mulgan ha sottolineato di recente come, nel Diciannovesimo<br />

secolo, essere un grande paese significava avere un grande territorio, anche a causa delle<br />

caratteristiche delle colture agricole dell’epoca, ed essere ricchi si abbinava spesso a possedere<br />

ampie tenute e p<strong>al</strong>azzi di v<strong>al</strong>ore. Non a caso, il sistema fisc<strong>al</strong>e era in gran parte fondato<br />

sulla tassazione del patrimonio. Nel Ventesimo secolo, invece, essere un grande paese<br />

ha significato essere capace di produrre tanto, cioè avere un <strong>al</strong>to PIL e quindi <strong>al</strong>ti consumi,<br />

e il sistema fisc<strong>al</strong>e si è concentrato sulla tassazione del reddito e dei consumi. “Qu<strong>al</strong>e sarà<br />

dunque – ha concluso Mulgan - il criterio per cui un paese, nel Ventunesimo secolo, sarà<br />

definito «grande» e come sarà strutturato il sistema fisc<strong>al</strong>e, così da tassare queste nuove<br />

forme di potere e ricchezza?“<br />

Credo che la domanda di Mulgan sia estremamente utile per comprendere che scegliere la<br />

metrica da utilizzare per misurare il progresso della società non è un’operazione indipendente<br />

da come la società stessa si organizza e dai v<strong>al</strong>ori che essa attribuisce agli aspetti che<br />

la caratterizzano. In re<strong>al</strong>tà, già oggi vediamo come la prospettiva proposta da Mulgan sia<br />

re<strong>al</strong>e. La glob<strong>al</strong>izzazione della produzione fa sì che i profitti delle multinazion<strong>al</strong>i vengano<br />

trasferiti da un paese <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro in funzione della convenienza relativa dei regimi fisc<strong>al</strong>i. Grazie<br />

<strong>al</strong>la liber<strong>al</strong>izzazione dei movimenti di capit<strong>al</strong>e e la costruzione di mercati finanziari glob<strong>al</strong>i,<br />

la differenza tra i redditi prodotti in un paese e quelli prodotti in tutto il mondo dai<br />

residenti in quel paese cresce sempre di più. Le rimesse degli emigrati hanno assunto livelli<br />

mai raggiunti in precedenza e per t<strong>al</strong>uni paesi costituiscono una fonte significativa di sostentamento<br />

<strong>al</strong> reddito dei residenti.<br />

Tutti questi esempi mostrano come la corrispondenza tra territorio e redditi si stia riducendo<br />

sempre più, specie <strong>al</strong>l’interno di aree fortemente integrate come l’Unione Europea, con effetti<br />

evidenti anche sulla capacità delle statistiche di fornire dati affidabili riferiti a entità nazion<strong>al</strong>i.<br />

Se, dunque, la produzione del reddito diviene meno legata <strong>al</strong> luogo in cui si è<br />

form<strong>al</strong>mente residenti, determinando differenze crescenti tra prodotto interno lordo e reddito<br />

nazion<strong>al</strong>e lordo (RNL), e se l’economia diviene sempre più terziaria e quindi la produzione<br />

di beni immateri<strong>al</strong>i più rilevante, quanto potremo ancora cercare di estendere il<br />

Sistema dei Conti Nazion<strong>al</strong>i, sviluppato avendo come base di partenza una economia nazion<strong>al</strong>e<br />

e in gran parte orientata a produrre beni «tangibili», senza snaturarlo completamente?<br />

Non a caso, già oggi molti statistici sono contrari <strong>al</strong>l’introduzione nel Sistema dei<br />

71<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Conti Nazion<strong>al</strong>i di «stime», provenienti da modelli e non da rilevazioni statistiche dirette,<br />

di fenomeni qu<strong>al</strong>i gli investimenti in ricerca e sviluppo e il lavoro domestico.<br />

In una conferenza tenuta a Londra tempo fa, Lord Richard Layard, uno dei massimi esperti<br />

mondi<strong>al</strong>i di economia della felicità, invitò i partecipanti a chiudere gli occhi e a pensare <strong>al</strong>le<br />

tre cose che avrebbero augurato ai loro figli, nipoti o amici di conseguire nella loro vita.<br />

Dopo circa un minuto disse: “Se avete pensato a cose come la s<strong>al</strong>ute, un lavoro soddisfacente,<br />

tanti amici ed un partner che li faccia felici, <strong>al</strong>lora mi dovete spiegare perché invece<br />

di occuparci di queste cose giudichiamo il successo della nostra società solo in base <strong>al</strong>la<br />

crescita del PIL”. In effetti, gli studi sulla felicità mostrano abbastanza chiaramente come a<br />

livelli bassi di sviluppo economico la correlazione tra PIL e soddisfazione di vita sia molto<br />

elevata, per poi diminuire drasticamente e annullarsi se si guarda ai paesi OCSE, cioè a<br />

quelli più sviluppati.<br />

La cosiddetta «Piramide di Maslow», sviluppata nell’ambito delle teorie del marketing, rappresenta<br />

questa idea, ponendo <strong>al</strong>la base della piramide il soddisfacimento dei bisogni primari<br />

per poi s<strong>al</strong>ire verso aspetti qu<strong>al</strong>i i rapporti affettivi, l’autore<strong>al</strong>izzazione e la<br />

trascendenza, immaginando che un generico essere umano «sc<strong>al</strong>i» la piramide in una sequenza<br />

vertic<strong>al</strong>e. Fermo restando che t<strong>al</strong>e visione del comportamento umano è stata contestata<br />

da molti studiosi (i qu<strong>al</strong>i, ad esempio, sostengono che il processo di elevazione verso<br />

la cima della piramide non avviene in modo necessariamente sequenzi<strong>al</strong>e), essa sintetizza<br />

molti aspetti della cultura occident<strong>al</strong>e e del modello di sviluppo che la caratterizza, con gli<br />

effetti che tutti abbiamo sotto gli occhi, <strong>al</strong> punto che la crisi economica e soci<strong>al</strong>e, e soprattutto<br />

il tema della sostenibilità ambient<strong>al</strong>e, stanno spingendo verso un ripensamento di t<strong>al</strong>e<br />

modello e una revisione degli stili di consumo e di produzione in senso più eco-compatibile<br />

semplicemente per assicurare un <strong>futuro</strong> <strong>al</strong>la specie umana.<br />

Un <strong>al</strong>tro modo di guardare a queste tematiche è quello dei modelli a «crescita endogena negativa».<br />

Nel tentativo di spiegare il «paradosso di Easterlin» (cioè il fatto che negli ultimi cinquanta<br />

anni il reddito pro capite degli americani sia cresciuto molto, mentre la loro felicità<br />

è rimasta sostanzi<strong>al</strong>mente la stessa), questi modelli rifiutano l’idea che «i soldi non comprano<br />

la felicità», ma si concentrano sul fatto che se accrescere il reddito comporta la perdita di<br />

<strong>al</strong>tri aspetti importanti per la felicità degli individui (per esempio i beni relazion<strong>al</strong>i), i due elementi<br />

non solo si compensano, ma t<strong>al</strong>e meccanismo genera esso stesso crescita economica,<br />

senza però re<strong>al</strong>izzare un vero cambiamento nel benessere delle persone. Prendiamo, ad<br />

esempio, il caso di una persona che vive in una zona periferica degradata e inquinata di una<br />

grande città, obbligata a lunghi spostamenti quotidiani casa-lavoro che limitano la sua capacità<br />

di interazione soci<strong>al</strong>e e il tempo libero a disposizione per svolgere <strong>al</strong>tre attività. In una<br />

situazione così, una scelta razion<strong>al</strong>e è quella di cercare di aumentare il proprio reddito facendo<br />

straordinari, per poter risparmiare sufficientemente per… andare in vacanza e sfuggire<br />

d<strong>al</strong>la quotidianità. Peccato che, lavorando più ore, la possibilità di interazione soci<strong>al</strong>e,<br />

<strong>al</strong> di là del momento della vacanza, diminuisce ulteriormente. An<strong>al</strong>ogamente, per una persona<br />

che vive in una zona nella qu<strong>al</strong>e uscire la sera è pericoloso, la scelta razion<strong>al</strong>e è quella<br />

72


di guadagnare di più per comprare un sistema home theatre e vedere i film a casa propria<br />

invece che andare <strong>al</strong> cinema, accettando la situazione di isolamento e di assenza di interazione<br />

soci<strong>al</strong>e. Poiché è evidente che la qu<strong>al</strong>ità della vita è fatta di molte cose, non solo della<br />

disponibilità di reddito, in ambedue i casi la scelta apparentemente razion<strong>al</strong>e è quella di sostituire<br />

beni relazion<strong>al</strong>i con beni individu<strong>al</strong>i, per il cui acquisto è necessario mettere in pratica<br />

comportamenti che aggravano il problema invece che risolverlo. Inoltre, questi<br />

comportamenti tendono a stimolare la crescita del PIL, ma t<strong>al</strong>e aumento è compensato d<strong>al</strong>la<br />

perdita di <strong>al</strong>tri aspetti <strong>al</strong>trettanto importanti per la felicità degli individui, il che spiega il<br />

«paradosso di Easterlin».<br />

In conclusione, il problema di come re<strong>al</strong>izzare la «prosperità senza crescita» (per parafrasare<br />

il recente rapporto della Commissione britannica sullo sviluppo sostenibile e il conseguente<br />

libro di Tim Jackson) o addirittura attraverso una «decrescita», come sostenuto da<br />

Serge Latouche, non può essere accantonato e dovrà trovare una risposta, speriamo positiva<br />

e non puramente «neo-m<strong>al</strong>thusiana» (come quella sostenuta negli anni Settanta d<strong>al</strong> Club di<br />

Roma). La rivoluzione tecnologica consente oggi di sperare in cambiamenti radic<strong>al</strong>i nei processi<br />

produttivi che riducano drasticamente l’utilizzazione di energia, ma <strong>al</strong>lo stesso tempo<br />

la crescita economica dei paesi emergenti pone una questione di equità glob<strong>al</strong>e che può esasperare<br />

sia i problemi di carattere ambient<strong>al</strong>e sia quelli di natura politica. Alla luce di t<strong>al</strong>i<br />

tendenze, non è azzardato ritenere che, nell’arco di questo secolo, assisteremo a un cambiamento<br />

significativo nel modo in cui il successo di un paese sarà giudicato e nel sistema<br />

fisc<strong>al</strong>e su cui si baserà il finanziamento delle funzioni pubbliche.<br />

Certo, tassare la felicità appare come un non senso, ma orientare il sistema di tassazione e<br />

spesa pubblica in funzione del benessere complessivo della popolazione per assicurarne la<br />

sostenibilità non sembra un’idea così irragionevole 4 , soprattutto in uno scenario nel qu<strong>al</strong>e,<br />

a causa del risc<strong>al</strong>damento glob<strong>al</strong>e e delle tensioni soci<strong>al</strong>i che esso porterà nei paesi maggiormente<br />

colpiti da esso, i luoghi in cui poter vivere bene e <strong>al</strong> sicuro tenderanno a essere<br />

meno numerosi.<br />

2.5 LA DICHIARAZIONE DI ISTANBUL, IL PROGETTO GLOBALE DELL’OCSE<br />

EILRAPPORTO STIGLITZ<br />

Se quello appena descritto può rappresentare uno scenario possibile per il <strong>futuro</strong>, qu<strong>al</strong>i sono<br />

le opportunità da cogliere nel tempo presente per migliorare gli indicatori esistenti e monitorare<br />

meglio il progresso delle nostre società? Qu<strong>al</strong>i, tra le tante <strong>al</strong>ternative offerte d<strong>al</strong>la ricerca,<br />

si potrebbero utilizzare per conseguire questo obiettivo? E qu<strong>al</strong>i sono gli ostacoli<br />

princip<strong>al</strong>i che frenano il cambio di paradigma auspicato da molti?<br />

4. L’introduzione della carbon tax, lo sviluppo del sistema del mercato delle emissioni inquinanti, la discussione sulla Tobin tax sono tutti<br />

esempi di come il cambiamento sia già in atto.<br />

73<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Rispondere a queste domande è oggi possibile grazie <strong>al</strong> lavoro svolto d<strong>al</strong> Progetto Glob<strong>al</strong>e<br />

dell’OCSE sulla misurazione del progresso delle società e, più recentemente, d<strong>al</strong>la Commissione<br />

Stiglitz. Prima di entrare nel dettaglio delle raccomandazioni fornite da queste iniziative,<br />

conviene però spendere qu<strong>al</strong>che parola sui termini a cui esse si riferiscono, e in<br />

particolare sul fatto che l’OCSE, Barak Obama, la Comunicazione della Commissione Europea,<br />

la Commissione Stiglitz abbiano scelto di parlare di «progresso» della società, e non<br />

«sviluppo», o «sviluppo sostenibile», o «prosperità» come invece fanno <strong>al</strong>tri.<br />

La parola «progresso» nasce in Aristotele e poi soprattutto nell’Illuminismo, ma riferimenti<br />

a essa si trovano anche in <strong>al</strong>tre culture. Purtroppo, dopo che il nazifascismo e il comunismo<br />

ne avevano fatto il proprio «obiettivo fin<strong>al</strong>e», il termine era stato bandito d<strong>al</strong> linguaggio filosofico,<br />

<strong>al</strong> punto t<strong>al</strong>e che per decenni si è preferito parlare di «progressi», <strong>al</strong> plur<strong>al</strong>e (il progresso<br />

tecnologico, il progresso economico, ecc.), abbandonando l’idea che si potesse<br />

tentare di ricondurre tutti questi aspetti a un elemento comune e rispondere <strong>al</strong>la domanda:<br />

ma oggi, la nostra società sta meglio o peggio di ieri 5 ?<br />

Poiché le parole contano, quando nel 2006 l’OCSE riunì un gruppo di 20 persone <strong>al</strong> Centro<br />

della Rockefeller Foundation a Bellagio per preparare il Forum Mondi<strong>al</strong>e di Istanbul e disegnare<br />

il Progetto Glob<strong>al</strong>e, parole come «sviluppo» e «sviluppo sostenibile» furono scartate<br />

in quanto avevano ormai assunto una connotazione politica piuttosto forte: mentre con la<br />

prima, infatti, si fa norm<strong>al</strong>mente riferimento <strong>al</strong> paradigma basato sul cosiddetto Washington<br />

Consensus, o <strong>al</strong>le politiche orientate ai paesi in via di sviluppo (chiamati appunto, developing<br />

country), la seconda è spesso (erroneamente) interpretata come una problematica puramente<br />

ambient<strong>al</strong>e, fortemente sottolineata da <strong>al</strong>cuni paesi e osteggiata da <strong>al</strong>tri (a quel<br />

tempo, anche d<strong>al</strong> governo degli Stati Uniti). Di conseguenza fu scelto il termine «progresso<br />

delle società» (<strong>al</strong> plur<strong>al</strong>e) riconoscendo così: a) che non c’è un solo modo di vedere il progresso,<br />

ma ce ne possono essere diversi; b) che esso esprime un concetto relativo e dinamico,<br />

il qu<strong>al</strong>e consente anche a un paese povero economicamente di v<strong>al</strong>utare i suoi<br />

miglioramenti relativi, anche se in termini assoluti, la posizione relativa resta fortemente<br />

sfavorita rispetto a quella delle nazioni ricche.<br />

La scelta dell’OCSE appare in linea con le più recenti riflessioni di <strong>al</strong>cuni storici e filosofi.<br />

Ad esempio, in un recente saggio, Massimo L. S<strong>al</strong>vadori distingue tra «progresso necessario»,<br />

qu<strong>al</strong>e quello della dottrina marxista, da rifiutare come dogma imposto d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to, e «progresso<br />

possibile», frutto di un dibattito democratico che cerca di disegnare le caratteristiche<br />

della società che si intende costruire 6 .<br />

“L’idea del progresso necessario nelle sue molteplici incarnazioni privava gli uomini della<br />

responsabilità delle stesse scelte attinenti <strong>al</strong>la direzione da dare <strong>al</strong>la loro vita. Essa è definitivamente<br />

caduta, poiché la storia non è mossa da <strong>al</strong>cun motore oggettivo e imperson<strong>al</strong>e...<br />

5. Nel secondo dopoguerra il concetto di progresso (singolare) è stato rifiutato <strong>al</strong> punto t<strong>al</strong>e che, quando negli anni Sessanta il Papa pubblicò<br />

l’enciclica Populorum Progressio, il secondo termine fu tradotto in inglese usando development, cioè sviluppo, e non progress.<br />

6. www.coe.int/t/dg3/soci<strong>al</strong>policies/.../conferencedebates<strong>al</strong>vadori_fr.doc. Si veda anche S<strong>al</strong>vadori (2006).<br />

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... Il progresso in cui possiamo sperare se intendiamo perseguire un vivere e un ordine civile<br />

è unicamente un progresso difficile, non garantito se non da ciò che siamo capaci di<br />

mettere nella sua bilancia, è un progresso i cui lumi – e qui dobbiamo pagare un immenso<br />

tributo ai Padri illuministi - possono essere accesi o spenti da noi stessi... Sta <strong>al</strong>la nostra ragione<br />

e <strong>al</strong> nostro senso di responsabilità evitare di essere trascinati in una notte da noi stessi<br />

creata che potrebbe essere senza ritorno”.<br />

Il termine «progresso» è utilizzato nella Dichiarazione di Istanbul, firmata nel 2007 d<strong>al</strong>l’OCSE,<br />

d<strong>al</strong>le Nazioni Unite, d<strong>al</strong>la Banca Mondi<strong>al</strong>e, d<strong>al</strong>la Commissione Europea, d<strong>al</strong>l’Organizzazione<br />

della Conferenza Islamica e molti <strong>al</strong>tri, <strong>al</strong> termine del Forum Mondi<strong>al</strong>e OCSE<br />

di Istanbul su «Misurare e favorire il progresso delle società» (si veda il Riquadro Dichiarazione<br />

di Istanbul). Proprio d<strong>al</strong> 2007, il Progetto Glob<strong>al</strong>e dell’OCSE ha svolto un ruolo chiave<br />

di promotore delle idee enunciate nella Dichiarazione, stimolando ricerche metodologiche<br />

sull’argomento, creando un network tra le tante iniziative esistenti, organizzando dibattiti e<br />

conferenze in tutto il mondo, svolgendo attività di formazione verso coloro i qu<strong>al</strong>i erano interessati<br />

ad avviare un processo di misurazione del progresso. In particolare, il Progetto ha<br />

sostenuto la necessità di rib<strong>al</strong>tare il processo norm<strong>al</strong>mente seguito d<strong>al</strong>le organizzazioni internazion<strong>al</strong>i<br />

in questo campo, non imponendo a tutti i paesi lo stesso set di indicatori deciso<br />

centr<strong>al</strong>mente, ma favorendo una discussione democratica a livello di ciascun paese su<br />

cosa voglia dire «progresso», nel rispetto della cultura, della storia e delle istituzioni loc<strong>al</strong>i,<br />

per poi selezionare gli indicatori più rilevanti per quella re<strong>al</strong>tà, i qu<strong>al</strong>i in t<strong>al</strong> modo possono<br />

acquisire quella legittimità che manca <strong>al</strong>le liste di indicatori definite in sede internazion<strong>al</strong>e,<br />

e diffonderli ai cittadini come contributo <strong>al</strong>lo sviluppo di un dibattito democratico sullo<br />

stato del paese.<br />

Questo approccio è stato sposato in pieno d<strong>al</strong>la Commissione Stiglitz, nata grazie ai colloqui<br />

avvenuti nell’autunno del 2007, poco dopo il Forum di Istanbul, tra l’OCSE e il Ministero<br />

delle finanze francese. Per<strong>al</strong>tro, è interessante notare che: a) il Presidente Sarkozy<br />

annunciò la costituzione della Commissione nella sua intervista di inizio anno, cioè ben<br />

prima dell’insorgenza della crisi finanziaria ed economica; b) la motivò con la necessità di<br />

una «nuova civilizzazione», per costruire la qu<strong>al</strong>e bisogna non solo identificare i diritti di<br />

cui godono le persone in una società moderna (tema sul qu<strong>al</strong>e egli costituì un’<strong>al</strong>tra commissione<br />

di studio), ma anche definire politiche capaci di rendere effettivi quei diritti, per il<br />

disegno e la v<strong>al</strong>utazione delle qu<strong>al</strong>i si deve disporre di indicatori adatti, in cui le persone<br />

possano «ritrovare» elementi rilevanti per la loro vita concreta, pena il distacco tra cittadini<br />

e statistica. Fenomeno che, purtroppo, si rileva in molti paesi europei, compresa la Francia 7 .<br />

7. L’indagine condotta da Eurobarometro, per conto dell’OCSE, nell’aprile del 2007, in preparazione del Forum di Istanbul, segn<strong>al</strong>ava come<br />

in Francia e Regno Unito soltanto il 30 per cento dei cittadini aveva fiducia nelle statistiche. Nella rilevazione condotta a settembre<br />

2009 sugli stessi temi sembra che la situazione sia ancora peggiore, con un 46 per cento degli europei che non crede <strong>al</strong>le statistiche e<br />

Francia e Regno Unito ancora in fondo <strong>al</strong>la classifica della fiducia nella statistica, preceduti di poco da Germania, Spagna e It<strong>al</strong>ia.<br />

75<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Dichiarazione di Istanbul<br />

Noi, i rappresentanti della Commissione Europea, dell’Organizzazione per la Cooperazione<br />

e lo Sviluppo Economico, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica,<br />

delle Nazioni Unite, del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite e della Banca<br />

Mondi<strong>al</strong>e.<br />

Riconosciamo che le nostre società sono divenute più complesse e, <strong>al</strong>lo stesso tempo,<br />

più interdipendenti che mai. Ciononostante, esse mantengono differenze di carattere<br />

storico, cultur<strong>al</strong>e, economico e soci<strong>al</strong>e.<br />

Noi siamo lieti che iniziative volte a misurare il progresso delle società attraverso indicatori<br />

statistici siano state avviate in numerosi paesi e in tutti i continenti. Benché t<strong>al</strong>i<br />

iniziative siano basate su differenti metodologie, diversi paradigmi cultur<strong>al</strong>i e teorici,<br />

ed eterogenei gradi di coinvolgimento degli attori della società, esse rivelano un consenso<br />

crescente sulla necessità di perseguire la misurazione del progresso delle società<br />

in ogni paese, andando <strong>al</strong> di là delle misure convenzion<strong>al</strong>i di carattere economico,<br />

come il prodotto interno lordo pro capite. Indubbiamente, il sistema di indicatori delle<br />

Nazioni Unite per misurare il progresso verso gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio<br />

è un passo in questa direzione.<br />

Un approccio <strong>al</strong>le decisioni basato sull’evidenza dei fatti deve essere promosso a tutti<br />

i livelli, per aumentare il benessere delle società. E nella «società dell’informazione»<br />

il benessere dipende anche d<strong>al</strong>la conduzione di politiche trasparenti e v<strong>al</strong>utabili sulla<br />

base dei risultati raggiunti. La disponibilità di indicatori statistici sulle condizioni economiche,<br />

soci<strong>al</strong>i e ambient<strong>al</strong>i e la loro diffusione ai cittadini può contribuire a promuovere<br />

la buona gestione della politica e a migliorare il funzionamento della<br />

democrazia. Attraverso il dibattito democratico e la formazione del consenso, ciò può<br />

infatti migliorare la capacità dei cittadini di influenzare la fissazione degli obiettivi<br />

gener<strong>al</strong>i della società in cui essi vivono e la v<strong>al</strong>utazione dei risultati delle politiche<br />

pubbliche.<br />

Noi affermiamo il nostro impegno a misurare e promuovere il progresso delle società<br />

in tutte le sue dimensioni nonché a sostenere le iniziative nazion<strong>al</strong>i fin<strong>al</strong>izzate a t<strong>al</strong>e<br />

scopo. Noi invitiamo gli uffici di statistica, le organizzazioni private e pubbliche, gli<br />

esperti accademici a lavorare insieme con i rappresentanti della società civile per produrre<br />

informazioni di <strong>al</strong>ta qu<strong>al</strong>ità e utilizzabili da tutti i cittadini per costruire una v<strong>al</strong>utazione<br />

condivisa del benessere soci<strong>al</strong>e e della sua evoluzione nel tempo.<br />

Le statistiche uffici<strong>al</strong>i sono un bene pubblico di importanza fondament<strong>al</strong>e per favorire<br />

il progresso delle società. Lo sviluppo di indicatori di progresso costituisce un’opportunità<br />

unica per rinforzare il ruolo delle autorità statistiche nazion<strong>al</strong>i nella produzione<br />

di dati rilevanti, affidabili, tempestivi e comparabili, nonché nel c<strong>al</strong>colo degli indica-<br />

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tori richiesti per fin<strong>al</strong>ità nazion<strong>al</strong>i e internazion<strong>al</strong>i. Noi invitiamo tutti i governi a investire<br />

risorse per sviluppare dati e indicatori affidabili, prodotti secondo i «Principi<br />

Fondament<strong>al</strong>i della Statistica Uffici<strong>al</strong>e» adottati d<strong>al</strong>le Nazioni Unite nel 1994.<br />

Per portare avanti queste attività abbiamo bisogno di:<br />

incoraggiare ogni società a riflettere su cosa costituisca il «progresso» nel Ventunesimo<br />

secolo;<br />

condividere i migliori approcci <strong>al</strong>la misurazione del progresso delle società e aumentare<br />

la consapevolezza della necessità di effettuare t<strong>al</strong>e misurazione usando<br />

metodologie affidabili e ben fondate;<br />

stimolare il dibattito internazion<strong>al</strong>e sui temi chiave del progresso dell’intero pianeta<br />

usando dati e indicatori statistici affidabili;<br />

aiutare la società a sviluppare una più ampia e condivisa comprensione dell’evoluzione<br />

delle nostre società, identificando <strong>al</strong>lo stesso tempo le aree in cui la conoscenza<br />

è limitata e quelle soggette a modificazioni struttur<strong>al</strong>i;<br />

promuovere l’importanza di adeguati investimenti nei sistemi statistici, speci<strong>al</strong>mente<br />

nei paesi in via di sviluppo, per migliorare la disponibilità di dati e indicatori<br />

necessari a guidare i programmi di sviluppo e a produrre rapporti volti a v<strong>al</strong>utare<br />

il progresso verso gli obiettivi condivisi a livello internazion<strong>al</strong>e, come gli Obiettivi<br />

di Sviluppo del Millennio.<br />

Molto lavoro resta da fare e l’impegno di tutte le componenti della società è essenzi<strong>al</strong>e<br />

se vogliamo soddisfare la domanda che emerge d<strong>al</strong>le nostre società. Noi riconosciamo<br />

che gli impegni <strong>al</strong> riguardo devono essere commisurati <strong>al</strong>le capacità esistenti nei singoli<br />

paesi e <strong>al</strong> loro diverso grado di sviluppo. Noi invitiamo tutti i soggetti pubblici e<br />

privati a contribuire a questo sforzo ambizioso per promuovere il progresso del mondo<br />

e consideriamo benvenute le iniziative in questa direzione sviluppate a livello loc<strong>al</strong>e,<br />

nazion<strong>al</strong>e e internazion<strong>al</strong>e.<br />

La Commissione, composta da 25 persone, compresi cinque Premi Nobel per l’economia,<br />

e articolata in tre gruppi di lavoro (uno sull’estensione del concetto di PIL, presieduta da chi<br />

scrive, uno sulla misura della qu<strong>al</strong>ità della vita, presieduta da Alan Kruger, l’attu<strong>al</strong>e chief economist<br />

del Tesoro americano, uno sulla misura della sostenibilità, presieduto da Geoffrey<br />

He<strong>al</strong>, della Columbia University), ha concluso i suoi lavori pubblicando un voluminoso rapporto,<br />

<strong>al</strong> cui interno si trovano numerose raccomandazioni, che potremmo sintetizzare in<br />

sette messaggi chiave 8 :<br />

invece che concentrarsi su un concetto di produzione, qu<strong>al</strong>e è il PIL, si deve privilegiare<br />

la misura del benessere. Il PIL, infatti, è una misura della produzione, ma dice poco<br />

quando ci si mette «d<strong>al</strong>la parte delle persone» e del loro benessere. Se, ad esempio, <strong>al</strong><br />

8. Si veda www.stiglitz-sen-fitoussi.fr Stiglitz, Sen, e Fitoussi (2009).<br />

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2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

posto del PIL si usasse il reddito disponibile delle famiglie aggiustato per la quantità di<br />

servizi pubblici e privati da essi ricevuti (una grandezza regolarmente c<strong>al</strong>colata nell’ambito<br />

della contabilità nazion<strong>al</strong>e), i risultati sarebbero <strong>al</strong>quanto diversi. Ad esempio, in It<strong>al</strong>ia,<br />

tra il 1999 e il 2008 la crescita di questa variabile (9,1 punti percentu<strong>al</strong>i in tutto)<br />

appare nettamente più bassa di quella, già molto contenuta, del PIL re<strong>al</strong>e (11,1 punti percentu<strong>al</strong>i)<br />

e an<strong>al</strong>izzando la differenza tra le due grandezze si scoprono dinamiche interessanti,<br />

norm<strong>al</strong>mente non evidenziate dagli indicatori standard 9 ;<br />

non esiste una misura singola che possa dar conto di tutte le varie dimensioni del benessere.<br />

Per fare ciò servirebbe una metrica comune, che però non esiste, e gli indicatori<br />

compositi non sono una risposta soddisfacente per le ragioni ricordate in precedenza,<br />

ancorché essi possano essere usati per aggregare indicatori su tematiche omogenee. An<strong>al</strong>ogamente,<br />

la Commissione scarta la possibilità di usare, come indice aggregato, una misura<br />

della felicità per sostituire il PIL;<br />

se <strong>al</strong>lora non si può avere un unico indicatore, bisogna sviluppare uno schema concettu<strong>al</strong>e<br />

(o «tassonomia») per organizzare le informazioni disponibili. La Commissione indica<br />

otto dimensioni fondament<strong>al</strong>i che risultano molto rilevanti per il benessere degli<br />

individui, come evidenziato sia d<strong>al</strong>la ricerca basata su dati «oggettivi», sia da quella che<br />

utilizza v<strong>al</strong>utazioni «soggettive» (soddisfazione di vita o felicità): lo stato psicofisico delle<br />

persone, la conoscenza e la capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, il lavoro,<br />

il benessere materi<strong>al</strong>e, l’ambiente, i rapporti interperson<strong>al</strong>i, la partecipazione <strong>al</strong>la vita<br />

della società in cui viviamo e l’insicurezza. Inoltre, la Commissione sottolinea l’importanza<br />

degli indicatori sulla distribuzione, non solo del reddito e della ricchezza, ma anche<br />

delle <strong>al</strong>tre dimensioni del benessere;<br />

è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi<br />

(il reddito, la speranza di vita, ecc.) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati<br />

soggettivi e gli aspetti qu<strong>al</strong>itativi della condizione umana. Quindi, bisogna misurare il<br />

benessere sia da un punto di vista oggettivo sia da un punto di vista soggettivo, ed è compito<br />

degli istituti di statistica misurare anche le percezioni;<br />

la sostenibilità non è solamente un fenomeno ambient<strong>al</strong>e, ma comprende elementi di<br />

carattere economico e soci<strong>al</strong>e e può essere misurata solamente guardando agli stock di<br />

capit<strong>al</strong>e che la generazione attu<strong>al</strong>e lascia in dote a quelle successive (stock di capit<strong>al</strong>e<br />

prodotto, di capit<strong>al</strong>e natur<strong>al</strong>e, di capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e e di capit<strong>al</strong>e umano). Ma non ci si può<br />

illudere di poter misurare la sostenibilità sulla base di indicatori relativi <strong>al</strong> passato, perché<br />

le statistiche, da sole, non ci possono dire se un percorso è veramente sostenibile. I<br />

dati statistici vanno quindi usati per costruire modelli che ci aiutino a guardare il <strong>futuro</strong><br />

e v<strong>al</strong>utare la sostenibilità delle condizioni economiche, soci<strong>al</strong>i e ambient<strong>al</strong>i;<br />

9. Ad esempio, che, <strong>al</strong>l’interno della quota di reddito che non è andata <strong>al</strong>le famiglie, la componente finita <strong>al</strong>l’estero è triplicata e quella<br />

andata <strong>al</strong>le società finanziarie è quasi raddoppiata.<br />

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gli statistici devono essere più innovativi e coraggiosi, riprendendo l’iniziativa e il coraggio<br />

di misurare quello che è difficile da misurare;<br />

il lavoro svolto d<strong>al</strong>la Commissione rappresenta un punto di inizio di questo lavoro, non<br />

il punto fin<strong>al</strong>e. Per rendere operative le raccomandazioni formulate gli statistici devono<br />

fare la loro parte, ma il compito più importante spetta ai politici, i qu<strong>al</strong>i, seguendo il percorso<br />

indicato nella Dichiarazione di Istanbul, dovrebbero costituire in ogni paese una<br />

«tavola rotonda sul progresso», cui dovrebbero partecipare rappresentanti di tutte le componenti<br />

della società.<br />

Le dimensioni del benessere identificate d<strong>al</strong>la Commissione coincidono quasi perfettamente<br />

con la «tassonomia del progresso» sviluppata d<strong>al</strong>l’OCSE, con <strong>al</strong>cune interessanti differenze<br />

(Grafico 2.1). Lo schema OCSE si basa sull’esistenza di due sistemi, il sistema umano e<br />

l’ecosistema, strettamente interrelati attraverso la gestione delle risorse natur<strong>al</strong>i e l’insieme<br />

di servizi che l’ecosistema fornisce <strong>al</strong> sistema umano (ad esempio, la biodiversità) e viceversa<br />

(la re<strong>al</strong>izzazione di una nuova foresta). Il benessere complessivo di un paese dipende quindi<br />

d<strong>al</strong>le condizioni dell’ecosistema e del sistema umano, a sua volta frutto del benessere degli<br />

individui e di quello della società. Il benessere umano può essere immaginato come l’insieme<br />

di attributi di cui ciascuna persona dispone e che ne caratterizzano la vita, anche in<br />

termini di opportunità (nel senso di Sen). Alcuni di questi attributi sono tipicamente individu<strong>al</strong>i,<br />

<strong>al</strong>tri collettivi, e la loro esistenza è condizionata da fattori economici, di governance<br />

e cultur<strong>al</strong>i, i qu<strong>al</strong>i non sono necessariamente importanti di per sé, ma acquistano importanza<br />

in quanto consentono la re<strong>al</strong>izzazione delle aspirazioni <strong>al</strong> miglioramento del benessere<br />

complessivo: di conseguenza, essi sono considerati obiettivi «intermedi» e non «fin<strong>al</strong>i».<br />

Grafico 2.1 - Le dimensioni del benessere<br />

Cultura<br />

Fonte: OCSE.<br />

Sistema umano<br />

Benessere<br />

Individu<strong>al</strong>e Soci<strong>al</strong>e<br />

Economia<br />

Servizi dell'ecosistema<br />

Governance<br />

Gestione delle risorse<br />

79<br />

Ecosistema<br />

Condizioni<br />

Benessere<br />

dell'ecosistema<br />

Scendendo a un secondo livello di dettaglio, si può immaginare di declinare i concetti di benessere<br />

ora citati attraverso dimensioni più specifiche e proposte d<strong>al</strong>l’OCSE (Tabella 2.1).<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

Tabella 2.1 - Come si misura il progresso della società secondo le proposte OCSE<br />

Obiettivi fin<strong>al</strong>i Obiettivi intermedi<br />

Condizioni dell’ecosistema: risultati per l’ambiente Economia<br />

Terra Reddito nazion<strong>al</strong>e<br />

Acqua da bere<br />

Oceani e mari<br />

Ricchezza nazion<strong>al</strong>e<br />

Biodiversità Governance<br />

Atmosfera Diritti umani e partecipazione civica<br />

Sicurezza e crimin<strong>al</strong>ità<br />

Benessere umano: risultati per le persone<br />

Sanità fisica e ment<strong>al</strong>e<br />

Accesso ai servizi<br />

Conoscenza e comprensione Cultura<br />

Lavoro Memorie cultur<strong>al</strong>i<br />

Benessere materi<strong>al</strong>e<br />

Libertà e autodeterminazione<br />

Relazioni interperson<strong>al</strong>i<br />

Arte e tempo libero<br />

A esse si aggiungono poi due dimensioni «orizzont<strong>al</strong>i»:<br />

aspetti intra-generazion<strong>al</strong>i: povertà multi dimension<strong>al</strong>e, ineguaglianza, ecc.;<br />

aspetti inter-generazion<strong>al</strong>i: sostenibilità, vulnerabilità, ecc.<br />

In questo modo, il benessere è definito secondo uno schema fatto di aree fondament<strong>al</strong>i rappresentate<br />

dagli obiettivi fin<strong>al</strong>i e intermedi, e due elementi trasvers<strong>al</strong>i: tutti insieme, queste<br />

categorie configurano uno spazio multidimension<strong>al</strong>e t<strong>al</strong>e per cui il «progresso di una società<br />

si verifica quando si consegue un aumento del benessere equo e sostenibile».<br />

Dati statistici sono disponibili, <strong>al</strong>meno per i paesi più sviluppati, per molti di questi fenomeni,<br />

mentre per <strong>al</strong>tri la situazione risulta più variegata. Ad esempio, per una misura della<br />

povertà multidimension<strong>al</strong>e l’evidenza è ancora insufficiente o i dati sono spesso disponibili<br />

solo vari anni dopo la fine del periodo di riferimento. Va infine sottolineato come, confrontando<br />

i risultati della Commissione Stiglitz, del Progetto dell’OCSE e la lista di cosiddetti<br />

Millennium Development Go<strong>al</strong>s (MDG) definiti d<strong>al</strong>l’Assemblea Gener<strong>al</strong>e delle Nazioni<br />

Unite e monitorate attraverso indicatori statistici prodotti d<strong>al</strong>le organizzazioni internazion<strong>al</strong>i<br />

(Tabella 2.2), si nota una forte convergenza, il che rappresenta un importante punto di partenza<br />

per chi volesse mettere in pratica la Dichiarazione di Istanbul e le raccomandazioni<br />

della Commissione Stiglitz.<br />

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Tabella 2.2 - Misure del benessere a confronto<br />

MDG OCSE Commissione Stiglitz<br />

Reddito/povertà Benessere materi<strong>al</strong>e Benessere economico<br />

Occupazione/lavoro Lavoro Attività person<strong>al</strong>i (incluso il lavoro)<br />

S<strong>al</strong>ute S<strong>al</strong>ute fisica e ment<strong>al</strong>e S<strong>al</strong>ute<br />

Educazione Conoscenza e comprensione Educazione<br />

Libertà e autodeterminazione Coinvolgimento politico<br />

e governance<br />

Relazioni interperson<strong>al</strong>i Connessioni soci<strong>al</strong>i<br />

Sostenibilità ambient<strong>al</strong>e<br />

Partnership per lo sviluppo<br />

Condizioni dell’ecosistema Ambiente<br />

Parità di genere Vulnerabilità Insicurezza<br />

Disuguaglianza/povertà Disuguaglianza/povertà<br />

2.6 ALCUNE POSSIBILI OBIEZIONI<br />

Dimensioni orizont<strong>al</strong>i<br />

Il tema di cui abbiamo trattato, per quanto affascinante, può essere visto come un «lusso»<br />

possibile proprio in quanto abbiamo sperimentato una crescita economica che ha consentito<br />

il soddisfacimento, <strong>al</strong>meno per una parte consistente della popolazione, dei bisogni di<br />

base. Da una t<strong>al</strong>e considerazione, certamente corretta sul piano fattu<strong>al</strong>e e quindi difficilmente<br />

contestabile, nasce una serie di domande <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>i non si può non cercare di dare<br />

risposta. Ad esempio:<br />

siamo sicuri che la domanda per beni e servizi di livello «superiore», cioè qu<strong>al</strong>itativamente<br />

più elevati e derivanti da un’idea più avanzata di progresso, non sia già inclusa nel<br />

PIL? Come noto, la misurazione della qu<strong>al</strong>ità è uno degli aspetti più difficili che la statistica<br />

economica si trova ad affrontare e quindi rappresenta un terreno <strong>al</strong>quanto scivoloso.<br />

Ma anche supponendo che essa sia misurata correttamente, resta il punto che il PIL<br />

misura fondament<strong>al</strong>mente ciò che passa per il mercato, mentre non considera attività<br />

come quelle svolte tra le mura domestiche, a meno che non siano svolte da person<strong>al</strong>e s<strong>al</strong>ariato.<br />

Se quindi delle persone traggono benessere da una cena tra amici, cucinata dai<br />

padroni di casa durante il loro tempo libero, tutto ciò sfugge <strong>al</strong> PIL, mentre così non è se<br />

la cena si svolge <strong>al</strong> ristorante. Proprio queste asimmetrie fanno dire <strong>al</strong>la Commissione<br />

Stiglitz che si deve cercare di misurare il contributo <strong>al</strong> benessere che viene anche da attività<br />

che non passano per il mercato, cominciando d<strong>al</strong> lavoro domestico e d<strong>al</strong>le attività<br />

non lavorative (leisure);<br />

81<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

la crisi attu<strong>al</strong>e dimostra che un c<strong>al</strong>o del PIL non fa bene <strong>al</strong>le nostre società; <strong>al</strong>lora, perché<br />

concentrarci su questi aspetti proprio quando ci sarebbe bisogno di rivolgere tutte le<br />

energie sulle politiche per la crescita? Le «bolle» a cui si attribuisce l’origine della crisi<br />

economica attu<strong>al</strong>e sono state dovute, secondo <strong>al</strong>cuni, a uno scorretto funzionamento dei<br />

mercati, i qu<strong>al</strong>i hanno determinato prezzi incompatibili con un concetto di benessere<br />

«equo e sostenibile». Il peggioramento della distribuzione del reddito e della ricchezza<br />

osservato in molti paesi nell’ultimo decennio, la corsa dei prezzi di attività finanziarie e<br />

re<strong>al</strong>i, nonché di <strong>al</strong>cune materie prime, non sono stati interpretati come segn<strong>al</strong>i di instabilità<br />

e quindi di rischio per la crescita economica e per l’occupazione. Politiche orientate<br />

<strong>al</strong>la crescita economica «purché sia» potrebbero generare nuove «bolle» e quindi<br />

effetti indesiderati di medio termine, con risultati ancora peggiori nel medio termine per<br />

il benessere materi<strong>al</strong>e e l’occupazione. Ecco perché il PIL deve essere integrato da <strong>al</strong>tri<br />

indicatori e non semplicemente sostituito;<br />

se le relazioni interperson<strong>al</strong>i contano, non è vero che un PIL più <strong>al</strong>to consente di usufruire<br />

di strumenti con cui avere queste relazioni e quindi contribuisce <strong>al</strong> benessere?<br />

Certamente sì e va sottolineato che il PIL appare correlato positivamente con molte <strong>al</strong>tre<br />

dimensioni del benessere, il che rappresenta una buona notizia per un mondo che ha<br />

fatto della crescita economica l’obiettivo princip<strong>al</strong>e delle politiche dell’ultimo mezzo secolo.<br />

La domanda che molti si pongono è però se le condizioni del sistema ecologico<br />

e di quello umano non debbano essere considerate <strong>al</strong>trettanto importanti della pura crescita<br />

quantitativa. Natur<strong>al</strong>mente c’è chi sostiene che, per quanto efficienti le attività economiche<br />

possano divenire d<strong>al</strong> punto di vista ambient<strong>al</strong>e, i limiti fisici derivanti d<strong>al</strong>la<br />

finitezza delle risorse natur<strong>al</strong>i debbano far adottare un modello basato sull’assenza di<br />

crescita o sulla «decrescita». Questo non è natur<strong>al</strong>mente il luogo per svolgere una t<strong>al</strong>e<br />

discussione, ma proprio <strong>al</strong>lo scopo di fondare un dibattito così rilevante per il <strong>futuro</strong> del<br />

genere umano su dati di fatto abbiamo bisogno di sviluppare indicatori statistici su tematiche<br />

non economiche <strong>al</strong>trettanto ben disegnati e sviluppati di quelli oggi disponibili<br />

in campo economico;<br />

i temi sollevati d<strong>al</strong>la Commissione e d<strong>al</strong> Progetto OCSE vanno forse bene per i paesi sviluppati,<br />

ma cosa ne pensano i paesi in via di sviluppo, che sono ancora <strong>al</strong>le prese con la<br />

necessità di soddisfare i bisogni di base? Le tassonomie OCSE e della Commissione Stiglitz,<br />

che <strong>al</strong>cuni hanno letto come unicamente orientate ai paesi sviluppati, non sono così<br />

distanti da quelle definite per i paesi in via di sviluppo (Tabella 2.2). Per<strong>al</strong>tro, anche <strong>al</strong>la<br />

luce del lavoro svolto d<strong>al</strong>la Banca Mondi<strong>al</strong>e e da molte organizzazioni non governative,<br />

la discussione più recente sugli MDGs ha sottolineato non solo la loro scarsa rilevanza per<br />

i paesi emergenti, i qu<strong>al</strong>i si rivolgono molto di più <strong>al</strong>le categorie tipiche dei paesi OCSE,<br />

ma anche la necessità di considerare maggiormente gli aspetti legati <strong>al</strong>la governance (<strong>al</strong>tro<br />

aspetto contenuto negli <strong>al</strong>tri due schemi concettu<strong>al</strong>i) come fattore fondament<strong>al</strong>e di sviluppo.<br />

Alla luce di ciò si può affermare che una divisione netta tra paesi ricchi e paesi poveri<br />

in termini di framework del benessere non esista né in teoria, né in pratica, <strong>al</strong> punto<br />

che, nell’ambito della revisione dell’ISU attu<strong>al</strong>mente in corso, si discute proprio dell’in-<br />

82


troduzione di nuove dimensioni (accanto a reddito, sanità e istruzione) qu<strong>al</strong>i la governance,<br />

l’ambiente e l’equità;<br />

viste le risorse scarse dedicate <strong>al</strong>le statistiche, soprattutto (ma non solo) in It<strong>al</strong>ia, questa<br />

nuova agenda sugli indicatori non rischia di peggiorare la qu<strong>al</strong>ità dei dati attu<strong>al</strong>mente<br />

prodotti? La qu<strong>al</strong>ità delle statistiche dipende da molti elementi (precisione, tempestività,<br />

ecc.), ma la rilevanza assume un ruolo chiave, in quanto produrre dati precisi e tempestivi,<br />

ma incapaci di rispondere ai bisogni di conoscenza degli utenti fin<strong>al</strong>i è perfettamente<br />

inutile. In questo senso, l’agenda sulla misurazione del progresso rappresenta<br />

un’occasione da non mancare per rispondere <strong>al</strong>le nuove esigenze manifestate d<strong>al</strong>la società<br />

nel suo complesso e per recuperare una fiducia collettiva nella funzione della statistica<br />

pubblica, spesso vista come <strong>al</strong> servizio di interessi di parte. Se si accetta un qu<strong>al</strong>che<br />

par<strong>al</strong>lelo tra la Grande depressione e l’investimento nella statistica pubblica che i paesi<br />

hanno fatto a partire da <strong>al</strong>lora, non si può scartare l’ipotesi che questa nuova agenda<br />

possa portare a una stagione di investimenti significativi nello sviluppo di nuove informazioni,<br />

più adeguate a soddisfare i bisogni tipici del Ventunesimo secolo.<br />

2.7 UN’AGENDA PER L’ITALIA E NON SOLO<br />

Cosa si può derivare da questa an<strong>al</strong>isi per l’It<strong>al</strong>ia e a livello glob<strong>al</strong>e? E cosa si dovrebbe fare,<br />

in pratica, per muoversi nella direzione auspicata? Come già notato, ci sono due diversi, ma<br />

interconnessi, piani su cui si potrebbe, e dovrebbe, operare. Il primo è di natura tecnica e<br />

spetta a chi si occupa di misurazione dei fenomeni economici, soci<strong>al</strong>i e ambient<strong>al</strong>i. Il secondo<br />

è di natura politica.<br />

Sul primo aspetto, la ricerca internazion<strong>al</strong>e sulla misura del progresso sta avanzando e molte<br />

saranno le opportunità per migliorare gli standard di misurazione e fornire linee guida ai singoli<br />

paesi, così come oggi si fa già su tanti aspetti. L’OCSE e l’Eurostat hanno recentemente<br />

annunciato importanti iniziative in questo campo ed è quindi opportuno procedere speditamente<br />

per migliorare le misure esistenti. Inoltre, si può dare molto più rilievo ai dati già<br />

disponibili in termini di comunicazione e diffusione, così da aiutare i media a meglio informare<br />

i cittadini su aspetti rilevanti del paese in cui vivono.<br />

Sul piano più politico, l’OCSE ha annunciato una vera e propria roadmap che intende re<strong>al</strong>izzare<br />

nei prossimi anni sull’argomento, per cambiare in profondità i parametri sui qu<strong>al</strong>i<br />

essa giudica la bontà delle politiche economiche, soci<strong>al</strong>i e ambient<strong>al</strong>i, abbandonando il<br />

PIL come indicatore princip<strong>al</strong>e di successo (come fatto, ad esempio, nella pubblicazione lanciata<br />

nel 2005 d<strong>al</strong> titolo Going for growth). L’intenzione è quella di complementare t<strong>al</strong>e misura<br />

con gli <strong>al</strong>tri indicatori proposti d<strong>al</strong>la Commissione Stiglitz, cioè cercando di v<strong>al</strong>utare<br />

l’impatto delle varie politiche non soltanto sulla crescita, ma anche sulle <strong>al</strong>tre dimensioni<br />

del progresso. A qu<strong>al</strong>cuno potrà sembrare un’idea troppo complessa da re<strong>al</strong>izzare, ma per<br />

83<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ<br />

rispondere a questa obiezione basta guardare il wellbeing framework che il Tesoro austr<strong>al</strong>iano<br />

ha sviluppato per v<strong>al</strong>utare gli interventi di politica economica 10 . Se il Tesoro austr<strong>al</strong>iano<br />

può fare ciò, <strong>al</strong>lora perché non pensare che il G20, oltre a discutere del cosiddetto leg<strong>al</strong> standard,<br />

non possa sviluppare un progress standard, incoraggiando i paesi del G20 ad adottare<br />

modelli simili? Non è escluso che il G20, nelle sue prossime riunioni (in Corea e in Francia),<br />

dedichi maggiore attenzione a questi aspetti. Inoltre, l’Europa potrebbe, nell’ambito<br />

dello sviluppo della sua strategia per il 2020, esercitare un’importante funzione di stimolo<br />

verso un miglioramento delle misure e del legame tra informazione statistica e decisioni<br />

politiche, aumentando la accountability di governi e parlamenti.<br />

Volendo declinare questi temi «in s<strong>al</strong>sa it<strong>al</strong>iana» dobbiamo partire da una semplice an<strong>al</strong>isi<br />

dei punti di forza e di debolezza di cui disponiamo. Tra i punti di forza indicherei:<br />

la disponibilità di dati che il Sistema statistico nazion<strong>al</strong>e produce annu<strong>al</strong>mente per molte<br />

delle dimensioni del benessere identificate d<strong>al</strong>la Commissione Stiglitz e d<strong>al</strong>l’OCSE. Questi<br />

dati andrebbero quindi presentati in modo più sistematico e pubblicizzati maggiormente;<br />

l’attenzione posta a queste tematiche da numerose istituzioni pubbliche e private di ricerca<br />

e della società civile. Questo patrimonio di esperienza può costituire la base su<br />

cui far avanzare la ricerca volta <strong>al</strong>la misurazione di fenomeni attu<strong>al</strong>mente non quantificati<br />

in modo soddisfacente;<br />

un crescente interesse sul tema da parte di persone che svolgono ruoli di grande responsabilità,<br />

anche politica, di opinion leader.<br />

Tra i punti di debolezza indicherei i seguenti:<br />

la difficoltà dell‘opinione pubblica a «tenere l’attenzione» sui temi rilevanti con continuità;<br />

l’attitudine dei media a trattare le statistiche in modo poco serio, mettendo sullo stesso<br />

piano il frutto di rilevazioni su decine di migliaia di persone e i sondaggi di opinione<br />

svolti su meno di mille individui;<br />

la tendenza <strong>al</strong>la radic<strong>al</strong>izzazione dello scontro politico, anche nei toni, che rende difficile<br />

re<strong>al</strong>izzare accordi «bipartisan» volti <strong>al</strong>l’ammodernamento e <strong>al</strong> rafforzamento delle<br />

istituzioni di garanzia;<br />

una certa sfiducia nelle statistiche e nell’uso che i politici fanno dei dati.<br />

In questo quadro, <strong>al</strong>cune proposte possono essere avanzate per far progredire il dibattito<br />

10. Il framework del Tesoro austr<strong>al</strong>iano contiene cinque dimensioni fondament<strong>al</strong>i: le opportunità e la libertà di cui beneficiano le persone,<br />

il livello del consumo possibile, la distribuzione delle possibilità di consumo, il rischio che le persone devono assumersi, il livello della<br />

complessità con cui le persone devono avere a che fare.<br />

84


nazion<strong>al</strong>e su queste tematiche. La prima, di competenza dell’ISTAT, è quella di rendere maggiormente<br />

fruibili e accessibili i dati esistenti: di conseguenza, nell’ambito della nuova banca<br />

dati che l’ISTAT sta predisponendo e che verrà resa disponibile tra breve, verrà dedicato uno<br />

spazio specifico agli indicatori suggeriti d<strong>al</strong>la Commissione Stiglitz e d<strong>al</strong>l’OCSE; ciò accadrà<br />

anche in <strong>al</strong>tre pubblicazioni destinate <strong>al</strong> grande pubblico. La seconda, ancora da intraprendere,<br />

riguarda la costituzione di una commissione di studio nazion<strong>al</strong>e, collegata <strong>al</strong><br />

Progetto Glob<strong>al</strong>e dell’OCSE, <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e invitare le istituzioni che, in It<strong>al</strong>ia, si interessano di<br />

questi temi, <strong>al</strong>lo scopo di definire un’agenda di ricerca sulla misurazione del progresso della<br />

società it<strong>al</strong>iana. Migliorando, così, la disponibilità di dati sui fenomeni attu<strong>al</strong>mente non coperti<br />

in modo soddisfacente.<br />

Infine, anche l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe costituire, secondo quanto suggerito d<strong>al</strong>la Commissione e d<strong>al</strong>l’OCSE,<br />

una «tavola rotonda» sul progresso della società it<strong>al</strong>iana, con la partecipazione delle<br />

sue diverse componenti (politici, rappresentanti delle parti soci<strong>al</strong>i e della società civile), con<br />

il compito di: a) discutere delle dimensioni che rappresentano il concetto di progresso; b)<br />

selezionare gli indicatori chiave a esse relativi; c) diffondere questi indicatori ai cittadini.<br />

Una discussione seria sul modello di sviluppo da re<strong>al</strong>izzare, e quindi sugli indicatori da utilizzare<br />

per monitorarne i risultati, appare tanto più necessaria per un paese, come l’It<strong>al</strong>ia,<br />

dove si confrontano culture significativamente diverse e dove, dopo i decenni del «boom<br />

economico», la crescita economica appare persistentemente inferiore a quella degli <strong>al</strong>tri<br />

paesi europei, la dinamica demografica squilibrata (con conseguenze dirompenti sui rapporti<br />

intergenerazion<strong>al</strong>i) e la distribuzione delle risorse fortemente inegu<strong>al</strong>e. Se il paradigma della<br />

«crescita a tutti i costi» non è più perseguibile, la società it<strong>al</strong>iana deve <strong>al</strong> più presto cercare<br />

di trovare un accordo sulle caratteristiche economiche, soci<strong>al</strong>i e ambient<strong>al</strong>i «chiave» su cui<br />

intende fondare il proprio modello, anche per gestire gli squilibri qui brevemente ricordati<br />

e assicurare un <strong>futuro</strong> di prosperità <strong>al</strong>le nuove generazioni. La speranza è che l’occasione<br />

creata d<strong>al</strong>le iniziative avviate a livello internazion<strong>al</strong>e e qui descritte non venga sprecata,<br />

ma che l’It<strong>al</strong>ia (da cui, con il Forum di P<strong>al</strong>ermo, si è dato l’avvio a questo processo) utilizzi<br />

questi strumenti per promuovere e re<strong>al</strong>izzare un più <strong>al</strong>to livello di benessere equo e sostenibile,<br />

conseguendo un vero progresso della società.<br />

85<br />

2. DAL PIL AL BENESSERE: NUOVI INDICATORI PER MISURARE IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ


3. LA POPOLAZIONE MUOVE<br />

LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

Massimo Livi Bacci1<br />

Nel secolo e mezzo successivo <strong>al</strong>l’Unità d’It<strong>al</strong>ia, la popolazione del nostro paese si è più<br />

che raddoppiata; il reddito re<strong>al</strong>e pro capite si è moltiplicato per tredici; il volume e la superficie<br />

delle infrastrutture, degli edifici, delle abitazioni, sono a loro volta lievitati di un<br />

fattore ignoto ma presumibilmente dell’ordine di un multiplo di dieci. Un affollamento straordinario<br />

di persone, beni, manufatti in un territorio di modesta grandezza. Questo ciclo straordinario,<br />

che ha cambiato la faccia della società, dell’economia e del Paese, sta evolvendosi<br />

verso un nuovo modello. La popolazione cresce meno e potrebbe stabilizzarsi, se non decrescere,<br />

nei prossimi decenni, a meno di un’ampia immigrazione; l’economia si demateri<strong>al</strong>izza;<br />

il territorio si difende d<strong>al</strong>le ulteriori occupazioni e cambi di destinazione. Lo spazio<br />

occupato da ciascuna persona potrebbe restringersi; l’energia necessaria per ogni singolo<br />

gesto, comportamento o movimento potrebbe diminuire; la materia prima incorporata in<br />

ciascun manufatto o bene consumato potrebbe ridursi. Potremmo così interpretare la storia<br />

del Paese come un gradu<strong>al</strong>e passaggio da una società prima affamata poi ingorda e <strong>al</strong>la fine<br />

obesa, a una società più snella, ma forse più idonea a consolidare benessere e sviluppo.<br />

Una società etnicamente composita nella qu<strong>al</strong>e i nuovi «it<strong>al</strong>iani», per quanto protesi a migliorare<br />

le proprie condizioni economiche, non saranno affamati quanto lo erano i nostri trisavoli.<br />

Nonostante che l’It<strong>al</strong>ia, come <strong>al</strong>tri paesi dell’Europa, sia diventata attore «minore»<br />

nella geodemografia mondi<strong>al</strong>e. All’inizio dell’Ottocento, l’It<strong>al</strong>ia (con 17 milioni di abitanti)<br />

si classificava settima nella graduatoria dei paesi più popolosi <strong>al</strong> mondo; nel 1900 era scesa<br />

<strong>al</strong> nono posto (34 milioni) – superata dagli Stati Uniti e d<strong>al</strong>l’Indonesia; nel 1950 <strong>al</strong> decimo<br />

(47 milioni), nel 2000 <strong>al</strong> ventiduesimo (58 milioni) e nel 2050 scenderà <strong>al</strong> trentaquattresimo.<br />

L’India – che tra non molti anni sarà il paese più popoloso del mondo – nel 1950<br />

aveva una popolazione grande 7,5 volte quella dell’It<strong>al</strong>ia ma nel 2050 sarà 28 volte più numerosa.<br />

L’insieme dei paesi del Nord Africa, che nel 1950 avevano una popolazione delle<br />

stesse dimensioni dell’It<strong>al</strong>ia, nel 2050 saranno cinque o sei volte tanto (Nazioni Unite, 2009).<br />

Se coniughiamo queste spinte demografiche – che per<strong>al</strong>tro nei paesi poveri sono in sensibile<br />

frenata – con tassi di crescita assai più elevati dei nostri, si comprende facilmente come<br />

la rilevanza internazion<strong>al</strong>e, demografica ed economica del Paese, sia destinata a ridursi ulteriormente<br />

nei prossimi decenni. Il ciclo dell’It<strong>al</strong>ia è an<strong>al</strong>ogo a quello dell’Europa «geo-<br />

Massimo Livi Bacci, Professore Emerito dell’Università di Firenze, Senatore.<br />

87<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

grafica», che <strong>al</strong>la vigilia della prima guerra mondi<strong>al</strong>e creava quasi la metà del prodotto mondi<strong>al</strong>e,<br />

ridotto a meno di un quinto nel 2000 e, qu<strong>al</strong>ora dovessero mantenersi le attu<strong>al</strong>i differenze<br />

geografiche nei tassi di crescita, a meno di un decimo nel 2050.<br />

Questa premessa «macro» – che sembra condannare l’It<strong>al</strong>ia, con l’Europa, <strong>al</strong>l’irrilevanza –<br />

semplifica, appiattisce e deforma la re<strong>al</strong>tà. Un paese, anche demograficamente modesto,<br />

v<strong>al</strong>e per il capit<strong>al</strong>e umano, soci<strong>al</strong>e, di conoscenza che accumula; per l’innovazione, la ricerca,<br />

la tecnologia, la qu<strong>al</strong>ità che produce; per la coesione, il benessere, la qu<strong>al</strong>ità della<br />

vita dei suoi componenti, la loro vit<strong>al</strong>ità, anche imprenditori<strong>al</strong>e. L’an<strong>al</strong>isi demografica è importante<br />

perché fornisce indicazioni di base sull’evoluzione della popolazione, della struttura<br />

per età e per genere, dell’articolazione familiare e di quella residenzi<strong>al</strong>e. È sotto questo<br />

profilo che i dati demografici sono gener<strong>al</strong>mente utilizzati. Ma c’è un <strong>al</strong>tro piano interpretativo<br />

ugu<strong>al</strong>mente utile, col qu<strong>al</strong>e si considerano i fenomeni demografici come aspetti basilari<br />

del capit<strong>al</strong>e umano. La cui v<strong>al</strong>utazione non può restringersi <strong>al</strong> grado di conoscenza<br />

(approssimato dagli anni di istruzione ricevuti o d<strong>al</strong> grado di istruzione raggiunto) ma deve<br />

necessariamente estendersi ad <strong>al</strong>tri aspetti: le caratteristiche psico-fisiologiche degli individui;<br />

la durata e la qu<strong>al</strong>ità della sopravvivenza; la capacità di associarsi in famiglie e di riprodursi;<br />

la capacità di muoversi sul territorio, o mobilità; la capacità di riprodursi<br />

numericamente, non solo mediante la riproduzione ma anche con l’immigrazione. Persone<br />

che campano a lungo e sopravvivono bene; libere di esprimere le loro preferenze riproduttive<br />

e di scegliere consone aggregazioni familiari; agevolate nelle loro scelte insediative e<br />

abitative: sono queste quelle adatte a intraprendere un percorso di sviluppo.<br />

3.1 SINTESI DI UN SECOLO E SEGNALI DI CAMBIO DI ROTTA<br />

Richiamiamo brevemente, per memoria, le vicende demografiche «macro» dell’ultimo secolo.<br />

Nella prima metà del secolo – nonostante due sanguinose guerre e la continua emigrazione<br />

dei primi decenni – il numero della popolazione era cresciuto da 33,8 (1901) a<br />

47,5 milioni (1951). L’emigrazione – prev<strong>al</strong>entemente transoceanica – aveva determinato un<br />

s<strong>al</strong>do negativo pari a circa 3 milioni di persone nel trentennio 1901-1931, per poi ridursi a<br />

poca cosa per la crisi e il conflitto mondi<strong>al</strong>e. D<strong>al</strong>la metà del secolo scorso a oggi la popolazione<br />

ha continuato a crescere – superando i 60 milioni nel 2008 – nonostante che il bilancio<br />

tra nascite e morti sia stato negativo negli ultimi due decenni. Nel ventennio 1951-71<br />

la popolazione è cresciuta di 6,6 milioni, «nonostante» un s<strong>al</strong>do migratorio negativo di 2 milioni<br />

di persone; nel periodo 1991-2010 la crescita è stata di 3 milioni «grazie» a un s<strong>al</strong>do<br />

migratorio positivo di 4 milioni (Grafico 3.1). La causa fondament<strong>al</strong>e di questo rib<strong>al</strong>tamento<br />

– pur nella continuità della crescita – sta nella vertiginosa diminuzione delle nascite: raggiungevano<br />

il milione a metà degli anni Sessanta e si sono ridotte (se escludiamo quelle di<br />

genitori stranieri in It<strong>al</strong>ia) a circa la metà. Per la verità, la diffusione del controllo delle nascite<br />

aveva già dimezzato le dimensioni della prole d<strong>al</strong>la fine dell’Ottocento – quando il numero<br />

medio di figli per donna era vicino a 5 – agli anni Cinquanta. Dopo una breve ripresa<br />

88


nel periodo del boom economico, il declino è continuato; sono più di trent’anni che il numero<br />

medio di figli per donna è sotto <strong>al</strong> v<strong>al</strong>ore di 2 (che rappresenta la soglia sotto la qu<strong>al</strong>e<br />

non si re<strong>al</strong>izza il rimpiazzo tra la generazione dei figli e quella dei genitori), e da oltre vent’anni<br />

si aggira attorno a 1,3 (un v<strong>al</strong>ore sensibilmente inferiore a quello della media europea).<br />

Grafico 3.1 - Passato e <strong>futuro</strong> della popolazione it<strong>al</strong>iana<br />

(Abitanti in milioni di unità e tasso migratorio per mille abitanti)<br />

65<br />

60<br />

55<br />

50<br />

45<br />

40<br />

35<br />

1950<br />

1955<br />

1960<br />

1965<br />

1970<br />

1975<br />

Popolazione<br />

1980<br />

1985<br />

1990<br />

1995<br />

2000<br />

Previsione secondo la variante media per il periodo 2010-2050.<br />

Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.<br />

89<br />

2005<br />

2010<br />

2015<br />

2020<br />

Previsione<br />

Tasso migratorio (Sc<strong>al</strong>a destra)<br />

I progressi della longevità sono stati, invece, continui e la speranza di vita <strong>al</strong>la nascita di<br />

donne e uomini oggi (2007) è di oltre 81 anni (quasi il doppio dei 43 del 1901), con un guadagno<br />

di oltre 4 mesi di vita per ogni anno di c<strong>al</strong>endario trascorso (Grafico 3.2). Se la fecondità<br />

è più bassa della media europea, la longevità è ai primi posti. Meno nascite e più<br />

longevità significano diminuzione dei giovani e dei giovanissimi e forte aumento degli anziani<br />

e dei molto anziani, un processo d’invecchiamento che, in It<strong>al</strong>ia, è più veloce che tra<br />

gli <strong>al</strong>tri grandi paesi europei (Grafico 3.3). Con un afflusso di giovani nell’età adulta – e<br />

nelle forze di lavoro – che ha cominciato a ridursi a partire d<strong>al</strong>la fine degli anni Ottanta<br />

(912 mila giovani compirono vent’anni nel 1990, contro poco più di 600 mila nel 2010) è<br />

andato formandosi un «vuoto» demografico tra giovani e giovanissimi che ha attirato crescenti<br />

flussi migratori, sospinti anche d<strong>al</strong> forte differenzi<strong>al</strong>e delle condizioni di vita con i<br />

paesi di origine. E con il paradosso tipico di un mercato del lavoro fortemente segmentato:<br />

pochi giovani autoctoni, con <strong>al</strong>ti tassi di disoccupazione, e molti immigrati.<br />

I fenomeni richiamati hanno inciso profondamente nella società it<strong>al</strong>iana e non sono facilmente<br />

reversibili. Una lieve ripresa della nat<strong>al</strong>ità è in corso ma potrà consolidarsi solo con<br />

molta gradu<strong>al</strong>ità; l’invecchiamento continuerà ad accentuarsi per <strong>al</strong>meno un paio di de-<br />

2025<br />

2030<br />

2035<br />

2040<br />

2045<br />

2050<br />

7,0<br />

5,5<br />

4,0<br />

2,5<br />

1,0<br />

-0,5<br />

-2,0<br />

-3,5<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

Grafico 3.2 - It<strong>al</strong>iani più longevi ma meno fecondi<br />

(Figli per donna in età fertile e speranza di vita <strong>al</strong>la nascita)<br />

3,5<br />

3,0<br />

2,5<br />

2,0<br />

1,5<br />

1,0<br />

0,5<br />

0,0<br />

1955<br />

Numero medio di figli per donna<br />

1960<br />

1965<br />

1970<br />

Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.<br />

Grafico 3.3 - I vecchi sorpassano i giovani<br />

(Quote % su tot<strong>al</strong>e popolazione)<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

1975<br />

1980<br />

Speranza di vita <strong>al</strong>la nascita (Sc<strong>al</strong>a destra)<br />

cenni; l’immigrazione è destinata a continuare a lungo su livelli elevati. Questa evoluzione<br />

di lunga durata determina effetti a cascata sulle strutture familiari, sui rapporti tra generazioni,<br />

sulle relazioni tra generi, sulla mobilità, sul capit<strong>al</strong>e umano e sul lavoro. Sotto il profilo<br />

economico, gli effetti non sono solo di natura quantitativa – sull’ammontare della<br />

popolazione in età attiva o sul numero dei consumatori – ma toccano una serie di <strong>al</strong>tri<br />

aspetti molto rilevanti, qu<strong>al</strong>i la produttività, l’<strong>al</strong>locazione del lavoro, tra uomini e donne e<br />

durante il ciclo di vita, la durata della vita attiva, la mobilità.<br />

90<br />

1985<br />

1990<br />

1995<br />

2000<br />

2005<br />

Giovani (0-19 anni) Anziani (65 anni e oltre)<br />

1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010<br />

Fonte: elaborazioni e stime su dati Nazioni Unite.<br />

2010<br />

85<br />

80<br />

75<br />

70<br />

65<br />

60


3.2 LONGEVI PER SEMPRE?<br />

L’aumento della longevità è una grande conquista e una fondament<strong>al</strong>e estensione delle nostre<br />

prerogative, che riteniamo definitivamente acquisita. Ma lo è davvero? O, in <strong>al</strong>tri termini,<br />

qu<strong>al</strong>i sono le condizioni per la sostenibilità di una lunga durata di vita? Ebbene, questa sostenibilità<br />

deve essere assicurata sotto il profilo biologico, politico ed economico. Sotto il<br />

profilo biologico occorre ricordare che il mondo delle patologie è in continuo movimento;<br />

che nuove m<strong>al</strong>attie possono emergere e antiche patologie – date per sconfitte – riemergere;<br />

che i sistemi di prevenzione, <strong>al</strong>larme, controllo, ricerca, cura, non sempre sono capaci di<br />

reagire con prontezza ed efficienza. Fin troppo facile ricordare che l’AIDS ha provocato, nei<br />

paesi sviluppati, un aumento della mort<strong>al</strong>ità nelle età giovani (e un arretramento della speranza<br />

di vita di oltre vent’anni nelle popolazioni africane più povere). Sotto il profilo politico,<br />

la lunga sopravvivenza oggi assicurata <strong>al</strong>le popolazioni ricche del mondo (e, oramai,<br />

anche a buona parte di quelle povere) si basa su un complesso sistema che garantisce accesso<br />

univers<strong>al</strong>e <strong>al</strong>le cure e <strong>al</strong>to livello di assistenza sanitaria, funzionamento della ricerca,<br />

controllo dell’ambiente, sufficiente e corretta <strong>al</strong>imentazione, assenza di gravi traumi e lacerazioni<br />

soci<strong>al</strong>i. Dove questo non è avvenuto – come nella regione del mondo che ruotava<br />

attorno <strong>al</strong>l’Unione Sovietica – l’effetto sulla sopravvivenza è stato devastante. Nell’URSS la<br />

speranza di vita degli uomini è crollata da 65 anni <strong>al</strong>la metà degli anni Ottanta a 59 negli<br />

anni Novanta, per l’aumento della povertà, per il peggioramento dell’<strong>al</strong>imentazione, per il<br />

deteriorarsi degli stili di vita (<strong>al</strong>col, fumo, violenza), per l’aggravarsi dell’inquinamento, per<br />

la crisi del sistema sanitario. È difficile che una crisi sistemica an<strong>al</strong>oga a quella del mondo<br />

sovietico si verifichi in quello occident<strong>al</strong>e; tuttavia quanto avvenuto dimostra che i progressi<br />

acquisiti non si conservano incondizionatamente, ma vanno difesi e protetti, e che quelli da<br />

acquisire vanno guadagnati sul campo con una complessità di azioni che ogni dura crisi può<br />

compromettere. Sarà interessante, per esempio, verificare se il periodo di grave crisi economica<br />

che stiamo percorrendo non avrà frenato i progressi increment<strong>al</strong>i attesi, o sc<strong>al</strong>fito<br />

quelli acquisiti.<br />

Vi sono minacce <strong>al</strong>la sostenibilità di una lunga sopravvivenza che non sono legate a situazioni<br />

di crisi ma che dipendono d<strong>al</strong> costo economico e, più in particolare, d<strong>al</strong>la crescente<br />

incidenza sul PIL della spesa (pubblica e privata) per la s<strong>al</strong>ute. D<strong>al</strong>la fine degli anni Ottanta<br />

questa è cresciuta, nelle princip<strong>al</strong>i economie, di <strong>al</strong>cuni punti percentu<strong>al</strong>i, raggiungendo,<br />

nel 2007, il 16 per cento del PIL negli Stati Uniti e avvicinandosi <strong>al</strong> 10 per cento nella media<br />

europea (OCSE 2009). A questo aumento contribuisce non solo la maggiore incidenza, sulla<br />

popolazione, degli anziani che richiedono cure mediche e sanitarie più intense; ma anche<br />

i costi delle cure fornite, che hanno un <strong>al</strong>to contenuto tecnologico e che crescono più velocemente<br />

dei costi di <strong>al</strong>tri beni e servizi. Inoltre se – come molti temono – l’estensione<br />

della vita comportasse l’emergere di patologie legate <strong>al</strong>la senescenza e determinasse un aumento<br />

degli anni vissuti in buona s<strong>al</strong>ute meno che proporzion<strong>al</strong>e <strong>al</strong>l’aumento di quelli vissuti<br />

in s<strong>al</strong>ute precaria, <strong>al</strong>lora un ulteriore fattore di costo si comporrebbe con quelli sopra<br />

ricordati. Ci si deve perciò domandare qu<strong>al</strong>i siano i limiti sostenibili della crescita della<br />

spesa sanitaria; se questa, entrando in competizione con <strong>al</strong>tre destinazioni del reddito (istru-<br />

91<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

zione, ricerca, sicurezza, assistenza, ambiente) non rischi di trovare presto dei limiti <strong>al</strong>la<br />

sua espansione; o riduca, sottraendo risorse agli investimenti (compresi quelli in capit<strong>al</strong>e<br />

umano), la crescita del reddito cui si attinge per il benessere; e, infine, se eventu<strong>al</strong>i limiti introdotti<br />

non implichino un freno <strong>al</strong> miglioramento della sopravvivenza o pongano in pericolo<br />

i livelli raggiunti.<br />

3.3 PIÙ FORTI, PIÙ SANI, SEPPURE ANZIANI?<br />

La «liberazione» della popolazione d<strong>al</strong> peso e d<strong>al</strong>le costrizioni delle patologie e delle disabilità<br />

è il fatto più straordinario, rivoluzionario e innovatore del Novecento. Abbassamento<br />

della mort<strong>al</strong>ità e migliore s<strong>al</strong>ute hanno rafforzato non solo le capacità e il benessere fisico e<br />

psichico dei singoli, ma anche le strutture familiari, la rete delle amicizie e dei rapporti soci<strong>al</strong>i,<br />

le relazioni tra soggetti e partner economici, in passato assai più frequentemente lacerati<br />

d<strong>al</strong>la morte. Nell’arco della vita lavorativa va ricordato che, <strong>al</strong>la metà del Novecento, su<br />

100 ventenni 35 non arrivavano <strong>al</strong>l’età di 70 anni; oggi questa sorte riguarda appena 15 persone,<br />

con una tendenza a una ulteriore riduzione. Per larga parte del Novecento il peso delle<br />

patologie «soci<strong>al</strong>i» – si pensi <strong>al</strong>la m<strong>al</strong>aria o <strong>al</strong>la tubercolosi – ha gravato fortemente sulla «efficienza»<br />

della popolazione, particolarmente di quella giovane. Lo stesso può dirsi delle m<strong>al</strong>attie<br />

infettive e di <strong>al</strong>tre patologie inv<strong>al</strong>idanti per periodi più o meno lunghi del corso della<br />

vita. L’Organizzazione Mondi<strong>al</strong>e della Sanità (OMS) ha messo a punto uno strumento prezioso<br />

per v<strong>al</strong>utare il peso della mort<strong>al</strong>ità precoce e delle m<strong>al</strong>attie su una popolazione. Si<br />

tratta dei DALY (Disability Adjusted Life Years) che stimano quanti anni di «buona s<strong>al</strong>ute»<br />

vengono perduti sia per morte precoce ed evitabile, sia per disabilità (ponderando la durata<br />

di una patologia con la sua gravità). Secondo questo indicatore (2004) l’It<strong>al</strong>ia con 112 DALY<br />

per mille abitanti è, nell’ambito dei paesi a reddito <strong>al</strong>to (media 121), uno dei più avvantaggiati.<br />

Maggiore longevità e migliore s<strong>al</strong>ute hanno sicuramente accompagnato e sostenuto lo<br />

sviluppo secolare del Paese: c’è tuttavia qu<strong>al</strong>che segn<strong>al</strong>e che gli effetti positivi stiano esaurendo<br />

– o abbiano esaurito – la loro spinta. Secondo le stime dell’OMS, nei paesi ricchi il<br />

fumo, l’<strong>al</strong>col, l’obesità sono responsabili di un quarto dei DALY. In It<strong>al</strong>ia la proporzione dei<br />

fumatori è in costante diminuzione (34% della popolazione di oltre 14 anni nel 1980, 24%<br />

nel 2003-2005), e questo è un dato positivo; meno positivo è, invece, il fatto che i fumatori<br />

sono sempre più giovani (e concentrati nelle fasce meno istruite) cosicché, in prospettiva, si<br />

potrebbe determinare un anticipo dell’età a cui si manifestano le m<strong>al</strong>attie correlate <strong>al</strong> fumo.<br />

Un discorso an<strong>al</strong>ogo può farsi per l’assunzione di <strong>al</strong>col, in diminuzione nella popolazione,<br />

ma in controtendenza tra i più giovani con conseguenze dirette sul «ringiovanimento» della<br />

patologie direttamente o indirettamente legate <strong>al</strong>l’abuso (Fornasin e Breschi, 2009).<br />

Stanno inoltre emergendo nuove patologie e nuove condizioni di s<strong>al</strong>ute i cui effetti negativi<br />

non sono ancora percepibili a livello aggregato ma che, persistendo le tendenze attu<strong>al</strong>i, potrebbero<br />

rendersi manifesti. Cito due fenomeni – che andrebbero approfonditi – qu<strong>al</strong>i la diffusione<br />

delle sindromi depressive e l’aumento dell’obesità, ambedue particolarmente<br />

accentuate nelle età giovanili.<br />

92


Le indagini comparative sulle tendenze e sulla diffusione del fenomeno depressivo – e delle<br />

pesanti conseguenze sulla vita delle persone coinvolte – sono rese difficili d<strong>al</strong>la complessità<br />

delle definizioni e delle diagnosi e d<strong>al</strong> loro mutamento nel tempo. Ma è diffusa la percezione<br />

– corroborata da studi settori<strong>al</strong>i – che la depressione sia in sensibile aumento, in connessione<br />

con <strong>al</strong>tri fenomeni soci<strong>al</strong>i propri delle società avanzate e con maggiore incidenza tra le donne<br />

e tra i giovani adulti, nelle aree urbane, negli individui con maggiore grado d’istruzione.<br />

La relativa rarità delle an<strong>al</strong>isi epidemiologiche e di quelle sul «costo» per la collettività (oltre<br />

<strong>al</strong> costo per gli individui colpiti) non sono buoni motivi per trascurarne l’esistenza.<br />

Sull’obesità si cominciano ad avere dati precisi e serie storiche. Nel 1999-2000, circa un<br />

quarto dei bambini e degli adolescenti (6-17 anni) it<strong>al</strong>iani era sovrappeso od obeso. In tutto<br />

il mondo prospero il fenomeno è in forte ascesa, in particolar modo tra bambini e adolescenti,<br />

come dimostra una recente rassegna degli studi esistenti. L’aumento dell’incidenza<br />

dei soggetti sovrappeso è avvenuto a velocità crescente: fu pari <strong>al</strong>lo 0,1 per cento annuo<br />

negli anni Settanta, <strong>al</strong>lo 0,4 per cento negli anni Ottanta, <strong>al</strong>lo 0,8 per cento negli anni Novanta<br />

ed è superiore <strong>al</strong>l’1 per cento <strong>al</strong>l’inizio di questo secolo; viene così stimato che, in Europa,<br />

nel 2010, il 38 per cento della popolazione scolastica sia soprappeso od obesa,<br />

<strong>al</strong>imentando poi l’epidemia di obesità tra i giovani e gli adulti, con negative ricadute sulle<br />

generazioni successive (i figli di obesi hanno rischi assai più elevati di essere anch’essi obesi).<br />

Le conseguenze negative sulla capacità di lavoro – oltre che sulla sopravvivenza – sono,<br />

come ben si sa, molto negative. In It<strong>al</strong>ia, tra gli adulti, più di metà degli uomini e poco più<br />

di un terzo delle donne sono sovrappeso od obese. L’incidenza dell’obesità è pari <strong>al</strong> 10,8<br />

per cento per i maschi e <strong>al</strong> 9,6 per cento per le femmine, in crescita (sia pur moderata)<br />

rispetto <strong>al</strong> 1999 (Pinnelli e Fiori 2009).<br />

Un <strong>al</strong>tro aspetto che andrebbe approfondito è quello del persistere di notevoli differenze sia<br />

in termini di sopravvivenza, sia di s<strong>al</strong>ute (comunque la si misuri), legate a fattori di natura<br />

socio-economica e in particolare <strong>al</strong>l’istruzione. È un fatto preoccupante, nonostante esista<br />

un accesso «univers<strong>al</strong>e» a un sistema sanitario che complessivamente è di buon livello. Nei<br />

paesi ricchi, le classi soci<strong>al</strong>i meno istruite e meno agiate sono quelle che più spesso adottano<br />

stili di vita che aumentano la probabilità di patologie dannose per la s<strong>al</strong>ute. Tra le persone<br />

meno istruite, <strong>al</strong> netto dell’effetto dell’età, è maggiore il rischio di disabilità, più<br />

frequente è l’incidenza contemporanea di due o più m<strong>al</strong>attie croniche così come la percezione<br />

di godere di poca s<strong>al</strong>ute. Tra i meno istruiti, inoltre, è più frequente il ricorso <strong>al</strong> servizio<br />

sanitario, sono più <strong>al</strong>ti i tassi di osped<strong>al</strong>izzazione, è maggiore la domanda di assistenza<br />

domiciliare. In due popolazioni ugu<strong>al</strong>i per entità e struttura, quella più istruita, v<strong>al</strong>e a dire<br />

quella che dispone di più capit<strong>al</strong>e umano si trova, ceteris paribus, a vivere più tempo in migliore<br />

s<strong>al</strong>ute e ad affrontare una spesa sanitaria più bassa. A giudicare da ciò, i margini di<br />

guadagno in termini di sopravvivenza e s<strong>al</strong>ute del nostro paese – e in particolare per quanto<br />

concerne la popolazione attiva – riguarderebbero meno gli aspetti inerenti <strong>al</strong> miglioramento<br />

del sistema sanitario e in misura maggiore quelli legati <strong>al</strong>l’ambito scolastico e formativo.<br />

L’istruzione, in questa ottica, agisce sul lavoro in due modi: non solo è l’elemento che de-<br />

termina l’incremento del capit<strong>al</strong>e umano in termini di v<strong>al</strong>ore, ma anche quello che assicura 3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

93


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

un inn<strong>al</strong>zamento della qu<strong>al</strong>ità della vita e dei livelli di s<strong>al</strong>ute. Inoltre, gli investimenti in<br />

istruzione, che interessano princip<strong>al</strong>mente i primi decenni di vita di una persona, prolungano<br />

le loro ricadute positive nel tempo, determinando, così, in una sorta di circolo virtuoso,<br />

ulteriori incrementi del capit<strong>al</strong>e umano.<br />

Tirando le fila, si può dire che la prerogativa basilare – quella di sopravvivere e di stare in<br />

buona s<strong>al</strong>ute – si è straordinariamente rafforzata nel tempo; che questo rafforzamento è oramai<br />

completo, o quasi, sotto il profilo della sopravvivenza e ampiamente compiuto sotto il<br />

profilo della s<strong>al</strong>ute, anche se può essere incrinato da nuove condizioni psico-fisiche tipiche<br />

delle società prospere. Ci sono quindi le condizioni per una redistribuzione del ciclo di vita<br />

lavorativo che torni a includere fasce di età in condizione inattiva che ancor oggi chiamiamo<br />

– a torto – anziane.<br />

3.4 DALLA FAMIGLIA CONTADINA A QUELLA POSTMODERNA<br />

Gran parte del ciclo di vita e del tempo giorn<strong>al</strong>iero si trascorre in famiglia così come buona<br />

parte delle attività e delle relazioni soci<strong>al</strong>i si sviluppano per la famiglia o tramite la famiglia.<br />

Nella civiltà contadina, prev<strong>al</strong>ente fino <strong>al</strong>la metà del secolo scorso, la famiglia era un’unità<br />

di produzione, cosicché anche il lavoro si svolgeva in stretto rapporto col nucleo familiare.<br />

Per le donne, potremmo anche dire che la civiltà contadina aveva sviluppato un equilibrio<br />

tra tempi dedicati <strong>al</strong>la famiglia e tempo dedicato <strong>al</strong> lavoro. Questo equilibrio è stato scardinato<br />

dai processi di industri<strong>al</strong>izzazione che hanno «separato» contesto familiare e contesto<br />

lavorativo, rendendo arduo l’impegno sui due fronti, e rendendo necessaria una<br />

transizione assai difficile se non sostenuta da un efficiente sistema di welfare e da un riequilibrio<br />

delle asimmetrie di genere nell’impegno familiare. Una transizione lenta e difficile<br />

nel nostro paese, nel qu<strong>al</strong>e l’offerta di lavoro della donna è ancora fortemente scandita d<strong>al</strong><br />

«c<strong>al</strong>endario» familiare: unione, riproduzione, <strong>al</strong>levamento dei figli.<br />

Per interpretare le trasformazioni più rilevanti nelle strutture familiari, un filo conduttore è<br />

offerto d<strong>al</strong> mutamento della condizione femminile, iniziato negli anni Sessanta e Settanta:<br />

la partecipazione <strong>al</strong> mercato del lavoro e la parità giuridica dei coniugi sancita d<strong>al</strong>le leggi<br />

sulla famiglia rendono meno stretti i vincoli di dipendenza della donna d<strong>al</strong> coniuge. Un<br />

processo lento, nel nostro paese, ma che sfocia in una fase ulteriore definita «dell’affrancamento<br />

d<strong>al</strong>la necessità di avere un marito», con una rapida posticipazione dell’età <strong>al</strong> matrimonio<br />

e una progressiva diminuzione della nuzi<strong>al</strong>ità a partire dagli anni Ottanta (Grafico<br />

3.4). Questa gradu<strong>al</strong>e modificazione si precisa nei tempi più recenti, con l’aumento delle<br />

donne che volontariamente non hanno figli e che, comunque, non si sentono limitate d<strong>al</strong><br />

fatto di non averne. Questa è una delle possibili linee interpretative delle modificazioni<br />

struttur<strong>al</strong>i della famiglia che si sono concretate in una forte diminuzione delle dimensioni<br />

(la media è scesa da 4,1 componenti nel 1951 a 2,5 nel 2008); nell’aumento della proporzione<br />

delle persone che vivono da sole; nel ritardo della formazione dei nuclei familiari per<br />

94


matrimonio o unione di fatto; nella diminuzione del numero dei figli; nell’aumento dell’instabilità<br />

familiare per separazione o divorzio; nell’aumento delle famiglie monogenitore o<br />

di quelle ricostituite – per citare solo <strong>al</strong>cune delle più evidenti modificazioni. Natur<strong>al</strong>mente,<br />

le trasformazioni del contesto economico e soci<strong>al</strong>e forniscono chiavi di lettura delle modifiche<br />

struttur<strong>al</strong>i delle famiglie <strong>al</strong>trettanto importanti del variare della condizione femminile<br />

che ne è, simultaneamente, causa ed effetto. È fin troppo ovvio il condizionamento esercitato,<br />

sull’offerta del lavoro femminile, d<strong>al</strong>la crescente necessità di un doppio reddito nei bilanci<br />

familiari. È <strong>al</strong>trettanto evidente l’importanza del lavoro come garanzia essenzi<strong>al</strong>e di<br />

autonomia, indipendenza e sopravvivenza in contesti di <strong>al</strong>ta instabilità familiare.<br />

Grafico 3.4 - Il rinvio della maternità<br />

(It<strong>al</strong>ia, età media in anni <strong>al</strong> primo matrimonio e <strong>al</strong> parto)<br />

32<br />

31<br />

30<br />

29<br />

28<br />

27<br />

26<br />

25<br />

24<br />

23<br />

22<br />

1960<br />

1962<br />

1964<br />

1966<br />

1968<br />

1970<br />

Fonte: elaborazione su dati ISTAT.<br />

3.5 LAVORO, VITAEFIGLI<br />

Età media <strong>al</strong> parto<br />

Età media <strong>al</strong> primo matrimonio<br />

1972<br />

1974<br />

1976<br />

1978<br />

1980<br />

1982<br />

1984<br />

1986<br />

95<br />

1988<br />

1990<br />

1992<br />

1994<br />

1996<br />

1998<br />

2000<br />

2002<br />

2004<br />

2006<br />

Secondo gli obiettivi di Lisbona il tasso di occupazione delle donne (tra i 15 e i 65 anni)<br />

avrebbe dovuto raggiungere il 60 per cento nel 2010, un livello che è oramai sfiorato d<strong>al</strong>la<br />

media UE-15. Ma le donne it<strong>al</strong>iane con un tasso (2008) di appena il 47,2 per cento – anche<br />

se in miglioramento di 11 punti rispetto <strong>al</strong> 1993 – sono ancora molto lontane d<strong>al</strong> traguardo.<br />

L’impegno familiare è la barriera più forte <strong>al</strong> lavoro delle donne: tra le giovani di 35-44 anni<br />

le donne non sposate hanno i tassi di occupazione più <strong>al</strong>ti (87%, 2003) seguiti d<strong>al</strong>le donne<br />

che vivono in coppia ma non hanno figli (72%) e da quelle che vivono in coppia, ma con<br />

figli (52%). Tra queste il tasso di occupazione è tanto minore quanto maggiore è il numero<br />

dei figli (64% con un figlio solo, 36% per chi ne ha tre o più) (ISTAT 2004a).<br />

2008<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

La nascita di un figlio ha effetti notevoli sul lavoro della madre, come attestano le indagini<br />

ISTAT sulle nascite avvenute nel 2003 (con interviste <strong>al</strong>le madri a 18-21 mesi d<strong>al</strong> parto). Si<br />

conferma il forte gradiente legato <strong>al</strong>la geografia della residenza e <strong>al</strong>l’istruzione: quasi una<br />

madre su cinque – tra quelle che avevano un lavoro <strong>al</strong>l’inizio della gravidanza – non lavorano<br />

a 18-21 mesi di distanza e in due casi su tre questo avviene per poter svolgere le attività<br />

di <strong>al</strong>levamento. L’abbandono del lavoro avviene in un caso su sei per le madri residenti<br />

nel Centro Nord e per una ogni quattro per quelle che vivono nel Mezzogiorno. Ancora più<br />

forte è il gradiente istruzione: lasciano o perdono il lavoro una madre su tre tra quelle che<br />

hanno, <strong>al</strong> massimo, una licenza media, e una madre su 13 tra quelle con una laurea (Tanturri<br />

2010, ISTAT 2007).<br />

Le indagini sono concordi nel segn<strong>al</strong>are la grande rilevanza, in It<strong>al</strong>ia, delle circostanze demografiche<br />

e degli impegni familiari sulla discontinuità del lavoro femminile, oltre che sulla<br />

sua intensità. Ma esse fanno emergere anche un’interessante polarità – oltre a quella geografica<br />

– che attiene <strong>al</strong> grado d’istruzione e <strong>al</strong> capit<strong>al</strong>e umano della donna. Infatti se è vero<br />

che ancora oggi le donne <strong>al</strong> lavoro con qu<strong>al</strong>ifiche <strong>al</strong>te hanno mediamente meno figli delle<br />

<strong>al</strong>tre, è vero anche che le donne con <strong>al</strong>ti gradi d’istruzione sono quelle che hanno maggiore<br />

capacità di conciliare impegni familiari e figli con la continuità lavorativa. In <strong>al</strong>tri termini<br />

sono in grado sia di «rinunciare» ad avere una famiglia, o ad avere figli, sia di conciliare famiglia<br />

e lavoro. Potremmo dire che le donne con più risorse (più istruzione, più conoscenza,<br />

maggior reddito) sono, in qu<strong>al</strong>che modo «più libere» di operare le proprie scelte. Mentre<br />

quelle con meno risorse sono più «costrette» d<strong>al</strong>le vicende familiari nelle loro scelte di lavoro:<br />

hanno meno <strong>al</strong>ternative. Considerazioni quasi ovvie, si dirà. Ma che comunque assumono<br />

particolare rilevanza nella società it<strong>al</strong>iana per due noti fattori, assai diversi ma<br />

concorrenti nella loro azione e di cui più si dirà in seguito. Il primo è la forte asimmetria di<br />

genere nei ruoli familiari, a sfavore della donna, e che rende più o meno negoziabile il doppio<br />

fardello casa-lavoro. Asimmetria verificata d<strong>al</strong>le indagini sull’uso del tempo, d<strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>i<br />

emerge un forte divario tra uomini e donne nel tempo quotidiano dedicato <strong>al</strong>la famiglia.<br />

Questo divario è rimasto pressoché invariato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio di questo<br />

decennio, ed è il più <strong>al</strong>to tra i paesi europei. Il secondo è il debole welfare familiare (agli<br />

ultimi posti in Europa per risorse trasferite). Ambedue rendono meno facili, meno reversibili,<br />

meno libere le decisioni delle donne in tema di lavoro. Ambedue contribuiscono a mantenere<br />

<strong>al</strong>to il divario nell’offerta di lavoro tra uomini e donne.<br />

Potremmo dire che la crescita della partecipazione <strong>al</strong> mercato del lavoro delle giovani generazioni<br />

di donne è vulnerabile per l’<strong>al</strong>to rischio di uscirne per le vicende familiari e gli impegni<br />

di cura. E perciò gli ampi margini di aumento del lavoro femminile dipendono d<strong>al</strong>la<br />

capacità di restare nel mercato del lavoro, durante il ciclo di vita, dopo esservi entrati. È su<br />

questo aspetto che debbono esercitarsi le politiche pubbliche per attenuare o cancellare gli<br />

effetti delle cadenze familiari sulle scelte di lavoro.<br />

96


3.6 PIÙ LAVORO E PIÙ FIGLI: SÌ, SI PUÒ<br />

Da quanto detto emerge chiaramente l’effetto condizionante che, in It<strong>al</strong>ia assai più che <strong>al</strong>trove<br />

in Europa, le vicende familiari esercitano sul lavoro della donna. L’evoluzione degli ultimi<br />

decenni sembra avere gradu<strong>al</strong>mente infilato il nostro paese in una via senza uscita: da un<br />

lato la debole presenza femminile nel mercato del lavoro – segn<strong>al</strong>ata come un’importante<br />

componente del ritardo del Paese – d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra la bassissima nat<strong>al</strong>ità, un elemento di debolezza<br />

di primaria rilevanza. Come conciliare la ripresa della nat<strong>al</strong>ità con l’aumento del lavoro?<br />

La depressione demografica dell’It<strong>al</strong>ia non è un fatto eccezion<strong>al</strong>e nel mondo moderno. La<br />

bassa nat<strong>al</strong>ità caratterizza oramai tutto il mondo sviluppato e comincia a diffondersi nel<br />

mondo povero. Se si considerano le generazioni di donne nate <strong>al</strong>la fine degli anni Sessanta<br />

nel mondo ricco – e che oggi hanno concluso il loro ciclo riproduttivo – una media di due<br />

figli viene approssimata o raggiunta in pochissimi paesi: negli Stati Uniti, in Francia, in Scandinavia,<br />

in Irlanda. Nella media dei paesi europei si arriva a 1,6; in Russia, It<strong>al</strong>ia, Spagna,<br />

Germania e Giappone si scende a 1,5 o meno, e le generazioni successive, nate dopo il<br />

1970, appaiono ancora in regresso (si tratta di stime, non avendo questa ancora concluso il<br />

ciclo riproduttivo). Non c’è una «eccezion<strong>al</strong>ità» it<strong>al</strong>iana; esistono però tratti caratteristici<br />

dell’It<strong>al</strong>ia che le eventu<strong>al</strong>i politiche debbono tenere in considerazione se non vogliono f<strong>al</strong>lire<br />

i loro obiettivi. Si dà qui per acquisito il consenso sul fatto che la bassa nat<strong>al</strong>ità – che si<br />

prolunga da un trentennio – produca gravi svantaggi <strong>al</strong>la collettività: squilibri nei trasferimenti<br />

tra generazioni, appesantimento della spesa pubblica, r<strong>al</strong>lentamento della produttività,<br />

il costo di una forte immigrazione compensativa. C’è dunque una convenienza<br />

collettiva in una ripresa delle nascite e nell’avviare politiche che la favoriscano. Ma di questo<br />

si dirà poi. Ciò che invece è meno noto è che le giovani donne e i giovani uomini non<br />

vivono bene le loro vicende riproduttive: se da un lato essi hanno sotto controllo la propria<br />

fecondità – contraccezione e interruzioni di gravidanza permettono di regolare con sufficiente<br />

precisione il momento e il numero delle nascite – d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro ritengono che esistano<br />

forti costrizioni che impongono loro di avere meno figli di quanto vorrebbero. Non c’è armonia<br />

tra scelte e ide<strong>al</strong>i, tra re<strong>al</strong>tà e desideri, tra comportamenti effettivi e aspettative. Questo<br />

può desumersi da una delle più recenti indagini compiute da Eurobarometro (2006) sulle<br />

aspettative riproduttive nei paesi europei: il numero di figli ritenuto ide<strong>al</strong>e o comunque conveniente<br />

<strong>al</strong>la situazione person<strong>al</strong>e, risultava ovunque sensibilmente superiore a quello effettivo.<br />

In It<strong>al</strong>ia, sia tra le donne che tra gli uomini (tra i 25 e i 40 anni) il numero medio di<br />

figli considerato ide<strong>al</strong>e, o person<strong>al</strong>mente conveniente, era pari (<strong>al</strong>l’incirca) a 2, contro un numero<br />

medio effettivo che nel 2006 è stato pari a 1,35 e una discendenza media stimata, per<br />

le donne nate nel 1970, pari a 1,45. Un divario comune ad <strong>al</strong>tri paesi europei, che testimonia<br />

l’esistenza di una diffusa e consistente divergenza tra re<strong>al</strong>tà e aspirazioni. Natur<strong>al</strong>mente<br />

l’interpretazione di ciò che viene considerato ide<strong>al</strong>e, o conveniente, o desiderato<br />

non è senza problemi, e va comunque scontato il peso dello stereotipo della famiglia con<br />

due figli – magari un maschio e una femmina – nelle opinioni dei giovani. Ma non è dubbio<br />

che una serie di costrizioni, molte riconducibili <strong>al</strong> costo dell’<strong>al</strong>levamento, mantengano<br />

la riproduttività inferiore a ciò che le coppie stesse re<strong>al</strong>isticamente vorrebbero avere. Si po-<br />

97<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

trebbe sostenere che una prerogativa fondament<strong>al</strong>e degli individui – avere figli secondo desideri,<br />

capacità e inclinazioni – si trova compressa da vincoli e costrizioni, e pertanto le politiche<br />

volte a rimuoverli beneficerebbero tanto la collettività come gli individui che la<br />

compongono.<br />

Come riuscire a impostare politiche favorevoli <strong>al</strong>la nat<strong>al</strong>ità e, nel contempo, sostenere i livelli<br />

di occupazione femminile che nel nostro paese sono fortemente inferiori a quelli europei?<br />

Si richiede una difficile, quasi acrobatica quadratura del cerchio: <strong>al</strong>le donne si chiede<br />

di far più figli e <strong>al</strong> contempo di accrescere la loro presenza sul mercato del lavoro. Eppure<br />

questa quadratura è possibile, come dimostra l’esperienza dei paesi ricchi. Fino agli anni Ottanta,<br />

la relazione tra occupazione femminile e numero di figli era rigidamente negativa: la<br />

fecondità più <strong>al</strong>ta era propria dei paesi dove le donne erano meno presenti nel mercato del<br />

lavoro. Più cas<strong>al</strong>inghe, con più energie e più tempo dedicato ai figli e forse più inclini ai v<strong>al</strong>ori<br />

tradizion<strong>al</strong>i, più figli. Nei paesi, invece, nei qu<strong>al</strong>i un’<strong>al</strong>ta proporzione di donne era occupata,<br />

sottraendo tempo e forze <strong>al</strong>la famiglia, la nat<strong>al</strong>ità era più bassa, secondo logica e<br />

ragione. Ma a partire dagli anni Ottanta la relazione si è <strong>al</strong>lentata fino a rovesciarsi: oggi<br />

sono i paesi a maggiore occupazione femminile ad avere anche un numero maggiore di<br />

figli e quelli con occupazione debole (come l’It<strong>al</strong>ia) ad avere la riproduttività più bassa<br />

(OCSE 2007). Dunque (<strong>al</strong>meno a livello aggregato) la quadratura sta avvenendo: lavoro e riproduzione<br />

non appaiono inconciliabili. Perché?<br />

La spiegazione che, come sempre avviene nelle scienze soci<strong>al</strong>i, non è mai senza condizioni,<br />

eccezioni e approssimazioni, segue però un filo logico convincente. Le trasformazioni<br />

degli ultimi decenni hanno spinto la donna nel mercato del lavoro per due<br />

fondament<strong>al</strong>i ragioni, già ricordate. La prima è che il lavoro, e quindi l’autonomia economica<br />

che ne segue, è un mezzo fondament<strong>al</strong>e di indipendenza, v<strong>al</strong>orizzazione e promozione<br />

della donna. È anche la migliore assicurazione contro l’instabilità familiare. La<br />

seconda è che il reddito della donna è componente essenzi<strong>al</strong>e dell’equilibrio economico familiare:<br />

in un crescente numero di famiglie, per larga parte del ciclo di vita, è necessario il<br />

concorso di più di una fonte di reddito. Le coppie decidono di mettere <strong>al</strong> mondo un figlio<br />

quando viene raggiunto un certo grado di sicurezza e di stabilità economica e queste richiedono<br />

l’esistenza di una doppia fonte di reddito. È questa la logica che lega il lavoro<br />

femminile <strong>al</strong>la riproduzione: sempre più nelle società contemporanee, l’avere un lavoro è<br />

condizione necessaria per fare un figlio mentre non avere lavoro può essere una causa sufficiente<br />

per posporre o evitare una nascita. Inoltre, nelle coppie dove la donna lavora tende<br />

a diminuire l’asimmetria nella divisione dei ruoli legati <strong>al</strong> genere e cresce l’apporto dato<br />

d<strong>al</strong>l’uomo <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>levamento dei figli.<br />

È quindi possibile che l’aumento dell’attività della donna (che colmerebbe il divario tra le<br />

it<strong>al</strong>iane e le <strong>al</strong>tre donne europee) si accompagni a una ripresa della fecondità. Ma perché<br />

questo avvenga, è necessario il concorso di varie condizioni che non si verificano nel nostro<br />

paese. Per esempio, in It<strong>al</strong>ia, rispetto agli <strong>al</strong>tri paesi europei, sono molto deboli i trasferimenti<br />

pubblici di sostegno <strong>al</strong>le famiglie e ai figli (inclusa l’abitazione, dati Eurostat del<br />

98


2007): si tratta di 4,6 euro ogni 100 trasferiti per fin<strong>al</strong>ità soci<strong>al</strong>i (previdenza, assistenza, sanità),<br />

contro circa 10 (9,8) nella media della UE-15 (più Norvegia, Svizzera e Islanda), 10,6<br />

in Francia e 13 nei paesi scandinavi. Espressi in termini pro capite (trasferimenti per famiglia<br />

e figli per ogni minore di 18 anni), si tratta di 1600 euro <strong>al</strong>l’anno per l’It<strong>al</strong>ia contro 4400<br />

per la Francia e 9000 per la Danimarca. C’è una relazione diretta tra trasferimenti come<br />

sopra definiti e livello di fecondità: a trasferimenti più bassi (It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong>tri paesi mediterranei)<br />

corrisponde una fecondità assai più bassa della media europea, a trasferimenti più <strong>al</strong>ti (Francia,<br />

paesi scandinavi) la fecondità più <strong>al</strong>ta del continente (Grafico 3.5).<br />

Grafico 3.5 - Più figli con una «dote» soci<strong>al</strong>e ricca<br />

Numero medio di figli per donna, 2005<br />

2,2<br />

2,1<br />

2,0<br />

1,9<br />

1,8<br />

1,7<br />

1,6<br />

1,5<br />

1,4<br />

1,3<br />

Svizzera<br />

It<strong>al</strong>ia Portog<strong>al</strong>lo<br />

1,2<br />

4 6 8 10 12 14 16 18<br />

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.<br />

Paesi Bassi<br />

Spagna<br />

Belgio<br />

Grecia<br />

Francia<br />

Austria<br />

% spesa soci<strong>al</strong>e per famiglia, 2007<br />

99<br />

Svezia<br />

Regno Unito<br />

Norvegia<br />

Finlandia<br />

Germania<br />

Islanda<br />

Irlanda<br />

Danimarca<br />

Lussemburgo<br />

I trasferimenti pubblici sono solo una componente del costo di <strong>al</strong>levamento di un figlio, che<br />

le indagini pongono tra il 20 e il 30 per cento del reddito familiare. Ci sono poi <strong>al</strong>tre poste<br />

del bilancio rilevanti, come la qu<strong>al</strong>ità delle strutture pubbliche (nidi, asili, scuole, spazi pubblici,<br />

biblioteche, impianti sportivi); l’organizzazione dei tempi di figli e genitori (orari e c<strong>al</strong>endari<br />

di scuola e di lavoro); l’organizzazione del lavoro; la cooperazione e l’aiuto di <strong>al</strong>tri<br />

familiari; l’equilibrio dei ruoli di genere nella coppia; la sicurezza, l’ordine, la qu<strong>al</strong>ità dell’ambiente<br />

di vita (compresa l’aria che si respira). Queste componenti del costo dei figli mutano<br />

nel tempo per azione privata o pubblica e quest’ultima può intervenire in modo<br />

decisivo su <strong>al</strong>cune di esse (può ovviare, per esempio, <strong>al</strong>l’insufficienza degli asili nido o <strong>al</strong>l’inadeguatezza<br />

di molti spazi scolastici; può migliorare la legislazione del lavoro), assai<br />

meno in <strong>al</strong>tri settori (l’organizzazione dei tempi che richiede forti aggiustamenti anche nel<br />

settore privato). L’azione pubblica può avere anche qu<strong>al</strong>che influenza nell’attutire le asimmetrie<br />

di genere incoraggiando l’assunzione di responsabilità da parte dei padri con misure<br />

legislative, per esempio, che promuovano in modo attivo e diretto il coinvolgimento degli<br />

uomini nelle attività domestiche e di cura, come i periodi di congedi parent<strong>al</strong>i riservati ai<br />

soli padri, sperimentati con qu<strong>al</strong>che successo in <strong>al</strong>cuni paesi. Segn<strong>al</strong>i che hanno anche una<br />

forte v<strong>al</strong>enza simbolica.<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

3.7 POCHI, LENTI, IN RITARDO: I NOSTRI GIOVANI<br />

In It<strong>al</strong>ia i giovani sono pochi di numero; procedono lenti nel cammino che conduce <strong>al</strong>l’autonomia,<br />

e, per conseguenza, l’acquisiscono tardi. Natur<strong>al</strong>mente va qui ripetuto che in una<br />

società più longeva, anche le fasi del ciclo di vita – comunque vengano definite – debbono<br />

ristrutturarsi. È quindi giusto che quella rapida e anche brut<strong>al</strong>e transizione – da bambini ad<br />

adulti – che era propria delle società del passato d<strong>al</strong>le dure ristrettezze, abbia r<strong>al</strong>lentato il<br />

suo passo ed esteso il suo spazio. L’an<strong>al</strong>isi delle tendenze degli ultimi decenni, e il confronto<br />

con <strong>al</strong>tre società d<strong>al</strong> simile grado di sviluppo, fanno ritenere però che il sistema it<strong>al</strong>iano<br />

sia andato, per così dire, troppo avanti.<br />

Che i giovani continuino a essere pochi nei prossimi anni è scritto nella struttura per età attu<strong>al</strong>e<br />

e nel fatto che la fecondità è praticamente ferma da vent’anni e la modestissima ripresa<br />

degli ultimi tempi è in buona parte attribuibile <strong>al</strong>la popolazione immigrata. La popolazione<br />

tra i 15 e i 30 anni, già diminuita da 13,5 a 9,5 milioni nel breve volgere del ventennio<br />

1990-2010 scenderebbe ulteriormente – qu<strong>al</strong>ora non <strong>al</strong>imentata d<strong>al</strong>l’immigrazione – a 8,2<br />

milioni nel 2020 e a 7,7 nel 2030 (Nazioni Unite 2009) (Grafico 3.6). Solo robuste iniezioni<br />

immigratorie possono contrastare questa ulteriore tendenza <strong>al</strong> declino. Una società può<br />

anche ammettere una lenta discesa delle sue dimensioni numeriche, purché ne preveda,<br />

accetti e attenui le conseguenze negative. Ma questo è un <strong>al</strong>tro argomento.<br />

Grafico 3.6 - Una gioventù dimezzata<br />

(Popolazione giovane, milioni di unità)<br />

14<br />

12<br />

10<br />

8<br />

6<br />

1990 1995 2000 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050<br />

Fonte: elaborazioni su dati Nazioni Unite.<br />

100<br />

15-29 anni con migrazione<br />

15-29 anni senza migrazione


Ciò che invece preoccupa è il «lento» ritmo della transizione <strong>al</strong>la vita adulta che è l’aspetto<br />

più inquietante della questione. Si prenda la lunghezza dei processi formativi per quanto attiene<br />

<strong>al</strong>l’istruzione «terziaria» (universitaria). Essa è dannosa per due ragioni. La prima è<br />

l’inefficienza del sistema formativo, che è un costo per la collettività. La seconda è inerente<br />

<strong>al</strong> fatto che un lungo e diluito processo di formazione, non giustificato da percorsi par<strong>al</strong>leli<br />

di esperienze lavorative, rischia di creare un capit<strong>al</strong>e di conoscenze obsoleto che, comunque,<br />

viene messo a frutto in ritardo ed è, per conseguenza, meno appetito d<strong>al</strong> mercato. Evidente<br />

è poi lo svantaggio derivante d<strong>al</strong> lento processo di entrata nel mercato del lavoro. I<br />

tassi di attività giovanili sono sensibilmente diminuiti dai primi anni Novanta e si situano oggi<br />

a livelli nettamente più bassi di <strong>al</strong>tri paesi del Continente. Tra i 15 e i 30 anni ci sono 6,4<br />

milioni di occupati (i dati sono del 2006); se in It<strong>al</strong>ia prev<strong>al</strong>essero i (più <strong>al</strong>ti) tassi di occupazione<br />

prev<strong>al</strong>enti in Europa, avremmo un’occupazione molto più <strong>al</strong>ta. Considerando solo<br />

i maggiori paesi, col «modello britannico» avremmo, tra i giovani, il massimo guadagno, con<br />

1,8 milioni (29%) di occupati in più; col modello francese il guadagno sarebbe il minimo,<br />

con 0,8 milioni in più (12%). Coi modelli spagnolo e tedesco, di occupati in più ne avremmo<br />

1,2 milioni (19%) (Livi Bacci 2008). Natur<strong>al</strong>mente questo è un esercizio meccanico perché<br />

le logiche del mercato del lavoro sono assai complesse, ma lo spazio teorico di crescita dell’occupazione<br />

giovanile è sicuramente assai cospicuo, e, se percorso, le conseguenze in<br />

termini di accelerazione della crescita sarebbero notevoli.<br />

Sulla questione della tardiva uscita dei giovani d<strong>al</strong>la famiglia il dibattito è aperto (Grafico<br />

3.7). Le posizioni degli osservatori, tuttavia, non sono univoche. C’è chi vede nella lunga permanenza<br />

dei giovani in famiglia il risultato di una libera scelta, che conviene a genitori e<br />

figli, che protegge d<strong>al</strong>l’esclusione, migliora lo standard di vita non fosse che per i vantaggi<br />

di sc<strong>al</strong>a della vita in comune, accresce il capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e e ha, tutto sommato, conseguenze<br />

positive. C’è chi non nega <strong>al</strong>cuni di questi indubbi vantaggi, ma li ritiene sovrastati da elementi<br />

negativi. Il prolungarsi della vita in famiglia non è necessariamente il risultato della<br />

libera scelta ma un fenomeno funzion<strong>al</strong>e a una società poco dinamica che lascia scarso<br />

spazio ai giovani. È come un interminabile fidanzamento o come il lungo parcheggio nell’università<br />

– soluzioni di ripiego ma comunque accettate e funzion<strong>al</strong>i <strong>al</strong>lo stato delle cose.<br />

Due sono però gli aspetti decisamente negativi della lunga permanenza in famiglia. In primo<br />

luogo non si attuano per tempo quelle esperienze di vita autonoma che <strong>al</strong>lenano <strong>al</strong>l’indipendenza<br />

e <strong>al</strong>l’iniziativa e che sono sicuramente formative. Inoltre la lunga convivenza con<br />

i genitori tende a riproporre, particolarmente nei figli maschi, le asimmetrie di genere proprie<br />

delle generazioni più vecchie, asimmetrie che – se riprodotte nella successiva vita di coppia<br />

– tendono a inn<strong>al</strong>zare il costo dei figli per le donne, prese nella tenaglia figli-lavoro, e contribuisce<br />

<strong>al</strong>la bassa fecondità. Le indagini confermano che la partecipazione dei figli <strong>al</strong>le attività<br />

domestiche o la condivisione delle spese sono modestissime e che la vita da «figli» è<br />

largamente svincolata d<strong>al</strong>le comuni responsabilità di gestione domestica. Ma l’aspetto negativo,<br />

forse dominante, consiste nella riproduzione delle disuguaglianze soci<strong>al</strong>i. Se la generazione<br />

dei genitori è il princip<strong>al</strong>e provider di benessere dei figli e il princip<strong>al</strong>e<br />

ammortizzatore soci<strong>al</strong>e di cui possono beneficiare, si riproducono, tra le generazioni giovani, 3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

101


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

le disuguaglianze proprie delle generazioni anziane: se queste hanno risorse da trasmettere<br />

– economiche, intellettu<strong>al</strong>i, affettive, di buona s<strong>al</strong>ute – tutto può andar bene. Se non le hanno,<br />

i figli sono gravemente a rischio. Infine il ritardo nelle decisioni di vita comune e riproduttive<br />

ha ricadute negative dirette e indirette sulla nat<strong>al</strong>ità – uno dei punti deboli del Paese.<br />

Grafico 3.7 - I più «bamboccioni»<br />

(Età dei figli che escono d<strong>al</strong>la famiglia, 2007)<br />

32<br />

30<br />

28<br />

26<br />

24<br />

22<br />

20<br />

Finlandia<br />

Francia<br />

Paesi Bassi<br />

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.<br />

Maschi Femmine<br />

Regno Unito<br />

3.8 LA MOBILITÀ SI È CAPOVOLTA<br />

Germania<br />

Belgio<br />

Muoversi sul territorio, mutare domicilio e residenza, entrare e uscire d<strong>al</strong> Paese, costituiscono<br />

un’<strong>al</strong>tra prerogativa fondament<strong>al</strong>e del capit<strong>al</strong>e umano. Sotto il profilo individu<strong>al</strong>e permettono<br />

di migliorare o adattare le proprie condizioni di vita – e quelle del nucleo familiare<br />

– <strong>al</strong>le costrizioni ambient<strong>al</strong>i, <strong>al</strong>le vicende economiche e a quelle soci<strong>al</strong>i. Sotto il profilo economico,<br />

la mobilità determina una migliore <strong>al</strong>locazione delle risorse umane sul territorio.<br />

Intr<strong>al</strong>ci e ostacoli <strong>al</strong>la mobilità inceppano il buon funzionamento del mercato del lavoro e,<br />

sicuramente, non assecondano lo sviluppo. Alla mobilità gener<strong>al</strong>e contribuiscono una componente<br />

interna – essenzi<strong>al</strong>mente libera, come d<strong>al</strong> dettato costituzion<strong>al</strong>e – una componente<br />

comunitaria – anch’essa in linea di principio senza intr<strong>al</strong>ci form<strong>al</strong>i – e una componente internazion<strong>al</strong>e,<br />

fortemente condizionata d<strong>al</strong>la normativa.<br />

Nella prima metà del secolo scorso abbiamo già ricordato le intense migrazioni internazion<strong>al</strong>i,<br />

che si esauriscono nella terza decade del secolo per le politiche restrittive dei paesi<br />

di immigrazione (Stati Uniti nel 1921 e nel 1924 e nel decennio successivo tutte le maggiori<br />

destinazioni degli it<strong>al</strong>iani) e per la crisi economica mondi<strong>al</strong>e. Le migrazioni interne andarono<br />

crescendo, dominate da intensi flussi stagion<strong>al</strong>i in agricoltura e dai processi di inurbamento<br />

(tra il 1901 e il 1951 la popolazione residente nei comuni con oltre 50 mila abitanti<br />

102<br />

Austria<br />

Lussemburgo<br />

Spagna<br />

Portog<strong>al</strong>lo<br />

Grecia<br />

It<strong>al</strong>ia


passò d<strong>al</strong> 21 <strong>al</strong> 30 per cento del tot<strong>al</strong>e). Nel quadriennio 1902-05, i trasferimenti anagrafici<br />

da comune a comune furono circa mezzo milione <strong>al</strong>l’anno, aumentati a 1,3 milioni nel<br />

quinquennio 1936-40, nonostante che la legge contro l’urbanesimo, approvata nel 1939, ne<br />

avesse frenato la crescita (ISTAT 1965).<br />

D<strong>al</strong>la fine della seconda guerra mondi<strong>al</strong>e a oggi possiamo distinguere tre diverse fasi. La<br />

prima, d<strong>al</strong>la fine della guerra <strong>al</strong>l’inizio degli anni Settanta, è caratterizzata da una forte mobilità,<br />

sia interna che internazion<strong>al</strong>e. Quella interna è spinta d<strong>al</strong>la ricostruzione e d<strong>al</strong>la industri<strong>al</strong>izzazione<br />

del Paese, d<strong>al</strong>l’abbandono delle campagne, d<strong>al</strong>la sostenuta<br />

urbanizzazione. Le migrazioni interne si dispiegarono con intense correnti Sud-Nord e Est-<br />

Ovest. Gli spostamenti di residenza da un comune <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro raggiunsero punte massime non<br />

più superate – negli anni Sessanta i trasferimenti anagrafici furono circa 1,6 milioni <strong>al</strong>l’anno.<br />

L’emigrazione, sia verso <strong>al</strong>tri paesi della nascente Comunità Europea, sia verso paesi terzi,<br />

fu molto <strong>al</strong>ta (con una emigrazione netta, nel ventennio 1951-71, pari a quasi due milioni<br />

di unità). Nella seconda fase, d<strong>al</strong>l’inizio degli anni Settanta <strong>al</strong>l’inizio degli anni Novanta, la<br />

mobilità declina e poi ristagna. Quella interna raggiunge i livelli minimi, quella comunitaria<br />

è irrilevante e quella con i paesi terzi cambia di segno, da negativa diventa positiva, ma<br />

coinvolge flussi modesti. Nell’ultima fase, tuttora in corso, la mobilità ha una forte ripresa<br />

nelle sue varie componenti. Quella interna, pur non recuperando i livelli degli anni Sessanta,<br />

cresce quasi senza interruzioni; quella internazion<strong>al</strong>e – sia con i paesi comunitari o<br />

neocomunitari, sia con paesi terzi – si espande in maniera imprevista. Con l’espansione a<br />

Est e a Sud dell’Unione Europea i flussi in arrivo con provenienza dai paesi di nuova «accessione»<br />

cambiano (form<strong>al</strong>mente) la loro natura giuridica. Nel complesso, nella decade attu<strong>al</strong>e<br />

e in quella precedente, la mobilità internazion<strong>al</strong>e diventa la componente demografica<br />

e soci<strong>al</strong>e di gran lunga più dinamica del nostro paese: nell’ultimo ventennio il s<strong>al</strong>do migratorio<br />

netto è stato positivo per circa 4 milioni.<br />

Oltre <strong>al</strong>le tendenze sopra delineate, si stanno verificando <strong>al</strong>tri mutamenti struttur<strong>al</strong>i della mobilità<br />

che vanno presi in considerazione nell’an<strong>al</strong>isi del fenomeno. Il primo è costituito d<strong>al</strong><br />

pendolarismo, che ha varie forme e varie cadenze. Si sta formando, oltre a quello tradizion<strong>al</strong>e<br />

di prossimità, anche un pendolarismo di lungo raggio d’importanza crescente legato a<br />

particolari attività economiche (le costruzioni, per esempio). Si sta poi rafforzando un <strong>al</strong>tro<br />

tipo di mobilità consistente nella plur<strong>al</strong>ità (nel corso dell’anno) dei luoghi di effettiva dimora,<br />

per motivi di lavoro, studio o <strong>al</strong>tro. Il Censimento del 2001 rivelò che oltre 4 milioni<br />

di persone, nell’anno precedente <strong>al</strong> Censimento, avevano dimorato in un luogo diverso da<br />

quello di residenza per più di tre mesi (De Santis 2010).<br />

Nel complesso, i mutamenti degli ultimi due decenni indicano una mobilità accresciuta sul<br />

territorio che si articola in nuove, o rafforzate, forme di spostamenti. Tuttavia questo avviene<br />

in presenza di fattori di fondo che, invece, tendono a frenare la mobilità. Alcuni sono fattori<br />

struttur<strong>al</strong>i, come l’invecchiamento della popolazione e la conseguente diminuzione<br />

delle fasce di età giovani e giovani adulte che <strong>al</strong>la mobilità hanno maggiore propensione.<br />

O, ancora, come l’accresciuta proporzione di famiglie che abitano in casa di proprietà, fatto 3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

103


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

che rende più costoso e meno conveniente spostarsi. O la maggior proporzione dei nuclei<br />

familiari con più di un occupato, che rende meno facile la migrazione per motivi di lavoro.<br />

O, infine, un forte radicamento soci<strong>al</strong>e e familiare che tende ad accrescere il costo-opportunità<br />

della migrazione. Eppure questa rinnovata mobilità, anche interna, non è riuscita ad<br />

attenuare significativamente le grandi differenze che esistono tra le varie parti del Paese, ad<br />

esempio in termini di disoccupazione o di reddito pro capite. Forse perché si tratta di mobilità<br />

prev<strong>al</strong>entemente di breve o brevissimo raggio.<br />

In questo quadro di fondo, l’immigrazione costituisce il fenomeno di maggiore importanza dell’ultimo<br />

ventennio: vi sono ragioni struttur<strong>al</strong>i, come si dirà poi, che fanno ritenere inevitabili<br />

<strong>al</strong>ti flussi di immigrazione nel <strong>futuro</strong>. Nel 2008 su una forza lavoro di 23,2 milioni, 1,9 erano<br />

stranieri regolarmente residenti (8,2%). Tuttavia, se si aggiungono gli stranieri regolari, ma non<br />

residenti, e quelli irregolari (due categorie non considerate d<strong>al</strong>le indagini ISTAT), gli stranieri<br />

costituiscono più del 10 per cento della forza lavoro. Come ben noto la quota maggiore degli<br />

stranieri si accentra nel Centro Nord e, in genere, nelle aree con bassa disoccupazione; gli stranieri<br />

hanno tassi di attività più elevati degli it<strong>al</strong>iani; hanno una «occupabilità» maggiore <strong>al</strong><br />

crescere della durata della loro permanenza in It<strong>al</strong>ia; sono maggiormente mobili.<br />

L’esperienza dei paesi ricchi con una tradizione migratoria più lunga di quella dell’It<strong>al</strong>ia<br />

prova che, nelle sue linee gener<strong>al</strong>i, l’immigrazione ha una funzione più di «complementarietà»<br />

che di «concorrenzi<strong>al</strong>ità» del lavoro autoctono. Tuttavia questa non è una verità assoluta<br />

e va declinata in funzione dell’area geografica, del settore e delle vicende<br />

economiche. Per esempio, <strong>al</strong> Centro Nord esiste, senza dubbio, una forte complementarietà<br />

tra lavoro autoctono e lavoro immigrato. Nel Mezzogiorno, invece, sia nel mercato del<br />

lavoro agricolo che in quello dei servizi emergono segn<strong>al</strong>i di una concorrenza tra immigrati<br />

e autoctoni, e molte attività agricole debbono la loro sopravvivenza <strong>al</strong>la disponibilità di manodopera<br />

straniera sottopagata e sfruttata, come recentissimi tristi episodi (Rosarno) hanno<br />

posto sotto gli occhi di tutti. C’è un effetto di sostituzione dovuto <strong>al</strong>l’irregolarità (che non può<br />

definirsi complementarietà) con immigrati che accettano condizioni di lavoro e di remunerazione<br />

inaccettabili dai lavoratori loc<strong>al</strong>i (Bonifazi e Rinesi 2010).<br />

Un ruolo complementare è anche quello del lavoro domestico, in sostegno delle famiglie<br />

con figli piccoli o con anziani non autosufficienti. Il lavoro straniero permette a una quota<br />

rilevante di donne it<strong>al</strong>iane di rimanere nel mercato del lavoro. E poiché le lavoratrici it<strong>al</strong>iane<br />

che utilizzano queste forme di collaborazione domestica spesso hanno <strong>al</strong>te qu<strong>al</strong>ificazioni,<br />

la loro entrata, o permanenza, nelle attività produttive è decisamente positiva per il sistema<br />

economico.<br />

Molto, nel <strong>futuro</strong>, dipenderà d<strong>al</strong>le politiche migratorie e d<strong>al</strong> modello economico perseguito.<br />

Per le prime – senza entrare in un’an<strong>al</strong>isi complessa – molto dipenderà d<strong>al</strong> fatto che prev<strong>al</strong>ga<br />

un modello di immigrazione per lavoro, di breve periodo, legato <strong>al</strong>la durata dei contratti e<br />

<strong>al</strong>la ricerca di una difficile sincronia col ciclo economico, o un’immigrazione che privilegi<br />

stanziamenti definitivi o di lungo periodo. Nel primo caso si accentuerà la funzione com-<br />

104


plementare dell’immigrazione e la sua natura fluidificante per il mercato del lavoro, accentuandone<br />

la mobilità, ma precludendo o scoraggiando le migrazioni ad <strong>al</strong>ta qu<strong>al</strong>ità di<br />

capit<strong>al</strong>e umano. Nel secondo caso l’immigrazione può essere maggiormente selettiva di<br />

componenti di qu<strong>al</strong>ità, viene favorita l’inclusione, ma è più basso il contributo <strong>al</strong>la flessibilità<br />

del mercato del lavoro.<br />

3.9 DAGLI EMIGRANTI AGLI IMMIGRATI<br />

L’immigrazione è il fenomeno soci<strong>al</strong>e di gran lunga di maggior forza di questo inizio di millennio.<br />

Le cifre aggregate sono note: nei primi anni Novanta del Novecento gli immigrati «regolari»<br />

si aggiravano sul milione; la Caritas c<strong>al</strong>colava che <strong>al</strong>l’inizio del 2009 i «regolarmente<br />

soggiornanti» fossero 4,3 milioni (di cui 3,9 milioni residenti iscritti in anagrafe, e <strong>al</strong>tri 0,4<br />

milioni non ancora registrati in anagrafe). Un anno più tardi, è presumibile che il tot<strong>al</strong>e degli<br />

«stranieri» nel nostro paese superi i 5 milioni, inclusi varie centinaia di migliaia di irregolari.<br />

La parola «stranieri» è tra virgolette perché nel lessico comunitario essa si riferisce ai<br />

cittadini che non abbiano cittadinanza in uno dei 27 paesi della UE, e pertanto dai 3,9 milioni<br />

di residenti andrebbero tolti 1,1 milioni di cittadini comunitari (dei qu<strong>al</strong>i 0,8 milioni<br />

erano rumeni) che vanno oramai considerati <strong>al</strong>la stregua di migranti interni.<br />

La crisi economica ha sicuramente avuto effetti assai negativi sul processo migratorio e non<br />

solo perché i migranti, più degli it<strong>al</strong>iani, sono stati colpiti d<strong>al</strong>la disoccupazione. Ma anche<br />

perché ha interrotto o invertito – speriamo temporaneamente – i processi di integrazione;<br />

perché ha fatto ricadere nell’irregolarità molti di coloro che hanno perso col lavoro la possibilità<br />

di rinnovo del permesso di soggiorno; perché ha consigliato il governo a non rinnovare<br />

il decreto flussi per il 2009, lasciando a secco non pochi settori dell’economia e, per<br />

ciò stesso, rafforzando flussi irregolari. Ma, passata la crisi, l’immigrazione – che non è fenomeno<br />

accident<strong>al</strong>e, ma struttur<strong>al</strong>e – riprenderà il suo corso. V<strong>al</strong>e la pena di discutere due<br />

argomenti di gran rilievo per il <strong>futuro</strong> del Paese. Il primo ha a che fare con le dimensioni future<br />

dei flussi d’immigrazione. Il secondo riguarda la funzion<strong>al</strong>ità dell’immigrazione <strong>al</strong>lo<br />

sviluppo e la natura delle politiche migratorie più adatte a rendere l’immigrazione un gioco<br />

a somma positiva.<br />

Veniamo <strong>al</strong> primo dei due punti. Nell’ultimo ventennio l’immigrazione netta annua è stata<br />

dell’ordine di 200 mila unità <strong>al</strong>l’anno. Nello stesso periodo, la popolazione in età attiva (tra<br />

i 20 e i 65 anni) nata in It<strong>al</strong>ia è cresciuta annu<strong>al</strong>mente di 50 mila unità. Non è quindi un<br />

«vuoto» demografico quello che ha attratto immigrazione, ma semmai la crescita economica,<br />

ancorché debole; la forte segmentazione del mercato del lavoro; la richiesta di mobilità,<br />

scarsamente presente nella manodopera autoctona. Nel ventennio 2010-2030, invece,<br />

la popolazione attiva «autoctona» – cioè ipotizzando un’immigrazione pari a zero – diminuirebbe<br />

di oltre un quarto di milione <strong>al</strong>l’anno (Grafico 3.8). Una depressione demografica<br />

notevole che non potrà che essere contrastata – <strong>al</strong>meno parzi<strong>al</strong>mente – da consistenti flussi<br />

105<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

di immigrazione, pena un forte ridimensionamento dell’economia. Si noti che una simulazione<br />

indica che il c<strong>al</strong>o delle forze di lavoro – tra il 2010 e il 2030 – potrebbe essere contrastato<br />

solo da un irre<strong>al</strong>istico aumento (pari a 10 anni) dell’età <strong>al</strong> pensionamento e da un<br />

aumento dei tassi di attività di uomini e donne ai più <strong>al</strong>ti livelli oggi riscontrati in Europa.<br />

Natur<strong>al</strong>mente, l’inevitabile <strong>al</strong>ta domanda di lavoro straniero potrebbe essere moderata (ma<br />

sicuramente non annullata) da politiche industri<strong>al</strong>i orientate a una radic<strong>al</strong>e conversione del<br />

nostro sistema economico verso attività a minore intensità di lavoro e <strong>al</strong>to contenuto tecnologico<br />

e da una riforma del welfare familiare che <strong>al</strong>lentasse la domanda di sostegno domestico.<br />

Tuttavia, l’effetto moderatore di questi mutamenti struttur<strong>al</strong>i si potrebbe avvertire<br />

solo gradu<strong>al</strong>mente e nel lungo periodo.<br />

Grafico 3.8 - Il c<strong>al</strong>o della popolazione attiva<br />

(Milioni di unità)<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

Fonte: elaborazioni su dati Nazioni Unite.<br />

20-64 anni con migrazione<br />

20-64 anni senza migrazione<br />

1990 1995 2000 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050<br />

Il secondo argomento di discussione riguarda il modello di immigrazione più funzion<strong>al</strong>e<br />

<strong>al</strong>lo sviluppo. Nei paesi ricchi si va consolidando un convincimento che prende varie forme<br />

nelle politiche attuate. In sostanza questo si traduce nel privilegiare le migrazioni temporanee<br />

e la cosiddetta «migrazione circolare»: forme di migrazione limitate nel tempo (non<br />

quelle stagion<strong>al</strong>i, che danno buoni risultati) e comunque cadenzate da ritorni in patria. La<br />

giustificazione uffici<strong>al</strong>e per queste politiche è che si tratta di forme di migrazione che limitano<br />

le perdite dovute <strong>al</strong> brain drain nei paesi di partenza e massimizzano le rimesse per coloro<br />

che rimangono in patria. Ma c’è anche una ragione non uffici<strong>al</strong>e, ma assai più rilevante,<br />

che consiste nella convinzione che la domanda di lavoro, speci<strong>al</strong>mente per le mansioni<br />

meno speci<strong>al</strong>izzate, possa essere soddisfatta da una migrazione di natura temporanea. Così<br />

da congiungere un doppio beneficio: quello di minimizzare l’impatto sui servizi pubblici,<br />

l’assistenza soci<strong>al</strong>e e quella sanitaria da un lato, e quello di evitare che persone con bassi<br />

livelli di profession<strong>al</strong>ità e d’istruzione – e le loro famiglie – che si ritengono meno facili a<br />

integrarsi, divengano residenti permanenti. Le istituzioni europee stanno sostenendo una<br />

cosiddetta «Politica di coerenza per lo sviluppo» per le migrazioni nella qu<strong>al</strong>e gli sposta-<br />

106


menti temporanei e «circolari» hanno una funzione centr<strong>al</strong>e. Su questo tema sono da condividere<br />

le conclusioni dell’OCSE sulle migrazioni internazion<strong>al</strong>i: “È illusorio attendersi che<br />

i migranti rientrino in patria solo perché così possono fare senza compromettere la loro posizione<br />

nel paese di immigrazione. La recente esperienza migratoria suggerisce che questo<br />

è un fenomeno poco rilevante, speci<strong>al</strong>mente se l’intera famiglia è coinvolta nella migrazione<br />

e quando le condizioni economiche nei paesi di origine sono difficili” (OCSE 2008a).<br />

Una parte considerevole – spesso maggioritaria – dei migranti temporanei e circolari nei<br />

paesi ricchi finisce per restare nel paese di immigrazione. La gradu<strong>al</strong>e integrazione nella<br />

vita soci<strong>al</strong>e e nel mercato del lavoro, i ricongiungimenti familiari, la nascita di figli, gli interessi<br />

convergenti dei migranti e dei datori di lavoro fanno sì che l’immigrato metta radici.<br />

Accesso <strong>al</strong> diritto di voto amministrativo, cittadinanza poi, sono norm<strong>al</strong>i «sbocchi» di questo<br />

percorso. Nei paesi a forte tradizione immigratoria, una proporzione elevata degli immigrati<br />

regolari a lungo residenti consegue la cittadinanza. La società, cioè, è capace di<br />

«convertire» l’immigrato in cittadino.<br />

Si noti che le esperienze di immigrazione di «corto periodo» (come i gastarbeiter in Germania;<br />

gli stagion<strong>al</strong>i negli Stati Uniti, ecc.) sono f<strong>al</strong>lite nel loro intento (essenzi<strong>al</strong>mente:<br />

quello di non rendere permanente ciò che doveva essere temporaneo) perché una proporzione<br />

elevata degli immigrati destinati <strong>al</strong> ritorno <strong>al</strong> paese di origine hanno finito per restare<br />

nel paese di adozione con l’ampio consenso delle forze produttive.<br />

Uno stato moderno con necessità struttur<strong>al</strong>e d’immigrazione – come l’It<strong>al</strong>ia – richiede varie<br />

figure di migranti, dagli stagion<strong>al</strong>i nelle campagne a coloro che optano per periodi di lavoro<br />

di breve durata; da quelli che sono <strong>al</strong>la ricerca di lunghe esperienze a coloro che ambiscono<br />

un radicamento definitivo. Ma sono queste ultime categorie di migranti quelle che più<br />

contribuiscono <strong>al</strong>lo sviluppo; quelle più propense a integrarsi; quelle che risparmiano e che<br />

investono sul <strong>futuro</strong> delle seconde generazioni.<br />

3.10 TRE VIE PER RENDERE L’IMMIGRAZIONE VINCENTE<br />

Quanto detto suggerisce <strong>al</strong>cune linee per le future politiche migratorie. Primo: contrasto effettivo<br />

<strong>al</strong>l’irregolarità, che è fonte di debolezza e vulnerabilità dell’immigrato, aumenta i rischi<br />

di conflitto, inasprisce le disuguaglianze, <strong>al</strong>imenta l’illeg<strong>al</strong>ità. È una lotta che<br />

sicuramente sarà perduta se vengono imboccate solo vie di natura securitaria ma che può<br />

vincersi per tre vie tra loro complementari. La prima, di lungo periodo, passa per la riduzione<br />

a livelli fisiologici dell’economia sommersa, che si avv<strong>al</strong>e di lavoro nero, del qu<strong>al</strong>e gli immigrati<br />

irregolari sono fornitori di elezione. R<strong>al</strong>lentare il contrasto <strong>al</strong>l’economia sommersa<br />

significa favorire l’irregolarità. La seconda via passa per una riforma delle regole di ammissione<br />

leg<strong>al</strong>e, oggi imperniate sulla chiamata «diretta o numerica» di un cittadino straniero<br />

sconosciuto. Questa via impervia non viene gener<strong>al</strong>mente percorsa d<strong>al</strong>le famiglie, e da molti<br />

107<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

piccoli soggetti economici che optano per l’impiego in nero di persone arrivate con regolari<br />

visti, ma overstayers, e quindi irregolari. Varie sono le proposte sul tappeto (inclusa la<br />

concessione di visti per ricerca di lavoro garantiti da sponsor istituzion<strong>al</strong>i o da garanzie finanziarie)<br />

che possono essere sperimentate e c<strong>al</strong>ibrate <strong>al</strong>le necessità del Paese. La terza via,<br />

apparentemente più semplice, passa per una radic<strong>al</strong>e riforma del sistema amministrativo<br />

per la concessione e il rinnovo dei permessi di soggiorno (la cui v<strong>al</strong>idità va <strong>al</strong>lungata) oggi<br />

assurdamente inefficiente e costosa, essa stessa fucina di irregolarità oltreché di indicibili travagli<br />

per gli immigrati.<br />

Una seconda linea per le future politiche migratorie consiste nel disegnare un coerente percorso<br />

di integrazione per quel nucleo centr<strong>al</strong>e e prev<strong>al</strong>ente di immigrati che prevedono un<br />

insediamento di lungo periodo. Favorire l’acquisizione del diritto di voto nelle elezioni loc<strong>al</strong>i;<br />

assicurare l’uguaglianza effettiva di diritti (e doveri) con gli autoctoni; eliminare le discriminazioni;<br />

assegnare automaticamente la cittadinanza it<strong>al</strong>iana ai figli di residenti stranieri<br />

(il 13 per cento dei nati nel 2009 erano figli di coniugi stranieri); rendere chiaro e percorribile<br />

il cammino – attu<strong>al</strong>mente contorto – verso l’acquisizione della cittadinanza. Si tratta in<br />

prev<strong>al</strong>enza di misure legislative da prendersi in par<strong>al</strong>lelo col rafforzamento delle politiche<br />

soci<strong>al</strong>i per l’integrazione (che richiedono risorse, oggi scarse, e buone pratiche, che invece<br />

esistono) che evitino gli insediamenti segregati; forniscano politiche attive di formazione e<br />

lavoro; sostengano l’apprendimento della lingua – soprattutto d<strong>al</strong>le donne; evitino l’abbandono<br />

e il ritardo scolastico.<br />

Una terza linea di azione per le politiche migratorie del <strong>futuro</strong> può consistere nell’abbandonare<br />

l’attu<strong>al</strong>e sistema basato sull’ammissione del «lavoratore», titolare di un contratto e<br />

atteso da un posto di lavoro, in favore di un <strong>al</strong>tro sistema incentrato sull’immigrato in quanto<br />

persona. Nel sistema attu<strong>al</strong>e (in It<strong>al</strong>ia e in gran parte dell’Europa) <strong>al</strong> candidato immigrato si<br />

chiede «che lavoro sai o puoi fare»? In teoria, ammissione o rifiuto, dipendono da una v<strong>al</strong>utazione<br />

delle necessità del mercato del lavoro, riflesse d<strong>al</strong> numero («quote») di immigrati<br />

che si intende ammettere nell’anno (o periodo considerato). Si noti che l’<strong>al</strong>tra categoria –<br />

oltre a quella dei lavoratori – di princip<strong>al</strong>e accesso leg<strong>al</strong>e è quella dei familiari <strong>al</strong> seguito del<br />

lavoratore (o in seguito ricongiunti con esso): anche loro – indirettamente – dipendono d<strong>al</strong><br />

mercato del lavoro. Inoltre, una volta entrati nel paese come familiari potranno a loro volta<br />

inserirsi nel mercato del lavoro e così i loro figli una volta cresciuti. L’esperienza insegna<br />

quanto <strong>al</strong>eatorie siano le previsioni della domanda del mercato del lavoro; come le crisi sopraggiungano<br />

improvvise; la richiesta di determinate profession<strong>al</strong>ità possa variare anche velocemente,<br />

cosicché appiattire – in pratica – le politiche migratorie sulle presunte necessità<br />

del mercato del lavoro non sia <strong>al</strong>la lunga né efficiente né utile.<br />

Si può perciò pensare di chiedere <strong>al</strong>l’immigrato non tanto «cosa sai fare» o «che lavoro ti<br />

appresti a fare nel nostro paese», ma piuttosto «chi sei» e «qu<strong>al</strong> è il tuo programma di vita».<br />

Non è (solo) l’esistenza di un posto di lavoro che determina l’ammissione dell’immigrato,<br />

ma anche la qu<strong>al</strong>ità del capit<strong>al</strong>e umano, la capacità e la volontà di inclusione. L’immigrazione<br />

non è una protesi temporanea di una società anchilosata che stenta a muoversi, ma<br />

108


un innesto o un trapianto, spesso permanente (Livi Bacci 2010b). Alcuni paesi – Austr<strong>al</strong>ia,<br />

Nuova Zelanda, Canada fuori d’Europa, e da poco tempo Gran Bretagna e Danimarca in Europa<br />

– hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, speci<strong>al</strong>izzazione,<br />

conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano<br />

in un punteggio, o v<strong>al</strong>utazione, dell’ammissibilità dei candidati <strong>al</strong>l’immigrazione. L’esito<br />

norm<strong>al</strong>e del processo di inclusione, in queste società, è l’acquisizione della cittadinanza, e<br />

questo avviene – effettivamente – per la maggioranza degli immigrati.<br />

Natur<strong>al</strong>mente, vi sono difficoltà concrete inerenti a un cambio di politiche nella direzione<br />

sopra indicata. La prima riguarda la determinazione di quegli elementi del capit<strong>al</strong>e umano<br />

individu<strong>al</strong>e – o del nucleo familiare – favorevoli ai processi di inclusione di lungo periodo.<br />

Questo processo deve essere fatto assicurando che non entrino nella v<strong>al</strong>utazione – nemmeno<br />

surrettiziamente – elementi discriminatori. La seconda difficoltà sta nell’accertamento,<br />

v<strong>al</strong>utazione o misurazione delle qu<strong>al</strong>ità e caratteristiche individu<strong>al</strong>i. Alcune sono facilmente<br />

verificabili, come quelle anagrafiche (età, stato civile, figli); <strong>al</strong>tre possono essere accertate<br />

con adeguati strumenti (istruzione, cultura, conoscenza della lingua, capacità profession<strong>al</strong>i,<br />

risorse economiche); <strong>al</strong>tre ancora possono essere v<strong>al</strong>utate solo indirettamente (disponibilità<br />

<strong>al</strong>l’inclusione). La terza difficoltà consiste nella determinazione del volume dei flussi, le cui<br />

dimensioni dovrebbero essere v<strong>al</strong>utate sulle necessità di lungo periodo (con clausole di s<strong>al</strong>vaguardia<br />

per situazioni particolari). Considerando, per esempio, la convenienza di evitare<br />

un declino demografico che sbilanci eccessivamente la struttura per età, o che riduca eccessivamente<br />

la forza di lavoro (tenendo presente che gli immigrati hanno tassi di attività più<br />

<strong>al</strong>ti degli autoctoni). V<strong>al</strong>utando la capacità del sistema di provvedere risorse e strutture necessarie<br />

per i processi di inclusione e integrazione. Difficoltà non insormontabili, e non<br />

maggiori di quelle inerenti <strong>al</strong>l’attu<strong>al</strong>e programmazione dei flussi, richiesta d<strong>al</strong>la legge, ma<br />

in pratica lettera morta.<br />

3.11 UNA MOLLA SCARICA?<br />

Per larga parte del Novecento, le prerogative demografiche che stanno <strong>al</strong>la base del capit<strong>al</strong>e<br />

umano si sono rafforzate e hanno sostenuto lo sviluppo. La statura e il peso degli it<strong>al</strong>iani<br />

sono aumentati – e con essi forza e resistenza fisica; la longevità si è <strong>al</strong>lungata; la<br />

qu<strong>al</strong>ità della sopravvivenza è migliorata; le disabilità diminuite. La diminuzione della nat<strong>al</strong>ità<br />

ha «liberato» lunghi spazi del ciclo di vita delle donne d<strong>al</strong> peso della gravidanza e del<br />

puerperio, rendendole disponibili per <strong>al</strong>tre attività e facilitando l’entrata nel mercato del lavoro<br />

e facendo prev<strong>al</strong>ere le scelte riproduttive rispetto <strong>al</strong>le costrizioni dettate d<strong>al</strong>la natura o<br />

d<strong>al</strong>la tradizione. La mobilità si è accresciuta per il miglioramento del sistema dei trasporti e<br />

delle comunicazioni in genere. La struttura per età relativamente giovane ha mantenuto una<br />

«piramide» demografica nella qu<strong>al</strong>e le generazioni dei giovani prev<strong>al</strong>evano sulle persone in<br />

età matura, adulta e anziana.<br />

109<br />

3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO


3. LA POPOLAZIONE MUOVE LA FRONTIERA DELLO SVILUPPO<br />

Con un po’ di retorica potremmo dire che il vento della demografia ha cessato di soffiare in<br />

poppa <strong>al</strong> vascello It<strong>al</strong>ia. Non più guadagni increment<strong>al</strong>i cospicui delle prerogative individu<strong>al</strong>i:<br />

la sopravvivenza può ancora migliorare – ma solo <strong>al</strong>le età molto anziane; l’emergere<br />

di nuove condizioni patologiche soci<strong>al</strong>i – obesità, depressione – può incrinare i vantaggi accumulati<br />

d<strong>al</strong>le ultime generazioni. La nat<strong>al</strong>ità bassissima significa nel concreto che le nuove<br />

condizioni di vita non consentono <strong>al</strong>le coppie di avere il numero di figli desiderato, e che<br />

le «aspettative» riproduttive vengono disilluse da nuove costrizioni. La mobilità interna è depressa,<br />

anche se in lieve ripresa, intr<strong>al</strong>ciata da scelte abitative (proprietà e costi di transazione<br />

elevati delle abitazioni) che la ingessano invece di favorirla. I giovani hanno perso prerogative<br />

e si inseriscono con ritardo nel circuito della vita soci<strong>al</strong>e ed economico.<br />

Per contrastare questa dinamica le «politiche» possono sicuramente fare qu<strong>al</strong>cosa. Esse debbono<br />

puntare – soprattutto – in tre direzioni, in parte complementari. In primo luogo debbono<br />

restituire ai giovani le prerogative che hanno perduto per strada: accelerare i percorsi<br />

formativi; favorire le esperienze lavorative precoci miste <strong>al</strong>lo studio; moltiplicare le esperienze<br />

di studio o di lavoro <strong>al</strong>l’estero; ridimensionare le barriere di entrata <strong>al</strong>le professioni,<br />

<strong>al</strong>l’imprenditoria, <strong>al</strong> credito; favorire l’affitto rispetto <strong>al</strong>la proprietà; ristrutturare il sistema di<br />

welfare. Anche l’aver figli è una prerogativa, la cui espressione è rimandata a fasi troppo tardive<br />

del ciclo di vita. Si tratta di mettere in campo non «politiche giovanili» (quasi sempre<br />

di mero annuncio o solo settori<strong>al</strong>i) ma politiche «per il Paese» che costano molte risorse e<br />

debbono spaziare a 360 gradi.<br />

La seconda direttrice delle politiche deve tendere ad assicurare che lavoro e riproduzione<br />

divengano «inscindibili» e che sia sorte norm<strong>al</strong>e per ogni donna avere figli ed essere presente<br />

nel mercato del lavoro soddisfacendo le proprie prospettive riproduttive.<br />

La terza direttrice riguarda le politiche migratorie, dell’inserimento, dell’integrazione, della<br />

cittadinanza. Un paese demograficamente depauperato come il nostro farebbe un coloss<strong>al</strong>e<br />

errore strategico nel puntare sull’immigrazione di breve periodo, volta solo a rimediare<br />

<strong>al</strong>le strozzature del mercato del lavoro, ostacolando il radicamento (che poi – come l’esperienza<br />

storica dimostra – avviene ugu<strong>al</strong>mente). Deve, invece, porre le condizioni perché<br />

una parte consistente dell’immigrazione sia di insediamento di lunga durata – o per la vita<br />

– e perché sia possibile trasformare gli immigrati in cittadini, così come è avvenuto per tutti<br />

i paesi dell’occidente che hanno una lunga storia d’immigrazione. E far sì che questa componente<br />

non si trasformi in una categoria permanentemente sub<strong>al</strong>terna e con orizzonti bloccati.<br />

Solo così il fenomeno migratorio sarà, davvero, un gioco a somma positiva.<br />

110


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

Carlo Lottieri, Jacopo Perego e Carlo Stagnaro<br />

L’It<strong>al</strong>ia è il paese meno libero d’Europa, d<strong>al</strong> punto di vista economico. Le nostre imprese, in<br />

una sc<strong>al</strong>a da zero a cento godono di una libertà pari a 35, ben sotto la media europea (57)<br />

e a distanza sider<strong>al</strong>e d<strong>al</strong> paese più libero, l’Irlanda (74). Questo è quanto emerge d<strong>al</strong>l’Indice<br />

della libertà di intrapresa, sviluppato d<strong>al</strong>l’Istituto Bruno Leoni.<br />

L’Indice della libertà di intrapresa si propone di misurare gli spazi di libera iniziativa presenti<br />

nelle diverse re<strong>al</strong>tà del continente europeo, con l’obiettivo di cogliere in che modo il sistema<br />

regolamentare favorisca oppure ostacoli la produzione di ricchezza, l’innovazione,<br />

la creazione di posti di lavoro. L’indicatore sintetico raccoglie informazioni su vari aspetti –<br />

tassazione, spesa pubblica, regolamentazione, qu<strong>al</strong>ità delle norme, legislazione lavoristica,<br />

ecc. – <strong>al</strong>lo scopo di confrontare l’attrattività delle diverse economie.<br />

In relazione <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia, l’aspetto più clamoroso riguarda il fatto che il nostro 35 – sebbene rispecchi<br />

una re<strong>al</strong>tà relativamente variegata – non è il frutto della media tra v<strong>al</strong>ori molto <strong>al</strong>ti<br />

e molto bassi, ma dipende d<strong>al</strong> fatto che, per ciascuna delle cinque aree di an<strong>al</strong>isi, l’It<strong>al</strong>ia si<br />

colloca nelle ultime posizioni in graduatoria (con la significativa eccezione della libertà del<br />

lavoro). In particolare, il 35 di libertà d’intrapresa rispecchia una pessima performance complessiva<br />

(Tabella 4.1): nella libertà d<strong>al</strong> fisco l’It<strong>al</strong>ia si posiziona <strong>al</strong>l’ultimo posto con 31; nella<br />

libertà d<strong>al</strong>lo Stato raggiunge 42 e solo quattro paesi fanno peggio (Francia, Grecia, Ungheria<br />

e Portog<strong>al</strong>lo); nella libertà d’impresa (37) il Paese è penultimo, prima della Grecia; nella<br />

libertà d<strong>al</strong>la regolazione è ultimo sfiorando 18. Unica area di relativo successo è la libertà<br />

del lavoro, dove l’It<strong>al</strong>ia si colloca <strong>al</strong> sedicesimo posto con 48, davanti ad <strong>al</strong>tri otto paesi e<br />

molto vicina <strong>al</strong> v<strong>al</strong>ore medio per l’intera UE (54).<br />

Nel nostro paese, l’aspetto più critico riguarda la libertà d<strong>al</strong>la regolazione, ossia la qu<strong>al</strong>ità<br />

di norme e regole e l’efficienza e la performance del settore pubblico. Questo risultato è singolarmente<br />

coerente col v<strong>al</strong>ore riscontrato per la pubblica amministrazione nell’Indice delle<br />

liber<strong>al</strong>izzazioni dell’Istituto Bruno Leoni (Arrigo 2009): il risultato che viene lì stimato (40,<br />

rispetto <strong>al</strong> benchmark del Regno Unito) si basa su una serie di indicatori relativi non solo <strong>al</strong><br />

risultato dei servizi della PA, ma anche <strong>al</strong>la sua organizzazione interna e <strong>al</strong>la struttura dei<br />

Carlo Lottieri, Direttore Teoria Politica dell’Istituto Bruno Leoni.<br />

Jacopo Perego, Fellow dell’Istituto Bruno Leoni.<br />

Carlo Stagnaro, Direttore Ricerche e Studi dell’Istituto Bruno Leoni.<br />

111<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

costi. Tuttavia, il punto di caduta è sostanzi<strong>al</strong>mente lo stesso: l’It<strong>al</strong>ia si posiziona penultima<br />

in classifica, seguita solo d<strong>al</strong>la Grecia.<br />

Tabella 4.1 - It<strong>al</strong>ia in coda nella libertà di intrapresa<br />

Tot<strong>al</strong>e Libertà Libertà Libertà Libertà Libertà d<strong>al</strong>la<br />

d<strong>al</strong> fisco d<strong>al</strong>lo Stato del lavoro d’impresa regolazione<br />

Irlanda 74 67 69 74 83 76<br />

Danimarca 70 36 64 86 83 81<br />

Regno Unito 68 50 63 80 81 66<br />

Estonia 68 74 76 57 70 61<br />

Slovacchia 63 75 69 65 60 46<br />

Lettonia 63 80 69 63 52 50<br />

Belgio 62 42 61 62 82 65<br />

Paesi Bassi 62 41 60 62 75 73<br />

Lituania 62 76 74 66 53 41<br />

Lussemburgo 60 54 73 36 51 85<br />

Finlandia 60 48 47 44 80 79<br />

Rep. Ceca 60 73 61 68 53 43<br />

Austria 59 44 50 58 68 75<br />

Svezia 59 41 43 57 81 74<br />

Bulgaria 58 85 62 74 38 29<br />

Germania 57 50 58 40 73 64<br />

UE 57 56 57 56 61 55<br />

Polonia 54 55 61 73 45 37<br />

Ungheria 52 66 34 67 48 47<br />

Romania 51 73 63 36 47 34<br />

Spagna 50 40 73 32 58 45<br />

Slovenia 48 54 57 32 52 47<br />

Francia 48 48 37 33 60 60<br />

Portog<strong>al</strong>lo 45 41 32 40 65 47<br />

Grecia 38 50 37 38 36 28<br />

It<strong>al</strong>ia 35 31 42 48 37 18<br />

Fonte: Istituto Bruno Leoni.<br />

Il fatto che il nostro paese presenti lacune in quasi tutti i settori (Grafico 4.1) – con la parzi<strong>al</strong>e<br />

eccezione della libertà del lavoro – indica l’esistenza di un problema struttur<strong>al</strong>e peculiare<br />

dell’It<strong>al</strong>ia e spiega, <strong>al</strong>meno in parte, il gap di crescita che ci divide non solo d<strong>al</strong>le<br />

aree più dinamiche d’Europa, ma anche d<strong>al</strong>la media comunitaria. D<strong>al</strong> 2000 <strong>al</strong> 2009 il tasso<br />

di crescita it<strong>al</strong>iano è stato sistematicamente inferiore a quello medio dell’UE-27 di circa un<br />

punto: <strong>al</strong> nostro 0,6 per cento ha corrisposto un tasso di crescita medio dell’1,6 per cento<br />

112


in Europa. Questo significa che, fatto 100 il PIL <strong>al</strong>l’inizio del 2000, l’It<strong>al</strong>ia ha chiuso il 2009<br />

a 106 (lo stesso livello del 2003), l’Europa a 117 (come nel 2006). In nessun anno, l’It<strong>al</strong>ia<br />

ha fatto meglio dell’Europa.<br />

Grafico 4.1 - It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong>l’esame europeo<br />

Fonte: Istituto Bruno Leoni.<br />

Libertà della<br />

regolazione<br />

Libertà d’impresa<br />

Libertà del fisco<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

It<strong>al</strong>ia UE<br />

113<br />

Libertà del lavoro<br />

Libertà dello Stato<br />

Sarebbe ingenuo attribuire unicamente <strong>al</strong>l’aspetto istituzion<strong>al</strong>e «fotografato» d<strong>al</strong> nostro Indice<br />

della libertà di intrapresa (e da <strong>al</strong>tri indici an<strong>al</strong>oghi) il deficit di crescita. Ma sarebbe ingenuo<br />

anche ignorare le indicazioni che provengono da diversi studi, sia quelli che si concentrano<br />

su un approccio «di contesto» (come i diversi indici della libertà economica) sia «di risultato»<br />

(le classifiche internazion<strong>al</strong>i sulla competitività, sulla pubblica amministrazione, ecc.).<br />

4.1 L’EUROPA E LA LIBERTÀ ECONOMICA<br />

Più variegato è il panorama a livello comunitario. Nel 2010 il «baricentro» della libertà economica<br />

in Europa si colloca, secondo il nostro indice, a 57. È importante sottolineare che, poiché<br />

l’indice è c<strong>al</strong>colato in modo relativo, la media europea non va vista come un «livello» di<br />

libertà economica, ma come un benchmark contro cui confrontare i risultati dei singoli paesi.<br />

Inoltre, l’Indice di libertà di intrapresa esprime la distanza tra la situazione di ciascuno degli<br />

Stati membri e quella di un immaginario paese che ha, rispetto a ciascun indicatore, le caratteristiche<br />

del paese più avanzato d’Europa. In questo senso, si tratta di uno sforzo «europeista»:<br />

tenta di cogliere il meglio che ogni nazione offre, definendo così un termine di<br />

paragone ragionevole e «sfidante».<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

Alla luce della nostra an<strong>al</strong>isi, come già accennato, il paese più libero risulta essere l’Irlanda<br />

(74), quello meno libero l’It<strong>al</strong>ia (35; Grafico 4.2). La deviazione standard – una misura della<br />

dispersione attorno <strong>al</strong>la media – è pari a 9, ossia circa un sesto della media, e indica una<br />

distribuzione piuttosto stretta, con un numero significativo di paesi agglomerati attorno <strong>al</strong>la<br />

media (Grafico 4.3).<br />

Grafico 4.2 - La libertà vince in Irlanda<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

Irlanda<br />

Fonte: Istituto Bruno Leoni.<br />

Regno Unito<br />

Germania<br />

Spagna<br />

Francia<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

114<br />

UE<br />

Grafico 4.3 - La distribuzione della libertà nell’UE<br />

(Paesi per decili di libertà)<br />

12<br />

10<br />

8<br />

6<br />

4<br />

2<br />

0<br />

0 - 10%<br />

Fonte: Istituto Bruno Leoni.<br />

10 - 20%<br />

20 - 30%<br />

30 - 40%<br />

40 - 50%<br />

50 - 60%<br />

60 - 70%<br />

Libertà d<strong>al</strong> fisco<br />

Libertà d<strong>al</strong>lo Stato<br />

Libertà del lavoro<br />

Libertò d’impresa<br />

Libertà d<strong>al</strong>la regolazione<br />

Libertà di intrapresa<br />

A livello di UE, a fronte di un indice gener<strong>al</strong>e pari a 57, la macroarea col punteggio più <strong>al</strong>to<br />

è la libertà di impresa (61), quella col v<strong>al</strong>ore più basso la libertà d<strong>al</strong>la regolazione (55). Il<br />

primo dato mostra qu<strong>al</strong>i siano i sistemi business-friendly: ben sei paesi – tutti dell’Europa settentrion<strong>al</strong>e<br />

– ottengono un punteggio superiore a 80 (Danimarca, Irlanda, Belgio, Svezia,<br />

70 - 80%<br />

80 - 90%<br />

90 - 100%


Regno unito e Finlandia). Viceversa, nella libertà d<strong>al</strong>la regolazione (dove, come abbiamo già<br />

visto, l’It<strong>al</strong>ia occupa l’ultima posizione) si osserva un addensamento attorno <strong>al</strong>le media, che<br />

indica probabilmente una maggiore dipendenza d<strong>al</strong>le politiche comunitarie.<br />

Il fatto che le macroaree, a livello aggregato, forniscano immagini simili dell’Europa indica<br />

che la costruzione degli indicatori è stata piuttosto bilanciata. D’<strong>al</strong>tro canto, il grado di correlazione<br />

tra le singole macroaree (Tabella 4.2) è piuttosto basso e suggerisce che sotto il nostro<br />

indice si nascondono re<strong>al</strong>tà anche molto diverse: un paese può essere particolarmente<br />

aperto secondo un indicatore e molto poco aperto secondo un <strong>al</strong>tro. Di fatto, questo ci permette<br />

di affermare che, attraverso le varie macroaree, abbiamo «misurato» fenomeni diversi.<br />

Significativamente, e ragionevolmente, gli unici due macro-indicatori con un coefficiente di<br />

correlazione molto <strong>al</strong>to (libertà d’impresa e libertà d<strong>al</strong>la regolazione: 0,83) interessano uno<br />

stesso aspetto della libertà di intrapresa, ossia la libertà di condurre un’azienda sia rispetto<br />

ai suoi obblighi e <strong>al</strong>le sue libertà (libertà d’impresa) sia nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione<br />

e il quadro leg<strong>al</strong>e (libertà d<strong>al</strong>la regolazione). Questo indica che i paesi con<br />

un ambiente anti-business tendono a essere pesantemente e inefficientemente regolamentati,<br />

e viceversa. In <strong>al</strong>cuni casi la correlazione è negativa: per esempio, tra la libertà d<strong>al</strong> fisco<br />

e la libertà d<strong>al</strong>la regolazione. T<strong>al</strong>e fenomeno può essere interpretato supponendo che tutti<br />

gli Stati membri dell’UE siano tendenzi<strong>al</strong>mente interventisti, ma in modo diverso: quelli che<br />

premono l’acceleratore del prelievo fisc<strong>al</strong>e tendono ad avere una regolazione meno intrusiva<br />

(come nei paesi nordici) e viceversa (come in <strong>al</strong>cuni paesi dell’Est).<br />

Tabella 4.2 - La cattiva regolazione fa m<strong>al</strong>e <strong>al</strong>l’impresa<br />

(UE, correlazione tra le macroaree dell’Indice della libertà di intrapresa)<br />

Libertà Libertà Libertà Libertà Libertà d<strong>al</strong>la<br />

d<strong>al</strong> fisco d<strong>al</strong>lo Stato del lavoro d’impresa regolazione<br />

Libertà d<strong>al</strong> fisco 1,00 0,44 0,28 -0,35 -0,30<br />

Libertà d<strong>al</strong>lo Stato 1,00 0,29 0,13 0,17<br />

Libertà del lavoro 1,00 0,27 0,14<br />

Libertà d’impresa 1,00 0,83<br />

Libertà d<strong>al</strong>la regolazione 1,00<br />

Fonte: Istituto Bruno Leoni.<br />

L’Indice della libertà di intrapresa risulta correlato in maniera significativa con <strong>al</strong>tri indici di<br />

libertà economica (come quello Heritage Foundation/W<strong>al</strong>l Street Journ<strong>al</strong> e quello Fraser Institute/Cato<br />

Institute, di cui parleremo più avanti), che misurano lo stesso «oggetto», sia pure<br />

definito in modo diverso; e con la classifica Doing Business della Banca Mondi<strong>al</strong>e, da cui<br />

sono stati tratti <strong>al</strong>cuni indicatori per il c<strong>al</strong>colo del nostro indice. Inoltre, esistono correlazioni<br />

positive e significative con una serie di variabili di interesse, come il PIL procapite (Grafico<br />

4.4), il Satisfaction with life index delle Nazioni unite (Grafico 4.5), e l’Indice di competitività<br />

del World Economic Forum (Grafico 4.6).<br />

115<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPALA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

Grafico 4.4 - Meno libertà di intrapresa = meno benessere...<br />

PIL pro capite (Migliaia di US $ PPP)<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

116<br />

Lussenburgo<br />

Paesi Bassi<br />

Irlanda<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Grecia<br />

Austria<br />

Danimarca<br />

Francia<br />

Svezia<br />

Germania<br />

Belgio<br />

Finlandia<br />

Spagna<br />

Regno Unito<br />

Rep. Ceca<br />

Slovenia<br />

Slovacchia<br />

Polonia<br />

Portog<strong>al</strong>lo<br />

Estonia<br />

Lituania Lettonia<br />

Romania Ungheria<br />

Bulgaria<br />

35 40 45 50 55 60 65 70 75<br />

Idice della libertà di intrapresa<br />

Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e Banca Mondi<strong>al</strong>e.<br />

Grafico 4.5 - ...minore qu<strong>al</strong>ità della vita...<br />

Satisfaction with life index (2006)<br />

280<br />

260<br />

240<br />

220<br />

200<br />

180<br />

160<br />

140<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Grecia<br />

Francia<br />

Portog<strong>al</strong>lo<br />

Spagna<br />

Ungheria<br />

Romania<br />

Austria<br />

Finlandia<br />

Danimarca<br />

Svezia<br />

Lussenburgo Paesi Bassi<br />

Irlanda<br />

Germania<br />

Polonia<br />

Lituania<br />

Bulgaria<br />

Belgio<br />

Rep. Ceca<br />

Slovacchia<br />

Lettonia<br />

Regno Unito<br />

Estonia<br />

35 40 45 50 55 60 65 70 75<br />

Indice della libertà di intrapresa<br />

Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e Nazioni Unite.


Grafico 4.6 - ... e più bassa competitività<br />

Indice di competitività<br />

6,0<br />

5,5<br />

5,0<br />

4,5<br />

4,0<br />

3,5<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Grecia<br />

Slovenia<br />

Portog<strong>al</strong>lo<br />

Francia<br />

Germania<br />

Spagna<br />

Romania<br />

Natur<strong>al</strong>mente, non necessariamente una correlazione è una causa, e anche quando lo è<br />

non va data per scontata la direzione del nesso caus<strong>al</strong>e. Inoltre, il campione a nostra disposizione<br />

è troppo ristretto per inferirne un risultato di portata gener<strong>al</strong>e. Ciò detto, il fatto<br />

che queste correlazioni siano statisticamente significative, e che il segno sia quello atteso –<br />

cioè che a una maggiore libertà corrispondano v<strong>al</strong>ori più desiderabili delle variabili osservate<br />

– ci conforta e ci conferma la bontà dell’approccio teorico adottato.<br />

Inoltre, come vedremo, esistono evidenze empiriche e ragioni teoriche per credere che la<br />

libertà economica – intesa come la libertà delle imprese di gestire liberamente i mezzi di<br />

produzione – sia una determinante della crescita economica. Infatti, paesi economicamente<br />

più liberi offrono maggiori opportunità e forniscono, attraverso un elevato grado di flessibilità<br />

e di stabilità delle norme, un quadro leg<strong>al</strong>e che consente <strong>al</strong>le imprese l’assunzione di<br />

rischi. In ultima an<strong>al</strong>isi questo processo scatena una corsa produttiva le cui ricadute sono le<br />

più ampie. D’<strong>al</strong>tro canto, la libertà economica non è, di per sé, una misura, diretta o indiretta,<br />

del reddito. Essa dipende, infatti, d<strong>al</strong> contesto in cui si svolge il gioco economico: è<br />

probabile che un paese più libero cresca, in media, più velocemente di uno meno libero,<br />

ma non è detto che sia più ricco (perché, ad esempio, esce da una stagione di soffocamento<br />

della libertà: è il caso di molte nazioni ex sovietiche che, nonostante crescano velocemente<br />

e si stiano rapidamente avvicinando ai livelli occident<strong>al</strong>i di benessere, scontano ancora oggi<br />

le conseguenze della dittatura comunista). 4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

117<br />

Austria<br />

Polonia<br />

Ungheria<br />

Svezia<br />

Bulgaria<br />

Danimarca<br />

Paesi Bassi<br />

Regno Unito<br />

Belgio<br />

Lussenburgo<br />

Irlanda<br />

Rep. Ceca<br />

Estonia<br />

Finlandia<br />

Slovacchia<br />

Lituania<br />

Lettonia<br />

35 40 45 50 55 60 65 70 75<br />

Indice della libertà di intrapresa<br />

Fonte: elaborazioni su dati Istituto Bruno Leoni e World Economic Forum.


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

4.2 COS’È LA LIBERTÀ ECONOMICA<br />

Quando ci si interroga sul grado di libertà d’impresa in Europa e nei paesi che la compongono<br />

lo si fa perché si ritiene che la libertà sia importante. In maniera magari implicita,<br />

un’indagine come questa muove quindi d<strong>al</strong>la convinzione che a un più <strong>al</strong>to grado di libertà<br />

d’iniziativa possa corrispondere (e, in sostanza, in linea di massima «debba» corrispondere)<br />

un maggior dinamismo economico. Questa considerazione si fonda su più ragioni.<br />

Quando si parla di libertà d’impresa, infatti, ci si riferisce <strong>al</strong>la tutela del diritto di proprietà<br />

in una sua prospettiva peculiare. Abbiamo infatti una piena libertà d’iniziativa quando <strong>al</strong>l’interno<br />

dell’ordine giuridico i titolari delle aziende possono liberamente sottoscrivere contratti,<br />

avviare commerci, disporre come vogliono dei loro profitti (grazie a una bassa<br />

tassazione), innovare, tradurre in re<strong>al</strong>tà idee e progetti, spostare le proprie risorse e i propri<br />

impianti dove risultano maggiormente produttivi.<br />

Per questo motivo, secondo molti studiosi, la rigorosa tutela della proprietà privata è il fattore<br />

cruci<strong>al</strong>e per avere un vero sviluppo, tanto più che se i titoli di proprietà non sono protetti<br />

nessuno è veramente indotto a lavorare e a investire. Poiché implica un riconoscimento<br />

della proprietà privata, un ordine di mercato crea un sistema di incentivi che spinge a mobilitare<br />

tutte le risorse (sia finanziarie che umane) in direzione della crescita. Non è necessariamente<br />

detto che t<strong>al</strong>e economia basata sulla proprietà sia meritocratica, dato che la<br />

fortuna o la nascita o <strong>al</strong>tri fattori continuano a giocare un peso, ma è senz’<strong>al</strong>tro vero che tutti<br />

o quasi sono indotti a impegnarsi <strong>al</strong> massimo. In pagine che hanno fatto molto discutere<br />

quanti si occupano di economia dello sviluppo, de Soto (2000) sottolinea proprio come il<br />

successo dell’America del Nord e, <strong>al</strong> contrario, il f<strong>al</strong>limento dell’America Latina siano strettamente<br />

connessi ai differenti sistemi di premi e punizioni.<br />

Dove la proprietà è ben difesa, è difficile che si possano avere complessi industri<strong>al</strong>i o imprese<br />

di servizi che non rispondono di quanto fanno. Un simile comportamento è invece frequente<br />

quando, per l’assenza di libertà economica, si deve fare i conti con una limitata<br />

concorrenza, con monopoli, con situazioni protette e logiche corporative. Ogni volta che<br />

t<strong>al</strong>uni settori vengono sottratti <strong>al</strong>la competizione è l’intero sistema produttivo che ne risente<br />

in maniera negativa, dato che anche le attività più dinamiche sono costrette a sopportare<br />

oneri molto <strong>al</strong>ti in cambio di servizi di bassa qu<strong>al</strong>ità. In t<strong>al</strong>i frangenti è difficile che esse possano<br />

reggere la competizione con quelle imprese di <strong>al</strong>tri paesi che hanno la fortuna di operare<br />

in contesti più liber<strong>al</strong>izzati.<br />

La maggior parte delle inefficienze, degli sprechi e del parassitismo che riscontriamo nel<br />

settore pubblico potrebbe essere superato solo se si avesse il coraggio di <strong>al</strong>largare gli spazi<br />

di mercato. Pur con tutte le imperfezioni del caso, i consumatori tendono a orientarsi verso<br />

prodotti che abbiano un <strong>al</strong>to rapporto qu<strong>al</strong>ità-prezzo, inducendo, in t<strong>al</strong> modo, tutti a migliorarsi.<br />

118


Ma libertà d’impresa significa egu<strong>al</strong>mente, ed è un elemento fondament<strong>al</strong>e, una vera disponibilità<br />

ad aprirsi <strong>al</strong> <strong>futuro</strong>. Quanto ostacola l’azione delle imprese (con il prelievo fisc<strong>al</strong>e,<br />

le barriere dogan<strong>al</strong>i, le normative che limitano l’autonomia contrattu<strong>al</strong>e, e via dicendo) frena<br />

la modernizzazione e lo sviluppo. Spesso si enfatizza il ruolo che la scienza svolge nel nostro<br />

cammino verso il progresso (e certamente essa gioca un ruolo fondament<strong>al</strong>e), ma purtroppo<br />

si tende a sottostimare come anche le invenzioni più significative avrebbero ben<br />

poche ricadute sulla nostra vita se non vi fosse il lavorio costante di chi traduce quelle conquiste<br />

scientifiche in avanzamenti tecnologici e, soprattutto, di chi fa in modo che i nuovi<br />

dispositivi possano essere economicamente riproducibili.<br />

Un ordine giuridico poco invasivo, accompagnato da una tassazione contenuta e che eviti<br />

il più possibile di essere distorsiva (di spingere gli investimenti in questa o quella direzione,<br />

come avviene quando la politica ricorre a incentivi artificiosi: dai sussidi <strong>al</strong>le barriere <strong>al</strong>l’ingresso),<br />

pone le premesse per un ampio sviluppo dell’intera società anche per un <strong>al</strong>tro<br />

motivo, spesso sottostimato. Le economie moderne sono infatti un insieme di attività liberamente<br />

coordinate grazie a una rete di scambi e contratti: la speci<strong>al</strong>izzazione implica la divisione<br />

del lavoro e il risultato è un’eccezion<strong>al</strong>e capacità di produrre e innovare <strong>al</strong>l’interno<br />

di un’economia caratterizzata da interdipendenza. Ma perché questo costante aggiustamento<br />

delle relazioni tra i vari fattori produttivi abbia luogo, delineando strutture meglio rispondenti<br />

<strong>al</strong>le esigenze del mercato e <strong>al</strong>le domande provenienti d<strong>al</strong>la società, è necessario<br />

che ogni impresa possa costantemente ripensarsi, ristrutturarsi, ridefinirsi. Dove la libertà<br />

d’impresa latita, <strong>al</strong> contrario, il sistema produttivo s’ingessa e questo porta a un limitato coordinamento<br />

tra l’offerta e la domanda, tra le imprese e i consumatori.<br />

La libertà economica è inoltre importante per la s<strong>al</strong>vaguardia dei diritti fondament<strong>al</strong>i. Essa<br />

ha una funzione «politica» in senso lato, che non può essere sottostimata.<br />

Se, <strong>al</strong>l’interno di una società, il potere (attraverso il prelievo tributario e la regolamentazione)<br />

ha la facoltà di «tenere sotto scacco» l’insieme delle iniziative private e imprenditori<strong>al</strong>i,<br />

quello che ne deriva è un connubio sempre più stretto tra Stato e affari, tra politica e<br />

imprese. Tutto ciò produce conseguenze drammatiche e, <strong>al</strong>la fine, rischia di sfociare nel dispotismo,<br />

dato che chi domina la vita pubblica finisce per coincidere, in un modo o nell’<strong>al</strong>tro,<br />

con chi regge l’economia. All’interno di ordinamenti in cui la libertà economica è<br />

poco rispettata, le imprese tendono a catturare il regolatore, per avere aiuti e norme a proprio<br />

vantaggio; d’<strong>al</strong>tro canto, partiti e uomini politici non di rado ricattano le imprese <strong>al</strong><br />

fine di avere ritorni di vario genere. Le due sfere si sovrappongono fino quasi a coincidere.<br />

Solo un’ampia libertà economica garantisce una piena autonomia dello spazio politico e,<br />

di conseguenza, una sua rigorosa delimitazione.<br />

Intesa nella sua accezione più ampia, la libertà economica investe ogni aspetto della vita<br />

associata. Il suo presupposto è la tutela della proprietà privata e delle più basilari libertà: diritto<br />

di associazione, garanzia dei contratti, rule of law, ecc. Intesa in senso più stretto, in-<br />

119<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

vece, essa riguarda princip<strong>al</strong>mente le scelte produttive di individui e imprese, e il loro rapporto<br />

col contesto leg<strong>al</strong>e, amministrativo e regolatorio in cui sono c<strong>al</strong>ate. È questa doppia<br />

visu<strong>al</strong>e che ci ha portato a maturare l’approccio da cui scaturisce l’Indice della libertà di intrapresa.<br />

L’ipotesi teorica e metodologica è che aspetti diversi – come la pressione fisc<strong>al</strong>e e<br />

il numero di procedure di infrazione aperte d<strong>al</strong>l’Unione europea – possano essere tenuti<br />

assieme perché, in fin dei conti, influiscono in modo an<strong>al</strong>ogo sul comportamento degli<br />

agenti economici.<br />

A monte di questa convinzione sta la fondament<strong>al</strong>e intuizione di Posner (1971), a cui si<br />

deve l’equiv<strong>al</strong>enza tra tassazione e regolamentazione. Semplificando <strong>al</strong>l’estremo, una tassa<br />

indirizza il comportamento degli individui, facendo sì che vi sia una domanda inferiore di<br />

un certo bene o servizio a causa del suo costo aggiuntivo. Un’imposta sui broccoli porterà<br />

a un minore consumo di broccoli (quanto minore, è questione più complessa che dipende<br />

d<strong>al</strong>l’elasticità della domanda <strong>al</strong> prezzo). Allo stesso modo, un’imposta sulle attività produttive<br />

sarà <strong>al</strong>l’origine di una riduzione delle attività produttive (minori investimenti, minore vivacità<br />

economica, minore concorrenza) e un’imposta sul lavoro porterà a un più <strong>al</strong>to livello<br />

di disoccupazione (per la stessa ragione per cui l’imposizione dei s<strong>al</strong>ari minimi causa disoccupazione<br />

– il fatto che questa scelta venga ritenuta politicamente accettabile perché si<br />

ritiene che il beneficio di s<strong>al</strong>ari mediamente più <strong>al</strong>ti sia superiore <strong>al</strong> costo di un minor numero<br />

di s<strong>al</strong>ariati, è un <strong>al</strong>tro discorso).<br />

All’<strong>al</strong>tro estremo, una regolamentazione pesante implica tipicamente l’aumento relativo del<br />

costo dei beni o servizi interessati. Per esempio, l’obbligo di ridurre le emissioni di gas serra<br />

determinerà l’aumento dei costi dell’energia e, attraverso essi, di tutti i beni che abbiano un<br />

processo produttivo energivoro (come le ceramiche e la carta). In un’economia isolata, questo<br />

porterebbe a una riduzione del consumo di ceramica e carta. Poiché viviamo in un<br />

mondo glob<strong>al</strong>izzato, questo rende la carta europea meno conveniente rispetto <strong>al</strong>la carta<br />

prodotta <strong>al</strong>trove, e lo stesso accade per le ceramiche. Di fatto, l’effetto è lo stesso di un’imposta<br />

sulla produzione domestica di carta e ceramiche. Ancora una volta, si può sostenere<br />

che questo costo sia più che compensato d<strong>al</strong> beneficio ambient<strong>al</strong>e derivante da una riduzione<br />

delle emissioni, inquinanti e no, in Europa: tuttavia, è impossibile sostenere che non<br />

vi sia un costo.<br />

Muovendosi in quest’orizzonte, il nostro indice raccoglie informazioni sulle diverse fonti di<br />

appesantimento, o distorsione, dell’attività economica, in modo t<strong>al</strong>e da fornire una stima<br />

complessiva. Se è vero quanto è stato detto in precedenza, svolgere questo tipo di operazione<br />

– per quanto possa essere oggetto di discussione il modo in cui viene fatto – rappresenta<br />

un v<strong>al</strong>ore in sé, in quanto mette a disposizione un’informazione nuova o, meglio, un<br />

modo coerente e sistematico di leggere simultaneamente informazioni già note. Ban<strong>al</strong>mente,<br />

molti sanno che l’It<strong>al</strong>ia ha un sistema fisc<strong>al</strong>e complesso, e molti sanno che la nostra legislazione<br />

sul lavoro è relativamente moderna: non necessariamente, però, le due cose sono<br />

immediatamente confrontabili. Metterle a sistema è l’esercizio tentato in questo lavoro.<br />

120


4.3 A COSA SERVE LA LIBERTÀ ECONOMICA<br />

Sviluppare un indicatore del genere è utile perché, di norma, la libertà economica è associata<br />

con una serie di obiettivi gener<strong>al</strong>mente ritenuti desiderabili.<br />

Il caso più semplice è quello della crescita economica: è opinione comune (anche se non<br />

univers<strong>al</strong>mente condivisa) che aumentare il tasso di crescita del prodotto interno lordo dovrebbe<br />

essere uno dei fini della politica economica di un paese. Se una maggiore libertà economica<br />

è associata con un’accelerazione della crescita, <strong>al</strong>lora significa che riforme nel<br />

segno della liber<strong>al</strong>izzazione, privatizzazione e disintermediazione dei rapporti economici<br />

possono contribuire a re<strong>al</strong>izzare quello scopo.<br />

L’It<strong>al</strong>ia ha un debito pubblico in rapporto <strong>al</strong> PIL tra i più <strong>al</strong>ti <strong>al</strong> mondo e prima della crisi economica<br />

era secondo solo a quello giapponese. Questo rende particolarmente oneroso e<br />

complesso qu<strong>al</strong>unque intervento che abbia un costo per l’erario, sia esso un’ulteriore spesa<br />

o una riduzione delle entrate attese. Per t<strong>al</strong>e motivo, è particolarmente importante richiamare<br />

l’attenzione su quelle manovre che, senza impegno per l’erario, possono contribuire <strong>al</strong> rilancio<br />

dell’economia, innescando così un circolo virtuoso: una crescita più pronunciata fa<br />

aumentare la base imponibile e, dunque, il reddito, consentendo anche riforme che abbiano<br />

un costo sostanzi<strong>al</strong>e. Infine, molte riforme nel segno della libertà economica possono<br />

avere l’effetto di liberare risorse pubbliche (le privatizzazioni o la riforma delle pensioni) o<br />

avere un costo nell’immediato per poi ripagarsi <strong>al</strong>meno in parte da sé nel medio-lungo termine<br />

(come può accadere nel caso dei tagli <strong>al</strong>le <strong>al</strong>iquote).<br />

Che nel corso degli anni la libertà economica aiuti la crescita di un paese trova numerose<br />

conferme d<strong>al</strong>l’esame dei dati raccolti nei vari indici. Se confrontiamo i giudizi espressi d<strong>al</strong><br />

1995 <strong>al</strong> 2006 su It<strong>al</strong>ia e Irlanda d<strong>al</strong>l’indice re<strong>al</strong>izzato da Heritage Foundation e W<strong>al</strong>l Street<br />

Journ<strong>al</strong>, e <strong>al</strong> tempo stesso prendiamo in considerazione l’evoluzione del reddito pro capite<br />

nei due paesi, i risultati sono significativi. Nel 1995, infatti, il reddito di un irlandese era inferiore<br />

a quello di un it<strong>al</strong>iano (17.957 dollari contro 21.161), ma già <strong>al</strong>lora la libertà economica<br />

era meglio protetta, dato che l’Irlanda era ventesima e l’It<strong>al</strong>ia solo quarantaduesima.<br />

Negli anni seguenti l’Irlanda è stata sempre <strong>al</strong> di sopra dell’It<strong>al</strong>ia nell’Index of Economic<br />

Freedom, ris<strong>al</strong>endo la classifica negli anni fino a raggiungere la terza posizione nel 2001,<br />

per poi mantenerla negli anni successivi. L’It<strong>al</strong>ia, invece, è sempre oscillata tra la settantacinquesima<br />

e la settantottesima posizione (nel 2001). In virtù della maggiore libertà economica,<br />

l’Irlanda ha conosciuto uno sviluppo assai superiore a quello it<strong>al</strong>iano, <strong>al</strong> punto che<br />

nel 2006 gli irlandesi vantavano un PIL pro capite di 40.716 dollari contro i soli 28.866 dollari<br />

degli it<strong>al</strong>iani 1 .<br />

Tutto questo serve a sostenere che, se la libertà economica è associata a fini desiderabili, e<br />

in particolare <strong>al</strong> fine della crescita economica, essa non è più solo un mezzo, ma diviene<br />

1. OCSE (2008b).<br />

121<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

un fine in sé. A questo punto v<strong>al</strong>e la pena tornare a definire brevemente il concetto di libertà<br />

economica, per poi verificare quello che la letteratura suggerisce in merito. Parlare di libertà<br />

economica significa anzitutto riflettere sul rapporto tra pubblico e privato e sul confine<br />

tra lo spazio delle decisioni individu<strong>al</strong>i e quello delle decisioni, in senso lato, politiche.<br />

Queste includono qu<strong>al</strong>unque interferenza pubblica: leggi, regole, obblighi fisc<strong>al</strong>i e parafisc<strong>al</strong>i.<br />

Per le ragioni che sono state ricordate, tra tutte queste diverse mod<strong>al</strong>ità d’intervento<br />

sussiste un’equiv<strong>al</strong>enza di fondo. Una legge, per esempio un obbligo o un divieto, non è<br />

quasi mai un limite inv<strong>al</strong>icabile: si tratta piuttosto di uno strumento per <strong>al</strong>zare il costo-opportunità<br />

di una certa condotta. Introdurre l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza è la<br />

stessa cosa, in pratica, che imporre una tassa pari <strong>al</strong>l’entità della multa a quegli automobilisti<br />

che sono gelosi della propria libertà. In questo senso, è corretto e utile – cioè produce<br />

informazione aggiuntiva – guardare trasvers<strong>al</strong>mente a norme/regole e tasse, perché l’effetto<br />

distorsivo sui comportamenti individu<strong>al</strong>i ricade, essenzi<strong>al</strong>mente, nello stesso tipo di rapporto<br />

tra causa ed effetto. È possibile che queste modifiche forzose del comportamento individu<strong>al</strong>e<br />

abbiano una giustificazione extra-economica – per esempio la ricerca dell’equità<br />

nella distribuzione, comunque definita, o la protezione dell’ambiente – ma è indubbio che,<br />

d<strong>al</strong> punto di vista dell’attività economica, producano una minore libertà e, gener<strong>al</strong>mente,<br />

una minore efficienza.<br />

Misurare la libertà economica è importante per varie ragioni. In primo luogo, un indice di<br />

libertà economica – se ben costruito – può fornire una stima del livello di interferenza governativa<br />

con l’attività individu<strong>al</strong>e. Anche per chi ritiene che l’interferenza governativa sia<br />

necessaria, o perfino desiderabile, è utile sapere in che modo e su qu<strong>al</strong>i fronti essa è massima<br />

(o minima).<br />

In secondo luogo, da quando si è cominciato a misurarla, sono state trovate molte evidenze<br />

sugli effetti benefici di una maggiore libertà economica. Per citare solo <strong>al</strong>cuni tra i risultati<br />

più importanti, Cole (2003) ha trovato che il contributo della libertà economica <strong>al</strong>la crescita<br />

economica è significativo e robusto sotto diversi modelli di crescita. Allo stesso modo,<br />

Doucouliagos e Ulubasoglu (2006) hanno dimostrato che la correlazione positiva tra libertà<br />

economica e crescita resta solida anche sotto diverse specificazioni del modello, e in particolare<br />

senza significative differenze derivanti d<strong>al</strong>lo specifico indice utilizzato, d<strong>al</strong> set di<br />

paesi esaminati, o d<strong>al</strong> livello di aggregazione impiegato. Risultati simili sono stati trovati da<br />

Barro (1991), Barro (1994) e <strong>al</strong>tri, mentre Carlsson e Lundström (2002), concentrandosi su<br />

un particolare indice di libertà economica, hanno trovato che solo <strong>al</strong>cuni sotto-indicatori<br />

sono rilevanti per la crescita. Sebbene questo inviti <strong>al</strong>la cautela – in quanto il modo in cui<br />

la libertà economica viene definita nella pratica è a sua volta rilevante 2 – la libertà economica<br />

può consentire una crescita più vigorosa in <strong>al</strong>meno due modi. Direttamente, un paese<br />

più libero tende con maggiore facilità a trovare l’<strong>al</strong>locazione migliore delle risorse, poiché<br />

le decisioni incorporano tutta la conoscenza dispersa tra gli attori del mercato, anziché es-<br />

2. Mentre gli indici che danno un’interpretazione «stretta» della libertà economica tendono a essere fortemente correlati, quelli che ne<br />

forniscono una lettura più ampia – per esempio includendo in vario modo i diritti civili – possono portare a risultati significativamente<br />

diversi.<br />

122


sere delegate a un «cervello centr<strong>al</strong>e» incapace di raccogliere l’informazione nella sua interezza.<br />

Indirettamente, un paese economicamente più libero è anche più attrattivo, e quindi<br />

tende a godere di maggiori investimenti stranieri. Un’ampia letteratura ha collegato gli investimenti<br />

stranieri con la crescita economica (Romer, 1993) e col progresso tecnologico (E.<br />

X. Fan, 2002), oltre che con la sostenibilità ambient<strong>al</strong>e (Bernstein et <strong>al</strong>., 2006). Inoltre, Abdiweli<br />

(1997) ha chiarito che il contributo della libertà economica <strong>al</strong>la crescita è più importante<br />

di quello delle libertà politiche e civili (queste ultime <strong>al</strong> centro di <strong>al</strong>tri studi, il<br />

princip<strong>al</strong>e dei qu<strong>al</strong>i è il rapporto annu<strong>al</strong>e di Freedom House sulle libertà nel mondo, che<br />

però sostanzi<strong>al</strong>mente non considera la libertà economica).<br />

Infine, libertà e crescita economica, a dispetto di molti fraintendimenti in questo senso, si<br />

sono anche dimostrati due potenti strumenti per ridurre le diseguaglianze. S<strong>al</strong>a-i-Martin<br />

(2007) ha mostrato come negli ultimi tre decenni non solo la ricchezza glob<strong>al</strong>e sia cresciuta<br />

a un ritmo senza precedenti, ma anche le diseguaglianze tra i diversi paesi si siano ridotte,<br />

sebbene esistano ancora delle re<strong>al</strong>tà estremamente povere. Pinkovskiy e S<strong>al</strong>a-i-Martin (2009)<br />

hanno stimato la distribuzione mondi<strong>al</strong>e della povertà, evidenziando come essa sia andata<br />

riducendosi di pari passo <strong>al</strong>la crescita del reddito medio.<br />

4.4 LA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

Comprendere quanto sia essenzi<strong>al</strong>e la libertà economica e quanto invece possa essere disastroso<br />

moltiplicare vincoli e barriere aiuta ad accostare con più consapevolezza i problemi<br />

di un paese come l’It<strong>al</strong>ia.<br />

Il <strong>futuro</strong> della nostra società risulta infatti essere a rischio proprio a causa di uno Stato ipertrofico,<br />

che non solo intr<strong>al</strong>cia l’attività di chi vuole lavorare e intraprendere, ma che nei decenni<br />

passati si è reso responsabile di una dilatazione del tutto irrazion<strong>al</strong>e degli organici<br />

delle pubbliche amministrazioni, della spesa pubblica e del debito. Non c’è quindi da stupirsi<br />

se da più parti (lo ha fatto recentemente la Corte dei Conti) si sottolinea che la crisi economica<br />

in corso avrà conseguenze sulla tenuta della finanza pubblica. Oltre che<br />

l’indebitamento dello Stato in senso proprio, l’It<strong>al</strong>ia deve fronteggiare un enorme debito<br />

pensionistico e una serie di <strong>al</strong>tri debiti in carico ad amministrazioni «autonome» (le università,<br />

per esempio), ma che godono di una sostanzi<strong>al</strong>e garanzia pubblica. A questo si aggiunge<br />

il vasto e sfumato insieme delle attività dello Stato «assicuratore», che ponendosi<br />

come «garante» di una serie di soggetti a rischio, di fatto ha delle liability che non sono rintracciabili<br />

nei bilanci pubblici, e spesso neppure conoscibili. Come spiegano Scarpa et <strong>al</strong>.<br />

(2009), esistono “strumenti di intervento nell’economia che configurano un ruolo dello<br />

Stato che non è né di imprenditore, né di regolatore e neppure di puro erogatore di denaro,<br />

ma di garante (effettivo o eventu<strong>al</strong>e)... In sostanza, oltre <strong>al</strong>la spesa pubblica uffici<strong>al</strong>e,<br />

esistono anche rischi non menzionati in <strong>al</strong>cun bilancio, ma che in <strong>futuro</strong> potrebbero comportare<br />

uscite di cassa anche importanti”.<br />

123<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

Richiamare l’attenzione su tutto questo è particolarmente importante: il debito e, più in gener<strong>al</strong>e,<br />

l’esistenza di liability ostacolano più di ogni <strong>al</strong>tra cosa quella riduzione della pressione<br />

fisc<strong>al</strong>e che offrirebbe nuove opportunità <strong>al</strong>le imprese it<strong>al</strong>iane e a quanti sono interessati<br />

a investire da noi. Ridurre le imposte è necessario e va fatto, ma perché tutto ciò sia duraturo<br />

è indispensabile che i conti pubblici migliorino. Oggi, infatti, lo Stato deve pagare una<br />

notevole massa di interessi a chi detiene titoli pubblici; questo rappresenta un onere considerevole<br />

su quanti producono, cercano un lavoro e risparmiano in vista di investimenti.<br />

È vero che i tassi sul debito pubblico sono ai minimi storici, ma potrebbero rapidamente<br />

schizzare verso l’<strong>al</strong>to. In questo senso, le difficoltà incontrate ultimamente da Grecia, Spagna<br />

e Portog<strong>al</strong>lo sono ben più che un campanello di <strong>al</strong>larme.<br />

Se già ora una quota rilevante del bilancio pubblico deve essere destinata ai possessori di<br />

BOT e CCT, un inn<strong>al</strong>zamento dei tassi avrebbe effetti devastanti: com’è facile immaginare.<br />

E tutto questo mentre, soprattutto a causa della difficoltà di imprese e famiglie, il prelievo<br />

tributario è in c<strong>al</strong>o e ci si dirige verso un debito pubblico, per il 2020, intorno <strong>al</strong> 115 per<br />

cento. In questa situazione sarebbe assurdo continuare a dar credito <strong>al</strong>la «favola bella» secondo<br />

cui gli Stati non possono f<strong>al</strong>lire; <strong>al</strong> contrario, conviene ricordarsi cosa è successo pochi<br />

anni fa in Argentina ed evitare in tutti i modi di ripercorrere quell’esperienza (Tanzi, 2007).<br />

Per t<strong>al</strong>e motivo sarebbe indispensabile una gestione parsimoniosa del denaro pubblico, insieme<br />

<strong>al</strong>la rinuncia a rinnovare pletoriche strutture stat<strong>al</strong>i. Ridurre le uscite rappresenta una<br />

necessità ineludibile, così come sarebbe importante operare un monitoraggio costante delle<br />

amministrazioni, evidenziando sia i comportamenti virtuosi che quelli disdicevoli. Non si<br />

tratta di immaginare una sorta di bon ton per dirigenti pubblici e uomini politici: è semmai<br />

urgente rimettere invece nei giusti binari troppe gestioni fuori controllo, che se non vengono<br />

radic<strong>al</strong>mente ripensate possono minacciare il <strong>futuro</strong> stesso della nostra società.<br />

Una considerazione particolare merita la questione previdenzi<strong>al</strong>e, che va affrontata con<br />

un’attenzione <strong>al</strong> presente, ma avendo a cuore una prospettiva di più lungo termine. È chiaro<br />

che se oggi il tetto rischia di crollare sulla testa (si pensi a cosa potrebbe significare un downgrade<br />

del nostro debito da parte delle agenzie di rating), una razion<strong>al</strong>izzazione che ritardi<br />

l’abbandono della casa si impone. Ma oltre a questo sono necessarie riforme di struttura, che<br />

v<strong>al</strong>orizzino la capit<strong>al</strong>izzazione privata e permettano sempre più ai lavoratori di gestire in proprio<br />

il loro <strong>futuro</strong>, ridimensionando il ruolo della previdenza di Stato. Bisogna avere il coraggio<br />

di creare «nuovi pilastri», che inizino a mettere un poco più in sicurezza il <strong>futuro</strong> delle<br />

giovani generazioni.<br />

Di ugu<strong>al</strong>e urgenza sarebbe un intervento sul mercato del lavoro, dove certamente si sono<br />

compiuti progressi (come segn<strong>al</strong>a anche la nostra an<strong>al</strong>isi), ma dove moltissimo resta da fare.<br />

Qu<strong>al</strong>i sarebbero, in concreto, gli effetti di una riforma che ripensasse lo Statuto dei lavoratori<br />

e le garanzie per quanti perdono il posto, lasciandosi <strong>al</strong>le sp<strong>al</strong>le il sistema attu<strong>al</strong>e (rigido<br />

e discriminatorio) per superare la distinzione tra grandi e piccole imprese e operare, <strong>al</strong> tempo<br />

124


stesso, una decisa liber<strong>al</strong>izzazione dei contratti? Una t<strong>al</strong>e riforma, che potrebbe essere resa<br />

politicamente più sostenibile con una contestu<strong>al</strong>e revisione della flessibilità in uscita d<strong>al</strong> mercato<br />

del lavoro e degli ammortizzatori soci<strong>al</strong>i, aiuterebbe il sistema economico ad adattarsi<br />

<strong>al</strong>la nuova situazione causata d<strong>al</strong>la crisi (Reboani et <strong>al</strong>., 2004; Sacconi e Tiraboschi, 2006).<br />

Mentre gli aiuti <strong>al</strong>le aziende, anche nella forma degli incentivi, sono essenzi<strong>al</strong>mente orientati<br />

a conservare l’esistente e frenano la modernizzazione dell’economia, una liber<strong>al</strong>izzazione<br />

del mercato del lavoro – qu<strong>al</strong>e può essere facilitata da ammortizzatori soci<strong>al</strong>i diversi<br />

da quelli di cui dispone oggi l’It<strong>al</strong>ia – aiuterebbe ad affrontare meglio la riconversione industri<strong>al</strong>e:<br />

tanto più urgente in questa fase di grande ripensamento dell’economia.<br />

In un paese in cui, a causa della rigidità del sistema, la mobilità dei lavoratori è minima e chi<br />

perde il posto ha pochissime possibilità di trovarne un <strong>al</strong>tro, il sistema produttivo è inevitabilmente<br />

ingessato e non riesce ad adattarsi ai tempi nuovi. La conseguenza è che si perde<br />

sempre più in competitività. Fino a oggi semplice argomento di convegni e tavole rotonde,<br />

la flexicurity deve diventare obiettivo primario di una riforma del settore (Boeri e G<strong>al</strong>asso, 2009).<br />

Una liber<strong>al</strong>izzazione del mercato del lavoro si rende particolarmente necessaria per risollevare<br />

le sorti del Mezzogiorno. Circa un terzo del Paese, l’intero Meridione, non è assolutamente<br />

in grado di essere competitivo se in t<strong>al</strong>i regioni il costo del lavoro resta<br />

sostanzi<strong>al</strong>mente identico, a causa dei contratti nazion<strong>al</strong>i, a quello presente nel resto del<br />

Paese. È ovvio che per far decollare il Sud servono anche <strong>al</strong>tri interventi: una vera tutela di<br />

chiunque sia minacciato d<strong>al</strong>la crimin<strong>al</strong>ità organizzata, una migliore rete di infrastrutture,<br />

una riduzione della tassazione. A t<strong>al</strong>uni di questi problemi potrebbe dare risposta un’autentica<br />

riforma feder<strong>al</strong>e, se comportasse (ma i segn<strong>al</strong>i che arrivano non sono confortanti)<br />

una piena responsabilizzazione di comuni e regioni.<br />

Caratterizzato da un fragile tessuto produttivo, da una vasta disoccupazione, da aree di illeg<strong>al</strong>ità<br />

e da un numero esorbitante di dipendenti pubblici, il Sud non ha tratto beneficio da<br />

decenni di spesa stat<strong>al</strong>e e interventi straordinari (Ricolfi, 2010), ma potrebbe invece trarre<br />

vantaggi da una coraggiosa politica antifisc<strong>al</strong>e. In questo senso, su iniziativa di vari soggetti<br />

sta ora prendendo corpo un orientamento trasvers<strong>al</strong>e che punta proprio a eliminare ogni<br />

imposta sulle imprese, it<strong>al</strong>iane e non, le qu<strong>al</strong>i re<strong>al</strong>izzino profitti nel Sud. Si tratta del progetto<br />

di una No Tax Region che in cambio dell’abolizione di ogni finanziamento discrezion<strong>al</strong>e <strong>al</strong>le<br />

aziende, oggi fonte di molta corruzione, cancelli ogni imposta sui redditi d’impresa ottenuti<br />

nelle regioni meridion<strong>al</strong>i (F<strong>al</strong>asca e Lottieri, 2008). Per lo Stato l’intera operazione sarebbe<br />

quasi a costo zero, ma per la prima volta potrebbe offrire un’autentica occasione di sviluppo<br />

<strong>al</strong> Mezzogiorno. Perché la strada della crescita passa d<strong>al</strong>l’adozione di un progressivo<br />

ridimensionamento del potere di chi ci governa.<br />

Far crescere la libertà d’impresa, <strong>al</strong> Nord come <strong>al</strong> Sud, significa <strong>al</strong>lora ridimensionare la<br />

presenza dello Stato: anche proseguendo quella politica di dismissioni che è stata avviata<br />

negli anni Novanta e che poi è stata lasciata a metà.<br />

125<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

In fondo, se i governi avessero accettato di cedere ai privati l’intero portafoglio delle partecipazioni<br />

pubbliche (la cui entità rispetto <strong>al</strong> PIL è uno degli indicatori da noi considerati), e<br />

in t<strong>al</strong> modo avessero ottenuto risorse grazie <strong>al</strong>la compressione del debito, avrebbero avuto<br />

più denaro da impiegare nelle politiche soci<strong>al</strong>i, che spesso sono <strong>al</strong> centro delle loro preoccupazioni.<br />

In questo modo sarebbe stato più efficace lo sforzo di perseguire anche <strong>al</strong>tri<br />

obiettivi, più o meno coerenti con la libertà economica: d<strong>al</strong>la riforma della scuola a quella<br />

degli ammortizzatori soci<strong>al</strong>i.<br />

Lo stesso v<strong>al</strong>e per uno dei grandi temi con cui la politica da due decenni tenta, senza risultato,<br />

di fare i conti: l’abbattimento della pressione fisc<strong>al</strong>e. A questo proposito giova ricordare<br />

che nessun indicatore fisc<strong>al</strong>e dà un’immagine soddisfacente del nostro paese: l’<strong>al</strong>iquota margin<strong>al</strong>e<br />

sul reddito d’impresa è del 33 per cento contro una media europea del 23,5; la pressione<br />

fisc<strong>al</strong>e media sui profitti è del 22,9 per cento contro il 12,0 comunitario; per gli individui,<br />

l’<strong>al</strong>iquota massima è del 43 per cento a fronte del 35,7 medio in UE; abbiamo 5 scaglioni<br />

rispetto a una media di 3; da ultimo, per pagare le imposte ci vogliono in media 360<br />

ore <strong>al</strong>l’anno, mentre in Europa ne bastano 254 e nel paese più virtuoso, il Lussemburgo, solo<br />

58. Di fronte a questi dati, è del tutto chiaro che una revisione radic<strong>al</strong>e del sistema tributario<br />

è una necessità ineludibile se si intende davvero aiutare la nostra economia a riprendersi.<br />

C’è anche ragione di credere che, nel medio termine, in un paese ad <strong>al</strong>ta tassazione come<br />

il nostro, la riduzione delle <strong>al</strong>iquote possa in larga misura ripagarsi da sé, grazie <strong>al</strong>l’effetto<br />

Laffer (ossia l’aumento della base imponibile e la diminuzione dell’evasione come conseguenza<br />

della maggiore crescita economica e della moderazione fisc<strong>al</strong>e; si veda Laffer, 2004).<br />

Ma nell’immediato, e nella misura in cui si intendono utilizzare i tagli fisc<strong>al</strong>i non solo per<br />

ridurre la pressione sui redditi ma anche per «affamare la bestia», strumenti come le dismissioni<br />

di proprietà mobiliari e immobiliari possono sicuramente tamponare il c<strong>al</strong>o del<br />

gettito e, in una prospettiva più a lungo termine, comprimere gli oneri derivanti dagli interessi<br />

sul debito. Da questo punto di vista, nessuna delle riforme su cui i due schieramenti si<br />

sono cimentati con esiti positivi – gli ammortizzatori per il centrosinistra, le «due <strong>al</strong>iquote»<br />

per il centrodestra – era o è tecnicamente impossibile. Questo natur<strong>al</strong>mente non significa<br />

dire che ciascuna di esse sia semplice o non richieda un enorme sforzo riformatore. Per entrambi<br />

gli schieramenti, quindi, vi sarebbero ragioni di opportunità per procedere verso la<br />

dismissione di quanto resta del parastato e per una riduzione del debito pubblico. Ma soprattutto<br />

vi sono esigenze fondament<strong>al</strong>i che spingono in t<strong>al</strong> senso, se si vuole <strong>al</strong>largare la libertà<br />

d’impresa e dare un <strong>futuro</strong> <strong>al</strong>l’economia.<br />

Il pessimo piazzamento dell’It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong>l’interno di ogni ranking riguardante la libertà economica<br />

aiuta a spiegare come mai da parecchi anni il nostro paese non rappresenti più un luogo dove<br />

imprese e capit<strong>al</strong>i stranieri trovino interessante investire. Varie aziende it<strong>al</strong>iane o multinazion<strong>al</strong>i<br />

da tempo attive in It<strong>al</strong>ia hanno spostato <strong>al</strong>trove i loro impianti (o una parte di essi), <strong>al</strong>la ricerca<br />

di opportunità migliori, mentre questo esodo non è compensato d<strong>al</strong>l’arrivo di nuovi attori. In<br />

un’economia che ormai è di fatto glob<strong>al</strong>izzata e dove, nonostante le resistenze di tanti, i processi<br />

di deloc<strong>al</strong>izzazione rappresentano un fatto ineludibile, questa mancanza di appe<strong>al</strong> da<br />

parte del nostro sistema economico è destinata a pesare sempre più negli anni a venire.<br />

126


C’è <strong>al</strong>lora urgente bisogno di interventi efficaci e anche impopolari, sapendo cogliere i segn<strong>al</strong>i<br />

che gli attori di mercato da tempo stanno inviando. Non è detto che debbano necessariamente<br />

avverarsi le previsioni di chi ritiene che il <strong>futuro</strong> riserverà agli it<strong>al</strong>iani una qu<strong>al</strong>ità<br />

della vita in c<strong>al</strong>o e una disoccupazione crescente, ma perché questo non succeda è indispensabile<br />

che si sappia intervenire. Molto, insomma, dipende d<strong>al</strong>la nostra capacità di dare<br />

più spazi a chi vuole intraprendere e costruire il <strong>futuro</strong>.<br />

4.5 L’INDICE DELLA LIBERTÀ DI INTRAPRESA E ALTRI INDICI DI LIBERTÀ ECONOMICA<br />

Per un paese come l’It<strong>al</strong>ia, il messaggio che arriva d<strong>al</strong>l’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto<br />

Bruno Leoni è deprimente: siamo ultimi in Europa. Il che significa che, a parità di<br />

<strong>al</strong>tre condizioni, è probabile che avremo nel <strong>futuro</strong>, come abbiamo avuto nel passato, inferiori<br />

opportunità di crescita e di sviluppo. Quando gli <strong>al</strong>tri cresceranno, noi cresceremo<br />

meno; quando gli <strong>al</strong>tri andranno in recessione, il nostro PIL si contrarrà di più. Significativamente,<br />

nell’ultimo decennio è sempre andata così (Grafico 4.7).<br />

Grafico 4.7 - La forbice nella crescita<br />

(PIL, variazioni %)<br />

10,0<br />

8,0<br />

6,0<br />

4,0<br />

2,0<br />

0,0<br />

-2,0<br />

-4,0<br />

-6,0<br />

-8,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.<br />

UE-27 Irlanda It<strong>al</strong>ia<br />

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009<br />

Il costante differenzi<strong>al</strong>e di crescita osservato in It<strong>al</strong>ia – di circa un punto percentu<strong>al</strong>e – non<br />

è frutto del caso o del destino, ma è conseguenza di scelte (o non scelte, se si preferisce) che<br />

sono state compiute nel nostro paese, oltre che della pesante eredità di una finanza pubblica<br />

127<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

troppo spesso gestita in modo disinvolto e creativo. È abbastanza indicativo, a questo proposito,<br />

che anche <strong>al</strong>tri indici di libertà economica – sviluppati da organizzazioni internazion<strong>al</strong>i<br />

sulla base di approcci e indicatori solo parzi<strong>al</strong>mente coincidenti con quelli che qui<br />

sono stati impiegati – forniscano una risposta non dissimile. In particolare, è opportuno<br />

guardare ai due indici sviluppati da Heritage Foundation/W<strong>al</strong>l Street Journ<strong>al</strong> (Index of Economic<br />

Freedom) e da Fraser Institute/Cato Institute (Economic Freedom of the World). È<br />

inoltre opportuno precisare che questi due indici – disponibili il primo d<strong>al</strong> 1995, il secondo<br />

d<strong>al</strong> 1997 ma con v<strong>al</strong>utazioni quinquenn<strong>al</strong>i fin d<strong>al</strong> 1970 – sono costruiti per v<strong>al</strong>utare virtu<strong>al</strong>mente<br />

tutti i paesi del mondo, e quindi in <strong>al</strong>cuni casi mostrano una variabilità minore<br />

tra gruppi di paesi relativamente omogenei (come quelli europei). Il confronto con aree del<br />

globo estremamente arretrate, sia sotto il profilo economico sia, soprattutto, d<strong>al</strong> punto di<br />

vista istituzion<strong>al</strong>e, tende a far <strong>al</strong>zare il livello per paesi come l’It<strong>al</strong>ia e l’Europa in gener<strong>al</strong>e.<br />

Tuttavia, non è diverso il ranking dell’It<strong>al</strong>ia rispetto agli <strong>al</strong>tri Stati membri dell’UE.<br />

L’Indice della Heritage Foundation/W<strong>al</strong>l Street Journ<strong>al</strong> (d’ora in poi: Indice della libertà economica;<br />

si veda Miller e Holmes, 2009) si compone di dieci libertà: business freedom; trade<br />

freedom; fisc<strong>al</strong> freedom; government size; monetary freedom; investment freedom; financi<strong>al</strong><br />

freedom; property rights; freedom from corruption; labor freedom. Ciascuna di queste<br />

libertà è misurata attraverso una serie di sottoindicatori quantitativi disponibili nelle statistiche<br />

internazion<strong>al</strong>i. L’Indice della libertà economica è definito come la media aritmetica<br />

dei dieci indicatori e viene riportato su una sc<strong>al</strong>a da zero a cento.<br />

Il rapporto del Fraser Institute/Cato Institute (d’ora in poi: Libertà economica nel mondo; si veda<br />

Gwartney e Lawson, 2009) si compone di cinque aree: size of government: expenditures,<br />

taxes, and enterprises; leg<strong>al</strong> structure and security of property rights; access to sound money;<br />

freedom to trade internation<strong>al</strong>ly; regulation of credit, labor, and business. Come nell’Indice<br />

della libertà economica, gli indicatori vengono stimati sulla base delle statistiche internazion<strong>al</strong>i<br />

disponibili, e i v<strong>al</strong>ori così trovati vengono mediati e riportati su una sc<strong>al</strong>a da zero a dieci.<br />

I due indici considerati forniscono risultati simili: sia quanto <strong>al</strong> livello, sia per quel che riguarda<br />

l’andamento nel tempo (Grafico 4.8).<br />

Sostanzi<strong>al</strong>mente, l’It<strong>al</strong>ia viene considerata un paese parzi<strong>al</strong>mente libero, che negli ultimi<br />

anni non ha visto migliorare in misura significativa la sua condizione – sebbene si osservi<br />

chiaramente un progresso rispetto ai decenni passati, quando l’intervento pubblico era ancora<br />

più diffuso e profondo. Entrando nel merito delle v<strong>al</strong>utazioni espresse dai due gruppi<br />

di ricerca, emerge come il nostro paese soffra princip<strong>al</strong>mente di quattro m<strong>al</strong>attie, che vengono<br />

fotografate anche d<strong>al</strong> nostro indice 3 .<br />

3. Il fatto che, nell’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto Bruno Leoni, l’It<strong>al</strong>ia ottenga una v<strong>al</strong>utazione molto più bassa dipende largamente<br />

d<strong>al</strong> contesto nel qu<strong>al</strong>e queste indagini vengono c<strong>al</strong>ate. Se l’an<strong>al</strong>isi riguarda il mondo intero, è chiaro che l’It<strong>al</strong>ia risulti molto<br />

più libera di paesi come Cuba o <strong>al</strong>cuni Stati ex sovietici, e che, rispetto a essi, le differenze con <strong>al</strong>tre re<strong>al</strong>tà europee si appiattiscano.<br />

Viceversa, quando ci si concentra – come abbiamo fatto noi – su un set più ristretto di nazioni, per esempio quelle dell’Unione Europea,<br />

le differenze relative appaiono maggiori. In sostanza, è diversa la percezione delle distanze. Significativamente, però, l’ordinamento<br />

tra i paesi europei non varia in misura sostanzi<strong>al</strong>e tra il nostro indice e gli <strong>al</strong>tri considerati.<br />

128


Grafico 4.8 - Una libertà in aumento<br />

8,0<br />

7,0<br />

6,0<br />

5,0<br />

Indice della libertà economica in It<strong>al</strong>ia<br />

Libertà economica nel mondo<br />

(Sc<strong>al</strong>a destra)<br />

1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010<br />

Fonte: elaborazioni su dati Fraser Institute/Cato Institute e Heritage Foundation/W<strong>al</strong>l Street Journ<strong>al</strong>.<br />

La prima m<strong>al</strong>attia deriva d<strong>al</strong>la pressione fisc<strong>al</strong>e. Le nostre imprese (e i nostri cittadini) sono<br />

tassati troppo e in modo inefficiente (che, <strong>al</strong>l’atto pratico, ha lo stesso effetto di un ulteriore<br />

incremento della pressione fisc<strong>al</strong>e e contributiva). Questo distorce gli incentivi <strong>al</strong>la produzione<br />

di ricchezza e, sommandosi <strong>al</strong>la vasta diffusione del sommerso, produce una minore<br />

propensione <strong>al</strong>la crescita e <strong>al</strong>l’accumulazione di capit<strong>al</strong>e – e dunque <strong>al</strong>l’investimento.<br />

La seconda patologia è data d<strong>al</strong>l’ingombrante settore pubblico. Lo Stato fa troppe cose, e in<br />

molti casi le fa m<strong>al</strong>e: gli indicatori relativi <strong>al</strong>la spesa pubblica, tra l’<strong>al</strong>tro sbilanciati verso il<br />

pagamento degli interessi passivi sul debito pubblico, e quelli sul grado di intermediazione<br />

pubblica sono sinceramente preoccupanti, e rischiano di compromettere il <strong>futuro</strong> del Paese.<br />

Soprattutto, il dibattito politico sul tema rivela un’enorme resistenza del sistema <strong>al</strong> cambiamento,<br />

in quanto il delicato equilibrio che caratterizza il sistema It<strong>al</strong>ia si regge, tra l’<strong>al</strong>tro,<br />

su un complesso scambio di favori e rendite, in virtù del qu<strong>al</strong>e è quasi impossibile dire chi<br />

sia pagatore netto, e chi beneficiario netto della spesa pubblica e della matassa normativa<br />

e regolatoria che funge da infrastruttura immateri<strong>al</strong>e.<br />

La qu<strong>al</strong>ità di norme e regole costituisce, appunto, il terzo limite it<strong>al</strong>iano: le imprese si muovono<br />

entro un orizzonte leg<strong>al</strong>e di difficile comprensione. Il numero di vincoli leg<strong>al</strong>i è enorme,<br />

la legge è scarsamente conoscibile e in più è soggetta a rapidi e imprevedibili cambiamenti.<br />

Tutto ciò determina una situazione di oggettiva inconoscibilità del diritto, la qu<strong>al</strong>e deprime<br />

la propensione a investire e assumersi rischi, con le conseguenze immaginabili.<br />

Infine e par<strong>al</strong>lelamente a questo, il settore pubblico it<strong>al</strong>iano cronicizza i problemi determinati<br />

d<strong>al</strong> combinato disposto di tutto ciò, creando un ulteriore elemento di difficoltà per gli<br />

129<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

investitori. Pressoché tutti gli indicatori oggettivi trasmettono l’immagine di una burocrazia<br />

inefficace (cioè incapace di raggiungere i suoi obiettivi) e inefficiente (cioè costosa rispetto<br />

<strong>al</strong> prodotto). A rendere più complesso il quadro gener<strong>al</strong>e è il fatto che l’inefficacia burocratica<br />

e la complessità amministrativa sono t<strong>al</strong>i da rendere, in <strong>al</strong>cuni casi, controproducenti<br />

i miglioramenti di efficienza: se <strong>al</strong>cune attività che le pubbliche amministrazioni<br />

devono compiere sono economicamente dannose (per esempio perché limitano lo spazio<br />

di manovra delle imprese), un guadagno di efficienza della PA finisce per danneggiare le imprese.<br />

Natur<strong>al</strong>mente, in questo senso le responsabilità princip<strong>al</strong>i non dipendono d<strong>al</strong>le pubbliche<br />

amministrazioni, le qu<strong>al</strong>i si limitano a svolgere i compiti che sono stati loro affidati,<br />

ma d<strong>al</strong>le stesse leggi o, <strong>al</strong> più, d<strong>al</strong>le mod<strong>al</strong>ità con cui la PA è organizzata.<br />

4.6 CONCLUSIONI<br />

L’Indice della libertà di intrapresa dell’Istituto Bruno Leoni si inserisce nel solco di <strong>al</strong>tri tentativi<br />

di misurare la libertà economica. Al pari di essi, l’obiettivo è individuare – attraverso i<br />

dati disponibili da fonti internazion<strong>al</strong>i – una chiave di lettura «istituzion<strong>al</strong>e» (nel senso definito<br />

da S<strong>al</strong>a-i-Martin, 2002 4 ; si veda anche Williamson, 1974) per interpretare la re<strong>al</strong>tà di un<br />

paese. Si tratta di uno sforzo che, inevitabilmente, implica un certo grado di arbitrarietà: la<br />

scelta degli indicatori e dei relativi pesi è lasciata <strong>al</strong>l’immaginazione e <strong>al</strong>la sensibilità degli<br />

autori, per quanto possa essere giustificata anche d<strong>al</strong>le evidenze disponibili in letteratura.<br />

L’enfasi sull’aspetto istituzion<strong>al</strong>e deriva da una serie di ipotesi di fondo. Anzitutto, si suppone<br />

che l’esito dei mercati sia il frutto della libera interazione di individui e imprese e che il modo<br />

in cui l’interazione è organizzata influisca in maniera critica sul risultato. Secondariamente,<br />

si assume che le istituzioni determinino il set di incentivi sotto cui gli esseri umani operano<br />

e quindi rendano più o meno probabili i comportamenti definiti come desiderabili. Terzo, le<br />

istituzioni sono investite anche di una v<strong>al</strong>enza etica, nel senso che la loro bontà dipende d<strong>al</strong><br />

modo in cui si interpretano – sia in assoluto, sia relativamente gli uni agli <strong>al</strong>tri – v<strong>al</strong>ori come<br />

la libertà, l’equità, l’eguaglianza, e così via. Da ultimo, concentrarsi sul contesto in cui gli<br />

agenti operano, anziché su quello che fanno, è una condizione necessaria a garantire il rispetto<br />

dei principi della libertà individu<strong>al</strong>e e del libero arbitrio. Gli atti non saranno mai ugu<strong>al</strong>i<br />

a se stessi, ma, presumibilmente, condizioni simili produrranno conseguenze simili.<br />

L’Indice della libertà di intrapresa è costruito per mezzo di dati oggettivi, ma poggia su un<br />

approccio teorico chiaro: quello per cui la società libera è in grado di creare più ricchezza<br />

e di <strong>al</strong>locarla in modo più efficiente. È in questa prospettiva che si è deciso di v<strong>al</strong>utare in un<br />

senso o nell’<strong>al</strong>tro – e, ancor più, di interpretarli – dati di per sé muti. È in questa prospettiva<br />

che una pressione fisc<strong>al</strong>e bassa è stata considerata più desiderabile di una pressione fisc<strong>al</strong>e<br />

<strong>al</strong>ta, o uno Stato spendaccione meno desiderabile di uno Stato coi conti pubblici in ordine.<br />

4. Secondo cui le istituzioni includono “vari aspetti dell’applicazione della legge... il funzionamento dei mercati... le diseguaglianze e i<br />

conflitti soci<strong>al</strong>i... le istituzioni politiche... i sistemi sanitari... le istituzioni finanziarie... così come le istituzioni dei governi”.<br />

130


L’utilità di un approccio di questo genere è confermata, oltre che d<strong>al</strong>la letteratura sul tema,<br />

d<strong>al</strong>le correlazioni significative e positive che sono state trovate, per esempio, con il PIL pro<br />

capite, il Satisfaction with life index, e l’Indice di competitività del World Economic Forum.<br />

Inoltre, il risultato del nostro indice è coerente con quello di <strong>al</strong>tre indagini an<strong>al</strong>oghe, svolte<br />

da centri di ricerca stranieri.<br />

Da questo punto di vista il livello medio europeo dell’indice non segn<strong>al</strong>a un <strong>al</strong>to grado di<br />

libertà economica (57). In re<strong>al</strong>tà la maggior parte dei paesi (16 sui 25 censiti) si collocano<br />

sopra la media europea. Ma va rivelato che la distanza tra il punteggio della media e quello<br />

degli <strong>al</strong>tri nove paesi è significativamente <strong>al</strong>ta (pari mediamente a 10 punti percentu<strong>al</strong>i), e<br />

soprattutto che l’It<strong>al</strong>ia chiude la classifica col punteggio di 35, risultato di una scarsa performance<br />

in ciascuna macroarea, a eccezione della libertà del lavoro.<br />

In astratto, la libertà economica può piacere o non piacere, apparire più o meno importante.<br />

Ma se ci si interroga sulle ragioni del gap it<strong>al</strong>iano – di crescita, di competitività, di benessere<br />

– <strong>al</strong>lora non si può ignorare quello che tutte le classifiche dicono. Questo contributo conferma<br />

ciò che il Paese avrebbe già dovuto sapere, ma che – finora – ha finto di non conoscere.<br />

APPENDICE A. LE COMPONENTI DELL’INDICE DELLA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

L’Indice della libertà di intrapresa si compone di cinque macroaree (libertà d<strong>al</strong> fisco, libertà<br />

d<strong>al</strong>lo Stato, libertà d’impresa, libertà del lavoro, libertà d<strong>al</strong>la regolazione), ciascuna delle qu<strong>al</strong>i<br />

pesa un quinto rispetto <strong>al</strong>l’indice complessivo. Per ciascuna di queste aree, è stato costruito –<br />

sulla base di statistiche internazion<strong>al</strong>i facilmente accessibili – un indicatore su una sc<strong>al</strong>a da<br />

zero a cento, dove zero corrisponde <strong>al</strong>l’assenza di libertà e cento <strong>al</strong>la piena libertà. Il risultato<br />

è una «percentu<strong>al</strong>e» di libertà economica, dove v<strong>al</strong>ori più <strong>al</strong>ti corrispondono a una maggiore<br />

libertà. L’indice è stato pensato per applicarsi <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà europea, in modo da v<strong>al</strong>utare un numero<br />

ristretto e relativamente omogeneo di paesi. Da ultimo, occorre sottolineare che l’indice<br />

è costruito per interpretare in modo relativo ciascun indicatore: in <strong>al</strong>tre parole, il<br />

«massimo» e il «minimo» di ciascun singolo indicatore (per esempio, l’<strong>al</strong>iquota massima dell’imposta<br />

sul reddito d’impresa) non corrispondono a v<strong>al</strong>ori teorici (per esempio, zero e cento<br />

per cento di tassazione), ma dipendono dai v<strong>al</strong>ori minimo e massimo effettivamente riscontrati<br />

(per esempio, le <strong>al</strong>iquote del 10 per cento in Bulgaria e del 34 per cento in Belgio).<br />

Questa Appendice spiega tutte le 55 variabili impiegate per costruire le macroaree e ne specifica<br />

il peso e la fonte. A seconda che un maggior grado di libertà corrispondesse a v<strong>al</strong>ori<br />

più <strong>al</strong>ti o più bassi, rispettivamente, della variabile in questione, tutte le variabili sono state<br />

ric<strong>al</strong>colate secondo le seguenti formule:<br />

I<br />

i<br />

Vmax- Vi<br />

=<br />

Vmax- V<br />

min<br />

131<br />

Vi<br />

-<br />

J =<br />

Vmin<br />

i<br />

= 1 I<br />

Vmax- -<br />

Vmin<br />

i<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

Nei casi in cui le variabili di interesse non erano disponibili, sono state espunte e i pesi ric<strong>al</strong>colati.<br />

Tutte le variabili si riferiscono <strong>al</strong>l’anno più recente per cui erano disponibili (nella<br />

maggior parte dei casi il 2008) 5 .<br />

A.1 Libertà d<strong>al</strong> fisco<br />

La libertà d<strong>al</strong> fisco intende misurare essenzi<strong>al</strong>mente due fenomeni: quanto il prelievo fisc<strong>al</strong>e<br />

incida sullo svolgimento delle attività economiche, e in che modo. In astratto, <strong>al</strong>iquote<br />

più basse equiv<strong>al</strong>gono a una maggiore libertà e una maggiore semplicità equiv<strong>al</strong>e a una<br />

maggiore libertà.<br />

Tabella A.1 - Le componenti della libertà d<strong>al</strong> fisco<br />

Variabile Peso Spiegazione Fonte<br />

Imposta sul reddito 20,66 Aliquota massima dell’imposta Worldwide Tax Summaries<br />

(imprese) sul reddito d’impresa<br />

Imposta sul reddito 20,66 Aliquota massima dell’imposta Worldwide Tax Summaries<br />

(persone fisiche) sul reddito person<strong>al</strong>e<br />

Profit Tax 16,66 Ammontare medio<br />

delle imposte sui profitti<br />

commerci<strong>al</strong>i per le imprese<br />

Doing Business<br />

Numero <strong>al</strong>iquote 16,50 Numero <strong>al</strong>iquote dell’imposta<br />

sul reddito person<strong>al</strong>e<br />

Worldwide Tax Summaries<br />

IVA 8,50 Aliquota massima dell’imposta<br />

sul v<strong>al</strong>ore aggiunto<br />

Worldwide Tax Summaries<br />

Pagamenti 8,50 Numero dei pagamenti Doing Business<br />

(numero) che le imprese devono<br />

versare <strong>al</strong>l’erario<br />

Pagamenti 8,50 Tempo impiegato d<strong>al</strong>le imprese Doing Business<br />

(ore) per pagare le imposte<br />

5. Allo scopo di verificare che i risultati non dipendessero criticamente d<strong>al</strong>la metodologia adottata e dunque per assicurarne la robustezza<br />

sono stati eseguiti una serie di test. In particolare, si sono cambiati in modo casu<strong>al</strong>e i pesi, generando 500 serie indipendenti; si sono<br />

adottate due diverse tecniche per trattare i missing v<strong>al</strong>ue (ric<strong>al</strong>ibrare i pesi per ignorarli o imputare il v<strong>al</strong>ore medio); e si sono adottate<br />

tre diverse trasformazioni (oltre a quella illustrata, il rapporto tra gli indicatori e il v<strong>al</strong>ore massimo, o minimo, e la reinterpretazione degli<br />

indicatori norm<strong>al</strong>izzati secondo il v<strong>al</strong>ore probabilità cumulata estratta da una distribuzione norm<strong>al</strong>e). Nessuno di questi metodi ha fornito<br />

risultati significativamente diversi da quelli qui illustrati.<br />

132


A.2 Libertà d<strong>al</strong>lo Stato<br />

La libertà d<strong>al</strong>lo Stato somma <strong>al</strong>cuni indicatori di finanza pubblica <strong>al</strong> modo in cui la spesa<br />

pubblica è strutturata, fino a stimare la quota di «interventismo diretto» delle amministrazioni<br />

pubbliche nell’economia attraverso la capit<strong>al</strong>izzazione di borsa delle partecipazioni<br />

rilevanti degli enti pubblici in società quotate.<br />

Tabella A.2 - Le componenti della libertà d<strong>al</strong>lo Stato<br />

Variabile Peso Spiegazione Fonte<br />

Spesa pubblica 10,55 Rapporto tra spesa pubblica Eurostat<br />

e PIL<br />

Debito pubblico 10,55 Rapporto tra debito pubblico Eurostat<br />

e PIL<br />

Trasferimenti e sussidi 10,55 Sussidi e <strong>al</strong>tri trasferimenti World Development<br />

a imprese, organizzazioni non Indicators<br />

governative e organizzazioni<br />

internazion<strong>al</strong>i o <strong>al</strong>tri governi<br />

in rapporto <strong>al</strong>la spesa pubblica<br />

Aiuti di Stato 10,55 Aiuti di Stato Eurostat<br />

Spesa per dipendenti 10,55 Quota della spesa pubblica World Development<br />

utilizzata per il pagamento Indicators<br />

dei dipendenti<br />

Spesa per beni e servizi 10,55 Spesa per la produzione dei beni World Development<br />

e servizi delle amministrazioni Indicators<br />

pubbliche in rapporto <strong>al</strong> PIL<br />

Spesa per interessi 10,55 Quota della spesa pubblica Eurostat<br />

per il pagamento degli interessi<br />

sul debito<br />

Contributi soci<strong>al</strong>i 10,55 Contributi soci<strong>al</strong>i in rapporto World Development<br />

<strong>al</strong> gettito fisc<strong>al</strong>e Indicators<br />

Portafoglio pubblico 10,55 V<strong>al</strong>ore dei pacchetti azionari Fondazione ENI<br />

di imprese quotate in pancia Enrico Mattei<br />

a enti pubblici<br />

Deficit pubblico 5,00 Rapporto tra deficit pubblico<br />

e PIL<br />

Eurostat<br />

133<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

A.3 Libertà del lavoro<br />

La libertà del lavoro v<strong>al</strong>uta quanto e come siano intrusive le norme lavoristiche.<br />

Tabella A.3 - Le componenti della libertà del lavoro<br />

Variabile Peso Spiegazione Fonte<br />

Decentr<strong>al</strong>izzazione contrattu<strong>al</strong>e 18,6 Grado di decentr<strong>al</strong>izzazione Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

nella negoziazione dei contratti Report<br />

Rigidità del lavoro 18,6 Indice delle rigidità nell’impiego Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

delle risorse umane Report<br />

Difficoltà ad assumere 18,6 Difficoltà nell’avviare<br />

un rapporto di lavoro<br />

Doing Business<br />

Difficoltà a licenziare 18,6 Difficoltà nel chiudere<br />

un rapporto di lavoro<br />

Doing Business<br />

Cuneo fisc<strong>al</strong>e 8,8 Contributi soci<strong>al</strong>i a carico Worldwide Tax Summaries<br />

(lavoratore) del lavoratore rispetto<br />

<strong>al</strong> costo del lavoro<br />

Cuneo fisc<strong>al</strong>e 8,8 Contributi soci<strong>al</strong>i a carico Worldwide Tax Summaries<br />

(impresa) dell’impresa rispetto <strong>al</strong> costo<br />

del lavoro<br />

Dispute 4,0 Dispute lavoristiche Eurostat<br />

(ore) (ore / 1.000 lavoratori)<br />

Dispute 4,0 Dispute lavoristiche Eurostat<br />

(numero) (numero / 1.000 lavoratori)<br />

134


A.4 Libertà d’impresa<br />

La libertà d’impresa si concentra sul grado di autonomia possibile nella conduzione di<br />

un’azienda.<br />

Tabella A.4 - Le componenti della libertà d’impresa<br />

Variabile Peso Spiegazione Fonte<br />

Restrizioni sui capit<strong>al</strong>i 15 Indice sul grado di libertà Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

nel movimento dei capit<strong>al</strong>i Report<br />

Intensità della competizione loc<strong>al</strong>e 15 Grado di competitività dei Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

mercati a livello loc<strong>al</strong>e Report<br />

Protezione degli investitori 15 Grado di protezione Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

degli investitori Report<br />

Chiudere un’attività 8 Numero di giorni necessari Doing Business<br />

(giorni) per chiudere un’attività<br />

Chiudere un’attività (ricupero) 8 Tasso di ricupero<br />

nella chiusura di un’attività<br />

(centesimi per dollaro)<br />

Doing Business<br />

Avviare un’attività 7 Numero di procedure Doing Business<br />

(procedure) necessarie ad avviare un’attività<br />

Avviare un’attività 7 Numero di giorni necessari Doing Business<br />

(giorni) per avviare un’attività<br />

Avviare un’attività 7 Costi per avviare un’attività Doing Business<br />

(costi) (rispetto <strong>al</strong> reddito pro capite)<br />

Prestiti person<strong>al</strong>i 3 Commissioni sui prestiti agli Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

(costi) individui (% del prestito minimo)<br />

Prestiti person<strong>al</strong>i 3 Giorni per la concessione Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

(giorni) di un prestito agli individui<br />

Mutui 3 Giorni per la concessione Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

di un mutuo<br />

Prestiti <strong>al</strong>le imprese 3 Giorni per la concessione Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

(giorni) di un prestito a un’impresa<br />

Prestiti <strong>al</strong>le PMI 3 Giorni per la concessione Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

(giorni) di un prestito a una piccola<br />

o media impresa<br />

Mutui <strong>al</strong>le PMI 3 Giorni per la concessione Banca Mondi<strong>al</strong>e<br />

(giorni) di un mutuo a una piccola<br />

o media impresa<br />

135<br />

4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA


4. LA LIBERTÀ DI INTRAPRESA IN EUROPA<br />

A.5 Libertà d<strong>al</strong>la regolazione<br />

La libertà d<strong>al</strong>la regolazione misura il grado di intrusività di norme e regole e si basa su una<br />

serie di indicatori sull’affidabilità del quadro normativo, la pervasività della corruzione, la<br />

qu<strong>al</strong>ità della pubblica amministrazione.<br />

Tabella A.5 - Le componenti della libertà d<strong>al</strong>la regolazione<br />

Variabile Peso Spiegazione Fonte<br />

Diritti di proprietà 9,10 Grado di protezione dei diritti Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

di proprietà Report<br />

Proprietà intellettu<strong>al</strong>e 9,10 Grado di protezione dei diritti Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

di proprietà intellettu<strong>al</strong>e Report<br />

Sistema leg<strong>al</strong>e 9,10 Credibilità del sistema leg<strong>al</strong>e Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

Report<br />

Peso della regolazione 9,10 Pervasività della regolazione Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

Report<br />

Procedure di infrazione 9,10 Procedure di infrazione aperte<br />

d<strong>al</strong>la Commissione europea<br />

<strong>al</strong> 31 dicembre 2008<br />

Commissione europea<br />

Qu<strong>al</strong>ità della regolamentazione 9,10 Qu<strong>al</strong>ità percepita Worldwide Governance<br />

della regolamentazione Indicators<br />

Voice & Accountability 9,10 Garanzia dei diritti basilari Worldwide Governance<br />

<strong>al</strong>la libertà d’espressione,<br />

di associazione e di<br />

partecipazione <strong>al</strong>la vita pubblica<br />

Indicators<br />

Corruzione 4,05 Percezione della corruzione Transparency Internation<strong>al</strong><br />

Controllo della corruzione 4,05 Credibilità della lotta Worldwide Governance<br />

<strong>al</strong>la corruzione Indicators<br />

Efficienza della PA 4,05 Efficienza della PA Afonso, Schuknecht<br />

e Tanzi (2005)<br />

Efficacia della PA 4,05 Capacità della P A Worldwide Governance<br />

di raggiungere i suoi obiettivi Indicators<br />

FDI 4,05 Investimenti diretti esteri World Development<br />

in rapporto <strong>al</strong> PIL Indicators<br />

Trasferimento tecnologico 4,05 Effetto degli investimenti diretti Glob<strong>al</strong> Competitiveness<br />

esteri sul trasferimento tecnologico Report<br />

Contratti 4,00 Numero di procedure per ottenere Doing Business<br />

(procedure) l’esecutività di un contratto<br />

Contratti 4,00 Giorni necessari per ottenere Doing Business<br />

(giorni) l’esecutività di un contratto<br />

Contratti 4,00 Costo per ottenere l’esecutività Doing Business<br />

(costo) di un contratto (rispetto <strong>al</strong> v<strong>al</strong>ore<br />

del contratto)<br />

136


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA<br />

IN ITALIA<br />

Fabrizio G<strong>al</strong>imberti<br />

“Tanto più che le annate vanno misere per via dei prezzi del grano che c<strong>al</strong>ano sempre”.<br />

“Così il pane è a buon mercato”.<br />

“Sì, ma i contadini rischiano di non trovar più profitto a seminare il grano; e <strong>al</strong>lora dove si<br />

va a finire? Voi, Giovanni, la capite una cosa simile? A me pare il mondo <strong>al</strong>la rovescia”.<br />

“Ho sentito dire che è la concorrenza del grano che viene d<strong>al</strong>l’America”.<br />

“D<strong>al</strong>l’America? Coi bastimenti? Ma guarda cosa mai si deve sentire! E hanno tanto grano di<br />

troppo di là d<strong>al</strong> mare? E ci son tanti bastimenti da poter dare un disturbo simile qui da noi?”.<br />

“Bisogna dire di sì”.<br />

“Allora, bisogna dire che quando qui nel vecchio mondo sembra d’essere arrivati a assettare<br />

le cose <strong>al</strong>la meglio, s<strong>al</strong>ta fuori un mondo nuovo a rimetterle fuori di sesto?”.<br />

“Bisogna dire di sì”.<br />

D<strong>al</strong> «Mulino del Po», vol. III°, di Riccardo Bacchelli, 1957.<br />

Questo di<strong>al</strong>ogo serrato fra padrona Cecilia – l’indimenticabile mugnaia del «Mulino del Po»<br />

– e il figlio Giovanni racchiude in nuce quello che è forse l’aspetto più pregnante della libertà<br />

economica. Questa può rendere più ricchi o meno ricchi, ma può anche uccidere, metaforicamente<br />

e t<strong>al</strong>volta letter<strong>al</strong>mente. Può portare <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento e <strong>al</strong>la rovina, quando la<br />

«concorrenza di là d<strong>al</strong> mare» sconvolge le convenienze dei produttori loc<strong>al</strong>i e innesta quel<br />

protezionismo che è il contrario della libertà di vendere del produttore e della libertà di<br />

scelta del consumatore.<br />

All’indomani dell’Unità d’It<strong>al</strong>ia, quando si dipanano le vicende di padrona Cecilia e della<br />

sua famiglia di molinari, la libertà economica assumeva quei contorni netti che abbiamo<br />

visto nel di<strong>al</strong>ogo. Ma accanto <strong>al</strong>l’epopea familiare si agitava un confuso contorno di epopee<br />

nazion<strong>al</strong>i che avrebbe plasmato un volto tutto it<strong>al</strong>iano a quella ricerca di un equilibrio<br />

– a tutt’oggi non ancora raggiunto – fra agire pubblico e agire privato, un equilibrio che definisce<br />

i perimetri della libertà economica di una comunità.<br />

Per compiere questo excursus storico occorre dapprima definire la materia del contendere:<br />

cosa si intende per libertà economica. Esplorando le diverse dimensioni di questa libertà e<br />

i diversi attentati di cui può essere oggetto. Armati di queste definizioni andremo poi a scor-<br />

Fabrizio G<strong>al</strong>imberti, Editori<strong>al</strong>ista de Il Sole 24 Ore.<br />

137<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

rere la storia d’It<strong>al</strong>ia per cogliere le fattezze – belle o brutte – di questa libertà nel secolo e<br />

mezzo di vicenda unitaria.<br />

La concettu<strong>al</strong>izzazione della libertà economica serve a stabilire un paradigma ide<strong>al</strong>e da<br />

usare come benchmark, un prisma con cui poi traguardare le fasi della storia patria per determinare<br />

in qu<strong>al</strong>e misura ci siamo <strong>al</strong>lontanati o avvicinati a questa particolare dimensione<br />

della libertà.<br />

Ma qu<strong>al</strong>e sono le sfide dell’oggi: a che punto siamo nella ricerca del «sacro c<strong>al</strong>ice»? La<br />

Grande recessione ci ha fatto fare passi indietro o passi avanti? E che cosa dobbiamo fare<br />

per inoltrarci in quello stretto crin<strong>al</strong>e fra libertà e regole che la crisi recente ha ridefinito<br />

con lettere di fuoco?<br />

5.1 “LIBERTÀ VA CERCANDO CH’È SI CARA...”<br />

La libertà di cui parla Dante è facile da intendere, ma la libertà economica, quella vera, è più<br />

difficile da definire. Un sistema economico sano non è quello del capit<strong>al</strong>ismo selvaggio, né<br />

dei robber barons dell’America dell’Ottocento, ma è una mezzadria fra pubblico e privato,<br />

con rispetto dei ruoli, assenza di antagonismo e collaborazione da «sistema-Paese».<br />

Un primo punto importante da chiarire è la relazione fra libertà economiche e libertà civili.<br />

È un punto importante perché la Grande recessione ha scosso <strong>al</strong>cune granitiche certezze:<br />

certezze relative a quella che si può chiamare la «indivisibilità» della libertà. È facile arguire<br />

che la libertà politica e civile – libertà di associarsi, di fondare partiti, di votare democraticamente,<br />

libertà di parola e di stampa, e oggi diremmo anche libertà di navigare in<br />

internet – si porta dietro ineluttabilmente la libertà di intraprendere, di produrre, di competere.<br />

E si potrebbe pensare che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non mutasse: la libertà<br />

economica si porta dietro anche la libertà civile. Questa seconda correlazione in re<strong>al</strong>tà<br />

è sempre stata meno granitica: già da prima della crisi avevamo l’esempio di un paese – e<br />

il paese più popoloso del mondo, la Cina – che aveva abbracciato le libertà economiche ma<br />

negava le libertà civili. E questa «mancata correlazione» ha retto <strong>al</strong>la prova della recessione.<br />

Non solo: la divaricazione fra libertà economiche e libertà civili ha dimostrato una capacità<br />

di reagire <strong>al</strong>le devastazioni della crisi con ben maggiore agilità, tempestività ed efficacia rispetto<br />

a quel che è successo nei paesi di antica industri<strong>al</strong>izzazione e di consolidate libertà.<br />

La Grande recessione ha rivelato un «ventre molle» del meccanismo economico: quando<br />

la crisi origina nel settore finanziario dell’economia vi è un grande pericolo di «pro ciclicità».<br />

Infatti, le banche hanno paura a prestare soldi, le imprese, affamate di credito perché<br />

gli ordini sono crollati, peggiorano i loro bilanci, questo peggioramento mette ancor più<br />

paura <strong>al</strong>le banche e la spir<strong>al</strong>e negativa continua, portando la recessione verso la depressione.<br />

In questo caso, vi sono ovvi vantaggi ad avere un sistema bancario da economia di<br />

138


comando e non da economia di mercato. In Cina la libertà economica è concentrata nel settore<br />

produttivo, mentre il settore finanziario è ancora sottomesso a direttive d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to, ed è<br />

bastato dare ordini <strong>al</strong>le banche per evitare comportamenti pro ciclici.<br />

Allora, la vicenda recente giustifica il fatto che libertà economiche e libertà civili possano<br />

essere e rimanere separate? La conclusione sarebbe prematura. Probabilmente quella cinese<br />

è solo una fase di transizione. Nel medio-lungo periodo i risultati andranno a confermare<br />

la correlazione. Il crescente benessere in Cina porterà – sta già portando – a un<br />

ulteriore miglioramento del capit<strong>al</strong>e umano, a una volontà di auto-affermazione che ric<strong>al</strong>ca<br />

la crescita della classe medio-borghese nell’Ottocento occident<strong>al</strong>e, e la volontà di contare,<br />

di partecipare <strong>al</strong>la conduzione della nazione è a lungo andare incompatibile col sistema politico<br />

autocratico cinese.<br />

Anche nella storia europea – sia quella it<strong>al</strong>iana sia quella tedesca o spagnola – vi sono stati<br />

periodi in cui un modicum di libertà economica ha coesistito con l’autocrazia e non è quindi<br />

anom<strong>al</strong>o che la Cina si trovi in una situazione simile. In effetti, la teoria economica afferma<br />

che il binomio economia-democrazia è il più efficiente: l’economia ha bisogno dell’impegno<br />

e della creatività dell’individuo, ha bisogno di leggi che proteggano d<strong>al</strong> furto e d<strong>al</strong>la sopraffazione,<br />

ha bisogno di veder riconosciuti i frutti del proprio lavoro; e tutti questi bisogni<br />

non sono compatibili con forme di governo assolutiste.<br />

D<strong>al</strong> punto di vista economico, sono meglio le depredazioni dei banditi o è meglio una tirannia?<br />

È meglio la tirannia, perché il tiranno ha interesse a prendere ricchezza da una fonte<br />

rinnovabile: ha interesse a che l’economia funzioni, perché è d<strong>al</strong>l’economia del paese che<br />

trae il suo sostentamento, mentre la logica del bandito è solo quella dell’arraffare. Ma la<br />

democrazia è ancora meglio, perché dà <strong>al</strong>la gente l’incentivo a pensare <strong>al</strong>le cose giuste da<br />

fare, ad avanzare argomenti razion<strong>al</strong>i in favore delle politiche che vogliono adottare: se la<br />

gente sa che quel che pensa e propone conta, non si rifugia nella paura e nell’apatia, e questo<br />

è un bene per l’economia.<br />

Finora i successi dell’economia cinese si sono basati su fattori di quantità: la grande disponibilità<br />

e il basso costo del capit<strong>al</strong>e umano. Ma man mano che la Cina s<strong>al</strong>e i gradini del v<strong>al</strong>ore<br />

aggiunto, come sta già facendo, l’«economia della conoscenza» tollererà meno i<br />

comandi che vengono d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to.<br />

Una scienza, come la scienza economica, che predica i vantaggi della concorrenza, non<br />

può che richiedere concorrenza in tutti i campi dell’agire umano. E che cos’è la democrazia<br />

se non concorrenza? La possibilità, per ciascuno, di fondare un partito e di «vendere»<br />

le proprie idee <strong>al</strong> pubblico è l’esatto equiv<strong>al</strong>ente della possibilità per ciascuno di metter su<br />

una panetteria e di vendere il pane <strong>al</strong> pubblico. E, così come questa libertà d’impresa deve<br />

essere ferocemente protetta dai pubblici poteri contro comportamenti anti-concorrenza, <strong>al</strong>trettanto<br />

la libertà di offrire idee <strong>al</strong> pubblico attraverso partiti o movimenti politici deve essere<br />

ferocemente protetta con regole che mettano tutti su un piano di eguaglianza,<br />

139<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

impedendo, per esempio, a chi controlla i mezzi di informazione di acquisire un ingiusto<br />

vantaggio nel «mercato» della democrazia.<br />

L’<strong>al</strong>tra grande correlazione fra libertà economica e assetto della società è, <strong>al</strong> di là delle libertà<br />

civili, la coesione soci<strong>al</strong>e. Nella storia it<strong>al</strong>iana il grado di coesione soci<strong>al</strong>e si staglia<br />

come una fondament<strong>al</strong>e linea interpretativa degli accadimenti. E purtroppo, per le ragioni<br />

che diremo, la bassa coesione ha da sempre costituito un fattore limitativo della performance<br />

economica.<br />

Secondo la «mano invisibile» di Adam Smith un atteggiamento di «razion<strong>al</strong>e egoismo» dovrebbe<br />

condurre <strong>al</strong> benessere collettivo. Ma ci sono eccezioni. Gli economisti hanno costruito<br />

il «dilemma del prigioniero» per descrivere una situazione in cui il perseguimento di<br />

quel «razion<strong>al</strong>e egoismo» porta <strong>al</strong>l’esito peggiore. A meno che... a meno che i contraenti si<br />

fidino l’uno dell’<strong>al</strong>tro, si conoscano abbastanza bene da sapere quel che l’<strong>al</strong>tro verrà a fare<br />

o a dire. Fortunatamente, si è appurato (esperimenti psicologici lo confermano) che nell’interazione<br />

soci<strong>al</strong>e la natura umana fa sì che uno tenda a operare con <strong>al</strong>tri di idem sentire.<br />

L’importanza di questo idem sentire nella psicologia e nell’economia trova conferme anche<br />

nella biologia. Nei banchi di cor<strong>al</strong>lo <strong>al</strong> largo di Panama vive un pesciolino ermafrodita chiamato<br />

hamlet. Durante il corteggiamento i due hamlet fanno a turno nell’assumere i ruoli maschile<br />

e femminile. All’inizio la «femmina» deposita solo poche uova, perché aspetta di<br />

vedere se il «maschio» rimane per fare il suo turno di «femmina» e non se la fila via dopo<br />

aver fertilizzato le uova. Se rimane, il numero di uova depositate cresce ogni volta, man<br />

mano che la fiducia reciproca viene cementata fra i due. I rapporti di fiducia e di collaborazione<br />

cementano anche i comportamenti di scelte economiche in senso lato, come rivela<br />

il «dilemma del prigioniero». E si ritrovano anche in una delle condizioni di base dello sviluppo<br />

economico, il quadro giuridico di certezza dei contratti che non è <strong>al</strong>tro che una proiezione<br />

normativa della fiducia e dell’onestà.<br />

La libertà economica si nutre, insomma, di libertà civili, di coesione soci<strong>al</strong>e e di fiducia reciproca.<br />

Guardare <strong>al</strong>le vicende della libertà economica vuol dire quindi guardare anche <strong>al</strong>la<br />

misura in cui questi tre fattori hanno giocato nel plasmare le fattezze del sistema economico.<br />

5.2 LE DIVERSE DIMENSIONI DELLA LIBERTÀ ECONOMICA<br />

La proiezione della libertà economica nell’assetto istituzion<strong>al</strong>e di un paese rivela diverse dimensioni.<br />

Passiamole rapidamente in rassegna, perché ci serviranno per v<strong>al</strong>utare come gli<br />

assetti it<strong>al</strong>iani si misurano rispetto a questi volti di libertà.<br />

Una prima dimensione è quella cui faceva riferimento padrona Cecilia nella citazione (d<strong>al</strong><br />

«Mulino del Po») riportata più sopra: il protezionismo esterno, la difesa d<strong>al</strong>la concorrenza<br />

140


estera con le armi dei dazi, delle quote e di <strong>al</strong>tre barriere normative. Una difesa che, certamente,<br />

non è sempre e comunque da condannare. La moderna teoria economica prevede<br />

che nelle fasi inizi<strong>al</strong>i dello sviluppo economico una dose di protezionismo possa essere benefica<br />

per un paese che soffre di nanismo del settore tradeable, che produce cioè beni commerciabili<br />

con le <strong>al</strong>tre nazioni. La giustificazione, natur<strong>al</strong>mente, può essere abusata e il<br />

giudizio sul grado di protezionismo ammissibile viaggia sempre su un crin<strong>al</strong>e molto stretto.<br />

La difesa d<strong>al</strong>la concorrenza può avere oltre <strong>al</strong>la dimensione esterna – è sempre più facile<br />

prendersela con gli «stranieri» – anche una dimensione interna. La libertà economica soffre<br />

di un «protezionismo interno» che si manifesta negli ostacoli <strong>al</strong>la concorrenza, negli oligopoli,<br />

nei monopoli leg<strong>al</strong>i o di fatto o nell’assenza/insufficienza delle azioni di tutela della<br />

concorrenza da parte delle autorità pubbliche. Ambedue i tipi di protezionismo sono legati<br />

a doppio filo a fattori storici e cultur<strong>al</strong>i, d<strong>al</strong>la diffidenza verso lo straniero a una cultura di<br />

coabitazione/prevaricazione, in quanto distinta da una coabitazione/collaborazione.<br />

I due tipi di protezionismo appena descritti si riferiscono <strong>al</strong>l’economia re<strong>al</strong>e, <strong>al</strong> tessuto produttivo<br />

in senso proprio. Ma ci sono anche <strong>al</strong>tri tipi di protezionismo che feriscono la libertà<br />

economica: il «protezionismo finanziario» e il «protezionismo v<strong>al</strong>utario». Il primo pone recinti<br />

e steccati <strong>al</strong>la libertà di movimento dei capit<strong>al</strong>i e ha anche qui una dimensione esterna<br />

(ostacoli <strong>al</strong>l’esportazione di fondi o restrizioni <strong>al</strong>l’ingresso di capit<strong>al</strong>i esteri) e una dimensione<br />

interna (limiti <strong>al</strong>l’impiego dei risparmi nazion<strong>al</strong>i attraverso il mancato sviluppo di strumenti<br />

di impiego <strong>al</strong>ternativi ai titoli pubblici e ai depositi bancari o post<strong>al</strong>i).<br />

Questo tipo di protezionismo finanziario è diverso d<strong>al</strong> «protezionismo spontaneo» descritto<br />

d<strong>al</strong> puzzle Feldstein-Horioka, che rappresenta la stretta correlazione fra risparmi e investimenti;<br />

nei diversi paesi i risparmi e gli investimenti sono sempre vicini fra loro, m<strong>al</strong>grado il<br />

fatto che, in teoria, gli investimenti in un dato paese potrebbero essere indifferentemente finanziati<br />

col risparmio interno o col risparmio estero. La «libertà economica» si giova anche<br />

della possibilità di sottrarsi a questa stretta correlazione fra risparmi e investimenti a livello<br />

nazion<strong>al</strong>e, ma in questo caso la rimozione degli ostacoli non dipende da misure di politica<br />

economica (abbassare i dazi o le quote o annullare le restrizioni ai movimenti di capit<strong>al</strong>e)<br />

ma da miglioramenti, per loro natura lenti, nella capacità di prestatori e prenditori di fondi<br />

di sentirsi «cittadini del mondo».<br />

Il protezionismo v<strong>al</strong>utario si v<strong>al</strong>e di interventi e restrizioni sul mercato delle v<strong>al</strong>ute così da<br />

mantenere il cambio a livelli favorevoli <strong>al</strong>l’export del paese.<br />

Vi è poi la vexata quaestio dell’intervento dello Stato nell’economia. La limitazione <strong>al</strong>la libertà<br />

economica scatta quando la presenza dello Stato – pur indispensabile per la produzione<br />

di beni pubblici – supera certi limiti (limiti variabili nel tempo e nello spazio). I<br />

parametri da prendere in considerazione sono quindi la quota di spesa pubblica, la pressione<br />

fisc<strong>al</strong>e, il peso della spesa per gli interessi sul debito pubblico (che toglie gradi di libertà <strong>al</strong>la<br />

manovra di finanza pubblica) e la velocità con la qu<strong>al</strong>e questi parametri cambiano nel 5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

141


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

tempo. Natur<strong>al</strong>mente, t<strong>al</strong>i fattori di quantità sono importanti ma imp<strong>al</strong>lidiscono di fronte <strong>al</strong><br />

«fattore qu<strong>al</strong>ità»: una spesa pubblica elevata ma di <strong>al</strong>ta qu<strong>al</strong>ità può favorire la libertà economica,<br />

che può invece essere conculcata da una spesa pubblica che, anche se più bassa<br />

in quota del reddito nazion<strong>al</strong>e, sia di cattiva qu<strong>al</strong>ità.<br />

La presenza dello Stato nell’economia di un paese va <strong>al</strong> di là dei parametri dei bilanci pubblici<br />

e guarda anche <strong>al</strong>le reti di leggi e regolamenti che circondano l’attività produttiva. La<br />

normativa e la regolamentazione sono fattori fondament<strong>al</strong>i nella v<strong>al</strong>utazione della libertà<br />

economica: gran parte delle misure quantitative di detta libertà (come l’indice Doing Business<br />

della Banca Mondi<strong>al</strong>e) dipendono d<strong>al</strong>l’invadenza di norme e regolamenti e d<strong>al</strong>le loro<br />

applicazione e rispetto.<br />

La politica dell’immigrazione è un’<strong>al</strong>tra componente importante. Natur<strong>al</strong>mente, l’immigrazione<br />

pone problemi che non sono solo di libertà economica, ma anche di coesione soci<strong>al</strong>e<br />

(e, come detto prima, la coesione soci<strong>al</strong>e retroagisce poi sulla libertà economica). Anche qui,<br />

i costi e i benefici corrono su un crin<strong>al</strong>e stretto che, specie nell’It<strong>al</strong>ia degli ultimi tempi,<br />

porta <strong>al</strong>la libertà economica rischi e opportunità.<br />

Da ultimo, bisogna considerare i fattori istituzion<strong>al</strong>i e cultur<strong>al</strong>i (d<strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità delle istituzioni<br />

<strong>al</strong>la buona o cattiva lega del «capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e»). Questi sono i «convitati di pietra» della libertà<br />

economica: quando non sono favorevoli vengono a costituire l’ostacolo forse più<br />

grosso e più difficile da evitare, perché sono fattori di lenta sedimentazione e di lenta rimozione.<br />

Fortunatamente, nello stesso paese possono coesistere – lo vedremo nel caso it<strong>al</strong>iano<br />

– fattori cultur<strong>al</strong>i sia negativi sia positivi, come quel genius loci che ha contributo<br />

tanto a una creatività e a una eccellenza industri<strong>al</strong>e che il mondo ci invidia.<br />

5.3 L’ITALIA DI FINE OTTOCENTO<br />

Come reagì l’economia it<strong>al</strong>iana <strong>al</strong>lo «shock da Unificazione»? Un confronto è utile per dare<br />

un’idea delle poste in gioco. Se si guarda <strong>al</strong> periodo post-euro – d<strong>al</strong> 1999 a oggi – quello<br />

che s<strong>al</strong>ta agli occhi è un difficile processo di digestione per l’economia e per la società.<br />

L’unificazione monetaria europea è stata uno shock per l’economia it<strong>al</strong>iana: uno shock per<br />

i produttori, che hanno visto le periodiche sv<strong>al</strong>utazioni svanire d<strong>al</strong>l’orizzonte dei parametri<br />

competitivi; uno shock per le famiglie, che si sono trovate a far i conti con un diverso<br />

metro monetario e a fronteggiare un ingiusto divario fra chi doveva vivere con un s<strong>al</strong>ario ferrignamente<br />

ancorato <strong>al</strong>la nuova parità fissa e chi poteva invece approfittare delle confusioni<br />

della conversione per aumentare i prezzi dei propri servizi.<br />

Se l’adattamento <strong>al</strong>la nuova moneta ha creato tensioni, incertezze e bassa crescita, quanta<br />

più sofferenza dell’economia deve aver creato un’<strong>al</strong>tra unificazione, quella politica che iniziò<br />

nel 1861! E in effetti <strong>al</strong>cuni storici parlano di un «f<strong>al</strong>limento economico del Risorgi-<br />

142


mento», un terzo di secolo di economia stagnante che terminò solo – lo vedremo nella prossima<br />

sezione - con la «rivoluzione industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana».<br />

E quanta «libertà economica» c’era in quell’It<strong>al</strong>ia agitata? Nel primo periodo post-Unità il<br />

governo fece sua la politica liberista dello Stato sabaudo, che per<strong>al</strong>tro aveva dato buoni risultati<br />

nel Regno di Sardegna. Il protezionismo esterno venne fortemente ridotto, con l’estensione<br />

a tutto il territorio nazion<strong>al</strong>e dei livelli daziari piemontesi. Non solo: anche il<br />

protezionismo «loc<strong>al</strong>e» venne a cadere, con l’abolizione dei dazi interni. Un punteggio positivo<br />

per la libertà economica, quindi. Ma di troppa libertà si può anche morire come<br />

avrebbe detto padrona Cecilia e le prime insofferenze non tardarono a manifestarsi.<br />

La politica liberista dei primi due decenni sembrava una scelta obbligata per un paese che<br />

voleva avvicinarsi <strong>al</strong> resto dell’Europa (<strong>al</strong> Centro e <strong>al</strong> Nord del Vecchio continente), aree<br />

dove la rivoluzione industri<strong>al</strong>e aveva già attecchito. Ma il resto dell’Europa non rimaneva<br />

fermo e la quota dell’agricoltura in It<strong>al</strong>ia – <strong>al</strong> 55 per cento ai tempi dell’Unità – continuò a<br />

essere dominante per il resto del secolo. Il cat<strong>al</strong>izzatore che fece cambiar direzione <strong>al</strong>la libertà<br />

degli scambi fu la crisi agraria che investì l’Europa negli anni Ottanta, a causa della<br />

concorrenza del grano americano (quello di cui si lagnava Cecilia) e russo. Ma i dazi, con<br />

le leggi del 1878 e del 1887, non si limitarono a proteggere l’agricoltura: ne beneficiarono<br />

anche dapprima l’industria tessile e quella zuccheriera e più tardi quella siderurgica e meccanica.<br />

Una specie di pactum sceleris accomunò le richieste dei grandi proprietari terrieri<br />

per un dazio sul grano con il protezionismo invocato dagli industri<strong>al</strong>i.<br />

Grafico 5.1 - Economia it<strong>al</strong>iana sempre più aperta<br />

(Importazioni ed esportazioni in % del PIL)<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

1861<br />

1868<br />

1875<br />

1882<br />

1889<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

1896<br />

1903<br />

1910<br />

1917<br />

1924<br />

1931<br />

Quella politica protezionistica fu un bene o un m<strong>al</strong>e? Le ferite <strong>al</strong>la libertà di vendere e di<br />

com prare fuori frontiera sono sempre da condannare? Non sempre, come detto più sopra.<br />

1938<br />

143<br />

1945<br />

1952<br />

1959<br />

1966<br />

1973<br />

1980<br />

1987<br />

1994<br />

2001<br />

2008<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

La libertà degli scambi è raccomandata fra paesi che sono <strong>al</strong>lo stesso livello di sviluppo; ma<br />

quando il tessuto produttivo di un paese è arido e sterile, c’è bisogno t<strong>al</strong>volta di «recintarlo»,<br />

così come in un prato appena seminato di erba appaiono steccati e cartelli «Non c<strong>al</strong>pestare».<br />

Così come nel caso del prato, queste recinzioni hanno senso solo se temporanee.<br />

Natur<strong>al</strong>mente c’è un rischio, il rischio che la protezione temporanea diventi difficile da rimuovere,<br />

perché crea interessi costituiti che poi influenzano le politiche. Ma le recinzioni,<br />

se davvero temporanee, possono essere indispensabili per creare il «brodo di cultura» necessario<br />

a incubare le industrie che cercano di arrivare a dimensioni competitive. Il caso siderurgico<br />

è importante. Nei primi lustri dopo l’Unità il miner<strong>al</strong>e di ferro dell’Isola d’Elba<br />

veniva esportato, non andava a nutrire un’industria siderurgica it<strong>al</strong>iana e travi e putrelle venivano<br />

importate. Ma le ambizioni militari it<strong>al</strong>iane (nel 1885 l’It<strong>al</strong>ia acquisiva la baia di Assab<br />

nel mar Rosso) richiedevano navi e piastre corazzate. La prima grande impresa siderurgica<br />

fu creata nel 1884 (la Terni) con l’apporto decisivo dello Stato. La storia di quel periodo è<br />

quella di una politica industri<strong>al</strong>e attiva: cantieri nav<strong>al</strong>i sovvenzionati, preferenze nazion<strong>al</strong>i<br />

nell’assegnazione di commesse stat<strong>al</strong>i, vasti programmi di opere pubbliche... Tutte iniziative,<br />

queste, che oggi cadrebbero sotto gli str<strong>al</strong>i delle regole comunitarie sugli aiuti di Stato.<br />

Vuol dire che bisogna condannare queste interferenze che circoscrivevano l’agire economico<br />

dei singoli? Non necessariamente: la libertà economica è un concetto relativo, quello<br />

che in un dato momento storico e in un dato paese sarebbe da condannare, può invece essere<br />

appropriato in circostanze diverse. La nascente borghesia capit<strong>al</strong>ista non era certo scontenta<br />

di queste protezioni, anche se questo non è sicuramente un criterio per approvare o<br />

disapprovare. Adam Smith es<strong>al</strong>tava la mano invisibile, cioè il libero mercato, ma fu il primo<br />

a ricordarci che per farlo funzionare occorre limitare <strong>al</strong>cune libertà, come quella di formare<br />

cartelli tra produttori per manipolare il mercato stesso: “Quelli che fanno lo stesso mestiere<br />

di rado si incontrano, foss’anche per divertirsi, ma se si trovano assieme la conversazione<br />

volge sempre in una cospirazione contro il pubblico o in qu<strong>al</strong>che modo di <strong>al</strong>zare i prezzi”.<br />

Non vi è dubbio, tuttavia, che senza quelle iniziative pubbliche, concesse senza troppe illusioni<br />

(Francesco Saverio Nitti avrebbe detto ai siderurgici, anni più tardi: “So bene che rubate,<br />

ma <strong>al</strong>meno dateci un’industria v<strong>al</strong>ida”), l’industria it<strong>al</strong>iana sarebbe stata costretta per<br />

molto tempo ancora in una situazione di minorità.<br />

Parafrasando il detto evangelico «la verità vi farà liberi», si può dire che la libertà, anche quella<br />

economica, si nutre di conoscenza. E in un paese in cui la maggioranza della popolazione era<br />

an<strong>al</strong>fabeta, la libertà economica era severamente limitata. Le filande, gli opifici, le fabbrichette<br />

non costituivano ancora un vero tessuto produttivo e il credito – quel miracoloso processo di<br />

intermediazione che trasforma capit<strong>al</strong>i morti in fondi disponibili per la produzione – non circolava<br />

nelle vene e nelle arterie dell’economia. Le banche erano legate a filo doppio ai poteri<br />

pubblici e i prestiti si dirigevano soprattutto verso l’immobiliare, che aveva conosciuto, con<br />

il rinnovamento urbanistico di Roma e Napoli, un bolla speculativa negli anni Ottanta.<br />

Quando la bolla scoppiò, <strong>al</strong>cune banche rimasero con in mano il cerino acceso e le autorità<br />

dovettero intervenire per s<strong>al</strong>varle, pilotando f<strong>al</strong>limenti e fusioni. Anche nel lato finanziario<br />

144


dell’economia, insomma, di libertà (libertà di raccolta, libertà di scelta, libertà di prestiti) ce<br />

n’era poca, per mancanza di opportunità e non solo per lacci e lacciuoli.<br />

In conclusione, il profilo della libertà economica nei primi decenni dopo l’Unità vede un<br />

agire produttivo limitato da fattori istituzion<strong>al</strong>i e cultur<strong>al</strong>i, più che da regole e restrizioni che<br />

pure esistevano. Paradoss<strong>al</strong>mente, le precondizioni per un’economia più moderna furono<br />

poste proprio da misure limitative della libertà degli scambi, come il protezionismo agrario<br />

e industri<strong>al</strong>e (in un’economia in cui l’agricoltura copriva la metà del PIL, favorire la produzione<br />

agricola voleva dire anche favorire le industrie che producevano per l’agricoltura, da<br />

quelle chimiche a quelle meccaniche). Ma <strong>al</strong>lo stesso tempo sopra e sotto il concetto di libertà<br />

economica si stagliavano due caratteristiche cruci<strong>al</strong>i – una negativa e l’<strong>al</strong>tra positiva<br />

– che v<strong>al</strong>e la pena menzionare subito, perché da <strong>al</strong>lora, e fino a oggi, continuano a plasmare<br />

il volto tutto it<strong>al</strong>iano di questo concetto.<br />

La prima caratteristica sta nell’antagonismo pubblico-privato. La storia d’It<strong>al</strong>ia è la storia di<br />

un Paese giovane, nel senso che l’It<strong>al</strong>ia divenne uno stato unitario solo un secolo e mezzo<br />

fa: un periodo che imp<strong>al</strong>lidisce di fronte <strong>al</strong>la storia pluricentenaria di <strong>al</strong>tri grandi paesi europei.<br />

E prima? Prima l’It<strong>al</strong>ia era divisa in tanti staterelli, soggetta a periodiche invasioni<br />

dello straniero, con un rapporto m<strong>al</strong>sano e difficile fra governanti e governati. Da <strong>al</strong>lora, e<br />

fino a oggi, questa brutta coabitazione fra pubblico e privato costituisce un grave attentato<br />

<strong>al</strong>la libertà economica: costringe i produttori a consumare tempo, soldi ed energie nelle<br />

«corse a ostacoli» degli adempimenti e limita la libertà di scelta dei consumatori.<br />

I poteri pubblici, appesantiti da retaggi storici e ment<strong>al</strong>i, ormai scolpiti nelle prassi operative,<br />

continuano a trattare il cittadino come un suddito e, passato il tempo delle corvée, impongono<br />

vessazioni burocratiche e soffocanti regolamentazioni. Ma l’antagonismo,<br />

natur<strong>al</strong>mente, corre nei due sensi: i cittadini vedono lo Stato come un nemico nel peggiore<br />

dei casi o come un ostacolo da scostare o da ignorare nel migliore dei casi. E questo antagonismo<br />

toglie a produttori e consumatori quelle opportunità di attingere <strong>al</strong> meglio del pubblico<br />

e <strong>al</strong> meglio del privato, e fare del «sistema-Paese» un’opportunità di crescita<br />

economica e civile.<br />

La seconda caratteristica è, fortunatamente, felice e positiva. Il retaggio storico ha dato <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia<br />

una faticosa relazione fra Stato e cittadini, ma ha anche dato, con la vit<strong>al</strong>ità delle<br />

città-stato nel basso medioevo e nel Rinascimento, con le loro riv<strong>al</strong>ità che, quando non venivano<br />

consumate in confronti sanguinosi prendevano le vie incruente e feconde di emulazioni<br />

nelle arti e nelle manifatture, un impareggiabile serbatoio di saper fare, una<br />

tradizione di eccellenza, una cura <strong>al</strong> dettaglio e una passione estetica e funzion<strong>al</strong>e che ancora<br />

oggi si mantiene e dà ai prodotti it<strong>al</strong>iani un peculiare vantaggio competitivo.<br />

Come un fiume carsico, questi due fattori sono sempre presenti nella storia dell’economia<br />

it<strong>al</strong>iana, ma qu<strong>al</strong>che volta scorrono senza esser visti e <strong>al</strong>tre volte vengono, l’uno o l’<strong>al</strong>tro o<br />

ambedue assieme, in superficie. Quando il primo fattore – quello negativo – si attenua e l’<strong>al</strong>- 5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

145


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

tro invece prende vigore, l’economia è capace di gesta impensabili. Ed è quello che successe,<br />

<strong>al</strong>l’inizio del Novecento, con la «rivoluzione industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana».<br />

5.4 QUANDO LA LIRA FACEVA AGGIO SULL’ORO...<br />

La crisi bancaria portò, sotto il governo di Giovanni Giolitti, <strong>al</strong>la creazione della Banca d’It<strong>al</strong>ia<br />

e la politica economica fu volta <strong>al</strong> controllo del deficit pubblico. La finanza pubblica fu<br />

risanata e d<strong>al</strong> 1889 <strong>al</strong> 1911 il s<strong>al</strong>do del bilancio si mantenne sostanzi<strong>al</strong>mente in equilibrio<br />

(t<strong>al</strong>volta addirittura in avanzo). Questo risanamento permise <strong>al</strong> costo del danaro di rimanere<br />

basso, proprio mentre le politiche di abbrivio <strong>al</strong>l’industria – leggera e pesante – cominciavano<br />

a dare i primi frutti e il genius loci dell’istinto imprenditori<strong>al</strong>e trovava spazio per manifestarsi.<br />

L’It<strong>al</strong>ia era arrivata in ritardo sulla prima rivoluzione industri<strong>al</strong>e (quella del tardo Settecento<br />

in Inghilterra) e sulla seconda (il vapore e le ferrovie dell’Ottocento), ma ora poteva agganciare<br />

la terza: l’elettricità. Già negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo l’energia elettrica<br />

aveva cominciato a essere usata, più che <strong>al</strong>tro per l’illuminazione, ma ora arrivava il<br />

momento in cui l’assenza di carbone – disponibile in abbondanza negli <strong>al</strong>tri grandi paesi<br />

europei – veniva ovviata d<strong>al</strong> «carbone bianco»: i corsi d’acqua che avrebbero fornito l’energia<br />

idroelettrica e l’It<strong>al</strong>ia – <strong>al</strong>pina, pre<strong>al</strong>pina e appenninica – ne era ben fornita.<br />

Alle radici della «rivoluzione industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana» del primo Novecento ci furono insomma<br />

ragioni politiche (la stabilità dei governi) e monetarie (la buona s<strong>al</strong>ute delle finanze pubbliche<br />

e il basso costo del danaro); assieme <strong>al</strong> rifluire degli «spiriti anim<strong>al</strong>i» di un’imprenditori<strong>al</strong>ità<br />

che scorreva da sempre sotto la crosta della Penisola. Queste ragioni e questi istinti<br />

si coagularono in una possente spinta di crescita. Il cambio della lira si manteneva stabile<br />

rispetto <strong>al</strong>l’oro, il metro monetario di <strong>al</strong>lora.<br />

Può sembrare strano che proprio in quegli anni di crescita l’emigrazione it<strong>al</strong>iana raggiunse<br />

picchi che non sarebbero più stati toccati (il massimo fu nel 1913, con 873 mila espatri).<br />

La spiegazione non è difficile: da una parte c’è un fatto istituzion<strong>al</strong>e, la libertà nel movimento<br />

delle persone. Quanti pensano che la glob<strong>al</strong>izzazione sia un fenomeno recente saranno<br />

sorpresi ad apprendere quel che predominava nel primo Novecento. Nei confronti dei<br />

movimenti di merci c’erano gli ostacoli dei dazi, ma i movimenti delle persone erano liberi,<br />

così come quelli dei capit<strong>al</strong>i. Torna <strong>al</strong>la mente quel che avrebbe scritto più tardi John Maynard<br />

Keynes a proposito di “quello straordinario episodio nel progresso dell’uomo che venne<br />

a finire con il 1914”. “L’abitante di Londra – scrive Keynes – poteva ordinare per telefono,<br />

sorseggiando a letto il tè della mattina, qu<strong>al</strong>siasi prodotto del globo intero, in qu<strong>al</strong>siasi quantità<br />

desiderasse e confidare in una consegna ragionevolmente sollecita, sull’uscio della propria<br />

casa; poteva con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri soldi nelle risorse<br />

natur<strong>al</strong>i e nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo e condividerne senza sforzi o disturbi<br />

gli eventu<strong>al</strong>i frutti; oppure poteva decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli<br />

146


Grafico 5.2 - Una nazione di immigrati<br />

(S<strong>al</strong>do tra espatri e rimpatri, v<strong>al</strong>ori in migliaia)<br />

600<br />

400<br />

200<br />

0<br />

-200<br />

-400<br />

-600<br />

-800<br />

1869<br />

1876<br />

1883<br />

1890<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

1897<br />

1904<br />

1911<br />

1918<br />

1925<br />

1932<br />

emessi da Stati o municip<strong>al</strong>ità in ogni continente… Poteva avventurarsi <strong>al</strong>l’estero, usando trasporti<br />

non cari e confortevoli, verso qu<strong>al</strong>siasi paese e qu<strong>al</strong>siasi clima, senza passaporti o<br />

<strong>al</strong>tre form<strong>al</strong>ità. Poteva mandare un incaricato <strong>al</strong>la banca per ritirare qu<strong>al</strong>siasi quantità di met<strong>al</strong>li<br />

preziosi di cui avesse bisogno e poteva poi andare <strong>al</strong>l’estero, senza conoscenza di <strong>al</strong>tre<br />

religioni, <strong>al</strong>tre lingue o <strong>al</strong>tri costumi, portando nelle tasche oro coniato e sarebbe stato molto<br />

sorpreso e annoiato <strong>al</strong>la minima interferenza. E infine – ed è questa la cosa più importante<br />

– considerava questa situazione come qu<strong>al</strong>cosa di norm<strong>al</strong>e, certo e permanente e qu<strong>al</strong>siasi<br />

deviazione da questo stato di cose come un’aberrazione e uno scand<strong>al</strong>o”.<br />

La «libertà» di cui godevano gli emigranti it<strong>al</strong>iani non aveva certo i conforti di cui parlava<br />

Keynes, ma era nondimeno libertà: potevano partire sui «bastimenti carichi di... » e approdare<br />

in paesi lontani per iniziare una nuova vita. E, tornando <strong>al</strong> nostro interrogativo, perché<br />

si intensificarono le partenze proprio quando l’economia it<strong>al</strong>iana decollava? La ragione sta<br />

nel fatto che il decollo non era un decollo ad <strong>al</strong>ta intensità di lavoro. Al contrario, la meccanizzazione<br />

e l’elettrificazione facevano risparmiare braccia. I miglioramenti nell’agricoltura<br />

trasformavano la sottoccupazione agricola in disoccupazione e la «materia prima» più<br />

abbondante di cui l’It<strong>al</strong>ia disponeva – il lavoro – cercava <strong>al</strong>lora la via dell’estero, verso paesi<br />

in cui c’era bisogno di capit<strong>al</strong> widening (che si porta appresso anche richiesta di lavoro),<br />

mentre in It<strong>al</strong>ia era in corso un processo di capit<strong>al</strong> deepening.<br />

La «libertà economica» conosce in quel periodo un s<strong>al</strong>to di qu<strong>al</strong>ità. È sempre es<strong>al</strong>tante il momento<br />

in cui le energie imprenditori<strong>al</strong>i si liberano e fu quello il momento in cui emersero,<br />

nel tessuto produttivo, una trama e un ordito che ancora oggi segnano il volto dell’industria<br />

it<strong>al</strong>iana. Si formarono una moltitudine di piccole e medie imprese (PMI), accanto <strong>al</strong>le poche<br />

grandi e a questa ricomposizione nel mondo della produzione si affiancarono, a livello del<br />

tessuto soci<strong>al</strong>e, forme più organizzate di rappresentanza operaia e industri<strong>al</strong>e, senza di-<br />

147<br />

1939<br />

1946<br />

1953<br />

1960<br />

1967<br />

1974<br />

1981<br />

1988<br />

1995<br />

2002<br />

2009<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

menticare la «terza via» delle società di mutuo soccorso e delle cooperative. I nuovi imprenditori<br />

non erano certo capit<strong>al</strong>isti col panciotto e l’orologio a catena: erano gente che veniva<br />

d<strong>al</strong>la gavetta, spesso d<strong>al</strong> mondo della campagna, spesso ex operai, abituati a lavorar<br />

sodo e questa religione del lavoro abbracciava la famiglia e iniziava la dinastia, dando vita<br />

a quel «capit<strong>al</strong>ismo familiare» che, con i suoi pregi e i suoi difetti, è ancora fortemente radicato<br />

nell’It<strong>al</strong>ia del Ventunesimo secolo.<br />

Fu quello il periodo in cui iniziarono a formarsi gli embrioni dei «distretti industri<strong>al</strong>i» di<br />

oggi, quelle aree in cui i «nuovi imprenditori» spuntano come funghi e, uno accanto <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro,<br />

in un miscuglio tutto it<strong>al</strong>iano di competizione, emulazione e collaborazione, creano<br />

una comunità produttiva dove, per dirla con un grande economista inglese dell’Ottocento,<br />

Alfred Marsh<strong>al</strong>l, “i misteri del mestiere non sono più t<strong>al</strong>i, è come volteggiassero nell’aria...”.<br />

La «libertà economica» non è spontaneismo anarchico, ma energia incan<strong>al</strong>ata nell’<strong>al</strong>veo di<br />

regole eque e accettate. Da questo punto di vista, l’emergere di sindacati operai e datori<strong>al</strong>i<br />

non contraddice certo la libertà economica, che è anche libertà di associazione. Ed è bene<br />

che gli interessi contrapposti vengano riversati nello stampo contrattu<strong>al</strong>e di libere associazioni,<br />

invece di disperdersi nei rivoli incendiari del «tutti contro tutti». Certamente, la sindac<strong>al</strong>izzazione<br />

estrema porta anche pericoli, come la radic<strong>al</strong>izzazione e la pretesa di<br />

monopoli nella rappresentanza. Ma quel che prese avvio nel primo Novecento, pur con<br />

tutte le suggestioni delle nascenti ideologie marxiste, non era un sindac<strong>al</strong>ismo radic<strong>al</strong>e e non<br />

pesava negativamente sulla «libertà economica» di quel periodo. Sarebbe stato diverso dopo<br />

la Grande guerra, con il fascismo e le corporazioni, quando le rappresentanze erano incan<strong>al</strong>ate<br />

lungo <strong>al</strong>vei preconfezionati e ne soffriva sia la libertà di associazione che quella dell’agire<br />

economico.<br />

Quel periodo positivo della storia economica it<strong>al</strong>iana finì natur<strong>al</strong>mente con la prima guerra<br />

mondi<strong>al</strong>e e fu proprio la guerra a segnare un <strong>al</strong>tro importante passaggio nella ristrutturazione<br />

dell’industria it<strong>al</strong>iana. Già la politica economica giolittiana aveva privilegiato gli investimenti<br />

in opere pubbliche, favorendo lo sviluppo dell’industria pesante. Inoltre, nel 1903<br />

e nel 1905 si inaugurarono i servizi telefonici di Stato e furono nazion<strong>al</strong>izzate le ferrovie:<br />

misure «lesive» della libertà economica? Forse sì, inforcando gli occhi<strong>al</strong>i del Ventunesimo<br />

secolo; ma in quel momento storico quelle iniziative – comuni per<strong>al</strong>tro agli <strong>al</strong>tri paesi europei<br />

– venivano a far parte di un processo di industri<strong>al</strong>izzazione che abbisognava di un<br />

ruolo decisivo dello Stato nell’abbrivio <strong>al</strong>lo sviluppo economico.<br />

«Prove gener<strong>al</strong>i» di guerra si ebbero nel 1911-12, quando le avventure coloni<strong>al</strong>iste dell’It<strong>al</strong>ia<br />

portarono a strappare la Libia <strong>al</strong>l’impero ottomano: per la prima volta nel mondo si<br />

usarono gli aerei in un conflitto militare. E le spese belliche avrebbero poi trasformato le tragedie<br />

e le immani sofferenze della Grande guerra in <strong>al</strong>tri s<strong>al</strong>ti di qu<strong>al</strong>ità per le industrie fornitrici.<br />

Pochi anni dopo l’«impresa» libica, nel 1916, la FIAT produceva 7.400 motori di<br />

aereo e ne esportava più della metà: segno di un progresso tecnico a tappe forzate che non<br />

sarebbe stato possibile senza la mobilitazione di quello che oggi si chiamerebbe il «com-<br />

148


plesso militare-industri<strong>al</strong>e». L’industria siderurgica seppe non solo aumentare i volumi ma<br />

anche rinnovare tecnologicamente gli impianti.<br />

C’è poca libertà economica in tempi di guerra. L’It<strong>al</strong>ia riuscì con relativo successo a convertire<br />

l’apparato produttivo da usi civili a usi militari. E per convogliare risorse si ricorse<br />

anche a misure autoritarie come il blocco dei s<strong>al</strong>ari, che portò a un forte aumento dei profitti<br />

per le imprese. Questo ri<strong>al</strong>lineamento delle convenienze configurò, attraverso una forzosa<br />

politica dei redditi, quella che Luigi Einaudi più tardi chiamò «la via it<strong>al</strong>iana<br />

<strong>al</strong>l’accumulazione». La conversione dell’apparato produttivo non favorì necessariamente<br />

solo l’industria degli armamenti e dei trasporti. Gli eserciti abbisognano anche di c<strong>al</strong>ze e<br />

scarpe e il genio militare abbisogna di legname e cemento. Le difficoltà di approvvigionamento<br />

sui mercati esteri – la Germania era il nemico! – costrinsero a fare di necessità virtù<br />

e la classe imprenditori<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana seppe rispondere ai bisogni. Basti pensare che la sostituzione<br />

di importazioni con produzioni interne nei campi della meccanica fine, dell’elettromeccanica<br />

e degli strumenti di precisione portò, anche dopo la guerra, a una molto<br />

minore dipendenza d<strong>al</strong>l’estero in questi settori (le importazioni si ridussero <strong>al</strong>la metà rispetto<br />

ai livelli pre-bellici).<br />

Ma tutti questi s<strong>al</strong>ti di qu<strong>al</strong>ità ebbero scomode conseguenze in termini di «libertà economica».<br />

Il riferimento non è tanto <strong>al</strong>le inevitabili restrizioni imposte da una economia di<br />

guerra, quanto a un’<strong>al</strong>tra riottosa verità: le guerre devono essere finanziate. L’avanzo del bilancio<br />

pubblico si trasformò in deficit già con il conflitto libico. Quel disavanzo, dapprima<br />

leggero, dilagò con la Grande guerra fino a passare, nel 1919, il 30 per cento del PIL. All’indomani<br />

della vittoria la re<strong>al</strong>tà prese presto il sopravvento: l’It<strong>al</strong>ia usciva d<strong>al</strong>la guerra indebolita,<br />

con i conti in disordine, i risparmi delle classi medie decimati (il deficit era stato<br />

finanziato stampando moneta e l’inflazione era b<strong>al</strong>zata <strong>al</strong> 40 per cento) e il potere d’acquisto<br />

dei lavoratori umiliato d<strong>al</strong> blocco dei s<strong>al</strong>ari e d<strong>al</strong>l’aumento del costo della vita.<br />

Grafico 5.3 - Le fiammate dei prezzi<br />

(It<strong>al</strong>ia, deflatore del PIL, variazioni %)<br />

160<br />

140<br />

120<br />

100<br />

80<br />

60<br />

40<br />

20<br />

0<br />

-20<br />

-40<br />

1862<br />

1869<br />

1876<br />

1883<br />

1890<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

1897<br />

1904<br />

1911<br />

1918<br />

1925<br />

1932<br />

149<br />

1939<br />

1946<br />

1953<br />

1960<br />

1967<br />

1974<br />

1981<br />

1988<br />

1995<br />

2002<br />

2009<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

Come vedremo, dopo la guerra la finanza pubblica fu risanata e nella seconda metà degli anni<br />

Venti il bilancio tornò perfino in avanzo, s<strong>al</strong>vo ripiombare nel deficit negli anni Trenta e più ancora,<br />

natur<strong>al</strong>mente, con la seconda guerra mondi<strong>al</strong>e. Ma un incantesimo si era rotto e la finanza<br />

pubblica era entrata a grandi passi nel recinto dove si gioca la libertà economica di un paese:<br />

un settore pubblico in espansione e i vincoli di una politica economica appesantita dai debiti<br />

dello Stato andavano a pesare sui gradi di libertà concessi <strong>al</strong>la gestione dell’economia.<br />

5.5 IL PRIMO DOPOGUERRA E IL FASCISMO<br />

La libertà economica dipende d<strong>al</strong>le circostanze quanto e più che da regole e restrizioni. Le<br />

circostanze erano dure dopo la guerra. Oltre ai vincoli del bilancio pubblico c’erano i vincoli<br />

esterni – il deficit della bilancia dei pagamenti – e quelli dell’inflazione: l’instabilità dei<br />

prezzi, oltre a impoverire gli uni e arricchire <strong>al</strong>tri, scompigliava il c<strong>al</strong>colo economico dei<br />

costi e dei rendimenti, seminando un’incertezza che è esizi<strong>al</strong>e per le decisioni di investire.<br />

All’inizio i rimedi non fecero <strong>al</strong>tro che aggravare le cose. Il finanziamento del deficit pubblico<br />

stampando moneta rinfocolò l’inflazione, la lira andò in crisi, la sv<strong>al</strong>utazione aggravò<br />

l’inflazione e l’inflazione aggravò il m<strong>al</strong>essere soci<strong>al</strong>e. Un m<strong>al</strong>essere soci<strong>al</strong>e che era già rigato<br />

da diseguaglianze crescenti: la guerra aveva portato a un grosso spostamento di risorse<br />

a danno dell’agricoltura e a vantaggio dell’industria; e si è già parlato del blocco dei s<strong>al</strong>ari,<br />

degli aumenti di profitti connessi <strong>al</strong>le commesse belliche…<br />

La politica economica era stretta nella camicia di forza degli squilibri interni ed esterni e non<br />

poteva fornire <strong>al</strong>l’economia quell’aiuto e quella collaborazione che erano stati così benefici<br />

in precedenza. Il m<strong>al</strong>essere soci<strong>al</strong>e portava a tensioni politiche che sfociarono nelle illusioni<br />

e nella tragedia del fascismo.<br />

Il governo Giolitti, che nel 1920 successe a quello di Francesco Saverio Nitti, mise in opera<br />

un programma a doppia forbice per riportare lo spaventoso disavanzo del bilancio verso il<br />

pareggio. Da una parte furono aumentate le imposte (negli <strong>al</strong>tri paesi belligeranti la pressione<br />

tributaria era stata già aumentata) e questa misura ebbe effetti subito. D<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte furono<br />

introdotte riforme struttur<strong>al</strong>i a lento decorso (la princip<strong>al</strong>e fu l’abolizione del prezzo politico<br />

del pane). Il pareggio del bilancio fu raggiunto sei anni dopo da Mussolini, ma, secondo<br />

Luigi Einaudi, attribuirgli il merito di quel risanamento sarebbe un «vanto bugiardo»: il risanamento,<br />

argomentò Einaudi (come Governatore della Banca d’It<strong>al</strong>ia nel 1947) esisteva<br />

in embrione già nel 1922 (quando il deficit fu ridotto <strong>al</strong> 15 per cento del PIL), con gli inasprimenti<br />

fisc<strong>al</strong>i e le riforme della spesa introdotti da Giolitti. Le ferite <strong>al</strong>la libertà economica<br />

ne chiamano <strong>al</strong>tre: le restrizioni dell’economia di guerra portano profitti elevati <strong>al</strong>le imprese<br />

produttrici di armamenti e materi<strong>al</strong>i di base; in seguito – <strong>al</strong>tra misura illiber<strong>al</strong>e – questi profitti<br />

vennero confiscati, come fece appunto Giolitti con le misure del 1920.<br />

150


Il fermento che <strong>al</strong>l’inizio del Novecento aveva fatto lievitare l’economia it<strong>al</strong>iana non si era<br />

tuttavia spento. Il volano delle commesse belliche aveva dato, come già detto, un’<strong>al</strong>tra spinta<br />

sia <strong>al</strong>le quantità che <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità (ammodernamento) del tessuto produttivo. E in par<strong>al</strong>lelo con<br />

il risanamento del bilancio anche l’attività economica si espandeva: nel 1926 l’It<strong>al</strong>ia aveva<br />

più che superato la recessione degli anni di guerra e i livelli produttivi si situavano di circa<br />

un 15 per cento <strong>al</strong> di sopra dei livelli pre-bellici. Non mancavano <strong>al</strong>tre storie di successo,<br />

come quella della produzione di seta artifici<strong>al</strong>e che divenne seconda <strong>al</strong> mondo, dopo gli<br />

Stati Uniti; o il caso FIAT: il fatturato della casa torinese del 1925 era superiore a quello di<br />

qu<strong>al</strong>siasi <strong>al</strong>tra impresa meccanica in Europa. Le esportazioni delle auto FIAT assicuravano un<br />

forte attivo <strong>al</strong>la bilancia commerci<strong>al</strong>e del settore automobili e la quota di mercato della FIAT<br />

in It<strong>al</strong>ia era del 60 per cento circa: sarebbe aumentata ancora, fin quasi <strong>al</strong> 100 per cento<br />

negli anni dell’autarchia, prima di scendere a livelli più consoni <strong>al</strong>la libertà degli scambi.<br />

Come giudicare la libertà economica nel periodo fascista? Benito Mussolini, in un discorso<br />

pronunciato durante il suo primo governo, disse “basta con lo Stato ferroviere, postino, assicuratore…”.<br />

Un programma liber<strong>al</strong>e, dunque. Ma già il ministro delle Finanze, Giovanni<br />

Volpi, succeduto ad Alberto De Stefani nel 1925, aveva reintrodotto dazi e imposte di confine.<br />

Fu data poi preferenza assoluta <strong>al</strong>le industrie nazion<strong>al</strong>i per le commesse governative.<br />

E quando una crisi v<strong>al</strong>utaria europea travolse la lira, portando il cambio contro la sterlina<br />

(il «metro v<strong>al</strong>utario» di <strong>al</strong>lora) a 150 (era a 91 nel 1922, quando iniziò l’era fascista), Mussolini<br />

ordinò una specie di mobilitazione nazion<strong>al</strong>e per riportare il cambio <strong>al</strong>la famosa<br />

«quota 90». Fu un’operazione di orgoglio patrio, più che di assennatezza economica: necessitò<br />

una riduzione forzosa di prezzi e s<strong>al</strong>ari e un intervento autoritario sul debito fluttuante,<br />

con i titoli pubblici convertiti nel «Prestito littorio». Non fu certamente un’operazione<br />

di libertà economica, anche se i sostenitori potevano dire che era una reazione <strong>al</strong>l’anarchia<br />

Grafico 5.4 - Auto made in It<strong>al</strong>y<br />

(Quota % sul mercato nazion<strong>al</strong>e)<br />

105<br />

85<br />

65<br />

45<br />

25<br />

1928<br />

1937<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati UNRAE.<br />

1946<br />

1955<br />

1964<br />

151<br />

1973<br />

1982<br />

1991<br />

2000<br />

2009<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

speculativa che aveva travolto, oltre <strong>al</strong>la lira, anche il franco francese e il franco belga. Ma<br />

era l’intera riorganizzazione dell’economia, incan<strong>al</strong>ata nelle strettoie del corporativismo,<br />

ad anchilosare il libero funzionamento del mercato.<br />

Veniamo agli anni Trenta e <strong>al</strong>la Grande depressione. L’It<strong>al</strong>ia fu colpita quanto e più degli <strong>al</strong>tri<br />

paesi europei e il crollo di fatturato e produzione, unito <strong>al</strong>le particolari debolezze della<br />

grande industria – le protezioni e gli aiuti pubblici di cui aveva goduto e la dipendenza d<strong>al</strong><br />

credito bancario – minacciarono di travolgere sia i produttori sia le banche. Abili operazioni<br />

di ingegneria finanziaria (oggi si chiamerebbero ricorso a una bad bank per trasferirvi<br />

le sofferenze) e la creazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industri<strong>al</strong>e) permisero di<br />

s<strong>al</strong>vare il patrimonio industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iano e le banche stesse. Ma il volto della libertà economica<br />

cambiò radic<strong>al</strong>mente. L’economia it<strong>al</strong>iana divenne una «economia mista» e nel settore<br />

bancario una «economia pubblica».<br />

Altri paesi ebbero gli stessi problemi, ma la soluzione non portò, come successe in It<strong>al</strong>ia, a<br />

cambiare così radic<strong>al</strong>mente la proprietà dei mezzi di produzione, se vogliamo usare una terminologia<br />

marxista. Il connubio banca-impresa ne uscì modificato. Le banche avevano sfiorato<br />

il f<strong>al</strong>limento, a causa degli immobilizzi a lungo termine connessi ai prestiti <strong>al</strong>le imprese.<br />

La legge bancaria del 1936 scisse, nell’attività bancaria, l’operatività a breve termine d<strong>al</strong><br />

credito medio-lungo, che veniva a essere riservato a istituti appositi, sotto la sorveglianza<br />

della Banca d’It<strong>al</strong>ia.<br />

Intanto la libertà economica conosceva <strong>al</strong>tri vincoli, a cominciare d<strong>al</strong> perseguimento dell’autarchia.<br />

L’esecrabile invasione dell’Etiopia e la ferma condanna della Lega delle Nazioni<br />

intensificarono l’arroccamento autarchico che per<strong>al</strong>tro non ebbe <strong>al</strong>cuna influenza sulla dipendenza<br />

d<strong>al</strong>l’estero. Il deficit della bilancia commerci<strong>al</strong>e si mantenne elevato, tanto che<br />

nel 1939 l’It<strong>al</strong>ia conobbe una grave crisi v<strong>al</strong>utaria.<br />

Intanto, l’avventurismo bellico aveva riportato il bilancio verso il deficit: d<strong>al</strong> pareggio del<br />

1930 si era passati, nel 1937, <strong>al</strong> deficit di bilancio a due cifre (in percentu<strong>al</strong>e del PIL). Le<br />

commesse belliche e la produzione di beni per i coloni nelle terre africane avevano sì stimolato<br />

l’economia, ma l’isolamento autarchico ne impediva l’ammodernamento tecnologico.<br />

In complesso, l’apparato produttivo it<strong>al</strong>iano si trovava invischiato sempre di più nelle<br />

maglie strette della proprietà stat<strong>al</strong>e, delle commesse pubbliche, delle agevolazioni fisc<strong>al</strong>i<br />

e delle regolamentazioni burocratiche, inevitabile conseguenza dell’emersione di una «borghesia<br />

di Stato»: il vasto pianeta di ministeri riorganizzati per applicare le prescrizioni del<br />

regime tot<strong>al</strong>itario.<br />

Queste fattezze dell’economia it<strong>al</strong>iana avrebbero presto fatto i conti con la tragedia della seconda<br />

guerra mondi<strong>al</strong>e. Come si sa, i conti furono disastrosi: nel 1945 il reddito re<strong>al</strong>e pro<br />

capite degli it<strong>al</strong>iani era più basso di quello del 1861! La monetizzazione del debito pubblico<br />

aveva portato l’inflazione a tre cifre. E il problema del dopoguerra non stava solo nelle rigidità<br />

e nelle «illiber<strong>al</strong>ità» in cui versava la sua economia: un Paese diviso, vinto e umiliato<br />

sarebbe stato capace di affrontare con successo le sfide della ricostruzione?<br />

152


5.6 LA RICOSTRUZIONE E LA CEE<br />

La risposta <strong>al</strong>la domanda posta a chiusura del paragrafo precedente è fortunatamente positiva.<br />

Fu proprio il disastro, e la coscienza delle ragioni del disastro, a spingere il Paese verso<br />

la ricostruzione. I m<strong>al</strong>efici dell’autarchia cedettero il passo ai benefici della libertà degli<br />

scambi, l’isolamento cedette il passo a una rete di accordi internazion<strong>al</strong>i e di partecipazione<br />

ai nuovi organismi sovranazion<strong>al</strong>i sorti, con Bretton Woods, sulle ceneri dell’ordinamento<br />

pre-bellico. Certamente, i dazi non scomparvero d<strong>al</strong>l’oggi <strong>al</strong> domani: nel 1950 furono ratificati<br />

gli accordi del GATT (Gener<strong>al</strong> Agreement on Trade and Tariffs) con una tariffa dogan<strong>al</strong>e<br />

ancora <strong>al</strong>ta (in media il 24%). Ma il dado era tratto, e nel 1957, come paese fondatore della<br />

Comunità Economica Europea l’It<strong>al</strong>ia si sarebbe impegnata – m<strong>al</strong>grado i mugugni di molti<br />

ambienti industri<strong>al</strong>i – a portare gradu<strong>al</strong>mente a zero i dazi nella nuova area economica.<br />

Uno degli indici più significativi della libertà economica è il grado di apertura <strong>al</strong> commercio<br />

internazion<strong>al</strong>e e questo indice, caduto negli anni Trenta ai livelli più bassi della storia<br />

unitaria, aumentò rapidamente nell’immediato dopoguerra. Il Paese fu percorso da una «voglia<br />

di fare», di dimenticare il passato e di costruire un mondo migliore e la sete di libertà<br />

politica, dopo decenni di autocrazia, divenne anche sete di libertà economica, dando libero<br />

sfogo, nella tradizion<strong>al</strong>e «riserva di caccia» degli istinti imprenditori<strong>al</strong>i it<strong>al</strong>iani – le PMI – a<br />

una miriade di iniziative produttive che sfruttavano l’apertura dei mercati e il basso costo del<br />

lavoro. Rilanciare lo sviluppo attraverso la liber<strong>al</strong>izzazione fu una scommessa, non solo per<br />

l’It<strong>al</strong>ia, ma anche per gli <strong>al</strong>tri paesi di un’Europa sconvolta d<strong>al</strong>la guerra. E la scommessa fu<br />

vinta: nel giro di pochi anni, fra il 1948 e il 1950, in It<strong>al</strong>ia e in Europa il PIL era tornato a<br />

superare i livelli pre-bellici.<br />

Nei «piani <strong>al</strong>ti» dell’industria e della finanza la struttura ereditata d<strong>al</strong> regime fascista – poche<br />

grandi imprese e una grossa presenza pubblica (nel 1962 fu anche nazion<strong>al</strong>izzata l’energia<br />

elettrica) – non cambiò rapidamente. D’<strong>al</strong>tronde, era difficile pensare che quella struttura potesse<br />

cambiare: il quadro politico non era molto favorevole a iniziative di «liber<strong>al</strong>izzazione<br />

interna», in quanto distinta da quella esterna (libertà degli scambi). Il mercato non era amato,<br />

né d<strong>al</strong> partito di maggioranza – la Democrazia Cristiana, impregnata di solidarismo cattolico<br />

e di diffidenza verso il profitto – né, natur<strong>al</strong>mente, d<strong>al</strong>l’opposizione, coagulata attorno<br />

<strong>al</strong> Partito Comunista, il più grosso dei paesi occident<strong>al</strong>i. La stessa Costituzione, nelle sue parti<br />

economiche, sembra più interessata ad assicurare una equa divisione della torta del reddito<br />

che a elencare le condizioni necessarie perché la torta possa lievitare. Vi erano poi grosse<br />

ragioni internazion<strong>al</strong>i – gli Stati Uniti temevano che il PCI potesse arrivare <strong>al</strong> potere in It<strong>al</strong>ia<br />

– per mantenere lo status quo, un immobilismo che natur<strong>al</strong>mente favoriva la conservazione<br />

degli equilibri esistenti, il potere degli interessi costituiti e in ultima an<strong>al</strong>isi il<br />

m<strong>al</strong>governo e la poca trasparenza nella gestione della cosa pubblica.<br />

Ma quella struttura di ampie partecipazioni stat<strong>al</strong>i nell’industria e nella finanza, pur con<br />

tutti i suoi limiti di interferenze politiche e partitiche (sia nelle scelte industri<strong>al</strong>i sia nell’erogazione<br />

«selettiva» del credito), fu volta in positivo. L’IRI, con la sua g<strong>al</strong>assia di im-<br />

153<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

prese, contribuì, nei settori ad <strong>al</strong>ta intensità di capit<strong>al</strong>e, <strong>al</strong>l’ammodernamento del Paese nelle<br />

industrie di base e nelle grandi infrastrutture energetiche e di trasporto. Si veda il caso dell’Autostrada<br />

del Sole, della politica siderurgica con l’opera di Oscar Sinigaglia e dell’ENI di<br />

Enrico Mattei, che creò un polo petrolifero nazion<strong>al</strong>e e non esitò a sfidare, con una accorta<br />

espansione <strong>al</strong>l’estero, le «sette sorelle» che dominavano il mondo dell’«oro nero».<br />

Tutto questo non creava però le condizioni del ricambio. Una grande presenza pubblica<br />

può fare buone cose, ma la libertà economica è soprattutto libertà di aggredire e cambiare<br />

gli equilibri del presente. L’assetto produttivo it<strong>al</strong>iano, a parte la brulicante vit<strong>al</strong>ità delle PMI,<br />

era un assetto rigido, che avrebbe dimostrato col tempo i limiti cui vanno incontro le situazioni<br />

di sclerosi. Intanto, il vuoto di regole trasparenti veniva colmato da provvedimenti ad<br />

hoc, da una miriade di favori, incentivazioni, leggi speci<strong>al</strong>i per particolari settori.<br />

Si configurava così quello speci<strong>al</strong>e «protezionismo interno» che, nel filo rosso della storia<br />

economica dell’It<strong>al</strong>ia, ha da sempre costituito il princip<strong>al</strong>e ostacolo a un compiuto e libero<br />

dispiegarsi delle forze native dell’economia. L’abbraccio dell’Europa – d<strong>al</strong>la costituzione<br />

della CEE a tutti i passi successivi – fu anche un tentativo, conscio o inconscio, di darsi un<br />

benefico «vincolo esterno» per traghettare gli assetti nazion<strong>al</strong>i verso forme più rispettose<br />

del mercato e più aperte <strong>al</strong>la concorrenza. Un tentativo che ancor oggi non può dirsi pienamente<br />

riuscito.<br />

Intanto, a limitare i gradi di libertà delle politiche economiche, andavano prendendo corpo<br />

<strong>al</strong>tri due vincoli. Uno esterno, relativo <strong>al</strong>la bilancia dei pagamenti, l’<strong>al</strong>tro interno, relativo<br />

<strong>al</strong> bilancio pubblico.<br />

Il vincolo esterno era legato a doppio filo <strong>al</strong>la particolare situazione politica it<strong>al</strong>iana. La<br />

paura del comunismo spingeva chi aveva capit<strong>al</strong>i a «metterli in s<strong>al</strong>vo» <strong>al</strong>l’estero e questa<br />

fuga di fondi portava in deficit la parte «movimenti di capit<strong>al</strong>i» della bilancia dei pagamenti.<br />

Per preservare l’equilibrio ed evitare crisi v<strong>al</strong>utarie l’It<strong>al</strong>ia era quindi «condannata» a un<br />

avanzo nella parte corrente. Quando questo avanzo veniva minacciato (m<strong>al</strong>grado le rimesse<br />

degli emigrati e gli introiti del turismo), la politica economica doveva farsi restrittiva. La libertà<br />

economica si nutre anche di stabilità macroeconomica e questa era continuamente in<br />

bilico sotto la spada di Damocle del vincolo esterno.<br />

Il vincolo interno, quello relativo <strong>al</strong> bilancio pubblico, si manifestò solo gradu<strong>al</strong>mente. La<br />

forte crescita degli anni Cinquanta permise di ridurre la disoccupazione e la sottoccupazione<br />

delle campagne e nel corso degli anni Sessanta il Paese si avviò <strong>al</strong>la piena occupazione, con<br />

ovvie conseguenze sui s<strong>al</strong>ari (in aumento, con scioperi e tensioni) e sui conti esterni (eccesso<br />

di domanda e riduzione della competitività). Il bilancio pubblico fu usato come strumento<br />

di preservazione della pace soci<strong>al</strong>e, con aumenti di spesa non coperti da imposte, e i s<strong>al</strong>di,<br />

che fino a metà degli anni Sessanta erano vicini <strong>al</strong> pareggio, presero a peggiorare pericolosamente.<br />

Nel 1972, ben prima della crisi petrolifera del 1974-75, che fece implodere l’economia<br />

ed esplodere il deficit, quest’ultimo aveva raggiunto il 6 per cento del PIL.<br />

154


Un tipo particolare di «protezionismo interno» era legato <strong>al</strong>la sempiterna «questione meridion<strong>al</strong>e».<br />

Il du<strong>al</strong>ismo dell’economia it<strong>al</strong>iana – una ferita oggettiva <strong>al</strong>la libertà economica,<br />

nel senso che cambia le regole del gioco in una grossa fetta del Paese – era da sempre una<br />

spina nella carne viva della Nazione. Una complessa rete di agevolazioni e di interventi diretti<br />

cercava – senza successo – di ridurre il divario fra Nord e Sud. Nel caso delle partecipazioni<br />

stat<strong>al</strong>i la regola stabiliva, con un imperio degno di un Gosplan e indegno della<br />

libertà economica, che le imprese pubbliche dovevano, già a partire d<strong>al</strong> 1950, riservare <strong>al</strong><br />

Sud il 40 per cento degli investimenti e collocarvi il 60 per cento dei nuovi impianti (nel<br />

1971 queste percentu<strong>al</strong>i venivano, rispettivamente, a 60 e 80). Invece di affrontare i difetti<br />

struttur<strong>al</strong>i – capit<strong>al</strong>e umano, infrastrutture, crimin<strong>al</strong>ità organizzata… – venivano comandate<br />

delle quote di investimento <strong>al</strong>le imprese pubbliche e concessi incentivi, senza controllo di<br />

efficacia, a quelle private.<br />

Con la fine degli anni Sessanta il modello di sviluppo dell’economia it<strong>al</strong>iana cominciò a logorarsi:<br />

la modernizzazione dell’industria legata <strong>al</strong>l’export non bastava a compensare l’arretratezza<br />

del commercio e la mancata modernizzazione dei servizi, a sua volta figlia delle<br />

barriere <strong>al</strong>l’entrata e della mancanza di concorrenza. La vivacità delle PMI (con i pregi e i<br />

difetti del «capit<strong>al</strong>ismo familiare») non bastava a compensare un sistema di grandi imprese<br />

in cui la parte pubblica era troppo grossa e la parte privata troppo chiusa. Su tutto questo<br />

pesava una pubblica amministrazione afflitta da inefficienza manageri<strong>al</strong>e e ancora prigioniera<br />

di una cultura vessatoria che affonda le radici in una storia patria di antagonismo e contrapposizione<br />

fra Stato e cittadino.<br />

5.7 DALL’INFLAZIONE AL RISANAMENTO INCOMPIUTO<br />

Quando in It<strong>al</strong>ia si affacciarono i moti di protesta sessantottini scaturiti <strong>al</strong>trove, il gioco economico<br />

cambiò radic<strong>al</strong>mente. Fin quando vi sono risorse inutilizzate lo sviluppo è facilitato<br />

d<strong>al</strong> piano inclinato delle disponibilità. Quando le risorse si fanno scarse lo sviluppo deve<br />

affidarsi <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità e non più <strong>al</strong>la quantità. Bisogna agire sulla produttività, sull’ammodernamento,<br />

sull’innovazione, sulla creazione di nuovi prodotti e nuovi processi. Azioni, queste,<br />

che presuppongono un atteggiamento collaborativo fra i partner soci<strong>al</strong>i e fra questi e la<br />

pubblica amministrazione. Non solo: la stessa «collaborazione» è messa a dura prova d<strong>al</strong>la<br />

contesa sulle quote distributive, che si fa più aspra quando la torta del reddito ha cessato di<br />

espandersi con le facili addizioni di «più lavoro» e «più capit<strong>al</strong>e» e abbisogna di accordi e<br />

di procedure negozi<strong>al</strong>i oliate e collaudate.<br />

C’è un quarto di secolo che va d<strong>al</strong>la fine degli anni Sessanta <strong>al</strong>la metà degli anni Novanta<br />

e questi 25 anni sono stati i più difficili e aspri del dopoguerra. Se si guarda ai grandi numeri<br />

della crescita economica, forse queste difficoltà non si notano: la crescita media del<br />

PIL non si discosta da quella degli <strong>al</strong>tri paesi. Ma il triste proverbio cinese – “l’uomo è differente<br />

d<strong>al</strong> mai<strong>al</strong>e perché si può abituare a tutto” – v<strong>al</strong>e anche per le nazioni. L’It<strong>al</strong>ia può<br />

funzionare m<strong>al</strong>e ma è un Paese vit<strong>al</strong>e e il vit<strong>al</strong>ismo di fondo delle imprese tenne a g<strong>al</strong>la<br />

155<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

l’economia. Al prezzo di grandi sofferenze e grandi tensioni. Una classe politica che annaspava<br />

nella «democrazia bloccata» era incapace di guardare <strong>al</strong> bene comune e spazzava le<br />

tensioni sotto il tappeto della spesa pubblica, dei deficit e del debito. Tornavano in superficie,<br />

dopo il f<strong>al</strong>limento del ‘68, le fughe eversive che assunsero il volto tragico del terrorismo:<br />

gli «anni di piombo» insanguinarono l’It<strong>al</strong>ia per molto tempo. Il contesto esterno non aiutò<br />

certo: due crisi petrolifere, nel 1974 e nel 1980, attizzarono quell’inflazione che già trovava<br />

un facile brodo di cultura nella contesa soci<strong>al</strong>e. Una contesa che veniva «risolta» nei<br />

bracci, avvolgenti e soffocanti, della spir<strong>al</strong>e prezzi-s<strong>al</strong>ari.<br />

La precarietà dell’economia portava a un atteggiamento difensivo delle politiche, strette<br />

d<strong>al</strong>la necessità di contrastare l’inflazione e di controllare gli eccessi di domanda. E la libertà<br />

economica? Guardando ai dati sulla creazione di imprese non si ha l’impressione che<br />

in It<strong>al</strong>ia ci fosse poca libertà economica. Ma i problemi cominciano già <strong>al</strong>la nascita: i costi<br />

di start up di un’impresa sono in It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong>l’incirca doppi rispetto agli <strong>al</strong>tri princip<strong>al</strong>i paesi europei<br />

(il che spiega anche perché la creazione di imprese in It<strong>al</strong>ia, che sembra elevata, è in<br />

re<strong>al</strong>tà minore rispetto <strong>al</strong>la creazione di nuove imprese in Gran Bretagna). E i problemi si aggravano<br />

dopo la nascita. Confrontando, ancora, It<strong>al</strong>ia e Gran Bretagna si nota che, in una<br />

tipica coorte di nuove imprese, queste <strong>al</strong>l’inizio sono meno piccole in It<strong>al</strong>ia, ma poi crescono<br />

più lentamente, così che a dieci anni le «ex nuove imprese» oltre Manica sono due<br />

volte più grandi di quelle it<strong>al</strong>iane.<br />

Le disfunzioni della società e gli errori della politica furono grandi, ma accanto <strong>al</strong>le ombre ci<br />

sono le luci, o <strong>al</strong>meno il tentativo di rischiarare il cammino. Ancora una volta l’aggancio <strong>al</strong>l’Europa<br />

divenne il modo per sottrarre l’It<strong>al</strong>ia <strong>al</strong> destino, per dirla con Giorgio Rodano, di<br />

«paese rotto». L’ingresso nel Sistema monetario europeo (1979) rappresentava la volontà di rinunciare<br />

<strong>al</strong>le sv<strong>al</strong>utazioni competitive e di chiudere quindi un anello della spir<strong>al</strong>e inflazionistica.<br />

Le intenzioni erano generose e in qu<strong>al</strong>che modo il sistema funzionò, anche se, d<strong>al</strong> 1979<br />

<strong>al</strong> 1998 (quando arrivò l’euro) lo SME ha dovuto patire 17 ri<strong>al</strong>lineamenti, buona parte dei<br />

qu<strong>al</strong>i hanno interessato la lira it<strong>al</strong>iana. Ma il dado era tratto e le imprese, strette fra le pressioni<br />

s<strong>al</strong>ari<strong>al</strong>i, le tensioni politiche e un cuneo fisc<strong>al</strong>e che si <strong>al</strong>largava reagirono cercando di sc<strong>al</strong>zare<br />

un <strong>al</strong>tro anello della staffetta inflazionistica fra prezzi e s<strong>al</strong>ari: nel 1982 la <strong>Confindustria</strong><br />

diede la disdetta <strong>al</strong>l’accordo sulla sc<strong>al</strong>a mobile che d<strong>al</strong> 1975 (punto unico dell’indennità di<br />

contingenza, deciso da Gianni Agnelli per la <strong>Confindustria</strong> e Luciano Lama per il sindacato),<br />

scandiva sciaguratamente il perpetuarsi dell’inflazione, facendo i prezzi dai s<strong>al</strong>ari.<br />

Perseguire la libertà economica vuol dire anche uscire da quei meccanismi che chiudono<br />

le imprese nelle celle dell’incertezza. Non si possono pianificare gli investimenti in situazioni<br />

di instabilità dei prezzi e dei cambi. Vi erano solo due vie per uscire d<strong>al</strong>la spir<strong>al</strong>e<br />

prezzi-s<strong>al</strong>ari: rinunciare a ogni forma centr<strong>al</strong>izzata di formazione dei s<strong>al</strong>ari e affidare tutto<br />

<strong>al</strong> mercato (soluzione estranea <strong>al</strong>l’assetto istituzion<strong>al</strong>e e <strong>al</strong> DNA soci<strong>al</strong>e dell’It<strong>al</strong>ia) o istituire<br />

una politica dei redditi «di anticipo» che predeterminasse un’inflazione bassa. La scelta<br />

di quest’ultima via – scelta pagata con la vita d<strong>al</strong>l’economista Ezio Tarantelli, trucidato d<strong>al</strong>la<br />

Brigate rosse – fu perseguita con costanza. Il Governo Craxi nel 1984 impose per legge la<br />

156


predeterminazione dei punti di sc<strong>al</strong>a mobile ma l’opposizione chiamò un referendum che<br />

si svolse nel 1985: il «sì» <strong>al</strong>l’abrogazione della legge avrebbe significato un «aumento di stipendio»,<br />

ma la società it<strong>al</strong>iana aveva capito che l’indicizzazione dell’economia era un m<strong>al</strong>e<br />

che ingabbiava le imprese in una sterile contesa distributiva e gli elettori dissero «no» <strong>al</strong>l’abrogazione.<br />

L’aggancio <strong>al</strong>lo SME e la deindicizzazione dell’economia erano andati lastricando le vie di<br />

un risanamento faticoso. L’economia it<strong>al</strong>iana aveva bisogno di riprendersi gradi di libertà che<br />

erano andati persi da quando l’insipienza dei governanti e lo scollamento dei governati avevano<br />

spinto la società a cercare illusori e let<strong>al</strong>i sollievi nel debito e nell’inflazione. Ma c’era<br />

un <strong>al</strong>tro e difficile gradino del risanamento che attendeva <strong>al</strong>la prova l’economia e la società:<br />

il deficit pubblico, che era esploso fino a superare il 10 per cento del PIL.<br />

I problemi della finanza pubblica cominciarono a manifestarsi già nei primi anni Settanta,<br />

quando, come detto prima, era s<strong>al</strong>ita di grado la contesa soci<strong>al</strong>e e i governi avevano cercato<br />

di pacificare gli animi con la spesa pubblica. Il problema era comune a molti <strong>al</strong>tri paesi e<br />

in ogni caso l’aumento della quota di spesa pubblica non era solo dovuto a m<strong>al</strong>intese elargizioni.<br />

I sistemi di sicurezza soci<strong>al</strong>e si finanziano facilmente <strong>al</strong>l’inizio, quando i contributi<br />

superano le prestazioni, ma col prosieguo del tempo la pressione sulla spesa aumenta.<br />

Con l’aumento del benessere si accresce la richiesta di «beni pubblici», d<strong>al</strong>la sanità (dove<br />

anche pesa lo struttur<strong>al</strong>e aumento dei prezzi relativi delle cure mediche) <strong>al</strong>l’assistenza <strong>al</strong>le<br />

famiglie, inevitabile conseguenza dell’inn<strong>al</strong>zamento della quota di occupazione femminile,<br />

che necessita di asili nido e <strong>al</strong>tre strutture di accoglienza.<br />

Grafico 5.5 - Le fonti del deficit publico<br />

(Conto della PA, v<strong>al</strong>ori in % del PIL)<br />

15<br />

10<br />

5<br />

0<br />

-5<br />

-10<br />

-15<br />

-20<br />

-25<br />

-30<br />

1938<br />

1943<br />

1948<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

1953<br />

1958<br />

Spesa per interessi<br />

S<strong>al</strong>do primario<br />

Indebitamento netto<br />

1963<br />

1968<br />

1973<br />

157<br />

1978<br />

1983<br />

1988<br />

1993<br />

1998<br />

2003<br />

2008<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

Ma negli <strong>al</strong>tri paesi l’aumento della quota di spesa pubblica si era accompagnato, responsabilmente,<br />

<strong>al</strong>l’aumento della pressione fisc<strong>al</strong>e, mentre in It<strong>al</strong>ia questo non successe, e<br />

venne così a peggiorare il s<strong>al</strong>do corrente primario, vero «canarino nella miniera» che segn<strong>al</strong>a<br />

gli inevitabili squilibri futuri.<br />

In It<strong>al</strong>ia, poi, anche la pressione sulla spesa prese le vie anom<strong>al</strong>e di indebiti favori e la spesa<br />

sulle pensioni, di vecchiaia e di inv<strong>al</strong>idità, fu usata come strumento di assistenza clientelare.<br />

La p<strong>al</strong>la di neve del deficit, rotolando sul piano inclinato del debito, si ingrossò degli interessi,<br />

a loro volta ingrassati d<strong>al</strong>l’inflazione e in breve tempo divenne una v<strong>al</strong>anga. Nel 1970<br />

il rapporto debito/PIL in It<strong>al</strong>ia era di circa 30 punti percentu<strong>al</strong>i; a metà degli anni Novanta era<br />

s<strong>al</strong>ito quasi a quota 125 per cento, superando anche le punte peggiori dei tempi di guerra.<br />

Grafico 5.6 - Le entrate rincorrono la spesa<br />

(Conto della PA, v<strong>al</strong>ori in % del PIL)<br />

50<br />

45<br />

40<br />

35<br />

30<br />

25<br />

20<br />

1954<br />

1959<br />

1964<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

Spesa primaria<br />

Entrate correnti<br />

1969<br />

1974<br />

1979<br />

Anche qui, la via d’uscita fu trovata nell’aggancio <strong>al</strong>l’Europa. L’adesione <strong>al</strong>lo SME sfociò<br />

nel progetto della moneta unica e l’It<strong>al</strong>ia si impose un <strong>al</strong>tro benefico «vincolo esterno» sottoscrivendo<br />

l’accordo di Maastricht, che richiedeva di riportare il disavanzo di bilancio a livelli<br />

pari o inferiori <strong>al</strong> 3 per cento del PIL e di porre il rapporto debito/PIL su di una s<strong>al</strong>da<br />

china discendente.<br />

Politica monetaria, politica dei redditi (deindicizzazione) e politica di bilancio (incluse le privatizzazioni)<br />

riuscirono fin<strong>al</strong>mente, lavorando con concorde efficacia, a fare dell’It<strong>al</strong>ia uno<br />

dei paesi fondanti della nuova moneta europea. Certo, l’impellenza delle crisi fece la sua<br />

parte; come nel 1992, quando la lira fu sb<strong>al</strong>zata fuori d<strong>al</strong> Sistema monetario europeo e il<br />

Governo Amato prese dei grossi e struttur<strong>al</strong>i provvedimenti di riduzione della spesa pensionistica,<br />

oltre ad <strong>al</strong>tri aumenti di entrate e contenimenti di uscite. La stazza delle privatizzazioni<br />

fu imponente e per un certo numero di anni diede <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia un primato<br />

158<br />

1984<br />

1989<br />

1994<br />

1999<br />

2004<br />

2009


Grafico 5.7 - Un secolo e mezzo di debito pubblico<br />

(Conto della PA, v<strong>al</strong>ori in % del PIL)<br />

130<br />

110<br />

90<br />

70<br />

50<br />

30<br />

10<br />

1861<br />

1868<br />

1875<br />

1882<br />

1889<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.<br />

1896<br />

1903<br />

1910<br />

1917<br />

1924<br />

1931<br />

internazion<strong>al</strong>e in quella particolare classifica delle operazioni di passaggio di imprese pubbliche<br />

<strong>al</strong> settore privato. Quelle operazioni possono essere criticate, nel senso che non si<br />

ebbe il coraggio di passare a imprese a vera proprietà diffusa, e ci si preoccupò troppo di<br />

creare un «nocciolo duro» di azionisti fidati, oltre a conservare delle golden share come ulteriore<br />

cintura di sicurezza. Ma nel complesso la politica di privatizzazione, oltre a portare<br />

sollievo <strong>al</strong>le casse dello Stato, venne a estendere la libertà economica sottraendo grossi settori<br />

<strong>al</strong>l’ambito pubblico (natur<strong>al</strong>mente, i poteri pubblici conservarono, come è giusto, i poteri<br />

di regolazione consigliati dai moderni assetti istituzion<strong>al</strong>i). Il numero e la<br />

capit<strong>al</strong>izzazione delle società quotate ne trassero beneficio e la Borsa it<strong>al</strong>iana, pur continuando<br />

a essere piccola nei confronti internazion<strong>al</strong>i, acquistò spessore e liquidità.<br />

In settori cruci<strong>al</strong>i come quelli delle telecomunicazioni, le privatizzazioni furono accompagnate<br />

da liber<strong>al</strong>izzazioni, come si vede d<strong>al</strong>la quota di mercato decrescente dell’operatore<br />

storico.<br />

Nella misura in cui la libertà economica è limitata d<strong>al</strong>l’affanno macroeconomico, l’ingresso<br />

nell’euro ha segnato una svolta nella storia economica del dopoguerra. La firma del trattato<br />

di Maastricht seguì di poco la caduta del muro di Berlino e le esplosive rivelazioni di «Tangentopoli»:<br />

quei tre avvenimenti possono essere presi a simbolo di uno spartiacque. Da una<br />

parte finiva quella contrapposizione in blocchi che faceva pesare sull’It<strong>al</strong>ia, anello debole<br />

dell’Occidente in quanto segnata da una forte presenza comunista, l’onere di politiche economiche<br />

volte <strong>al</strong> compromesso; d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte veniva <strong>al</strong>la luce una ragnatela corruttiva di<br />

indebiti arricchimenti e taglieggiamenti che pesavano sulle finanze pubbliche e indebolivano<br />

la fibra mor<strong>al</strong>e del Paese; d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte ancora, era fin<strong>al</strong>mente resa possibile, anche se <strong>al</strong>l’inizio<br />

a m<strong>al</strong>a pena credibile, la scommessa (poi vinta) di un risanamento della finanza<br />

pubblica e della sconfitta dei m<strong>al</strong>i endemici dell’inflazione e dei conti in disordine.<br />

159<br />

1938<br />

1945<br />

1952<br />

1959<br />

1966<br />

1973<br />

1980<br />

1987<br />

1994<br />

2001<br />

2008<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

Grafico 5.8 - Una borsa con poche società<br />

(Tot<strong>al</strong>e società it<strong>al</strong>iane ed estere quotate)<br />

300<br />

280<br />

260<br />

240<br />

220<br />

200<br />

180<br />

160<br />

140<br />

120<br />

100<br />

Grafico 5.9 - Piazza affari più capit<strong>al</strong>izzata<br />

(V<strong>al</strong>ori in % del PIL)<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

1910<br />

1910<br />

1920<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati Siciliano (2001) e Borsa It<strong>al</strong>iana.<br />

1920<br />

1930<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati Siciliano (2001) e Borsa It<strong>al</strong>iana.<br />

1930<br />

1940<br />

1940<br />

1950<br />

1950<br />

1960<br />

Ma gli esami non finiscono mai. E il risanamento, a dodici anni di distanza, si rivela incompiuto.<br />

Inflazione e deficit erano certamente una droga da cui bisognava affrancarsi. Ma l’affrancamento,<br />

come si sa, porta con sé sindromi di astinenza. E intanto m<strong>al</strong>i antichi tornano<br />

in superficie e gettano il guanto di nuove sfide. Perché il risanamento è incompiuto? E qu<strong>al</strong>i<br />

sono le cappe che ancora oggi continuano a pesare sulla libertà economica in It<strong>al</strong>ia?<br />

1960<br />

160<br />

1970<br />

1970<br />

1980<br />

1980<br />

1990<br />

1990<br />

2000<br />

2000<br />

2010<br />

2010


Grafico 5.10 - Più concorrenza = telefonate meno costose<br />

(Quote di mercato dell’operatore storico e indice dei prezzi relativi)<br />

110<br />

100<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

1996<br />

1997<br />

1998<br />

Fonte: elaborazioni CSC su dati Commissione europea e ISTAT.<br />

5.8 LE SFIDE DELL’OGGI<br />

1999<br />

2000<br />

2001<br />

2002<br />

Telefonia mobile<br />

Telefonia fissa<br />

Prezzi relativi<br />

per i servizi telefonici (1996 = 100,<br />

sc<strong>al</strong>a destra)<br />

2003<br />

Come detto <strong>al</strong>l’inizio, il m<strong>al</strong>e antico dell’It<strong>al</strong>ia è l’incapacità di trovare un punto di equilibrio<br />

equo ed efficiente fra pubblico e privato. Non è paradoss<strong>al</strong>e osservare che la libertà economica<br />

si nutre di regole. E le regole sono dettate dai pubblici poteri, venendo a costituire<br />

le ossature istituzion<strong>al</strong>i e i quadri giuridici in cui si incan<strong>al</strong>ano le forze sorgive e possenti dell’iniziativa<br />

privata.<br />

Quando si parla di libertà economica vengono dapprima <strong>al</strong>la mente le regole intese a facilitare<br />

la vita delle imprese: gli adempimenti, i regolamenti, il fisco, i tempi di autorizzazione<br />

per metter su una società o costruire uno stabilimento, le regole per assunzioni e licenziamenti<br />

e così via. E sappiamo come, per quel che riguarda questo tipo di regole, l’It<strong>al</strong>ia navighi<br />

da sempre nei piani bassi delle classifiche internazion<strong>al</strong>i. Le ragioni che presiedono a<br />

questa scarsa performance non sono facili da cambiare, perché non si tratta solo di mutare<br />

le norme, si tratta anche di trasformare le ment<strong>al</strong>ità e i modi di applicazione. Regole più semplici<br />

possono essere poi disattese, le guerre di posizione nel caso (frequente) di competenze<br />

incrociate portano a ritardi e tensioni, il ridisegno delle competenze stesse si isterilisce nelle<br />

gelosie degli interessi costituiti. Ma non ci sono <strong>al</strong>ternative a una diuturna e paziente opera<br />

di tessitura di norme nuove e di disboscamento di norme vecchie.<br />

Molte riforme non riescono a vedere la luce perché vogliono fare troppo, perché sognano grandi<br />

ridisegni che poi si bloccano nei mille rivoli dei veti e delle contrapposizioni. Un approccio<br />

<strong>al</strong>ternativo è quello della creazione di «isole d’eccellenza» nel campo normativo e per far que-<br />

161<br />

2004<br />

2005<br />

2006<br />

2007<br />

2008<br />

2009<br />

106<br />

101<br />

96<br />

91<br />

86<br />

81<br />

76<br />

71<br />

66<br />

61<br />

56<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

sto un feder<strong>al</strong>ismo rettamente inteso può far molto. Se una regione riesce a dare l’autorizzazione<br />

a costruire uno stabilimento in una frazione del tempo fino <strong>al</strong>lora richiesto, si crea una<br />

benefica emulazione e la «gara» normativa, in questo particolare fazzoletto di libertà economica,<br />

può far guadagnare molti posti nelle classifiche del Doing Business. Classifiche, queste<br />

che sono legate <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità della spesa e della normativa più che <strong>al</strong> peso del settore pubblico.<br />

La saggezza convenzion<strong>al</strong>e, che afferma come un’<strong>al</strong>ta quota di spesa pubblica appesantisca<br />

la capacità del Paese di competere nell’arena internazion<strong>al</strong>e, non trova conforto nei numeri.<br />

Il grafico mostra come non ci sia correlazione fra il rank del Doing Business (una «variabile<br />

per procura» della libertà economica) e la quota di spesa pubblica nel PIL.<br />

Le riforme del mercato del lavoro, per quanto bene intenzionate, hanno portato, nel nostro<br />

sistema, a un inefficiente miscuglio di garantismo e di flessibilità selvaggia ed è necessario<br />

rivisitare le tipologie dei contratti per offrire più sicurezza ad ambedue i contraenti.<br />

Grafico 5.11 - Spesa pubblica e Ease of doing business, 2009<br />

Spesa pubblica in % del PIL<br />

60<br />

55<br />

50<br />

45<br />

40<br />

35<br />

30<br />

Danimarca<br />

Finlandia<br />

Svezia<br />

Islanda<br />

Francia<br />

Belgio<br />

Regno Unito<br />

Austria<br />

Portog<strong>al</strong>lo<br />

Olanda<br />

Ungheria<br />

Germania<br />

Irlanda<br />

Norvegia<br />

Canada Giappone<br />

Stati Uniti<br />

Nuova<br />

Zelanda<br />

Austr<strong>al</strong>ia<br />

Corea<br />

Svizzera<br />

Cipro<br />

Bulgaria<br />

Slovacchia<br />

162<br />

Spagna<br />

Rep. Ceca<br />

Polonia<br />

Lussemburgo<br />

Romania<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Grecia<br />

0 20 40 60 80 100 120<br />

Ranking in Ease of doing business<br />

Fonte: elaborazioni su dati Banca mondi<strong>al</strong>e, OCSE e Commissione europea.<br />

Ci sono poi <strong>al</strong>meno <strong>al</strong>tre due classi di regole che delimitano i perimetri della libertà economica.<br />

Ci sono le regole intese a evitare le prevaricazioni dei forti sui deboli, ad assicurare<br />

il fair play nel gioco della concorrenza. È significativo che solo nel 1990 in It<strong>al</strong>ia sia stata<br />

istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (negli Stati Uniti lo Sherman Antitrust<br />

Act è del 1890!). Un’<strong>al</strong>tra authority nel campo energetico non ha impedito ai prezzi<br />

dell’energia in It<strong>al</strong>ia di essere i più <strong>al</strong>ti in Europa, mentre continuano a esistere barriere <strong>al</strong>l’entrata<br />

e pratiche oligopolistiche e limitative della concorrenza in tanti <strong>al</strong>tri settori e microsettori<br />

della nostra economia.


La vera anom<strong>al</strong>ia it<strong>al</strong>iana risiede proprio nella scarsa concorrenza nei mercati dei prodotti,<br />

d<strong>al</strong>la distribuzione ai trasporti pubblici e semi-pubblici, <strong>al</strong>le imprese di pubblica utilità a livello<br />

loc<strong>al</strong>e e nazion<strong>al</strong>e. Un’anom<strong>al</strong>ia che, ancora, affonda le radici nei fattori storici sopra<br />

ricordati e che abbisogna, per essere sanata, di un ben maggiore grado di attenzione da<br />

parte dei poteri esecutivi e legislativi, per i qu<strong>al</strong>i questi problemi hanno avuto finora bassi<br />

gradi di priorità. In particolare, le procedure di nomina dei responsabili delle Autorità preposte<br />

<strong>al</strong>la concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi non assicurano un sufficiente<br />

grado di indipendenza e andrebbero riviste.<br />

Da ultimo, sulla libertà economica incidono le grandi cornici macroeconomiche e sociopolitiche<br />

che descrivono il sistema-Paese. La rinuncia <strong>al</strong>la droga delle sv<strong>al</strong>utazioni e dell’inflazione<br />

– imposta d<strong>al</strong>l’adesione <strong>al</strong>l’euro – ha fatto scattare una difficile transizione per<br />

le imprese it<strong>al</strong>iane. La bassa crescita del dopo-euro deve anche qu<strong>al</strong>cosa <strong>al</strong>le ristrutturazioni<br />

e <strong>al</strong>le deloc<strong>al</strong>izzazioni che sono state forzate su un tessuto produttivo abituato a periodiche<br />

iniezioni di vitamine da deprezzamento del cambio. Se ne era già avuto un esempio<br />

negli anni Ottanta, quando, con una sv<strong>al</strong>utazione che era inferiore ai differenzi<strong>al</strong>i di inflazione,<br />

il conseguente apprezzamento del cambio re<strong>al</strong>e aveva fatto scattare la sindrome del<br />

«nano robusto»: aveva rafforzato <strong>al</strong>cune fasce della produzione, che erano riuscite a sc<strong>al</strong>are<br />

i segmenti di v<strong>al</strong>ore aggiunto, ma ne aveva fatto morire <strong>al</strong>tre, portando a un sistema produttivo<br />

forse più sano ma più piccolo rispetto a quel che avrebbe potuto essere.<br />

Forse la più grossa limitazione <strong>al</strong>la libertà economica, fra quelle che dipendono d<strong>al</strong>le fibre<br />

stesse del Paese, è quella che determina il du<strong>al</strong>ismo della nostra economia, il divario fra<br />

Nord e Sud del Paese. Nel 1911 il reddito pro capite nelle regioni meridion<strong>al</strong>i era il 55 per<br />

cento di quello del Nord Ovest; oggi è <strong>al</strong>… 56 per cento! E questo m<strong>al</strong>grado cent’anni di<br />

assistenzi<strong>al</strong>ismo, d<strong>al</strong>la legge speci<strong>al</strong>e del 1904 per il «risorgimento economico di Napoli»<br />

<strong>al</strong>la Cassa del Mezzogiorno, d<strong>al</strong>le «riserve di legge» per gli investimenti delle imprese pubbliche<br />

<strong>al</strong> Sud a una miriade di incentivi e agevolazioni mirati o a pioggia per far nascere imprese<br />

nel Mezzogiorno. Ma il Sud, più che di incentivi, ha bisogno di migliori infrastrutture,<br />

di un migliore capit<strong>al</strong>e umano, di un tessuto civico meno sfilacciato e, soprattutto, di un controllo<br />

del territorio che sc<strong>al</strong>zi la mainmise della crimin<strong>al</strong>ità organizzata. Lo Stato, incapace<br />

di fornire questi beni pubblici di base, si «scarica la coscienza» offrendo incentivi.<br />

Da ultimo, la libertà economica ha bisogno di certezze dei quadri leg<strong>al</strong>i e contrattu<strong>al</strong>i. É triste<br />

constatare che, a vent’anni da «Tangentopoli», la piaga della corruttela continua a suppurare<br />

nel Paese. E le lentezze della giustizia continuano a essere una p<strong>al</strong>la <strong>al</strong> piede della società.<br />

Il summo jus, summa iniuria ha anche una dimensione economica e la giustizia lenta diventa<br />

giustizia negata. Fra le tante ragioni che fanno dell’It<strong>al</strong>ia un porto poco attraente per gli investimenti<br />

diretti d<strong>al</strong>l’estero, quello della farragine della giustizia è una delle più scoraggianti.<br />

163<br />

5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA


5. BREVE STORIA DELLA LIBERTÀ ECONOMICA IN ITALIA<br />

Qu<strong>al</strong>che lustro fa la <strong>Confindustria</strong> aveva adottato un motto – «Più Stato e più mercato» – per<br />

descrivere un’It<strong>al</strong>ia migliore. Questo slogan conserva, «come prima, più di prima», tutta la sua<br />

attu<strong>al</strong>ità. Più mercato, per portare le ragioni e la linfa della libera concorrenza in tutti gli anfratti<br />

del sistema produttivo. Più Stato, per fornire <strong>al</strong> libero dispiegarsi delle forze imprenditori<strong>al</strong>i i supporti<br />

di regole semplici, infrastrutture adeguate, territori controllati e istituzioni stabili.<br />

164


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA:<br />

GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

Fulvio Coltorti<br />

Le grandi imprese it<strong>al</strong>iane, e poi le medie, nel corso dello sviluppo industri<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iano hanno<br />

attraversato <strong>al</strong>cune princip<strong>al</strong>i fasi evolutive: d<strong>al</strong>l’origine della grande industria nel periodo<br />

post unitario <strong>al</strong>la grande crisi che portò negli anni Trenta <strong>al</strong>la costituzione di un denso raggruppamento<br />

di società sotto controllo pubblico; queste società subirono poi una degenerazione<br />

la qu<strong>al</strong>e a sua volta richiese successive ristrutturazioni e privatizzazioni. Con<br />

l’avanzare della glob<strong>al</strong>izzazione si giunge infine <strong>al</strong>l’emersione di un nuovo modo di concepire<br />

le competenze dell’industria nazion<strong>al</strong>e: da un lato con il ritorno a un ruolo dello<br />

Stato che si fa garante della stabilità proprietaria nei settori considerati strategici (l’energia<br />

in primo luogo), d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro con il prev<strong>al</strong>ere nel sistema manifatturiero privato di unità di dimensione<br />

«moderata». Quest’ultimo fenomeno non è dovuto a particolari politiche od operazioni<br />

industri<strong>al</strong>i, ma è una sorta di evoluzione darwiniana che ha costretto il sistema a<br />

confrontarsi con scenari più complessi e <strong>al</strong> tempo stesso più competitivi.<br />

Qui viene considerata l’industria in senso stretto; sono quindi esclusi il terziario e le imprese<br />

protagoniste in t<strong>al</strong>e campo. È stata tr<strong>al</strong>asciata l’an<strong>al</strong>isi della base natur<strong>al</strong>e sulla qu<strong>al</strong>e il cosiddetto<br />

quarto capit<strong>al</strong>ismo affonda princip<strong>al</strong>mente le sue origini, e cioè il tessuto delle piccole imprese<br />

e dei distretti nei qu<strong>al</strong>i esse sono organizzate, perché t<strong>al</strong>e tema è trattato nel capitolo La<br />

piccola impresa nello sviluppo economico it<strong>al</strong>iano 1 .<br />

Le fasi storiche citate si intrecciano con diversi momenti di libertà e crescita del benessere.<br />

Elementi spesso difficili da combinare in un insieme virtuoso. La libertà economica intesa<br />

come libertà nelle decisioni dell’investimento e del consumo presuppone un ampio ventaglio<br />

di scelte per gli imprenditori e i consumatori. Come si vedrà, l’economia it<strong>al</strong>iana presenta<br />

<strong>al</strong> riguardo un’esperienza di difficile interpretazione.<br />

Le considerazioni qui svolte traggono spunto anche da precedenti opere nelle qu<strong>al</strong>i sono<br />

stati presentati supporti document<strong>al</strong>i più estesi. Molto ha contato l’esperienza dell’area studi<br />

di Mediobanca con la sua paziente opera di raccolta e an<strong>al</strong>isi di statistiche sulle imprese.<br />

Essa rappresenta il seguito ide<strong>al</strong>e di un lavoro di lunga lena che, iniziato dai diligenti an<strong>al</strong>isti<br />

del Credito It<strong>al</strong>iano <strong>al</strong> principio del Novecento, venne proseguito successivamente d<strong>al</strong>l’Associazione<br />

fra le società it<strong>al</strong>iane per azioni (Assonime) sino agli anni Ottanta.<br />

. Fulvio Coltorti, Responsabile Area Studi Mediobanca e Professore di Economia Industri<strong>al</strong>e dell’Università di Firenze.<br />

Ringrazio i colleghi di R&S e dell’Ufficio Studi che hanno rivisto la base statistica Mediobanca e gli indicatori c<strong>al</strong>colati su di essa.<br />

Molte delle considerazioni svolte nel testo derivano da confronti con amici e colleghi che ho citato, ringraziandoli, in varie pubblicazioni<br />

qui richiamate <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>i rimando. Per questa stesura sono debitore di Gabriele Barbaresco, Luca Paolazzi e Giuseppe Scifo, per<br />

le preziose osservazioni che hanno voluto trasmettermi e di mio figlio Gabriele che ha rivisto il testo. Nessuno è responsabile dello scritto<br />

s<strong>al</strong>vo l’autore a titolo esclusivo e person<strong>al</strong>e.<br />

1. Per <strong>al</strong>cuni riferimenti si vedano anche Colli (2002a) e Coltorti (2008).<br />

165<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

6.1 I PRIMI DUE CAPITALISMI<br />

L’origine della nostra storia coincide con il primo importante sviluppo dell’industria it<strong>al</strong>iana.<br />

Dopo una fase di sostanzi<strong>al</strong>e ristagno <strong>al</strong>l’indomani dell’Unificazione, vi fu un periodo di crescita<br />

del reddito d<strong>al</strong> 1880 <strong>al</strong> 1897; ma fu soprattutto a partire d<strong>al</strong> 1898 che il sistema si sviluppò<br />

con decisione. Tra il 1897 e il 1918 il volume del reddito a prezzi costanti aumentò<br />

più del doppio con una variazione media annua del 3,6 per cento cui contribuì in misura<br />

notevole la spesa della pubblica amministrazione nel periodo bellico (Fuà, 1969). In quel<br />

periodo la trasformazione di attività industri<strong>al</strong>i artigiane in fabbriche evolute seguì un modello<br />

tipico dei paesi a sviluppo ritardato, dove si dava “preferenza <strong>al</strong>l’assunzione di maggiori<br />

forze di lavoro, in luogo di attrezzature e innovazioni” (Caracciolo, 1969). Si formarono<br />

e si espansero le prime grandi imprese.<br />

La società per azioni rappresenta la tipica forma giuridica che consente l’aggregazione del<br />

capit<strong>al</strong>e e dunque la creazione della grande impresa. La variazione numerica delle Spa, in presenza<br />

di statistiche finanziarie scarse e lacunose, può essere assunta come il princip<strong>al</strong>e indicatore<br />

di questo fenomeno (Coppola d’Anna, 1946). I primi dati disponibili ris<strong>al</strong>gono <strong>al</strong> 1863,<br />

quando esse erano appena 379 (Tabella 6.1) con un capit<strong>al</strong>e di 1,3 miliardi di lire correnti. Non<br />

vi furono variazioni di una qu<strong>al</strong>che consistenza sino <strong>al</strong> 1885, quando il capit<strong>al</strong>e espresso in<br />

moneta a potere d’acquisto costante (lire 1965) cominciò a espandersi; il suo livello, ripartito<br />

su 417 società, superò in quell’anno del 14 per cento circa quello del 1863. Questa prima<br />

espansione terminò nel 1892 quando il numero delle Spa it<strong>al</strong>iane toccò un primo massimo a<br />

quota 576 unità con l’indice del capit<strong>al</strong>e, base 1863, a 122,8. Una più consistente espansione<br />

ebbe luogo a partire d<strong>al</strong> 1896. Questa fase di vero e proprio «decollo» del numero di<br />

società e del capit<strong>al</strong>e versato dai soci durò sino <strong>al</strong> 1915 – anno dell’entrata in guerra dell’It<strong>al</strong>ia<br />

– quando si raggiunsero le 3.203 unità e l’indice del capit<strong>al</strong>e toccò quota 327,1.<br />

Tabella 6.1 - Sviluppo delle società per azioni in It<strong>al</strong>ia e delle società quotate<br />

nella Borsa di Milano<br />

Situazione a fine anno Variazioni<br />

Numero Capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e Numero Numero Capit<strong>al</strong>e Numero<br />

di Spa Miliardi Indice di società di Spa in miliardi di società<br />

di lire 1965 Base 1863 quotate di lire1965 quotate<br />

1863 379 635 100,0 8<br />

1885 417 723 113,9 24 38 88 16<br />

1892 576 780 122,8 33 159 57 9<br />

1896 583 691 108,8 25 7 -89 -8<br />

1903 1.024 1.044 164,4 68 441 353 43<br />

1907 2.299 1.841 289,9 165 1.275 797 97<br />

1915 3.203 2.077 327,1 163 904 236 -2<br />

1919 4.520 1.856 292,3 122 1.317 -221 -41<br />

1929 16.170 4.263 671,3 163 11.650 2.407 41<br />

1938 20.809 4.673 735,9 109 4.639 410 -54<br />

1948 19.818 720 113,4 110 -991 -3.953 1<br />

Fonte: elaborazioni su dati Assonime (1981) e Mediobanca (2009).<br />

166


Un movimento par<strong>al</strong>lelo, più significativo per il tema che qui interessa, è quello che interessò<br />

le società quotate in Borsa. Le nuove iscrizioni <strong>al</strong> listino di Milano, <strong>al</strong> netto delle cancellazioni,<br />

furono 138 d<strong>al</strong> 1896 <strong>al</strong> 1915, ma la dinamica nei vari anni fu abbastanza<br />

indicativa dell’assorbimento delle risorse finanziarie: 43 società in più nel 1896-1903, 97<br />

società in più nel 1904-07 e 2 in meno tra il 1908 e il 1915. Quanto <strong>al</strong>le singole imprese:<br />

Banca Commerci<strong>al</strong>e It<strong>al</strong>iana e Banco di Roma, iscritte, rispettivamente, nel 1898 e nel 1905,<br />

Montecatini e It<strong>al</strong>gas nel 1900, Elba (miniere e <strong>al</strong>ti forni) ed Eridania (zucchero) nel 1902,<br />

Unione Esercizi Elettrici, Ans<strong>al</strong>do e Alti Forni Gregorini nel 1905, SADE - Società Adriatica<br />

Tabella 6.2 - Consistenza a fine anno del capit<strong>al</strong>e delle società it<strong>al</strong>iane per azioni<br />

1911 1921 1938 1941 1951 1961 1971 1979<br />

MILIONI DI LIRE<br />

Tessili<br />

e abbigliamento 559 1.892 3.008 3.857 67.781 214.595 493.616 1.623.162<br />

Met<strong>al</strong>lurgiche<br />

e meccaniche 689 3.223 7.525 12.147 230.887 883.879 2.389.120 10.371.455<br />

Chimiche 264 997 5.042 6.943 140.358 1.150.438 2.604.066 4.198.149<br />

Elettriche 510 2.081 11.776 14.101 370.077 1.130.902 161.634 499.711<br />

Trasporti<br />

e comunicazioni 1.104 2.377 4.593 4.807 89.783 333.701 949.010 2.173.916<br />

Credito finanza<br />

e assicurazioni 811 3.562 5.545 6.610 107.885 932.027 2.329.692 10.073.049<br />

Manifatturiere<br />

diverse ed estrattive 835 3.242 7.733 9.801 181.810 485.388 1.545.388 4.956.626<br />

Altre società 593 2.975 7.907 9.520 104.486 409.673 1.895.148 7.976.730<br />

Tot<strong>al</strong>e<br />

Indice ISTAT<br />

5.365 20.349 53.129 67.786 1.293.067 5.540.603 12.367.674 41.872.798<br />

dei prezzi 1979 1.350,07 320,35 307,16 217,85 5,77 4,36 2,92 1,00<br />

Tot<strong>al</strong>e in lire 1979 7.243.126 6.518.802 16.319.104 14.767.180 7.460.997 24.157.029 36.113.608 41.872.798<br />

Indice 1911=100 100,0 90,0 225,3 203,9 103,0 333,5 498,6 578,1<br />

QUOTE PERCENTUALI<br />

Tessili<br />

e abbigliamento 10,4 9,3 5,7 5,7 5,2 3,9 4,0 3,9<br />

Met<strong>al</strong>lurgiche<br />

e meccaniche 12,8 15,8 14,2 17,9 17,9 16,0 19,3 24,8<br />

Chimiche 4,9 4,9 9,5 10,2 10,9 20,8 21,1 10,0<br />

Elettriche 9,5 10,2 22,2 20,8 28,6 20,4 1,3 1,2<br />

Trasporti<br />

e comunicazioni 20,6 11,7 8,6 7,1 6,9 6,0 7,7 5,2<br />

Credito finanza<br />

e assicurazioni 15,1 17,5 10,4 9,8 8,3 16,8 18,8 24,1<br />

Manifatturiere<br />

diverse ed estrattive 15,6 15,9 14,6 14,5 14,1 8,8 12,5 11,8<br />

Altre società 11,1 14,6 14,9 14,0 8,1 7,4 15,3 19,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Si tratta delle annate disponibili per i vari decenni. Non vi sono rilevazioni per il 1931 e successivamente <strong>al</strong> 1979. L’indice<br />

dei prezzi è quello proposto d<strong>al</strong>l’ISTAT per adeguare il potere d’acquisto della moneta (Il v<strong>al</strong>ore della moneta in It<strong>al</strong>ia<br />

d<strong>al</strong> 1861 <strong>al</strong> 2007). La ripartizione percentu<strong>al</strong>e non somma sempre a 100 a causa degli arrotondamenti.<br />

Fonte: elaborazione su dati Credito It<strong>al</strong>iano (1925) e Assonime (anni vari).<br />

167<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

di Elettricità nel 1906 e Imprese Elettriche Conti nel 1907 (Mediobanca, 2009b). Il Credito<br />

It<strong>al</strong>iano era entrato nel 1895 insieme con l’Edison, mentre il quarto grande istituto mobiliare,<br />

la Banca It<strong>al</strong>iana di Sconto, entrerà nel 1918. I capit<strong>al</strong>i più consistenti riguardavano i trasporti,<br />

soprattutto marittimi e ferroviari, la met<strong>al</strong>-siderurgia e la finanza (banche e assicurazioni).<br />

In questo stesso periodo cominciarono a emergere le imprese elettriche che<br />

diventeranno poi dominanti in termini di capit<strong>al</strong>i assorbiti (Tabella 6.2).<br />

Gli inizi del Novecento distinsero un primo periodo particolarmente felice per i grandi<br />

gruppi. Essi accedevano <strong>al</strong>la Borsa, animata d<strong>al</strong>l’azione delle banche miste che, operando<br />

sul modello tedesco, collocavano i titoli industri<strong>al</strong>i presso il pubblico. Inoltre, la grande industria<br />

assunse influenza ottenendo nel corso del primo conflitto mondi<strong>al</strong>e un volume consistente<br />

di commesse da cui trasse profitti elevati. Il sostegno delle banche andava in<br />

par<strong>al</strong>lelo <strong>al</strong>la protezione dello Stato contro la concorrenza delle imprese estere. La Borsa si<br />

mantenne però un «affare di pochi»: i titoli quotati nel 1915 erano 163 e, pur tra <strong>al</strong>ti e bassi,<br />

non si registrarono mai consistenti variazioni rispetto a t<strong>al</strong>e livello. Una prima classifica<br />

delle princip<strong>al</strong>i società industri<strong>al</strong>i in base <strong>al</strong> capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e nel 1915, selezionate tra i soci<br />

dell’Assonime (Tabella 6.3), segn<strong>al</strong>ava che i maggiori fabbisogni erano richiesti d<strong>al</strong>l’industria<br />

siderurgica (collegata <strong>al</strong>le miniere) e da quella elettrica. La somma dei capit<strong>al</strong>i delle 33 maggiori<br />

società era pari a 581 milioni, un v<strong>al</strong>ore poco superiore a quello delle quattro maggiori<br />

banche (481 milioni) le qu<strong>al</strong>i pertanto costituivano il vero fulcro delle operazioni. In un secondo<br />

elenco, desunto d<strong>al</strong>le statistiche sui bilanci del 1924 elaborate d<strong>al</strong> Credito It<strong>al</strong>iano,<br />

l’impresa con gli immobilizzi più consistenti era la Strade Ferrate del Mediterraneo (poi Mittel),<br />

seguita d<strong>al</strong> Lloyd Sabaudo e d<strong>al</strong>la Navigazione Gener<strong>al</strong>e It<strong>al</strong>iana (erede delle compagnie<br />

Florio e Rubattino). Erano solo due le <strong>al</strong>tre società che superavano i 200 milioni di<br />

immobilizzi, l’ILVA (siderurgia) e la Transatlantica It<strong>al</strong>iana 2 (Tabella 6.4). Le grandi imprese<br />

nacquero quindi per soddisfare bisogni infrastruttur<strong>al</strong>i, industrie di base e trasporti via mare;<br />

esse avevano tra i promotori persone esperte nella tecnica della generazione energetica e<br />

delle grandi costruzioni meccaniche.<br />

Tra il 1907 e il 1915 le società quotate in Borsa rimasero sostanzi<strong>al</strong>mente le stesse, ma in It<strong>al</strong>ia<br />

vennero costituite più di 900 nuove società per azioni con un aumento del capit<strong>al</strong>e complessivo<br />

pari <strong>al</strong> 13 per cento (indice c<strong>al</strong>colato a v<strong>al</strong>ori deflazionati). Gli anni successivi <strong>al</strong><br />

1919 segnarono la prima importante crisi post-bellica, causata d<strong>al</strong>le difficoltà della riconversione<br />

verso produzioni di pace e d<strong>al</strong>la criticità delle strutture finanziarie (Ans<strong>al</strong>do e ILVA<br />

furono i casi più importanti 3 ). Per la prima volta il capit<strong>al</strong>e complessivo delle società it<strong>al</strong>iane<br />

segnò un consistente arretramento, tornando sostanzi<strong>al</strong>mente ai livelli pre-bellici, per poi riprendere<br />

una nuova, notevole, fase espansiva nel decennio successivo. Tra il 1919 e il 1929<br />

la consistenza delle società per azioni superò le 16 mila unità e il loro capit<strong>al</strong>e aumentò più<br />

2. Da questo elenco manca l’Ans<strong>al</strong>do, il maggior conglomerato industri<strong>al</strong>e, il cui s<strong>al</strong>vataggio nel 1921 ne aveva prodotto una notevole<br />

frammentazione rispetto <strong>al</strong>le massicce consistenze del periodo bellico. Si veda Caracciolo, 1969.<br />

3. L’Ans<strong>al</strong>do, passata sotto il controllo dei fratelli Perrone <strong>al</strong>l’inizio del Novecento, aveva raggiunto una forza lavoro di 80 mila unità, vivendo<br />

di commesse pubbliche e finanziandosi largamente presso la Banca It<strong>al</strong>iana di Sconto, controllata dagli stessi Perrone. Era costituita<br />

come «sistema industri<strong>al</strong>e vertic<strong>al</strong>e» integrato d<strong>al</strong>le miniere <strong>al</strong>le produzioni siderurgiche e a quelle meccaniche; queste<br />

comprendevano locomotive, vagoni, autoveicoli, macchine agricole, motori vari, navi, aeroplani, idrovolanti; <strong>al</strong> gruppo appartenevano<br />

anche due compagnie di navigazione: Società Nazion<strong>al</strong>e e Transatlantica It<strong>al</strong>iana (Caracciolo, 1969).<br />

168


Tabella 6.3 - Princip<strong>al</strong>i società industri<strong>al</strong>i it<strong>al</strong>iane associate <strong>al</strong>l’Assonime nel 1915<br />

in base <strong>al</strong> capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e<br />

Sede Capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e<br />

in milioni di lire<br />

Elba – Soc. di Miniere e <strong>al</strong>ti forni Genova 33,8<br />

ILVA – Soc. di Miniere e <strong>al</strong>ti forni Genova 30,0<br />

Soc. It. Gio. Ans<strong>al</strong>do, Armstrong e C. Roma 30,0<br />

Soc. elettricit. Alta It<strong>al</strong>ia Torino 25,0<br />

Soc. Siderurgica di Savona Genova 24,0<br />

Soc. degli Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di Terni Roma 22,5<br />

Soc. Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di Piombino Firenze 22,4<br />

Soc. Ligure Lombarda per la raffinazione degli Zuccheri Genova 22,0<br />

Imprese elettriche Conti Milano 21,0<br />

Soc. El. Riviera di Ponente Ing. R. Negri Savona 20,0<br />

Soc. Elettrica Bresciana Brescia 20,0<br />

SADE – Società Adriatica di Elettricità Venezia 20,0<br />

OEG – Soc. Officine Elettriche Genovesi Genova 20,0<br />

Distillerie It<strong>al</strong>iane Milano 20,0<br />

Edison – Soc. Gen. It<strong>al</strong>iana di Elettricità Milano 18,0<br />

Soc. It. per l’industria dello Zucchero Indigeno<br />

Soc. in acc. per az. per le industrie della gomma elastica,<br />

Roma 18,0<br />

della guttaperga, dei fili e cavi elettrici, affini, Pirelli e C. Milano 17,5<br />

FIAT – Soc. Fabbrica It<strong>al</strong>. Automobili Torino Torino 17,0<br />

Soc. Off. Mecc. già Miani Silvestri e C., A. Grondona, Comi e C. Milano 16,0<br />

Montecatini Milano 15,0<br />

GEA – Soc. Gen. Elettrica dell’Adamello Milano 15,0<br />

Ernesto Breda – Soc. it. per costruzioni meccaniche Milano 14,0<br />

Soc. It. per il Carburo di C<strong>al</strong>cio Roma 14,0<br />

Soc. It. per l’utilizzaz. Delle forze idrauliche del Veneto Venezia 14,0<br />

Soc. Elettrica della Sicilia Orient<strong>al</strong>e Milano 11,5<br />

Soc. It. di Elettro-chimica Roma 10,5<br />

Società Meridion<strong>al</strong>e di Elettricità Napoli 10,0<br />

Unione Esercizi Elettrici Milano 10,0<br />

Soc. per lo Sviluppo delle imprese elettriche in It<strong>al</strong>ia Milano 10,0<br />

Soc. Ceramica Richard Ginori Milano 10,0<br />

Soc. Esercizio Molini Genova 10,0<br />

Soc. Molini e Pastifici Pantanella Roma 10,0<br />

Soc. Unione It<strong>al</strong>iana Cementi Cas<strong>al</strong>e 10,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 581,2<br />

È stata inclusa la Montecatini, assente d<strong>al</strong>l’elenco di t<strong>al</strong>e pubblicazione.<br />

Fonte: elaborazioni su dati dell'Annuario It<strong>al</strong>iano del Capit<strong>al</strong>ista, La Stampa Commerci<strong>al</strong>e 1915.<br />

169<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

Tabella 6.4 - Princip<strong>al</strong>i società it<strong>al</strong>iane nel 1924<br />

(V<strong>al</strong>ori in milioni di lire)<br />

Società Settore Capit<strong>al</strong>e Immobilizzi Titoli e<br />

soci<strong>al</strong>e tecnici partecipazioni<br />

versato lordi<br />

SNIA Viscosa<br />

Montecatini - Società Gener<strong>al</strong>e<br />

Chimico-tessile 600 180 114<br />

per l’industria mineraria e agricola Mineraria e chimica 300 94 181<br />

Terni – Società per l’industria Siderurgica, chimica,<br />

e l’elettricità elettrica, meccanica 260 176 81<br />

FIAT Meccanica 260 66 83<br />

Navigazione Gener<strong>al</strong>e It<strong>al</strong>iana Trasporti marittimi 253 254 134<br />

Edison – Società Gener<strong>al</strong>e It<strong>al</strong>iana di Elettricità Elettrica 234 106 258<br />

Ans<strong>al</strong>do Siderurgica e meccanica 200 72<br />

SIP – Società Idroelettrica Piemonte Elettrica 182 52 195<br />

Società Gener<strong>al</strong>e Elettrica dell’Adamello Elettrica 165 168 72<br />

SME – Società Meridion<strong>al</strong>e di Elettricità Elettrica 162 99 82<br />

SADE – Società Adriatica di Elettricità Elettrica 155 17 142<br />

ILVA – Alti Forni e Acciaierie d’It<strong>al</strong>ia Siderurgica 150 248 71<br />

Ans<strong>al</strong>do Cogne Mineraria e siderurgica 150 108<br />

Cosulich Trasporti marittimi 150 73<br />

UNES – Unione Esercizi Elettrici Elettrica 135 187 57<br />

It<strong>al</strong>gas – Società It<strong>al</strong>iana per il Gas Chimica 127 8 161<br />

Società Anonima Elettricità Alta It<strong>al</strong>ia Elettrica 125 169 10<br />

SGES – Società Gener<strong>al</strong>e Elettrica della Sicilia Elettrica 120 122 15<br />

Società It<strong>al</strong>iana Pirelli Gomma 120 48 5<br />

Navigazione Libera Triestina Trasporti marittimi 110 128<br />

Società Elettrica Negri Elettrica 110 72 90<br />

Società Ligure Toscana di Elettricità Elettrica 108 68 47<br />

La Soie de Châtillon Chimico tessile 105 41<br />

Lloyd Sabaudo Trasporti marittimi 100 275<br />

Transatlantica It<strong>al</strong>iana Trasporti marittimi 100 216<br />

Società Anonima per Imprese Elettriche Conti Elettrica 100 162 41<br />

Cantiere Nav<strong>al</strong>e Triestino<br />

Società It<strong>al</strong>iana Ernesto Breda<br />

Meccanica 100 98<br />

per Costruzioni Meccaniche Meccanica 100 55<br />

Società Gener<strong>al</strong>e It<strong>al</strong>iana della Viscosa Chimico tessile 100 48<br />

Linificio e Canapificio Nazion<strong>al</strong>e Tessile 100 21<br />

Elettricità e Gas di Roma<br />

Società It<strong>al</strong>iana per le Strade Ferrate<br />

Elettrica 93 101<br />

del Mediterraneo Trasporti ferroviari 90 292<br />

Fonte: elaborazioni su dati Credito It<strong>al</strong>iano (1925).<br />

170


del doppio. Aumentarono anche le società quotate in Borsa, ma qui si trattò del recupero del<br />

livello già toccato nel 1915. In questo periodo emersero nuovi importanti protagonisti nel<br />

mondo finanziario oltre che industri<strong>al</strong>e: la SNIA Viscosa di Riccardo Gu<strong>al</strong>ino 4 , quotata nel<br />

1920, la Pirelli & C. nel 1922, Gener<strong>al</strong>i, D<strong>al</strong>mine, FIAT e Chatillon nel 1924, l’It<strong>al</strong>cementi<br />

nel 1925, la RAS nel 1927, l’Ercole Marelli nel 1928, ACNA e Cartiere Burgo nel 1929.<br />

Divennero presto evidenti le prime grandi concentrazioni attorno <strong>al</strong>le società che operavano<br />

nei settori in espansione, primo fra tutti quello elettrico. Protagonista fu l’Edison cui faceva<br />

capo un numero elevato di <strong>al</strong>tre società, spesso possedute a cascata. Secondo una<br />

scheda compilata dagli an<strong>al</strong>isti del Credito It<strong>al</strong>iano nel 1932, con un capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e di<br />

1,35 miliardi di lire l’Edison controllava imprese aventi attività patrimoni<strong>al</strong>i pari a 4,3 miliardi.<br />

Vi era una prima «cerchia» di consociate, la maggiore delle qu<strong>al</strong>i era la Compagnia<br />

Imprese Elettriche Liguri CIELI (da cui dipendevano fra le <strong>al</strong>tre le Officine Elettriche Genovesi);<br />

<strong>al</strong>tre importanti consociate erano, in ordine di capit<strong>al</strong>e, la Società Elettrica Interregion<strong>al</strong>e<br />

Cis<strong>al</strong>pina, l’Elettrica Bresciana, la Gener<strong>al</strong>e Elettrica Tridentina, le Forze Idrauliche di<br />

Trezzo sull’Adda «Benigno Crespi» e la Imprese Elettriche Dinamo. Il Gruppo era <strong>al</strong>l’avanguardia<br />

nella tecnologia e aveva un largo accesso ai mercati internazion<strong>al</strong>i. Nel bilancio<br />

1931 della società Edison gli attivi erano coperti da mezzi propri per il 63 per cento e da<br />

debiti a media e lunga scadenza per il 22,5; tra questi, due prestiti in dollari collocati nel<br />

1925 e nel 1927 sulla piazza di New York. Il Consiglio di amministrazione, presieduto da<br />

Carlo Feltrinelli, contava cinque senatori del Regno e tre deputati <strong>al</strong> Parlamento tra cui il consigliere<br />

delegato Ing. Giacinto Motta 5 .<br />

Il secondo maggiore gruppo industri<strong>al</strong>e faceva capo <strong>al</strong>la Montecatini che sfruttava miniere di<br />

pirite e zolfo, estraeva e vendeva marmi di Carrara, produceva concimi (nei fosfatici era leader<br />

in Europa), <strong>al</strong>luminio, seta artifici<strong>al</strong>e ed esplosivi. Gli an<strong>al</strong>isti del Credito It<strong>al</strong>iano informavano<br />

che il Gruppo operava con 87 stabilimenti industri<strong>al</strong>i sparsi per l’It<strong>al</strong>ia, una ventina<br />

di miniere, 4 importanti bacini marmiferi nelle Alpi Apuane, 6 centr<strong>al</strong>i idroelettriche, una ferrovia<br />

elettrica e 5 piroscafi. Nel bilancio Montecatini 1931 i mezzi propri coprivano il 73 per<br />

cento del tot<strong>al</strong>e attivo. I debiti finanziari erano costituiti da un prestito americano <strong>al</strong> 7 per cento<br />

collocato a New York nel 1927. Nel Consiglio di amministrazione erano presenti un senatore<br />

e tre deputati tra i qu<strong>al</strong>i il Presidente e Amministratore delegato Ing. Guido Donegani. Numerosi<br />

in quel tempo gli «incesti» finanziari: il più noto era quello in capo <strong>al</strong>l’Edison, una public company<br />

che controllava sé stessa avendo collocato proprie azioni nei portafogli delle controllate.<br />

I grandi affari consistevano dunque in imprese tecnologicamente «complesse» che aggregavano<br />

grandi capit<strong>al</strong>i finanziari, la cui gestione richiedeva «mani adatte» (Barca, 1997).<br />

4. La SNIA fu costituita nel 1917 come società di navigazione con lo scopo di importare carbone dagli Stati Uniti. Nel 1922, a seguito dei<br />

f<strong>al</strong>limentari esiti di quell’attività, si orientò verso la produzione di fibre artifici<strong>al</strong>i dove guadagnò una posizione di rilevanza mondi<strong>al</strong>e.<br />

5. V<strong>al</strong>e la pena di riportare <strong>al</strong>cuni passi della scheda del Credito It<strong>al</strong>iano sulla Edison, che sarà per molto tempo la maggiore società it<strong>al</strong>iana:<br />

“Essa fu la prima società sorta in It<strong>al</strong>ia (e in Europa) per la produzione e la distribuzione di energia elettrica [...]. Nel 1898 la<br />

Edison iniziava l’esercizio della centr<strong>al</strong>e idraulica di Paderno, inaugurando arditamente il primo impianto di trasmissione industri<strong>al</strong>e<br />

a 13.000 volt trifasi, su una linea di 32 km. In pari tempo era stata arredata la centr<strong>al</strong>e termica di P. Volta a Milano, la qu<strong>al</strong>e fu per<br />

molti anni la più potente d’Europa. [...] [Il Gruppo Edison] serve la maggior parte della zona più industri<strong>al</strong>e d’It<strong>al</strong>ia che si estende d<strong>al</strong><br />

Mediterraneo <strong>al</strong> confine svizzero [...] Le numerose industrie di questa regione servita d<strong>al</strong>la Edison sono di natura svariatissima e comprendono<br />

la lavorazione della lana e della seta, del cotone, del cappello e la produzione di articoli di gomma, di automobili, di macchinario<br />

e di prodotti chimici, nonché l’artigianato più vario”; si veda Credito It<strong>al</strong>iano, 1932 (AS Unicredit).<br />

171<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

È difficile ritenere che libertà e benessere convivessero in questo primo capit<strong>al</strong>ismo: la libertà<br />

fu relativa per la presenza delle concentrazioni societarie (orchestrate d<strong>al</strong>le maggiori banche)<br />

e decadde nel 1922 con l’avvento del fascismo che accompagnò il grande capit<strong>al</strong>e<br />

sino <strong>al</strong> secondo conflitto mondi<strong>al</strong>e. Il tenore di vita delle popolazioni certamente aumentò,<br />

ma i consumi pro capite a prezzi costanti chiusero nel 1933 praticamente <strong>al</strong>lo stesso livello<br />

del 1918 e vi rimasero sino <strong>al</strong>l’immediato anteguerra; il livello del reddito si mantenne basso<br />

e, sempre sino <strong>al</strong>l’ultima guerra, metà della popolazione attiva viveva nelle campagne,<br />

spesso in condizioni precarie. D<strong>al</strong> 1901 <strong>al</strong> 1949 furono costrette a emigrare più di 13 milioni<br />

di persone. Lo stesso sviluppo del capit<strong>al</strong>e finanziario assunse forme «viziose». In un<br />

libro scritto nel 1940 Pietro Grifone ne mise in evidenza le «tare di origine». Penuria di capit<strong>al</strong>i,<br />

scarsezza di materie prime e assenza di un grande mercato “rendono tardivo e difficile<br />

in It<strong>al</strong>ia lo sviluppo di una economia capit<strong>al</strong>istica” (Grifone, 1940). In t<strong>al</strong>e contesto, gli<br />

investimenti dovettero essere promossi d<strong>al</strong>lo Stato finanziandoli attraverso la leva fisc<strong>al</strong>e e<br />

l’indebitamento. Essi assecondarono gli interessi dell’<strong>al</strong>ta banca: costruzioni ferroviarie,<br />

opere pubbliche, commesse militari. L’<strong>al</strong>ta banca intermediò e lucrò due volte: prima sul collocamento<br />

dei prestiti pubblici e poi nel finanziamento delle imprese destinatarie di quelle<br />

risorse pubbliche.<br />

Due movimenti si contrapponevano <strong>al</strong>la vigilia del primo conflitto mondi<strong>al</strong>e: il primo era<br />

quello dei «nuclei finanziari» e dell’industria pesante, collegati <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>ta banca (che puntavano<br />

sull’interventismo), il secondo era costituito in buona misura d<strong>al</strong>la «grande borghesia industri<strong>al</strong>e»<br />

(coloro che operavano nell’industria leggera e di esportazione). Queste due «classi»<br />

d’industri<strong>al</strong>i appaiono anticipazioni di una struttura du<strong>al</strong>istica che vedrà la costante convivenza,<br />

in ogni epoca, della grande e della piccola dimensione secondo «circuiti» produttivi<br />

per lo più non comunicanti tra loro. Nasce così il leitmotiv che si protrarrà sino agli anni<br />

Novanta: lo Stato grande sponsor dei settori capit<strong>al</strong> intensive, i «veri» privati divisi tra il<br />

gruppo che ricorre <strong>al</strong> mercato finanziario con l’intermediazione delle grandi banche e gli<br />

<strong>al</strong>tri imprenditori di dimensione ridotta tendenti per lo più a restare lontani dai riflettori. Le<br />

chiavi della tecnologia, da cui dipendeva la produttività e, in prima approssimazione, il progresso<br />

e le capacità manageri<strong>al</strong>i in senso tecnico, stavano a quel tempo d<strong>al</strong>la parte dei grandi<br />

industri<strong>al</strong>i nei settori capit<strong>al</strong> intensive. Nell’industria leggera prevarranno a lungo, sino ai<br />

primi anni del secondo dopoguerra, imprese piccole e artigian<strong>al</strong>i, inefficienti sul lato tecnico<br />

e margin<strong>al</strong>i nella struttura economica.<br />

6.2 NASCE L’INDUSTRIA DELLO STATO<br />

Al termine della prima guerra mondi<strong>al</strong>e il sistema che s’è appena descritto scontò la fragilità<br />

della sua costruzione, mentre la grande crisi finanziaria del 1929 finì per minacciare la<br />

sopravvivenza delle grandi banche miste che avevano costruito rapporti incestuosi con la<br />

grande industria. Nel 1933, con il s<strong>al</strong>vataggio pubblico di Comit, Credito It<strong>al</strong>iano e Banco<br />

di Roma, ebbe inizio il «secondo» capit<strong>al</strong>ismo nel qu<strong>al</strong>e la grande impresa industri<strong>al</strong>e venne<br />

172


a identificarsi in gran parte con il capit<strong>al</strong>ismo di Stato. L’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industri<strong>al</strong>e,<br />

fu l’ente pubblico costituito per questo scopo.<br />

Per avere un’idea delle dimensioni in gioco, basti dire che <strong>al</strong>la fine del 1945 lo Stato controllava<br />

direttamente e indirettamente 356 società che concentravano il 33 per cento del<br />

capit<strong>al</strong>e di tutte le Spa it<strong>al</strong>iane. Nell’industria si trattava di 178 imprese che occupavano più<br />

di 200 mila persone (Rienzi, 1947). Si può v<strong>al</strong>utare che la proprietà dei mezzi di produzione<br />

delle princip<strong>al</strong>i società it<strong>al</strong>iane nel 1948 fosse ripartita tra quattro grandi concentrazioni<br />

(Tabella 6.5): lo Stato (che soprattutto tramite l’IRI aveva rilevato il blocco delle grandi<br />

imprese promosse d<strong>al</strong>le banche s<strong>al</strong>vate nel 1933), il cartello elettrico (dominato d<strong>al</strong>l’Edison<br />

e costituito da public company), le <strong>al</strong>tre public company (tra cui la maggiore era la Montecatini)<br />

e il gruppo dei privati a controllo familiare (capeggiato d<strong>al</strong>la FIAT).<br />

Tabella 6.5 - Immobilizzi tecnici delle princip<strong>al</strong>i società nel 1948<br />

Immobilizzi tecnici lordi<br />

V<strong>al</strong>ori in miliardi di lire Quote percentu<strong>al</strong>i<br />

Società del Gruppo IRI 328 34,0<br />

Altre partecipazioni pubbliche1 40 4,1<br />

Tot<strong>al</strong>e Stato 368 38,1<br />

Cartello elettrico (escluse controllate IRI) 329 34,0<br />

Public company2 107 11,1<br />

Altri privati it<strong>al</strong>iani 135 14,0<br />

Società a controllo estero 28 2,9<br />

Tot<strong>al</strong>e maggiori 32 società 966 100,0<br />

1. Cogne, AGIP, ANIC, Breda, Larderello.<br />

2. Montecatini, SNIA e <strong>al</strong>tre.<br />

Fonte: elaborazioni su dati Assonime (anni vari).<br />

Il secondo dopoguerra fu un periodo di grande fermento imprenditori<strong>al</strong>e. Si visse la nuova<br />

stagione di libertà come occasione per sviluppare progetti d’impresa che il precedente regime<br />

aveva soffocato con la politica autarchica e il favore <strong>al</strong>le grandi concentrazioni capit<strong>al</strong>istiche.<br />

Si trattava di una nuova «classe» di imprenditori: meno d’élite, meno istruiti e<br />

<strong>al</strong>l’apparenza meno «adatti» a perseguire iniziative importanti, ma che nondimeno fondarono<br />

e <strong>al</strong>levarono imprese di dimensione consistente 6 mossi d<strong>al</strong> desiderio di uscire d<strong>al</strong>la<br />

povertà: “un enorme desiderio di fare, una fortissima volontà di emergere trasformarono<br />

molti di noi in uomini di attivismo frenetico. [...] In poco tempo il nostro paese fu capace<br />

di battere la miseria secolare” (Ferrero, 1999). Giorgio Fuà inserì questo fenomeno tra i princip<strong>al</strong>i<br />

fattori del miracolo economico it<strong>al</strong>iano (Fuà, 1965).<br />

6. Un esempio tra i tanti: “Prima della guerra i Borghi avevano una discreta posizione come artigiani-commercianti, a dodici anni il <strong>futuro</strong><br />

patròn aveva già dimostrato di qu<strong>al</strong>e pasta fosse fatto. Suo padre lo aveva preso a bottega con i fratelli Gaetano e Giuseppe e se<br />

lo ricordano con la borsa degli attrezzi a tracolla per le vie di Milano...” (Spartà, 2002). Il personaggio è Giovanni Borghi, fondatore<br />

della società di elettrodomestici Ignis, poi venduta a terzi (ora Whirlpool Europe).<br />

173<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

Le stesse imprese di cui lo Stato dovette assumere obtorto collo la proprietà furono tra le<br />

maggiori protagoniste del «miracolo economico» degli anni Cinquanta-Sessanta del secolo<br />

scorso. La grande siderurgia a ciclo integr<strong>al</strong>e (i cui bassi costi consentirono di rendere disponibile<br />

<strong>al</strong>l’industria meccanica acciaio a buon prezzo), le grandi infrastrutture (autostrade,<br />

telecomunicazioni, opere pubbliche), la riconversione della meccanica d<strong>al</strong>le produzioni di<br />

guerra a beni competitivi in tempo di pace (le automobili Alfa Romeo, i beni capit<strong>al</strong>i dell’Ans<strong>al</strong>do<br />

e della Breda), i trasporti (le compagnie marittime e lo sviluppo dei trasporti aerei<br />

che presto sostituirono quelli marittimi nel servizio ai passeggeri). Anche i privati contribuirono<br />

in misura importante <strong>al</strong>l’espansione del reddito nazion<strong>al</strong>e: gli autoveicoli FIAT, la<br />

chimica Montecatini (che vinse con Giulio Natta un premio Nobel per l’invenzione del polipropilene),<br />

le macchine da c<strong>al</strong>colo Olivetti, le fibre della SNIA Viscosa, le public company<br />

elettriche (che promossero un’efficiente produzione da fonti idroelettriche). Ma anche<br />

un’industria nuova di zecca, quella degli elettrodomestici, merci che prima d’<strong>al</strong>lora erano<br />

viste solo come «sogno americano».<br />

Il miracolo economico (1952-1963) si caratterizzò per un forte aumento della produzione<br />

(che trasse beneficio d<strong>al</strong>la ripresa dei mercati esteri e d<strong>al</strong>la progressiva espansione del mercato<br />

interno) e un rilevante processo di accumulazione (nei settori di base e nell’industria<br />

pesante). La grande impresa introdusse importanti innovazioni che spinsero la produttività<br />

(tra cui di grande rilievo fu la produzione di massa nell’industria met<strong>al</strong>meccanica organizzata<br />

sui principi del fordismo e il ciclo integr<strong>al</strong>e in quella siderurgica). Tutto ciò senza subire<br />

vincoli sostanzi<strong>al</strong>i d<strong>al</strong> lato finanziario, avendo potuto attingere le risorse necessarie<br />

<strong>al</strong>l’espansione d<strong>al</strong>l’autofinanziamento, dai prestiti bancari e d<strong>al</strong>la Borsa v<strong>al</strong>ori la cui consistenza<br />

raggiunse nel 1960 il 40 per cento del PIL. Aspetti cruci<strong>al</strong>i dello sviluppo delle grandi<br />

imprese in quel periodo furono il basso costo della manodopera e la concentrazione degli<br />

investimenti nelle aree del triangolo industri<strong>al</strong>e (Milano, Torino, Genova).<br />

6.3 LA CRISI DEGLI ANNI SETTANTA<br />

Il «miracolo» finì nel 1963 con una stretta creditizia operata d<strong>al</strong>la Banca d’It<strong>al</strong>ia. Le tornate<br />

contrattu<strong>al</strong>i del 1962-63 avviarono un periodo di intense lotte operaie sostenute d<strong>al</strong> maggior<br />

potere dei sindacati che condussero a un aumento significativo dei s<strong>al</strong>ari. La nazion<strong>al</strong>izzazione<br />

dell’industria elettrica (legge del dicembre 1962) diede vita a un nuovo ente<br />

pubblico, l’Ente Nazion<strong>al</strong>e per l’Energia Elettrica (ENEL), che si affiancò <strong>al</strong>l’Ente Nazion<strong>al</strong>e<br />

Idrocarburi (ENI) costituito nel 1953 per riunire le aziende pubbliche nel settore del petrolio<br />

e del gas. Questi eventi furono negativi per la grande impresa e, nella fase inizi<strong>al</strong>e, pen<strong>al</strong>izzarono<br />

quella a controllo privato che non seppe prontamente interpretare e reagire a<br />

t<strong>al</strong>i cambiamenti perdendo, in particolare, la spinta innovativa. I limiti di una struttura produttiva<br />

in origine arretrata e fortemente tributaria verso l’estero per l’acquisto delle tecnologie,<br />

divennero sempre più evidenti. Negli anni Sessanta il ritardo tecnologico it<strong>al</strong>iano nei<br />

confronti degli Stati Uniti veniva v<strong>al</strong>utato in una trentina d’anni. All’inizio degli anni Settanta<br />

174


oltre un terzo dell’esborso v<strong>al</strong>utario per l’acquisto di brevetti e tecnologie riguardava l’industria<br />

chimica, sulla qu<strong>al</strong>e molti puntavano perché ritenuta la più innovativa 7 .<br />

La mancanza di rilevazioni attendibili rende difficile misurare il contributo della grande impresa<br />

<strong>al</strong>lo sviluppo del Paese. Per una v<strong>al</strong>utazione appropriata occorre servirsi dei dati sul<br />

v<strong>al</strong>ore aggiunto che possono essere ricavati dai bilanci pubblicati solo d<strong>al</strong> 1975 (1974 per<br />

le serie ricostruite d<strong>al</strong>l’Ufficio Studi di Mediobanca). A partire da t<strong>al</strong>e anno le statistiche raccolte<br />

da Mediobanca per la grande impresa possono essere confrontate con i dati nazion<strong>al</strong>i<br />

sul prodotto lordo, v<strong>al</strong>utando in prima approssimazione le diverse velocità. Gli indici mettono<br />

in evidenza, dopo la metà degli anni Settanta, un forte r<strong>al</strong>lentamento del ruolo che le<br />

grandi imprese ricoprirono nello sviluppo complessivo dell’economia it<strong>al</strong>iana (Tabella 6.6).<br />

Tabella 6.6 - Sviluppo del v<strong>al</strong>ore aggiunto delle grandi imprese it<strong>al</strong>iane<br />

PIL V<strong>al</strong>ore aggiunto delle grandi imprese<br />

Tot<strong>al</strong>e Imprese Imprese<br />

imprese pubbliche private<br />

INDICI 1974 = 100<br />

1979 244 223 228 221<br />

1980 306 261 261 262<br />

1990 1.025 720 833 656<br />

1998 1.591 1.026 1.236 900<br />

DIFFERENZE PERCENTUALI RISPETTO ALL’INDICE DEL PIL<br />

1979 -8,6 -6,6 -9,4<br />

1980 -14,7 -14,7 -14,4<br />

1990 -29,8 -18,7 -36,0<br />

1998 -35,5 -22,3 -43,4<br />

I dati sono c<strong>al</strong>colati a prezzi correnti poiché risulta assai problematico ridurre a prezzi costanti gli aggregati relativi <strong>al</strong>le<br />

grandi imprese. Il raffronto, pur con le dovute cautele richieste da statistiche originate da fonti diverse, si ritiene comunque<br />

significativo.<br />

Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca.<br />

Il giudizio insoddisfacente sulla dinamica della grande impresa non si lega soltanto <strong>al</strong> progresso<br />

del v<strong>al</strong>ore aggiunto. Esso è confermato d<strong>al</strong>l’esame di <strong>al</strong>tri fattori dello sviluppo qu<strong>al</strong>i<br />

l’occupazione, le nuove tecnologie (quindi gli investimenti) e le esportazioni 8 . La grande impresa<br />

mise dunque in evidenza crescenti difficoltà e perse consistenza a vantaggio delle<br />

unità di dimensione minore. Ciò per molteplici cause che possono essere riassunte in quattro<br />

princip<strong>al</strong>i ordini:<br />

• le politiche industri<strong>al</strong>i: la nazion<strong>al</strong>izzazione dell’industria elettrica creò un nuovo ente finanziariamente<br />

fragile e impose <strong>al</strong>le società ex-elettriche riconversioni di investimenti i<br />

7. Si veda la sintesi su Mondo Economico (24 giugno 1967) a cura di Gino Martinoli del simposio Fast tenuto nel giugno 1967 sul livello<br />

tecnologico dei settori industri<strong>al</strong>i in It<strong>al</strong>ia e l’indagine conoscitiva della Camera dei Deputati del 10 aprile 1974.<br />

8. Rinvio per maggiori dettagli a Coltorti (2002).<br />

175<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

cui esiti furono in larga misura negativi 9 ; la politica per lo sviluppo del Mezzogiorno si<br />

tradusse in forti incentivi <strong>al</strong>le industrie intensive di capit<strong>al</strong>e, poco utilizzatrici di manodopera,<br />

dedite <strong>al</strong>le produzioni di massa; ma nulla venne fatto per promuovere contenuti<br />

tecnologici origin<strong>al</strong>i, che potessero spingere il Paese a guadagnare vantaggi competitivi<br />

sui mercati internazion<strong>al</strong>i;<br />

• la crisi dei contenuti imprenditori<strong>al</strong>i dell’impresa pubblica: essa perse progressivamente<br />

la sua autonomia e quindi il ruolo di forte propulsione che aveva rivestito negli anni del<br />

«miracolo»; tutto ciò a seguito di ingerenze sempre maggiori del cosiddetto «azionista politico<br />

occulto» e di una progressiva espansione dell’area pubblica gonfiata da «s<strong>al</strong>vataggi»<br />

di imprese private in dissesto (Ministero delle Partecipazioni Stat<strong>al</strong>i, 1980);<br />

• lo svuotamento del ruolo della Borsa v<strong>al</strong>ori qu<strong>al</strong>e mezzo di provvista di capit<strong>al</strong>i, di rischio<br />

e di debito, per le imprese private: il peso crescente dei collocamenti obbligazionari dell’ENEL<br />

e la scomparsa di titoli considerati dagli investitori privi di rischio (qu<strong>al</strong>i erano le<br />

utility elettriche private), unitamente ai risultati di gestione sfavorevoli, <strong>al</strong>lontanarono i risparmiatori<br />

d<strong>al</strong>la Borsa, il che determinò una corsa agli impieghi bancari, a quelli in titoli<br />

di Stato e la fuga <strong>al</strong>l’estero; il rapporto tra v<strong>al</strong>ore dei titoli quotati e PIL toccò il minimo storico<br />

del 2,5 per cento nel 1977 (era del 40% nel 1960), anno in cui i corsi delle azioni avevano<br />

mediamente perduto più del 90 per cento del v<strong>al</strong>ore rispetto <strong>al</strong> 1960-61 10 ;<br />

• la crescente onerosità dei fattori della produzione: anzitutto il lavoro (il cui prezzo relativo<br />

prese a crescere sotto il «fuoco» delle indicizzazioni) e poi il capit<strong>al</strong>e (il cui costo fu<br />

spinto fortemente d<strong>al</strong>l’inflazione); nel secondo trimestre 1974 il tasso applicato d<strong>al</strong>le banche<br />

ai prestiti di importo maggiore superò il 10 per cento (era oscillato tra il 6 e l’8% nei<br />

primi anni Settanta) e il prime rate (tasso sui prestiti <strong>al</strong>la clientela di primo ordine) s<strong>al</strong>ì <strong>al</strong><br />

13,4 per cento nel 1975, <strong>al</strong> 17,7 nel 1976 e <strong>al</strong> 18,4 nel 1977; toccherà il massimo del<br />

22,1 per cento nel 1981 per scendere <strong>al</strong> 9-10 per cento solo a metà anni Novanta (dati<br />

Banca d’It<strong>al</strong>ia). Era ben vero che l’inflazione superava il costo del denaro portando i tassi<br />

«re<strong>al</strong>i» in negativo; ma l’aumento dei debiti finanziari era dovuto non tanto <strong>al</strong>la maggiore<br />

produzione (che consentiva il recupero della loro onerosità nei prezzi di vendita),<br />

ma stava soprattutto a fronte delle perdite d’esercizio.<br />

Si aggiunsero gli effetti del doppio shock petrolifero: il primo nel 1973-74 e il secondo nel<br />

1979-80. Questi eventi produssero conseguenze nel contesto soci<strong>al</strong>e e politico entro il qu<strong>al</strong>e<br />

si muoveva la gestione dell’impresa. In primo luogo, la libertà di manovra veniva in larga<br />

misura a dipendere d<strong>al</strong> vincolo finanziario, ovvero d<strong>al</strong>la relazione stretta con i prestatori di<br />

capit<strong>al</strong>e. Si ritornò pertanto <strong>al</strong>le questioni sollevate da Grifone nell’anteguerra, con la differenza<br />

che <strong>al</strong>lora si finanziava uno sviluppo, mentre ora si tendeva a fronteggiare situa-<br />

9. T<strong>al</strong>i furono gli esiti degli impieghi nell’industria chimica (dove l’Edison si fuse con la Montecatini) e in quella <strong>al</strong>imentare. Gli unici usi<br />

«virtuosi» riguardarono gli indennizzi <strong>al</strong> gruppo IRI (cui faceva capo la Finelettrica, controllante princip<strong>al</strong>mente della SIP Società Idroelettrica<br />

Piemonte), destinati in gran parte <strong>al</strong>lo sviluppo delle telecomunicazioni.<br />

10. La variazione è c<strong>al</strong>colata sull’indice di borsa deflazionato con l’indice dei prezzi <strong>al</strong> consumo. Si veda Mediobanca, 2009a.<br />

176


zioni difficili dove le relazioni virtuose (piani di riorganizzazione volti a recuperare l’efficienza<br />

tecnica ed economica) tendevano a essere sopraffatte da quelle viziose (interventi politici<br />

a sostegno di s<strong>al</strong>vataggi di imprese decotte e della concessione di finanziamenti). I<br />

risultati negativi produssero l’accumulo dei debiti il cui peso raggiunse un massimo <strong>al</strong>la fine<br />

degli anni Settanta, quando si impose una politica straordinaria per il s<strong>al</strong>vataggio della<br />

grande industria (provvedimenti pubblici per agevolare ristrutturazioni e riconversioni).<br />

6.4 CRESCITA E DEGENERAZIONE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI<br />

V<strong>al</strong>e la pena di tornare brevemente sulla gestione del nuovo ente costituito a seguito della<br />

nazion<strong>al</strong>izzazione elettrica, l’ENEL, poiché essa si rivelò assai diversa d<strong>al</strong> previsto con una<br />

successione di disavanzi gestion<strong>al</strong>i sempre più gravi. Fino <strong>al</strong> 1972 i bilanci furono chiusi in<br />

pareggio manipolando l’importo degli ammortamenti stanziati annu<strong>al</strong>mente; a partire d<strong>al</strong><br />

1973 furono invece dichiarate perdite in misura crescente per un tot<strong>al</strong>e di circa 4 mila miliardi<br />

di lire per tutti gli anni Settanta. I passivi ebbero origine d<strong>al</strong>la forte crescita dei costi a<br />

fronte di una sostanzi<strong>al</strong>e stabilità dei prezzi con i qu<strong>al</strong>i lo Stato decise di rendere disponibile<br />

l’energia a tutto il Paese 11 . Quanto invece <strong>al</strong>le questioni finanziarie, il basso volume del<br />

cash flow e il crescente fabbisogno per gli investimenti produssero un incremento rilevante<br />

dei debiti. All’ENEL non fu versato <strong>al</strong>cun capit<strong>al</strong>e prima del 1973 perché nel redigere la<br />

legge di nazion<strong>al</strong>izzazione la classe politica si era illusa che l’ente potesse ripagare coi profitti<br />

il debito verso le imprese espropriate degli impianti (fu il primo gigantesco leveraged<br />

buyout). L’ENEL si caratterizzò pertanto per un massiccio ricorso <strong>al</strong> debito, in particolare attraverso<br />

l’emissione di obbligazioni garantite d<strong>al</strong>lo Stato. Alla fine dell’esercizio 1973 il tot<strong>al</strong>e<br />

dei debiti finanziari aveva raggiunto i 6.176 miliardi, più di 4 volte l’importo dei ricavi<br />

annu<strong>al</strong>i; gli interessi passivi assorbirono di conseguenza oltre un quarto del fatturato. Ma la<br />

crisi fu dovuta anche ad <strong>al</strong>tri motivi tra i qu<strong>al</strong>i occorre ricordare la tecnica di produzione.<br />

Se <strong>al</strong> momento della nazion<strong>al</strong>izzazione la fonte di gran lunga prev<strong>al</strong>ente era quella idrica,<br />

caratterizzata dai costi di esercizio più bassi, negli anni successivi si decise di adottare la generazione<br />

termoelettrica utilizzando olio combustibile il cui prezzo s<strong>al</strong>ì fortemente negli<br />

anni Settanta. La scelta fu <strong>al</strong>ternativa a quella nucleare i cui programmi furono fagocitati da<br />

interessate campagne pubbliche che screditarono i vertici del CNEN (d<strong>al</strong> 1963) e poi favorirono<br />

un referendum popolare abrogativo che nel 1987 impose chiusure, sospensioni di lavori<br />

in corso e riconversioni di centr<strong>al</strong>i con oneri a tutto il 1991 pari a 6.321 miliardi di lire,<br />

caricati sulle tariffe 12 . Ancora oggi l’It<strong>al</strong>ia è uno dei pochi paesi <strong>al</strong> mondo a utilizzare in misura<br />

cospicua nella generazione di elettricità l’olio combustibile denso e, tra i grandi paesi<br />

11. Si veda Zanetti e Fraquelli (1979).<br />

12. Si veda Corbellini e Velonà (2008) e annuari R&S. Nel 1964 la campagna di stampa orchestrata dagli avversari del nucleare portò <strong>al</strong>l’arresto<br />

di Felice Ippolito, Segretario gener<strong>al</strong>e del CNEN-Comitato Nazion<strong>al</strong>e per l’Energia Nucleare che fu condannato a undici anni,<br />

ridotti a sei in appello. Il condono di una parte della pena fece sì che Ippolito scontasse solo un paio d’anni prima di ottenere la grazia<br />

d<strong>al</strong> capo dello Stato, Giuseppe Saragat, da cui era per<strong>al</strong>tro partita a suo tempo la reprimenda.<br />

177<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

industri<strong>al</strong>izzati, è l’unico senza nucleare con evidenti effetti sul costo che la sua industria<br />

deve sopportare per l’acquisto dell’energia 13 .<br />

Il sistema delle partecipazioni stat<strong>al</strong>i ebbe poi un forte impulso a seguito dell’acquisizione<br />

di attività, per lo più deficitarie, trasferite dai privati. Furono costituiti nuovi enti (EFIM nel<br />

1962, EGAM e GEPI nel 1971), mentre ENI e IRI estesero notevolmente la loro dimensione.<br />

Le mod<strong>al</strong>ità di gestione dell’EGAM ne imposero la liquidazione già nel 1978, mentre l’ENI,<br />

che nel 1962 era entrato nel settore tessile acquistando il controllo della Lanerossi, rilevò<br />

nel 1970 anche le aziende dell’IRI (Manifatture Cotoniere Meridion<strong>al</strong>i e Fabbricone di Prato).<br />

Nel 1974 fu poi costituita una holding, la Tescon, che procedette a un’intensa attività di acquisto<br />

di piccole e medie aziende; le perdite di gestione si accumularono così rapidamente<br />

da consigliare la sua messa in liquidazione già nel 1977 14 .<br />

Per quanto riguarda l’IRI, gli investimenti furono pure cospicui e riguardarono sia ampliamenti<br />

delle aziende già controllate, sia acquisizioni di nuove imprese. I progetti di espansione<br />

si rivelarono assai generosi, come nel caso della siderurgia, dove <strong>al</strong>la fine degli anni<br />

Sessanta si prevedeva uno sviluppo della domanda di acciaio t<strong>al</strong>e da giustificare la costruzione<br />

di un nuovo centro a Gioia Tauro (sulla costa tirrenica della C<strong>al</strong>abria): i lavori furono<br />

bloccati dopo che si era costruito un porto di rilevante dimensione rimasto conseguentemente<br />

inutilizzato 15 . L’Alfa Romeo avviò un nuovo grande stabilimento a Pomigliano d’Arco<br />

(Napoli) per produrre una nuova vettura di media cilindrata, Alfasud (era il 1972); esso divenne<br />

famoso per la sua inefficienza, attribuibile in buona misura ai criteri clientelari seguiti<br />

nell’assunzione della forza lavoro (Gianola, 2000; Vit<strong>al</strong>e e <strong>al</strong>tri, 2004).<br />

Le vicende cui si è accennato portarono a un’espansione incontrollata dell’area pubblica, <strong>al</strong>l’accumulo<br />

di passivi consistenti e <strong>al</strong>la crescente chiamata di risorse a carico del bilancio dello Stato.<br />

6.5 RISTRUTTURAZIONI E PRIVATIZZAZIONI<br />

Ai difficili frangenti congiuntur<strong>al</strong>i cui si è accennato seguirono t<strong>al</strong>une importanti discontinuità<br />

di leadership e management nelle princip<strong>al</strong>i società per il cambiamento generazion<strong>al</strong>e<br />

che investì l’area della dirigenza (Adriano Olivetti scomparve nel 1960, Vittorio V<strong>al</strong>letta la-<br />

13. Nel 2007 il petrolio contava per l’11 per cento della produzione elettrica complessiva contro l’1 per cento circa di Francia e Regno<br />

Unito e il 2 di Germania e Stati Uniti. L’<strong>al</strong>tra princip<strong>al</strong>e fonte it<strong>al</strong>iana era il gas (il cui costo è agganciato a quello del petrolio) che copriva<br />

il 55 per cento. La fonte nucleare copriva il 77 per cento in Francia, il 41,5 nel Regno Unito, il 22 in Germania e il 21 per cento<br />

negli Stati Uniti (dati di fonte U.S. Energy Information Administration e Internation<strong>al</strong> Energy Agency). Il risultato di questa scelta energetica,<br />

quanto meno bizzarra, fu un costo medio dell’energia per gli utenti industri<strong>al</strong>i it<strong>al</strong>iani del tutto abnorme: tra l’81 e il 93 per cento<br />

in più rispetto <strong>al</strong>la Francia (rispettivamente, per le utenze minori e per quelle maggiori), tra il 25 e il 71 per cento in più rispetto <strong>al</strong>la<br />

Spagna, tra il 29 e il 13 per cento in più rispetto <strong>al</strong> Regno Unito e tra il 7 e il 25 per cento in più rispetto <strong>al</strong>la Germania (prezzi desunti<br />

d<strong>al</strong>la Relazione 2009 dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, <strong>al</strong> netto delle imposte, riferiti <strong>al</strong> semestre gennaio-giugno 2008).<br />

14. Per EFIM, GEPI e Tescon si vedano i dettagli in Alzona (1975), Coltorti e Mussati (1976).<br />

15. Il sito fu destinato a un uso «economico» nel 1995 per iniziativa dell’imprenditore genovese Angelo Ravano che vi iniziò un’attività<br />

transhipment di container trasportati da grandi navi transoceaniche e distribuiti <strong>al</strong> dettaglio da mezzi più piccoli. Si veda anche R&S<br />

(2000).<br />

178


sciò il comando della FIAT nel 1966; due anni dopo scomparve il fondatore della Zanussi,<br />

l’azienda che era il maggior produttore di elettrodomestici). L’Olivetti, in particolare, caduta<br />

in condizioni pre-f<strong>al</strong>limentari, fu soccorsa nel 1964 da un «gruppo d’intervento» (IMI,<br />

FIAT, La Centr<strong>al</strong>e, Mediobanca e Pirelli) che affiancò la famiglia costituendo il primo sindacato<br />

di controllo; la casa d’Ivrea fu costretta ad abbandonare la divisione grandi elaboratori,<br />

cedendola <strong>al</strong>la Gener<strong>al</strong> Electric: era la fine della produzione it<strong>al</strong>iana in uno dei settori<br />

più innovativi a livello mondi<strong>al</strong>e 16 .<br />

A partire dagli anni Settanta (in particolar modo d<strong>al</strong>la seconda metà) le imprese private iniziarono<br />

a rivedere le loro strutture, che erano divenute troppo rigide sia d<strong>al</strong> lato dei mercati<br />

per la crescente differenziazione della domanda, sia d<strong>al</strong> lato della produzione per la mancanza<br />

di flessibilità nei livelli dell’occupazione e per il forte aumento del costo del lavoro.<br />

Venne dunque perseguito un processo di ristrutturazione volto ad automatizzare i reparti di<br />

produzione (robot in sostituzione di operai), a migliorarne il rendimento attraverso la riduzione<br />

delle fermate per conflitti sindac<strong>al</strong>i e a renderli più adattabili <strong>al</strong>le fluttuazioni del mercato<br />

17 . La produttività del lavoro si accrebbe con decisione (Tabella 6.7).<br />

Tabella 6.7 - Produttività del lavoro<br />

(Manifattura, indici 1979 = 100)<br />

1982 1984 1988<br />

Produttività (v<strong>al</strong>ore aggiunto a prezzi costanti per dipendente) 106,2 119,3 167,5<br />

Numero di dipendenti 90,2 80,9 71,8<br />

Il v<strong>al</strong>ore aggiunto è stato deflazionato con l'indice ISTAT dei prezzi <strong>al</strong>la produzione.<br />

Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca.<br />

Le grandi imprese decomposero la propria organizzazione sostituendo <strong>al</strong> modello originario<br />

della monolitica società di capit<strong>al</strong>e, nel qu<strong>al</strong>e tutte le attività erano integrate in un unico<br />

contenitore giuridico, la forma di gruppo re<strong>al</strong>izzata mediante lo scorporo di specifici settori<br />

e il loro conferimento a controllate speci<strong>al</strong>izzate. T<strong>al</strong>e fenomeno diede avvio a un forte decentramento<br />

e <strong>al</strong>la conseguente v<strong>al</strong>orizzazione delle capacità del management periferico.<br />

Lo scorporo dei settori operativi delle imprese maggiori iniziò a metà degli anni Settanta e<br />

si completò nel 1980 quando vi fu la costituzione in entità giuridica separata delle produzioni<br />

automobilistiche della FIAT. Tutte le princip<strong>al</strong>i imprese private e <strong>al</strong>cune di quelle pubbliche<br />

applicarono questo modello di riorganizzazione con il risultato di costituire gruppi<br />

cosiddetti «gerarchici», a monte dei qu<strong>al</strong>i era posta una holding con funzioni di controllo e<br />

servizio. Se gli anni del miracolo economico rappresentarono un momento di libertà nei progetti<br />

imprenditori<strong>al</strong>i per la costituzione di nuove aziende, gli anni della ristrutturazione vi-<br />

16. La cessione fu una condizione posta d<strong>al</strong>la FIAT per partecipare <strong>al</strong> s<strong>al</strong>vataggio. Tuttavia, ove si fosse insistito in quel settore l’azienda<br />

avrebbe certamente incontrato nuove e forti difficoltà poiché l’IBM – maggior operatore mondi<strong>al</strong>e la cui tecnologia negli anni 1959-60<br />

era comparabile a quella Olivetti – introdusse nel 1964 la serie 360 guadagnando una supremazia tecnologica che avrebbe reso comunque<br />

obsoleti gli ELEA della società it<strong>al</strong>iana. Inoltre, il maggiore responsabile della divisione elettronica Mario Tchou era morto in<br />

un incidente d’auto nel 1961. L’Olivetti mantenne però le attività nelle piccole macchine dove nel 1965 introdusse la «Programma 101»,<br />

anticipatrice del moderno person<strong>al</strong> computer. Si vedano a t<strong>al</strong> proposito Amodeo (2009) e Bricco (2005).<br />

17. Per maggiori dettagli si vedano Nomisma (1983) e Momigliano (1986).<br />

179<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

dero la rivit<strong>al</strong>izzazione della stessa imprenditoria e, soprattutto, del management profession<strong>al</strong>e,<br />

le cui competenze erano state frustrate d<strong>al</strong>la dura conflittu<strong>al</strong>ità soci<strong>al</strong>e innescata <strong>al</strong>la<br />

fine degli anni Sessanta.<br />

Tra il 1979 e il 1983, in base ai dati R&S, l’occupazione nei 12 maggiori gruppi privati si ridusse<br />

di oltre un quarto (ovvero 213 mila dipendenti). Scomparvero <strong>al</strong>cune imprese che,<br />

benché risultassero private nella forma, erano pubbliche nel finanziamento; i casi più rilevanti<br />

furono i gruppi chimici SIR e Liquichimica, liquidati <strong>al</strong>la fine degli anni Settanta a seguito<br />

degli scompensi prodotti d<strong>al</strong>la dubbia qu<strong>al</strong>ità degli investimenti nel Mezzogiorno e<br />

d<strong>al</strong>l’abnorme tasso di indebitamento (si veda gli annuari R&S 1978-1980).<br />

La «rinascita» della grande impresa non mancò d’avere riflessi in Borsa dove i corsi ripresero<br />

vigore e nel 1985-86 lievitarono del 190 per cento. Nel 1987 il v<strong>al</strong>ore dei titoli quotati<br />

era ris<strong>al</strong>ito <strong>al</strong> 20 per cento circa del PIL. La favorevole predisposizione del mercato dei<br />

capit<strong>al</strong>i originò considerevoli flussi finanziari che tuttavia furono usati per mettere in atto<br />

strategie imprenditori<strong>al</strong>i d<strong>al</strong>l’esito assai sfortunato. Anzitutto una quota consistente delle risorse<br />

conseguite venne impiegata in attivi più finanziari che industri<strong>al</strong>i (Coltorti, 1988); in<br />

secondo luogo <strong>al</strong>cune importanti acquisizioni non furono adeguatamente v<strong>al</strong>utate e si rivelarono<br />

assai problematiche per la stabilità patrimoni<strong>al</strong>e delle società che le avevano perseguite.<br />

Varrà la pena di citare a t<strong>al</strong> proposito <strong>al</strong>cuni esempi significativi. Il Gruppo Ferruzzi<br />

nel 1986 impiegò 2.400 miliardi di lire per sc<strong>al</strong>are la Montedison (la qu<strong>al</strong>e nello stesso anno<br />

spese a sua volta 1.800 miliardi per assicurarsi il controllo assoluto della Fondiaria assicurazioni);<br />

il Gruppo De Benedetti – controllante dell’Olivetti – nel 1988 tentò senza fortuna<br />

la sc<strong>al</strong>ata <strong>al</strong>la finanziaria belga SGB (2 mila miliardi di lire circa); la Pirelli nel 1990 tentò<br />

anch’essa senza fortuna la sc<strong>al</strong>ata <strong>al</strong>la tedesca Continent<strong>al</strong> con oneri e perdite pari a 550<br />

miliardi di lire. Inoltre, nel 1986 il Gruppo IFI (controllante della FIAT) dovette riacquistare<br />

le azioni FIAT sottoscritte nel 1977 d<strong>al</strong>la Libyan Arab Foreign Bank per un controv<strong>al</strong>ore di<br />

un miliardo di dollari 18 . Questi esborsi, lungi d<strong>al</strong> rafforzare la dimensione industri<strong>al</strong>e dei<br />

princip<strong>al</strong>i gruppi nazion<strong>al</strong>i, ne provocarono <strong>al</strong> contrario un notevole indebolimento finanziario.<br />

Le operazioni <strong>al</strong>l’estero f<strong>al</strong>lirono mentre quelle effettuate <strong>al</strong>l’interno fecero riemergere<br />

quella vocazione <strong>al</strong> «catoblepismo» segn<strong>al</strong>ata dai grandi banchieri della Comit a proposito<br />

delle degenerazioni nei rapporti tra banca e industria negli anni Trenta e che ora si proponevano<br />

<strong>al</strong>l’interno della stessa industria (Mattioli, 1961) 19 .<br />

Le imprese pubbliche erano impegnate in prev<strong>al</strong>enza nei settori di base e nei servizi ove il<br />

decentramento delle produzioni era avvenuto con assai minore intensità; molto ridotto era<br />

stato inoltre il ricorso <strong>al</strong> mercato dei capit<strong>al</strong>i. Non stupisce quindi che esse fossero rimaste<br />

maggiormente vincolate a fattori di rigidità sindac<strong>al</strong>e. Le partecipazioni stat<strong>al</strong>i si mantennero<br />

18. Nel 1977 i libici avevano conferito mezzi liquidi per 270 miliardi di lire; rivendettero la partecipazione nel 1986 per tre miliardi di dollari<br />

(circa 4 mila miliardi di lire) in parte <strong>al</strong>la famiglia Agnelli (IFI) e in parte collocando le azioni sul mercato. Nel 1991-92, inoltre,<br />

l’IFI Internation<strong>al</strong> rilevò progressivamente, anche tramite OPA, l’intero capit<strong>al</strong>e della EXOR con un investimento nell’ordine dei 1.600<br />

miliardi di lire. L’operazione fruttò un risultato parzi<strong>al</strong>e poiché, prima del passaggio del controllo, d<strong>al</strong>la società francese vennero sfilate<br />

le partecipazioni nella Perrier e nella finanziaria Suez, lasciandovi le sole proprietà immobiliari e vitivinicole.<br />

19. Il catoblèpa è un anim<strong>al</strong>e fantastico che tiene la testa sempre abbassata.<br />

180


perciò fortemente deficitarie, registrando per giunta nel triennio 1981-1983 il massimo delle<br />

perdite, con un tot<strong>al</strong>e di quasi 20 mila miliardi di lire (Tabella 6.8).<br />

Tabella 6.8 - Risultati delle partecipazioni stat<strong>al</strong>i<br />

(Perdite d’esercizio, v<strong>al</strong>ori in miliardi di lire)<br />

1981 1982 1983<br />

IRI 2.934 2.688 3.049<br />

ENEL 2.219 2.433 1.823<br />

ENI 302 1.509 1.449<br />

EFIM 315 370 745<br />

Tot<strong>al</strong>e 5.770 7.000 7.066<br />

Fonte: elaborazioni su dati di bilancio consolidati.<br />

Nel 1992 e nel 1993 il nuovo difficile andamento congiuntur<strong>al</strong>e aggravò i problemi e i risultati<br />

aggregati delle maggiori imprese tornarono in grave perdita. Tra i processi di ristrutturazione<br />

industri<strong>al</strong>e messi in atto per superare questa nuova crisi vi fu una riloc<strong>al</strong>izzazione<br />

delle attività produttive. La FIAT operò un profondo rinnovamento organizzativo e tecnologico<br />

sia attraverso un’ulteriore spinta <strong>al</strong>l’automatizzazione degli impianti, sia introducendo<br />

la «fabbrica integrata» qu<strong>al</strong>e applicazione delle nuove tecniche della «produzione snella»<br />

(lean production) ideate d<strong>al</strong>la Toyota. T<strong>al</strong>i innovazioni ebbero successo, ma produssero nel<br />

settore privato nuovi ridimensionamenti <strong>al</strong>l’interno delle grandi società. D<strong>al</strong> 1991 <strong>al</strong> 2001<br />

i dipendenti della FIAT si ridussero del 29 per cento mentre la percentu<strong>al</strong>e dei siti esteri s<strong>al</strong>ì<br />

d<strong>al</strong> 24 <strong>al</strong> 52 per cento della forza lavoro complessiva. Lo «smagrimento» della Pirelli fu pari<br />

<strong>al</strong> 39 per cento (in buona misura per la cessione del settore prodotti diversificati), quello della<br />

Montedison <strong>al</strong> 22, mentre la Olivetti cessò quasi del tutto le produzioni manifatturiere diversificandosi<br />

nelle telecomunicazioni (Tabella 6.9).<br />

Nel settore pubblico, le crescenti difficoltà di gestione delle partecipazioni stat<strong>al</strong>i, il grave<br />

passivo del bilancio dello Stato e i vincoli europei imposero massicce dismissioni patrimoni<strong>al</strong>i.<br />

D<strong>al</strong> 1992 <strong>al</strong> giugno 2000 il programma it<strong>al</strong>iano di privatizzazioni fece re<strong>al</strong>izzare introiti<br />

da smobilizzi per complessivi 198.400 miliardi di lire. Vi fu una consistente riduzione<br />

dell’area delle partecipazioni stat<strong>al</strong>i nell’ambito dell’industria. Tra il 1991 e il 1999, secondo<br />

le rilevazioni dell’Ufficio Studi di Mediobanca, il peso delle imprese pubbliche <strong>al</strong>l’interno<br />

delle princip<strong>al</strong>i società it<strong>al</strong>iane scese d<strong>al</strong> 49 <strong>al</strong> 25 per cento in termini di tot<strong>al</strong>e attivo e d<strong>al</strong><br />

40 <strong>al</strong> 19 per cento in termini di occupati (R&S, 2001). Le operazioni di importo maggiore<br />

furono i collocamenti <strong>al</strong> pubblico di azioni dell’ENI e dell’ENEL (delle qu<strong>al</strong>i lo Stato mantenne<br />

però il controllo), nonché della Telecom It<strong>al</strong>ia. La politica delle privatizzazioni ebbe<br />

molteplici effetti:<br />

• un insieme di imprese fondament<strong>al</strong>i per il progresso economico e tecnologico del Paese<br />

adottò metodi di gestione più efficienti, difesi da una corporate governance resa traspa-<br />

181<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

rente d<strong>al</strong>la quotazione in Borsa e d<strong>al</strong> conseguente (<strong>al</strong>meno parzi<strong>al</strong>e) riparo dai condizionamenti<br />

della politica;<br />

• il princip<strong>al</strong>e ente delle partecipazioni stat<strong>al</strong>i, l’IRI (trasformato in società per azioni nel<br />

1992), dopo il riequilibrio patrimoni<strong>al</strong>e venne posto in liquidazione il 1° luglio 2000; esso<br />

fu incorporato nel 2002 d<strong>al</strong>la Fintecna; l’EFIM era stato posto in liquidazione nel 1992;<br />

• l’offerta di azioni industri<strong>al</strong>i sul mercato borsistico venne irrobustita; a tutt’oggi, i titoli<br />

delle società privatizzate rappresentano più del 70 per cento del v<strong>al</strong>ore di tutte le azioni<br />

industri<strong>al</strong>i quotate nella Borsa it<strong>al</strong>iana; diversamente, quei titoli sarebbero praticamente<br />

scomparsi d<strong>al</strong> mercato 20 ;<br />

• le compagini dei princip<strong>al</strong>i gruppi privati sono state diversificate, il che ha favorito in <strong>al</strong>cuni<br />

casi la crescita dimension<strong>al</strong>e; ciò v<strong>al</strong>e in particolare per tre grandi complessi siderurgici<br />

(Riva, Lucchini e Rocca), acquirenti delle attività dell’ex-Gruppo IRI-Finsider 21 ;<br />

• due gruppi nati nel comparto del cosiddetto made in It<strong>al</strong>y (Benetton e Del Vecchio-Luxottica)<br />

si diversificarono nelle attività terziarie.<br />

Tabella 6.9 - Princip<strong>al</strong>i gruppi manifatturieri it<strong>al</strong>iani: v<strong>al</strong>ore aggiunto e dipendenti<br />

(V<strong>al</strong>ore aggiunto in milioni di euro)<br />

1981 1991 2001 2008<br />

Dipendenti VA Dipendenti VA Dipendenti VA Dipendenti VA<br />

Gruppi<br />

pubblici:<br />

IRI1 461.100 7.015 IRI1 368.267 20.302 ENI 70.948 15.683 ENI2 78.880 32.758<br />

ENI 122.796 4.370 ENI 131.248 9.458 Finmeccanica 3 41.093 2.305 Finmeccanica 3 73.398 5.619<br />

Primi 5 gruppi privati:<br />

FIAT 301.658 3.952 FIAT 287.957 9.662 FIAT 198.764 11.714 FIAT 198.348 13.524<br />

Montedison 94.203 1.215 Pirelli 64.854 1.769 Pirelli 39.771 2.230 Luxottica 60.975<br />

Pirelli 72.674 1.103<br />

(1983)<br />

Olivetti 46.484 1.607 Parm<strong>al</strong>at 36.209 1.849 Pirelli 31.056 1.424<br />

Olivetti 53.471 Montedison 38.254 2.199 Luxottica 35.450 1.582 Riva Fire 24.372 2.156<br />

SNIA BPD 25.333 290<br />

(1982)<br />

It<strong>al</strong>cementi 6.449 390 Montedison 29.856 3.188 It<strong>al</strong>mobiliare 23.864 2.117<br />

1. Sola sezione industri<strong>al</strong>e. Le controllate bancarie contavano 59.400 dipendenti nel 1981 e 39.799 dipendenti nel 1991.<br />

2. Nel 2008 la manifattura ha rappresentato il 46 per cento del fatturato.<br />

3. Già facente capo <strong>al</strong> Gruppo IRI.<br />

La conversione lira/euro per i dati 1981 e 1991 è stata eseguita <strong>al</strong> cambio fisso di 1936,27. La sigla VA sta per v<strong>al</strong>ore aggiunto.<br />

Fonte: elaborazioni su dati degli Annuari R&S.<br />

20. La quota è c<strong>al</strong>colata sul solo capit<strong>al</strong>e flottante (elaborazione dell’Ufficio Studi di Mediobanca riferita a fine dicembre 2009).<br />

21. Il Gruppo Rocca ha re<strong>al</strong>izzato l’evoluzione più importante con la formazione della Tenaris, oggi uno dei maggiori operatori mondi<strong>al</strong>i<br />

nel comparto dei tubi, con azioni quotate in It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong>l’estero. Era nato nel dopoguerra in Argentina per iniziativa di Agostino, cresciuto<br />

<strong>al</strong> fianco di Oscar Sinigaglia con il qu<strong>al</strong>e aveva condiviso il piano siderurgico it<strong>al</strong>iano. Laureato <strong>al</strong> Politecnico di Milano, era entrato<br />

<strong>al</strong>la D<strong>al</strong>mine nel 1922 come tirocinante d’officina divenendone amministratore delegato nel 1937. Fu <strong>al</strong>lontanato nel febbraio 1944<br />

per aver rifiutato l’iscrizione <strong>al</strong> partito fascista. Si trasferì in Sud America dopo la Liberazione. Si veda Conca Messina (2006).<br />

182


6.6 GLOBALIZZAZIONE E VITTIME ECCELLENTI<br />

Le privatizzazioni non sono state però sufficienti a rib<strong>al</strong>tare il du<strong>al</strong>ismo pubblico-privato<br />

nell’industria. I gruppi pubblici sopravvissuti, ancorché «privatizzati», hanno riguadagnato<br />

una posizione di preminenza sia in termini dimension<strong>al</strong>i, sia di solidità finanziaria e – conseguentemente<br />

– di capacità espansiva. Nel 1981 il maggior gruppo pubblico, l’IRI, contava<br />

un volume di occupati superiore del 53 per cento a quello del primo gruppo privato, la<br />

FIAT; il rapporto tra i v<strong>al</strong>ori aggiunti era di 1,8 a 1. Nel 2008 questo rapporto era s<strong>al</strong>ito a 2,4<br />

a 1 ma i dipendenti del primo gruppo pubblico, che ora è l’ENI, erano meno dei quattro decimi<br />

di quelli della FIAT (Tabella 9). Sul lato della struttura finanziaria, l’ENI ha oggi un capit<strong>al</strong>e<br />

investito superiore del 37 per cento a quello segnato d<strong>al</strong>l’IRI nel 1991, con un<br />

incremento (comprensivo dell’effetto inflazione) di circa 21 miliardi di euro, ovvero 2,4<br />

volte la variazione del princip<strong>al</strong>e gruppo privato, la FIAT (la variazione ENI su ENI è stata<br />

invece del 193 per cento ovvero circa 51 miliardi, pari a una volta e mezzo la consistenza<br />

fin<strong>al</strong>e della FIAT). Non basta: mentre l’autonomia finanziaria del maggior gruppo privato si<br />

è ridotta (la quota dei mezzi propri è passata d<strong>al</strong> 54,4 per cento nel 1991 <strong>al</strong> 33,8 nel 2008),<br />

quella del princip<strong>al</strong>e gruppo pubblico ha raggiunto un livello (73%) prima sconosciuto <strong>al</strong>l’industria<br />

di Stato (Tabella 6.10). Queste dinamiche sono dovute da un lato <strong>al</strong>la riorganizzazione<br />

dei gruppi pubblici, che ha portato a ridurre il peso della manifattura a favore di<br />

quello dell’energia, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro <strong>al</strong> persistente declino del comparto privato dove la FIAT è rimasta<br />

l’unico grande complesso.<br />

V<strong>al</strong>e la pena di ricordare le vicende che hanno interessato i vertici dell’industria privata, dove<br />

d<strong>al</strong>la lista dei primi cinque sono scomparsi prima l’Olivetti e poi la Montedison. L’azienda<br />

di Ivrea fu incapace di recuperare un’eccellenza produttiva nel nuovo mondo glob<strong>al</strong>izzato;<br />

essa uscì sostanzi<strong>al</strong>mente d<strong>al</strong>la manifattura nel 1997 con la cessione delle attività nei person<strong>al</strong><br />

computer. L’anno precedente aveva avviato un’espansione – per<strong>al</strong>tro di successo – nelle telecomunicazioni<br />

(tramite Omnitel e Infostrada) che la portò nel 1999 a rilevare la maggioranza<br />

della Telecom It<strong>al</strong>ia attraverso un’offerta pubblica di acquisto e scambio del costo<br />

complessivo di 31,5 miliardi di euro (la maggiore per importo mai effettuata in It<strong>al</strong>ia). La denominazione<br />

Olivetti scomparve nel 2003, con la fusione Olivetti-Telecom It<strong>al</strong>ia.<br />

La Montedison fu la seconda vittima eccellente del declino della grande impresa in It<strong>al</strong>ia.<br />

Dopo il passaggio del controllo in mano <strong>al</strong> Gruppo Ferruzzi nel 1986, l’originaria attività chimica<br />

e farmaceutica venne progressivamente smobilizzata: nel 1989 toccò <strong>al</strong>le attività di<br />

base, trasferite <strong>al</strong>l’Enimont (inizi<strong>al</strong>mente joint-venture pubblica-privata, nel 1990 ceduta tot<strong>al</strong>mente<br />

<strong>al</strong>l’Ente pubblico), nel 1993 <strong>al</strong>le princip<strong>al</strong>i produzioni farmaceutiche (cessione<br />

dell’Erbamont <strong>al</strong>la svedese Procordia-Kabi Pharmacia), nel 1994 <strong>al</strong>le attività poliolefine trasferite<br />

<strong>al</strong>la Montell, poi ceduta tot<strong>al</strong>mente nel 1997 <strong>al</strong>la Shell. Nel frattempo venne costruita<br />

una nuova grande impresa, la Parm<strong>al</strong>at, cresciuta sul filo delle acquisizioni in It<strong>al</strong>ia e, d<strong>al</strong>la<br />

metà degli anni Novanta, soprattutto <strong>al</strong>l’estero; essa tuttavia ben presto (2002) naufragò sulle<br />

f<strong>al</strong>sificazioni contabili sollevando uno scand<strong>al</strong>o di dimensioni planetarie.<br />

183<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

Tabella 6.10 - Princip<strong>al</strong>i gruppi manifatturieri it<strong>al</strong>iani: struttura finanziaria<br />

(V<strong>al</strong>ori in % del capit<strong>al</strong>e investito)<br />

Gruppi Capit<strong>al</strong>e Mezzi propri Debiti finanziari Tot<strong>al</strong>e<br />

investito Azionisti Minoranze Fondi e Tot<strong>al</strong>e A media/ A breve<br />

in miliardi di comando intangible lunga scadenza<br />

2008<br />

ENI 77,2 19,3 43,6 10,1 73,0 18,1 9,0 100,0<br />

Finmeccanica 6,3 28,9 69,1 -99,6 -1,6 65,4 36,2 100,0<br />

FIAT 32,3 8,6 25,8 -0,6 33,8 36,6 29,6 100,0<br />

Riva Fire 7,9 56,8 7,0 14,5 78,4 12,9 8,7 100,0<br />

It<strong>al</strong>mobiliare 7,9 7,7 62,1 -18,1 51,6 37,8 10,6 100,0<br />

Pirelli e C. 3,9 24,9 35,5 -13,1 47,3 35,0 17,7 100,0<br />

Luxottica 2,5 70,7 33,4 -135,9 -31,9 102,6 29,3 100,0<br />

2001<br />

ENI 47,6 18,2 43,0 11,6 72,9 13,5 13,6 100,0<br />

Finmeccanica 8,8 15,4 31,9 14,4 61,7 17,5 20,8 100,0<br />

FIAT 67,7 4,3 15,4 32,0 51,7 27,0 21,3 100,0<br />

Pirelli – raggrupp. 1 51,7 2,2 54,9 -61,1 -3,9 83,1 20,9 100,0<br />

Pirelli e C. 9,3 12,3 46,1 4,6 63,0 20,1 16,8 100,0<br />

Montedison 13,3 4,3 25,5 2,0 31,8 25,7 42,5 100,0<br />

Luxottica 1,4 66,7 30,3 -132,5 -35,5 9,5 126,0 100,0<br />

1991<br />

IRI 56,5 16,0 13,4 9,2 38,6 42,3 19,1 100,0<br />

ENI 26,3 31,9 3,4 6,0 41,3 28,7 30,0 100,0<br />

FIAT 23,5 6,2 28,3 19,9 54,4 15,2 30,4 100,0<br />

Montedison 9,9 9,1 30,7 -11,7 28,0 41,8 30,2 100,0<br />

Olivetti 4,7 11,5 25,0 7,6 44,1 49,8 6,0 100,0<br />

Pirelli Spa 4,1 11,9 17,4 13,4 42,7 36,0 21,4 100,0<br />

It<strong>al</strong>cementi 1,6 7,6 75,0 4,9 87,5 8,1 4,4 100,0<br />

Il v<strong>al</strong>ore negativo è prev<strong>al</strong>entemente l’effetto dell’avviamento su acquisizioni da terzi.<br />

1. C<strong>al</strong>colato sui dati del consolidato Pirelli raggruppato con la Telecom It<strong>al</strong>ia (R&S, 2002).<br />

Il s<strong>al</strong>do fondi e intangible comprende i fondi a media/lunga scadenza, le riserve tecniche delle controllate assicurative<br />

e, in detrazione, oneri plurienn<strong>al</strong>i e avviamento.<br />

Limitatamente <strong>al</strong> 2008 sono comprese le imposte anticipate contabilizzate nell’attivo immobilizzato.<br />

Nel 1991 i dati in lire sono stati convertiti <strong>al</strong> cambio di 1.936,27.<br />

Le percentu<strong>al</strong>i di <strong>al</strong>cune colonne non corrispondono <strong>al</strong>le somme degli addendi a causa degli arrotondamenti.<br />

Fonte: elaborazioni su dati R&S.<br />

L’unico grande gruppo in ascesa è Luxottica, impresa emergente d<strong>al</strong> distretto bellunese dell’occhi<strong>al</strong>eria,<br />

passata da 419 dipendenti nel 1981 a quasi 61 mila nel 2008 prev<strong>al</strong>entemente<br />

attraverso acquisizioni estere. Il primo della lista, la FIAT, ha nuovamente e molto sofferto.<br />

184


Il takeover della quota di controllo della Montedison nel 2001 comportò un costo di 7,7 miliardi<br />

di euro, di cui 5 per un’OPA inizi<strong>al</strong>mente «ostile». L’operazione fu la seconda di t<strong>al</strong>e<br />

natura, veramente importante, sul mercato it<strong>al</strong>iano dopo quella già citata dell’Olivetti sulla<br />

Telecom It<strong>al</strong>ia 22 . Ma la FIAT era già in difficoltà nella sua attività princip<strong>al</strong>e e aveva accumulato<br />

a fine 2000 un debito finanziario di 32,5 miliardi di euro contro un patrimonio netto<br />

tangibile di 10 miliardi. Nel quadriennio 2001-2004 furono segnate perdite complessive<br />

per circa 8 miliardi di euro. Il patrimonio netto tangibile, conteggiato in base ai nuovi princìpi<br />

contabili internazion<strong>al</strong>i, risultava negativo. D<strong>al</strong> canto suo, la Montedison, che nel 2001<br />

costituiva il secondo gruppo industri<strong>al</strong>e privato per dimensione di fatturato, dopo il takeover<br />

venne <strong>al</strong>leggerita di tutte le attività estranee <strong>al</strong>l’energia e nella sua nuova configurazione<br />

fu ceduta ai gruppi pubblici EdF e AEM 23 . Tutte queste operazioni furono re<strong>al</strong>izzate ricorrendo<br />

<strong>al</strong> debito, il che contribuì a indebolire una situazione già di per sé critica. La FIAT fu<br />

riportata in bonis nel 2005-2006 da un nuovo management che qu<strong>al</strong>ificò la crisi in cui era<br />

caduta come la peggiore della sua storia 24 . Nel 1989 la FIAT figurava tra i primi 5 player<br />

mondi<strong>al</strong>i dell’automotive, non molto distante d<strong>al</strong>la Daimler Benz e prima della Volkswagen;<br />

essa era inoltre decima nella classifica delle maggiori multinazion<strong>al</strong>i per dimensione degli<br />

attivi tot<strong>al</strong>i. Nel 2007 la perdita di rango appare notevole: la Volkswagen è s<strong>al</strong>ita <strong>al</strong> terzo<br />

posto mondi<strong>al</strong>e con una cifra di fatturato pari a 1,9 volte la FIAT, mentre nella graduatoria<br />

per tot<strong>al</strong>e attivo il gruppo it<strong>al</strong>iano è scivolato <strong>al</strong>la venticinquesima posizione (dati R&S).<br />

Le vicende ricordate in questa sede hanno condotto a un’anom<strong>al</strong>ia it<strong>al</strong>iana nel campo delle<br />

grandi imprese; ciò è assai evidente se si raffrontano le maggiori società industri<strong>al</strong>i nei vari<br />

paesi rapportando il loro giro d’affari <strong>al</strong> PIL (Coltorti, 2006). Due i tratti distintivi del capit<strong>al</strong>ismo<br />

privato it<strong>al</strong>iano di grande dimensione: la presenza di assetti di controllo familiare,<br />

in genere non sostenuti da <strong>al</strong>leanze con enti finanziari; la bassa presenza nei settori ad <strong>al</strong>ta<br />

tecnologia. Secondo le rilevazioni di R&S, i comparti hi-tech costituivano nel 2007 il 24<br />

per cento del fatturato delle multinazion<strong>al</strong>i europee, ma solo l’8 per cento di quelle it<strong>al</strong>iane<br />

che prev<strong>al</strong>evano nei prodotti a tecnologia medio-bassa (50,8% contro la media europea del<br />

38,1%). Ciò si traduceva in bassi livelli di produttività: il v<strong>al</strong>ore aggiunto netto per dipendente<br />

delle maggiori multinazion<strong>al</strong>i manifatturiere it<strong>al</strong>iane nel 2007 era inferiore del 17 per<br />

cento <strong>al</strong>la media europea (Tabella 6.11). Ciò conferma in quelle imprese la persistenza di<br />

modelli produttivi basati sui bassi costi anziché sul v<strong>al</strong>ore dei beni prodotti.<br />

6.7 DISTRETTI E MEDIE IMPRESE<br />

Il declino delle grandi imprese ha favorito l’emersione di un <strong>al</strong>tro genere d’industria promosso<br />

da una vasta platea di imprenditori che hanno re<strong>al</strong>izzato un modello aziend<strong>al</strong>e agli<br />

22. Un precedente ris<strong>al</strong>e <strong>al</strong> 1971 quando Michele Sindona lanciò un’OPA ostile contro la Bastogi offrendo di acquistarne <strong>al</strong>meno il 33 per<br />

cento per un controv<strong>al</strong>ore di 56 miliardi di lire (equiv<strong>al</strong>enti in moneta attu<strong>al</strong>e a circa mezzo miliardo di euro). L’offerta non ebbe però<br />

successo.<br />

23. Conclusione bizzarra: gli impianti elettrici gestiti d<strong>al</strong>la Montedison erano in buona sostanza quelli s<strong>al</strong>vati d<strong>al</strong>la nazion<strong>al</strong>izzazione del<br />

1962 perché <strong>al</strong> servizio di autoproduttori tra i qu<strong>al</strong>i prev<strong>al</strong>eva la Montecatini.<br />

24. Intervento dell’amministratore delegato, Sergio Marchionne, <strong>al</strong>l’assemblea dell’Unione Industri<strong>al</strong>e di Torino, 12 giugno 2006.<br />

185<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

Tabella 6.11 - Multinazion<strong>al</strong>i manifatturiere – Produttività e costi unitari nel 2007<br />

It<strong>al</strong>ia Francia Germania Regno Unito Media<br />

europea<br />

VALORI IN MIGLIAIA DI EURO<br />

V<strong>al</strong>ore aggiunto per dipendente 63,7 68,9 78,7 95,3 76,4<br />

Costo del lavoro per dipendente 42,2 47,6 55,8 47,9 48,8<br />

INDICI: EUROPA = 100<br />

V<strong>al</strong>ore aggiunto per dipendente 83,4 90,2 103,0 124,7 100,0<br />

Costo del lavoro per dipendente 86,5 97,5 114,3 98,2 100,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati R&S, Multination<strong>al</strong>s (2009).<br />

antipodi rispetto agli schemi convenzion<strong>al</strong>mente accettati. Quando i capit<strong>al</strong>i sono scarsi, ma<br />

i luoghi conservano l’humus dell’imprenditori<strong>al</strong>ità, emergono coloro che sanno innovare<br />

producendo idee a basso consumo di finanza. Giorgio Fuà fu tra i primi a capire anche questa<br />

trasformazione. Egli pervenne <strong>al</strong>la conclusione che per un paese a sviluppo ritardato<br />

come l’It<strong>al</strong>ia, una struttura più «accentrata» (nelle grandi città e nelle grandi fabbriche) non<br />

era un passaggio obbligato sulla strada del progresso (Fuà, 1983). I «fatti osservati» promuovevano<br />

con forza un’industri<strong>al</strong>izzazione «diffusa» e le aree di riferimento erano quelle<br />

del Nord Est e del Centro. Lo chiamò «modello NEC» “basato su imprese autoctone, prev<strong>al</strong>entemente<br />

piccole, ampiamente diffuse sul territorio, intimamente collegate con l’ambiente<br />

della campagna e delle piccole e medie città” (Fuà, 1983 e 1988). Il modello<br />

prosperava dove la popolazione esprimeva un’elevata disponibilità di «energie imprenditive».<br />

Fuà immaginava due fasi di sviluppo: la prima era tipica dei paesi arretrati, dove le imprese<br />

stanno sul mercato grazie a bassi s<strong>al</strong>ari, poche imposte e nessun vincolo sull’uso del<br />

lavoro e sul rispetto dell’ambiente. Nella fase successiva i controlli soci<strong>al</strong>i si fanno però più<br />

stringenti e le imprese debbono necessariamente ricorrere ai progressi della produttività per<br />

restare competitive. In questa fase Fuà inserì due «leve»: l’organizzazione di sistemi integrati<br />

di piccole imprese (i distretti e gli <strong>al</strong>tri sistemi produttivi loc<strong>al</strong>i) e la speci<strong>al</strong>izzazione nelle<br />

produzioni di nicchia, che chiamava «stile it<strong>al</strong>iano», o nelle produzioni su misura (es. la<br />

robotica). Questo è il terzo capit<strong>al</strong>ismo, di cui i distretti costituiscono l’aspetto dominante.<br />

Giacomo Becattini li aveva «annusati» fin d<strong>al</strong>la metà degli anni Sessanta e in seguito ne form<strong>al</strong>izzò<br />

il modello definendoli entità socio-territori<strong>al</strong>i caratterizzate d<strong>al</strong>la “compresenza attiva,<br />

in un’area territori<strong>al</strong>e circoscritta, natur<strong>al</strong>isticamente e storicamente determinata, di<br />

una comunità di persone e di una popolazione di imprese industri<strong>al</strong>i” (Becattini, 2000).<br />

Il «territorio», o meglio il «luogo» inteso à la Cattaneo come comunità di persone, entra<br />

con forza nei fondamenti dello sviluppo economico. L’impresa non è più vista nel suo splendido<br />

isolamento, ma dentro un sistema a rete governato da regole cooperative. Non costituisce<br />

il puro investimento di un capit<strong>al</strong>e finanziario, ma un «progetto di vita», mentre<br />

l’imprenditore non è selezionato d<strong>al</strong>l’élite dominante, ma si costruisce da solo sfruttando il<br />

«capit<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e» del territorio e sfidando il mercato. Il benessere viene sempre d<strong>al</strong>l’aumento<br />

di produttività, ma qui non funzionano tanto le economie di sc<strong>al</strong>a «interne» <strong>al</strong>le imprese;<br />

incidono anche e soprattutto quelle «esterne» rese possibili d<strong>al</strong>la progressiva divisione<br />

186


del lavoro. Le ultime ricerche hanno ampiamente dimostrato come lo sviluppo più recente<br />

dell’industria it<strong>al</strong>iana sia venuto proprio d<strong>al</strong>le aree distrettu<strong>al</strong>i, in buona misura del NEC, a<br />

fronte del declino di quelle di grande impresa (Becattini e Coltorti, 2004).<br />

Alla fine degli anni Ottanta si cominciò a percepire una nuova evoluzione. Da un lato, come<br />

si è visto, le grandi società dovettero affrontare la transizione <strong>al</strong> post fordismo frantumando<br />

la propria struttura. V<strong>al</strong>ga il caso delle grandi fabbriche lombarde (con 1.000 e più addetti),<br />

le cui ristrutturazioni produssero cadute di occupati pari <strong>al</strong>l’80 per cento tra il 1971 e il<br />

2001 (dati censuari ISTAT). Si vennero in t<strong>al</strong> modo a determinare occasioni imprenditori<strong>al</strong>i<br />

per imprese di dimensioni «moderate» in grado di speci<strong>al</strong>izzarsi in beni intermedi nei vecchi<br />

poli del fordismo. Il sistema dei distretti industri<strong>al</strong>i si è confrontato d’<strong>al</strong>tra parte con la<br />

progressiva glob<strong>al</strong>izzazione dei mercati e, in t<strong>al</strong>e contesto, <strong>al</strong>cune imprese si sono espanse<br />

raggiungendo anch’esse una taglia moderata. È stato importante il progresso tecnico nell’industria<br />

delle macchine, le qu<strong>al</strong>i oggi garantiscono dosi crescenti di automazione sia nei<br />

reparti delle grandi imprese, sia negli stabilimenti delle aziende minori. Emerge così un<br />

modo «nuovo» di fare industria. Eliminata l’integrazione vertic<strong>al</strong>e <strong>al</strong>l’interno di un’unica<br />

azienda, prende forma un sistema di relazioni tra l’impresa e il suo territorio che le fornisce<br />

i fattori indispensabili: la capacità imprenditori<strong>al</strong>e, le relazioni di fornitura e un insieme di<br />

servizi che consentono ai manifattori di mantenere dimensioni e fabbisogni finanziari contenuti.<br />

Questo «quarto capit<strong>al</strong>ismo» si espande quindi da un lato per evoluzione natur<strong>al</strong>e<br />

dei distretti (dove si collocano i due terzi di tutte le medie aziende), d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro come conseguenza<br />

del declino e dell’aggiustamento delle grandi imprese classiche le qu<strong>al</strong>i lasciano<br />

sul campo preziose risorse inutilizzate. I contesti distrettu<strong>al</strong>i, costituiti in origine da imprese<br />

piccole e artigian<strong>al</strong>i, si connotano ora per una presenza determinante del quarto capit<strong>al</strong>ismo.<br />

Sulla base dei dati censuari, t<strong>al</strong>e componente si può v<strong>al</strong>utare nel 42,5 per cento degli<br />

occupati distrettu<strong>al</strong>i nel 2001 contro il 38,9 nel 1991 (Coltorti, 2009). Cambia anche la natura<br />

delle imprese: sempre meno ditte individu<strong>al</strong>i e sempre più società di capit<strong>al</strong>e. La quota<br />

delle imprese distrettu<strong>al</strong>i di dimensione media e medio-grande organizzata nella forma giuridica<br />

di società di capit<strong>al</strong>i è passata d<strong>al</strong> 23 per cento nel 1991 <strong>al</strong> 41 nel 2001.<br />

Sulla base dei dati 2006 si può stimare a titolo indicativo il peso attu<strong>al</strong>e delle imprese del<br />

quarto capit<strong>al</strong>ismo nel 29 per cento del v<strong>al</strong>ore aggiunto della manifattura it<strong>al</strong>iana; considerando<br />

l’indotto, che rappresenta un elemento determinante del loro funzionamento, la quota<br />

s<strong>al</strong>e tra il 40 e il 50 per cento (Tabella 6.12) 25 . Le performance presentano aspetti interessanti<br />

e, in larga misura, inattesi. Negli anni più recenti questa fascia d’imprese ha superato i gruppi<br />

maggiori nei tassi di sviluppo del fatturato (1,5 punti percentu<strong>al</strong>i annui nel periodo 1998-<br />

2007), delle esportazioni (1,1 punti) e del v<strong>al</strong>ore aggiunto (1,9 punti) e nella creazione di<br />

nuovi occupati (+10% contro una flessione di oltre il 22%). I margini di profitto operativo segnano<br />

un differenzi<strong>al</strong>e di 2,6 punti (<strong>al</strong> 2007), mentre la struttura finanziaria presenta una più<br />

elevata dotazione patrimoni<strong>al</strong>e (Tabella 6.13). Ancora, mentre nei gruppi maggiori una quota<br />

25. La stima è riferita <strong>al</strong> quarto capit<strong>al</strong>ismo secondo i criteri assunti d<strong>al</strong>l’Ufficio Studi di Mediobanca: a) attività manifatturiera; b) società<br />

di capit<strong>al</strong>i con assetto proprietario autonomo; c) <strong>al</strong>meno 50 dipendenti e non più di 3 miliardi di euro di fatturato. Questo insieme consiste<br />

in circa 5 mila società, di cui 4.500 medie e 500 medio-grandi.<br />

187<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

consistente degli attivi immobilizzati deve essere coperta da debiti per insufficienza del patrimonio,<br />

nel quarto capit<strong>al</strong>ismo vi è un pressoché tot<strong>al</strong>e autofinanziamento. Nella sola categoria<br />

delle medie imprese il patrimonio eccede gli attivi immobilizzati di oltre 7 punti ed<br />

è questo il segreto della loro solidità 26 .<br />

Tabella 6.12 - Ripartizione stimata del v<strong>al</strong>ore aggiunto della manifattura it<strong>al</strong>iana, 2006<br />

(Società di capit<strong>al</strong>e; quote %)<br />

Quarto capit<strong>al</strong>ismo 29,0<br />

Gruppi maggiori it<strong>al</strong>iani 8,0<br />

Fili<strong>al</strong>i di multinazion<strong>al</strong>i estere 14,0<br />

Piccole imprese 49,0<br />

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Mediobanca su dati Mediobanca e Unioncamere.<br />

Tabella 6.13 - Struttura finanziaria delle grandi e medie imprese manifatturiere<br />

it<strong>al</strong>iane, 2006<br />

Quarto capit<strong>al</strong>ismo Maggiori multinazion<strong>al</strong>i<br />

Medie imprese Imprese medio-grandi it<strong>al</strong>iane<br />

Attivo circolante 63,9 44,8 43,8<br />

Attivo immobilizzato tangibile 36,1 55,2 56,2<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0<br />

Debiti finanziari a breve scadenza 34,5 25,2 19,3<br />

Debiti finanziari a m/l scadenza 22,3 23,6 39,9<br />

Capit<strong>al</strong>e netto tangibile 43,2 51,2 40,8<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca, Mediobanca-Unioncamere e R&S.<br />

6.8 CONCLUSIONI<br />

La dinamica della grande impresa it<strong>al</strong>iana delineata in questo scritto mette in evidenza quattro<br />

grandi epoche. La prima coincide con l’avvio dell’industri<strong>al</strong>izzazione in It<strong>al</strong>ia e vede<br />

protagoniste imprese complesse, la cui conduzione richiedeva precise competenze tecniche.<br />

Fu l’epoca delle grandi infrastrutture elettriche, dello sviluppo della grande meccanica e<br />

della chimica. Un’economia povera come quella dell’It<strong>al</strong>ia post unitaria sino <strong>al</strong> primo quarto<br />

del Novecento non poteva avviare un processo di sviluppo senza «protezione»; questa fu<br />

accordata d<strong>al</strong>lo Stato e gestita d<strong>al</strong>le grandi banche miste. Due tratti distinguono quelle prime<br />

forme capit<strong>al</strong>istiche: il ruolo della Borsa nel finanziamento delle grandi imprese e la nascita<br />

delle concentrazioni finanziarie sotto l’ombrello delle banche. Si diffusero gli imprenditorifinanzieri,<br />

cioè coloro che riuscivano a combinare commesse pubbliche e capit<strong>al</strong>i bancari.<br />

26. Per maggiori considerazioni sulla struttura finanziaria e il modello d’impresa rinvio a Coltorti (2004) e Gagliardi (2006).<br />

188


Un esempio tipico è Riccardo Gu<strong>al</strong>ino, fondatore di molte imprese tra cui la princip<strong>al</strong>e fu<br />

la SNIA. Le intese e i cartelli, che negano per definizione la libertà d’impresa, costituiscono<br />

la materia di base di questo capit<strong>al</strong>ismo che si fonda sulle dimensioni giganti: «ho constatato<br />

<strong>al</strong>lora, e poi sempre nella mia esistenza, che sono assai più difficili le intese coi minori<br />

che non coi più potenti produttori, in quanto i piccoli si adattano a vivere anche meschinamente,<br />

pur di non perdere quella che essi reputano la loro indipendenza» (Gu<strong>al</strong>ino,<br />

1931). Le piccole imprese vengono dunque disprezzate in quanto margin<strong>al</strong>i e condotte da<br />

uomini inadeguati <strong>al</strong>la bisogna e cioè <strong>al</strong>le grandi innovazioni. Ma gli uomini «adatti» sono<br />

rari e quindi vanno aiutati: “una parte importante dello sviluppo consiste nell’adottare politiche<br />

che agevolino e incoraggino gli incipienti t<strong>al</strong>enti imprenditori<strong>al</strong>i presenti nella comunità”<br />

(Kamarck, 1986). Un concetto la cui sintesi stava nel motto «le azioni si pesano, non<br />

si contano». Dunque, un primo capit<strong>al</strong>ismo protetto, stabilizzato con le intese monopolistiche,<br />

finanziato dai debiti. Un capit<strong>al</strong>ismo tuttavia che generò un complesso di società di<br />

cui è difficile disconoscere i meriti. Esso fu terremotato d<strong>al</strong>la grande crisi del 1929 e s<strong>al</strong>vato<br />

d<strong>al</strong>lo Stato che attraverso l’IRI diventò il princip<strong>al</strong>e proprietario della grande impresa. A essa<br />

si deve la spinta <strong>al</strong> vero decollo dell’economia it<strong>al</strong>iana nell’ultimo dopoguerra. Il primo vero<br />

benessere giunse pertanto grazie <strong>al</strong>la presenza di un singolare mix di imprenditori-dirigentigrand<br />

commis: Alberto Beneduce, presidente dell’IRI, Donato Menichella, direttore gener<strong>al</strong>e<br />

dello stesso ente e poi governatore della Banca d’It<strong>al</strong>ia, Oscar Sinigaglia, padre<br />

dell’ambizioso programma siderurgico, Guglielmo Reiss Romoli, cui si dovette la ricostruzione<br />

delle telecomunicazioni nel dopoguerra, Enrico Mattei, fondatore dell’Ente degli idrocarburi.<br />

Non vanno poi dimenticati i grandi imprenditori privati, tra i qu<strong>al</strong>i spiccarono<br />

Vittorio V<strong>al</strong>letta, Adriano Olivetti, Alberto Pirelli; imprenditori che seppero conquistare <strong>al</strong> nostro<br />

paese una posizione sui mercati internazion<strong>al</strong>i e sulla tecnologia difficilmente sperabile<br />

d<strong>al</strong>le premesse dell’anteguerra. Questi primi due capit<strong>al</strong>ismi combinarono dunque poca libertà<br />

e crescente benessere. Molte le loro ombre e, soprattutto, grave l’incapacità di far<br />

evolvere questo modello d<strong>al</strong>l’inizi<strong>al</strong>e fase del decollo (in cui tutto è relativamente più semplice<br />

poiché il sistema si sviluppa imitando e gode dei suoi bassi costi) a una nuova epoca<br />

nella qu<strong>al</strong>e occorre misurarsi sul mercato attraverso contenuti più innovativi dei prodotti. Tra<br />

le cause pesano le lotte finanziarie per raggiungere posizioni di controllo su complessi che<br />

non si espandono. Il sistema viene sempre più a identificarsi in quella bestia fantastica che,<br />

nell’interpretazione di Mattioli, tiene la testa sempre reclinata verso il basso finendo per divorare<br />

i propri piedi.<br />

A questo punto sopperisce l’effetto deflagrante della libertà d’impresa: le grandi società lasciano<br />

inutilizzata la migliore risorsa, il lavoro dell’uomo. Emergono <strong>al</strong>lora nuovi protagonisti.<br />

Poiché mancano i capit<strong>al</strong>i, questo «circuito <strong>al</strong>ternativo» punta sull’industria leggera e<br />

sulle competenze sedimentate nei territori. Le bistrattate piccole imprese non sono più quelle<br />

cose relegate <strong>al</strong> margine dell’economia che vedeva Gu<strong>al</strong>ino. Il progresso tecnologico rende<br />

possibili nuovi sviluppi e nuove forme organizzative attraverso la divisione del lavoro mentre<br />

la glob<strong>al</strong>izzazione, lungi d<strong>al</strong> restringere la visu<strong>al</strong>e dei piccoli (come troppi studiosi credono),<br />

<strong>al</strong>larga a dismisura le opportunità per gli imprenditori che creano i propri «progetti<br />

di vita». Un nuovo capit<strong>al</strong>ismo con caratteristiche negative e positive. È bassa la capacità di<br />

189<br />

6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE


6. IL RUOLO DELL’INDUSTRIA: GRANDI E MEDIE IMPRESE<br />

produrre ricerca e tecnologia in quelli che vengono ritenuti a ondate ricorrenti i settori futuribili.<br />

D<strong>al</strong>l’elettronica dei c<strong>al</strong>colatori, <strong>al</strong>la new economy delle telecomunicazioni, <strong>al</strong>lo<br />

sfruttamento glob<strong>al</strong>e delle basi produttive nei paesi low cost. Il lavoro «non manu<strong>al</strong>e» serve<br />

sempre meno «dentro» l’impresa (che si snellisce in continuazione) e sempre più sui territori<br />

cui spetta attrezzare nel migliore dei modi un insieme di moderni servizi <strong>al</strong>le imprese<br />

(amministrazione, supporti <strong>al</strong>l’internazion<strong>al</strong>izzazione, ricerca). Nelle imprese, a dispetto<br />

delle prediche degli economisti mainstream, pochi «camici bianchi» e molte «tute blu», ma<br />

quest’ultime, contrariamente <strong>al</strong>le pretese di Henry Ford, «pensano». Il terzo e il quarto capit<strong>al</strong>ismo<br />

vivono dei contenuti innovativi dei loro prodotti che si confrontano sui mercati internazion<strong>al</strong>i<br />

dove si creano nicchie di qu<strong>al</strong>ità difficilmente attaccabili dai concorrenti. Essi<br />

coniugano libertà d’impresa e benessere dei territori nei qu<strong>al</strong>i le aziende sono radicate. Il<br />

discrimine tra nuovo e vecchio capit<strong>al</strong>ismo risiede proprio nelle innovazioni continue dei<br />

beni. I bassi costi di produzione hanno un ruolo importante, grazie <strong>al</strong>la diffusione delle fabbriche<br />

sul territorio e <strong>al</strong> più facile benessere raggiungibile <strong>al</strong> di fuori delle grandi metropoli.<br />

Concludendo, l’economia it<strong>al</strong>iana di oggi è articolata in una stratificazione di quattro capit<strong>al</strong>ismi<br />

storici: il primo delle grandi industrie, il secondo della proprietà stat<strong>al</strong>e, il terzo dei<br />

distretti, il quarto delle medie imprese che trasformano i distretti e gli <strong>al</strong>tri sistemi loc<strong>al</strong>i. I<br />

frutti di questo nuovo «brodo primordi<strong>al</strong>e» restano incerti. È rassicurante tornare <strong>al</strong> pensiero<br />

di Enrico Cuccia il qu<strong>al</strong>e riteneva che il «quarto capit<strong>al</strong>ismo» (come lo chiamiamo oggi)<br />

avrebbe assicurato “una crescita fondata <strong>al</strong>meno in parte sull’autofinanziamento e non soltanto<br />

sui debiti, capacità produttive più aderenti <strong>al</strong>le effettive dimensioni dei mercati, e, soprattutto,<br />

minori interferenze politiche nella vita economica del Paese” (Relazione <strong>al</strong><br />

bilancio Mediobanca, 1978).<br />

190


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO<br />

ECONOMICO ITALIANO<br />

Andrea Colli<br />

All’indomani del secondo conflitto mondi<strong>al</strong>e si apriva una stagione «nuova» per il Paese<br />

che usciva da un ventennio di dittatura, di politiche autarchiche susseguenti a una crisi economica<br />

glob<strong>al</strong>e di enorme portata, da rivolgimenti profondi in termini di politica economica<br />

e industri<strong>al</strong>e. Nessuno poteva con certezza prevedere quanto di lì a breve sarebbe<br />

accaduto grazie <strong>al</strong>la imponderabile <strong>al</strong>chimia di fattori economici e umani, ovvero la grande<br />

stagione di crescita, sviluppo e modernizzazione soci<strong>al</strong>e del miracolo economico, vero e<br />

proprio «snodo» da cui sarebbe emersa l’It<strong>al</strong>ia moderna.<br />

Di t<strong>al</strong>e «incertezza» – o se si vuole di apertura di un ventaglio ampio di possibilità di sviluppo<br />

future – ci resta viva documentazione negli atti dell’Assemblea Costituente, chiamata<br />

a modellare i fondamenti di un nuovo ordine soci<strong>al</strong>e, politico, istituzion<strong>al</strong>e dell’It<strong>al</strong>ia postbellica<br />

sulla base di una conoscenza il più possibile approfondita delle sue caratteristiche<br />

di fondo – non ultime quelle di matrice economico-produttiva.<br />

La Commissione economica <strong>al</strong>l’Assemblea Costituente fu, pertanto, un momento unico di<br />

elaborazione e an<strong>al</strong>isi, che mise a nudo le strutture più profonde dell’industria it<strong>al</strong>iana, così<br />

come si era andata plasmando nel corso del cinquantennio precedente, a partire da quando<br />

i primi «vagiti» industri<strong>al</strong>i si erano trasformati in una voce debole ma perfettamente distinguibile.<br />

La sezione più affascinante dei materi<strong>al</strong>i della Costituente è senza dubbio rappresentata<br />

d<strong>al</strong>le testimonianze che imprenditori, tecnici e manager furono invitati a dare.<br />

Si tratta di una g<strong>al</strong>leria dell’It<strong>al</strong>ia economica del dopoguerra. Chiamati a pronunciarsi sulla<br />

re<strong>al</strong>tà più specifica della propria impresa, del proprio settore, ma anche sulle condizioni<br />

più gener<strong>al</strong>i dell’industria it<strong>al</strong>iana e sulle sue future linee di sviluppo, i «testimoni» fornirono<br />

opinioni e pareri variegati, a volte contrastanti soprattutto relativamente <strong>al</strong>le tematiche di politica<br />

economica e industri<strong>al</strong>e. Unanime era, invece, il giudizio sui caratteri fondament<strong>al</strong>i<br />

dell’industria it<strong>al</strong>iana così come emergeva d<strong>al</strong>l’età liber<strong>al</strong>e e dagli anni della dittatura: un<br />

mondo in cui una vastissima parte dell’apparato produttivo era costituita da imprese minori,<br />

piccole, artigiane, in settori a elevato contenuto «artistico», cui si affiancavano <strong>al</strong>cune<br />

grandi imprese che i rivolgimenti del quindicennio precedente avevano – per fortuna secondo<br />

<strong>al</strong>cuni o purtroppo, secondo <strong>al</strong>tri – gettato nelle braccia dello Stato.<br />

Andrea Colli, Professore dell’Università Bocconi di Milano.<br />

191<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Se unanime era questa lettura, non <strong>al</strong>trettanto lo era il giudizio sulla adeguatezza di t<strong>al</strong>e<br />

struttura a sostenere le ambizioni di sviluppo dell’It<strong>al</strong>ia. Per <strong>al</strong>cuni la strada della grande industria<br />

andava abbandonata senza indugio; per <strong>al</strong>tri era l’unica possibilità di modernizzazione<br />

del Paese. Persino in un ambito come quello siderurgico si contrapponevano le<br />

posizioni di chi, come il Presidente della Finsider, Oscar Sinigaglia, ipotizzava una grande<br />

siderurgia moderna a ciclo integr<strong>al</strong>e e quelle suggerite d<strong>al</strong>la F<strong>al</strong>ck, la maggiore impresa siderurgica<br />

privata, che vedeva per l’It<strong>al</strong>ia la necessità di una siderurgia «leggera», fatta di<br />

produzioni <strong>al</strong> forno elettrico per l’agricoltura e l’edilizia, svolte in impianti di dimensioni relativamente<br />

più contenute e omogeneamente distribuiti sul territorio nazion<strong>al</strong>e.<br />

Piccola e grande impresa proseguivano, nelle aule della Costituente, l’ide<strong>al</strong>e confronto di<strong>al</strong>ettico<br />

che aveva caratterizzato i decenni precedenti, quando il Paese aveva tentato, con<br />

tutti i mezzi possibili, di «forzare» il suo percorso di modernizzazione. Una di<strong>al</strong>ettica fatta,<br />

spesso, di contrapposizione e non di complementarietà, come invece <strong>al</strong>cuni più acutamente<br />

(anche data la natura del proprio settore) intravedevano. “Tutti credono che la grande industria<br />

abbia interesse che la media e la piccola industria non vadano. Noi abbiamo interesse<br />

invece che vadano bene, perché se non vanno bene, occorre che noi ne facciamo una<br />

nostra”, affermava Vittorio V<strong>al</strong>letta, Amministratore delegato e Presidente della FIAT, proprio<br />

di fronte <strong>al</strong>la Commissione.<br />

Dato il carattere del suo specifico percorso di industri<strong>al</strong>izzazione, nel caso dell’It<strong>al</strong>ia – dove<br />

industria e agricoltura si contendono il primato in termini di volumi di addetti <strong>al</strong>meno sino<br />

<strong>al</strong>la metà del Ventesimo secolo – il confronto di<strong>al</strong>ettico tra imprese piccole in settori leggeri<br />

e grandi concentrazioni nei settori capit<strong>al</strong> intensive è ineludibile, che dà luogo, nel tempo,<br />

a risultati «oscillanti». A stagioni di estrema vit<strong>al</strong>ità della piccola impresa se ne susseguono<br />

<strong>al</strong>tre in cui le dinamiche di investimento e di mercato privilegiano in modo indiscusso le<br />

grandi dimensioni.<br />

In ogni caso, in una prospettiva di lungo periodo, è stato cruci<strong>al</strong>e ed è quanto viene qui illustrato<br />

l’apporto della piccola impresa <strong>al</strong>lo sviluppo economico, <strong>al</strong> benessere e <strong>al</strong>la libertà<br />

individu<strong>al</strong>e e di intrapresa in It<strong>al</strong>ia (mentre quello delle società medio grandi è esaminato<br />

nel capitolo Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese). Con tre puntu<strong>al</strong>izzazioni sull’ottica<br />

d<strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e si osserva il panorama delle aziende di dimensione minore.<br />

Innanzitutto bisogna precisare che il focus concerne princip<strong>al</strong>mente il comparto manifatturiero.<br />

L’ampio mondo dei servizi, che richiederebbe per la propria struttura e dinamica una<br />

trattazione a parte, è considerato solo tramite qu<strong>al</strong>che accenno.<br />

In secondo luogo, è bene definire la natura delle piccole imprese considerate. Soprattutto<br />

grazie agli studi degli economisti industri<strong>al</strong>i di scuola fiorentina, raccolti attorno <strong>al</strong>la figura<br />

di Giacomo Becattini, l’an<strong>al</strong>isi della piccola impresa in It<strong>al</strong>ia nel corso degli ultimi anni si<br />

è concentrata in particolare sui distretti industri<strong>al</strong>i, ovvero su quelle concentrazioni spazi<strong>al</strong>i<br />

e produttive caratterizzate da specifiche e peculiari dinamiche socio-economiche. Storica-<br />

192


mente tuttavia, anche imprese esterne a queste configurazioni hanno giocato un ruolo di rilievo<br />

nel percorso di sviluppo del Paese. Le piccole imprese protagoniste della storia economica<br />

it<strong>al</strong>iana sono tanto quelle attive <strong>al</strong>l’interno di distretti industri<strong>al</strong>i – delle cui estern<strong>al</strong>ità<br />

pienamente beneficiano – quanto quelle che si sono trovate a operare in sistemi e contesti<br />

geografici differenti.<br />

Infine, non si fa distinzione tra piccole imprese e artigianato, che pur essendo relativamente<br />

semplice ove si guardi <strong>al</strong> mero indicatore costituito d<strong>al</strong> numero degli addetti, risulta estremamente<br />

complessa se si considera il dato di fatto che nella re<strong>al</strong>tà uno stesso imprenditore,<br />

a seconda dell’andamento della congiuntura e del mercato, attraversa più volte e in entrambe<br />

le direzioni la soglia tra impresa piccola e artigiana. Perciò sotto il profilo storico vanno considerate<br />

come un unico insieme, caratterizzato da atteggiamenti e comportamenti omogenei.<br />

7.1 PICCOLE IMPRESE E SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Un angolo visivo un po’ particolare, ma molto efficace, per cogliere l’essenza della contrapposizione<br />

di<strong>al</strong>ettica tra modelli di grande e di piccola impresa nel corso dell’industri<strong>al</strong>izzazione<br />

it<strong>al</strong>iana è offerto dai dibattiti che su t<strong>al</strong>e tema si sono svolti – sino a tempi<br />

relativamente recenti – sia in ambito di storiografia economica sia di economia e politica industri<strong>al</strong>e.<br />

Per averne un’idea di seguito vengono proposte <strong>al</strong>cune «letture» del fenomeno, di<br />

matrice economico-industri<strong>al</strong>e, sociologica e storico-economica. Si tratta di interpretazioni<br />

accomunate – con qu<strong>al</strong>che flessibilità – d<strong>al</strong> fatto di essere state scritte in una fase, quella di<br />

fine anni Settanta e dei primi anni Ottanta, caratterizzata da un progressivo intensificarsi<br />

dell’interesse nei confronti dei fenomeni di industri<strong>al</strong>izzazione diffusa, «d<strong>al</strong> basso», considerati<br />

da un sempre maggior numero di commentatori un modello sostenibile di industri<strong>al</strong>izzazione<br />

virtuosa.<br />

Quanto ha sostenuto Franco Bonelli in apertura degli Ann<strong>al</strong>i della Storia d’It<strong>al</strong>ia Einaudi nel<br />

1978 è un ottimo punto di partenza. Scrivendo in una fase piuttosto complicata, per usare<br />

un eufemismo, della storia industri<strong>al</strong>e del Paese, Bonelli individua un’importante chiave di<br />

lettura nella coesistenza di due distinte «anime» che hanno contraddistinto il capit<strong>al</strong>ismo it<strong>al</strong>iano<br />

sin d<strong>al</strong>le origini. Da una parte le grandi aziende, appoggiate, protette e sostenute d<strong>al</strong>lo<br />

Stato – sino <strong>al</strong> gigantesco s<strong>al</strong>vataggio che <strong>al</strong>l‘inizio degli anni Trenta porta <strong>al</strong>la nascita dello<br />

«Stato imprenditore» con la costituzione dell’IRI. D<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra l’<strong>al</strong>a definita «manchesteriana»,<br />

ovvero rappresentativa di un’imprenditori<strong>al</strong>ità che cresce in autonomia, <strong>al</strong> di fuori della protezione,<br />

delle commesse e degli incentivi forniti d<strong>al</strong>lo Stato, in grado di sovrintendere <strong>al</strong>l’affermazione<br />

di <strong>al</strong>cuni settori e particolarmente con fortuna in comparti tradizion<strong>al</strong>i come<br />

il tessile-cotoniero, o l’<strong>al</strong>imentare. L’interpretazione proposta da Bonelli è imperniata sulla<br />

constatazione dell’ineluttabilità dell’intervento pubblico <strong>al</strong> fine di accelerare i processi di<br />

catching up e modernizzazione di un Paese ritardatario sulla via dell’industri<strong>al</strong>izzazione 1 ,<br />

1. Si tratta di una linea di interpretazione a suo tempo introdotta da Gerschenkron (1962).<br />

193<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

accompagnata però da una presenza vit<strong>al</strong>e di componenti imprenditori<strong>al</strong>i autonome, che<br />

si preoccupano di presidiare le componenti settori<strong>al</strong>i più labour intensive e tradizion<strong>al</strong>i. Ne<br />

risulta un mixage di successo, che permette nel giro di un ventennio <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia di raggiungere<br />

– unica fra le nazioni dell’Europa mediterranea – un livello ragguardevole di sviluppo e una<br />

posizione di rilievo in seno ai paesi economicamente più avanzati, nonostante una serie di<br />

«tare» originarie tra cui il mancato coinvolgimento, ab origine, del Mezzogiorno in t<strong>al</strong>e processo<br />

di crescita economica.<br />

Un <strong>al</strong>tro importante storico economico, Luciano Cafagna, si era espresso non troppo diversamente<br />

oltre un decennio prima, rintracciando proprio nella presenza e nel fermento di t<strong>al</strong>e<br />

componente manchesteriana autoctona (se pur a tratti fertilizzata d<strong>al</strong>l’esperienza straniera<br />

in particolare nel settore cotoniero) una vit<strong>al</strong>ità imprenditori<strong>al</strong>e t<strong>al</strong>e da rappresentare una<br />

delle origini struttur<strong>al</strong>i della cesura tra le regioni settentrion<strong>al</strong>i e quelle meridion<strong>al</strong>i della Penisola.<br />

Bonelli e Cafagna colgono e v<strong>al</strong>orizzano quindi la componente autonoma, attiva<br />

«d<strong>al</strong> basso» nei processi di sviluppo del Paese, ma non ne approfondiscono la fisionomia.<br />

Ciò invece, partendo da tutt’<strong>al</strong>tre premesse an<strong>al</strong>itiche, si sono incaricati di fare gli economisti<br />

industri<strong>al</strong>i, interessati a cogliere i tratti di novità che andavano manifestandosi <strong>al</strong>l’indomani<br />

del grande travaglio degli anni Settanta. Nello stesso anno in cui Bonelli scrive,<br />

Giacomo Becattini pubblica sulla Rivista di Economia e Politica Industri<strong>al</strong>e un saggio d<strong>al</strong> titolo<br />

“D<strong>al</strong> «settore» industri<strong>al</strong>e <strong>al</strong> «distretto» industri<strong>al</strong>e: <strong>al</strong>cune considerazioni sull’unità<br />

d’indagine dell’economia industri<strong>al</strong>e”, che può essere a buon diritto considerato il punto di<br />

avvio di una felice serie di lavori tesi a chiarire in maniera più precisa i contorni di una<br />

nuova entità economica, il «distretto industri<strong>al</strong>e». Si trattava, nell’intuizione di Becattini, di<br />

un modo nuovo di leggere il du<strong>al</strong>ismo struttur<strong>al</strong>e dell’industria it<strong>al</strong>iana. Le piccole imprese<br />

sono infatti, per la prima volta, percepite non come elementi «residu<strong>al</strong>i» e deboli, forme<br />

sub ottim<strong>al</strong>i o cascami di uno sviluppo industri<strong>al</strong>e imperfetto, ma elementi in grado di innestare<br />

circuiti virtuosi di sviluppo generando architetture complesse di rapporti economici<br />

e soci<strong>al</strong>i sul territorio.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, solo un anno prima, nel 1977, il sociologo torinese Arn<strong>al</strong>do Bagnasco si era<br />

esplicitamente foc<strong>al</strong>izzato sulla questione dei «territori» dell’industria in It<strong>al</strong>ia. Il pregio<br />

maggiore della sua an<strong>al</strong>isi è la proposta di un’<strong>al</strong>ternativa <strong>al</strong>la classica interpretazione che<br />

vede contrapposti un «triangolo» industri<strong>al</strong>mente sviluppato da una parte e un resto d’It<strong>al</strong>ia<br />

prev<strong>al</strong>entemente, anzi quasi tot<strong>al</strong>itariamente, agricolo, seppur contraddistinto da una varietà<br />

coltur<strong>al</strong>e e di contratti agrari che dava conto dei differenzi<strong>al</strong>i nei livelli di sviluppo<br />

region<strong>al</strong>e, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro. In una prospettiva sostanzi<strong>al</strong>mente attenta <strong>al</strong>le trasformazioni di matrice<br />

soci<strong>al</strong>e, Bagnasco si soffermava in particolare sulla trasformazione in senso industri<strong>al</strong>e di <strong>al</strong>cune<br />

regioni originariamente agricole, come quelle dell’It<strong>al</strong>ia Centr<strong>al</strong>e e soprattutto della Toscana<br />

e delle Marche, e del Nord Est, in primis il Veneto.<br />

Becattini e Bagnasco avevano intuito e descrivevano la concretizzazione nel presente della componente<br />

manchesteriana che andava profondamente incidendo sui destini (e sui livelli di sviluppo<br />

e benessere) non più tanto delle regioni del Nord Ovest, trasformatesi da tempo in terri-<br />

194


tori di grande industria, quanto soprattutto di <strong>al</strong>tri territori della penisola. Di lì a breve il nuovo<br />

modello si identificherà con l’acronimo NEC e includerà regioni del Nord Est e del Centro.<br />

In un piccolo opuscolo, per i più probabilmente sconosciuto quando non dimenticato in<br />

qu<strong>al</strong>che recesso delle librerie, è possibile rintracciare una vivida testimonianza dell’effetto<br />

di t<strong>al</strong>e effervescenza imprenditori<strong>al</strong>e su un tessuto economico e soci<strong>al</strong>e fino a quel momento<br />

percepito come sostanzi<strong>al</strong>mente statico. Nei Presupposti storici del recente sviluppo<br />

region<strong>al</strong>e, dedicato a rintracciare le basi struttur<strong>al</strong>i su cui la trasformazione in senso manifatturiero<br />

dell’economia marchigiana aveva preso corpo nel corso dei decenni precedenti,<br />

Sergio Anselmi scrive:<br />

“A chi ha ben conosciuto le Marche agricole e le ha viste trasformarsi dagli anni Cinquanta<br />

ad oggi, fa una certa impressione riflettere sulla velocità del passaggio da una situazione<br />

consolidata e statica, del tutto margin<strong>al</strong>e rispetto <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia che conta, <strong>al</strong>la dinamicità attu<strong>al</strong>e,<br />

così ricca di immaginazione creativa, di occasioni di lavoro e di impiego di risorse.<br />

Le Marche sono assai diverse da quelle che molti avrebbero voluto. Sono cambiate, <strong>al</strong>lineandosi<br />

velocemente sugli standard nazion<strong>al</strong>i. Esistono problemi, è vero, ma sono quelli<br />

delle società che crescono in fretta”.<br />

Non è difficile rintracciare nei toni di Anselmi una certa inflessione d’orgoglio per una società<br />

in trasformazione radic<strong>al</strong>e. Nello spazio di una generazione, i trent’anni intercorsi tra<br />

il censimento del 1951 e quello del 1981, avevano visto la quota di addetti del settore primario<br />

passare d<strong>al</strong> 60 <strong>al</strong> 15 per cento, mentre quella dell’industria e dei servizi crescevano<br />

d<strong>al</strong> 40 <strong>al</strong>l’85 per cento del tot<strong>al</strong>e. Questa metamorfosi si accompagnava a un processo di<br />

modernizzazione e di acquisizione di standard di vita e condizioni di benessere in precedenza<br />

mai conseguite.<br />

Si trattava per<strong>al</strong>tro di una metamorfosi non generata da una iniezione di risorse in termini di capit<strong>al</strong>e<br />

e conoscenza provenienti d<strong>al</strong>l’esterno, come andava avvenendo <strong>al</strong>trove, ma piuttosto di<br />

uno sviluppo basato su energie imprenditori<strong>al</strong>i endogene, secondo un processo che vedeva<br />

emergere «d<strong>al</strong> basso» nuovi protagonisti. Erano piccoli e medi imprenditori non di rado provenienti<br />

d<strong>al</strong>le fila della ex forza lavoro agricola. Sempre nel medesimo opuscolo il sociologo Ugo<br />

Ascoli definiva questo processo come una serie di «trasformazioni senza gravi rotture dell’equilibrio<br />

soci<strong>al</strong>e». Nello stesso anno questo concetto riecheggia anche nell’opera di Giorgio Fuà e<br />

Carlo Zacchia che, proprio a indicare la natura «soft» di un processo di crescita non traumatico,<br />

intitolavano un volume destinato ad avere ben <strong>al</strong>tra risonanza: «Industri<strong>al</strong>izzazione senza fratture».<br />

È forse opportuno riprendere direttamente le parole di Ascoli, tanto più significative ove<br />

si presti attenzione <strong>al</strong> fatto che a scriverle era un osservatore coinvolto in prima persona in ricerche<br />

«sul campo», fin<strong>al</strong>izzate a identificare con maggiore precisione i contorni del fenomeno:<br />

“Siamo in assenza di grandi concentrazioni metropolitane con i relativi problemi di <strong>al</strong>ienazione,<br />

margin<strong>al</strong>ità soci<strong>al</strong>e e delinquenza organizzata; gli stessi flussi migratori in dire-<br />

zione extra region<strong>al</strong>e d<strong>al</strong>la seconda metà degli anni Sessanta si sono quasi del tutto arrestati 7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

195


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

e si è invece assistito a una ridistribuzione «interna» della popolazione; la «piena occupazione»<br />

ha consentito una discreta crescita del reddito pro capite e quindi del benessere<br />

collettivo; l’elevato grado di accesso <strong>al</strong>la proprietà dell’abitazione e la notevole diffusione<br />

delle attività di autoconsumo avrebbero contribuito a rendere la condizione operaia media<br />

region<strong>al</strong>e assai migliore di quella che è possibile riscontrare a Milano o a Torino”.<br />

Benessere, libertà imprenditori<strong>al</strong>e, bassa conflittu<strong>al</strong>ità – aspetti pur non scevri da patologie<br />

qu<strong>al</strong>i lavoro irregolare, nero, minorile – configuravano, insomma, un modello di sviluppo<br />

virtuoso. Intorno a un’unità fondament<strong>al</strong>e, ovvero la piccola e media impresa, si coniugavano<br />

<strong>al</strong>lo stesso tempo intraprendenza, ricchezza, crescita e sviluppo. Il paradigma che si<br />

era sviluppato nelle Marche e, con lievissime modifiche, anche in <strong>al</strong>tre regioni, avrebbe suscitato<br />

in seguito anche critiche radic<strong>al</strong>i. Accusato di essere soci<strong>al</strong>mente dannoso e struttur<strong>al</strong>mente<br />

periferico in termini di accesso del Paese <strong>al</strong>la frontiera dello sviluppo tecnologico,<br />

questo modello era però in grado di «trascinare» spazi territori<strong>al</strong>i sino a quel momento stagnanti<br />

nell’<strong>al</strong>veo di un processo di sviluppo che presto <strong>al</strong>tre regioni, sia del Nord sia del Sud,<br />

avrebbero invidiato. L’emergere trionf<strong>al</strong>e della piccola impresa nelle regioni del Centro e del<br />

Nord Est è tuttavia da interpretarsi, storicamente, come una ulteriore manifestazione di quel<br />

fermento imprenditori<strong>al</strong>e manchesteriano che aveva caratterizzato le prime fasi dello sviluppo<br />

industri<strong>al</strong>e del Paese e che <strong>al</strong> pari di un «fiume carsico» – il fiume delle piccole imprese<br />

– a tratti riemerge a segnare i «tornanti» della storia economica del Paese.<br />

7.2 UNA PRESENZA DI LUNGO PERIODO<br />

Secondo le statistiche disponibili a livello europeo, l’It<strong>al</strong>ia è oggi il Paese che conta il maggior<br />

numero di imprese (circa 3,8 milioni, quasi il 20% del tot<strong>al</strong>e). Il numero dei loro addetti<br />

tot<strong>al</strong>i è di circa 15 milioni, l’11 per cento del tot<strong>al</strong>e, più della Francia ma meno della<br />

Germania e dell’Inghilterra. La media degli addetti per impresa è per l’It<strong>al</strong>ia, pertanto, di<br />

circa 3,9 contro una media europea di 6,4, che arriva a 12,1 nel caso tedesco, 10,9 in quello<br />

inglese, 6,3 in quello francese e 5,3 nello spagnolo. In un’ottica comparata, pertanto, l’It<strong>al</strong>ia<br />

presenta una dimensione media di impresa di gran lunga – in <strong>al</strong>cuni casi assai di gran<br />

lunga – più ridotta. I paragrafi precedenti hanno, sia pur impressionisticamente, suggerito<br />

che t<strong>al</strong>e «divergenza» sia da interpretarsi non tanto come un carattere recente, quanto «struttur<strong>al</strong>e»<br />

dell’apparato produttivo del Paese, presente, cioè, nel lungo periodo.<br />

Una serie di informazioni statistiche (Tabelle 7.1 e 7.2, distinte per criteri di rilevazione) v<strong>al</strong>gono<br />

la pena di essere commentate nel dettaglio prima di ritornare sulla discussione degli elementi<br />

struttur<strong>al</strong>i del modello di piccola impresa nella storia economica d’It<strong>al</strong>ia. Si tratta dei<br />

dati tratti d<strong>al</strong>le rilevazioni censuarie sulla distribuzione dimension<strong>al</strong>e dell’industria it<strong>al</strong>iana.<br />

Seguendo le stime di Vera Zamagni (1991), la quota di addetti nella classe compresa tra 1<br />

196


e 9 è pari a circa il 40 per cento del tot<strong>al</strong>e nel 1911, anno del primo censimento industri<strong>al</strong>e.<br />

L’assenza di rilevazione di questo tipo di imprese nel censimento di quell’anno fornisce tuttavia<br />

una distribuzione degli addetti difficilmente comparabile con quanto avvenuto negli<br />

anni seguenti. Pur tenendo conto dei limiti che derivano d<strong>al</strong>l’approssimazione delle rilevazioni<br />

in oggetto si possono avanzare <strong>al</strong>cune riflessioni.<br />

Tabella 7.1 - Il peso della «piccola» nel manifatturiero<br />

(Occupati; quote %)<br />

Addetti 1927 1937-9 1951<br />

1-9 37,8 36,4 32,1<br />

10-99 21,7 20,7 22,1<br />

1-99 59,5 57,1 54,2<br />

100-499 21,2 20,9 20,4<br />

> 500 19,2 22,3 25,4<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati B<strong>al</strong>cet (1997).<br />

Tabella 7.2 - C<strong>al</strong>a la dimensione industri<strong>al</strong>e<br />

(Addetti; quote %)<br />

Addetti 1951 1961 1971 1981 1991 2007<br />

1-9 32,3 28,0 20,2 22,8 26,2 27,5<br />

10-19 5,4 7,3 8,7 12,4 15,3 15,4<br />

20-49 8,7 11,6 13,1 13,7 16,3 17,2<br />

50 e oltre 53,6 53,1 58,0 51,1 42,2 39,9<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati da Brusco e Paba (1997) e ISTAT.<br />

In primo luogo, risulta significativo il trend secolare della micro-impresa. La classe dimension<strong>al</strong>e<br />

che include le imprese con un numero di addetti tra 1 e 9 (con i caveat definitori di<br />

cui sopra) declina progressivamente a partire d<strong>al</strong> 1911 in par<strong>al</strong>lelo <strong>al</strong>l’affermazione delle<br />

classi dimension<strong>al</strong>i maggiori (di oltre 500 addetti), che fino agli anni Settanta sottraggono lavoro<br />

<strong>al</strong> mondo dell’impresa minore. Se nel 1971 viene toccato il minimo livello di diffusione<br />

della micro-impresa in It<strong>al</strong>ia, con un assorbimento della manodopera complessiva intorno<br />

<strong>al</strong> 22 per cento, già nel corso degli anni Ottanta e Novanta questa tendenza verrà completamente<br />

invertita, in un trend ascendente che prosegue nel corso delle rilevazioni successive,<br />

fino a oggi.<br />

197<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

In t<strong>al</strong>e contrapposizione è tuttavia interessante anche notare l’andamento delle imprese a dimensione<br />

medio-piccola, che occupavano tra i 10 e i 99 addetti, che resiste nel tempo, addirittura<br />

rafforzando il suo peso negli anni del «trionfo» della grande impresa, e acquisendo<br />

progressivamente spazi sempre maggiori in termini di assorbimento occupazion<strong>al</strong>e 2 .<br />

Un dato importante che non va dimenticato nel commentare le cifre è che, nel caso it<strong>al</strong>iano,<br />

non sempre l’unità giuridica coincide con quella economica. Il «gruppo» non è infatti<br />

un qu<strong>al</strong>cosa che riguarda solo ed esclusivamente i modelli di grande impresa, ma che<br />

si estende anche <strong>al</strong>le imprese minori, che – soprattutto <strong>al</strong>l’interno di sistemi loc<strong>al</strong>i omogenei<br />

– danno vita a soggetti giuridici articolati in una serie di unità produttive a sé stanti.<br />

Le «due metà» dell’industria it<strong>al</strong>iana, quella costituita d<strong>al</strong>le piccole e medio-piccole imprese<br />

(fino a 99 addetti) e quella della medio-grande e grande impresa (con oltre 100 addetti)<br />

manifestano a ogni buon conto un trend largamente speculare 3 . Questo andamento è<br />

dettato in buona parte d<strong>al</strong>la progressiva, ma incompiuta, adesione dell’economia it<strong>al</strong>iana <strong>al</strong><br />

paradigma tecnologico caratterizzato d<strong>al</strong>l’affermazione dei modelli di large corporation per<br />

eccellenza, quello della seconda rivoluzione industri<strong>al</strong>e. La piccola e media impresa, dominante<br />

in termini di assorbimento occupazion<strong>al</strong>e sino <strong>al</strong> secondo dopoguerra, pare cedere<br />

terreno nei confronti delle grandi concentrazioni di capit<strong>al</strong>e e lavoro <strong>al</strong>meno sino agli<br />

anni Settanta. Da questo momento prenderà avvio una poderosa ripresa dell’impresa minore,<br />

che dura sino a oggi.<br />

Il cosiddetto «declino» della dimensione minore nasconde tuttavia dinamiche più complesse.<br />

Accanto <strong>al</strong>la conferma della «specularità» degli andamenti di grande e piccola impresa,<br />

c’è anche la tenuta significativa della dimensione intermedia.<br />

La variabilità maggiore riguarda infatti la classe dimension<strong>al</strong>e più piccola, quella oggettivamente<br />

più «debole» ed esposta <strong>al</strong>le fluttuazioni congiuntur<strong>al</strong>i. È inoltre interessante notare<br />

come anche negli anni in cui il declino dell’impresa minore sembra inarrestabile, in coincidenza<br />

<strong>al</strong>la stagione gloriosa del miracolo economico, i tassi di crescita maggiore si registrino<br />

non solo nei settori dominati d<strong>al</strong>le ampie concentrazioni industri<strong>al</strong>i (gomma e<br />

autoveicoli), ma anche nei comparti struttur<strong>al</strong>mente dominati d<strong>al</strong>la piccola e piccolissima<br />

dimensione, come il meccanico, il c<strong>al</strong>zaturiero e quello della produzione di mobili. Si tratta<br />

quindi, probabilmente, di un «declino» in termini più relativi che re<strong>al</strong>i, risultato dell’effetto<br />

combinato da un lato d<strong>al</strong>la grande impresa che «proporzion<strong>al</strong>mente» fagocita più addetti<br />

delle piccole e medie, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro d<strong>al</strong>la diffusa presenza di sacche di lavoro irregolare sempre<br />

più ampie che sfuggono <strong>al</strong>le rilevazioni censuarie.<br />

2. Si tratta di trend confermati e resi ancora più evidenti d<strong>al</strong> dettagliato studio di Bolchini (2002).<br />

3. Il problema delle definizioni in termini dimension<strong>al</strong>i è acuto per quanto riguarda gli storici, obbligati a confrontarsi con dati raccolti<br />

con criteri mutevoli nel tempo. Non è pertanto semplice identificare criteri omogenei nel corso di tutto il periodo considerato. Nella<br />

prassi, una definizione corretta può essere quella che considera micro imprese e piccole imprese fino a 49 addetti; medie da 50 a 499;<br />

grandi oltre 500. Tre classi cui corrispondono cesure organizzative rilevanti.<br />

198


Il processo di misurazione, per quanto sintetico, dell’apporto della piccola impresa <strong>al</strong>la crescita<br />

economica del Paese non può prescindere d<strong>al</strong> tentativo di «pesare» anche il ruolo dei<br />

distretti industri<strong>al</strong>i – di cui a breve si parlerà più nel dettaglio – che raggruppano le imprese<br />

minori in sistemi organizzati, strutturati e caratterizzati da una marcata speci<strong>al</strong>izzazione<br />

merceologica.<br />

Oggetto di seri tentativi di misurazione solo a partire dai primi anni Novanta, i distretti industri<strong>al</strong>i<br />

4 – un sottoinsieme della più ampia categoria statistica dei «sistemi loc<strong>al</strong>i del lavoro»,<br />

o SSL 5 – rappresentano nella sostanza una ulteriore chiave di lettura utile a<br />

interpretare il contributo della piccola e medio-piccola impresa <strong>al</strong> processo di crescita economica.<br />

Avv<strong>al</strong>endosi della – purtroppo forzatamente – rigida tassonomia ISTAT è stato pertanto<br />

possibile quantificare la fisionomia dei distretti it<strong>al</strong>iani addirittura a partire dai primi<br />

anni Settanta, fase in cui t<strong>al</strong>e nuova «unità d’an<strong>al</strong>isi» fa la sua comparsa sullo scenario della<br />

letteratura di matrice economico-industri<strong>al</strong>e. All’inizio degli anni Ottanta le rilevazioni disponibili<br />

contavano circa una sessantina di distretti e, in essi, 900 mila occupati. Nel 1991,<br />

a seguito di misurazioni più precise e <strong>al</strong>l’applicazione di <strong>al</strong>goritmi più dettagliati, ne erano<br />

censiti 199 con 2 milioni e 200 mila addetti (il 42,5% dell’occupazione manifatturiera complessiva).<br />

Elaborando i dati del censimento intermedio (1996) i ricercatori della Banca d’It<strong>al</strong>ia<br />

individuano una crescita ulteriore dei distretti in termini di peso sull’occupazione<br />

complessiva del settore manifatturiero, che raggiungerebbe quasi il 43 per cento del tot<strong>al</strong>e<br />

nazion<strong>al</strong>e. I dati ISTAT del censimento del 2001 evidenziano una contrazione nel numero<br />

dei distretti da 199 a 156. La loro distribuzione sul territorio nazion<strong>al</strong>e è relativamente uniforme,<br />

39 nel Nord Ovest, 42 nel Nord Est, 49 nel Centro e 26 nel Mezzogiorno – con un<br />

tot<strong>al</strong>e di addetti manifatturieri di quasi 2 milioni (per la loro ripartizione merceologica si<br />

veda la Tabella 7.3).<br />

Significativo è, anche, l’andamento trentenn<strong>al</strong>e della «demografia» distrettu<strong>al</strong>e, rintracciabile<br />

sempre nelle più recenti statistiche fornite d<strong>al</strong>l’ISTAT (Tabella 7.4).<br />

L’interpretazione dell’andamento «a campana» dell’occupazione e della demografia distrettu<strong>al</strong>e<br />

esula dagli scopi immediati di questo contributo. Ciò che qui interessa sottolineare,<br />

<strong>al</strong>l’interno del presente saggio, è l’incidenza dell’universo distrettu<strong>al</strong>e sul complesso<br />

di <strong>al</strong>cuni indicatori a livello nazion<strong>al</strong>e (Tabella 7.5).<br />

4. Definiti come «entità socio-territori<strong>al</strong>i in cui una comunità di persone e una popolazione di imprese industri<strong>al</strong>i si integrano reciprocamente»<br />

(si veda Becattini, 2000). Le imprese del distretto appartengono prev<strong>al</strong>entemente a uno stesso settore industri<strong>al</strong>e, che ne costituisce<br />

quindi l’industria princip<strong>al</strong>e. Ciascuna impresa è speci<strong>al</strong>izzata in prodotti, parti di prodotto o fasi del processo di produzione<br />

tipico del distretto. Le imprese del distretto si caratterizzano quindi per essere numerose e di modesta dimensione. Ciò non significa<br />

che non vi possano essere anche imprese abbastanza grandi; la loro crescita «fuori sc<strong>al</strong>a» può però causare una modifica della struttura<br />

canonica del distretto. Si veda ISTAT (2001). La definizione riprende quella classica fornita in numerosi scritti da Giacomo Becattini.<br />

5. Definiti d<strong>al</strong>l’ISTAT come «i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora». Si tratta di unità territori<strong>al</strong>i costituite<br />

da più comuni contigui fra loro, geograficamente e statisticamente comparabili. I sistemi loc<strong>al</strong>i del lavoro sono uno strumento di an<strong>al</strong>isi<br />

appropriato per indagare la struttura socio-economica dell’It<strong>al</strong>ia secondo una prospettiva territori<strong>al</strong>e. I confini dei sistemi loc<strong>al</strong>i del<br />

lavoro e dei distretti industri<strong>al</strong>i che da essi discendono, attraversano i limiti amministrativi delle province e delle regioni. Il limite amministrativo<br />

s<strong>al</strong>vaguardato d<strong>al</strong>la procedura di individuazione dei sistemi loc<strong>al</strong>i è quello del comune, in quanto esso rappresenta l’unità<br />

elementare per la rilevazione dei dati sugli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro. Ogni comune it<strong>al</strong>iano, pertanto, appartiene a<br />

un solo sistema loc<strong>al</strong>e del lavoro. Si veda ISTAT (2001).<br />

199<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Tabella 7.3 - La speci<strong>al</strong>izzazione dei distretti industri<strong>al</strong>i<br />

(Secondo il settore princip<strong>al</strong>e)<br />

Composizione percentu<strong>al</strong>e<br />

Industria princip<strong>al</strong>e Distretti Unità loc<strong>al</strong>i Addetti Distretti Unità loc<strong>al</strong>i Addetti<br />

industri<strong>al</strong>i manifatturiere manifatturieri industri<strong>al</strong>i manifatturiere manifatturieri<br />

Tessile e abbigliamento 45 63.954 537.435 28,8 30,1 27,9<br />

Meccanica 38 56.816 587,32 24,4 26,7 30,5<br />

Beni per la casa 32 42.287 382.332 20,5 19,9 19,8<br />

Pelli, cuoio e c<strong>al</strong>zature 20 23.441 186,68 12,8 11,0 9,7<br />

Alimentari 7 3.781 33.304 4,5 1,8 1,7<br />

Oreficeria e strumenti music<strong>al</strong>i 6 13.010 116.950 3,8 6,1 6,1<br />

Cartotecniche e poligrafiche 4 4.342 35.996 2,6 2,0 1,9<br />

Prodotti in gomma e in plastica 4 4.779 48.585 2,6 2,2 2,5<br />

Tot<strong>al</strong>e 156 212.410 1.928.602 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.<br />

Tabella 7.4 - La grandezza dei distretti<br />

(Addetti <strong>al</strong>le unità loc<strong>al</strong>i nei distretti industri<strong>al</strong>i)<br />

1971 1981 1991 2001<br />

Industria manifatturiera 5.101.563 5.828.409 5.212.273 4.895.858<br />

Tot<strong>al</strong>e industria 6.343.232 7.349.121 6.852.428 6.681.897<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.<br />

Una percentu<strong>al</strong>e oscillante tra un terzo e un quarto della popolazione, dei nuclei familiari,<br />

delle abitazioni, delle unità loc<strong>al</strong>i e degli addetti trova, oggi, collocazione in distretti industri<strong>al</strong>i<br />

caratterizzati da una presenza assolutamente preponderante di imprese piccole e piccolissime<br />

e da speci<strong>al</strong>izzazioni produttive foc<strong>al</strong>izzate sulla produzione di beni per la casa<br />

e per la persona.<br />

La concentrazione spazi<strong>al</strong>e di attività produttive in seno a un territorio speci<strong>al</strong>izzato conferisce<br />

tuttavia <strong>al</strong> fenomeno distrettu<strong>al</strong>e anche la natura di soggetto «storicamente determinato»,<br />

ovvero presente nel tempo lungo nel panorama manifatturiero del Paese. Sebbene la<br />

forma «moderna» di distretto non vada probabilmente sottoposta a eccessiva retrodatazione<br />

(si veda in seguito), in passato sono state prodotte una serie di an<strong>al</strong>isi volte a collocare l’apparato<br />

complessivo dei distretti industri<strong>al</strong>i in una prospettiva più di lungo periodo. In un<br />

saggio pubblicato nel 1997, avv<strong>al</strong>endosi di attendibili serie di dati omogenei prodotte d<strong>al</strong>-<br />

200


Tabella 7.5 - La radiografia dei distretti industri<strong>al</strong>i<br />

l’ISTAT, Sebastiano Brusco e Sergio Paba sottolineano come, a partire d<strong>al</strong> secondo dopoguerra,<br />

il numero dei sistemi loc<strong>al</strong>i speci<strong>al</strong>izzati di matrice distrettu<strong>al</strong>e aumenti costantemente<br />

(da 149 nel 1951 a 166 nel 1971, a 238 vent’anni dopo), con un tasso di sviluppo<br />

progressivamente più intenso a partire dagli anni Sessanta. Un trend di crescita, insomma,<br />

«monotòno» e omogeneo rispetto ai dati riportati più sopra, ma che nasconderebbe profonde<br />

ricollocazioni geografiche dell’economia distrettu<strong>al</strong>e. Aree distrettu<strong>al</strong>i, o comunque<br />

a forte connotazione di piccola impresa, presenti nel Mezzogiorno, sarebbero state soggette,<br />

proprio negli anni del miracolo economico, a un sostanzi<strong>al</strong>e ridimensionamento. Un<br />

ruolo importante in questo processo è stato giocato tanto d<strong>al</strong> forte spopolamento provocato<br />

d<strong>al</strong>la concorrenza sul mercato del lavoro delle imprese settentrion<strong>al</strong>i, quanto d<strong>al</strong>le politiche<br />

di industri<strong>al</strong>izzazione «esogena» perseguite d<strong>al</strong> governo, che hanno comportato un moltiplicarsi<br />

degli insediamenti di grandi imprese pubbliche, incapaci di creare indotto e nel<br />

contempo ben presto monopsoniste sul mercato del lavoro loc<strong>al</strong>e.<br />

È, probabilmente, impossibile – data la natura delle fonti censuarie disponibili – proporre<br />

una retrodatazione ulteriore delle rilevazioni distrettu<strong>al</strong>i rispetto <strong>al</strong>la fase che precede la seconda<br />

guerra mondi<strong>al</strong>e. Si possono tuttavia reperire informazioni sul permanere, nel lungo<br />

periodo, delle speci<strong>al</strong>izzazioni caratteristiche del «modello it<strong>al</strong>iano» di produzione di beni<br />

per la casa e per la persona, struttur<strong>al</strong>mente caratterizzato d<strong>al</strong>la presenza di imprese di piccole<br />

dimensioni. La relazione tra dimensione minore e settori tradizion<strong>al</strong>i è rimasta costantemente<br />

elevata nel tempo. La piccola e media impresa (assieme <strong>al</strong>l’artigianato) praticamente<br />

monopolizza sin d<strong>al</strong>le origini <strong>al</strong>cuni comparti (legno, cuoio, tessile-abbigliamento, c<strong>al</strong>zature,<br />

<strong>al</strong>imentare, ma anche <strong>al</strong>cune aree della meccanica e della produzione di beni strument<strong>al</strong>i)<br />

6 . Tessile-abbigliamento, c<strong>al</strong>zature, legno-mobili, <strong>al</strong>imentari, sono, secondo le prime<br />

201<br />

Tot<strong>al</strong>e distretti Tot<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>ia<br />

Numero di comuni 2.215 8.101<br />

Superfice (kmq) 62.114 301.328<br />

Popolazione residente 12.591.475 56.995.744<br />

Famiglie 4.187.413 21.810.676<br />

Abitazioni 5.655.293 27.291.993<br />

Unità loc<strong>al</strong>i 1.180.042 4.755.636<br />

Addetti unità loc<strong>al</strong>i 4.929.721 19.410.556<br />

Unità loc<strong>al</strong>i manifatturiere 212.410 590.773<br />

Addetti <strong>al</strong>le unità loc<strong>al</strong>i manifatturiere 1.928.602 4.906.315<br />

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.<br />

6. A t<strong>al</strong> proposito, si vedano le accurate indagini di Vera Zamagni (1978) da cui emerge l’assoluta preponderanza, nei settori della lavorazione<br />

del legno, delle pelli, dell’abbigliamento e della meccanica artigian<strong>al</strong>e della dimensione minore (in questo caso, della piccolissima,<br />

ovvero con meno di 10 addetti) e l’enorme ampiezza della lavorazione a domicilio, dato che, confrontando i dati forniti d<strong>al</strong><br />

censimento industri<strong>al</strong>e con quelli del censimento della popolazione, quelli di quest’ultimo risultano il triplo circa.<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

rilevazioni censuarie del periodo fascista, dominio assoluto della piccola e media impresa.<br />

La classe da 2 a 50 addetti comprende il 73,4 per cento degli addetti «tot<strong>al</strong>i» nel legno, il<br />

67,6 nell’<strong>al</strong>imentare, il 61,3 nell’abbigliamento, il 50,0 per cento nelle pelli, il 42,8 nella<br />

meccanica. Dieci anni dopo (ricomprendendo nel c<strong>al</strong>colo anche gli esercizi individu<strong>al</strong>i)<br />

t<strong>al</strong>i percentu<strong>al</strong>i già elevate s<strong>al</strong>gono ancora sino <strong>al</strong>l’84,3 per cento (legno), <strong>al</strong> 77,1 (<strong>al</strong>imentare),<br />

<strong>al</strong>l’87,3 (abbigliamento) e <strong>al</strong>l’81,3 per cento (pelli e cuoio). Alla vigilia dell’età repubblicana,<br />

i censimenti confermano in maniera chiara la prev<strong>al</strong>enza delle unità minori, con<br />

una pervasività crescente nel caso dei settori, appunto, tradizion<strong>al</strong>i (Tabella 7.6).<br />

Per quanto in relativo c<strong>al</strong>o (nel 1911 i settori tradizion<strong>al</strong>i 7 , dominati d<strong>al</strong>la piccola e media<br />

impresa, «pesavano» per il 30 per cento del tot<strong>al</strong>e degli investimenti industri<strong>al</strong>i) <strong>al</strong>la vigilia<br />

del secondo conflitto mondi<strong>al</strong>e i comparti di piccola impresa assorbivano circa un quinto<br />

degli investimenti tot<strong>al</strong>i.<br />

Tabella 7.6 - Come si ripartisce l’industria<br />

(Esercizi industri<strong>al</strong>i, escluso artigianato, per dimensioni; quote %)<br />

Industrie Piccoli (0-10 addetti) Medi (11-100 addetti) Grandi (oltre 100 addetti)<br />

Esercizi Addetti CV Esercizi Addetti CV Esercizi Addetti CV<br />

Estrattive 85,9 17,3 7,0 12,1 27,1 24,0 2,0 55,6 68,1<br />

Legno 70,0 20,8 30,5 28,4 54,9 46,0 1,6 24,3 23,5<br />

Alimentari<br />

Met<strong>al</strong>lur-<br />

97,3 58,0 56,5 2,5 19,5 23,6 6,2 22,5 19,9<br />

giche 35,2 1,1 6,8 34,4 9,65 4,2 30,4 89,3 95,0<br />

Meccanica<br />

Min.non<br />

0,3 - - 81,2 20,5 12,2 18,5 79,5 87,8<br />

met<strong>al</strong>liferi 55,6 8,2 6,9 38,6 45,6 29,5 5,8 46,2 63,6<br />

Edilizie 53,5 7,5 5,4 41,3 38,1 25,3 5,2 54,4 69,3<br />

Chimica 81,3 14,6 6,8 15,8 33,3 26,7 2,9 52,1 67,3<br />

Carta 58,3 7,9 1,7 36,3 41,9 20,2 5,4 50,2 78,1<br />

Poligraf. 77,6 23,3 18,7 21,0 45,3 43,0 1,4 31,4 38,3<br />

Cuoio 54,0 9,8 10,7 41,3 51,1 42,7 4,7 39,1 46,6<br />

Tessile 48,9 2,4 2,3 35,8 22,1 15,5 15,3 75,5 82,2<br />

Abbigliam. 55,3 10,3 2,9 40,4 47,5 22,3 4,3 42,2 74,8<br />

Fono-cin. 64,1 3,2 1,6 29,7 33,0 20,2 6,2 63,8 78,2<br />

Varie 65,3 3,3 2,4 26,3 21,4 10,8 8,4 75,3 86,8<br />

Elettriche 96,2 18,3 51,5 3,1 17,5 34,6 6,7 64,2 13,9<br />

Tot<strong>al</strong>e 84,4 13,7 13,8 28,3 28,3 19,0 2,4 58,0 13,9<br />

Fonte: elaborazioni su dati del Censimento industri<strong>al</strong>e 1937-1939.<br />

7. Abbigliamento, legno, cuoio, <strong>al</strong>imentari.<br />

202


Un indicatore relativamente rozzo ma disponibile per la fine degli anni Trenta, qu<strong>al</strong>e la quota<br />

di reddito nazion<strong>al</strong>e prodotta d<strong>al</strong> settore industri<strong>al</strong>e, mostra efficacemente il rilievo delle imprese<br />

piccole e medio-piccole (tra 2 e 100 addetti). Esse pesavano per oltre l’85 per cento sul<br />

tot<strong>al</strong>e di t<strong>al</strong>e grandezza, raggiungendo v<strong>al</strong>ori decisamente elevati nei settori cosiddetti leggeri<br />

e tradizion<strong>al</strong>i (con punte intorno <strong>al</strong> 100% nel legno, nelle pelli e affini, nelle poligrafiche, nell’abbigliamento,<br />

e così via) e non trascurabili neppure in aree capit<strong>al</strong> intensive, come quella<br />

siderurgica (64%), la meccanica (75%), la chimica (82%).<br />

Si tratta, insomma, di dati che, in una prospettiva di lungo periodo, confermano vari fatti importanti.<br />

Innanzitutto evidenziano la presenza di piccole imprese e di territori di industri<strong>al</strong>izzazione<br />

diffusa come carattere stabile del processo di sviluppo economico del Paese. In<br />

secondo luogo, sottolineano la capacità dell’universo della piccola impresa di concentrare<br />

una parte considerevole dell’occupazione nazion<strong>al</strong>e nel settore manifatturiero e di generare<br />

porzioni significative di reddito in maniera stabile nel tempo. Infine, provano il fatto che la<br />

pervasiva presenza dell’industria «minore» influenza, com’è lecito attendersi, in maniera<br />

netta e persistente la natura del vantaggio competitivo nazion<strong>al</strong>e, largamente imperniato sui<br />

settori cosiddetti tradizion<strong>al</strong>i e a offerta speci<strong>al</strong>izzata. Si tratta di una situazione che, come<br />

noto, si è andata progressivamente accentuando nel corso dell’ultimo cinquantennio a seguito<br />

del processo di smantellamento della grande impresa pubblica nei settori sc<strong>al</strong>e-intensive,<br />

ma che è anche l’esito di dinamiche struttur<strong>al</strong>i, di una continuità sostanzi<strong>al</strong>mente priva di fratture<br />

radic<strong>al</strong>i.<br />

7.3 DOVE SGORGA IL «FIUME CARSICO»<br />

La duratura e pervasiva presenza della piccola impresa in seno <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana non<br />

solo rende peculiare il percorso di speci<strong>al</strong>izzazione produttiva del Paese, ma contribuisce<br />

anche a modellare la sua fisionomia industri<strong>al</strong>e in maniera per molti versi divergente rispetto<br />

a quanto è avvenuto in <strong>al</strong>tre nazioni industri<strong>al</strong>izzate, incluse quelle appartenenti a<br />

un’area relativamente omogenea come l’Unione Europea.<br />

Attorno <strong>al</strong>l’inizio degli anni Sessanta circa il 57 per cento degli addetti nel settore manifatturiero<br />

it<strong>al</strong>iano lavorava in imprese con meno di 100 addetti e circa quarant’anni dopo, <strong>al</strong>l’inizio<br />

degli anni Duemila, ancora il 55 per cento degli occupati nel manifatturiero era<br />

attivo in aziende con meno di 50 addetti. Contro una media continent<strong>al</strong>e di circa il 35 per<br />

cento, la percentu<strong>al</strong>e it<strong>al</strong>iana era la più elevata d’Europa.<br />

Si tratta, insomma, di una divergenza demografica «struttur<strong>al</strong>e», che ha reso (e ancora rende)<br />

del tutto peculiare il modello di industri<strong>al</strong>izzazione it<strong>al</strong>iano, ma che <strong>al</strong>lo stesso tempo ha contribuito<br />

a mantenere un livello stabile di sviluppo e benessere nella maggior parte del Paese.<br />

203<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Indipendentemente d<strong>al</strong>le forme e d<strong>al</strong>le geografie che nel corso del tempo assume il «capit<strong>al</strong>ismo<br />

minore» in It<strong>al</strong>ia, è possibile individuare <strong>al</strong>cune determinanti di fondo utili nello spiegare<br />

il radicamento di un modello produttivo che è stato tanto profondo da segnare in maniera<br />

rilevate le forme stesse della modernizzazione industri<strong>al</strong>e. Schematicamente, è opportuno<br />

rifarsi a una serie di fattori, la cui azione è ravvisabile nel lungo-lunghissimo periodo.<br />

La preponderanza delle campagne<br />

Un primo punto rilevante nella spiegazione dello sgorgare copioso dell’imprenditori<strong>al</strong>ità minore<br />

è da individuarsi nel ruolo giocato non solo a livello economico, ma più in gener<strong>al</strong>e soci<strong>al</strong>e e cultur<strong>al</strong>e,<br />

del mondo contadino e delle campagne. Il codice genetico rur<strong>al</strong>e dell’It<strong>al</strong>ia, «statisticamente»<br />

contadina fino a quando nell’immediato dopoguerra per la prima volta gli addetti <strong>al</strong><br />

settore secondario e terziario sorpassano in peso percentu<strong>al</strong>e quelli impiegati in agricoltura, è<br />

stato in grado di conformare l’industri<strong>al</strong>izzazione. Ovviamente, parlare di mondo rur<strong>al</strong>e è, nel<br />

caso dell’It<strong>al</strong>ia, del tutto fuorviante. Data la varietà in termini di strutture proprietarie, contrattu<strong>al</strong>i<br />

e coltur<strong>al</strong>i che contraddistinguono storicamente l’agricoltura it<strong>al</strong>iana, meglio sarebbe parlare di<br />

«mondi rur<strong>al</strong>i». Tuttavia, nonostante significative differenze, non è difficile individuare <strong>al</strong>cuni caratteri<br />

di fondo che a livello gener<strong>al</strong>e legano campagne e piccole imprese.<br />

Anche solo a uno sguardo superfici<strong>al</strong>e appare infatti evidente come una parte addirittura preponderante<br />

dei territori di piccola impresa vadano a sovrapporsi agli ambiti rur<strong>al</strong>i, <strong>al</strong>le campagne<br />

d<strong>al</strong> Veneto <strong>al</strong>la Lombardia, d<strong>al</strong>la Toscana <strong>al</strong>le Marche, <strong>al</strong>l’Emilia. Si tratta di una geografia che deriva<br />

sovente d<strong>al</strong>l’azione di puri fattori di loc<strong>al</strong>izzazione qu<strong>al</strong>e la presenza di indispensabili input:<br />

il lavoro e le materie prime 8 .<br />

Le campagne, grazie a un pulviscolo di unità artigiane piccole e piccolissime che punteggia aree<br />

e distretti rur<strong>al</strong>i, oltre che a volte – come si vedrà a breve – radunate <strong>al</strong>l’interno delle «mura urbane»,<br />

forniscono paglie e legnami, pellami e prodotti da trasformare in oli, vini, conserve, formaggi<br />

e insaccati, risi e distillati. Pur essendo un fenomeno che non include la tot<strong>al</strong>ità del territorio<br />

nazion<strong>al</strong>e, molte delle campagne it<strong>al</strong>iane non sono insomma da intendersi come semplici territori<br />

della coltivazione o dell’<strong>al</strong>levamento. Sono mondi in cui intensa è l’attività imprenditori<strong>al</strong>e,<br />

che a tratti arriva a impiegare numeri non irrilevanti di persone. Attraversando le regioni della Penisola,<br />

scorrendo le cronache dei «viaggi in It<strong>al</strong>ia» 9 o semplicemente soffermandosi sugli elenchi<br />

disponibili di distretti e sistemi loc<strong>al</strong>i, non è difficile imbattersi in attività manifatturiere che manifestano<br />

uno stretto contatto con il mondo rur<strong>al</strong>e qu<strong>al</strong>e fornitore di semilavorati e materie prime.<br />

8. Scrivono D’Attorre e Zamagni (1992) a proposito dell’Emilia Romagna: “...La protoindustria è [qui] prev<strong>al</strong>entemente trasformazione di<br />

materie prime agricole e fornitura di mezzi di produzione e semilavorati per il settore primario. I bottoni di Piacenza, la seta di Reggio<br />

Emilia, la canapa di Cento, i s<strong>al</strong>umi di Modena, il tannino della montagna, rimandano costantemente <strong>al</strong>la campagna lavorata da secoli,<br />

a vocazioni e speci<strong>al</strong>izzazioni rur<strong>al</strong>i sedimentate in circuiti produttivi e commerci<strong>al</strong>i complessi...”. Una situazione gener<strong>al</strong>izzabile<br />

a numerose <strong>al</strong>tre re<strong>al</strong>tà region<strong>al</strong>i di piccola industria attive nella trasformazione di prodotti provenienti d<strong>al</strong>le campagne.<br />

9. Si veda ad esempio Moussanet e Paolazzi (1992).<br />

204


Le campagne forniscono inoltre un secondo indispensabile input <strong>al</strong>le imprese minori che si<br />

insediano nel vasto mondo rur<strong>al</strong>e: una forza lavoro flessibile, a basso costo e sovrabbondante.<br />

È una manodopera maschile e femminile (tanto adulta quanto minorile), frequentemente<br />

disponibile solo in coincidenza delle fasi di r<strong>al</strong>lentamento del ciclo agricolo ma <strong>al</strong>lo<br />

stesso tempo tutt’<strong>al</strong>tro che despeci<strong>al</strong>izzata. La forza lavoro delle campagne è infatti in grado<br />

di svolgere attività artigian<strong>al</strong>i anche sofisticate <strong>al</strong>l’interno di un sistema contraddistinto da<br />

un deciso decentramento produttivo che si impernia per quasi tutto il Diciannovesimo secolo<br />

sulla manifattura domestica, svolta nelle stesse case coloniche, nelle fattorie, nelle cascine.<br />

Si tratta di un fenomeno immutabile nelle sue dinamiche, anche se di volta in volta,<br />

nel tempo e nello spazio, è la merceologia prodotta a cambiare. Lucio Mastronardi, testimone<br />

di questa compenetrazione tra mondo contadino e imprenditori<strong>al</strong>e sin nelle strutture<br />

fisiche della vita quotidiana, ne fornisce nel suo celebre Meridion<strong>al</strong>e di Vigevano una esemplificazione<br />

letteraria assolutamente efficace:<br />

“Con la macchina entrammo in un portone. Dei contadini si affacciarono. Arn<strong>al</strong>do fermò<br />

la macchina in mezzo <strong>al</strong>la corte: una corte da cascina. Sull’aia delle vecchie battevano il<br />

grano. Delle ragazze guardavano stranite ora la macchina, ora noi. Erano mondine meridion<strong>al</strong>i.<br />

In fondo <strong>al</strong>la corte, dirimpetto agli stabili, c’era una specie di capannone. Entrammo.<br />

Era la fabbrica di Arn<strong>al</strong>do: piena di macchinari per scarpe. Sotto la sorveglianza<br />

di sua moglie, degli operai, a piedi sc<strong>al</strong>zi, vestiti da contadini, lavoravano. Il s<strong>al</strong>one era<br />

pieno del solito rumore di fabbrica; ma qui, forse perché le finestre davano su campagne e<br />

cascine e st<strong>al</strong>le, sembrava più assordante. Mentre Arn<strong>al</strong>do confabulava con la sua donna,<br />

giravo per il s<strong>al</strong>one. Un uomo, con le mani pesanti e c<strong>al</strong>lose, teneva un para vicino <strong>al</strong>la<br />

fresa: cercava di muoverlo con leggerezza. Un vecchio, con l’aria del patriarca, tagliava<br />

suole da una superficie di cuoio. Una contadina faceva smorfie trusando con un bastone<br />

in un mastello pieno di colla, che puzzava come un gas. – Prima fiva il pastòn per i besti;<br />

adesso fo il pastòn per le scarpe! – disse”.<br />

La manodopera a disposizione delle piccole imprese attive nel variegato mondo rur<strong>al</strong>e è<br />

paradoss<strong>al</strong>mente tanto più speci<strong>al</strong>izzata quanto più povere sono le campagne e quanto più<br />

è continuativa l’attività manifatturiera, fin quasi a sconfinare nell’artigianato esercitato come<br />

impiego prev<strong>al</strong>ente da un contadino sempre meno t<strong>al</strong>e e sempre più operaio. Casi significativi<br />

provengono proprio d<strong>al</strong>le aree in cui la terra è più avara, e quindi maggiormente incentivata<br />

la ricerca di fonti di reddito complementari o <strong>al</strong>ternative, cui corrisponde uno<br />

sviluppo di iniziative imprenditori<strong>al</strong>i autonome. Ecco perché, <strong>al</strong>l’interno dell’elenco fornito<br />

d<strong>al</strong>l’ISTAT per il 2001, ad esempio, non è difficile rintracciare ancora oggi una serie di distretti<br />

industri<strong>al</strong>i incuneati nelle v<strong>al</strong>li <strong>al</strong>pine e pre<strong>al</strong>pine, caratterizzati da una antica tradizione<br />

di matrice proto-industri<strong>al</strong>e e artigian<strong>al</strong>e: Biella (tessile) e Omegna (meccanica) in<br />

Piemonte; Lecco, Lumezzane e Premana (meccanica) in Lombardia.<br />

La storia industri<strong>al</strong>e di quest’ultimo distretto, che coincide geograficamente con il territorio<br />

di una quindicina di comuni raggruppati nell’<strong>al</strong>ta V<strong>al</strong> Varrone, una tributaria della V<strong>al</strong>sassina,<br />

ai confini tra V<strong>al</strong>tellina, lecchese e bergamasca, proprio dove un tempo si incrociavano i do-<br />

205<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

mini dei Grigioni, dello Stato di Milano e della Repubblica di San Marco, descrive efficacemente<br />

le dinamiche evolutive sopra esposte. Le v<strong>al</strong>li <strong>al</strong>pine, e non solo quelle premanesi,<br />

sono serbatoi d’uomini, è vero: uomini che a breve o a corto raggio, per lunghi anni o qu<strong>al</strong>che<br />

mese, lasciano le proprie case e vanno «per il mondo». Esercitano mestieri e professioni,<br />

che una volta ritornati continuano a praticare dando origine a forme artigian<strong>al</strong>i e imprenditori<strong>al</strong>i<br />

destinate a durare nel tempo.<br />

La terra avara costringe a emigrare; il lungo letargo invern<strong>al</strong>e lascia molto tempo e molto spazio<br />

<strong>al</strong>la manifattura praticata a domicilio e poi, quasi natur<strong>al</strong>e prosecuzione, in piccole botteghe e opifici.<br />

Premana è una sintesi, forse un po’ estrema, di t<strong>al</strong>i caratteristiche. Emigranti per povertà, soprattutto<br />

a Venezia, impiegati nei lavori dell’Arsen<strong>al</strong>e o artigiani, lavoratori del ferro e fabbri, gli<br />

abitanti di questa terra acquisiscono competenze tramandate per generazioni, che trovano sbocco<br />

<strong>al</strong>l’inizio del Novecento in un florido artigianato che si rafforza lungo i princip<strong>al</strong>i tornanti della<br />

storia economica nazion<strong>al</strong>e. Durante la prima guerra mondi<strong>al</strong>e, ad esempio, quando ai premanesi<br />

vengono commissionati attrezzi da taglio in grandi quantità, o ancora nel miracolo economico,<br />

che vede incrementare la produzione di coltelli e soprattutto forbici. Costante è la<br />

dimensione artigian<strong>al</strong>e, il contoterzismo, la piccola impresa di nicchia con forte vocazione <strong>al</strong>l’esportazione.<br />

Il caso di Premana, che identifica molto bene il rapporto tra agricoltura povera, disponibilità di<br />

forza lavoro speci<strong>al</strong>izzata e industri<strong>al</strong>izzazione diffusa tanto artigian<strong>al</strong>e quanto di matrice distrettu<strong>al</strong>e,<br />

è un estremo. Bisogna tuttavia tenere presente che in <strong>al</strong>tre aree, apparentemente caratterizzate<br />

da condizioni geografiche meno «arcigne», si configurano dinamiche non molto<br />

differenti. È questo ad esempio il caso di molti dei distretti legati <strong>al</strong>la lavorazione del legno e <strong>al</strong>la<br />

produzione di mobili. L’attività produttiva in Brianza, un’area a forte vocazione agricola in cui a<br />

partire d<strong>al</strong>la seconda metà del Diciannovesimo secolo si radica la produzione di mobili di varia<br />

foggia e qu<strong>al</strong>ità, nel tempo si struttura come un sistema complesso, composto di artigiani, mercanti<br />

e intermediari, caratterizzato tra l’<strong>al</strong>tro da un elevato tasso di «imprenditori<strong>al</strong>ità endogena»,<br />

proveniente cioè d<strong>al</strong>le fila del lavoro dipendente:<br />

“Il processo di formazione di ogni laboratorio domestico in Brianza è questo: un apprendista, appena<br />

si è speci<strong>al</strong>izzato nel mestiere, ed è diventato «capace» tecnicamente e finanziariamente,<br />

si stacca d<strong>al</strong>la famiglia o d<strong>al</strong> padrone e impianta bottega per proprio conto, assume a sua volta<br />

degli apprendisti e dei garzoni con i qu<strong>al</strong>i stringe contratti annu<strong>al</strong>i, e si fa aiutare d<strong>al</strong>la moglie e,<br />

più tardi, dai figliuoli ma, lungi d<strong>al</strong> conservarsi un produttore indipendente, cade sotto il negoziante<br />

<strong>al</strong>l’ingrosso o sotto l’incettatore di Milano per l’acquisto della materia prima e per la vendita<br />

del mobile compiuto o quasi” 10 .<br />

Un sistema, per<strong>al</strong>tro, in grado di riprodursi efficacemente. Sempre ricorrendo ai dati del censimento<br />

del 2001, Seregno, nel cuore della Brianza, contava oltre 40 mila imprese con 158 mila<br />

dipendenti.<br />

10. Si veda Società Umanitaria (1904).<br />

206


Un ulteriore, ma tutt’<strong>al</strong>tro che secondario, luogo di interazione tra le campagne e le piccole<br />

imprese è rappresentato d<strong>al</strong>la domanda e offerta di beni strument<strong>al</strong>i. A ben guardare, il<br />

mondo delle campagne è un grande mercato in cui le piccole imprese, soprattutto quelle più<br />

speci<strong>al</strong>izzate, trovano sbocco per i propri prodotti. È questo il caso ad esempio di molte<br />

aree attive nella produzione di macchine per l’agricoltura, poi non di rado evolutesi in competitor<br />

mondi<strong>al</strong>i nel campo delle macchine utensili. Non è possibile dare conto del denso<br />

tessuto imprenditori<strong>al</strong>e nell’ambito della meccanica che percorre Veneto, Emilia e Marche<br />

senza fare riferimento <strong>al</strong>le iniziative aziend<strong>al</strong>i sparse e capillari, strettamente legate <strong>al</strong> mondo<br />

agricolo, che in <strong>al</strong>cuni casi in queste regioni si sono evolute in re<strong>al</strong>tà medio-grandi in grado<br />

di competere efficacemente sui mercati internazion<strong>al</strong>i.<br />

La campagna, infine, rappresenta un ambiente «protettivo» per il mondo dell’impresa minore.<br />

Il piccolo imprenditore attivo nelle aree rur<strong>al</strong>i ha in molti casi a disposizione «vie di<br />

fuga» precluse a chi opera in ambito urbano, potendo rientrare nei circuiti lavorativi autonomi<br />

o meno del mondo contadino. Nei nuclei lanieri biellesi tra Otto e Novecento non è<br />

possibile scindere l’attività dei lanaioli d<strong>al</strong>la proprietà di pezzi di terra che permettono loro<br />

di ottenere credito e denaro contante. La terra, ancora oggi, costituisce un background necessario<br />

per molti dei sistemi basati sul decentramento produttivo, dove i laboratori di subfornitura<br />

rinnovano l’antico intreccio tra manifattura e agricoltura.<br />

Le cento città: artigiani e botteghe<br />

Il mondo delle campagne, per quanto preponderante, non è il solo ambito in cui il tessuto<br />

dell’imprenditori<strong>al</strong>ità minore si inspessisce. A uno sguardo anche superfici<strong>al</strong>e <strong>al</strong>le mappe di<br />

sistemi loc<strong>al</strong>i e soprattutto ai distretti non può sfuggire che non solo <strong>al</strong>le campagne può essere<br />

ascritta la «responsabilità» di fornire variamente un sostegno ai processi di industri<strong>al</strong>izzazione<br />

diffusa: <strong>al</strong>trettanto rilievo possiedono i reticoli urbani. L’unicità della situazione<br />

it<strong>al</strong>iana non è, anzi, da ascriversi solo e prev<strong>al</strong>entemente <strong>al</strong> preponderante ruolo e <strong>al</strong>la penetrazione<br />

del mondo delle campagne in ogni interstizio della vita economica e civile,<br />

quanto <strong>al</strong>la presenza capillare di re<strong>al</strong>tà urbane di dimensioni intermedie che caratterizza <strong>al</strong>cune<br />

regioni in particolare, proprio quelle che si ritrovano ad essere caratterizzate da una<br />

presenza più intensa di sistemi loc<strong>al</strong>i di piccola impresa e di distretti industri<strong>al</strong>i.<br />

I «reticoli» rilevanti non sono quelli che includono le città di maggiore dimensione, frequentemente<br />

territorio di insediamento di imprese «grandi», ma quelli che si stabiliscono tra<br />

borghi e paesi, anch’essi immersi nel mare delle campagne o ai crocevia delle princip<strong>al</strong>i direttrici<br />

commerci<strong>al</strong>i. Trovano infatti sviluppo <strong>al</strong>l’interno di centinaia di agglomerati urbani<br />

di medie dimensioni quelle che sono state definite con felice espressione industrie «paesane»,<br />

o anche «protoindustrie urbane», a sottolinearne il carattere ibrido, ove un misto di<br />

artigianato, lavorazione a domicilio, manifattura dispersa e accentrata in <strong>al</strong>cune fasi dà origine<br />

a centri manifatturieri speci<strong>al</strong>izzati che assorbono il lavoro di intere comunità, senza<br />

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7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

per nulla dipendere dai mutevoli ritmi del ciclo agrario. Gli esempi abbondano e sono rintracciabili<br />

lungo tutto il percorso secolare dell’economia it<strong>al</strong>iana. Nei borghi marchigiani si<br />

concentrano, ben differenziati dai mezzadri, gli artigiani «scarpari». Lo stesso accade nel lecchese,uno<br />

dei distretti pre<strong>al</strong>pini precedentemente menzionati, oggi accreditato di una ventina<br />

di migliaia di imprese per complessivi 100 mila addetti, in cui l’attività manifatturiera<br />

si distacca nettamente d<strong>al</strong> mondo agricolo circostante, quasi un’«isola» i cui connotati corporativi<br />

proseguono intatti sino a tempi recenti. Al capo opposto della Penisola non sembra<br />

molto differente il caso di Putignano, in provincia di Bari, che sin d<strong>al</strong>l’inizio del Novecento<br />

mostra una spiccata vocazione di matrice artigian<strong>al</strong>e nelle produzioni tessili ric<strong>al</strong>cando un<br />

modello in cui l’attività manifatturiera determina la fisionomia della comunità loc<strong>al</strong>e, del<br />

tutto autonoma d<strong>al</strong> settore agricolo dominante. Ciò accade un po’ per tutte le regioni in cui<br />

la frammentazione amministrativa di matrice mediev<strong>al</strong>e continua a far sentire evidentemente<br />

il proprio peso.<br />

La vocazione sostanzi<strong>al</strong>mente «terziaria» che oggi mostrano le città più grandi può spingere<br />

a dimenticare il ruolo giocato d<strong>al</strong> pulviscolo di imprese piccole e piccolissime addensate <strong>al</strong>l’interno<br />

proprio degli spazi urbani, anche di quelli maggiori, in cui a partire dagli anni successivi<br />

<strong>al</strong>la prima guerra mondi<strong>al</strong>e la presenza dell’industri<strong>al</strong>izzazione «diffusa» in<br />

fabbriche, botteghe, rimesse e sottosc<strong>al</strong>a verrà oscurata d<strong>al</strong>la marea montante delle grandi<br />

concentrazioni poste nelle periferie. Eppure – ma si tratta di un tema trascurato sia d<strong>al</strong>la<br />

storiografia sia d<strong>al</strong>le ricerche di economia applicata, anche le più recenti – gli spazi urbani<br />

conservano per larga parte del Novecento una multifunzion<strong>al</strong>ità unica, in cui le piccole imprese<br />

interstizi<strong>al</strong>i o speci<strong>al</strong>izzate proliferano. Alle città affluiscono semilavorati da trasformare<br />

e rivendere <strong>al</strong>l’esterno, <strong>al</strong> pari di gigantesche clessidre <strong>al</strong>l’interno delle qu<strong>al</strong>i<br />

confluiscono molti dei prodotti delle piccole imprese rur<strong>al</strong>i, soggetti lì a ulteriori trasformazioni.<br />

È il caso di larga parte della produzione mobiliera brianzola, ma anche delle sete comasche,<br />

che accentrano a Milano depositi e attività commerci<strong>al</strong>i.<br />

“Per gli oggetti d’arredo – scrivono Giancarlo Consonni e Graziella Tonon – il capoluogo<br />

era ormai il fulcro di una clessidra: un punto dove si convogliavano d<strong>al</strong>l’hinterland i semilavorati<br />

che, in larga parte finiti dagli artigiani urbani (ebanisti, tappezzieri ecc.), erano poi<br />

collocati sul mercato fin<strong>al</strong>e” 11 .<br />

Si tratta di una vocazione per nulla cancellata d<strong>al</strong>l’avvento dell’industria pesante. Anche negli<br />

anni del miracolo economico una città come Milano in molte delle sue parti resta contraddistinta<br />

d<strong>al</strong>la presenza di quelle «piccole industrie urbane» <strong>al</strong> confine con l’artigianato, ma<br />

dotate sovente di capacità manifatturiere e commerci<strong>al</strong>i proprie: produttori di ombrelli,<br />

guanti, cappelli; costruttori di biciclette e impiantistica, imprese meccaniche e lavoratori di<br />

met<strong>al</strong>li speci<strong>al</strong>izzati. Milano, uno dei vertici indiscussi del triangolo industri<strong>al</strong>e, luogo per antonomasia<br />

della grande impresa, poggiava infatti la propria vocazione industri<strong>al</strong>e su una storia<br />

plurisecolare di speci<strong>al</strong>izzazione manifatturiera, con una serie di attività nel variegato e<br />

11. Si veda Consonni e Tonon (2001).<br />

208


multiforme settore della meccanica artigian<strong>al</strong>e, del tessile, della lavorazione delle pelli, della<br />

produzione di beni d’arredamento, di mezzi di trasporto, e via dicendo. Non si tratta però di<br />

una situazione transitoria. Intorno agli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo un osservatore<br />

«industri<strong>al</strong>mente» attento come Giuseppe Colombo poteva annotare, accostando a<br />

quello di Parigi il caso – in sc<strong>al</strong>a minore – del capoluogo lombardo:<br />

“…in gener<strong>al</strong>e, anche la grande industria assume nei grossi centri una fisionomia particolare,<br />

si sminuzza, per così dire, in molte piccole speci<strong>al</strong>ità, destinate a soddisfare direttamente<br />

le esigenze del consumo. Così a Parigi... si trovano in numero straordinario le piccole<br />

officine montate per fare certi speci<strong>al</strong>i oggetti, che le grandi fabbriche non potrebbero produrre<br />

con bastante convenienza, né abbastanza bene... Visitate i quartieri operai di Parigi;<br />

e voi troverete raccolte in un solo casamento, dove non vi starebbe certo, o vi starebbe a<br />

disagio, un grande opificio, dieci, venti fabbriche minuscole, che pure hanno una clientela<br />

sicura ed estesa”.<br />

Una cinquantina d’anni dopo, nel 1927, in pieno avvio dell’«industri<strong>al</strong>izzazione pesante»<br />

del capoluogo, la Guida dei Piccoli Industri<strong>al</strong>i di Milano censiva nella città complessivamente<br />

quasi 9.500 piccole imprese con una media di 4 addetti ciascuna (compresi proprietari<br />

e familiari), anche se nella massa finivano per confondersi i lavori femminili s<strong>al</strong>tuari,<br />

i microesercizi di panificazione, le pasticcerie, le carrozzerie e le piccole imprese meccaniche,<br />

le botteghe di f<strong>al</strong>egnameria, i mobilifici e molte <strong>al</strong>tre re<strong>al</strong>tà nei settori che oggi si definirebbero<br />

«leggeri». Eppure si tratta solo in apparenza di re<strong>al</strong>tà elementari. Scorrendo le<br />

schede di rilevazione, non sono pochi gli esempi, come il seguente caso, di una piccola fabbrica<br />

di ombrelli in via Savona, nei pressi della cerchia dei Navigli:<br />

“Adopera come materie prime il legno, corno di buf<strong>al</strong>o ed in genere le acquista in It<strong>al</strong>ia,<br />

Francia, Inghilterra, Germania, Ungheria, Giappone, Madagascar. Occupa 18 a 20 operai<br />

in tutto, fra i medesimi 6 a 7 garzoni, il minimo del lavoro cade da luglio a settembre, come<br />

mano d’opera asserisce che sia difficile trovarne, il proprietario ha mansioni direttive, ed<br />

uniti <strong>al</strong>l’azienda ha tre famigliari; 2 maschi con mansioni manu<strong>al</strong>i 1 femmina con mansioni<br />

amministrative, tutti sono adulti. Ha 7 macchine così divise: 4 torni, 2 trafile, 1 sega<br />

a nastro, 2 pulitrici. Vende a grossisti che a loro volta vendono a rivenditori, mentre le impugnature<br />

per ombrelle vengono vendute ai fabbricanti di ombrelle che a loro volta le applicano<br />

per completare l’ombrello stesso. Vende sempre il prodotto in It<strong>al</strong>ia, anche il<br />

materi<strong>al</strong>e che va <strong>al</strong>l’estero, facendo in It<strong>al</strong>ia le consegne ad esportatori. Non ha agenti, né<br />

piazzisti. L’industria tende a prosperare causa che hanno cominciato ad esportare <strong>al</strong>l’estero.<br />

Alle banche non ha mai chiesto credito, ha però conto corrente, per la merce che va <strong>al</strong>l’estero<br />

vende sempre per contanti, mentre per la vendita in It<strong>al</strong>ia e per le compere fanno<br />

a scadenza di 30 giorni” 12 .<br />

12. Riportato in Stefano Magnani, L’intervento a sostegno della piccola impresa: l’Ente Nazion<strong>al</strong>e per le Piccole Industrie d<strong>al</strong> 1925 <strong>al</strong><br />

1940, Tesi di Laurea, Università Bocconi, a.a. 1995-96, All. VIII.<br />

209<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Come a Milano, anche se con forme differenti, le piccole imprese si agglomerano in corrispondenza<br />

di <strong>al</strong>tri grandi centri, qu<strong>al</strong>i Torino, apparentemente ancora più incentrati sulla<br />

concentrazione produttiva. Certamente le forme dell’imprenditori<strong>al</strong>ità minore cambiano,<br />

cambiano i livelli di autonomia e i gradi di libertà di cui le imprese piccole fruiscono in<br />

rapporto <strong>al</strong>la grande, che le incatena a sé in reti spesso molto rigide di subfornitura <strong>al</strong> limite<br />

dello sfruttamento. Tuttavia, anche se con <strong>al</strong>tre forme, la via dell’imprenditori<strong>al</strong>ità minore<br />

passa attraverso la grande impresa urbana, che non di rado costituisce uno stimolo e una<br />

spinta <strong>al</strong>lo sviluppo di imprese piccole e flessibili. D’<strong>al</strong>tra parte, non va dimenticato il ruolo<br />

di ammortizzatore, soprattutto nelle fasi di difficoltà attraversate proprio d<strong>al</strong>le unità maggiori:<br />

dopo il primo e il secondo conflitto mondi<strong>al</strong>e ad esempio, quando le piccole imprese costituiscono<br />

una vera e propria v<strong>al</strong>vola di sfogo di fronte <strong>al</strong> downsizing delle maggiori, o durante<br />

le spinte <strong>al</strong> decentramento, tipiche degli anni Settanta.<br />

Le tradizioni mercantili<br />

A vivificare questo tessuto e a incan<strong>al</strong>are nel corso del lungo Novecento le energie imprenditori<strong>al</strong>i<br />

di questo ampio mondo industri<strong>al</strong>e intervengono soggetti – individui e imprese<br />

– che è bene, anche se pur in breve, trattare separatamente. Parte integrante della tradizione<br />

manifatturiera della Penisola è la figura di chi si incarica di collegare le potenzi<strong>al</strong>ità del<br />

vasto pulviscolo più o meno organizzato dell’impresa piccola con il mercato, inteso nella<br />

sua dimensione region<strong>al</strong>e, nazion<strong>al</strong>e, ma anche internazion<strong>al</strong>e. Non si può dar conto del<br />

contributo in termini di ricchezza e benessere generato nel corso del Novecento d<strong>al</strong>la piccola<br />

impresa it<strong>al</strong>iana senza soffermarsi sul ruolo di quanti – qu<strong>al</strong>unque sia il nome a loro<br />

assegnato nella pratica quotidiana (industri<strong>al</strong>i, fabbricanti, imprenditori, impannatori o converter)<br />

– fungono da trait d’union tra il mondo articolato della produzione minore e il mercato.<br />

Si tratta di veri e propri «imprenditori puri», che, cioè, non solo investono modeste<br />

somme in capit<strong>al</strong>e circolante, ma che possiedono la sensibilità sufficiente per cogliere le mutevoli<br />

esigenze del mercato, sfruttando a t<strong>al</strong> fine la flessibilità del sistema dei piccoli produttori<br />

loc<strong>al</strong>i. In fondo, la figura è per nulla dissimile da quella pre-industri<strong>al</strong>e del «mercante<br />

imprenditore», proprietario di circolante sotto la forma di materie prime o semilavorate che<br />

<strong>al</strong>tro non fa che tradurre “in termini di prodotti vendibili su[l] mercato, tutte le possibilità<br />

racchiuse nel tessuto storico del distretto” (Becattini, 2000).<br />

I «coordinatori della produzione» sono ovunque nell’It<strong>al</strong>ia delle «piccole fabbriche». Questo<br />

era il sistema produttivo della fisarmonica, nell’anconetano, dopo la prima guerra mondi<strong>al</strong>e:<br />

“In provincia di Ancona l’industria delle fisarmoniche ha il suo centro maggiore a Castelfidardo.<br />

I costruttori non hanno veri laboratori ma impiegano varie centinaia di operai che<br />

a domicilio costruiscono i vari pezzi e a fine settimana li portano in fabbrica, dove vengono<br />

montati. La produzione è di circa 200 organetti <strong>al</strong> giorno, il prezzo dei qu<strong>al</strong>i oscilla da lire<br />

10 a 500 ciascuno… Le fisarmoniche si fabbricano pure a Recanati, in provincia di Mace-<br />

210


ata. A Recanati vi sono due categorie di lavoranti: <strong>al</strong>cuni fanno l’organetto completo e<br />

vendono <strong>al</strong>l’interno e <strong>al</strong>l’estero la produzione; <strong>al</strong>tri, invece, fanno parti staccate, che vendono<br />

ai fabbricanti loc<strong>al</strong>i o <strong>al</strong>lo stabilimento della ditta Soprani ad Ancona” 13 .<br />

D<strong>al</strong>le scarpe marchigiane ai mobili brianzoli, d<strong>al</strong>la lana pratese <strong>al</strong>le minuterie met<strong>al</strong>liche del<br />

lecchese, <strong>al</strong>le sete comasche, ai guanti milanesi, ai cappelli monzesi e ai cor<strong>al</strong>li del napoletano<br />

– per citare anche <strong>al</strong>cune attività ormai scomparse a seguito dei capricci della moda<br />

– intermediari e mercanti attivano i circuiti a corto, medio e anche lunghissimo raggio.<br />

Settori dinamici come il tessile-abbigliamento, il c<strong>al</strong>zaturiero o quello della produzione di<br />

beni per la casa, sono in fondo popolati ancora oggi da imprese senza fabbriche, a testimonianza<br />

della vit<strong>al</strong>ità e dell’efficienza di una forma di produzione capace di sfidare il<br />

tempo e le trasformazioni tecnologiche, organizzative e di mercato. Gruppi industri<strong>al</strong>i di dimensioni<br />

non trascurabili sfruttano le potenzi<strong>al</strong>ità insite in un sistema imperniato sul decentramento<br />

e sull’impiego di articolate reti di terzisti, mantenendo <strong>al</strong> proprio interno<br />

solamente <strong>al</strong>cune importanti funzioni: quelle strategico-commerci<strong>al</strong>i, di progettazione e disegno<br />

dei prodotti. Emblema di questi moderni «mercanti imprenditori» sono, o sono stati,<br />

marchi come Diesel, Benetton, Stefanel, Replay e molti <strong>al</strong>tri, che <strong>al</strong>l’abile impiego delle potenzi<strong>al</strong>ità<br />

insite nelle flessibili reti di subfornitura hanno aggiunto fondament<strong>al</strong>i competenze<br />

in termini di marketing, design e progettazione.<br />

7.4 IL «FIUME CARSICO» NELLE FASI DELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Se gli elementi di rapporto col mondo rur<strong>al</strong>e, paesano e urbano, il peso delle tradizioni e<br />

delle abilità mercantili, la presenza di istituzioni form<strong>al</strong>i e inform<strong>al</strong>i favorevoli contribuiscono<br />

a «spiegare» l’elevato grado di diffusione e la persistenza nel tempo delle piccole imprese<br />

in It<strong>al</strong>ia, è <strong>al</strong>trettanto vero che t<strong>al</strong>e ruolo si rende manifesto, o più p<strong>al</strong>ese, in <strong>al</strong>cuni<br />

specifici tornanti della storia economica nazion<strong>al</strong>e. Si tratta di fasi che solo in parte coincidono<br />

con le scansioni usu<strong>al</strong>i della storia economica it<strong>al</strong>iana, gener<strong>al</strong>mente modellate tenendo<br />

conto soprattutto degli andamenti delle imprese maggiori.<br />

D<strong>al</strong> piccolo il «grande»<br />

La prima «scansione» coincide con la fase che addirittura precede il primo «grande b<strong>al</strong>zo»<br />

del periodo giolittiano. All’indomani dell’Unificazione infatti, accanto a una serie di territori<br />

di piccola impresa rur<strong>al</strong>i e urbani, caratterizzati da varie forme di decentramento produttivo,<br />

descritti nel dettaglio nei paragrafi precedenti, se ne possono identificare <strong>al</strong>tri che<br />

13. Si veda S. N., Notizie sulle piccole industrie in It<strong>al</strong>ia, in “Le piccole industrie”, II (1920).<br />

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7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

costituiscono un fertile terreno di coltura su cui si innestano iniziative imprenditori<strong>al</strong>i destinate<br />

ad affermarsi nel campo della grande dimensione, interpretando <strong>al</strong> meglio le opportunità<br />

messe a disposizione d<strong>al</strong>la nuova ondata tecnologica della seconda rivoluzione<br />

industri<strong>al</strong>e. Non poche tra le maggiori imprese it<strong>al</strong>iane dei primi «due capit<strong>al</strong>ismi», quelli<br />

di grande impresa pubblica e privata che a buon diritto sono considerate first mover nei rispettivi<br />

contatti, affondano le proprie radici in territori di imprenditori<strong>al</strong>ità minore ma diffusa,<br />

ricchi di competenze, da cui si distaccano una volta raggiunte dimensioni «critiche»<br />

per i bacini d’origine (si veda il capitolo Il ruolo dell’industria: grandi e medie imprese). In<br />

<strong>al</strong>tri casi i contatti sono più sfumati e indiretti, ma tuttavia <strong>al</strong>trettanto cruci<strong>al</strong>i. La FIAT, ad<br />

esempio, nasce in una Torino di fine Ottocento in cui è presente un tessuto di supporto e di<br />

know-how per chi si lancia nel campo delle produzioni automobilistiche. Non mancano carrozzieri<br />

e meccanici da trasformare in abili operai né, come si è visto in precedenza, una<br />

rete di supporto di imprese piccole e piccolissime legate da rapporti di subfornitura, che<br />

consentiranno <strong>al</strong>l’impresa torinese di raggiungere livelli di flessibilità produttiva indispensabili<br />

soprattutto negli anni della grande crescita, quelli del miracolo economico e della<br />

motorizzazione di massa.<br />

La F<strong>al</strong>ck, per tutto il Ventesimo secolo il «campione nazion<strong>al</strong>e» privato nel settore siderurgico,<br />

viene fondata nel 1906 a Sesto San Giovanni. Sovrintende <strong>al</strong>la scelta di loc<strong>al</strong>izzazione la presenza<br />

di sufficiente spazio fisico per la costruzione di impianti <strong>al</strong>la sc<strong>al</strong>a adeguata e la presenza degli<br />

indispensabili collegamenti ferroviari. Sesto San Giovanni è, tuttavia, tanto un punto di partenza<br />

quanto un punto d’arrivo. Quando si getta nell’iniziativa, Giorgio Enrico F<strong>al</strong>ck rappresenta la terza<br />

generazione di una famiglia di origine <strong>al</strong>saziana 14 da circa un secolo attiva sulla scena imprenditori<strong>al</strong>e<br />

proprio <strong>al</strong>l’interno di un’area a marcata tradizione e speci<strong>al</strong>izzazione produttiva, quella<br />

lecchese, in cui la famiglia «prepara» il grande b<strong>al</strong>zo di fine secolo. A Sesto San Giovanni, insieme<br />

a una massa di manodopera despeci<strong>al</strong>izzata necessaria <strong>al</strong>le produzioni siderurgiche di grande volume,<br />

F<strong>al</strong>ck attirerà capit<strong>al</strong>e umano speci<strong>al</strong>izzato e di <strong>al</strong>to livello tecnico, proveniente proprio<br />

d<strong>al</strong>le piccole fucine e imprese meccaniche del distretto lariano. Né può essere sottov<strong>al</strong>utato il fatto<br />

che iniziative imprenditori<strong>al</strong>i ambiziose trovassero anche nelle necessità delle imprese minori<br />

una ragion d’essere e uno sbocco di mercato: la Pirelli con l’origin<strong>al</strong>e produzione di articoli di<br />

cautchouc per le imprese tessili; la Cantoni-Krumm, poi Franco Tosi, con la produzione di telai;<br />

la Ercole Marelli con la produzione di piccoli motori elettrici destinati a trovare applicazione in<br />

botteghe e opifici artigiani, trasformandone sovente la natura in quella di piccole imprese speci<strong>al</strong>izzate.<br />

Di tutto ciò i primi a essere convinti sono proprio gli stessi imprenditori, protagonisti del «grande<br />

b<strong>al</strong>zo» dell’industria it<strong>al</strong>iana. Nel 1871 sulle pagine del Politecnico un giovane Giovanni Battista<br />

Pirelli sottolineava con forza la necessità e la possibilità di un modello «compatibile»:<br />

“[L’industria] segua i s<strong>al</strong>di precetti della divisione del lavoro e dello speci<strong>al</strong>izzamento; invece<br />

d’un gruppo unico, immenso, sia il conglomerato di gruppi parzi<strong>al</strong>i, e l’<strong>al</strong>ito suo fecondo darà<br />

14. Sulla storia della F<strong>al</strong>ck si veda James (2006).<br />

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nuovo vigore agli opificii minori e distinti... Colle trasmissioni di forza a grandi distanze e col<br />

piccolo motore economico già appare l’aurora di un giorno sì bello...”.<br />

Trent’anni dopo, il giorno della costituzione della società elettrica che portava il suo nome,<br />

sul suo celebre Taccuino annotava Ettore Conti, il <strong>futuro</strong> presidente degli industri<strong>al</strong>i it<strong>al</strong>iani:<br />

“Non mi pare azzardato supporre che, portando la energia elettrificazione delle nostre industrie,<br />

e riducendo quindi l’esborso della piccola industria, facilito anche la soluzione di<br />

un problema di carattere gener<strong>al</strong>e. È sicuro che, se molte lavorazioni secondarie potranno<br />

essere fatte a domicilio, diminuiranno quegli agglomerati che sotto molti punti di vista non<br />

mi sembrano favorevoli <strong>al</strong>la pace soci<strong>al</strong>e”.<br />

Oltre a giocare, insomma, un ruolo di mobilitazione delle risorse territori<strong>al</strong>i presenti nelle<br />

campagne e nelle «cento città», come detto in precedenza, i territori di piccola impresa innescano<br />

sovente iniziative imprenditori<strong>al</strong>i destinate ad affermarsi nell’ambito della grande<br />

impresa; ne costituiscono, soprattutto negli anni del decollo, un’importante premessa, senza<br />

la qu<strong>al</strong>e i primi passi di molti first mover sarebbero stati ben più difficoltosi.<br />

Le piccole imprese negli anni della seconda rivoluzione industri<strong>al</strong>e<br />

La prima guerra mondi<strong>al</strong>e, di norma giustamente considerata la fase della definitiva affermazione<br />

della grande impresa a elevata intensità di capit<strong>al</strong>e, rappresenta un <strong>al</strong>tro tornante<br />

fondament<strong>al</strong>e nella storia della piccola impresa in It<strong>al</strong>ia.<br />

Per molti intraprendenti artigiani la guerra fu l’occasione del passaggio definitivo <strong>al</strong>la dimensione<br />

imprenditori<strong>al</strong>e; in <strong>al</strong>tri casi, significò l’impossessarsi di una speci<strong>al</strong>izzazione produttiva.<br />

Fu anche un momento in cui si apprendevano non tanto nozioni di carattere tecnico,<br />

quanto mod<strong>al</strong>ità diverse, meno rudiment<strong>al</strong>i, di gestione della produzione. La mobilitazione<br />

industri<strong>al</strong>e impose uno sforzo di riorganizzazione e di razion<strong>al</strong>izzazione delle reti di subcontracting,<br />

senza però sostanzi<strong>al</strong>mente intaccare i modelli organizzativi basati sul decentramento<br />

da parte di imprese «capofila» chiamate a redistribuire gli ordinativi <strong>al</strong>l’interno di<br />

una folta schiera di terzisti. Diverse botteghe si trasformarono lavorando per le maggiori. Grazie<br />

<strong>al</strong>l’impiego dei piccoli motori elettrici la produzione delle imprese minori in vari comparti<br />

del manifatturiero venne a “costituire una possibile integrazione di quella [svolta nelle<br />

grandi imprese] per lavorazioni sussidiarie svariate” (Mortara, Mungioli e Ottolenghi, 1934).<br />

Anche nei settori più tradizion<strong>al</strong>i l’effetto degli incrementi nella domanda non manca di farsi<br />

sentire. Nel c<strong>al</strong>zaturiero, ad esempio, è proprio con la guerra che si approfondisce il solco<br />

che divide i sistemi produttivi in cui si diffonde la meccanizzazione, che quindi possono a<br />

buon diritto inserirsi nell’ambito della mobilitazione di guerra, dagli <strong>al</strong>tri che insistono ad<br />

adottare strutture labour intensive, a scapito di competitività e qu<strong>al</strong>ità delle produzioni.<br />

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7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

La flessibilità dei sistemi di piccola impresa costituiva un vantaggio competitivo molto rilevante.<br />

Nel già ricordato caso dei produttori lecchesi di minuterie a partire d<strong>al</strong>la seconda<br />

metà del 1914 anche le aziende di dimensioni minori, e non solo quelle più importanti,<br />

moltiplicarono le loro istanze di ammissione a capitolati e forniture <strong>al</strong> Ministero della<br />

Guerra, presentate tramite un’attivissima Camera di Commercio, non tr<strong>al</strong>asciando di protestare<br />

nelle sedi competenti contro lo strapotere delle imprese capofila della mobilitazione<br />

industri<strong>al</strong>e. Tutte le variegate produzioni loc<strong>al</strong>i, trovarono senza esclusione ottime occasioni<br />

di mercato, sia in via diretta (attraverso ad esempio la produzione di filo spinato, fibbie e finimenti,<br />

catene di ogni dimensione, reti met<strong>al</strong>liche, chiodi, attrezzi da scavo, funi met<strong>al</strong>liche<br />

e così via 15 ) che indiretta (molte delle piccole unità speci<strong>al</strong>izzate del distretto<br />

producevano parti specifiche di armamenti e munizionamenti, come slitte, molle, spolette),<br />

<strong>al</strong> servizio cioè dei maggiori contractor del Ministero delle Armi e Munizioni.<br />

L’elasticità dei sistemi di piccola impresa giocò inoltre un ruolo rilevante negli anni della riconversione<br />

post bellica, attenuando gli effetti economici e soci<strong>al</strong>i, dati d<strong>al</strong>la cessazione<br />

delle ostilità.<br />

Gli anni tra le due guerre sono, come noto, quelli in cui la grande industria it<strong>al</strong>iana muta il<br />

proprio paradigma tecnologico di fondo. Al dominio dei settori della prima rivoluzione industri<strong>al</strong>e<br />

(il tessile, il meccanico, il met<strong>al</strong>lurgico) si sostituiscono quelli caratterizzati da<br />

ancor maggiore intensità di capit<strong>al</strong>e, tecnologia e da cicli continui di produzione: l’elettrico,<br />

il chimico, il siderurgico, la cantieristica e la meccanica pesante. Tuttavia sono gli<br />

anni in cui «l’<strong>al</strong>tra faccia» dell’industria it<strong>al</strong>iana, quella rappresentata dai settori leggeri popolati<br />

di imprese piccole e piccolissime, continua ad assorbire quote rilevanti dell’occupazione,<br />

tanto da spingere il regime a intraprendere iniziative – a forte contenuto<br />

propagandistico – fin<strong>al</strong>izzate <strong>al</strong>la tutela delle «piccole industrie» qu<strong>al</strong>e <strong>al</strong>ternativa <strong>al</strong>la costituzione<br />

delle grandi concentrazioni industri<strong>al</strong>i e ai monopoli. D’<strong>al</strong>tra parte, non va dimenticato<br />

che non molti anni prima, <strong>al</strong>la vigilia della guerra «di materi<strong>al</strong>i e di industria» 16 ,<br />

il tot<strong>al</strong>e della produzione di seta grezza e filata – un ambito in cui la dimensione d’impresa<br />

era piccola e piccolissima e simbiotici i rapporti col mondo delle campagne – eguagliava<br />

in v<strong>al</strong>ore quello della produzione siderurgica, e che larghe sezioni del manifatturiero it<strong>al</strong>iano<br />

17 , restavano contraddistinti d<strong>al</strong>la presenza di sistemi di piccole e piccolissime imprese.<br />

Le politiche economiche del fascismo, in particolare monetarie, evidenziano <strong>al</strong>tri aspetti di<br />

notevole interesse. La decisione di procedere nel 1926 a una energica riv<strong>al</strong>utazione della<br />

lira con la cosiddetta Quota Novanta finisce per evidenziare qu<strong>al</strong>i fossero i veri settori glob<strong>al</strong>izzati<br />

dell’economia it<strong>al</strong>iana, ovvero quelli leggeri, di un precoce made in It<strong>al</strong>y, in cui dominante<br />

continuava a essere la piccola dimensione, caratterizzata d<strong>al</strong>la scarsa capacità di<br />

esercitare una pressione di lobbying efficace sul potere politico, <strong>al</strong> contrario delle imprese<br />

15. Si veda Carlo M<strong>al</strong>acrida, L’industria siderurgica, met<strong>al</strong>lurgica e meccanica nello sviluppo economico di Lecco e circondario d<strong>al</strong>l’inizio<br />

del secolo <strong>al</strong>la seconda guerra mondi<strong>al</strong>e, Tesi di Laurea, Università Bocconi, aa. 1973-4.<br />

16. Come Einaudi ebbe a definire il primo conflitto mondi<strong>al</strong>e.<br />

17. Come confermano i dati an<strong>al</strong>izzati da Zamagni (1978).<br />

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maggiori. Le voci di protesta dei piccoli imprenditori esportatori di <strong>al</strong>imentari, tessuti, c<strong>al</strong>zature,<br />

mobili e <strong>al</strong>tri prodotti per la casa e per la persona rimasero largamente inascoltate.<br />

La grande crisi e il progressivo r<strong>al</strong>lentamento – quando non la chiusura – delle correnti di<br />

commercio mondi<strong>al</strong>i intervennero, pertanto, su un universo di imprese e settori già indebolito<br />

d<strong>al</strong>le politiche monetarie ed economiche degli anni precedenti. Secondo i dati forniti<br />

d<strong>al</strong>la Banca d’It<strong>al</strong>ia, tra 1931 e 1936, ad esempio, le esportazioni di cappelli e berretti<br />

crollarono da circa 250 a poco più di 50 milioni di lire <strong>al</strong>l’anno, quelle di guanti e pelletteria<br />

da 123 a 13. Nei singoli sottosettori, la situazione si presenta spesso più grave. Nel periodo<br />

tra le due guerre i cappelli di paglia soffrono di una contrazione sostanzi<strong>al</strong>e nelle<br />

esportazioni (dai 180 milioni del 1930 si passa ai 25 in media nel decennio seguente), ulteriormente<br />

aggravata d<strong>al</strong> cambiamento dei gusti dei consumatori. Il comparto mobiliero si<br />

andava contraendo, sempre in termini di export, a un ritmo medio (annuo) del 15 per cento.<br />

La vigilia dei «coaguli». Il miracolo economico<br />

In occasione dei lavori dell’Assemblea Costituente, la neonata It<strong>al</strong>ia repubblicana si trovava<br />

a stilare un bilancio dei propri punti di forza e di debolezza <strong>al</strong>l’indomani della guerra e della<br />

precedente fase autarchica, in cui le imprese minori e i settori leggeri avevano dimostrato di<br />

tenere posizioni creando occupazione e ricchezza, <strong>al</strong> di là della retorica di regime. Di fronte<br />

<strong>al</strong>la Commissione economica <strong>al</strong>l’Assemblea Costituente, fu proprio il Presidente di <strong>Confindustria</strong>,<br />

Angelo Costa, a sottolineare con chiarezza il ruolo da assegnare <strong>al</strong>la piccola impresa:<br />

“Noi non potremo mai pretendere di fare, s<strong>al</strong>vo in <strong>al</strong>cuni casi, della grande industria... Viceversa,<br />

abbiamo tutti gli elementi favorevoli per uno sviluppo assai maggiore dell’attu<strong>al</strong>e<br />

della piccola e media industria... Su tutta la produzione che il mercato mondi<strong>al</strong>e richiede,<br />

c’è una parte di prodotti in serie e su questo campo noi dobbiamo limitare la nostra produzione<br />

e una parte di prodotti riservati <strong>al</strong>la piccola e media industria; è per questi che non<br />

vedo il pericolo di una concorrenza estera <strong>al</strong>la nostra produzione” 18 .<br />

Gli anni del miracolo economico sono in genere ide<strong>al</strong>mente collegati <strong>al</strong>la motorizzazione e<br />

<strong>al</strong>la trasformazione in senso consumistico della società it<strong>al</strong>iana. Seppure per un breve ventennio,<br />

sono gli anni in cui si afferma una cultura industri<strong>al</strong>e moderna, accompagnata da<br />

un’urbanizzazione a tratti estrema delle maggiori città. Sono gli anni, come ricordato in precedenza,<br />

della grande impresa a elevata intensità di capit<strong>al</strong>e (nonché delle grandi concentrazioni<br />

operaie <strong>al</strong>imentate dai flussi migratori di massa), in cui il mondo della piccola<br />

impresa viene messo «in ombra» da quanto freneticamente accade nelle grandi aziende, sia<br />

pubbliche sia private.<br />

18. Secondo un <strong>al</strong>tro autorevole esponente dell’industria «tradizion<strong>al</strong>e», Riccardo Jucker del Cotonificio Cantoni, t<strong>al</strong>i settori erano quelli<br />

volti <strong>al</strong>la “produzione di articoli di qu<strong>al</strong>ità nei qu<strong>al</strong>i entri molto il fattore abilità della maestranza: mobilio, maioliche, vasellame,<br />

vetro, insomma tutta la produzione di tipo artigiano”. Ministero per la Costituente (1946), interrogatorio del Dott. Riccardo Jucker.<br />

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7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

La stagione della grande impresa, tuttavia, è anche quella in cui il mondo dell’impresa minore<br />

si articola e prende forme nuove, più vicine a quelle oggi osservabili. Per le imprese<br />

piccole gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano <strong>al</strong>meno tre occasioni di crescita.<br />

Innanzitutto, per quelle che appartenevano <strong>al</strong>l’ampio mondo del terzismo e del subcontracting,<br />

l’espansione delle maggiori significava <strong>al</strong>trettante occasioni di domanda (si pensi<br />

<strong>al</strong> già menzionato sistema dell’auto torinese).<br />

In secondo luogo – e in misura ben più rilevante – il vasto mondo dell’impresa minore raccoglie<br />

i frutti dell’espansione e articolazione del consumo interno, grazie <strong>al</strong>l’incremento<br />

del reddito pro capite. Se il «bene simbolo» del miracolo economico è l’utilitaria (prodotto<br />

congiunto degli sforzi dei settori capit<strong>al</strong> intensive: siderurgia, meccanica, raffinazione chimica)<br />

a esso se ne affianca un secondo: la casa, territorio di conquista per i settori leggeri (i<br />

mobili, gli arredi, il tessile, le ceramiche). Gli it<strong>al</strong>iani cominciano a «vivere» meglio, meglio<br />

vestiti, c<strong>al</strong>zati e nutriti. Sono gli anni in cui le c<strong>al</strong>zature marchigiane e vigevanesi, il tessile<br />

pratese e carpigiano, le piastrelle emiliane, il c<strong>al</strong>zificio bresciano, l’oreficeria v<strong>al</strong>enzana, il<br />

mobile brianzolo e veronese e la meccanica motociclistica bolognese fanno registrare tassi<br />

d’espansione nell’ordine delle due cifre <strong>al</strong>l’anno.<br />

In terzo luogo, non va dimenticato quanto accadde sotto il profilo del commercio estero. Nel<br />

corso degli anni Sessanta, infatti, la speci<strong>al</strong>izzazione internazion<strong>al</strong>e dell’It<strong>al</strong>ia fa registrare<br />

i progressi maggiori (un raddoppio negli indici di vantaggio comparato) nei settori pelle e<br />

cuoio, ceramica, macchine utensili e speci<strong>al</strong>izzate, elettrodomestici, prodotti sanitari, mobili,<br />

abbigliamento e c<strong>al</strong>zature. Gli anni Settanta, insomma, si aprono «già» <strong>al</strong>l’insegna di<br />

un rilevante vantaggio competitivo consolidato nei settori leggeri e custom oriented.<br />

Non è certo estranea a questo successo la competitività, in termini di prezzo, dei prodotti<br />

it<strong>al</strong>iani, corroborata dagli accordi di Roma del 1957, che aprono <strong>al</strong>le piccole imprese it<strong>al</strong>iane<br />

spazi ulteriori d’espansione. L’effetto Europa non è certo trascurabile. Il livello medio<br />

delle esportazioni verso i paesi della Comunità re<strong>al</strong>izzato tra 1953 e 1958, prima di quegli<br />

accordi, nella seconda metà degli anni Sessanta raddoppia nel caso di fibre sintetiche, macchine<br />

per ufficio e derivati del petrolio, per quanto riguarda i settori di grande impresa, in<br />

quello del legno, carta, ceramiche, mobili, abbigliamento e c<strong>al</strong>zature.<br />

I tre elementi citati muovono, tutti, nella direzione di incrementare quasi parossisticamente<br />

il contributo dei settori di piccola impresa <strong>al</strong>la crescita economica del Paese. Allo stesso<br />

tempo, t<strong>al</strong>e espansione finisce per incidere profondamente sulla natura stessa delle piccole<br />

imprese – e dei territori di piccola impresa – coinvolti in t<strong>al</strong>e processo. Negli anni del miracolo<br />

economico prende forma un’impresa piccolo-media (ma più piccola che media) che<br />

fa registrare un dinamismo insospettato, comunque esso venga misurato. Si tratta di aziende<br />

che hanno definitivamente abbandonato la rudiment<strong>al</strong>ità propria dell’artigianato per attingere<br />

a forme tecnico-organizzative un po’ più sofisticate. Sostanzi<strong>al</strong>mente popola i settori<br />

di produzione dei beni di consumo immediato, di quello durevole e dei beni di investi-<br />

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mento, quindi si distribuisce su uno spettro amplissimo dell’industria nazion<strong>al</strong>e. Ove ciò non<br />

era accaduto in precedenza, le botteghe si trasformano in piccole imprese e gli artigiani in<br />

piccoli imprenditori. All’interno dei territori la crescita della domanda porta a un ulteriore<br />

incremento della speci<strong>al</strong>izzazione delle imprese, che si concentrano su una o poche fasi del<br />

processo di produzione. In questa epoca per moltissime agglomerazioni di attività artigian<strong>al</strong>i<br />

si verifica la transizione – <strong>al</strong>trove già avvenuta – verso la forma più articolata del distretto<br />

industri<strong>al</strong>e nella sua forma compiuta di territorio caratterizzato da una speci<strong>al</strong>izzazione produttiva<br />

re<strong>al</strong>izzata da piccole imprese che puntano sulle economie esterne consentite d<strong>al</strong>la<br />

divisione del lavoro.<br />

Tra crisi e glob<strong>al</strong>izzazione<br />

Come noto, la «grande stagione» della piccola impresa ha inizio negli anni Settanta, a partire<br />

d<strong>al</strong> r<strong>al</strong>lentamento che coinvolge i settori a elevata intensità di capit<strong>al</strong>e. Si tratta di una stagione<br />

che vede la piccola impresa – e i territori di piccola impresa – acquisire una «visibilità»<br />

nei confronti dell’opinione pubblica, delle istituzioni politiche e della comunità scientifica<br />

mai sperimentata in precedenza. Eppure, come i precedenti paragrafi si sono incaricati di dimostrare,<br />

il mondo dell’imprenditori<strong>al</strong>ità diffusa ha contribuito (e contribuisce) costantemente,<br />

e in <strong>al</strong>cune fasi in modo decisivo, <strong>al</strong>la formazione della ricchezza nazion<strong>al</strong>e; ha promosso (e<br />

promuove) l’inn<strong>al</strong>zamento della soglia complessiva dello sviluppo in molte aree del Paese;<br />

ha stimolato (e stimola) l’occupazione fornendo nel contempo una v<strong>al</strong>ida integrazione del<br />

reddito agrario; si è rivelato un importante ammortizzatore nelle fasi di r<strong>al</strong>lentamento congiuntur<strong>al</strong>e<br />

per la grande impresa, o di «rientro <strong>al</strong>la norm<strong>al</strong>ità» dopo i periodi bellici.<br />

L’intensificazione nella vit<strong>al</strong>ità delle imprese di dimensione minore a partire dagli anni Settanta<br />

è stata frequentemente spiegata (in particolare dagli osservatori coevi 19 ) ricorrendo <strong>al</strong><br />

concetto di decentramento produttivo. La grande impresa in crisi avrebbe insomma sfruttato<br />

il più possibile meccanismi di outsourcing, anche <strong>al</strong> fine di ridurre il livello di conflittu<strong>al</strong>ità<br />

sindac<strong>al</strong>e interna attraverso un sapiente sfruttamento delle piccole e piccolissime imprese.<br />

Una spiegazione non del tutto errata; anzi, adeguata a dar conto di cosa effettivamente andava<br />

accadendo in quegli anni in <strong>al</strong>cune aree a vocazione monoproduttiva forte, come<br />

quella torinese. Inoltre, se per <strong>al</strong>cuni il decentramento avveniva tramite spin off, per <strong>al</strong>tri era<br />

evidente che la grande impresa si <strong>al</strong>leggeriva <strong>al</strong> proprio interno appoggiandosi però su di un<br />

substrato di imprenditori<strong>al</strong>ità diffusa già esistente.<br />

Gli anni Settanta, insomma, attraverso le difficoltà della grande dimensione a elevata intensità<br />

di capit<strong>al</strong>e, non facevano <strong>al</strong>tro che porre in luce qu<strong>al</strong>cosa che era sempre esistito, ovvero<br />

la vit<strong>al</strong>ità del mondo della piccola dimensione, organizzata territori<strong>al</strong>mente o meno in<br />

distretti industri<strong>al</strong>i.<br />

19. Si veda Antonelli e B<strong>al</strong>cet (1980).<br />

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7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

In un recente lavoro di an<strong>al</strong>isi della capacità esportativa it<strong>al</strong>iana Michelangelo Vasta fornisce<br />

nuove elaborazioni degli indici di vantaggio comparato nel lungo periodo, da cui emerge<br />

la sostanzi<strong>al</strong>e stabilità di <strong>al</strong>cuni comparti, che mantengono un ruolo di leadership indiscussa<br />

in termini di competitività internazion<strong>al</strong>e. Dagli anni fra le due guerre – quelli in cui si assiste<br />

per<strong>al</strong>tro <strong>al</strong>la più sopra ricordata affermazione della grande impresa a elevata intensità<br />

di capit<strong>al</strong>e – le attività in cui l’It<strong>al</strong>ia eccelle in una comparazione internazion<strong>al</strong>e sono quasi<br />

costantemente le medesime per quasi un secolo: prodotti per la casa (ceramiche, piastrelle,<br />

mobili), per la persona (tessile, abbigliamento, c<strong>al</strong>zature), meccanica speci<strong>al</strong>izzata. Una<br />

«costanza nel vantaggio comparato» neppure lontanamente paragonabile con quella di <strong>al</strong>tri<br />

comparti (ad esempio l’automobilistico o quello delle macchine per ufficio, dominati d<strong>al</strong>la<br />

grande dimensione), che si affermano sui mercati esteri solo transitoriamente negli anni del<br />

miracolo economico.<br />

Gli anni Settanta sono gli anni, come rammentato anche in precedenza, non della nascita,<br />

ma della scoperta, o meglio della «sistematizzazione» delle agglomerazioni virtuose di piccole<br />

imprese che rientrano nella categoria dei distretti industri<strong>al</strong>i. I distretti pongono, nella<br />

loro forma compiuta di compresenza in un luogo definito, con proprie caratteristiche storico-soci<strong>al</strong>i,<br />

di una comunità di imprese speci<strong>al</strong>izzate e legate da rapporti di cooperazione<br />

e concorrenza, le proprie origini in una fase antecedente, negli anni del miracolo economico<br />

e addirittura anche nel periodo fra le due guerre, quando la meccanizzazione e la frammentazione<br />

del ciclo tra imprese speci<strong>al</strong>izzate si diffondono tra le industrie paesane e i territori<br />

dell’artigianato speci<strong>al</strong>izzato 20 .<br />

Un punto importante da tenere presente è che per i distretti, e più in gener<strong>al</strong>e per le piccole<br />

imprese, negli anni Settanta non vengono (o hanno luogo in misura contenuta) a maturazione<br />

una serie di contraddizioni, clamorose invece nel caso della grande impresa. Innanzitutto,<br />

la bassa intensità energetica e, <strong>al</strong>meno in <strong>al</strong>cuni comparti, l’impiego di input presenti<br />

sul territorio nazion<strong>al</strong>e contribuiscono ad attenuare per le imprese piccole i danni generati<br />

d<strong>al</strong>le perturbazioni v<strong>al</strong>utarie e dai maggiori costi di approvvigionamento delle materie prime<br />

che subivano le grandi. In secondo luogo, proprio le dinamiche inflattive consentivano <strong>al</strong>le<br />

piccole imprese di enfatizzare ulteriormente le proprie potenzi<strong>al</strong>ità competitive: i beni caratterizzati<br />

d<strong>al</strong> gusto e d<strong>al</strong> design it<strong>al</strong>iano erano contraddistinti, sui mercati internazion<strong>al</strong>i,<br />

anche da una competitività di prezzo non trascurabile.<br />

Il progressivo consolidamento e <strong>al</strong>largamento dello spazio economico europeo, è, in questo<br />

senso, l’ide<strong>al</strong>e prolungamento nel tempo della favorevole situazione di espansione dei<br />

consumi interni che aveva contraddistinto gli anni del miracolo economico. Durante gli<br />

anni Settanta, in sostanza, le imprese «minori» – dentro e fuori i distretti – beneficiarono di<br />

una serie di condizioni «comparativamente» più favorevoli rispetto a quelle a disposizione<br />

delle imprese maggiori, continuando nel frattempo a fruire di una relativa pace sindac<strong>al</strong>e,<br />

rincari meno marcati del costo del lavoro e una certa tolleranza fisc<strong>al</strong>e. Per le imprese di-<br />

20. Si rinvia per la definizione di distretto e per la genesi della categoria interpretative ai numerosi scritti sul tema di Giacomo Becattini.<br />

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strettu<strong>al</strong>i, a ciò si potevano aggiungere le variegate economie di agglomerazione che permettevano<br />

un ulteriore incremento della capacità competitiva sia delle unità produttive sia<br />

del sistema territori<strong>al</strong>e nel suo complesso, nonché il fatto, via via sempre più evidente col<br />

progressivo ampliarsi del loro mercato, che i beni di fascia e qu<strong>al</strong>ità maggiore del made in<br />

It<strong>al</strong>y manifestavano una discreta rigidità <strong>al</strong> prezzo, a testimonianza di una indiscussa superiorità<br />

in termini di qu<strong>al</strong>ità e design.<br />

L’influsso di t<strong>al</strong>i fattori e condizioni proseguì, come noto, nel corso del decennio seguente,<br />

contraddistinto d<strong>al</strong> mantenimento della fisionomia del vantaggio competitivo del Paese – secondo<br />

<strong>al</strong>cuni di una sua ulteriore enfatizzazione – nei settori di beni tradizion<strong>al</strong>i e di meccanica<br />

speci<strong>al</strong>izzata dominati d<strong>al</strong>la piccola e media dimensione, insieme a un ulteriore<br />

incremento di competitività dei distretti, a cui nel corso di tutti gli anni Ottanta può essere<br />

ascritta una quota percentu<strong>al</strong>e crescente delle esportazioni del Paese.<br />

L’integrazione economica europea si risolve, insomma, positivamente per i distretti, i qu<strong>al</strong>i<br />

<strong>al</strong>meno fino ai primi anni Novanta fruiscono di una posizione di dominio sui mercati occident<strong>al</strong>i<br />

e in gener<strong>al</strong>e su quelli caratterizzati da una marcata propensione verso i beni del cosiddetto<br />

made in It<strong>al</strong>y. Sanzione efficace di t<strong>al</strong>e situazione sono le pagine dedicate da<br />

Michael Porter <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia nel suo The Competitive Advantage of Nations. La posizione del<br />

Paese nell’ambito dell’economia mondi<strong>al</strong>e è chiaramente determinata d<strong>al</strong>la sua superiorità<br />

nei settori leggeri, a elevata speci<strong>al</strong>izzazione, caratterizzati d<strong>al</strong>la presenza di piccole imprese.<br />

Qu<strong>al</strong>che anno prima due economisti industri<strong>al</strong>i eterodossi, Michael Piore e Charles<br />

Sabel, nel ricercare esempi a sostegno delle loro tesi sull’effettiva esistenza di «<strong>al</strong>ternative<br />

storiche <strong>al</strong>la produzione di massa», avevano per<strong>al</strong>tro fatto proprio riferimento <strong>al</strong>l’It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong><br />

variegato mondo dei distretti.<br />

Più controversa appare la situazione in tempi più recenti, a partire dagli anni Novanta e con<br />

l’avvio di un nuovo ciclo di glob<strong>al</strong>izzazione. In termini gener<strong>al</strong>i, il modello di speci<strong>al</strong>izzazione<br />

e l’incidenza dell’impresa piccola e piccolissima non sembrano in <strong>al</strong>cun modo essere<br />

messi in discussione. I dati censuari richiamati sopra confermano (Tabella 7.2) una progressiva<br />

espansione nell’occupazione nelle imprese di taglia medio-piccola, senza interruzione<br />

a partire dagli anni Ottanta. Le statistiche fornite in un suggestivo saggio di Giacomo<br />

Becattini e Fulvio Coltorti mostrano con efficacia il progressivo declino, in termini di indicatori<br />

grezzi di industri<strong>al</strong>izzazione (occupazione, v<strong>al</strong>ore aggiunto, s<strong>al</strong>do positivo della bilancia<br />

commerci<strong>al</strong>e) e a partire d<strong>al</strong>la seconda metà degli anni Settanta, dei territori di grande<br />

impresa, accompagnato da un incremento di rilevanza di quelli caratterizzati da un grado<br />

elevato di «distrettu<strong>al</strong>izzazione». L’an<strong>al</strong>isi dei due economisti prende in considerazione, tra<br />

l’<strong>al</strong>tro, una serie di indicatori più specificamente correlati agli aspetti di welfare e sviluppo,<br />

qu<strong>al</strong>i reddito pro capite e misure del benessere, per concludere che le aree caratterizzate<br />

da vocazione prev<strong>al</strong>entemente distrettu<strong>al</strong>e mostrano redditi pro capite mediamente maggiori<br />

di quelle di grande impresa, oltre a uno scoring più <strong>al</strong>to nel benessere complessivo.<br />

219<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

Permangono, secondo molti commentatori 21 , una serie di limiti in un modello industri<strong>al</strong>e che<br />

si troverebbe ora a essere eccessivamente sbilanciato nella direzione della piccola impresa<br />

e dei settori leggeri, per loro natura sottoposti <strong>al</strong>le pressioni competitive di paesi a basso<br />

costo del lavoro.<br />

Il punto è controverso, benchè giova ricordare come nella storia narrata in queste pagine non<br />

sono mancati momenti in cui la piccola impresa si è trovata a fronteggiare difficoltà, anche<br />

serie, in termini di perdita di competitività – di matrice endogena, ma anche esogena come nel<br />

caso delle politiche economiche e monetarie del fascismo – in seguito brillantemente superate.<br />

A parere di chi scrive va, piuttosto, posta attenzione <strong>al</strong>le dinamiche di trasformazione in atto<br />

«endogene» <strong>al</strong> mondo della impresa minore, a loro volta risultato delle spinte provenienti d<strong>al</strong><br />

processo di glob<strong>al</strong>izzazione. Si tratta dell’emergere del cosiddetto «quarto capit<strong>al</strong>ismo», espressione<br />

che etichetta il recente moltiplicarsi di imprese di dimensioni medie, nella stragrande<br />

maggioranza generate d<strong>al</strong> fertile humus imprenditori<strong>al</strong>e dei distretti, attive in nicchie mondi<strong>al</strong>i<br />

di produzioni omogenee a quelle del made in It<strong>al</strong>y e della custom-oriented production.<br />

La presenza di attori relativamente nuovi nel panorama della demografia industri<strong>al</strong>e della<br />

Penisola – imprese medie, innovatrici, internazion<strong>al</strong>mente attive – può a buon diritto interpretarsi<br />

come ulteriore dimostrazione della vit<strong>al</strong>ità e del contributo <strong>al</strong> dinamismo del capit<strong>al</strong>ismo<br />

it<strong>al</strong>iano del mondo dell’impresa minore, <strong>al</strong>meno sotto tre profili 22 . Il primo: le<br />

imprese del «quarto capit<strong>al</strong>ismo» sono spesso ex piccole imprese dei distretti che hanno<br />

accettato la sfida della crescita <strong>al</strong>la giusta dimensione per dominare segmenti di mercato<br />

mondi<strong>al</strong>e. Il secondo: anche quando si tratta – e i casi non sono molti – di imprese non distrettu<strong>al</strong>i,<br />

si tratta di re<strong>al</strong>tà – come ad esempio quella dei produttori di macchine utensili –<br />

che hanno costruito le proprie core-competence servendo il mondo variegato della piccola<br />

impresa it<strong>al</strong>iana, per poi spostare il proprio focus competitivo <strong>al</strong>l’estero. Il terzo: il legame<br />

coi distretti continua a restare essenzi<strong>al</strong>e per la generazione di innovazioni e la formazione<br />

del capit<strong>al</strong>e umano di cui queste imprese si avv<strong>al</strong>gono.<br />

7.5 CONCLUSIONI<br />

La v<strong>al</strong>utazione del ruolo giocato d<strong>al</strong>le piccole imprese nel corso dello sviluppo economico<br />

it<strong>al</strong>iano non può prescindere da quella più complessiva dei sentieri evolutivi intrapresi d<strong>al</strong><br />

capit<strong>al</strong>ismo nazion<strong>al</strong>e sotto la spinta dei condizionamenti e delle opportunità che il contesto<br />

ha generato nel corso del tempo. Uno sguardo nel lungo periodo consente, <strong>al</strong> di là dei<br />

«cicli brevi» che determinano le fluttuazioni immediate degli aggregati produttivi, di evidenziare<br />

<strong>al</strong>cuni elementi di fondo.<br />

21. Un efficace esempio di questa posizione si ha in un recente lavoro di G<strong>al</strong>lino (2006).<br />

22. Le considerazioni che seguono sono largamente basate sulle approfondite an<strong>al</strong>isi svolte a cadenza annu<strong>al</strong>e d<strong>al</strong>l’Ufficio Studi di Mediobanca<br />

e Unioncamere.<br />

220


Una prima considerazione gener<strong>al</strong>e riguarda, appunto, il ruolo complessivo giocato d<strong>al</strong>la<br />

piccola impresa. Sparse o raggruppate in virtuose agglomerazioni territori<strong>al</strong>i – i distretti – le<br />

piccole imprese hanno giocato un ruolo di rilievo <strong>al</strong>meno sotto due profili. Il primo è quello<br />

della mobilitazione delle risorse di imprenditori<strong>al</strong>ità presenti, a seguito di dinamiche secolari,<br />

nel mondo agricolo e in seno <strong>al</strong> fittissimo reticolo urbano della Penisola. Le imprese minori<br />

più che le maggiori hanno insomma tradotto in contributo concreto <strong>al</strong>l’industri<strong>al</strong>izzazione<br />

le potenzi<strong>al</strong>ità insite in un settore primario dominante per larga parte del Novecento<br />

e in quello, di origini mediev<strong>al</strong>i, dell’artigianato cittadino e paesano, oltre a v<strong>al</strong>orizzare le<br />

competenze diffuse nel commercio a corto, medio ma anche lunghissimo raggio. Nel fare<br />

ciò, l’industri<strong>al</strong>izzazione leggera ha consentito l’inn<strong>al</strong>zamento del reddito medio e offerto<br />

occasioni d’occupazione e di incremento della libertà individu<strong>al</strong>e, nel contempo limitando<br />

– come notato nel caso marchigiano più sopra descritto – esodi ed emigrazioni di massa.<br />

Nonostante ciò, tuttavia, e nonostante numerose eccezioni che però confermano la regola, né<br />

in passato né oggi, piccole imprese e distretti – <strong>al</strong> pari tuttavia delle imprese maggiori – sono<br />

stati in grado di fornire una v<strong>al</strong>ida <strong>al</strong>ternativa <strong>al</strong>l’intervento esogeno nel risolvere i problemi<br />

di sviluppo del Mezzogiorno. Anzi, è probabilmente proprio il fatto di essere «piccoli», quindi<br />

più esposti ai problemi «ambient<strong>al</strong>i» – carenza di infrastrutture, di tessuto creditizio, pressione<br />

della crimin<strong>al</strong>ità organizzata – a costituire un handicap determinante la limitata presenza di<br />

fenomeni di industri<strong>al</strong>izzazione diffusa <strong>al</strong> Sud 23 . A ciò si uniscono <strong>al</strong>tri elementi di natura struttur<strong>al</strong>e<br />

e secolare. Ad esempio, un più ristretto e tenue reticolo urbano in grado di stimolare fenomeni<br />

di artigianato organizzato, oltre <strong>al</strong>l’indubbia attrazione esercitata sul capit<strong>al</strong>e umano<br />

delle regioni più deboli e periferiche dai territori di grande impresa, attrazione <strong>al</strong>la lunga risoltasi<br />

in una sorta di depauperamento delle risorse imprenditori<strong>al</strong>i autoctone.<br />

In secondo luogo, le piccole imprese «non residu<strong>al</strong>i», ovvero quelle dotate, magari in termini<br />

aggregati, di autonoma capacità di affermazione sul mercato nazion<strong>al</strong>e ed estero grazie<br />

<strong>al</strong>la bontà, origin<strong>al</strong>ità, bellezza e raffinatezza dei propri prodotti, hanno generato un<br />

vantaggio competitivo comparato «stabile» nel corso del tempo, ovvero non limitato a fasi<br />

particolarmente intense di sviluppo come accaduto, invece, ad <strong>al</strong>cuni settori di grande impresa,<br />

sovente riconducibili a casi specifici (come quello dell’Olivetti).<br />

La critica frequentemente mossa <strong>al</strong> capit<strong>al</strong>ismo it<strong>al</strong>iano contemporaneo è, tuttavia, di essere<br />

eccessivamente concentrato sulla piccola dimensione. Ne risulterebbe una capacità competitiva<br />

per molti versi fragile, come risulta d<strong>al</strong>l’andamento della bilancia commerci<strong>al</strong>e di<br />

<strong>al</strong>cuni settori in cui più intensa è la concorrenza di prezzo esercitata dai paesi emergenti a<br />

basso costo del lavoro. Per quanto l’entità di t<strong>al</strong>e perdita di competitività sia oggetto di dibattito,<br />

<strong>al</strong>cuni dati sono innegabili. Il numero degli addetti nelle piccole imprese, e in particolare<br />

nei distretti industri<strong>al</strong>i, ha un andamento speculare a quello delle grandi imprese,<br />

in declino inesorabile a partire dagli anni Ottanta. Il capit<strong>al</strong>ismo it<strong>al</strong>iano sta tornando a essere<br />

caratterizzato, oggi, da un modello dimension<strong>al</strong>e «monocultur<strong>al</strong>e», in cui le grandi im-<br />

23. Più ottimistica è la prospettiva di Viesti (2009).<br />

221<br />

7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO


7. LA PICCOLA IMPRESA NELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO<br />

prese, sempre meno grandi e sempre più a controllo estero, giocano un ruolo di relativa retroguardia<br />

in termini di capacità competitiva, innovativa, di generazione di occupazione, benessere<br />

e sviluppo.<br />

L’It<strong>al</strong>ia è ancor oggi connotata da un tenore di vita e propensioni di consumo proprie di un<br />

paese sviluppato. La domanda di beni a elevato v<strong>al</strong>ore aggiunto non prodotti entro i confini<br />

nazion<strong>al</strong>i, come quelli ad <strong>al</strong>to contenuto tecnologico ormai considerati indispensabili<br />

per la vita quotidiana degli individui (SUV e telefoni cellulari compresi), oppure essenzi<strong>al</strong>i<br />

e di prima necessità – energia, oli combustibili, chimica e farmaceutica – si mantiene, pertanto,<br />

elevata. All’interno del saggio precedentemente citato, Becattini e Coltorti mostrano<br />

come sia solo la capacità esportatrice dei settori del made in It<strong>al</strong>y e della meccanica speci<strong>al</strong>izzata<br />

a consentire a una bilancia commerci<strong>al</strong>e deficitaria in campi importanti qu<strong>al</strong>i la<br />

chimica e l’energia di essere «meno peggiore» di quello che avrebbe potuto essere – una situazione<br />

che anche i più recenti dati ISTAT confermano con chiarezza.<br />

Forzando un po’ l’an<strong>al</strong>ogia storica, dopo una lunga fase di rincorsa a un modello di capit<strong>al</strong>ismo<br />

industri<strong>al</strong>e più equilibrato, ovvero formato da una «comunità di imprese» di variegata<br />

composizione dimension<strong>al</strong>e, merceologica e di contenuti innovativi, a partire dagli<br />

anni Settanta – Ottanta la struttura dell’industria it<strong>al</strong>iana e il vantaggio competitivo del Paese<br />

sono tornati a essere molto simili a quelli che caratterizzavano gli anni precedenti il big<br />

spurt dell’età giolittiana. Si trattava di un sistema economico che aveva, in termini di commercio<br />

estero, un «equilibrio dei bassi consumi», secondo una felice espressione di Luciano<br />

Cafagna. Le importazioni di beni indispensabili (energia sotto forma di carbone) e a elevato<br />

v<strong>al</strong>ore aggiunto (macchinari, mezzi di trasporto) si attestavano su livelli contenuti, tipici di<br />

un paese periferico. A fornire le risorse necessarie a mantenere la bilancia dei pagamenti in<br />

equilibrio bastava, pertanto, ciò che il settore primario produceva – in qu<strong>al</strong>che caso, come<br />

la seta, sottoposto a processi di trasformazione svolti in piccoli opifici 24 . A distanza di oltre<br />

un secolo, pur mutate le forme della produzione, le tecnologie e la composizione della domanda,<br />

è possibile ravvisare una situazione an<strong>al</strong>oga, ove il contributo della piccola impresa<br />

sta non solo nel generare occupazione, reddito e sviluppo, ma anche nel permettere <strong>al</strong> Paese<br />

un tenore di vita adeguato e un accesso libero <strong>al</strong>le ICTs indispensabili <strong>al</strong>la vita quotidiana.<br />

24. Lo confermano i dati variamente esposti nel citato articolo di Vasta (2010).<br />

222


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Ilvo Diamanti, Ludovico Gardani e Paolo Gurisatti<br />

Qu<strong>al</strong>e significato assumono oggi libertà e benessere? Presso la popolazione e fra gli imprenditori.<br />

Sono due riferimenti importanti dell’azione soci<strong>al</strong>e e individu<strong>al</strong>e, ma anche degli<br />

imprenditori, le cui associazioni hanno puntato, soprattutto negli ultimi anni, sulla libertà<br />

come risorsa e volano dello sviluppo. Libertà intesa come concorrenza «libera» e regolata.<br />

Come spazio economico e soci<strong>al</strong>e che v<strong>al</strong>orizzi le capacità e le competenze individu<strong>al</strong>i.<br />

Per<strong>al</strong>tro, questo binomio sottintende l’idea che fra i due concetti vi sia un legame stretto.<br />

Che, dunque, il benessere favorisca la libertà. E, reciprocamente, la libertà favorisca il benessere.<br />

Nell’insieme: che entrambi gli aspetti siano contestu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> disegno – e <strong>al</strong>l’attuazione<br />

– di una società aperta, di un mercato efficiente e regolato, dove le imprese svolgano un<br />

ruolo centr<strong>al</strong>e e riconosciuto.<br />

I risultati della ricerca condotta per il Centro Studi <strong>Confindustria</strong>, presentati più avanti in<br />

modo dettagliato, confermano queste idee. Anche se, com’era prevedibile, riflettono un<br />

clima gener<strong>al</strong>e pervaso – e condizionato – da profonda incertezza. Gli effetti e la percezione<br />

della crisi, infatti, rendono più difficile proiettare benessere e libertà, in una prospettiva<br />

futura, per la società ma anche per le imprese. Per gli individui e per gli imprenditori.<br />

D<strong>al</strong> punto di vista biografico ed economico. Fanno, anzi, emergere un’inquietudine diffusa,<br />

che rafforza la domanda di protezione e le spinte particolariste, ma anche tentazioni di chiusura,<br />

sul mercato e nella vita quotidiana. Mentre complica le relazioni fra la società e l’impresa.<br />

Ma anche tra le persone. E fra le imprese, <strong>al</strong> loro interno. Per <strong>al</strong>tro verso, <strong>al</strong>imentano<br />

la richiesta, presso gli imprenditori, di riforme e la spinta ad innovare, per superare le difficoltà<br />

e i rischi di questa fase.<br />

Vediamo più da vicino come si delineano questi orientamenti.<br />

8.1 IL BENESSERE RENDE (PIÙ) LIBERI<br />

La percezione di libertà, anzitutto, è condivisa da una larghissima parte della società (otto<br />

persone su dieci), in tutti i settori, soprattutto se v<strong>al</strong>utata in prospettiva storica e biografica:<br />

negli ultimi vent’anni. Unica zona grigia: il mercato del lavoro, secondo la popolazione. Il<br />

che suggerisce il legame stretto fra libertà e benessere. Le preoccupazioni relative <strong>al</strong>l’occupazione,<br />

cioè, oscurano anche il senso di libertà. Comunque, lo ridimensionano.<br />

Ilvo Diamanti, Professore <strong>al</strong>l’Università di Urbino e responsabile di Demos & Pi.<br />

Ludovico Gardani, Ricercatore di Demos & Pi.<br />

Paolo Gurisatti, Ricercatore di Demos & Pi.<br />

223<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

In gener<strong>al</strong>e, però, la soddisfazione circa il benessere conquistato risulta ampia. Infatti, sei<br />

persone su dieci ritengono che sia maggiore di vent’anni fa. Tuttavia, è significativa anche<br />

la quota di persone che manifesta dubbi, <strong>al</strong> proposito. Soprattutto nelle aree territori<strong>al</strong>i (il<br />

Mezzogiorno) dove i problemi dello sviluppo restano seri. E tra le componenti della società<br />

più svantaggiate.<br />

La sensazione – ma anche la convinzione – che i genitori abbiano lasciato ai figli una società<br />

più libera, dove il benessere è cresciuto, appare, comunque, ampia. Fra i cittadini, ma<br />

anche fra gli imprenditori, più o meno in egu<strong>al</strong> misura.<br />

Risulta chiaro il riconoscimento del ruolo svolto d<strong>al</strong>l’industria. Il cui contributo <strong>al</strong>lo sviluppo<br />

territori<strong>al</strong>e è considerato importante d<strong>al</strong>la maggior parte dei cittadini, oltre sei su<br />

dieci. La stessa quota di persone che lo v<strong>al</strong>uta <strong>al</strong>trettanto essenzi<strong>al</strong>e in prospettiva. Nella certezza,<br />

cioè, che l’industria, dopo aver favorito l’economia e il benessere in passato, sia ancora<br />

in grado di svolgere un ruolo an<strong>al</strong>ogo, in <strong>futuro</strong>.<br />

Anche il rapporto tra società e impresa appare solido. Soprattutto se si fa riferimento <strong>al</strong> settore<br />

più largo e caratterizzante la nostra economia. Quello delle piccole aziende. Guardato<br />

con fiducia da quasi sette persone su dieci. Un atteggiamento positivo, che appare in crescita<br />

ulteriore rispetto a un anno fa. Come la scelta del lavoro in proprio oppure da libero<br />

professionista, come riferimento profession<strong>al</strong>e preferito su cui investire per sé e i propri figli.<br />

Ciò conferma quanto sia ancora ampia la fiducia nell’imprenditore non solo in quanto figura<br />

«re<strong>al</strong>e» del mercato del lavoro, ma anche come «modello»: aspirazione e v<strong>al</strong>ore, nella<br />

vita individu<strong>al</strong>e e nell’attività economica.<br />

Questo orientamento appare direttamente connesso, nella popolazione, a una concezione<br />

dell’impresa esplicitamente rivolta <strong>al</strong> «bene comune». Infatti, oltre due persone su tre pensano<br />

che la «missione» imprenditori<strong>al</strong>e non possa limitarsi <strong>al</strong> profitto, ma debba <strong>al</strong>largarsi,<br />

a favore e a sostegno della società e del territorio in cui opera.<br />

Questo aspetto, inoltre, fa emergere una differenza, se non divergenza, rispetto <strong>al</strong>l’atteggiamento<br />

degli imprenditori. Secondo i qu<strong>al</strong>i – nella maggioranza, <strong>al</strong>meno – le imprese<br />

debbono puntare, anzitutto, <strong>al</strong> profitto. Ma senza danneggiare il territorio e la società. Invertendo,<br />

cioè, l’ordine dei fattori. E ponendo l’impresa, invece della società, come variabile<br />

indipendente.<br />

224


Disegno e metodo della ricerca<br />

Questo rapporto si basa su una ricerca condotta da Demos & Pi 1 su incarico del Centro<br />

Studi di <strong>Confindustria</strong>.<br />

La ricerca è stata re<strong>al</strong>izzata attraverso due distinte rilevazioni, effettuate fra i mesi di<br />

gennaio e febbraio 2010. I dati raccolti sono stati successivamente trattati ed elaborati<br />

in forma del tutto anonima.<br />

La prima rilevazione si basa su un campione probabilistico di imprenditori, titolari di<br />

imprese, con 10 e più addetti, iscritte <strong>al</strong>le associazioni territori<strong>al</strong>i di <strong>Confindustria</strong>. Il<br />

campione di 620 unità, è stato stratificato per settore di attività, classe dimension<strong>al</strong>e<br />

e area geografica. La rilevazione è stata re<strong>al</strong>izzata attraverso interviste telefoniche (metodo<br />

CATI (Computer Assisted Telephone Interviewing – supervisione Claudio Zilio)<br />

d<strong>al</strong>la società Demetra, fra il 5 e il 17 febbraio 2010.<br />

La seconda rilevazione ha coinvolto un campione probabilistico, statisticamente rappresentativo<br />

della popolazione adulta (15 anni e più) residente in It<strong>al</strong>ia. Il campione<br />

di 2.206 casi, è stato stratificato per genere, classe di età, area geografica e successivamente<br />

ponderato per livello d’istruzione. Le interviste sono state effettuate attraverso<br />

un sondaggio telefonico condotto con il metodo CATI (supervisione di Mirko Pace),<br />

d<strong>al</strong>la società di rilevazione Demetra, fra il 26 gennaio e l’ 8 febbraio 2010.<br />

1. Il progetto è stato diretto da Ilvo Diamanti. Ludovico Gardani e Fabio Bordignon hanno curato la parte metodologica e organizzativa.<br />

Paolo Gurisatti ha preso parte <strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi dei risultati relativi agli imprenditori. Martina Di Pierdomenico ha partecipato<br />

<strong>al</strong>l’elaborazione dei dati.<br />

8.2 SE IL FUTURO SI ACCORCIA<br />

Al di là della comprensibile, oltre che prevedibile, differenza di «punti di vista» (in senso letter<strong>al</strong>e),<br />

questa distinzione è significativa, perché, in una certa misura, riflette gli effetti delle<br />

tendenze in atto sul piano economico e dei mercati, ma anche sugli atteggiamenti. Rispecchia,<br />

cioè, le conseguenze della crisi glob<strong>al</strong>e, che ha coinvolto gli attori economici e le persone;<br />

i mercati e la vita quotidiana; le strategie degli imprenditori e quelle delle famiglie.<br />

Potremmo riassumere queste tendenze nella formula, per<strong>al</strong>tro nota, della sindrome da «accorciamento<br />

del <strong>futuro</strong>». Che <strong>al</strong>imenta incertezza soggettiva, accentuando le divisioni, ma<br />

anche diffidenza e domanda di protezione. La difficoltà di «guardare lontano» è chiarita da<br />

<strong>al</strong>cuni segn<strong>al</strong>i, molto evidenti. La percezione circa il <strong>futuro</strong> dei giovani, in particolare, è sicuramente<br />

– e re<strong>al</strong>isticamente – pessimista. Solo due persone su dieci ritengono che riusciranno<br />

a conquistarsi una posizione soci<strong>al</strong>e migliore o <strong>al</strong>meno ugu<strong>al</strong>e rispetto ai loro genitori.<br />

Quasi sei, invece, vedono il <strong>futuro</strong> dei figli molto scuro.<br />

225<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Lo pensano soprattutto i genitori e, ancor più, i nonni. D’<strong>al</strong>tronde, è comprensibile il pessimismo<br />

di chi ha il <strong>futuro</strong> <strong>al</strong>le sp<strong>al</strong>le. Ma gli imprenditori dimostrano, <strong>al</strong> proposito, una visione<br />

anche peggiore. Visto che, tra loro, poco più di uno su dieci attribuisce ai giovani<br />

chance di migliorare o <strong>al</strong>meno di confermare la condizione dei genitori. Natur<strong>al</strong>mente, questa<br />

differenza – dentro uno scenario incerto – riflette il diverso punto di osservazione delle<br />

persone, dettato d<strong>al</strong>la condizione e d<strong>al</strong>l’esperienza specifica. Così, gli imprenditori, che<br />

hanno comunque raggiunto una posizione significativa, vedono – ragionevolmente – difficile<br />

che i figli riescano a re<strong>al</strong>izzare un ulteriore avanzamento, nella sc<strong>al</strong>a che definisce la mobilità<br />

soci<strong>al</strong>e. Tanto più che le stesse imprese, in questa fase, attraversano difficoltà rilevanti.<br />

Per cui si propongono, re<strong>al</strong>isticamente, di aiutare i figli a mantenere, <strong>al</strong>meno, la posizione<br />

raggiunta dai genitori. Cioè: la propria. E contano di riuscirci. D’<strong>al</strong>tra parte, gli imprenditori<br />

hanno una vocazione «pratica» e «individu<strong>al</strong>ista». La loro sfiducia nel sistema corre par<strong>al</strong>lela<br />

<strong>al</strong>la loro fiducia in se stessi. Nella loro capacità di reagire <strong>al</strong>le emergenze e <strong>al</strong>le sfide.<br />

Un <strong>al</strong>tro segn<strong>al</strong>e di fatica nel progettare e prima ancora immaginare il <strong>futuro</strong> è offerto d<strong>al</strong>la<br />

previsione sui tempi della crisi. Che, nella rappresentazione di tutti, si stanno <strong>al</strong>lungando<br />

sempre di più. Il 39,8 per cento della popolazione e il 26,5 per cento degli imprenditori sostengono<br />

che se ne uscirà non prima di due anni. Il 27,8 per cento della popolazione e il<br />

36,7 per cento degli imprenditori entro un anno. Il che sottolinea come la preoccupazione<br />

della crisi, attu<strong>al</strong>mente, sia estesa, senza tuttavia tracimare in un atteggiamento di panico.<br />

La situazione, in <strong>al</strong>tri termini, appare seria. Ma non grave. Né drammatica.<br />

In particolare, è interessante osservare come la popolazione sia più pessimista degli imprenditori.<br />

Per diverse e comprensibili ragioni. Nello specifico: perché di fronte <strong>al</strong>la crisi la<br />

popolazione si sente – ed è – molto più vulnerabile rispetto agli imprenditori. Ha strumenti<br />

molto più limitati per affrontarne – e per comprenderne – gli effetti. D’<strong>al</strong>tra parte, metà degli<br />

imprenditori lamenta una perdita di competitività dell’It<strong>al</strong>ia rispetto agli <strong>al</strong>tri paesi europei,<br />

mentre solo il 29,6 per cento di essi immagina che sia possibile recuperare questo ritardo nei<br />

prossimi anni. A conferma inequivocabile che, nella percezione degli attori del mercato, la<br />

performance del nostro paese, sul piano internazion<strong>al</strong>e, risulta deludente. Anche se la quota<br />

di quanti prevedono una ripresa della competitività, nel <strong>futuro</strong> prossimo, s<strong>al</strong>e sensibilmente<br />

(52,5%) se ci si riferisce non <strong>al</strong> sistema delle aziende «it<strong>al</strong>iane», ma <strong>al</strong>la «propria» impresa.<br />

Un <strong>al</strong>tro segno del divario fra l’esperienza e la percezione. Dettata, in parte, d<strong>al</strong>la comunicazione.<br />

8.3 GLI EFFETTI DELLA CRISI<br />

Gli effetti prodotti d<strong>al</strong>l’esperienza e d<strong>al</strong>la rappresentazione della crisi appaiono evidenti su<br />

tre diversi piani, molto importanti.<br />

226


Il primo è il rapporto con lo Stato e con il «pubblico». Che continua a essere disturbato da<br />

una sfiducia radicata e profonda. Ma viene comunque rivendicato, sempre più spesso, anche<br />

se in funzione supplente e gregaria. Come stampella, barelliere, pronto soccorso. Uno Stato<br />

di emergenza in un Paese per cui l’emergenza è una norma.<br />

Va chiarito, anzitutto, come tutti – cittadini e imprenditori – invochino, in larga maggioranza<br />

(oltre il 60,0 per cento in entrambi i casi) maggiore concorrenza per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia<br />

it<strong>al</strong>iana. Il che sottolinea la fiducia negli effetti positivi prodotti da un mercato<br />

più aperto e regolato. Tuttavia, più di nove persone su dieci ritengono necessario l’intervento<br />

dello Stato sull’economia e sul mercato. In particolare, il 36,0 per cento: sempre, in<br />

ogni caso. Gli imprenditori esprimono, <strong>al</strong> proposito, un atteggiamento più aperto e liberista,<br />

visto che tre su quattro chiedono il ricorso <strong>al</strong>lo Stato solo in condizioni di necessità.<br />

Cioè: quando ce n’è davvero bisogno.<br />

Per<strong>al</strong>tro, occorre sottolineare la grande domanda di riformare il mercato del lavoro, espressa<br />

da oltre metà della popolazione. La qu<strong>al</strong>e riflette, probabilmente, una richiesta diversa e<br />

perfino inversa rispetto <strong>al</strong> passato. Volta, cioè, a ridurre e a contrastare le misure che ne<br />

hanno accentuato la flessibilità. E ciò costituisce un’ulteriore differenza di atteggiamento rispetto<br />

agli imprenditori, i qu<strong>al</strong>i vorrebbero, semmai, un mercato del lavoro ancora più flessibile.<br />

Almeno per certi aspetti.<br />

Il secondo effetto della crisi riguarda il rapporto con il «mondo» e con la glob<strong>al</strong>izzazione.<br />

Percepito con molta apprensione e molto timore. Dai cittadini: il 59,8 per cento dei qu<strong>al</strong>i<br />

chiede una politica esplicitamente «protezionista» (dieci punti percentu<strong>al</strong>i più di un anno<br />

fa). Ma anche – per quanto in misura minore – d<strong>al</strong>le imprese (il 49,0%). Soprattutto da quelle<br />

che esportano su mercati dove appare più forte la concorrenza delle economie dei paesi<br />

emergenti. E in particolar modo della Cina. Riferimento ed emblema delle preoccupazioni<br />

che, in questa fase, turbano gli attori del mercato (e non solo).<br />

Anche nei confronti delle strategie di deloc<strong>al</strong>izzazione fra i cittadini emergono timori molto<br />

acuti e diffusi. Il 45,2 per cento della popolazione, infatti, considera la deloc<strong>al</strong>izzazione<br />

negativamente, senza se e senza ma. Una fuga. Mentre una quota an<strong>al</strong>oga la ritiene utile<br />

solo agli interessi degli imprenditori.<br />

Una preoccupazione, per<strong>al</strong>tro, presente anche fra gli imprenditori, i qu<strong>al</strong>i debbono, probabilmente,<br />

affrontare la concorrenza crescente delle economie emergenti negli stessi paesi<br />

dove deloc<strong>al</strong>izzano. E ancor di più, fra gli imprenditori più piccoli, che operano sul mercato<br />

interno e vengono, a loro volta, tagliati fuori oppure svantaggiati d<strong>al</strong>la deloc<strong>al</strong>izzazione.<br />

Anche l’atteggiamento verso l’immigrazione riflette questo clima di incertezza. Non perché<br />

gli immigrati suscitino maggior timore che nel passato. Al contrario: si assiste a un atteggiamento<br />

più disponibile verso gli stranieri. Soprattutto fra gli imprenditori. I qu<strong>al</strong>i, tuttavia,<br />

li considerano utili soprattutto a svolgere mansioni poco qu<strong>al</strong>ificate. Anche se la quota che<br />

227<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

richiede figure speci<strong>al</strong>izzate è, comunque, significativa e sottolinea il crescente deficit di<br />

questa componente sul mercato del lavoro. Presso la popolazione, invece, gli immigrati<br />

sono visti, prev<strong>al</strong>entemente, come una risorsa «assistenzi<strong>al</strong>e». A sostegno della famiglia,<br />

nella cura e nella custodia dei figli e degli anziani.<br />

Il terzo orientamento che rispecchia gli effetti «difensivi» prodotti d<strong>al</strong>la crisi riguarda il <strong>futuro</strong><br />

stesso delle imprese. La loro ri-generazione, nel passaggio da una generazione <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra. Una<br />

questione importante, rispetto <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e, nella popolazione, si preferirebbe un cambiamento<br />

sensibile di modello: d<strong>al</strong>l’impresa familiare <strong>al</strong>l’impresa manageri<strong>al</strong>e. Dove, cioè, la guida sia<br />

affidata a tecnici esterni <strong>al</strong>la proprietà familiare. Fra gli imprenditori, <strong>al</strong> contrario, in breve<br />

tempo, hanno acquistato sensibilmente peso le posizioni volte a «conservare» la governance<br />

<strong>al</strong>l’interno della famiglia stessa. Mentre si è ridotta sensibilmente l’apertura a soluzioni che<br />

v<strong>al</strong>orizzino il ricorso a risorse esterne <strong>al</strong>la famiglia. D<strong>al</strong> punto di vista del management e dei<br />

capit<strong>al</strong>i azionari. Tuttavia, va sottolineato come l’importanza attribuita <strong>al</strong>la famiglia costituisca<br />

uno specifico it<strong>al</strong>iano, che accomuna società e imprese. Che ne hanno fatto un riferimento<br />

organizzativo e pratico. Come risorsa e difesa, complementare e t<strong>al</strong>ora compensativa<br />

e perfino concorrente rispetto <strong>al</strong>lo Stato. Il ruolo della famiglia, per<strong>al</strong>tro, aumenta ogni volta<br />

che la crisi e l’incertezza incombono. Come in questa fase, appunto. Quando svolge funzioni<br />

di protezione e tutela, per le persone. Mentre, <strong>al</strong>le aziende, consente di accelerare – e accentrare<br />

– le decisioni (e le reazioni), di fronte a un ambiente incerto e instabile.<br />

8.4 INNOVARE PER RESISTERE. ED ESISTERE<br />

Se questi sono i timori – e nonostante questi timori – occorre osservare che gli imprenditori<br />

it<strong>al</strong>iani, nella gran parte, non si sono rannicchiati nella difesa, immobile, delle loro posizioni<br />

di mercato. La testa girata <strong>al</strong>l’indietro, verso il passato.<br />

In particolare: hanno reagito, in larghissima maggioranza, attraverso la via dell’innovazione.<br />

Di prodotto e di processo. Ma anche attuando nuove strategie commerci<strong>al</strong>i e di marketing,<br />

proponendosi su nuovi mercati internazion<strong>al</strong>i. Puntando anzitutto sulla qu<strong>al</strong>ità del prodotto,<br />

assai più che sulla leva del prezzo. Secondo la tradizione del made in It<strong>al</strong>y.<br />

Quanto <strong>al</strong> rapporto con il governo, le imprese continuano a chiedere di migliorare l’efficienza<br />

della PA e, prima ancora, di ridurre il carico fisc<strong>al</strong>e.<br />

La crisi, d’<strong>al</strong>tra parte, non ha irrigidito neppure la società it<strong>al</strong>iana. Per quanto pervasa d<strong>al</strong>le<br />

tensioni prodotte dai problemi dell’occupazione e del mercato, larga parte degli it<strong>al</strong>iani accetta<br />

il «merito» come requisito princip<strong>al</strong>e per la retribuzione e la carriera nel lavoro. E considera<br />

«l’impegno person<strong>al</strong>e» il mezzo princip<strong>al</strong>e per affermarsi nella vita. Atteggiamenti<br />

che caratterizzano soprattutto le persone più giovani e più istruite. (Nell’era dell’immagine<br />

dei «grandi fratelli» e degli «amici» non è scontato né irrilevante).<br />

228


Ancora, come abbiamo visto, la concorrenza è entrata nel lessico comune come un v<strong>al</strong>ore<br />

condiviso. E, spesso, le chiusure degli atteggiamenti appaiono contraddette dai comportamenti<br />

e d<strong>al</strong>le aspettative concrete e soggettive. Per cui, si dichiara sfiducia nella competitività del sistema<br />

economico nazion<strong>al</strong>e, mentre c’è fiducia in quella della propria impresa. Oppure: si<br />

considera infelice la società it<strong>al</strong>iana, ma otto persone su dieci si dicono person<strong>al</strong>mente felici.<br />

Da ciò l’idea di un paese incerto, diviso, scosso da timori e tentato d<strong>al</strong> particolarismo familista<br />

e loc<strong>al</strong>ista. Eppure capace di reagire, di rispondere, come ha fatto in passato, investendo,<br />

anzitutto sulle energie person<strong>al</strong>i e imprenditive. Costretto a fare i conti sempre con l’emergenza.<br />

Ma in grado, proprio nell’emergenza, di dare il meglio di sé. Una particolarità e uno<br />

specifico nazion<strong>al</strong>e sul qu<strong>al</strong>e occorre, forse, interrogarsi. Perché non è detto che si riesca sempre<br />

– e necessariamente – a farcela da soli e nonostante gli <strong>al</strong>tri. Soprattutto in tempi di crisi.<br />

Difficile, per questo, non riconoscere gli echi dell’indagine condotta e presentata lo scorso<br />

anno. Da cui emergeva, sullo sfondo, la questione della «politica». In particolare, i limiti dei<br />

soggetti pubblici e degli attori politici. Senza i qu<strong>al</strong>i appare impossibile agire con efficacia<br />

sui limiti dello sviluppo, a livello gener<strong>al</strong>e e territori<strong>al</strong>e. Tuttavia, come è stato messo in luce<br />

da questa ricerca, le difficoltà della politica riflettono anche le difficoltà degli imprenditori<br />

stessi ad affrontarle. In particolar modo, superando la tentazione – e la propensione – a «far<br />

da sé» e «da soli». Di guardare la sfera pubblica, le istituzioni, la politica come un mondo<br />

«<strong>al</strong>tro». A scindere – o comunque distinguere – l’interesse nazion<strong>al</strong>e da quello particolare.<br />

Per superare i limiti dello sviluppo (quelli propri), per contare, per avere rappresentanza.<br />

Da soli non si può. Oggi meno che mai.<br />

8.5 QUATTRO TIPI DI IMPRESE<br />

Qu<strong>al</strong> è il punto di vista degli imprenditori it<strong>al</strong>iani a proposito dello scenario economico e<br />

delle strategie di intervento più urgenti per uscire d<strong>al</strong>la crisi? Prima di rispondere, sulla base<br />

dei risultati della ricerca, è utile tracciare un rapido profilo delle imprese considerate nell’indagine.<br />

È probabile infatti che gli imprenditori esprimano la propria opinione in rapporto<br />

a quanto osservano nell’ambiente competitivo della propria azienda.<br />

Le imprese del campione sono distribuite in tutte le classi dimension<strong>al</strong>i, con una maggiore<br />

concentrazione <strong>al</strong> di sotto dei cinquanta dipendenti.<br />

Per il 43,0 per cento sono inserite nei settori manifatturieri diversi d<strong>al</strong>la meccanica, per il 27,0 per<br />

cento nella meccanica, per il 22,0 per cento nei servizi e per l’8,0 per cento nelle costruzioni.<br />

D<strong>al</strong> punto di vista del posizionamento competitivo la maggioranza delle imprese è poco<br />

esposta <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e. Il 35,3 per cento dichiara di operare esclusivamente<br />

sul mercato interno, mentre il 24,0 per cento esporta meno di un quarto del fatturato.<br />

229<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Circa un terzo è invece molto esposto sui mercati esteri: il 22,1 per cento esporta più di un<br />

quarto del fatturato e dichiara di avere i concorrenti princip<strong>al</strong>i nei paesi avanzati, mentre il<br />

10,6 per cento esporta, sempre più di un quarto del fatturato, ma è esposto <strong>al</strong>la concorrenza<br />

dei paesi emergenti (Tabella 8.1).<br />

Il campione di imprenditori intervistato (74,0% uomini e 26,0% donne) è quindi rappresentativo<br />

di diversi segmenti di industria e servizi it<strong>al</strong>iani, più e meno soggetti <strong>al</strong>la concorrenza<br />

internazion<strong>al</strong>e ed esprime opinioni che, in molto casi, sono condizionate<br />

inevitabilmente d<strong>al</strong> contesto competitivo in cui opera l’azienda di cui sono responsabili.<br />

Gli imprenditori più esposti <strong>al</strong>la competizione internazion<strong>al</strong>e (soprattutto quella «dura» dei<br />

paesi emergenti), ad esempio, guardano <strong>al</strong> <strong>futuro</strong> e <strong>al</strong> sistema-Paese con maggiore apprensione<br />

e attendono provvedimenti che vadano <strong>al</strong>la radice della minore competitività del Paese<br />

(Grafico 8.1).<br />

Tabella 8.1 - Chi esporta e chi è esposto <strong>al</strong>la concorrenza<br />

(V<strong>al</strong>ori % sul campione)<br />

Febbraio 2010<br />

Esportatori in concorrenza con la Cina e <strong>al</strong>tri paesi emergenti 10,6<br />

Esportatori in concorrenza con paesi avanzati 22,1<br />

Esportatori per meno del 25% del fatturato 24,0<br />

Operatori del mercato interno 35,3<br />

Altre 8,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Grafico 8.1 - Un <strong>futuro</strong> di scarsi guadagni competitivi<br />

(% di imprenditori che si attendono una maggiore competitività<br />

della nostra industria manifatturiera nei prossimi 5 anni)<br />

29,6<br />

14,4<br />

Tutti Esportatori<br />

in concorrenza con la Cina<br />

e <strong>al</strong>tri paesi emergenti<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi)<br />

230<br />

26,3<br />

Esportatori<br />

in concorrenza con<br />

paesi avanzati<br />

31,9<br />

Esportatori<br />

per meno del 25%<br />

del fatturato<br />

33,7<br />

Operatori del mercato<br />

interno


Nell’an<strong>al</strong>isi che segue utilizziamo quattro «tipologie di imprese», come rappresentative di<br />

<strong>al</strong>trettante «condizioni struttur<strong>al</strong>i» in cui si trovano gli imprenditori intervistati:<br />

la prima tipologia è costituita da imprese capofila collocate in prev<strong>al</strong>enza nei settori manifatturieri<br />

del made in It<strong>al</strong>y, che mantengono un profilo organizzativo tradizion<strong>al</strong>e;<br />

la seconda è formata da imprese capofila, collocate in maggiore misura nella meccanica<br />

o nella chimica, che si orientano verso modelli organizzativi più «sofisticati»;<br />

la terza comprende imprese capofila di piccola dimensione e imprese di fornitura (in<br />

conto terzi), con una dimensione organizzativa intermedia;<br />

la quarta comprende operatori dei servizi e delle costruzioni (che tradizion<strong>al</strong>mente non<br />

esportano) e fornitori di prodotti industri<strong>al</strong>i poco esposti <strong>al</strong>la competizione esterna.<br />

Ciascuna di queste tipologie di impresa affronta la crisi in modo specifico e opta per soluzioni<br />

strategiche e misure da parte del governo che possono differire anche di molto d<strong>al</strong>la<br />

media gener<strong>al</strong>e dell’industria.<br />

La ricerca conferma che la riv<strong>al</strong>utazione dell’euro 1 e la pesantezza della crisi glob<strong>al</strong>e stanno<br />

esercitando una pressione quasi insostenibile sulla prima tipologia (quella aperta agli scambi<br />

internazion<strong>al</strong>i e in concorrenza con i paesi emergenti). Ne consegue che molti imprenditori<br />

collocati <strong>al</strong> suo interno chiedono interventi di emergenza e politiche protezioniste in misura<br />

superiore <strong>al</strong>la media.<br />

Diversa è la pressione percepita d<strong>al</strong>la seconda. Imprese aperte agli scambi internazion<strong>al</strong>i che<br />

si confrontano con concorrenti dei paesi avanzati si aspettano provvedimenti in materia di<br />

investimenti <strong>al</strong>l’estero e supporto <strong>al</strong>l’innovazione, in misura superiore <strong>al</strong>la media. Diverse<br />

ancora sono la pressione esercitata sulle <strong>al</strong>tre due tipologie di imprese e la loro aspettativa<br />

di politiche per la ripresa.<br />

È possibile che si vada verso una progressiva divaricazione di interessi e di posizioni, <strong>al</strong>l’interno<br />

del mondo imprenditori<strong>al</strong>e, tra la componente più esposta <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e<br />

e l’<strong>al</strong>tra, più protetta? È possibile che simili tensioni si trasformino in posizioni<br />

politiche differenziate o divergenti strategie di governo? È un’ipotesi da esplorare.<br />

1. Che notoriamente produce prezzi relativi favorevoli <strong>al</strong>le importazioni e rende invece più difficile l’export.<br />

231<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

8.6 LA CRISI LUNGA E IL RUOLO GUIDA DELL’INDUSTRIA<br />

È ormai opinione ampiamente condivisa che il profilo dell’industria it<strong>al</strong>iana e la sua posizione<br />

nella divisione internazion<strong>al</strong>e abbiano cominciato a modificarsi dopo l’introduzione dell’euro.<br />

La forte riv<strong>al</strong>utazione della moneta europea e la concorrenza estera stanno costringendo<br />

una parte della nostra industria ad attuare pesanti processi di ristrutturazione. Solo <strong>al</strong>la fine<br />

degli anni Ottanta e nei primissimi Novanta si era assistito a una situazione an<strong>al</strong>oga e, quella<br />

volta, la sv<strong>al</strong>utazione della lira aveva attutito gli effetti più negativi dei processi di ristrutturazione.<br />

Nel 2010 la prospettiva di una sv<strong>al</strong>utazione non è disponibile e i provvedimenti delle imprese<br />

e del governo devono essere più «chirurgici» e «struttur<strong>al</strong>i».<br />

Nell’ultimo anno, <strong>al</strong>le tensioni struttur<strong>al</strong>i di cambiamento si è inoltre aggiunta una crisi di<br />

domanda che, per caratteristiche e intensità, trova un p<strong>al</strong>lido antecedente soltanto nella<br />

congiuntura del 1974 (quella che ha sollecitato il decollo dei distretti industri<strong>al</strong>i e decretato<br />

il declino del modello di grande industria taylorizzata).<br />

In un simile contesto non rappresenta una sorpresa rilevare una diffusa cautela tra gli imprenditori<br />

circa la competitività del sistema-Paese, la tenuta della manifattura e la durata<br />

della crisi.<br />

Il 46,9 per cento ritiene che la competitività dell’It<strong>al</strong>ia rispetto agli <strong>al</strong>tri paesi europei sia diminuita<br />

negli ultimi tre anni, mentre solo il 16,3 per cento pensa che sia aumentata (Tabella<br />

8.2). Nei prossimi cinque anni appena il 30,3 per cento degli intervistati prevede un recupero<br />

di competitività, mentre il 27,3 per cento si attende un’ulteriore riduzione di competitività<br />

del sistema-Paese rispetto <strong>al</strong>la media europea.<br />

Tabella 8.2 - Lei ritiene che la competitività dell’It<strong>al</strong>ia nei confronti degli <strong>al</strong>tri paesi<br />

europei, rispetto a tre anni fa, sia:<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

232<br />

Febbraio 2010<br />

Aumentata 16,3<br />

Rimasta ugu<strong>al</strong>e 33,7<br />

Diminuita 46,9<br />

Non sa / Non risponde 3,1<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).


Come già detto la maggioranza dei nostri imprenditori si muove nel contesto meno esposto<br />

del mercato nazion<strong>al</strong>e oppure in quello più concorrenzi<strong>al</strong>e del mercato unico europeo (Tabella<br />

8.3). E su questo mercato conta di ricavare lo spazio e le risorse necessarie a uscire d<strong>al</strong>la<br />

crisi 2 . Tuttavia il 19,6 per cento del campione avverte la concorrenza crescente di imprenditori<br />

cinesi (14,6%) e degli <strong>al</strong>tri paesi emergenti (5,0%). Non si tratta di operatori del mercato<br />

interno che sentono l’invasione di prodotti importati, ma soprattutto di esportatori che sentono<br />

la pressione competitiva degli emergenti in Europa e nelle nuove aree di mercato.<br />

Tabella 8.3 - I suoi princip<strong>al</strong>i concorrenti stranieri a qu<strong>al</strong>e paese appartengono?<br />

(V<strong>al</strong>ori % della «prima scelta», in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa)<br />

TIPOLOGIA DI IMPRESA<br />

Esportatori Esportatori Esportatori Operatori Tutti<br />

in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato<br />

con la Cina con paesi del fatturato interno<br />

e gli <strong>al</strong>tri avanzati<br />

paesi emergenti<br />

Regno Unito --- 4,6 2,9 0,9 2,3<br />

Cina 72,0 --- 21,0 5,0 14,6<br />

India 4,6 --- 0,8 0,2 0,8<br />

Brasile 2,1 --- --- 0,7 0,5<br />

Germania --- 45,7 20,5 5,8 17,2<br />

Francia --- 20,8 6,5 4,3 7,7<br />

Spagna --- 9,0 5,2 0,9 3,6<br />

Stati Uniti --- 11,5 4,0 0,8 4,3<br />

Altri paesi emergenti 21,3 --- 3,1 1,6 3,7<br />

Altri paesi avanzati 8,3 2,1 3,4 3,5<br />

Non ha concorrenti stranieri --- --- 31,9 75,1 40,8<br />

Non sa / Non risponde --- --- 2,1 1,2 1,2<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Sulla base delle informazioni disponibili <strong>al</strong>l’interno del contesto competitivo in cui operano,<br />

gli imprenditori it<strong>al</strong>iani prevedono una ripresa lenta. La crisi sarà lunga e non finirà<br />

prima di uno o due anni. Quasi i due terzi degli intervistati concorda con questo pronostico<br />

(Tabella 8.4).<br />

2. Alla domanda I suoi princip<strong>al</strong>i concorrenti a qu<strong>al</strong>e paese appartengono? il 41,0 per cento risponde citando <strong>al</strong>tri imprenditori it<strong>al</strong>iani<br />

e il 34,0 per cento imprenditori europei (Germania 17,2%, Francia 7,7%, Spagna 3,6%, Regno Unito 2,3% e <strong>al</strong>tri avanzati 3,5%). Solo<br />

il 4,3 per cento cita concorrenti USA.<br />

233<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Tabella 8.4 - Secondo Lei, quando finirà l’attu<strong>al</strong>e crisi economica?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Febbraio 2010 Gennaio 2010<br />

(Imprese) (Popolazione)<br />

Entro sei mesi 8,7 6,3<br />

Entro un anno 28,0 21,5<br />

Entro due anni 30,8 25,7<br />

Tra più di due anni 26,5 39,8<br />

È già finita 0,9 0,7<br />

Non sa / Non risponde 5,0 6,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

A proposito della manifattura il giudizio è critico. Il 38,6 per cento degli intervistati ritiene<br />

che, tra cinque anni, la competitività dell’industria manifatturiera it<strong>al</strong>iana sarà peggiorata,<br />

il 23,3 per cento pensa che resterà «ugu<strong>al</strong>e» e meno del 30,0 per cento che sarà migliorata<br />

(Tabella 8.5) 3 .<br />

Quanto più vicini sono gli intervistati <strong>al</strong>la prima tipologia di impresa (quella esposta <strong>al</strong>la concorrenza<br />

dei paesi emergenti) e <strong>al</strong> manifatturiero, tanto più critico è il loro giudizio.<br />

La Cina spaventa questi imprenditori in misura superiore <strong>al</strong>la media gener<strong>al</strong>e e spinge ad atteggiamenti<br />

protezionistici. La Cina fa inoltre paura nel Nord Ovest più della media (in un<br />

territorio complessivamente più esposto degli <strong>al</strong>tri <strong>al</strong>la competizione internazion<strong>al</strong>e, ma caratterizzato<br />

da una maggior presenza di grandi imprese) e non invece, come ci si poteva<br />

aspettare, nel Nord Est o nel Centro, in cui prev<strong>al</strong>gono piccole imprese e distretti maggiormente<br />

esposti <strong>al</strong>la concorrenza di prezzo dei paesi emergenti.<br />

Il nuovo scenario competitivo è dunque una dura re<strong>al</strong>tà da un lato e una questione politica<br />

aperta d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro.<br />

Gli imprenditori percepiscono che il Paese dovrà affrontare una crisi lunga, una ristrutturazione<br />

di sistema e simpatizzano, nel 49,0 per cento dei casi, per il ricorso a provvedimenti<br />

protezionistici nei confronti dei paesi più aggressivi nel settore manifatturiero.<br />

3. A scanso di equivoci sulla questione del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, interpretiamo la posizione intermedia come giudizio<br />

negativo sulla competitività. Riteniamo che le risposte siano date pensando <strong>al</strong>la situazione attu<strong>al</strong>e, che non è certamente favorevole<br />

<strong>al</strong>la nostra industria.<br />

234


Tabella 8.5 - La competitività futura delle imprese e del manifatturiero<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa)<br />

8.7 UNA NUOVA INDUSTRIA PER BATTERE LA CRISI<br />

TIPOLOGIA DI IMPRESA<br />

Esportatori Esportatori Esportatori Operatori Tutti<br />

in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato<br />

con la Cina con paesi del fatturato interno<br />

e gli <strong>al</strong>tri<br />

paesi emergenti<br />

avanzati<br />

COME IMMAGINA LA COMPETITIVITÀ DELLA SUA AZIENDA TRA CINQUE ANNI?<br />

Migliore 43,4 50,6 50,4 57,2 52,5<br />

Ugu<strong>al</strong>e a oggi 27,4 26,8 22,7 21,4 23,5<br />

Peggiore 24,9 19,4 21,3 16,4 19,1<br />

Non ci sarà più 1,0 1,8 0,9 0,3 0,8<br />

Non sa / Non risponde 3,3 1,4 4,7 4,8 4,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

COME IMMAGINA LA COMPETITIVITÀ DEL SETTORE MANIFATTURIERO ITALIANO TRA CINQUE ANNI?<br />

Migliore 14,4 26,3 31,9 33,7 29,6<br />

Ugu<strong>al</strong>e a oggi 30,2 25,0 19,3 23,4 23,3<br />

Peggiore 47,3 45,5 42,0 31,8 38,6<br />

Non sa / Non risponde 8,1 3,2 6,8 11,1 8,5<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Come abbiamo già detto, l’esposizione <strong>al</strong>la crisi e <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e influenza<br />

molto le opinioni degli imprenditori e spinge a diverse strategie di azione.<br />

Fino a ieri pilastro portante del prodotto interno lordo, grazie <strong>al</strong>la dinamica dei distretti e <strong>al</strong>la<br />

crescita delle «imprese medie», la nostra manifattura viene oggi ritenuta un segmento in<br />

difficoltà dell’economia e, a partire dagli stessi imprenditori che in essa sono impegnati,<br />

viene sollecitata a cambiare «modulo», per non limitare i percorsi di crescita.<br />

Osserviamo nel dettaglio qu<strong>al</strong>i sono le princip<strong>al</strong>i strategie di intervento che gli imprenditori<br />

suggeriscono e qu<strong>al</strong>i sono i fattori che essi ritengono decisivi per il successo della loro impresa.<br />

In gener<strong>al</strong>e gli imprenditori it<strong>al</strong>iani puntano a strategie di innovazione di prodotto e di processo<br />

(questi tipi di strategia riguardano quasi il 90,0 per cento dei casi). Poi scelgono una<br />

maggiore aggressività commerci<strong>al</strong>e (86,6%) e l’entrata in nuovi mercati esteri (64,1%) o gli<br />

investimenti sulla differenziazione del marchio (61,2%). Le strategie di ristrutturazione or-<br />

235<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

ganizzativa, qu<strong>al</strong>i l’inserimento di nuove figure manageri<strong>al</strong>i e l’aggregazione con <strong>al</strong>tre imprese<br />

riscuotono, invece, un consenso minore. Anche la deloc<strong>al</strong>izzazione non è ritenuta<br />

una risposta vincente (solo l’8,7 per cento l’ha già adottata e il 7,5 pensa di adottarla nel<br />

prossimo <strong>futuro</strong>) (Tabella 8.6).<br />

Tabella 8.6 - Per ciascuna delle seguenti strategie aziend<strong>al</strong>i, mi può dire se la sua<br />

impresa l'ha già fatta, se pensa di farla o se non intende farla?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti dichiarano di «averla già adottata» o<br />

«intende adottarla presto», in base <strong>al</strong> settore confindustri<strong>al</strong>e)<br />

SETTORE CONFINDUSTRIALE<br />

Manifatturiero Costruzioni Meccanica Servizi Tutti<br />

Innovazione di prodotto 94,0 72,9 92,7 81,2 89,1<br />

Innovazione di processo 92,8 76,5 93,1 79,2 88,5<br />

Nuove strategie commerci<strong>al</strong>i 85,9 72,8 90,2 88,5 86,6<br />

Entrata in nuovi mercati esteri 72,8 27,9 78,3 43,6 64,1<br />

Inserimento di nuove<br />

profession<strong>al</strong>ità manageri<strong>al</strong>i 62,9 51,4 60,1 63,2 61,3<br />

Investimenti sul marchio 65,2 43,6 60,2 61,3 61,2<br />

Aggregazione con <strong>al</strong>tre imprese,<br />

anche riducendo il controllo 40,9 57,4 52,9 54,7 48,6<br />

Riduzione dell'occupazione 45,5 40,4 42,8 41,3 43,4<br />

Finanziamenti esterni anche<br />

riducendo il controllo 30,8 33,6 31,6 35,2 32,2<br />

Deloc<strong>al</strong>izzazione <strong>al</strong>l'estero<br />

di <strong>al</strong>cune attività produttive 17,6 3,9 21,3 11,7 16,2<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

D’<strong>al</strong>tra parte la qu<strong>al</strong>ità del prodotto è di gran lunga indicata come il fattore di successo princip<strong>al</strong>e<br />

(46,4 per cento del tot<strong>al</strong>e del campione). Più del prezzo (19,4%), del contenuto tecnologico<br />

del prodotto (11,7%) e del marketing (2,1%), che vengono considerati come<br />

elementi-chiave da una frazione limitata degli imprenditori intervistati (Tabella 8.7).<br />

Differenze nelle scelte strategiche sono per<strong>al</strong>tro visibili tra settori. Abbiamo definito «specifiche»<br />

quelle con uno scostamento in positivo di <strong>al</strong>meno sette punti rispetto <strong>al</strong>la media gener<strong>al</strong>e:<br />

nel manifatturiero la strategia aziend<strong>al</strong>e più praticata è di gran lunga l’innovazione di<br />

prodotto (cinque punti più della media); ma l’entrata su nuovi mercati è probabilmente<br />

l’azione strategica specifica (nove punti sopra la media);<br />

236


Tabella 8.7 – Nel segmento di mercato della sua azienda, qu<strong>al</strong> è il fattore di successo<br />

decisivo nei confronti dei concorrenti?<br />

(V<strong>al</strong>ori % – graduatoria della «prima scelta»)<br />

La qu<strong>al</strong>ità del prodotto<br />

Febbraio 2010<br />

46,4<br />

Il prezzo 19,4<br />

Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto 11,7<br />

La flessibilità produttiva 7,3<br />

Il rispetto dei tempi per le consegne 5,0<br />

La qu<strong>al</strong>ificazione del person<strong>al</strong>e 4,7<br />

Il marketing 2,1<br />

Altro 2,8<br />

Non sa / Non risponde 0,6<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

nella meccanica conta molto l’innovazione di processo (prima ancora dell’innovazione<br />

di prodotto), ma l’entrata su nuovi mercati è considerata la misura specifica più interessante<br />

(quattordici punti in più della media);<br />

nelle costruzioni (settore quasi esclusivamente orientato <strong>al</strong>la domanda interna) la strategia<br />

più specifica è l’aggregazione con <strong>al</strong>tre imprese (nove punti più della media), mentre<br />

l’innovazione di prodotto, di processo e le strategie commerci<strong>al</strong>i sono molto poco<br />

utilizzate (quasi dieci punti sotto la media gener<strong>al</strong>e) 4 ;<br />

nei servizi (<strong>al</strong>tro settore prev<strong>al</strong>entemente domestico) non sono presenti strategie specifiche,<br />

anche se l’aggregazione con <strong>al</strong>tre imprese, la ricerca di strutture di impresa più manageri<strong>al</strong>i<br />

e anche l’acquisizione di finanziamenti esterni sono presenti in misura superiore<br />

<strong>al</strong>la media; le classiche strategie di innovazione sono invece utilizzate molto meno che<br />

in <strong>al</strong>tri settori (circa nove punti sotto la media).<br />

Le scelte di deloc<strong>al</strong>izzazione, innovazione di prodotto e investimento sui marchi (Grafico<br />

8.2) sono relativamente più importanti per le imprese della prima tipologia (v<strong>al</strong>e a dire quelle<br />

più esposte <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e dei paesi emergenti), mentre il prezzo (Grafico<br />

8.3) è giudicato relativamente più importante d<strong>al</strong>le aziende operanti nel mercato interno.<br />

E si avverte una leggera divergenza tra «generazioni» a proposito di «contenuto tecnologico»<br />

e «marketing» come fattori di successo: i giovani sono più favorevoli <strong>al</strong> secondo fattore,<br />

mentre gli imprenditori più anziani sono relativamente più fiduciosi nei risultati<br />

raggiungibili attraverso investimenti tecnici e tecnologici (Grafico 8.4).<br />

4. Sorprende la scarsa importanza dedicata <strong>al</strong>l’innovazione di prodotto e di processo dai costruttori, in una fase in cui il passaggio a<br />

un’edilizia più sostenibile sembra essere di vit<strong>al</strong>e importanza per far ripartire il settore.<br />

237<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Grafico 8.2 - Per ciascuna delle seguenti strategie aziend<strong>al</strong>i, mi può dire se la sua<br />

impresa l'ha già adottata, se pensa di adottarla presto o se non intende<br />

adottarla? (V<strong>al</strong>ori % di quanti dichiarano di «averla già adottata»<br />

o «intende adottarla presto», in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa)<br />

16,2<br />

89,1<br />

61,2<br />

96,4 95,5 93,9<br />

78,2<br />

26,1 25,5<br />

Tutti Esportatori<br />

in concorrenza con<br />

la Cina e <strong>al</strong>tri paesi<br />

emergenti<br />

La collocazione geografica è meno importante nell’orientare le strategie di impresa. Nel<br />

Nord Est, per<strong>al</strong>tro, sono più della media le imprese che puntano a processi di aggregazione<br />

e investimenti su profession<strong>al</strong>ità manageri<strong>al</strong>i. È una novità interessante per un’area del Paese<br />

fino a ieri appiattita sullo stereotipo della piccola impresa familiare, chiusa e arretrata.<br />

238<br />

65,3<br />

Esportatori<br />

in concorrenza con<br />

paesi avanzati<br />

14,6<br />

59,6<br />

Esportatori per<br />

meno del 25%<br />

del fatturato<br />

8,0<br />

78,2<br />

51,8<br />

Operatori<br />

del mercato interno<br />

Deloc<strong>al</strong>izzazione <strong>al</strong>l'estero di <strong>al</strong>cune attività produttive Innovazione di prodotto Investimenti sul marchio<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Grafico 8.3 - Nel segmento di mercato della sua azienda, qu<strong>al</strong> è il fattore di successo<br />

decisivo nei confronti dei concorrenti? (V<strong>al</strong>ori % della «prima scelta»,<br />

in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa )<br />

19,4<br />

PREZZO<br />

15,7<br />

Tutti Esportatori<br />

in concorrenza con<br />

la Cina e <strong>al</strong>tri paesi<br />

emergenti<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

17,8<br />

Esportatori<br />

in concorrenza con<br />

paesi avanzati<br />

19<br />

Esportatori per<br />

meno del 25%<br />

del fatturato<br />

22,4<br />

Operatori<br />

del mercato interno


Le imprese del Nord Est e del Nord Ovest sono di gran lunga più interessate ai processi di<br />

internazion<strong>al</strong>izzazione (evidentemente perché più esposte <strong>al</strong> mercato internazion<strong>al</strong>e).<br />

Grafico 8.4 - Nel segmento di mercato della sua azienda, qu<strong>al</strong> è il fattore di successo<br />

decisivo nei confronti dei concorrenti? (V<strong>al</strong>ori % della «prima scelta»,<br />

in base <strong>al</strong>la classe di età)<br />

11,7<br />

2,1<br />

7,2<br />

8.8 IL PAESE VA MALE, LA MIA IMPRESA CE LA FARÀ<br />

0<br />

10,2<br />

A completamento di quanto detto finora è opportuno sottolineare che il 52,5 per cento degli<br />

stessi imprenditori è convinto che la competitività della propria azienda migliorerà nel prossimo<br />

<strong>futuro</strong>, nonostante i pronostici negativi sulla manifattura e sul sistema-Paese.<br />

Una forbice di questo genere non è nuova e non sorprende. In parte essa deriva d<strong>al</strong>l’inconscia<br />

divaricazione tra «l’opinione sul contesto» (che si forma attraverso il dibattito pubblico<br />

e mediatico) e «l’esperienza concreta» nel settore di speci<strong>al</strong>izzazione (che si forma<br />

attraverso il contatto quotidiano con il mercato) 5 . In parte essa deriva d<strong>al</strong> fatto che gli intervistati<br />

«pensano di sapere» oggi come uscire d<strong>al</strong>la crisi e stanno attuando cambiamenti che<br />

«ritengono capaci» di modificare l’assetto dell’impresa e/o il suo posizionamento sul mercato<br />

fin<strong>al</strong>e.<br />

È significativo, a questo proposito, che anche <strong>al</strong>l’interno dello stesso settore manifatturiero<br />

la quota dei pessimisti sia di poco superiore <strong>al</strong>la media («solo» il 40,7 per cento prevede un<br />

239<br />

4,4<br />

Tutti 21-24 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni 65 anni e più<br />

13,7<br />

Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto Il marketing<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

5. Invertendo la posizione («nel bicchiere» dell’an<strong>al</strong>isi – si veda nota 3) di coloro che definiscono «stabile» la competitività it<strong>al</strong>iana nei<br />

prossimi anni, da «negativa» a «positiva», la quota di imprenditori ottimisti potrebbe diventare maggioritaria anche a proposito della<br />

situazione it<strong>al</strong>iana. Preferiamo comunque assumere come maggiormente credibile, d<strong>al</strong> punto di vista an<strong>al</strong>itico, la risposta data <strong>al</strong> primo<br />

item delle domande sulla competitività dell’impresa e della manifattura (e del Paese) che, in effetti, porta a risultati divergenti sul <strong>futuro</strong><br />

dell’impresa e del sistema. Tenuto conto del giudizio negativo rispetto <strong>al</strong>la dinamica della competitività negli ultimi tre anni.<br />

2,3<br />

8,0<br />

1,0<br />

16,5<br />

0,6<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

peggioramento della competitività di settore contro il 38,6 del tot<strong>al</strong>e campione). Non t<strong>al</strong>e<br />

da far pensare a un tracollo nei prossimi anni. Gli stessi imprenditori manifatturieri, pessimisti<br />

sul «sistema» in cui operano, prevedono un peggioramento della propria impresa nei<br />

prossimi anni solo nel 19,1 per cento dei casi. È uno scarto incoraggiante tra previsioni individu<strong>al</strong>i<br />

e collettive.<br />

Facciamo un <strong>al</strong>tro esempio. Gli imprenditori che appartengono <strong>al</strong>la tipologia più esposta <strong>al</strong>la<br />

concorrenza della Cina e dei paesi emergenti (che è inclusa nel manifatturiero) immaginano<br />

un peggioramento del «sistema» in cui operano nel 47,3 per cento dei casi, ma pronosticano<br />

un peggioramento in azienda solo nel 24,9 per cento dei casi. Anche in questo<br />

frangente lo scarto tra opinioni sul contesto e previsioni sull’azienda è incoraggiante.<br />

L’insieme degli imprenditori pessimisti sia sul «sistema» che sulla propria azienda è invece<br />

notevolmente ridotto (è il 14,0 per cento circa del campione).<br />

Si può plausibilmente pensare che provvedimenti di ristrutturazione siano già in atto anche<br />

nei segmenti più esposti <strong>al</strong>la concorrenza di prezzo dei paesi emergenti e siano <strong>al</strong>la base<br />

del moderato «ottimismo individu<strong>al</strong>e» che compensa il «pessimismo collettivo».<br />

8.9 DOVE INVESTIRE? IN ITALIA O ALL’ESTERO?<br />

Gli imprenditori it<strong>al</strong>iani non stanno fermi. Il 59,3 per cento ha attuato investimenti sul territorio<br />

nazion<strong>al</strong>e, mentre il 12,9 per cento ha intenzione di procedere in questa direzione nel<br />

prossimo <strong>futuro</strong>. Preoccupa comunque che il 27,7 per cento non abbia intenzione di investire.<br />

Una porzione assai più limitata di imprenditori ha invece deciso investimenti <strong>al</strong>l’estero o ha<br />

intenzione di farli nel prossimo <strong>futuro</strong>. Il 7,4 per cento in Europa Occident<strong>al</strong>e, il 6,8 per<br />

cento in Europa Orient<strong>al</strong>e, il 4,9 per cento in Asia e così via per <strong>al</strong>tre regioni del mondo, con<br />

quote sempre più contenute (Tabella 8.8). Nel v<strong>al</strong>utare queste percentu<strong>al</strong>i teniamo sempre<br />

presente che una quota molto rilevante del campione è formato da edilizia e terziario, geneticamente<br />

meno vocati a effettuare insediamenti <strong>al</strong>l’estero.<br />

In termini relativi le imprese della prima tipologia (quelle che esportano più di un quarto del<br />

fatturato e si confrontano con concorrenti dei paesi emergenti) sono più impegnate a investire<br />

in territori dell’Europa dell’Est e in Asia, rispettivamente due e tre volte più della media<br />

(13,0 e 15,0 per cento dei casi) (Tabella 8.9).<br />

Nello stesso tempo le imprese della seconda tipologia (quelle che esportano più di un quarto<br />

del fatturato e si confrontano con concorrenti dei paesi emergenti) sono impegnate, tre e due<br />

volte più della media, a investire in America del Nord ed Europa Occident<strong>al</strong>e.<br />

240


Tabella 8.8 - In qu<strong>al</strong>e area geografica sta facendo o ha intenzione di fare<br />

i suoi investimenti?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti dicono che «li sta già facendo»,<br />

in base <strong>al</strong> settore confindustri<strong>al</strong>e )<br />

SETTORE CONFINDUSTRIALE<br />

Manifatturiero Costruzioni Meccanica Servizi Tutti<br />

It<strong>al</strong>ia 61,6 64,6 54,5 58,6 59,3<br />

Europa Occident<strong>al</strong>e 6,4 1,2 10,2 8,3 7,4<br />

Europa Orient<strong>al</strong>e 8,0 1,2 8,2 4,8 6,8<br />

America del Nord 6,1 0,0 7,6 5,5 5,9<br />

Asia 2,8 1,2 9,2 5,0 4,9<br />

America Latina 2,9 1,2 5,4 4,3 3,8<br />

Africa 2,5 1,2 4,7 3,2 3,2<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Tabella 8.9 - In qu<strong>al</strong>e area geografica sta facendo o ha intenzione di fare<br />

i suoi investimenti?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti dicono che «li sta già facendo»,<br />

in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa)<br />

TIPOLOGIA DI IMPRESA<br />

Esportatori Esportatori Esportatori per Operatori Tutti<br />

in concorrenza in concorrenza meno del 25% del mercato<br />

con la Cina con paesi del fatturato interno<br />

e gli <strong>al</strong>tri<br />

paesi emergenti<br />

avanzati<br />

It<strong>al</strong>ia 59,8 58,0 61,3 58,8 59,3<br />

Europa Occident<strong>al</strong>e 8,0 15,0 7,3 1,1 7,4<br />

Europa Orient<strong>al</strong>e 13,0 10,3 6,9 1,8 6,8<br />

America del Nord 3,0 17,0 3,6 0,5 5,9<br />

Asia 15,0 12,3 1,3 0,5 4,9<br />

America Latina 2,1 8,5 3,4 1,6 3,8<br />

Africa 7,8 4,9 4,0 0,8 3,2<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

241<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Gli imprenditori del Nord Est sono impegnati soprattutto nell’Europa Orient<strong>al</strong>e (un po’ più<br />

della media). Quelli della meccanica in Europa Occident<strong>al</strong>e e in Asia, più della media, e in<br />

America del Nord.<br />

Gli scostamenti d<strong>al</strong>la media sono relativamente ridotti in relazione ad <strong>al</strong>tre caratteristiche<br />

dell’impresa o dell’imprenditore, tranne per la dimensione. Le imprese più grandi (oltre<br />

cento addetti) investono <strong>al</strong>l’estero più di tutte le <strong>al</strong>tre.<br />

Questi dati ben rappresentano la crescente importanza dei processi di internazion<strong>al</strong>izzazione<br />

per la nostra industria esportatrice.<br />

Il campione si «spacca» invece tra i sostenitori di una politica di maggiore apertura verso gli<br />

<strong>al</strong>tri paesi e i sostenitori di una politica protezionista. Quest’ultima posizione è meno diffusa<br />

che <strong>al</strong>l’interno della popolazione (protezionista <strong>al</strong> 59,8%!), ma è comunque prev<strong>al</strong>ente tra<br />

gli imprenditori (il 49,0 per cento è favorevole a «proteggere l’economia d<strong>al</strong>la concorrenza<br />

internazion<strong>al</strong>e», contro il 45,7che propende per una maggiore apertura) (Tabella 8.10).<br />

Tabella 8.10 - Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe cercare soprattutto…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

242<br />

Febbraio 2010 Gennaio 2010<br />

(Imprese) (Popolazione)<br />

Di aprire maggiormente la sua economia verso gli <strong>al</strong>tri paesi 45,7 36,4<br />

Proteggere la sua economia d<strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e 49,0 59,8<br />

Non sa / Non risponde 5,3 3,8<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Prev<strong>al</strong>e invece il consenso per una maggiore apertura dell’economia it<strong>al</strong>iana tra le imprese<br />

della seconda tipologia (quelle che esportano molto e hanno come concorrenti paesi avanzati;<br />

61,0%). All’opposto la chiusura è auspicata (di nuovo, 61,0%) da quelle della prima tipologia,<br />

che sono più esposte <strong>al</strong>la concorrenza dei paesi emergenti (leggasi Cina). Sono<br />

inoltre tendenzi<strong>al</strong>mente più propensi <strong>al</strong> protezionismo i giovani (Tabella 8.11), gli edili e i<br />

piccoli imprenditori con meno di venti dipendenti.


Tabella 8.11 - Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe cercare soprattutto…<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>la classe di età)<br />

CLASSI DI ETÀ<br />

21-34 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni 65 anni e più Tutti<br />

Di aprire maggiormente<br />

la sua economia verso<br />

gli <strong>al</strong>tri paesi<br />

Proteggere la sua<br />

economia d<strong>al</strong>la<br />

22,7 47,8 44,6 45,3 53,3 45,7<br />

concorrenza internazion<strong>al</strong>e 77,3 51,8 50,8 44,1 39,4 49,0<br />

Non sa / Non risponde --- 0,3 4,6 10,6 7,3 5,3<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

8.10 PER COMPETERE CAMBIARE L’IMPRESA<br />

Nell’opinione degli intervistati, sono due le leve su cui agire nelle modifiche organizzative<br />

aziend<strong>al</strong>i necessarie per far fronte <strong>al</strong>la crisi e per far crescere la competitività:<br />

una parte degli imprenditori tende a sollecitare interventi sulla struttura manageri<strong>al</strong>e dell’impresa<br />

e iniziative di innovazione dei processi (più «moderne» d<strong>al</strong> punto di vista<br />

produttivo);<br />

un’<strong>al</strong>tra parte tende a privilegiare l’innovazione di prodotto, le strategie commerci<strong>al</strong>i o la<br />

v<strong>al</strong>orizzazione del marchio (più «moderne» d<strong>al</strong> punto di vista dell’uso del mercato).<br />

A proposito di «passaggio generazion<strong>al</strong>e», la maggioranza relativa degli intervistati (47,0%) è<br />

tuttavia favorevole <strong>al</strong> mantenimento della proprietà e della gestione <strong>al</strong>l’interno della famiglia 6 .<br />

Un atteggiamento più favorevole a soluzioni «tradizion<strong>al</strong>i» sembra essere prev<strong>al</strong>ente <strong>al</strong>l’interno<br />

della tipologia di imprese più esposte <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e dei paesi emergenti.<br />

Il passaggio generazion<strong>al</strong>e come momento opportuno per dare vita a imprese più manageri<strong>al</strong>i<br />

è un tema che da tanto tempo è molto discusso. Viene considerato un possibile antidoto<br />

<strong>al</strong>la crisi e <strong>al</strong>lo svantaggio competitivo del nostro sistema industri<strong>al</strong>e. Su t<strong>al</strong>e tema<br />

sembrano sussistere posizioni ancora oggi molto diverse <strong>al</strong>l’interno del mondo imprenditori<strong>al</strong>e<br />

(Tabella 8.12)<br />

6. Il dato è molto superiore a quello raccolto d<strong>al</strong>l’indagine TSG nel gennaio 2009 (28,5%).<br />

243<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Tabella 8.12 – Di fronte <strong>al</strong> problema del passaggio generazion<strong>al</strong>e, qu<strong>al</strong> è la migliore<br />

strategia da adottare?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

8.11 RIFORME: AVANTI TUTTA E SUBITO!<br />

La crisi del 2008-2009 è considerata la più difficile del secondo dopoguerra e ha prodotto un<br />

significativo mutamento di abitudini e aspettative, sia nella popolazione sia tra gli imprenditori.<br />

Come vedremo, per la popolazione le questioni ambient<strong>al</strong>i e dello sviluppo sostenibile si<br />

stanno posizionando <strong>al</strong> centro dell’attenzione e dell’agenda politica.<br />

Gli imprenditori sono invece in prima linea nella costruzione di uno scenario più convincente<br />

per l’immediato <strong>futuro</strong>. Sono lievemente più ottimisti della media della popolazione.<br />

Ma percepiscono che, date le dimensioni dei cambiamenti necessari, l’iniziativa individu<strong>al</strong>e<br />

non basta e sono necessarie intese collettive e un confronto serrato con il governo.<br />

La stragrande maggioranza degli intervistati ritiene importante attuare i provvedimenti proposti<br />

in questa indagine (e d<strong>al</strong>la <strong>Confindustria</strong>) (Tabella 8.13).<br />

Le percentu<strong>al</strong>i di adesione sono, per tutti i provvedimenti citati nella tabella 8.13, superiori ai<br />

due terzi del campione. Relativamente meno efficaci vengono giudicate le seguenti linee di<br />

azione: gli aiuti <strong>al</strong>l’export e <strong>al</strong>le attività <strong>al</strong>l’estero (inefficaci per il 32,1 per cento degli intervistati);<br />

l’ammodernamento degli ammortizzatori soci<strong>al</strong>i (inefficaci per il 30,2%); la liber<strong>al</strong>izzazione<br />

nei servizi (inefficaci per il 25,8%), anche se a un’<strong>al</strong>tra domanda il 62,9 per cento afferma<br />

che c’è bisogno di più concorrenza nell’economia it<strong>al</strong>iana e in particolare in molti servizi.<br />

Ma, su tutte le <strong>al</strong>tre possibili iniziative e proposte la posizione è chiara, quasi unanime:<br />

«avanti tutta e subito!» Natur<strong>al</strong>mente possono esserci lievi sfumature, a seconda della tipologia<br />

d’impresa (ad esempio il 90 per cento delle imprese della prima tipologia insiste molto<br />

sulla necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro) o della classe di età dell’intervistato,<br />

ma il quadro gener<strong>al</strong>e non cambia.<br />

244<br />

Febbraio 2010 Gennaio 2010<br />

Mantenere la proprietà e la gestione <strong>al</strong>l’interno della famiglia 47,0 28,5<br />

Mantenere la proprietà ma ricorrere a manager esterni <strong>al</strong>la famiglia<br />

Mantenere la gestione a livello familiare e aprire il capit<strong>al</strong>e<br />

25,7 32,1<br />

a soggetti esterni 12,7 12,9<br />

Ricorrere a manager e aprire il capit<strong>al</strong>e a soggetti esterni 9,6 16,5<br />

Non sa / Non risponde 5,0 10,1<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).


Tabella 8.13 – Quanto ritiene efficace ciascuno dei seguenti provvedimenti, per<br />

rilanciare il sistema economico it<strong>al</strong>iano? E qu<strong>al</strong>e tra questi ritiene<br />

il più urgente?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Per niente Molto<br />

FEBBRAIO 2010<br />

Non sa Tot<strong>al</strong>e Quanti lo<br />

o poco o moltissimo Non risponde considerano<br />

efficace efficace il più urgente<br />

Riduzioni fisc<strong>al</strong>i per le imprese<br />

Semplificazione ed efficienza<br />

15,6 83,6 0,8 100,0 36,9<br />

della Pubblica Amministrazione 14,2 85,4 0,4 100,0 14,7<br />

Flessibilità del mercato del lavoro<br />

Facilitare l'accesso ai servizi<br />

19,9 79,0 1,1 100,0 8,8<br />

finanziari e di credito 21,4 77,3 1,4 100,0 8,4<br />

Investimenti in infrastrutture<br />

Riforma meritocratica della scuola<br />

13,9 84,7 1,4 100,0 8,0<br />

e dell'università 17,9 78,5 3,6 100,0 6,5<br />

Riduzione dei costi dell'energia<br />

Potenziare l'integrazione tra<br />

15,5 84,5 - 100,0 5,5<br />

imprese e università/centri di ricerca<br />

Ammodernamento del sistema<br />

19,5 78,9 1,5 100,0 2,7<br />

di ammortizzatori soci<strong>al</strong>i<br />

Aiuti <strong>al</strong>l'export<br />

30,2 67,0 2,8 100,0 2,3<br />

e <strong>al</strong>le attività <strong>al</strong>l'estero<br />

Liber<strong>al</strong>izzazioni nel settore<br />

32,1 59,3 8,6 100,0 2,2<br />

dei servizi 25,8 70,7 3,6 100,0 1,8<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Anche a proposito delle grandi riforme di lungo periodo sembra esistere un consenso ampio<br />

tra gli imprenditori. Più urgenti sembrano essere quelle che riguardano: il sistema fisc<strong>al</strong>e<br />

(priorità per il 56,9 per cento degli imprenditori); la pubblica amministrazione (priorità per<br />

il 41,0%); il mercato del lavoro (priorità per il 35,9%) (Tabella 8.14).<br />

Giustizia e riforma del sistema dell’istruzione sono ritenute invece meno urgenti. La prima<br />

forse perché rientra nella fattispecie della pubblica amministrazione: risolta questa si risolve<br />

anche quella. Ciò v<strong>al</strong>e anche per l’istruzione, sulla qu<strong>al</strong>e si aggiunge forse la frustrazione<br />

per gli scarsi esiti dei tanti annunci e dei cambiamenti pure re<strong>al</strong>izzati.<br />

Anche in questo caso l’appartenenza a una specifica tipologia di impresa influenza margin<strong>al</strong>mente<br />

il giudizio, ma le tre riforme citate danno una risposta ai problemi posti d<strong>al</strong>la maggioranza<br />

del mondo imprenditori<strong>al</strong>e.<br />

245<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Tabella 8.14 - Qu<strong>al</strong>i riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese?<br />

(V<strong>al</strong>ori %; non risposte imprese 1,6%; non risposte popolazione 1,5%)<br />

Febbraio 2010 Febbraio 2010<br />

(Imprese) (Popolazione)<br />

Prima Seconda Tot<strong>al</strong>e Prima Seconda Tot<strong>al</strong>e<br />

scelta scelta della prima scelta scelta della prima<br />

e della seconda e della seconda<br />

scelta scelta<br />

Pensioni 2,5 2,3 4,8 7,1 7,5 14,6<br />

Istruzione 8,9 10,5 19,4 12,8 11,0 23,8<br />

Pubblica amministrazione<br />

e burocrazia 24,2 16,8 41,0 8,5 8,4 16,9<br />

Mercato del lavoro 19,6 16,3 35,9 35,0 16,0 51,0<br />

Giustizia 6,6 9,6 16,2 12,5 14,1 26,6<br />

Sistema fisc<strong>al</strong>e 32,4 24,5 56,9 17,9 13,9 31,8<br />

Istituzioni 4,2 3,8 8,0 4,7 4,8 9,5<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Sulla questione fisc<strong>al</strong>e, in particolare, la ricerca evidenzia diversi livelli di gradimento per<br />

le proposte contenute nella domanda Qu<strong>al</strong>e ritiene essere la misura fisc<strong>al</strong>e migliore per rilanciare<br />

la competitività delle imprese it<strong>al</strong>iane? (Tabella 8.15):<br />

gli imprenditori della prima tipologia (imprese esposte <strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e<br />

dei paesi emergenti) sono interessati più della media <strong>al</strong>la riduzione dell’IRAP, agli incentivi<br />

per ricerca e sviluppo (R&S) e <strong>al</strong>le aggregazioni; mentre sono nella media per<br />

quanto riguarda gli incentivi agli investimenti; ma non sembrano interessati a ricapit<strong>al</strong>izzare<br />

le aziende;<br />

gli imprenditori della seconda tipologia (imprese esposte <strong>al</strong>la concorrenza dei paesi avanzati)<br />

sono più interessati della media agli incentivi per investimenti e per R&S, per ricapit<strong>al</strong>izzare<br />

e creare aggregazioni, ma molto meno della media <strong>al</strong>la riduzione dell’IRAP;<br />

quelli che non esportano o sono meno esposti <strong>al</strong>la concorrenza estera sono <strong>al</strong>lineati <strong>al</strong>la<br />

media su tutte le misure, con una leggera sensibilità in più per gli incentivi <strong>al</strong>la ricapit<strong>al</strong>izzazione.<br />

Sui dettagli della questione fisc<strong>al</strong>e la ricerca indica una (sia pur contenuta) diversità di opinioni<br />

tra giovani e meno giovani, che deriva, probabilmente, d<strong>al</strong>la condizione «materi<strong>al</strong>e»<br />

in cui si trovano soggetti appartenenti a classi di età diverse. La riduzione progressiva dell’IRAP<br />

è ad esempio molto condivisa tra i più giovani.<br />

246


Tabella 8.15 - Tra le seguenti misure fisc<strong>al</strong>i, fermo restando i vincoli del bilancio<br />

pubblico, qu<strong>al</strong>e ritiene sia la migliore per rilanciare la competitività<br />

delle imprese it<strong>al</strong>iane?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

8.12 PIÙ CONCORRENZA, CON LO STATO MINIMO<br />

La maggioranza degli imprenditori si schiera a favore di politiche che aumentino la concorrenza<br />

in tutti i settori del commercio e dei servizi pubblici e privati. Il 62,9 per cento del<br />

campione ritiene, infatti, che, per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana, ci sia bisogno di maggiore<br />

concorrenza in t<strong>al</strong>i ambiti di attività (Tabella 8.16). Le virtù della concorrenza sono<br />

quindi un v<strong>al</strong>ore comune, diffuso, condiviso d<strong>al</strong>la maggioranza degli imprenditori e della<br />

popolazione (come si vedrà più avanti, anche una larga maggioranza di it<strong>al</strong>iani assegna<br />

connotazioni e risultati positivi <strong>al</strong>la concorrenza).<br />

Tanto più che il ruolo dello Stato deve esserci ma minimo, in quanto regolatore. Alla domanda<br />

Qu<strong>al</strong>e deve essere il ruolo dello Stato? la maggioranza degli intervistati opta per un<br />

«interventismo moderato e temporaneo», senza differenze visibili <strong>al</strong> variare di età, dimensione<br />

di azienda o collocazione geografica. Non significativi anche i divari di opinione in<br />

base <strong>al</strong>l’esposizione <strong>al</strong>la competizione internazion<strong>al</strong>e (Tabella 8.17). Sembra prev<strong>al</strong>ga l’esigenza<br />

di compendiare interventi struttur<strong>al</strong>i con il governo dell’emergenza.<br />

In conclusione l’indagine sulle imprese it<strong>al</strong>iane ci consegna un quadro di posizioni <strong>al</strong>quanto<br />

articolato. Il contesto gener<strong>al</strong>e dell’economia è giudicato critico, con particolare riguardo<br />

<strong>al</strong>la manifattura e <strong>al</strong> nucleo delle imprese più esposte <strong>al</strong>la competizione con i paesi emergenti.<br />

La metà degli imprenditori spera di uscire d<strong>al</strong>la crisi in una posizione competitiva migliorata,<br />

anche se ritiene che il periodo di «domanda in stagnazione o in ripresa lenta» sarà<br />

ancora piuttosto lungo (più di un anno). Gli imprenditori it<strong>al</strong>iani esprimono un consenso gener<strong>al</strong>izzato<br />

sulla necessità di avviare riforme struttur<strong>al</strong>i, ma si dividono sui provvedimenti da<br />

247<br />

Febbraio 2010<br />

Gradu<strong>al</strong>e riduzione dell'IRAP sul costo del lavoro 55,5<br />

Incentivi per gli investimenti in ricerca e sviluppo 20,7<br />

Incentivi agli investimenti 13,1<br />

Incentivi <strong>al</strong>la ricapit<strong>al</strong>izzazione 7,0<br />

Agevolazioni per le aggregazioni di imprese 2,9<br />

Non sa / Non risponde 0,9<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

prendere nell’immediato. Alcuni di essi si collocano su posizioni addirittura protezionistiche<br />

nonostante, in <strong>al</strong>tra parte dell’intervista, si dichiarino contrari a un ruolo interventista<br />

dello Stato e favorevoli <strong>al</strong>l’aumento della concorrenza in quasi tutti i settori dell’economia.<br />

Tabella 8.16 - Secondo Lei, per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana, c’è bisogno di<br />

maggiore o minore concorrenza?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

248<br />

Febbraio 2010 Gennaio 2010<br />

(Imprese) (Popolazione)<br />

Maggiore 62,9 66,7<br />

Minore 25,0 25,8<br />

Va bene così 8,9 3,6<br />

Non sa / Non risponde 3,2 3,8<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Tabella 8.17 - Con qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni è maggiormente d’accordo?<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>la tipologia di impresa)<br />

TIPOLOGIA DI IMPRESA<br />

Esportatori Esportatori Esportatori Operatori Tutti<br />

in concorrenza in concorrenza per meno del 25% del mercato<br />

con la Cina con paesi del fatturato interno<br />

e gli <strong>al</strong>tri<br />

paesi emergenti<br />

avanzati<br />

Lo Stato deve intervenire<br />

sempre sull’economia<br />

e sul mercato 16,7 8,9 8,0 13,5 11,8<br />

Lo Stato deve intervenire<br />

sull’economia e sul mercato<br />

solo quando c’è veramente<br />

bisogno 74,4 71,3 78,1 70,1 72,9<br />

Lo Stato non deve intervenire<br />

mai sull’economia e sul mercato 9,0 19,8 12,4 15,7 14,7<br />

Non sa / Non risponde - - 1,6 0,6 0,6<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).


8.13 NEGLI ITALIANI UN GRANDE SENSO DI LIBERTÀ<br />

La stragrande maggioranza degli it<strong>al</strong>iani si sente libera. Ben l’83,5 per cento degli intervistati<br />

ha dichiarato di riconoscersi, in gener<strong>al</strong>e, abbastanza o molto libero (Grafico 8.5). Il<br />

senso di libertà è maggiore tra i giovanissimi (15-24 anni), speci<strong>al</strong>mente se studenti (87,3%),<br />

tra gli adulti di età compresa tra i 45 e i 64 anni (86,0%) e tra i residenti nelle regioni del<br />

Nord Ovest (86,5%). Una minore libertà person<strong>al</strong>e, invece, viene percepita dai giovani tra<br />

i 25 e i 34 anni, dai cittadini del Nord Est e da quelli del Sud e, più in gener<strong>al</strong>e, dai disoccupati<br />

e d<strong>al</strong>le cas<strong>al</strong>inghe ma anche dai lavoratori autonomi e dagli operai.<br />

Grafico 8.5 - In gener<strong>al</strong>e, Lei in che misura si sente libero?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Poco<br />

13,9%<br />

Per niente<br />

2,2%<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

249<br />

Abbastanza<br />

51,8%<br />

Molto<br />

31,7%<br />

Non sa / Non<br />

risponde<br />

0,4%<br />

} Abbastanza<br />

o Molto<br />

83,5%<br />

Anche in relazione ad <strong>al</strong>cuni ambiti specifici della sfera economica, politica e soci<strong>al</strong>e,<br />

emerge un quadro di maggiore libertà di azione, considerando il confronto con il passato.<br />

Rispetto a venti anni fa, infatti, una larga maggioranza di it<strong>al</strong>iani considera l’informazione<br />

più libera (66,2%), le persone e gli individui più indipendenti (59,9%) e la politica più autonoma<br />

(58,6%). Il 51,2 per cento degli intervistati, inoltre, ritiene che oggi ci sia più libertà<br />

per quanto riguarda la possibilità di fare impresa (Tabella 8.18).<br />

Il giudizio, però, cambia radic<strong>al</strong>mente nei confronti del mercato del lavoro. La quota di coloro<br />

che lo v<strong>al</strong>utano più libero scende <strong>al</strong> 37,5 per cento, mentre quella di quanti lo percepiscono<br />

maggiormente vincolato rispetto <strong>al</strong> passato s<strong>al</strong>e <strong>al</strong> 55,5 per cento. È significativo<br />

notare che questa percentu<strong>al</strong>e s<strong>al</strong>e in maniera significativa tra due delle categorie maggiormente<br />

coinvolte d<strong>al</strong>le ultime riforme in materia di mercato del lavoro. In effetti, tanto tra i<br />

giovani dai 25 ai 34 anni quanto tra gli operai, la quota di coloro che ritengono meno libero<br />

il mercato del lavoro aumenta rispettivamente <strong>al</strong> 58,0 per cento e <strong>al</strong> 60,0 per cento.<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Tabella 8.18 – Oggi in It<strong>al</strong>ia, secondo Lei, c’è maggiore o minore libertà rispetto<br />

<strong>al</strong> passato (per es. 20 anni fa) per quanto riguarda:<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Grafico 8.6 - Oggi in It<strong>al</strong>ia c’è maggiore o minore benessere rispetto <strong>al</strong> passato<br />

(per es. 20 anni fa)?<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong> sentimento di libertà)<br />

58,4<br />

37,3<br />

62,4<br />

34,1<br />

250<br />

37,1<br />

54,7<br />

5,8<br />

3,0 1,3 2,4 0,1 2,3<br />

Tutti T ra coloro che si sentono<br />

abbastanza o molto liberi<br />

Maggiore Minore Ugu<strong>al</strong>e Non sa / Non risponde<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Maggiore Ugu<strong>al</strong>e<br />

GENNAIO 2010<br />

Minore Non sa Tot<strong>al</strong>e<br />

Non risponde<br />

La possibilità di fare impresa 51,2 5,2 39,0 4,6 100,0<br />

Il mercato del lavoro 37,5 3,1 55,5 3,8 100,0<br />

Le persone, gli individui 59,9 6,2 31,9 2,0 100,0<br />

L’informazione 66,2 4,5 27,7 1,5 100,0<br />

La politica 58,6 6,0 29,2 6,2 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

8.14 IL BENESSERE È SALITO MA NON PER TUTTI<br />

Oltre a un ampio senso di libertà person<strong>al</strong>e, gli it<strong>al</strong>iani avvertono anche un benessere soci<strong>al</strong>e<br />

abbastanza diffuso, soprattutto se paragonato a quello di venti anni fa. In effetti, il 58,4<br />

per cento ritiene che oggi ci sia maggior benessere contro il 37,3 per cento che lo percepisce<br />

in maniera ridotta rispetto <strong>al</strong> passato (Grafico 8.6).<br />

Del resto risulta evidente un certo grado di correlazione tra la sensazione di libertà e la percezione<br />

del benessere. Chi si sente libero, infatti, è portato a percepire anche un maggior<br />

T ra coloro che si sentono poco<br />

o per niente liberi


enessere. Viceversa chi si ritiene più vincolato o addirittura oppresso finisce per avvertire<br />

un benessere minore.<br />

Tuttavia va specificato che entrambe le percezioni appaiono fortemente influenzate d<strong>al</strong>la generazione<br />

di appartenenza e d<strong>al</strong>la posizione materi<strong>al</strong>e dell’intervistato. I dati raccolti da<br />

questa indagine, in effetti, dimostrano che tra chi si dichiara libero e manifesta una sensazione<br />

di benessere maggiore prev<strong>al</strong>gono gli adulti di età centr<strong>al</strong>e che, essendosi già re<strong>al</strong>izzati<br />

nel lavoro, hanno acquisito una posizione soci<strong>al</strong>e di rilievo, come liberi professionisti,<br />

insegnanti, funzionari e dirigenti. Al contrario, tra quanti si dichiarano meno liberi e che<br />

percepiscono un benessere inferiore ritroviamo le componenti più periferiche nelle gerarchie<br />

soci<strong>al</strong>i: gli anziani, i pensionati e i disoccupati.<br />

8.15 IL RUOLO TRAINANTE DELL’INDUSTRIA<br />

Il 62,9 per cento degli it<strong>al</strong>iani riconosce che l’industria ha svolto un ruolo importante nello<br />

sviluppo della propria regione e per il 59,1 per cento continuerà a svolgerlo anche nel <strong>futuro</strong><br />

(Grafico 8.7). Certamente, nel giudizio, emergono differenze significative se si considerano<br />

le diverse aree territori<strong>al</strong>i del Paese. I cittadini del Nord Ovest, del Nord Est e del<br />

Centro, le zone a maggior tasso di industri<strong>al</strong>izzazione, tendono a riconoscere l’importanza<br />

dell’industria in misura nettamente superiore rispetto ai residenti nelle regioni del Sud, non<br />

soltanto per quanto riguarda il ruolo svolto nel passato ma pure in prospettiva futura. Anche<br />

se nel Sud, diversamente d<strong>al</strong>le <strong>al</strong>tre aree, aumentano coloro che auspicano un ruolo fondament<strong>al</strong>e<br />

del settore industri<strong>al</strong>e nello sviluppo loc<strong>al</strong>e <strong>futuro</strong> rispetto a quanti lo hanno riconosciuto<br />

per il passato (51,6% contro 43,0).<br />

Grafico 8.7 - Secondo Lei qu<strong>al</strong>e è stato il ruolo dell’industria nello sviluppo della sua<br />

regione? E secondo Lei qu<strong>al</strong>e pensa sarà nei prossimi 5 anni, il ruolo<br />

dell’industria nello sviluppo della sua regione?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»)<br />

79,3 79,8<br />

65,0<br />

70,0<br />

75,0<br />

61,1<br />

Nord Ovest Nord Est Centro Sud e Isole Tutti<br />

251<br />

43,0<br />

51,6<br />

Abbastanza o molto importante nel passato Abbastanza o molto importante nel <strong>futuro</strong><br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

62,9<br />

59,1<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Del resto, agli occhi dei cittadini del Mezzogiorno, sono i settori del turismo (33,4%) e dell’agricoltura<br />

(15,1%) ad aver fino ad oggi contribuito maggiormente <strong>al</strong>la crescita economica,<br />

mentre <strong>al</strong>l’industria viene attribuito un peso specifico inferiore (10,3%).<br />

A livello nazion<strong>al</strong>e, invece, il settore industri<strong>al</strong>e assume un rilievo decisamente maggiore,<br />

tanto da venire indicato d<strong>al</strong> 16,4 per cento degli intervistati come quello più determinante<br />

per lo sviluppo, collocandosi subito dopo il turismo, che comunque resta, secondo il 25,6<br />

per cento degli it<strong>al</strong>iani, il settore che più ha prodotto ricchezza e benessere (Tabella 8.19).<br />

Tabella 8.19 – Secondo Lei, qu<strong>al</strong>e settore ha contribuito di più <strong>al</strong>lo sviluppo<br />

della sua regione?<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>le zone geopolitiche)<br />

ZONE GEOPOLITICHE<br />

Nord Ovest Nord Est Centro Sud e Isole Tutti<br />

Turismo 13,4 22,8 26,3 33,4 25,6<br />

Industria 25,4 19,8 15,4 10,3 16,4<br />

Artigianato 13,7 16,4 12,8 10,5 12,5<br />

Agricoltura 6,2 8,1 10,4 15,1 11,1<br />

Commercio 10,2 5,9 9,5 8,0 8,6<br />

Servizi <strong>al</strong>le persone 8,6 6,5 6,5 5,4 6,6<br />

Pubblica amministrazione 3,5 4,3 4,9 5,3 4,7<br />

Servizi <strong>al</strong>le imprese 5,9 5,4 3,6 1,9 3,7<br />

Banche 3,3 5,0 1,4 3,0 3,0<br />

Non sa / Non risponde 9,7 5,9 9,3 7,1 8,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Il contributo che il settore industri<strong>al</strong>e ha dato e potrà dare <strong>al</strong>lo sviluppo del Paese non è in<br />

discussione, <strong>al</strong>meno per una discreta parte della popolazione. Caso mai, gli it<strong>al</strong>iani sembrano<br />

avanzare precise richieste di cambiamento nella direzione del modello industri<strong>al</strong>e e<br />

quindi del <strong>futuro</strong> modello di sviluppo. Infatti, solo un terzo degli intervistati è convinto che<br />

si debba continuare a produrre e a lavorare senza r<strong>al</strong>lentare per non rischiare di perdere<br />

tutto Tabella 8.20). Mentre nella maggioranza relativa della popolazione, circa il 39,0 per<br />

cento, emerge chiaramente la necessità di prestare maggiore attenzione <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità dello sviluppo,<br />

anche a costo di ridurre il ritmo della crescita economica per non rischiare un <strong>futuro</strong><br />

infelice. A questi fanno seguito un 28,2 per cento di it<strong>al</strong>iani che, ponendosi in un’ottica di<br />

conservazione, hanno dichiarato che il benessere raggiunto fino a ora può bastare e che<br />

l’importante è saperlo difendere e mantenere.<br />

È interessante notare una certa differenziazione per aree geografiche. Infatti, se tra i residenti<br />

nelle regioni del Sud aumentano coloro che auspicano <strong>al</strong>ti ritmi di crescita a ogni<br />

costo (38,6%), tra i cittadini delle regioni a maggior densità di insediamenti industri<strong>al</strong>i,<br />

252


quelle del Nord Ovest e del Nord Est, prev<strong>al</strong>gono quanti reclamano una maggiore attenzione<br />

<strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità dello sviluppo, dicendosi disposti a r<strong>al</strong>lentare i ritmi o addirittura a fermarsi perché<br />

il benessere conquistato può bastare. Va notato, infine, che anche i più giovani e gli appartenenti<br />

<strong>al</strong>le classi centr<strong>al</strong>i di età (dai 35 ai 54 anni) si dimostrano più attenti <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità<br />

della crescita. Mentre tra i maturi e i più anziani convivono atteggiamenti contrastanti che<br />

vanno d<strong>al</strong>la convinzione di dover continuare con l’attu<strong>al</strong>e modello di crescita <strong>al</strong> mantenimento<br />

e <strong>al</strong>la difesa di quanto già conquistato.<br />

Tabella 8.20 – L’economia della sua regione è cresciuta tantissimo, negli ultimi<br />

vent’anni, assieme <strong>al</strong> benessere delle persone. Lei pensa<br />

che nel prossimo <strong>futuro</strong>…<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>le zone geopolitiche)<br />

ZONE GEOPOLITICHE<br />

Nord Ovest Nord Est Centro Sud e Isole Tutti<br />

Occorre continuare a produrre e lavorare,<br />

perché se r<strong>al</strong>lentiamo potremmo perdere<br />

la ricchezza che abbiamo costruito 27,7 24,5 34,8 38,6 33,2<br />

Occorre fare più attenzione <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità dello<br />

sviluppo, a costo di ridurre il ritmo della crescita<br />

economica, perché rischiamo un <strong>futuro</strong> infelice 41,3 45,3 36,2 35,9 38,6<br />

Il benessere che abbiamo costruito può bastare.<br />

L’importante è mantenerlo e difenderlo 31,1 30,2 29,0 25,5 28,2<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Proprio la convinzione della necessità di una maggior qu<strong>al</strong>ità e sostenibilità dello sviluppo<br />

<strong>futuro</strong> sembra indurre negli it<strong>al</strong>iani atteggiamenti di diffidenza nei confronti dell’industria,<br />

a volte anche di apprensione, che si traducono spesso in giudizi contrastanti sulle attività<br />

delle imprese industri<strong>al</strong>i. Infatti, se l’attività industri<strong>al</strong>e viene accostata <strong>al</strong> tema dell’ambiente<br />

e del territorio, prev<strong>al</strong>e una certa preoccupazione. Tanto che ben il 67,3 per cento degli it<strong>al</strong>iani<br />

ritiene che le industrie possano danneggiarli con l’inquinamento e l’utilizzo del suolo.<br />

Così come, se si evocano le disuguaglianze e i conflitti soci<strong>al</strong>i, gli it<strong>al</strong>iani sono portati in<br />

maggioranza (60,8%) ad addurne la responsabilità proprio <strong>al</strong>le imprese industri<strong>al</strong>i (Tabella<br />

8.21). A fronte di queste opinioni, se ne segn<strong>al</strong>ano <strong>al</strong>tre che portano, invece, il 43,7 per<br />

cento degli intervistati a riconoscere che le imprese industri<strong>al</strong>i producono occupazione e benessere,<br />

concorrono a rendere attrattivo un territorio (38,2%) o che sono attente ai problemi<br />

della comunità in cui operano (31,9%). Va sottolineato che questi pareri contrastanti, in<br />

molti casi, coesistono tanto nello stesso individuo quanto in precisi segmenti di popolazione.<br />

Appare emblematico il caso dei più giovani: gli intervistati dai 15 ai 24 anni, infatti,<br />

sono tra quelli più convinti che le industrie danneggino l’ambiente e il territorio (72,4%), ma<br />

253<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

<strong>al</strong>lo stesso tempo figurano tra coloro che maggiormente attribuiscono <strong>al</strong>le imprese industri<strong>al</strong>i<br />

la capacità di conferire attrattività a tutta la zona in cui operano (49,7%) e che le ritengono<br />

sensibili ai problemi della comunità loc<strong>al</strong>e (39,6%).<br />

Tabella 8.21 - Pensando <strong>al</strong> ruolo dell’industria nello sviluppo della sua regione,<br />

in che misura secondo Lei le attività delle imprese industri<strong>al</strong>i…<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»,<br />

in base <strong>al</strong>la classe d’età)<br />

CLASSI DI ETÀ<br />

15-24 25-34 35-44 45-54 55-64 65 anni Tutti<br />

anni anni anni anni anni e più<br />

Producono occupazione<br />

e benessere 60,4 43,9 46,8 35,6 39,1 37,9 43,7<br />

Danneggiano l’ambiente<br />

e il territorio 72,4 71,6 73,4 65,9 68,4 56,7 67,3<br />

Aumentano le disuguaglianze<br />

e il conflitto soci<strong>al</strong>e 60,8 64,2 65,0 61,0 63,8 53,5 60,8<br />

Sono attente ai problemi<br />

della comunità in cui operano 39,6 29,0 30,2 32,9 32,0 29,7 31,9<br />

Contribuiscono a rendere<br />

attrattivo un territorio,<br />

offrendo opportunità di<br />

lavoro e acquistando servizi 49,7 36,2 36,5 36,3 37,1 35,6 38,2<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Va detto, per<strong>al</strong>tro, che la compresenza di giudizi negativi e positivi nei confronti delle imprese<br />

industri<strong>al</strong>i appare influenzata anche da una certa ide<strong>al</strong>izzazione del loro operato. Infatti,<br />

il 68,1 per cento degli it<strong>al</strong>iani ritiene che un’impresa, accanto <strong>al</strong> profitto, debba<br />

investire in progetti a favore della società e del territorio in cui si trova, il 27,1 per cento che<br />

sia tenuta a puntare <strong>al</strong> profitto ma, <strong>al</strong>lo stesso tempo, non danneggiare l’ambiente, mentre<br />

solo il 2,7 per cento che sia vincolata esclusivamente <strong>al</strong> profitto (Tabella 8.22).<br />

L’industria, in definitiva, vede riconosciuto il ruolo fondament<strong>al</strong>e che ha ricoperto nello sviluppo<br />

di molte aree del Paese e, da più parti, si <strong>al</strong>za l’auspicio che possa proseguire nel<br />

concorso <strong>al</strong>la crescita economica e <strong>al</strong>la diffusione del benessere. Ma non a ogni costo. Oggi,<br />

infatti, nella maggioranza degli it<strong>al</strong>iani, è maturata la convinzione che si debbano mantenere<br />

ben s<strong>al</strong>di tanto gli equilibri ambient<strong>al</strong>i quanto quelli soci<strong>al</strong>i, che appaiono possibili<br />

con l’applicazione dei principi della responsabilità soci<strong>al</strong>e da parte delle imprese industri<strong>al</strong>i.<br />

Perché l’ipotetica rinuncia <strong>al</strong> settore industri<strong>al</strong>e non solo risulta inaccettabile ma finisce per<br />

preoccupare la stragrande maggioranza degli it<strong>al</strong>iani. Come dimostrano le opinioni sul processo<br />

di deloc<strong>al</strong>izzazione <strong>al</strong>l’estero delle attività produttive (Grafico 8.8). Infatti, il 45,8 per<br />

254


cento continua a v<strong>al</strong>utarlo un grave rischio per lo sviluppo loc<strong>al</strong>e, pur ammettendo risvolti<br />

positivi per le imprese coinvolte. Mentre aumentano quanti lo ritengono un fatto solo negativo<br />

(d<strong>al</strong> 34,0 per cento del 2006 <strong>al</strong>l’attu<strong>al</strong>e 45,2) e contestu<strong>al</strong>mente si riducono coloro<br />

che lo giudicano vantaggioso tanto per le imprese quanto per l’economia della propria regione<br />

(d<strong>al</strong> 9,5 per cento del 2006 <strong>al</strong> 6,7).<br />

Tabella 8.22 - Qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni la trova maggiormente d’accordo?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

255<br />

Gennaio 2010<br />

Un’impresa, accanto <strong>al</strong> profitto, deve investire in progetti<br />

a favore della società e del territorio in cui opera 68,1<br />

Un’impresa deve puntare <strong>al</strong> profitto ma, <strong>al</strong>lo stesso tempo,<br />

non danneggiare il territorio e la società in cui opera 27,1<br />

Un’impresa deve guardare esclusivamente <strong>al</strong> profitto 2,7<br />

Non sa / Non risponde 2,1<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 620 casi).<br />

Grafico 8.8 - Alcune imprese della sua regione hanno spostato o stanno spostando<br />

le proprie attività o una parte di esse <strong>al</strong>l’estero.<br />

Secondo Lei si tratta di un fatto…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per lo<br />

sviluppo economico della sua regione<br />

Solo negativo<br />

Vantaggioso per le imprese e per l'economia della regione<br />

Non sa / Non risponde<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 620 casi).<br />

2,3<br />

4,9<br />

6,7<br />

9,5<br />

34,0<br />

45,8<br />

45,2<br />

Gennaio 2010<br />

Febbraio 2006<br />

51,6<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

8.16 IL LUNGO TUNNEL DELLA CRISI<br />

La fine della crisi è ancora lontana per gli it<strong>al</strong>iani: uno su cinque ne prevede l’uscita definitiva<br />

entro un anno; uno su quattro entro due anni; ma addirittura quattro su dieci pongono<br />

t<strong>al</strong>e traguardo a più di due anni. I più ottimisti restano una quota margin<strong>al</strong>e: il 6,3 per cento<br />

ritiene che la crisi attu<strong>al</strong>e finirà tra sei mesi e solo lo 0,7 per cento crede sia già terminata<br />

(Tabella 8.23).<br />

Tabella 8.23 – Secondo Lei, quando finirà l’attu<strong>al</strong>e crisi economica?<br />

(V<strong>al</strong>ori % in base <strong>al</strong>le zone geopolitiche)<br />

ZONE GEOPOLITICHE<br />

Nord Ovest Nord Est Centro Sud e Isole Tutti<br />

Entro sei mesi 6,0 4,1 7,0 6,8 6,3<br />

Entro un anno 23,9 25,4 21,4 19,0 21,5<br />

Entro due anni 28,6 23,1 27,7 23,9 25,7<br />

Tra più di due anni 36,9 39,2 38,6 42,3 39,8<br />

È già finita 0,2 1,5 1,0 0,6 0,7<br />

Non sa / Non risponde 4,4 6,8 4,3 7,4 6,0<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 620 casi).<br />

La quota di coloro che dichiarano che la crisi avrà termine tra oltre due anni, in media il 39,8<br />

per cento, s<strong>al</strong>e tra i giovani di età compresa tra i 25 e 34 anni (44,9%) e tra i maturi dai 55<br />

ai 64 anni (43,8%), tra coloro che risiedono nel Sud (42,3%) e nei piccoli centri (42,8%) e,<br />

più in gener<strong>al</strong>e, tra i lavoratori dipendenti, impiegati, tecnici, funzionari e dirigenti (44,0%),<br />

ma soprattutto tra gli operai (47,7%). Se si considera l’area geografica di residenza, è possibile<br />

notare una certa differenziazione. In effetti, se nel Sud, come già specificato, s<strong>al</strong>e la<br />

percentu<strong>al</strong>e di coloro che spostano in avanti nel tempo il termine della crisi, nel Nord Est<br />

troviamo qu<strong>al</strong>che cittadino in più che si dice convinto della fine delle difficoltà entro un<br />

anno, mentre nel Nord Ovest e nelle regioni del Centro aumentano coloro che intravedono<br />

l’uscita d<strong>al</strong> tunnel nel medio termine.<br />

Del resto anche le previsioni nel breve periodo sull’andamento dell’economia nazion<strong>al</strong>e, di<br />

quella person<strong>al</strong>e e familiare non tendono certo <strong>al</strong> miglioramento. Ma indicano chiaramente<br />

che prev<strong>al</strong>e un atteggiamento di attesa. I più non si sbilanciano e, in maggioranza per tutti<br />

i tre ambiti dell’economia considerati, ritengono che la situazione nei prossimi sei mesi resterà<br />

stabile (Tabella 8.24). Così una discreta parte di it<strong>al</strong>iani, il 33,4 per cento, ha fatto propria<br />

una delle poche strategie praticabili per fronteggiare la crisi: ridurre i consumi (Grafico<br />

8.9). La percentu<strong>al</strong>e di coloro che hanno dichiarato di aver dovuto ricorrere <strong>al</strong>la riduzione<br />

dei consumi s<strong>al</strong>e tra i cittadini del Nord Est (37,7%) e del Sud (35,5%) e, più in gener<strong>al</strong>e,<br />

tra i residenti nei grandi centri urbani e tra gli adulti di età centr<strong>al</strong>e (45-54 anni). D<strong>al</strong> punto<br />

256


di vista socio profession<strong>al</strong>e, invece, questa strategia difensiva appare praticata in particolare<br />

dagli appartenenti <strong>al</strong>le due categorie più colpite dagli effetti della recessione: operai (39,0%)<br />

e ceto medio produttivo (38,1%) tra cui si annoverano lavoratori autonomi, piccoli imprenditori,<br />

artigiani e anche commercianti.<br />

Tabella 8.24 – Nell’arco dei prossimi sei mesi Lei pensa che la situazione…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Economia<br />

GENNAIO 2010<br />

Economia Economia<br />

nazion<strong>al</strong>e sua person<strong>al</strong>e della sua famiglia<br />

Migliorerà 30,5 18,1 19,4<br />

Rimarrà stabile 45,4 69,6 70,9<br />

Peggiorerà 22,2 10,6 8,6<br />

Non sa / Non risponde 0,2 1,7 1,1<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Grafico 8.9 - Lei direbbe che i suoi consumi nell’ultimo periodo…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Ridotti<br />

33,4%<br />

Aumentati<br />

20,1%<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

257<br />

Rimasti ugu<strong>al</strong>i<br />

46,5%<br />

L’attu<strong>al</strong>e situazione economica determina, inoltre, l’intensificarsi dell’atteggiamento di chiusura<br />

protezionistica verso i mercati internazion<strong>al</strong>i. Infatti, rispetto <strong>al</strong> gennaio 2009 aumenta<br />

di ben dieci punti percentu<strong>al</strong>i la quota di it<strong>al</strong>iani che chiedono una maggior protezione dell’economia<br />

nazion<strong>al</strong>e d<strong>al</strong>la concorrenza straniera, passando d<strong>al</strong> 49,1 per cento <strong>al</strong>l’attu<strong>al</strong>e 59,8<br />

per cento (Grafico 8.10). Sono ancora le categorie degli operai e degli appartenenti <strong>al</strong> ceto<br />

medio produttivo a manifestare la maggior chiusura verso i mercati esterni. Tra esse la domanda<br />

di protezionismo s<strong>al</strong>e rispettivamente <strong>al</strong> 69,6 per cento e <strong>al</strong> 78,5 per cento (Tabella 8.25).<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Grafico 8.10 - Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe cercare soprattutto…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

36,4<br />

43,9<br />

41,2<br />

Di aprire maggiormente la sua<br />

economia verso gli <strong>al</strong>tri paesi<br />

59,8<br />

49,1<br />

Infine, va notato che sul versante delle riforme per rilanciare lo sviluppo del Paese la più urgente<br />

appare quella del mercato del lavoro (51,0%). Seguono, abbastanza distanziate, la riforma<br />

del sistema fisc<strong>al</strong>e (31,8%) e quella della giustizia (26,6%). Anche la modifica<br />

dell’attu<strong>al</strong>e sistema scolastico trova discreti consensi negli it<strong>al</strong>iani (il 23,8%), che sembrano<br />

invece meno convinti della necessità di intervenire sulla pubblica amministrazione o sulle<br />

pensioni e, soprattutto, sulle istituzioni, indicate come ambito prioritario di interventi riformativi<br />

d<strong>al</strong> 9,5 per cento degli intervistati (Grafico 8.11).<br />

258<br />

53,0<br />

Proteggere la sua economia<br />

d<strong>al</strong>la concorrenza internazion<strong>al</strong>e<br />

3,8<br />

7,0<br />

Non sa / Non risponde<br />

Gennaio 2010 Gennaio 2009 Febbraio 2006<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Tabella 8.25 - Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe cercare soprattutto…<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti rispondono «abbastanza» o «molto»,<br />

in base <strong>al</strong>la categoria socio-profession<strong>al</strong>e)<br />

Operaio<br />

Tecnico, impiegato,<br />

dirigente<br />

e funzionario<br />

Libero<br />

professionista<br />

CATEGORIA SOCIO-PROFESSIONALE<br />

Ceto medioproduttivo<br />

e<br />

commercianti<br />

Di aprire maggiormente<br />

la sua economia<br />

verso gli <strong>al</strong>tri paesi 28,0 43,3 44,7 18,7 47,6 29,4 32,5 37,6 40,0 36,4<br />

Proteggere la sua<br />

economia d<strong>al</strong>la<br />

concorrenza<br />

internazion<strong>al</strong>e 69,6 54,0 54,8 78,5 50,7 66,5 64,5 55,3 55,1 59,8<br />

Non sa/Non risponde 2,4 2,7 0,5 2,8 1,7 4,1 3,0 7,1 4,9 3,8<br />

Tot<strong>al</strong>e 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Studenti<br />

Cas<strong>al</strong>inghe<br />

Disoccupati<br />

Pensionati<br />

Altro<br />

5,8<br />

Tutti


Grafico 8.11 - Qu<strong>al</strong>i riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo del Paese?<br />

(V<strong>al</strong>ori % del tot<strong>al</strong>e della prima e della seconda scelta;<br />

non risposte 1,5%)<br />

Mercato del lavoro<br />

Sistema fisc<strong>al</strong>e<br />

Istruzione<br />

Giustizia<br />

PA e burocrazia<br />

Pensioni<br />

Istituzioni<br />

8.17 LA CONCORRENZA È VANTAGGIOSA<br />

9,5<br />

Nonostante l’aumento della domanda di protezionismo, avanzata come misura contingente<br />

per fronteggiare la crisi, agli occhi della maggioranza degli it<strong>al</strong>iani il concetto di concorrenza<br />

mantiene una connotazione positiva. Per oltre il 30,4 per cento è sinonimo di libertà, per il<br />

18,1 per cento significa qu<strong>al</strong>ità e per il 15,6 per cento genera maggiore efficienza. Certo non<br />

mancano <strong>al</strong>cuni pareri negativi, in lieve aumento rispetto <strong>al</strong> 2006, che associano <strong>al</strong>la concorrenza<br />

l’ingiustizia, la disuguaglianza e l’egoismo (Grafico 8.12). Tuttavia, oltre i due terzi<br />

degli it<strong>al</strong>iani restano convinti che ci sia bisogno di più concorrenza per ridare slancio <strong>al</strong>l’intera<br />

economia del Paese (Grafico 8.13). Così, da parte di <strong>al</strong>meno la metà della popolazione,<br />

emerge chiaramente la richiesta di una maggiore concorrenza in tutti gli ambiti, settori<br />

e professioni considerate: dai trasporti (treni, aerei e perfino bus e tram loc<strong>al</strong>i) <strong>al</strong> settore dell’energia<br />

(luce e gas), dai dettaglianti ai professionisti (avvocati, notai, commerci<strong>al</strong>isti, ecc.),<br />

fino <strong>al</strong> settore sanitario. La convinzione che un grado superiore di diffusione della concorrenza<br />

sia oggi più che mai necessario nella maggior parte dei settori economici e degli ambiti<br />

profession<strong>al</strong>i è piuttosto radicata in molte componenti della società it<strong>al</strong>iana. Tanto che<br />

appare abbastanza trasvers<strong>al</strong>e anche d<strong>al</strong> punto di vista degli orientamenti politici (Tabella<br />

8.26). In effetti, tra coloro che si collocano su una delle posizioni dell’asse sinistra-destra,<br />

manifestando la propria posizione politica, non si notano differenze rilevanti. Casomai, una<br />

certa divergenza ris<strong>al</strong>ta soprattutto con gli «esterni», cioè coloro che non hanno un orientamento<br />

politico ben definito o che rifiutano di auto-collocarsi, caratterizzati, in gener<strong>al</strong>e,<br />

da una maggior prudenza nei confronti della concorrenza. Fa eccezione un solo ambito,<br />

quello della sanità, dove si evidenzia un c<strong>al</strong>o dei pareri favorevoli <strong>al</strong>la concorrenza tra chi<br />

si definisce di centro (42,6%), di centrosinistra (43,9%) e di sinistra (46,0%).<br />

14,6<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

259<br />

16,9<br />

23,8<br />

26,6<br />

31,8<br />

51,0<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Grafico 8.12 - Secondo Lei, parlare di concorrenza, nella società di oggi, significa<br />

parlare soprattutto di…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Libertà<br />

Qu<strong>al</strong>ità<br />

Efficienza<br />

Egoismo<br />

Disuguaglianza<br />

Ingiustizia<br />

Non sa / Non risponde<br />

4,4<br />

5,2<br />

7,1<br />

7,9<br />

7,8<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Del resto, gli it<strong>al</strong>iani, per lo più liberisti moderati, che richiedono l’intervento dello Stato nell’economia<br />

e nel mercato solo quando c’è veramente bisogno (57,3%), ma anche in buona<br />

parte stat<strong>al</strong>isti convinti, che vogliono che lo Stato intervenga sempre in ambito economico<br />

(36,0%), m<strong>al</strong> sopportano la privatizzazione (Grafico 8.14). Speci<strong>al</strong>mente se questa riguarda<br />

l’assistenza socio-sanitaria o l’istruzione. In questi settori, le decantate virtù della concorrenza<br />

non v<strong>al</strong>gono. O meglio, se concorrenza deve esserci, che sia comunque tra strutture<br />

pubbliche: tra osped<strong>al</strong>i pubblici o tra scuole pubbliche di aree o città diverse. Ma il sistema<br />

pubblico va difeso e lo Stato non deve lasciare spazio <strong>al</strong>le strutture private sia nella sanità<br />

sia nella gestione dell’istruzione, rispettivamente per un 79,8 per cento e un 85,9 per cento<br />

260<br />

9,7<br />

11,3<br />

13,9<br />

15,6<br />

15,5<br />

Grafico 8.13 - Secondo Lei, per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana,<br />

c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Maggiore<br />

Minore<br />

Va bene così<br />

Non sa / Non risponde<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

3,6<br />

4,3<br />

3,8<br />

5,4<br />

25,8<br />

25,9<br />

18,1<br />

21,3<br />

Gennaio 2010<br />

Febbraio 2006<br />

Gennaio 2010<br />

Febbraio 2006<br />

30,4<br />

31,8<br />

66,7<br />

64,5


di it<strong>al</strong>iani (Tabella 8.27). La contrarietà <strong>al</strong>la privatizzazione di sanità e istruzione aumenta<br />

ancora tra i più giovani, soprattutto se studenti, tra coloro che hanno titoli di studio medio<strong>al</strong>ti,<br />

tra le donne, tra i residenti nelle regioni del Centro e del Sud e tra coloro che si definiscono<br />

di sinistra o di centrosinistra.<br />

Tabella 8.26 - Secondo Lei, … c’è bisogno di più o meno concorrenza?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di quanti rispondono «più» concorrenza,<br />

in base <strong>al</strong>l’orientamento politico)<br />

ORIENTAMENTO POLITICO<br />

Sinistra Centro Centro Centro Destra Esterni Tutti<br />

Sinistra Destra<br />

Nei treni<br />

Nel settore<br />

dell'energia<br />

63,4 70,1 65,5 65,5 60,9 60,7 63,6<br />

(luce e gas)<br />

Nel commercio<br />

60,5 67,5 74,0 72,9 61,5 57,3 63,5<br />

<strong>al</strong> dettaglio<br />

Nei servizi<br />

di trasporto loc<strong>al</strong>e<br />

63,2 66,4 58,2 62,8 58,6 56,0 60,2<br />

(bus, tram)<br />

Tra i professionisti<br />

(avvocati, notai,<br />

56,6 60,5 58,0 63,0 61,0 56,5 58,8<br />

commerci<strong>al</strong>isti ecc.) 50,5 59,6 53,0 57,7 55,0 47,2 52,6<br />

Negli aerei 52,0 58,2 56,0 53,9 51,9 47,9 52,1<br />

Nella sanità 46,0 43,9 42,6 56,3 58,8 50,6 50,3<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Febbraio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Grafico 8.14 - Riguardo <strong>al</strong>l’intervento dello Stato nell’economia e sul mercato,<br />

direbbe che lo Stato deve intervenire…<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Sempre<br />

36,0%<br />

Non sa / Non<br />

risponde<br />

1,7%<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

261<br />

Mai<br />

5,0%<br />

Solo quando<br />

c'è veramente<br />

bisogno<br />

57,3%<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

Tabella 8.27 - Ora le illustrerò <strong>al</strong>cune opinioni su temi molto attu<strong>al</strong>i.<br />

Mi può dire quanto si sente d'accordo con esse?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

GENNAIO 2010<br />

Per niente Per niente Poco Molto Moltissimo Moltissimo<br />

o poco o molto<br />

Bisogna ridurre il peso<br />

dello Stato nella gestione<br />

dei servizi sociosanitari<br />

e lasciare più spazio<br />

<strong>al</strong>le strutture private 79,8 49,3 30,5 17,6 2,6 20,2<br />

Bisogna ridurre il peso<br />

dello Stato nella gestione<br />

dell’istruzione e lasciare<br />

più spazio <strong>al</strong>le scuole private 85,9 64,1 21,8 11,0 3,0 14,1<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

8.18 UNA SOCIETÀ «IN APNEA»<br />

La crisi glob<strong>al</strong>e di cui ancora non si intravede la fine, le trasformazioni continue del tessuto<br />

soci<strong>al</strong>e ed economico, l’<strong>al</strong>lentamento delle reti e dei legami comunitari e l’aumento di angosce<br />

e paure, re<strong>al</strong>i o indotte che siano, stanno togliendo il fiato <strong>al</strong>la società it<strong>al</strong>iana. Tanto<br />

che oggi arranca verso un <strong>futuro</strong> incerto e carico di rischi. Per cui, secondo il 46,1 per cento<br />

degli it<strong>al</strong>iani, è meglio non fare progetti troppo impegnativi per sé o per la propria famiglia.<br />

Si tratta di una parte consistente della popolazione che rinuncia, a priori, a progettare il proprio<br />

<strong>futuro</strong> ma soprattutto quello dei propri figli. Del resto, la maggioranza degli it<strong>al</strong>iani,<br />

circa il 57,8 per cento, quando prova a immaginare l’avvenire delle nuove generazioni rispetto<br />

a quello delle precedenti, lo raffigura in maniera peggiorativa, tanto per quanto riguarda<br />

la posizione soci<strong>al</strong>e quanto per quella economica (Grafico 8.15).<br />

Se ai più «l’ascensore soci<strong>al</strong>e» appare funzionare solo in discesa, ad <strong>al</strong>cuni, in particolare<br />

agli operai, ai commercianti, agli artigiani e ai piccoli imprenditori, sembra che sia perfino<br />

in caduta libera. Tra questi, in effetti, la percentu<strong>al</strong>e di coloro che ritengono che i giovani<br />

avranno una posizione soci<strong>al</strong>e ed economica peggiore s<strong>al</strong>e <strong>al</strong> 62,7 per cento. Quella it<strong>al</strong>iana,<br />

inoltre, sembra anche essere diventata una società guardinga, quasi in trincea. Almeno<br />

stando a quel 66,1 per cento di it<strong>al</strong>iani perennemente sul chi va là nei rapporti con<br />

gli <strong>al</strong>tri, con la gente. Perché gli <strong>al</strong>tri, considerati non degni di fiducia, se si presentasse l’occasione<br />

sarebbero sempre pronti ad approfittarne.<br />

262


Grafico 8.15 - Secondo Lei i giovani di oggi avranno nel prossimo <strong>futuro</strong><br />

una posizione soci<strong>al</strong>e ed economica migliore, più o meno ugu<strong>al</strong>e<br />

o peggiore rispetto a quella dei loro genitori?<br />

(V<strong>al</strong>ori %)<br />

Più o meno<br />

ugu<strong>al</strong>e<br />

18,1%<br />

Migliore<br />

21,9%<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

8.19 GLI IMMIGRATI COME RISORSA, IL MERITO COME BUSSOLA<br />

Tuttavia i risultati di questa indagine attestano che la società it<strong>al</strong>iana presenta ancora importanti<br />

segn<strong>al</strong>i di apertura e <strong>al</strong>cuni punti di riferimento ben s<strong>al</strong>di in molte delle sue componenti.<br />

È in c<strong>al</strong>o, ad esempio, la percezione dell’immigrazione come minaccia per la sicurezza e<br />

per l’occupazione (Grafico 8.16). Mentre, nei confronti degli immigrati, si evidenzia un<br />

grado di apertura molto <strong>al</strong>to, se si assume la disponibilità degli it<strong>al</strong>iani a lavorare <strong>al</strong>le dipendenze<br />

di un cittadino straniero: mediamente pari <strong>al</strong> 72,9 per cento con punte superiori<br />

tra gli adulti di età centr<strong>al</strong>e (79,3%), tra i giovani (77,7%) e tra coloro che hanno i titoli di<br />

studio più elevati (86,3%). In buona parte degli it<strong>al</strong>iani, d’<strong>al</strong>tro canto, è iniziata a maturare<br />

la consapevolezza che i futuri flussi immigratori dovranno essere caratterizzati d<strong>al</strong>l’arrivo di<br />

lavoratori stranieri qu<strong>al</strong>ificati (29,3%) e <strong>al</strong>tamente speci<strong>al</strong>izzati come medici, ingegneri, architetti<br />

(13,5%) e non più esclusivamente d<strong>al</strong>le tradizion<strong>al</strong>i figure di operai generici (23,2%)<br />

e di colf o badanti (20,2%).<br />

D<strong>al</strong>l’indagine, inoltre, emerge la propensione della stragrande maggioranza degli it<strong>al</strong>iani<br />

ad assumere il merito qu<strong>al</strong>e principio fondament<strong>al</strong>e nell’attribuzione di riconoscimenti di<br />

carriera o di remunerazione (70,0%). Inoltre, per il 48,3 per cento, il merito, associato <strong>al</strong>l’impegno<br />

person<strong>al</strong>e, è anche il mezzo princip<strong>al</strong>e per farsi strada nella vita, tanto nello studio<br />

quanto nel lavoro (Tabella 8.28). Del resto, è proprio nei confronti del lavoro che<br />

emergono le certezze maggiori. Gli it<strong>al</strong>iani, speci<strong>al</strong>mente se giovani e istruiti, continuano a<br />

desiderare per lo più un lavoro indipendente, da libero professionista (22,9%) o in proprio<br />

263<br />

Non sa / Non<br />

risponde<br />

2,2%<br />

Peggiore<br />

57,8%<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI<br />

(29,1%). Perché continua a prev<strong>al</strong>ere una concezione del lavoro basata sull’impegno, la fatica<br />

e il sapere. Come testimonia la graduatoria della reputazione per <strong>al</strong>cune categorie profession<strong>al</strong>i,<br />

che vede <strong>al</strong> primo posto quella degli operai (83,3%), subito seguita da quella dei<br />

piccoli e medi imprenditori (69,4%) (Tabella 8.29).<br />

Grafico 8.16 - Ora le illustrerò <strong>al</strong>cune opinioni su temi molto attu<strong>al</strong>i. Mi può dire<br />

quanto si sente d’accordo con le seguenti affermazioni?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di coloro che si dichiarano «moltissimo» o «molto»<br />

d’accordo)<br />

32,3<br />

28,5<br />

31,9<br />

40,5<br />

264<br />

29,0<br />

Gennaio 2010 Gennaio 2009 Febbraio 2006<br />

Gli immigrati sono una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone<br />

Gli immigrati costituiscono una minaccia per l'occupazione<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

Tabella 8.28 – Tra i seguenti aspetti, oggi, qu<strong>al</strong>e dà maggiori possibilità ai giovani<br />

di farsi strada nella vita?<br />

(V<strong>al</strong>ori %; non risposte 0,9%)<br />

GENNAIO 2010<br />

Prima Seconda Tot<strong>al</strong>e<br />

scelta scelta della prima<br />

e seconda scelta<br />

L'impegno e le capacità person<strong>al</strong>i nello studio e nel lavoro 40,2 8,1 48,3<br />

La qu<strong>al</strong>ità delle scuole/università frequentate<br />

Possibilità di fare esperienze di lavoro<br />

16,3 8,9 25,2<br />

e studio in It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong>l'estero 15,0 9,4 24,4<br />

La ricchezza e il sostegno della famiglia 12,9 6,6 19,5<br />

Le conoscenze person<strong>al</strong>i e familiari 7,4 3,9 11,3<br />

La fortuna, il caso 5,8 3,0 8,8<br />

L'aspetto fisico, la bellezza 1,6 1,2 2,8<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).


La società it<strong>al</strong>iana, dunque, è per molti aspetti «in apnea». D’<strong>al</strong>tro canto, annovera <strong>al</strong> proprio<br />

interno larghe componenti in grado di ridarle fiato. Perché risultano in grado di migliorare<br />

e innovare un modello che, comunque, fino a oggi ha garantito un benessere diffuso<br />

e portato la stragrande maggioranza degli it<strong>al</strong>iani a dichiararsi felici (82,9%).<br />

Tabella 8.29 – Quanta fiducia prova nelle seguenti categorie soci<strong>al</strong>i?<br />

(V<strong>al</strong>ori % di coloro che ripongono «moltissima» o «molta» fiducia)<br />

265<br />

Gennaio 2010 Gennaio 2009<br />

Operai 83,3 80,4<br />

I piccoli e medi imprenditori<br />

(rilevazioni precedenti: imprenditori generico) 69,4 63,3<br />

Professori (rilevazioni precedenti: insegnanti) 62,4 58,0<br />

Professionisti (avvocati, notai, commerci<strong>al</strong>isti, ecc.) 41,3 ---<br />

Commercianti 39,2 36,8<br />

I grandi imprenditori 32,7 34,6<br />

Impiegati pubblici (rilevazione precedente: dipendenti pubblici) 30,4 31,1<br />

Fonte: Sondaggio Demos & Pi, Gennaio 2010 (base: 2206 casi).<br />

8. LIBERTÀ E BENESSERE IN TEMPI DI CRISI


APPENDICI<br />

E BIBLIOGRAFIA<br />

1. TITOLO PAPER


QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE<br />

Variabili struttur<strong>al</strong>i<br />

1. Dimensione della città di residenza<br />

dell’intervistato<br />

2. Città capoluogo / non capoluogo<br />

di provincia<br />

3. Provincia<br />

4. Regione<br />

Genere<br />

1. Maschio<br />

2. Femmina<br />

Classe d’Età<br />

Livello d’istruzione<br />

1. Scuola media non conclusa<br />

2. Scuola media inferiore<br />

3. Diploma superiore<br />

4. Laurea<br />

Che attività svolge attu<strong>al</strong>mente:<br />

1. Operaio<br />

2. Tecnico, impiegato, funzionario<br />

3. Dirigente<br />

4. Commerciante<br />

5. Artigiano<br />

6. Libero professionista<br />

(avvocato,medico, geometra..)<br />

7. Imprenditore<br />

8. Studente (anche studente-lavoratore)<br />

9. Cas<strong>al</strong>inga<br />

10. Disoccupato<br />

11. Pensionato<br />

12. Militare / Servizio civile volontario<br />

13. Altro<br />

In che settore (intervistato)?<br />

1. Pubblico<br />

2. Privato<br />

Svolge questa attività come «lavoratore atipico» (intervistato)<br />

(coll. coordinata e continuativa, coll. occasion<strong>al</strong>e,<br />

lavoro senza contratto o non regolamentato)<br />

1. Si<br />

2. No<br />

Mi può dire con che frequenza si è recato in chiesa<br />

nell’ultimo anno?<br />

1. Mai<br />

2. Quasi mai<br />

3. Circa una volta <strong>al</strong> mese<br />

4. Una volta <strong>al</strong>la settimana o quasi<br />

269<br />

ATTEGGIAMENTI SULLA CONCORRENZA<br />

Secondo Lei, parlare di «concorrenza», nella società<br />

di oggi, significa parlare soprattutto di… (ruotare)<br />

1. Efficienza<br />

2. Qu<strong>al</strong>ità<br />

3. Libertà<br />

4. Ingiustizia<br />

5. Disuguaglianza<br />

6. Egoismo<br />

Secondo Lei, per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana,<br />

c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?<br />

1. Maggiore<br />

2. Va bene così (da non leggere)<br />

3. Minore<br />

4. Non sa / non risponde (da non leggere)<br />

Secondo Lei, …c’è bisogno di più o meno concorrenza?<br />

(Più=1, Va bene come è ora=2 da non proporre<br />

, Meno=3)<br />

1. Nel commercio <strong>al</strong> dettaglio<br />

2. Tra i professionisti<br />

(avvocati, notai, commerci<strong>al</strong>isti ecc.)<br />

3. Nel settore dell’energia (luce e gas)<br />

4. Nei servizi di trasporto loc<strong>al</strong>e (bus, tram)<br />

5. Nei treni<br />

6. Negli aerei<br />

7. Nella sanità<br />

RAPPORTO PUBBLICO/PRIVATO<br />

E SENSO CIVICO<br />

Ora le illustrerò <strong>al</strong>cune opinioni su temi molto attu<strong>al</strong>i.<br />

Mi può dire quanto si sente d’accordo con<br />

esse? (Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;<br />

Far ruotare le opinioni)<br />

1. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione<br />

dei servizi sociosanitari e lasciare più spazio <strong>al</strong>le<br />

strutture private<br />

2. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione<br />

dell’istruzione e lasciare più spazio <strong>al</strong>le scuole<br />

private<br />

3. Oggi è inutile fare progetti impegnativi per sé e<br />

per la propria famiglia, perché il <strong>futuro</strong> è incerto<br />

e carico di rischi<br />

4. È giusto che le persone più competenti ottengano<br />

riconoscimenti economici superiori<br />

5. Gli immigrati costituiscono una minaccia per<br />

l’occupazione<br />

6. Gli immigrati sono una minaccia per l’ordine<br />

pubblico e la sicurezza delle persone<br />

QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE


QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE<br />

7. Evadere le tasse è necessario, qu<strong>al</strong>che volta perfino<br />

giusto<br />

Con qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni è maggiormente<br />

d’accordo?<br />

1. Lo Stato deve intervenire sempre sull’economia<br />

e sul mercato.<br />

2. Lo Stato deve intervenire sull’economia e sul<br />

mercato solo quando c’è veramente bisogno.<br />

3. Lo Stato non deve intervenire mai sull’economia<br />

e sul mercato.<br />

Le elenco <strong>al</strong>cuni comportamenti tenuti da molti it<strong>al</strong>iani.<br />

Mi dovrebbe dire, per ognuno, se, secondo Lei,<br />

sono giustificabili (Sempre, Quasi sempre, Qu<strong>al</strong>che<br />

volta, Quasi mai, Mai, Far ruotare gli item)<br />

1. Copiare a scuola o ad un esame<br />

2. Copiare ad un concorso pubblico<br />

2. Usare CD music<strong>al</strong>i, videocassette, DVD o programmi<br />

per computer copiati<br />

4. Ricorrere a conoscenze person<strong>al</strong>i per ridurre i<br />

tempi di attesa per una visita medica<br />

5. Ricorrere a una raccomandazione per ottenere<br />

un lavoro, un incarico profession<strong>al</strong>e<br />

6. Offrire del denaro a un pubblico uffici<strong>al</strong>e per ottenere<br />

dei benefici<br />

Lei sarebbe disposto a lavorare <strong>al</strong>le dipendenze o<br />

sotto la supervisione di un immigrato?<br />

1. Si<br />

2. No<br />

3. Non so (da non proporre)<br />

Secondo Lei, di qu<strong>al</strong>i immigrati l’It<strong>al</strong>ia avrà più bisogno<br />

in <strong>futuro</strong>?<br />

1. Lavoratori che svolgano attività poco qu<strong>al</strong>ificate<br />

2. Lavoratori che badino agli anziani e/o ai bambini<br />

3. Lavoratori speci<strong>al</strong>izzati<br />

4. Lavoratori <strong>al</strong>tamente speci<strong>al</strong>izzati (ingegneri,<br />

medici ecc.)<br />

5. Non abbiamo più bisogno di lavoratori immigrati<br />

di qu<strong>al</strong>siasi tipo(da non proporre)<br />

TEMI GENERALI (fiducia, felicità, mobilità e prestigio<br />

soci<strong>al</strong>e)<br />

Quanta fiducia prova nei confronti delle seguenti organizzazioni,<br />

associazioni, gruppi soci<strong>al</strong>i, istituzioni?<br />

(Moltissima=4, Molta=3, Poca=2, Nessuna=1; Da<br />

Non Proporre il Non sa, non risponde=0, Far ruotare<br />

gli item)<br />

1. La Magistratura<br />

2. Il Comune<br />

3. La Regione<br />

4. La Provincia<br />

270<br />

5. <strong>Confindustria</strong><br />

6. I Sindacati confeder<strong>al</strong>i<br />

7. La Chiesa<br />

8. La scuola<br />

9. L’Unione Europea<br />

10. Lo Stato<br />

11. Il Presidente della Repubblica<br />

(Napolitano)<br />

12. Le banche<br />

13. Il Governo<br />

Quanta fiducia prova nei confronti delle categorie<br />

soci<strong>al</strong>i?<br />

(Moltissima=4, Molta=3, Poca=2, Nessuna=1; Da<br />

Non Proporre il Non sa, non risponde=0, Far ruotare<br />

gli item)<br />

I grandi imprenditori<br />

I piccoli e medi imprenditori<br />

Commercianti<br />

Professori<br />

Impiegati pubblici<br />

Operai<br />

Professionisti (avvocati, notai, commerci<strong>al</strong>isti ecc.)<br />

Lei direbbe che…<br />

1. Gran parte della gente è degna di fiducia oppure<br />

2. Gli <strong>al</strong>tri, se gli si presentasse l’occasione, approfitterebbero<br />

della mia buona fede<br />

Lei si definirebbe una persona:<br />

1. Molto felice<br />

2. Abbastanza felice<br />

3. Poco felice<br />

4. Per niente felice<br />

Se potesse scegliere un lavoro per sé o per i suoi figli,<br />

qu<strong>al</strong>e preferirebbe?<br />

1. Un lavoro in proprio<br />

2. Un lavoro da libero professionista<br />

3. Un lavoro <strong>al</strong>le dipendenze di una grande impresa<br />

4. Un lavoro <strong>al</strong>le dipendenze di una piccola impresa<br />

o di un artigiano<br />

5. Un lavoro <strong>al</strong>le dipendenze di un ente pubblico<br />

6. Non sa, non risponde (da non proporre)<br />

Qu<strong>al</strong>e dei seguenti aspetti conta di più in una persona<br />

per godere di considerazione soci<strong>al</strong>e? (due risposte<br />

in ordine di importanza)<br />

1. Avere una bella casa<br />

2. Fare un lavoro prestigioso<br />

3. Avere una bella auto<br />

4. Andare in TV o sui giorn<strong>al</strong>i<br />

5. Essere colti e istruiti<br />

6. Avere un bell’aspetto fisico, la bellezza<br />

7. Essere simpatici


Tra i seguenti aspetti, oggi, qu<strong>al</strong>e dà maggiori possibilità<br />

ai giovani di farsi strada nella vita? (due risposte<br />

in ordine di importanza)<br />

1. La ricchezza e il sostegno della famiglia<br />

2. La qu<strong>al</strong>ità delle scuole/università frequentate<br />

3. La fortuna, il caso<br />

4. Le conoscenze person<strong>al</strong>i e familiari<br />

5. La possibilità di fare esperienze di lavoro e studio<br />

in It<strong>al</strong>ia e <strong>al</strong>l’estero<br />

6. L’aspetto fisico, la bellezza<br />

7. L’impegno e le capacità person<strong>al</strong>i nello studio e<br />

nel lavoro<br />

Secondo Lei, i giovani di oggi avranno nel prossimo<br />

<strong>futuro</strong> una posizione soci<strong>al</strong>e ed economica migliore,<br />

più o meno ugu<strong>al</strong>e o peggiore rispetto a quella dei<br />

loro genitori?<br />

1. Migliore<br />

2. Più o meno ugu<strong>al</strong>e<br />

3. Peggiore<br />

Parlando di crimin<strong>al</strong>ità in It<strong>al</strong>ia ritiene più grave:<br />

1. La crimin<strong>al</strong>ità comune, cioè i reati fatti da individui,<br />

o<br />

2. La crimin<strong>al</strong>ità organizzata cioè i reati fatti d<strong>al</strong>la<br />

mafia, camorra, n’drangheta ecc.<br />

LA CRISI (Conseguenze e prospettive)<br />

Nell’arco dei prossimi sei mesi Lei pensa che la situazione<br />

(migliora, rimane stabile, peggiora)<br />

1. Dell’economia nazion<strong>al</strong>e<br />

2. Economica sua person<strong>al</strong>e<br />

3. Economica della sua famiglia<br />

Secondo Lei, quando finirà l’attu<strong>al</strong>e crisi economica?<br />

1. Entro sei mesi<br />

2. Entro un anno<br />

3. Entro due anni<br />

4. Tra più di due anni<br />

Lei direbbe che i suoi consumi nell’ultimo periodo<br />

sono...<br />

1. Aumentati<br />

2. Ridotti<br />

3. Rimasti ugu<strong>al</strong>i<br />

Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe<br />

cercare soprattutto…<br />

1. Di aprire maggiormente la sua economia verso<br />

gli <strong>al</strong>tri paesi<br />

2. Proteggere la sua economia d<strong>al</strong>la concorrenza<br />

internazion<strong>al</strong>e<br />

271<br />

Qu<strong>al</strong>i riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo<br />

del Paese? (indicarne due, far ruotare)<br />

1. Pensioni<br />

2. Istruzione<br />

3. Pubblica amministrazione e burocrazia<br />

4. Mercato del lavoro<br />

5. Giustizia<br />

6. Sistema fisc<strong>al</strong>e<br />

7. Istituzioni<br />

LIBERTÀ E BENESSERE SOCIALE<br />

Oggi in It<strong>al</strong>ia, secondo Lei, c’è maggiore o minore libertà<br />

rispetto <strong>al</strong> passato (per es. 20 anni fa) per<br />

quanto riguarda: (Maggiore=1, Ugu<strong>al</strong>e=2 da non proporre,<br />

Minore=3)<br />

1. La possibilità di fare impresa<br />

2. Il mercato del lavoro<br />

3. Le persone, gli individui<br />

4. L’informazione<br />

5. La politica<br />

In gener<strong>al</strong>e, Lei in che misura si sente libero?<br />

(Per niente, Poco, Abbastanza, Molto)<br />

L’economia della sua regione è cresciuta tantissimo,<br />

negli ultimi vent’anni, assieme <strong>al</strong> benessere delle persone.<br />

Lei pensa che nel prossimo <strong>futuro</strong> … (una sola<br />

risposta)<br />

1. Occorre continuare a produrre e lavorare, perché<br />

se r<strong>al</strong>lentiamo potremmo perdere la ricchezza<br />

che abbiamo costruito.<br />

2. Occorre fare più attenzione <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>ità dello<br />

sviluppo, a costo di ridurre il ritmo della crescita<br />

economica, perché rischiamo un <strong>futuro</strong> infelice.<br />

3. Il benessere che abbiamo costruito può bastare.<br />

L’importante è mantenerlo e difenderlo.<br />

Alcune imprese della sua regione hanno spostato o<br />

stanno spostando le proprie attività o una parte di<br />

esse <strong>al</strong>l’estero. Secondo Lei si tratta di un fatto...<br />

1. Vantaggioso per le imprese e per l’economia<br />

della regione<br />

2. Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per<br />

lo sviluppo economico della sua regione<br />

3. Solo negativo<br />

Pensando <strong>al</strong> ruolo dell’industria nello sviluppo della<br />

sua regione, in che misura secondo Lei le attività<br />

delle imprese industri<strong>al</strong>i… (Molto, Abbastanza, Poco,<br />

Per nulla)<br />

Producono occupazione e benessere<br />

Danneggiano l’ambiente e il territorio<br />

Aumentano le disuguaglianze e il conflitto soci<strong>al</strong>e<br />

Sono attente ai problemi della comunità in cui operano QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE


QUESTIONARIO DEMOS & PI - POPOLAZIONE<br />

Contribuiscono a rendere attrattivo un territorio, offrendo<br />

opportunità di lavoro e acquistando servizi<br />

Oggi in It<strong>al</strong>ia c’è maggiore o minore benessere rispetto<br />

<strong>al</strong> passato (per es. 20 anni fa)?<br />

1. Maggiore<br />

2. Ugu<strong>al</strong>e (da non proporre)<br />

3. Minore<br />

Qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni la trova maggiormente<br />

d’accordo?<br />

1. Un’impresa, accanto <strong>al</strong> profitto, deve investire<br />

in progetti a favore della società e del territorio<br />

in cui opera<br />

2. Un’impresa deve puntare <strong>al</strong> profitto, ma <strong>al</strong>lo<br />

stesso tempo non danneggiare il territorio e la<br />

società in cui opera<br />

3. Un’impresa deve guardare esclusivamente <strong>al</strong><br />

profitto<br />

Secondo Lei qu<strong>al</strong>e settore ha contribuito di più <strong>al</strong>lo<br />

sviluppo della sua regione?<br />

1. Pubblica amministrazione<br />

2. Servizi <strong>al</strong>le persone<br />

3. Servizi <strong>al</strong>le imprese<br />

4. Banche<br />

5. Turismo<br />

6. Commercio<br />

7. Industria<br />

8. Artigianato<br />

9. Agricoltura<br />

Secondo Lei qu<strong>al</strong> è stato e qu<strong>al</strong>e pensa sarà nei prossimi<br />

5 anni, il ruolo dell’industria nello sviluppo della<br />

sua regione?<br />

(Per niente, Poco, Abbastanza o Molto importante)<br />

VARIABILI POLITICHE<br />

Politicamente Lei si definisce di…<br />

1. Sinistra<br />

2. Centrosinistra<br />

3. Centro<br />

4. Centrodestra<br />

5. Destra<br />

6. Non mi riconosco in questo schema<br />

(non leggere)<br />

7. Non sa / non risponde (non leggere)<br />

272<br />

Se oggi dovesse votare per le elezioni politiche nazion<strong>al</strong>i,<br />

Lei qu<strong>al</strong>e partito voterebbe <strong>al</strong>la camera?<br />

(ruotare)<br />

1. Partito Democratico di Bersani<br />

2. Lista Di Pietro – It<strong>al</strong>ia dei v<strong>al</strong>ori<br />

3. Popolo della Libertà di Berlusconi e Fini<br />

4. Lega Nord di Bossi<br />

5. Mpa di Lombardo<br />

6. Rifondazione Comunista – Comunisti It<strong>al</strong>iani di<br />

Ferrero e Diliberto<br />

7. Sinistra e Libertà di Vendola, Fava e Francescato<br />

8. Udc – Unione di Centro di Casini<br />

9. Alleanza per l’It<strong>al</strong>ia di Rutelli<br />

10. La Destra di Storace<br />

11. Lista Emma Bonino e Marco Pannella<br />

12. Altro partito (specificare)<br />

13. (da non proporre) Scheda bianca<br />

14. (da non proporre) Non andrei a votare<br />

15. (da non proporre) Non sa / non risponde


QUESTIONARIO DEMOS & PI - IMPRESE<br />

Variabili struttur<strong>al</strong>i<br />

1. Macro settore<br />

2. Numero di addetti<br />

3. Provincia<br />

4. Regione<br />

5. Area geografica<br />

La sua attività/impresa in qu<strong>al</strong>e settore opera?<br />

1. Energia/estrattivo<br />

2. Materi<strong>al</strong>i da costruzione<br />

3. Chimico/farmaceutico<br />

4. Met<strong>al</strong>meccanico<br />

5. Alimentare<br />

6. Tessile/abbigliamento<br />

7. Pelli/cuoio/c<strong>al</strong>zature<br />

8. Legno/arredo<br />

9. Carta/editoria<br />

10. Gomma/plastica<br />

11. Edilizia/inst<strong>al</strong>lazioni<br />

12. Trasporti/comunicazioni<br />

13. Servizi <strong>al</strong>le imprese<br />

14. Altri servizi<br />

15. Altro (specificare)<br />

Lei nell’azienda è…<br />

1. Il titolare<br />

2. L’amministratore delegato<br />

3. Un membro del consiglio di amministrazione<br />

4. Un socio<br />

5. Un familiare del titolare<br />

6. Altro (specificare)<br />

Quante persone, incluso Lei, lavorano nella sua<br />

azienda?<br />

Qu<strong>al</strong> è la quota delle esportazioni sul tot<strong>al</strong>e del fatturato<br />

della sua azienda?<br />

In percentu<strong>al</strong>e (es. 50%)<br />

I suoi princip<strong>al</strong>i concorrenti stranieri a qu<strong>al</strong>e Paese<br />

appartengono? (indicarne due)<br />

1. Regno Unito<br />

2. Cina<br />

3. India<br />

4. Brasile<br />

5. Germania<br />

6. Francia<br />

7. Spagna<br />

8. Stati Uniti<br />

9. Altri paesi emergenti<br />

10. Altri paesi avanzati<br />

11. Non ha concorrenti stranieri (da non proporre)<br />

273<br />

In qu<strong>al</strong>e area geografica sta facendo o ha intenzione<br />

di fare i suoi investimenti?<br />

(Li sta già facendo=1, Ha intenzione di farli=2, Non<br />

li sta facendo e Non ha intenzione di farli=3)<br />

It<strong>al</strong>ia<br />

Europa Occident<strong>al</strong>e<br />

Europa Orient<strong>al</strong>e<br />

Asia<br />

Africa<br />

America del Nord<br />

America Latina<br />

Come immagina la competitività della sua azienda tra<br />

cinque anni?<br />

1. Migliore<br />

2. Ugu<strong>al</strong>e a oggi<br />

3. Peggiore<br />

4. Non ci sarà più (da non proporre)<br />

E, sempre tra cinque anni, come immagina la competitività<br />

del settore manifatturiero it<strong>al</strong>iano?<br />

1. Migliore<br />

2. Ugu<strong>al</strong>e a oggi<br />

3. Peggiore<br />

Di fronte <strong>al</strong> problema del passaggio generazion<strong>al</strong>e,<br />

qu<strong>al</strong> è la migliore strategia da adottare?<br />

1. Mantenere la proprietà e la gestione <strong>al</strong>l’interno<br />

della famiglia<br />

2. Mantenere la proprietà ma ricorrere a manager<br />

esterni <strong>al</strong>la famiglia<br />

3. Mantenere la gestione a livello familiare e aprire<br />

il capit<strong>al</strong>e a soggetti esterni<br />

4. Ricorrere a manager e aprire il capit<strong>al</strong>e a soggetti<br />

esterni<br />

Nel segmento di mercato della sua azienda, qu<strong>al</strong> è il<br />

fattore di successo decisivo nei confronti dei concorrenti?<br />

(due risposte)<br />

1. Il prezzo<br />

2. Il contenuto tecnologico particolarmente avanzato<br />

del prodotto<br />

3. La qu<strong>al</strong>ità del prodotto<br />

4. Il rispetto dei tempi per le consegne<br />

5. La flessibilità produttiva<br />

6. La qu<strong>al</strong>ificazione del person<strong>al</strong>e<br />

7. Il marketing<br />

8. Altro (specificare)<br />

QUESTIONARIO DEMOS & PI - IMPRESE<br />

1. TITOLO PAPER


QUESTIONARIO DEMOS & PI - IMPRESE<br />

1. TITOLO PAPER<br />

Secondo Lei, quando finirà l’attu<strong>al</strong>e crisi economica?<br />

1. Entro sei mesi<br />

2 Entro un anno<br />

3. Entro due anni<br />

4. Tra più di due anni<br />

5. La crisi è già finita (da non proporre)<br />

Secondo Lei, in questo momento, l’It<strong>al</strong>ia dovrebbe<br />

cercare soprattutto…<br />

1. Di aprire maggiormente la sua economia verso<br />

gli <strong>al</strong>tri paesi<br />

2. Proteggere la sua economia d<strong>al</strong>la concorrenza<br />

internazion<strong>al</strong>e<br />

Qu<strong>al</strong>i riforme ritiene più urgenti per rilanciare lo sviluppo<br />

del Paese? (indicarne due)<br />

1. Pensioni<br />

2. Istruzione<br />

3. Pubblica amministrazione e burocrazia<br />

4. Mercato del lavoro<br />

5. Giustizia<br />

6. Sistema fisc<strong>al</strong>e<br />

7. Istituzioni<br />

Secondo Lei, per ridare slancio <strong>al</strong>l’economia it<strong>al</strong>iana,<br />

c’è bisogno di maggiore o minore concorrenza?<br />

1. Maggiore<br />

2. Va bene così (da non leggere)<br />

3. Minore<br />

4. Non sa / non risponde (da non leggere)<br />

Secondo Lei, … c’è bisogno di più o meno concorrenza?<br />

(Più=1, Va bene come è ora=2 da non proporre,<br />

Meno=3)<br />

1. Nel commercio <strong>al</strong> dettaglio<br />

2. Tra i professionisti (avvocati, notai, commerci<strong>al</strong>isti<br />

ecc.)<br />

3. Nel settore dell’energia (luce e gas)<br />

4. Nei servizi di trasporto loc<strong>al</strong>e (bus, tram)<br />

5. Nei treni<br />

6. Negli aerei<br />

7. Nella sanità<br />

Quanto ritiene efficace ciascuno dei seguenti provvedimenti,<br />

per rilanciare il sistema economico it<strong>al</strong>iano?<br />

(Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;<br />

Far ruotare le opinioni)<br />

Riduzioni fisc<strong>al</strong>i per le imprese<br />

Riduzione dei costi dell’energia<br />

Semplificazione ed efficienza della Pubblica Amministrazione<br />

Liber<strong>al</strong>izzazioni nel settore dei servizi<br />

Flessibilità del mercato del lavoro<br />

Aiuti <strong>al</strong>l’export e <strong>al</strong>le attività <strong>al</strong>l’estero<br />

Riforma meritocratica della scuola e dell’università<br />

Investimenti in infrastrutture<br />

274<br />

Facilitare l’accesso ai servizi finanziari e di credito<br />

Ammodernamento del sistema di ammortizzatori soci<strong>al</strong>i<br />

Potenziare l’integrazione tra imprese e università/centri<br />

di ricerca<br />

Tra i provvedimenti che le ho appena elencato, qu<strong>al</strong>e<br />

ritiene il più urgente? (non rileggere la lista se non<br />

esplicitamente richiesto)<br />

Tra le seguenti misure fisc<strong>al</strong>i, fermo restando i vincoli<br />

del bilancio pubblico, qu<strong>al</strong>e ritiene sia la migliore per<br />

rilanciare la competitività delle imprese it<strong>al</strong>iane?<br />

1. Incentivi per gli investimenti in ricerca e sviluppo<br />

2. Gradu<strong>al</strong>e riduzione dell’IRAP sul costo del lavoro<br />

3. Incentivi agli investimenti<br />

4. Agevolazioni per le aggregazioni di imprese<br />

5. Incentivi <strong>al</strong>la ricapit<strong>al</strong>izzazione<br />

Con qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni è maggiormente<br />

d’accordo?<br />

1. Lo Stato deve intervenire sempre sull’economia<br />

e sul mercato<br />

2. Lo Stato deve intervenire sull’economia e sul<br />

mercato solo quando c’è veramente bisogno<br />

3. Lo Stato non deve intervenire mai sull’economia<br />

e sul mercato<br />

Ora le illustrerò <strong>al</strong>cune opinioni su temi molto attu<strong>al</strong>i.<br />

Mi può dire quanto si sente d’accordo con<br />

esse? (Moltissimo=4, Molto=3, Poco=2, Per niente=1;<br />

ruotare le opinioni)<br />

Oggi è inutile fare progetti impegnativi per sé e per la<br />

propria famiglia, perché il <strong>futuro</strong> è incerto e carico di<br />

rischi<br />

Gli immigrati costituiscono una minaccia per l’occupazione<br />

Gli immigrati sono una minaccia per l’ordine pubblico<br />

e la sicurezza delle persone<br />

Evadere le tasse è necessario, qu<strong>al</strong>che volta perfino<br />

giusto<br />

Lei ritiene che la competitività dell’It<strong>al</strong>ia nei confronti<br />

degli <strong>al</strong>tri Paesi Europei, rispetto a tre anni fa, sia:<br />

1. Aumentata<br />

2. Rimasta ugu<strong>al</strong>e<br />

3. Diminuita<br />

Tra cinque anni, secondo Lei la competitività dell’It<strong>al</strong>ia<br />

nei confronti degli <strong>al</strong>tri paesi europei:<br />

1. Aumenterà<br />

2. Resterà ugu<strong>al</strong>e<br />

3. Diminuirà


Secondo Lei, di qu<strong>al</strong>i immigrati l’It<strong>al</strong>ia avrà più bisogno<br />

in <strong>futuro</strong>?<br />

1. Lavoratori che svolgano attività poco qu<strong>al</strong>ificate<br />

2. Lavoratori che badino agli anziani e/o ai bambini<br />

3. Lavoratori speci<strong>al</strong>izzati<br />

4. Lavoratori <strong>al</strong>tamente speci<strong>al</strong>izzati (ingegneri,<br />

medici ecc.)<br />

5. Non abbiamo più bisogno di lavoratori immigrati<br />

di qu<strong>al</strong>siasi tipo(da non proporre)<br />

Oggi in It<strong>al</strong>ia, secondo lei, c’è maggiore o minore libertà<br />

rispetto <strong>al</strong> passato (per es. 20 anni fa) per<br />

quanto riguarda: (Maggiore=1, Ugu<strong>al</strong>e=2 da non proporre,<br />

Minore=3)<br />

La possibilità di fare impresa<br />

Il mercato del lavoro<br />

Le persone, gli individui<br />

L’informazione<br />

La politica<br />

Secondo Lei, i giovani di oggi avranno nel prossimo<br />

<strong>futuro</strong> una posizione soci<strong>al</strong>e ed economica migliore,<br />

più o meno ugu<strong>al</strong>e o peggiore rispetto a quella dei<br />

loro genitori?<br />

1. Migliore<br />

2. Più o meno ugu<strong>al</strong>e<br />

3. Peggiore<br />

Alcune imprese della sua regione hanno spostato o<br />

stanno spostando le proprie attività o una parte di<br />

esse <strong>al</strong>l’estero. Secondo Lei si tratta di un fatto...<br />

1. Vantaggioso per le imprese e per l’economia<br />

della regione<br />

2. Vantaggioso per le imprese, ma un rischio per lo<br />

sviluppo economico della sua regione<br />

3. Solo negativo<br />

Oggi in It<strong>al</strong>ia c’è maggiore o minore benessere rispetto<br />

<strong>al</strong> passato (per es. 20 anni fa)?<br />

1. Maggiore<br />

2. Ugu<strong>al</strong>e (da non proporre)<br />

3. Minore<br />

Qu<strong>al</strong>e delle seguenti affermazioni la trova maggiormente<br />

d’accordo?<br />

1. Un’impresa, accanto <strong>al</strong> profitto, deve investire in<br />

progetti a favore della società e del territorio in<br />

cui opera<br />

2. Un’impresa deve puntare <strong>al</strong> profitto, ma <strong>al</strong>lo<br />

stesso tempo non danneggiare il territorio e la società<br />

in cui opera<br />

3. Un’impresa deve guardare esclusivamente <strong>al</strong><br />

profitto<br />

275<br />

Per ciascuna delle seguenti strategie aziend<strong>al</strong>i, mi può<br />

dire se la sua impresa l’ha già adottata, pensa di<br />

adottarla presto o non intende adottarla?<br />

(Si l’ha già adottata=1, No, ma pensa di adottarla<br />

presto=2 e No, non l’ha adottata e Non intende adottarla=3)<br />

Entrata in nuovi mercati esteri<br />

Deloc<strong>al</strong>izzazione <strong>al</strong>l’estero di <strong>al</strong>cune attività produttive<br />

Aggregazione con <strong>al</strong>tre imprese anche riducendo il<br />

controllo<br />

Finanziamenti esterni anche riducendo il controllo<br />

Innovazione di prodotto<br />

Innovazione di processo<br />

Riduzione dell’occupazione<br />

Investimenti sul marchio<br />

Inserimento di nuove profession<strong>al</strong>ità manageri<strong>al</strong>i<br />

Nuove strategie commerci<strong>al</strong>i<br />

DATI SULL’INTERVISTATO<br />

Qu<strong>al</strong> è il suo anno di nascita?<br />

Genere<br />

1. Maschio<br />

2. Femmina<br />

Qu<strong>al</strong> è il suo titolo di studio?<br />

1. Scuola media non conclusa<br />

2. Scuola media inferiore<br />

3. Diploma superiore<br />

4. Laurea<br />

Politicamente Lei si definisce di…<br />

1. Sinistra<br />

2. Centrosinistra<br />

3. Centro<br />

4. Centrodestra<br />

5. Destra<br />

6. Non mi riconosco in questo schema<br />

(non leggere)<br />

7. Non sa / non risponde (non leggere)<br />

QUESTIONARIO DEMOS & PI - IMPRESE<br />

1. TITOLO PAPER


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Finito di stampare nell’aprile 2010<br />

Impaginazione: D.effe comunicazione - Roma<br />

Stampa: Vamagrafica Srl - Ariccia (RM)

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