Erthole - Sardegna Cultura
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Ero fermo a quel tempo e non riuscivo a pensare altro, immoto come il volano di su Dominariu. Saverio parlava ancora. – Ricordavo un cortile, – gli dissi. – Abbattuto. Le nuove case sono come i santi di Lollove, a cul’a pare. Il cortile… Nelle sere d’estate era il ritrovo della gente. Uomini e donne scendevano a prendere il fresco. Gli anziani raccontavano sas balentías di una volta, e i giovani scherzavano con le ragazze. Le voci si levavano e correvano liete nell’aria. Il paese viveva così la sua quiete. – Li hanno demoliti tutti? – Qualcuno lo hanno salvato. È cresciuto il paese, ma la gente va via –. Camminavamo ancora e Saverio mi enumerava le molte case sorte sugli spazi dei cortili. Parevano mondi opposti, quello delle rovine e quello delle torri. Bisognava ricondurre tutto a chi aveva costruito e abbattuto, dare un senso a ciò che pareva non averne. Saverio continuava la sua puntigliosa rassegna, nominando quelli che c’erano e quelli che non c’erano più, come se volesse scandire gli inevitabili mutamenti che si accompagnano al vivere e al morire. Già imbruniva, e io non riuscivo più a intravedere la misera pompa delle case nuove e le rovine dei cortili abbattuti. Si erano accese le luci, ma non potevano illuminare niente. Molte lampade erano rotte, altre, appese a fili tesi da casa a casa, gettavano poveri aloni inghiottiti dal buio che incombeva sul paese. Mi tornarono alla mente i deliri notturni di Nicola; da qualche vecchia casa sporgevano ancora le mensole delle lampade che egli contava trascinandosi dietro la sua Geronima. C’erano anche le mensole di Zuacchinu, che aveva acceso altre lampade, quando si erano spente quelle di su Dominariu. Indicai un’altra casa, più oscura della notte e sola, con la sua scalinata di pietra grezza all’esterno e una porta in alto, angusta come il ballatoio senza ringhiera sul quale s’affacciava. – È rimasta così. Il povero Battalla… – Saverio voleva raccontare la storia di quel rudere, ma le sue parole non mi raggiungevano. Sapevo della vecchia casa, risparmiata dai divoratori di spazi per dimenticanza o rispetto, e conoscevo Battalla, domatore di cavalli. 28 C’ero anch’io nella piazza la sera che lui, chiamato da una folla sbigottita, aveva disteso nella polvere l’imbattibile Malessa, persecutore dei deboli e degli indifesi. Nel paese era sembrato che nessuno dovesse più avere paura dei ribaldi. Era agile Battalla. Camminava fiero con la schiena eretta, e i suoi passi non lasciavano impronta sulla neve. Gli stavo sempre appresso e qualche volta mi conduceva nel suo campo insegnandomi a conoscere le erbe e a distinguere il canto dell’allodola. Scalava gli alti lecci senza fune, e mentre bacchiava le ghiande mi parlava di Consolata, mescitrice di vino all’osteria. Era timido con le donne, e non sapeva che qualcuna attendeva le sue serenate. – A Erthole, anche lui, – diceva Saverio, all’epilogo ormai di quella storia di morte e di rovine ch’io mi rifiutavo di ascoltare. – Andiamo, ora, – dissi, e pensavo a Battalla, vivo nel mio ricordo. Arrivammo dalle ragazze – avevo rinviato l’invito di Saverio che voleva portarmi a casa sua –; ci accolse Paschedda: compita, premurosa, sicura di sé. Mi apparve meno bambina. Si era raccolta i capelli e indossava una camicetta rossa che le modellava i seni già procaci. Voleva portarci nel «salotto». Dissi che sentivo freddo e lei si precipitò a rassicurarmi, era la stanza più calda: c’erano i tappeti. Entrammo in cucina, preceduti da Saverio, che aveva capito la mia avversione per il salotto di Paschedda. Maddalena, seduta davanti al camino, pareva affidasse la sua esistenza alla spirale delle gugliate che cadevano su quel ricamo senza fine. Avevo ancora freddo e Paschedda voleva portare la stufetta elettrica. Maddalena depose il suo telo e andò a prendere un po’ di legna. Con Saverio l’aiutammo ad accendere un grande fuoco, che appariva innaturale: il camino aveva cessato da tempo di essere il centro della casa. Ci sedemmo sugli sgabelli protendendo le mani verso il fuoco, come volessimo ricreare un legame, riconciliarci con esso. Paschedda era irrequieta, andava da una stanza all’altra, scontenta per il disordine che metteva quella nostra messinscena. Ci disse che la cena era pronta, aveva apparecchiato nella saletta; invitò anche Saverio che si alzò per andar via: non poteva trattenersi, la moglie lo attendeva. 29
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Ero fermo a quel tempo e non riuscivo a pensare altro,<br />
immoto come il volano di su Dominariu. Saverio parlava<br />
ancora.<br />
– Ricordavo un cortile, – gli dissi.<br />
– Abbattuto. Le nuove case sono come i santi di Lollove,<br />
a cul’a pare.<br />
Il cortile… Nelle sere d’estate era il ritrovo della gente.<br />
Uomini e donne scendevano a prendere il fresco. Gli anziani<br />
raccontavano sas balentías di una volta, e i giovani scherzavano<br />
con le ragazze. Le voci si levavano e correvano liete<br />
nell’aria. Il paese viveva così la sua quiete.<br />
– Li hanno demoliti tutti?<br />
– Qualcuno lo hanno salvato. È cresciuto il paese, ma la<br />
gente va via –. Camminavamo ancora e Saverio mi enumerava<br />
le molte case sorte sugli spazi dei cortili. Parevano mondi<br />
opposti, quello delle rovine e quello delle torri. Bisognava<br />
ricondurre tutto a chi aveva costruito e abbattuto, dare un<br />
senso a ciò che pareva non averne. Saverio continuava la sua<br />
puntigliosa rassegna, nominando quelli che c’erano e quelli<br />
che non c’erano più, come se volesse scandire gli inevitabili<br />
mutamenti che si accompagnano al vivere e al morire. Già<br />
imbruniva, e io non riuscivo più a intravedere la misera pompa<br />
delle case nuove e le rovine dei cortili abbattuti.<br />
Si erano accese le luci, ma non potevano illuminare<br />
niente. Molte lampade erano rotte, altre, appese a fili tesi da<br />
casa a casa, gettavano poveri aloni inghiottiti dal buio che<br />
incombeva sul paese. Mi tornarono alla mente i deliri notturni<br />
di Nicola; da qualche vecchia casa sporgevano ancora<br />
le mensole delle lampade che egli contava trascinandosi dietro<br />
la sua Geronima. C’erano anche le mensole di Zuacchinu,<br />
che aveva acceso altre lampade, quando si erano spente<br />
quelle di su Dominariu.<br />
Indicai un’altra casa, più oscura della notte e sola, con la<br />
sua scalinata di pietra grezza all’esterno e una porta in alto,<br />
angusta come il ballatoio senza ringhiera sul quale s’affacciava.<br />
– È rimasta così. Il povero Battalla… – Saverio voleva<br />
raccontare la storia di quel rudere, ma le sue parole non mi<br />
raggiungevano. Sapevo della vecchia casa, risparmiata dai<br />
divoratori di spazi per dimenticanza o rispetto, e conoscevo<br />
Battalla, domatore di cavalli.<br />
28<br />
C’ero anch’io nella piazza la sera che lui, chiamato da<br />
una folla sbigottita, aveva disteso nella polvere l’imbattibile<br />
Malessa, persecutore dei deboli e degli indifesi. Nel paese era<br />
sembrato che nessuno dovesse più avere paura dei ribaldi.<br />
Era agile Battalla. Camminava fiero con la schiena eretta,<br />
e i suoi passi non lasciavano impronta sulla neve. Gli stavo<br />
sempre appresso e qualche volta mi conduceva nel suo<br />
campo insegnandomi a conoscere le erbe e a distinguere il<br />
canto dell’allodola. Scalava gli alti lecci senza fune, e mentre<br />
bacchiava le ghiande mi parlava di Consolata, mescitrice di<br />
vino all’osteria. Era timido con le donne, e non sapeva che<br />
qualcuna attendeva le sue serenate.<br />
– A <strong>Erthole</strong>, anche lui, – diceva Saverio, all’epilogo ormai<br />
di quella storia di morte e di rovine ch’io mi rifiutavo di<br />
ascoltare.<br />
– Andiamo, ora, – dissi, e pensavo a Battalla, vivo nel<br />
mio ricordo.<br />
Arrivammo dalle ragazze – avevo rinviato l’invito di Saverio<br />
che voleva portarmi a casa sua –; ci accolse Paschedda:<br />
compita, premurosa, sicura di sé. Mi apparve meno bambina.<br />
Si era raccolta i capelli e indossava una camicetta rossa<br />
che le modellava i seni già procaci. Voleva portarci nel «salotto».<br />
Dissi che sentivo freddo e lei si precipitò a rassicurarmi,<br />
era la stanza più calda: c’erano i tappeti. Entrammo in<br />
cucina, preceduti da Saverio, che aveva capito la mia avversione<br />
per il salotto di Paschedda. Maddalena, seduta davanti<br />
al camino, pareva affidasse la sua esistenza alla spirale delle<br />
gugliate che cadevano su quel ricamo senza fine. Avevo ancora<br />
freddo e Paschedda voleva portare la stufetta elettrica.<br />
Maddalena depose il suo telo e andò a prendere un po’ di<br />
legna. Con Saverio l’aiutammo ad accendere un grande fuoco,<br />
che appariva innaturale: il camino aveva cessato da tempo<br />
di essere il centro della casa. Ci sedemmo sugli sgabelli<br />
protendendo le mani verso il fuoco, come volessimo ricreare<br />
un legame, riconciliarci con esso.<br />
Paschedda era irrequieta, andava da una stanza all’altra,<br />
scontenta per il disordine che metteva quella nostra<br />
messinscena. Ci disse che la cena era pronta, aveva apparecchiato<br />
nella saletta; invitò anche Saverio che si alzò per<br />
andar via: non poteva trattenersi, la moglie lo attendeva.<br />
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