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– Sono io che rompo le tenebre, sono come il sole.<br />
Geronima lo assecondava e riusciva a portarlo a casa, dove,<br />
massaggiandogli delicatamente la fronte, credeva di poter<br />
lenire i dolori alla testa che lo assalivano dopo ogni sfuriata.<br />
Dalle case non traspariva alcuna luce, ormai tutti si erano<br />
rassegnati al buio e in caso di estremo bisogno usavano<br />
le candele steariche: capivano ch’era quasi impossibile trasformare<br />
i fumi del carbone in luce; ma erano solidali con<br />
Nicola che lottava solo contro quei motori del diavolo.<br />
Le donne di su Dominariu, però, andavano ugualmente<br />
a riscuotere il forfait dei consumi, che tutti pagavano, non<br />
per l’utilità della luce che non vedevano, ma per quell’oscuro<br />
legame col mulino. Alla scadenza delle rate, per i macchinari<br />
antichi e recenti, le donne correvano affannosamente<br />
nelle case dove sapevano si formava qualche risparmio e<br />
chiedevano un prestito, promettendo s’oriellu, un alto interesse<br />
che non pagavano mai.<br />
Mio padre risaliva da quella profondità buia barcollando<br />
per la stanchezza e per i veleni del gas; se i motori si erano<br />
avviati sorrideva. Sorridevo anch’io, contento che nessun incidente<br />
fosse accaduto: avevo sempre vivo il ricordo dell’urlo<br />
di Cosimo la notte che il volano, avviatosi repentinamente,<br />
quasi avesse voluto liberare dalla fatica i poveri forzati, l’aveva<br />
trascinato lungo la cinghia, sbattendolo da tutte le parti.<br />
Io avevo chiuso gli occhi per non vedere e mi ero coperto le<br />
orecchie con le mani, dopo aver sentito dire che la testa era<br />
spaccata come un melone. Nicola per due giorni era rimasto<br />
nascosto in casa di Geronima. Era tornato di sera, quando<br />
tutti sapevano che Cosimo, forte come una roccia, sarebbe<br />
sopravvissuto.<br />
Il sibilo del volano in corsa si accompagnava a un assordante<br />
rumore di ferraglie e agli scoppi degli stantuffi che<br />
scuotevano le solide fondamenta di su Dominariu. Al confronto,<br />
le macine erano quasi silenziose: un ronzio piacevole<br />
il cui ritmo si rompeva solo quando Baboreddu, il mugnaio<br />
additato ai bambini come uno spauracchio per la sua tuta<br />
sgraziata, si dimenticava di riempire la tramoggia. Nicola<br />
non compariva mai nel camerone delle macine. Rinfrancato<br />
dalle cure di Geronima, si rifugiava nell’officina, una specie<br />
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di tana vicino al forno, e riprendeva a limare senza sosta, con<br />
stridori che si udivano nella strada. Carlino faceva in modo<br />
che egli non si avvicinasse alle macchine in moto le quali,<br />
con sbuffi e altri strani rumori, pareva segnalassero la loro rivolta<br />
contro quel pestatore di ferri.<br />
Ogni famiglia portava alla macina il proprio grano dentro<br />
le corbule che venivano accatastate una sull’altra. Carmína<br />
si incaricava della pesatura, annotando nome e quantità<br />
su un grosso registro. Per aiutare mia madre, portavo anch’io<br />
dentro un sacco il mio quarto di grano, che travasavo<br />
poi in una corbula vuota. Con la scusa di porgere un aiuto,<br />
cercavo di stare vicino a Carmína, e il suo forte profumo<br />
vinceva l’odore dolciastro della farina. Lei appariva sempre<br />
più distratta, stentava a seguire i discorsi degli altri, come se<br />
avesse una pena segreta. Solo quando le chiedevo di pesarmi<br />
mi prestava un po’ della sua attenzione: diventava gentile,<br />
e ricordando il peso della volta precedente mi diceva che<br />
crescevo bene.<br />
– Fai in fretta… – mi disse l’ultima volta, accarezzandomi<br />
teneramente con la sua mano calda. Mi parve stesse per<br />
piangere. Quel giorno c’erano tanti bambini che si rincorrevano<br />
nascondendosi dietro le corbule. Le donne non riuscivano<br />
ad allontanarli dalla cisterna, in fondo alla quale ribolliva<br />
l’acqua che spurgava dai motori roventi. Io ero rimasto<br />
immobile vicino al peso: temevo che muovendomi finisse<br />
il piacere che mi dava il ricordo della carezza di Carmína.<br />
Mentalmente cercavo di rapportare il mio peso a quello delle<br />
cose che potevano crescere in fretta. Con le mani immerse<br />
nella corbula, mi riempii i pugni di semi, che sentivo pieni e<br />
fecondi, come avevo sentito Carmína quando mi aveva condotto<br />
nello scantinato dov’era ammucchiato il grano, una<br />
montagna dorata, sulla quale eravamo saliti affondando piedi<br />
e gambe tra le frane che via via si aprivano. Carmína precedeva<br />
con le gonne sollevate fino alle cosce, inebriata dai<br />
fruscii e dagli scrosci di quella fantastica scalata. Aveva caldo<br />
e sul colmo della montagnola si era distesa, coprendosi col<br />
grano umido il ventre e il sesso, la cui inattesa nudità era<br />
esplosa come un sole nella cantina buia. M’aveva chiesto di<br />
disseppellirla lentamente con entrambe le mani, guidandomi<br />
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