Erthole - Sardegna Cultura

3. Non si muove.
4. Lui non vuole.
IV
I ricordi si accavallano, mi ghermiscono. Su Dominariu
mi attrae con la stessa irresistibile forza di allora; si scompone
e si ricompone, ma ogni frammento conserva tutte le
potenzialità di questa galassia del ricordo, che pare abbia la
pesante immobilità della centralina di Nicola e del suo volano.
A quel grande ingranaggio si aggrappavano ogni sera
gli uomini già sfiniti dalle fatiche del loro giorno, chiamati
a gran voce dalle donne di su Dominariu. Al suo rientro
dalla cava chiamavano anche mio padre, e lui andava, convinto
come gli altri che il destino del paese fosse appeso alla
ruota del mulino. Io lo seguivo, e dal suo silenzio capivo le
sue paure. Dopo ognuna di quelle immani fatiche, parlava
dello sfinimento che gli davano i gas del carbone, velenosi
come quelli che l’avevano intossicato durante la guerra. Non
scendevo mai dov’erano conficcati il volano e gli altri macchinari.
Spiando dal finestrino, una striscia lunga impregnata
di unto e di polvere che affiorava appena al piano
della strada, scorgevo ciò che riusciva a illuminare la candela
sorretta da Caterina, la paziente moglie di Nicola, e udivo
i gemiti di quei forzati notturni che inutilmente si rompevano
le braccia e la schiena. Qualche volta accorrevano
anche le donne, nere di buio e di sgomento, e attraverso il
lucernario cercavano con lo sguardo i loro uomini inchiodati
a quella ruota smisurata, spaventosamente remota a ogni
conoscenza.
– Non si trémet, 3 – commentavano, e per placare il cruccio
di quell’immoto dio tendevano le mani nell’oscurità della
notte e gridavano:
– Isce non chéret. 4
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Il volano si muoveva pesantemente, ne vedevo l’ombra
proiettata sulla finestrella come il rotolio di una montagna
nera, ma non riusciva a piegare la durezza di quei motori
che Nicola manometteva, imprecando contro tutti. Se gli si
negavano a lungo, si sfogava limando furiosamente i pezzi
che smontava e rimontava fino a quando, sfinito, non sbatteva
lima e martello e correva nella vicina campagna. Lo inseguivano
invano le donne di su Dominariu, che solitamente
invocavano l’aiuto di Geronima, amica di Caterina, l’unica
che riuscisse a placare quei furori, forse per il suo parlare
esagitato e farneticante che faceva pensare agli ingranaggi di
una macchina impazzita. A uno di quegli assurdi inseguimenti
avevo partecipato anch’io. Imbruniva già, e a casa mia
si era presentata Carmína, sola e disperata; le altre donne
erano andate ciascuna per suo conto a cercare Nicola; mi
aveva chiesto di accompagnarla ed io l’avevo seguita fino al
colle di Teti, dove avevamo frugato invano dietro ogni cespuglio.
Per prendere fiato ci eravamo fermati a ridosso di
un sasso e lei non aveva potuto trattenere il pianto. Inutilmente
avevo cercato di consolarla; non si dava pace, temeva
per la vita di Nicola. Sconvolto dalla gelosia le avevo gridato
di toglierselo dalla testa quello scellerato.
– Ci sono io per te, – avevo ripetuto più volte porgendole
entrambe le mani, come se potessi sollevarla dal suo
dolore senza conforto. Aveva smesso di piangere e mi aveva
guardato con aria sorpresa, come se solo allora si fosse accorta
della mia esistenza. Mi aveva fatto sedere accanto a sé, e
accarezzandomi la testa ripeteva: coro meu, coro meu.
Durante quelle fughe e quegli inseguimenti qualche volta
il mulino partiva; le macchine, così ostinatamente chiuse
e ribelli, si aprivano a Carlino, l’aiuto meccanico, che muovendo
delicatamente leve e manopole senza metter mano alle
lime e ai martelli pareva dialogasse con quei motori arroventati
dal furioso sferragliare di Nicola, il quale, convinto
che fosse stato l’ultimo suo colpo di lima a vincere ogni resistenza,
si compiaceva con se stesso; insieme a Geronima, andava
di notte a contare le lampadine accese, gridando che
quella era opera sua.
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