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Erthole - Sardegna Cultura

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III<br />

I ritorni sono dolorosi, mettono a nudo gli abissi che scava<br />

la vita. Andavo per strade delle quali conoscevo ogni angolo,<br />

ogni pietra, un tempo; ora tutto mi appariva estraneo, come<br />

se non avessi mai avuto un legame con quelle case vistose,<br />

fatte in fretta e senz’amore, per apparire soltanto, e con quella<br />

gente che non si scambiava più l’antico saluto: «dov’eri?» «dove<br />

vai?». Ma ogni paese e ogni uomo ha pure qualcosa d’immutabile<br />

che resiste al tempo e alle vicende; era questo che<br />

cercavo, mentre salivo il viottolo di sa Punta, il piccolo valico<br />

al di là del quale c’era la mia casa di ragazzo. Doveva essere<br />

piccola e misera, ma io la ricordavo grande, una rocca solitaria<br />

sul dirupo di Currulai, col torrente che rombava tra pietraie<br />

in fondo alla valle. Mio padre non possedeva greggi né<br />

armenti, e aveva dovuto passare il valico per trovare un punto<br />

della terra dove piantare una casa. L’aveva costruita con le sue<br />

mani, improvvisandosi muratore; gli amici l’avevano aiutato<br />

e mia madre, gravida di due figli, aveva portato l’acqua dalla<br />

fonte per l’impasto; io avevo trasportato pietre più grandi di<br />

me sulle spalle doloranti che mostravo agli altri ragazzi, orgoglioso<br />

della fatica e dei suoi segni.<br />

– Canta, canta, – rispondeva cocciutamente mio padre a<br />

coloro che dall’alto del ciglione lo deridevano per quella casa<br />

di fango tra i rovi. La mia vita è stata segnata dal male della<br />

pietra, crudele e incurabile. Ho costruito molte case, in altri<br />

punti della terra, alcune con l’orto, come piaceva a mio padre.<br />

Le hanno godute gli altri. Io ci ho vissuto sempre a disagio:<br />

rimpiangevo le pietre conficcate nel dirupo dei roveti.<br />

Il paese con le strade a selciato, le piazze alberate e le<br />

chiese tetre era raccolto sul versante antico di sa Punta, ai<br />

piedi del quale si stagliava su Dominariu, un paese nel paese<br />

quasi, chiuso tra mura a cerchio che s’intersecavano alzandosi<br />

via via che si saliva verso il valico, dove svettava un torrione<br />

per segnare l’inizio o la fine di qualcosa. Il primo cerchio del<br />

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casamento era antichissimo, nato prima del paese, forse. Lo<br />

dicevano le pietre che recintavano l’ampio cortile, dov’era un<br />

brulicare di gente, di cavalli e di carri a buoi, e lo diceva il<br />

cucinone col tetto a tegole e il grande camino carico di tronchi<br />

che ardevano di giorno e di notte.<br />

Ragazzo, d’inverno, al mattino presto, mi recavo anch’io<br />

nel cucinone a ritirare il latte che zia Anzeledda distribuiva,<br />

attingendolo da un caldaro con un mestolo di sughero. Se<br />

nevicava, i pastori tardavano, e allora dovevamo attendere accalcati<br />

davanti al camino o vicino alla porta. Parlavano tutti,<br />

della stagione e della neve, segno di vita e rigenerazione.<br />

Qualcuno accennava sottovoce alla gravità pensosa di zia<br />

Anzeledda, che sembrava custodisse solo memorie di sventure.<br />

Seduta su uno sgabello, con le gonne sollevate sino alle<br />

ginocchia, attendeva anche Carmína, figlia o nipote di zia<br />

Anzeledda. Io m’infilavo fra la gente e raggiungevo l’angolo<br />

del camino per stare vicino a lei che, distrattamente, sollevava<br />

la testa, come se volesse seguire il fumo che si disperdeva<br />

nell’incannucciato del soffitto. Se qualcuno liberava i tronchi<br />

dalla cenere, Carmína, investita dal caldo che saliva a<br />

vampate, lasciava cadere lo scialle e il fazzoletto, e rivelava la<br />

sua prorompente femminilità con i capelli disciolti fino alla<br />

scollatura della blusa e i seni che pareva lievitassero al riverbero<br />

di quel fuoco propiziatorio. Io guardavo e sbiancavo,<br />

come le fiamme di quei tronchi arsi; le sfioravo con la mano<br />

le ginocchia e lei avvertiva quel contatto; qualche volta mi<br />

faceva una brusca carezza che accresceva il mio turbamento.<br />

Quella nostra complicità si ripeteva spesso e io sentivo dolorosamente<br />

qualcosa mutare dentro di me.<br />

All’arrivo dei pastori, con i cavalli e gli asini bianchi di<br />

neve, nel cucinone si creava un po’ di trambusto; il latte dei<br />

bidoni veniva riversato nei caldai e zia Anzeledda riempiva i<br />

pentolini che le donne e i ragazzi le porgevano. Carmína annotava<br />

su un quaderno le quantità; i conti si regolavano a fine<br />

mese; ogni mestolo equivaleva a mezzo litro. Io ero l’ultimo<br />

a presentare il pentolino e zia Anzeledda compensava<br />

quella discrezione con l’aggiunta di un po’ di latte, anche se<br />

mi trattenevo per guardare Carmína, che si aggiustava i capelli<br />

sorridendomi maliziosa.<br />

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