La pecora bergamasca. Storia e presente di una razza ... - Ruralpini

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31.05.2013 Views

comodamente mantenere il numero di pecore richiesto ed accoglie favorevolmente la richiesta del grande proprietario. Nello stesso anno analoga richiesta è inoltrata da un altro grande proprietario brianzolo, tale Giacomo Schiaffinati che possedeva 8.000 pertiche di terreni di cui 4.000 di boschi e brughiere e 4.000 di arativi “senza il beneficio dell’acqua”. Il richiedente fa presente che non solo le 500 pecore per le quali viene inoltrata la domanda di licenza non possono arrecar alcun danno ai seminativi ,data l’abbondanza dei boschi e degli incolti, ma ve ne potrebbero pascolare sino a 1.000. Senza le pecore, lamenta il possidente, “non si può menar il grasso necessario” a far si che gli arativi forniscano un reddito sufficiente a pagare le tasse e non manca di osservare che “le grida proibiscono ai pastori di stare con le pecore mentre in passato vi erano sempre stati con licenza”. Simili richieste sono avanzate anche da altri grandi proprietari della zona di Gorgonzola dove, in epoche successive, avrà grande sviluppo l’allevamento delle vacche da latte. Ancora nel 1662 il Conte Carlo Bonesana chiede una licenza per il pascolamento delle pecore nelle sue grandi proprietà di Gessate motivandolo con la grande estensione di boschi e brughiere, in grado di mantenere 300 pecore. Anche in questo caso la motivazione addotta dal “supplicante” è l’assoluta necessità di letame per ingrassare i seminativi senza il quale non frutterebbero di che pagare le tasse. Ma già nel 1688 una grida impedirà nel comune di Gessate qualsiasi pascolo e transito presso “Boschi, Selve, Brughiere, Prati, Vigne, Pascoli, Piante, Acque e Aquedotti”. E’ evidente che la riduzione dell’influenza dei grandi proprietari, la modifica degli assetti fondiari e, con molta probabilità, la riduzione dei boschi e degli incolti a favore di uno sfruttamento più intensivo del territorio, danno forza ai più piccoli proprietari che, coalizzandosi, riescono ad imporre il loro interesse sopra quello della grande proprietà e della pastorizia transumante che ancora nel XVII secolo paiono coincidere. Anche nel XVII secolo, comunque, vennero stabiliti dei bandi alle pecore estesi ad intere provincie. Nel 1669 venne emessa una grida riguardante a Pavia in cui si stabiliva che “ne ardeat in territoris illius Provinciae introducere Pastores cum ovibus seu ques ipsas retinere” veniva citato a proposito un analogo proclama del 1653, emesso a Cremona. Il bando dal territorio pavese non si applicava alla zona montana e ai “non culta ubi dannum esse non possit” (terreni incolti dove non poteva essere provocato danno). Il conflitto tra agricoltura e pastorizia acutizzatosi a seguito del procedere delle trasformazioni agrarie e dall’aumento delle pecore (il XVII secolo fu il secolo d’oro del lanificio bergamasco che, almeno per una parte delle lavorazioni, utilizzava “lana nostrana”), determinò l’emanazione di severi provvedimenti tesi a impedire gli spostamenti ed i trasferimenti delle pecore anche sullo stesso territorio bergamasco dove la pastorizia conservava un ruolo essenziale nell’economia del territorio. I provvedimenti assunti tra il XVII e il XVIII dalle autorità venete sono riferiti dal MORA (1976). Un “proclama” del 1658 ed una successiva “regolazione” del 1659 costituiscono un provvedimento organicamente teso a porre rimedio ai “danni che di Animali Pecorini e Caprini vengono inferiti ne Beni de particolari e de Luoghi Pij, danni grandi, molesti, irreparabili” a r venire incontro alle lamentele per tali danni e

per “le prepotenze e per la temeriarietà de Pastori e Pecorari”. Tali “atti così violenti” erano causa di limitazione alla libertà di godimento dei propri beni per i singoli proprietari, ma anche di “publico rilevantissimo pregiudizio”. Si stabiliva pertanto che nessuno “ardisca per l’avvenire introdur, tener, o alloggiar Pecore, o Capre d’alcuna sorte nel Territorio bergamasco, e nei luoghi suburbani di questa Città (…) ma dette Pecore, e Capre siano e s’intendano assolutamente proibite, e perpetuamente bandite da Bergamo e Bergamasco”. Nelle intenzioni del legislatore doveva essere eliminata la pastorizia transumante mentre veniva concessa la sopravvivenza dell’allevamento ovino nelle zone di montagna che vengono così elencate: “Valle Brembana Superiore, e Brembana inferiore, Val Brembana oltre la Gocchia, Val d’Imagna, Vicariato d’Almenno, Val S.Martino, Val Seriana Superiore et Inferiore, et Val Gandino dovendosi in altre intender eccettuata la Val Cavallina dal Borgo di terzo in su verso i Monti, e quelle Terre ancora, che sono oltre il Porto di Caleppio pure verso i Monti”. Le pene previste per i trasgressori erano severissime: “tutte le Pecore, e Capre, che saranno ritrovate nel Bergamasco (…) siano e s’intendano immediatamente perdute” chiunque le trova può appropriarsene “ammazzarle, e convertire in proprio benefizio”. I pastori trasgressori “debbono essere fermati prigioni etiamdio con suono di campana a martello, al quale dovranno concorrere gli uomini de Comuni con le loro armi, perché si seguisca l’arresto a tutte le maniere” ed ai trasgressori “pene di Corda, Galera, Prigione o pecuniaria”. Al fine di troncare “sì perniciosa, et abborrita violenza” viene “proibito a chi si sia (…) prestar ricetto, alloggio, o ricovero a Pecore, o Capre bandite, né a loro Pastori, Conduttori, o Custodi”. Tanto rigore era mitigato da una serie di eccezioni che ci consentono di conoscere di quale grande utilità fossero al tempo gli allevamenti ovi-caprini . Vengono infatti esentate le “terre da salnitro” con annessi allevamenti ovini, dove le deiezioni consentivano la produzione dei nitrati, materia prima della polvere da sparo. Otto Terre da salnitro con duecento pecore ciascuna vengono autorizzate in ciascuna circoscrizione del Territorio. Viene anche consentito ai Comuni di ottenere licenze di “tener pecore” sul proprio territorio purché facciano domanda ben documentata con indicazione del perticato e “nota di tutti gli animali” e approvata a maggioranza qualificata. Inoltre erano ammesse in Città “Capre in poco numero” “per uso d’ammalati” e soddisfatte le necessità della “Beccaria” (macellazione) nella “quantità che sarà riconosciuta bisognevole”. Salvo queste eccezione “nessuna deroga per nessuno” e contro i trasgressori “possa e debba procedersi anco per via d’Inquisizione e sopra Denonzie secrete”. Infine ai pastori veniva proibito di “portar Archibugi da roda, o d’azzalino di qual si voglia sorte”. Tale disposizione riprendeva una “grida” dello stesso anno in cui si diceva che “li pecorari fatti audaci (…) dall’andar armati d’archibugi lunghi e curti” e da protezioni di “soggetti prepotenti ed autorevoli, senza riserva niuna essercitano l’insolenza ”. Dopo solo un anno di fronte a difficoltà insormontabili e all’evidente danno “alli negozij delle Lane” veniva però emessa in data 24 giugno 1659 una “regolazione” che suonava come un clamoroso dietro-front. Si stabiliva di consentire il godimento del Piano dal 1 novembre al 24 aprile alle “Pecore solamente del Bergamasco”. I pastori dovevano esser muniti di “Licenza a stampa” e “li Sindaci de’ Comuni del

comodamente mantenere il numero <strong>di</strong> pecore richiesto ed accoglie favorevolmente la<br />

richiesta del grande proprietario. Nello stesso anno analoga richiesta è inoltrata da un<br />

altro grande proprietario brianzolo, tale Giacomo Schiaffinati che possedeva 8.000<br />

pertiche <strong>di</strong> terreni <strong>di</strong> cui 4.000 <strong>di</strong> boschi e brughiere e 4.000 <strong>di</strong> arativi “senza il<br />

beneficio dell’acqua”. Il richiedente fa <strong>presente</strong> che non solo le 500 pecore per le<br />

quali viene inoltrata la domanda <strong>di</strong> licenza non possono arrecar alcun danno ai<br />

seminativi ,data l’abbondanza dei boschi e degli incolti, ma ve ne potrebbero<br />

pascolare sino a 1.000. Senza le pecore, lamenta il possidente, “non si può menar il<br />

grasso necessario” a far si che gli arativi forniscano un red<strong>di</strong>to sufficiente a pagare le<br />

tasse e non manca <strong>di</strong> osservare che “le grida proibiscono ai pastori <strong>di</strong> stare con le<br />

pecore mentre in passato vi erano sempre stati con licenza”. Simili richieste sono<br />

avanzate anche da altri gran<strong>di</strong> proprietari della zona <strong>di</strong> Gorgonzola dove, in epoche<br />

successive, avrà grande sviluppo l’allevamento delle vacche da latte. Ancora nel 1662<br />

il Conte Carlo Bonesana chiede <strong>una</strong> licenza per il pascolamento delle pecore nelle sue<br />

gran<strong>di</strong> proprietà <strong>di</strong> Gessate motivandolo con la grande estensione <strong>di</strong> boschi e<br />

brughiere, in grado <strong>di</strong> mantenere 300 pecore. Anche in questo caso la motivazione<br />

addotta dal “supplicante” è l’assoluta necessità <strong>di</strong> letame per ingrassare i seminativi<br />

senza il quale non frutterebbero <strong>di</strong> che pagare le tasse. Ma già nel 1688 <strong>una</strong> grida<br />

impe<strong>di</strong>rà nel comune <strong>di</strong> Gessate qualsiasi pascolo e transito presso “Boschi, Selve,<br />

Brughiere, Prati, Vigne, Pascoli, Piante, Acque e Aquedotti”. E’ evidente che la<br />

riduzione dell’influenza dei gran<strong>di</strong> proprietari, la mo<strong>di</strong>fica degli assetti fon<strong>di</strong>ari e, con<br />

molta probabilità, la riduzione dei boschi e degli incolti a favore <strong>di</strong> uno sfruttamento<br />

più intensivo del territorio, danno forza ai più piccoli proprietari che, coalizzandosi,<br />

riescono ad imporre il loro interesse sopra quello della grande proprietà e della<br />

pastorizia transumante che ancora nel XVII secolo paiono coincidere. Anche nel<br />

XVII secolo, comunque, vennero stabiliti dei ban<strong>di</strong> alle pecore estesi ad intere<br />

provincie. Nel 1669 venne emessa <strong>una</strong> grida riguardante a Pavia in cui si stabiliva che<br />

“ne ardeat in territoris illius Provinciae introducere Pastores cum ovibus seu ques<br />

ipsas retinere” veniva citato a proposito un analogo proclama del 1653, emesso a<br />

Cremona. Il bando dal territorio pavese non si applicava alla zona montana e ai “non<br />

culta ubi dannum esse non possit” (terreni incolti dove non poteva essere provocato<br />

danno).<br />

Il conflitto tra agricoltura e pastorizia acutizzatosi a seguito del procedere delle<br />

trasformazioni agrarie e dall’aumento delle pecore (il XVII secolo fu il secolo d’oro<br />

del lanificio bergamasco che, almeno per <strong>una</strong> parte delle lavorazioni, utilizzava “lana<br />

nostrana”), determinò l’emanazione <strong>di</strong> severi provve<strong>di</strong>menti tesi a impe<strong>di</strong>re gli<br />

spostamenti ed i trasferimenti delle pecore anche sullo stesso territorio bergamasco<br />

dove la pastorizia conservava un ruolo essenziale nell’economia del territorio. I<br />

provve<strong>di</strong>menti assunti tra il XVII e il XVIII dalle autorità venete sono riferiti dal<br />

MORA (1976). Un “proclama” del 1658 ed <strong>una</strong> successiva “regolazione” del 1659<br />

costituiscono un provve<strong>di</strong>mento organicamente teso a porre rime<strong>di</strong>o ai “danni che <strong>di</strong><br />

Animali Pecorini e Caprini vengono inferiti ne Beni de particolari e de Luoghi Pij,<br />

danni gran<strong>di</strong>, molesti, irreparabili” a r venire incontro alle lamentele per tali danni e

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