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quella della scuola nel suo complesso.<br />

I genitori hanno le loro<br />

responsabilità: hanno fatto dei<br />

loro figli un investimento da difendere,<br />

un investimento che a<br />

scuola deve essere necessariamente<br />

riconosciuto. Ovvero: il<br />

ragazzo non deve essere messo<br />

in discussione”. Una forma di individualismo<br />

spinto – commenta<br />

ancora il preside Guerra – che ha<br />

cancellato l’idea di scuola come<br />

di un luogo dove crescere, dove<br />

imparare a vivere insieme agli<br />

altri.<br />

La perdita di autorevolezza della<br />

scuola – il suo essere divenuta<br />

uno strano mondo in cui parcheggiare<br />

temporaneamente il<br />

cervello senza neppure darsi da<br />

fare più di tanto – si deve anche<br />

al fatto, secondo Bajani, che il<br />

mondo in cui vivono oggi gli studenti<br />

delle scuole superiori è totalmente<br />

estetizzato, “mentre<br />

la scuola è inchiodata, esteticamente,<br />

a 50 anni fa”. Lo scrittore<br />

torinese non ne fa tanto una<br />

questione di età: “Gli insegnanti<br />

delle superiori hanno più o meno<br />

la stessa età dei genitori degli<br />

studenti. Il vero fossato è, oltre<br />

che estetico, tecnologico. Gli insegnanti<br />

faticano a stare dietro<br />

alle novità in questo campo,<br />

mentre invece i ragazzi, quasi<br />

tutti, sono dei mostri”.<br />

Intanto però i giovani tra i 14 e i<br />

19 anni – ritratti di volta in volta<br />

come bulli, fannulloni, sballati o,<br />

quando va bene, ignoranti – sono,<br />

nella realtà, sempre più fragili.<br />

Tra genitori deresponsabilizzanti<br />

e iperprotettivi da una<br />

parte e insegnanti incapaci di<br />

rappresentare un punto di riferimento<br />

credibile dall’altra, gli<br />

adolescenti non sanno più a che<br />

santo votarsi, né trovano più chi<br />

li ascolta. “Sono alla ricerca disperata<br />

di dialogo con le persone<br />

adulte. Quando andavo in gita<br />

con loro – racconta Bajani – non<br />

me li scollavo di dosso che alle 4<br />

del mattino, a forza di chiacchiere.<br />

E mi chiedevano: Andrea, ma<br />

perché te ne frega così tanto di<br />

noi?”. l<br />

23<br />

settembre 2008<br />

in primo piano<br />

di Massimo Montanari<br />

docente di Storia medievale e di Storia<br />

dell’alimentazione, Università di Bologna<br />

Bianco o rosso?<br />

Sera d’estate, in una trattoria sulla costa adriatica. Menu di<br />

pesce. Come piatti di pasta possiamo scegliere fra tagliolini,<br />

strozzapreti, gnocchi, ravioli. Per il condimento, solo<br />

due opzioni: sugo bianco o sugo rosso. Alternativa secca.<br />

Nulla di strano, eppure mai come quella sera, di fronte alla necessità<br />

di scegliere tra il bianco e il rosso, ho percepito con chiarezza<br />

che il pomodoro è una di quelle cose che dividono il mondo<br />

in due. Un po’ come il cioccolato: anni fa, in un ristorante, al<br />

momento del dessert ci chiesero se desideravamo un dolce con o<br />

senza cioccolato, e anche quella volta mi venne da fare lo stesso<br />

pensiero.<br />

Ognuno ha i suoi gusti e tutti i gusti sono rispettabili. Ma ci sono<br />

frontiere importanti, gusti sui quali costruiamo le nostre scelte.<br />

Gusti ‘di fondo’ che spesso non riguardano l’ingrediente principale<br />

di un piatto, ma quelli apparentemente secondari: il soffritto<br />

lo preferiamo con l’aglio o con la cipolla? Sono proprio questi<br />

ingredienti (i profumi, gli aromi) a dare il ‘tono’ a una ricetta, a<br />

garantirne l’identità, la personalità.<br />

La salsa di pomodoro è entrata nella nostra cucina in età molto<br />

recente: le sue prime memorie non risalgono oltre la fine del diciassettesimo<br />

secolo. Erano già passati due secoli da quando la<br />

rossa solanacea era arrivata in Europa dall’America. L’uso di ricavarne<br />

una salsa, già praticato oltre Oceano, si affermò dapprima<br />

in Spagna, tant’è che in Italia per qualche tempo essa fu<br />

chiamata “salsa spagnola” (con questo nome compare nel ricettario<br />

di Antonio Latini, pubblicato a Napoli nel 1692). La salsa al<br />

pomodoro a poco a poco trovò un suo spazio tra le molteplici<br />

salse che fin dal Medioevo caratterizzavano la nostra cucina,<br />

inevitabile accompagnamento di carni e pesci. Poi, agli inizi dell’Ottocento,<br />

il pomodoro incontrò la pasta e ne cambiò il colore.<br />

Molte salse erano denominate dal colore che l’insieme degli ingredienti<br />

conferiva loro: verde, bianca, gialla, “camelina” (famosissima<br />

nel Medioevo, di un color marroncino dato dalla cannella<br />

su fondo bianco). Fra le tante salse – a cui i libri di cucina<br />

dedicavano speciali attenzioni e appositi capitoli – ne mancava<br />

una rossa. Il pomodoro la rese finalmente possibile, ‘sdoganando’,<br />

per così dire, e inserendo a pieno titolo nel campo gastronomico<br />

questo colore, che fino ad allora si era collegato piuttosto a<br />

immagini di sangue e di violenza (che ritroviamo magari in certi<br />

film, dove il pomodoro simula ancora il sangue).<br />

La pasta in particolare, che per secoli era stata rigorosamente<br />

bianca, condita con solo burro e formaggio (con tutt’al più un<br />

pizzico di spezie), virò decisamente verso il rosso. Gli altri colori<br />

– il giallo e il verde soprattutto – rimasero ottimi comprimari. Ma<br />

la scelta di fondo diventò quella fra il bianco e il rosso.

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