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ESSERE - Gennaio Febbraio 2012.pdf - CSA Arezzo

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colpa insaziati dell’imperdonabilità della propria… quasi una “santità” nera<br />

degli inferi che nessuna pietà riconosce. Questo perdono paradosso rischia<br />

di scivolare con il tempo e con la sofferenza in una sadica ostentazione della<br />

peggiore crudeltà: quella del giusto, quella dell’inquisitore, quella che fruga<br />

con il coltello nella piaga che ha inferto, quella dell’autoesorcismo attraverso<br />

il corpo degli altri. Un perdono iatrogeno che da pretesa onnipotente di cura<br />

diviene malattia del medico.<br />

Questo caso partiva chiaramente dalla impossibilità di quella persona di<br />

pensarsi colpevole in quanto non perdonabile. Come a dire che le persone<br />

sane tollerano la loro colpevolezza potendosi perdonare.<br />

Tento allora di partire da un assunto laterale defilato dalla scena del crimine: non<br />

è possibile perdonare altri che non il noi stessi imperdonabile. Il bambino non<br />

perdonabile/colpevole gode la sensazione serena della bontà e del perdono nel<br />

riconoscere conservata l’amorevolezza del contesto che lui ha compromesso<br />

con la sua colpa (forse è per questo che ogni tanto la compromette?). Il<br />

ladrone non perdonato che dileggia il Cristo è il non perdonabile, l’espulso<br />

definitivamente dal suo contesto amorevole; il “bandito” condannato a<br />

confondere il proprio abbandono in una sorta di nebbiosa appartenenza alla<br />

comunione dei maggiori colpevoli. Un portatore di tali e tante colpe che nessun<br />

perdono assolve e che lui deride in compagnia dei parimenti emarginati… è<br />

questa la colpa di vivere che solo la morte, come uccisione di sé, risolve/<br />

assolve. Spesso è la colpa del tossicodipendente. Nemmeno Cristo assolve:<br />

al massimo constata la remissione dei peccati a chi ha avuto la benigna sorte<br />

di potersi riconnettere con se stesso, con Lui, con gli altri. Da questo disturbo<br />

da colpa, paradossalmente, se ne esce chiedendo perdono una volta che si<br />

sia avuto libero accesso alle proprie colpe nell’amorevole contesto perduto.<br />

Una richiesta di perdono che esponendo alla propria colpevolezza garantisca<br />

l’accesso al perdono di sé. Una assoluzione che, se il processo è integro, a<br />

quel punto non richiede espiazione o penitenza o punizione, ma restituzione,<br />

risarcimento, riparazione, compensazione, reintegrazione insomma un<br />

reinserimento nella comunità, nella cittadinanza… cambiamento: umiltà.<br />

Allora forse con il perdonare sè stessi dalla rabbia, da propositi di vendetta<br />

che ci risultino intollerabili può realizzarsi un processo di avvicinamento<br />

all’altro nell’evidenza della comune fatale colpevolezza: nella comune fragile<br />

umanità. Allora anche l’atto del perdonare l’altro è significativo soprattutto per<br />

il perdonante che lascia all’altro la responsabilità di fare i conto con la propria<br />

colpa. Questo perdono non discolpa, non grazia l’altro, libera esclusivamente<br />

dall’ulteriore sofferenza di propositi di vendetta. Anche in questo caso esso<br />

permette di essere liberi, di ricontattare senza distrazioni i nostri sentimenti i<br />

nostri bisogno, la via della elaborazione del lutto. Per queste ragioni è utile il<br />

comunicare sensibile fra vittime e colpevoli.<br />

Poi ho riconosciuto un altro blocco devastante del perdono per la sua proibizione,<br />

meno esternamente proiettata, del precedente: è quello impossibile di chi<br />

riconosce in sé una tale colpa ed in tali forme da non poter essere perdonabile.<br />

Un delitto al disopra delle propria disposizione al perdono. Costui soffre di una<br />

colpa non morale, quasi fisica, biologica, ontologica, una colpa di nuocere<br />

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