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ESSERE - Gennaio Febbraio 2012.pdf - CSA Arezzo

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ubriche<br />

0<br />

è dualistico, implica la separazione fra un agente perdonante ( buono, giusto,<br />

vittima, bravo) e un ricevente perdonato (cattivo, carnefice, sbagliato pentito), un<br />

soggetto e un oggetto. Inoltre è intimamente connesso al concetto di peccato.<br />

Il Buddha disse: “ Se un uomo stupidamente mi fa del male, gli restituirò la<br />

protezione del mio amore senza risentimento; più male mi viene da lui, più<br />

bene andrà da me a lui; la fragranza della bontà torna sempre a me, e l’aria<br />

nociva del male va a lui”.<br />

Nel Corano si prega per il perdono e lo si richiede così che ognuno perdoni<br />

e dimentichi le cattive azioni commesse dai pochi ignoranti, musulmani e non<br />

musulmani. (Ricorda molto il cristiano: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li<br />

rimettiamo ai nostri debitori”).<br />

Pensare di poter perdonare altrui colpe, che ci riguardino, è una lenitiva<br />

arroganza; la colpa è un vissuto privato di espulsione dalla comunità e dagli affetti,<br />

un vissuto di privazione dell’appartenenza, che può arrivare fino all’alienazione<br />

anche da sé stessi. Riguarda sostanzialmente chi si sente colpevole.<br />

Non esiste un solo modo di perdonare e anche senza volerle giudicare cercherò<br />

di esporne delle forme che o conosciuto in campo professionale.<br />

Un primo caso da subito mi spaventò e mi ferì. Era un perdono severo, acuminato<br />

che feriva più della forma impietosa di giudizio alla quale faceva seguito. Pensare<br />

di poter perdonare altri ci appare allora nella sua vera dimensione di fuga<br />

proiettiva da una sofferenza intollerabile. Il perdonatore di terzi rischia di essere<br />

un assassino mancato che non tollerando i propri furibondi propositi di vendetta,<br />

ripiega nel perdono dell’altro non avendo accesso al proprio magma furente<br />

rimosso dalla coscienza. È presunzione forse di assolversi dalla propria rabbia<br />

infierendo con una forma vindice di perdono dalla quale soltanto la derisione<br />

in parte può salvare l’altro, il presunto malvagio. Si trattava di una incredibile<br />

forma arrogante di perdono usato in termini di potere e non di liberazione.<br />

In questi casi tuttavia sarebbe più corretto usare il termine di “grazia”, che<br />

appunto attiene all’esercizio del potere; piuttosto che di libertà. Queste pretese<br />

forme di perdono assicurano in realtà il controllo, essendo motivate dalla paura<br />

piuttosto che dalla speranza e dalla fiducia. Esse si ritrovano in personalità rigide<br />

centrate sulla legge, persone che non si tollerano peccatrici e pertanto non si<br />

possono perdonare. Il loro è un perdono entomologico da giusti, una forma<br />

particolare di abuso dell’altro vissuto soggettivamente come un furore sordo<br />

contro costui per una sensazione di colpevolezza che l’altrui presenza (giudicata<br />

colpevole) riverbera addosso come percezione intollerabile dell’affioramento<br />

alla coscienza del desiderio/peccato non inibito nell’altro. Questa negazione<br />

obbliga all’isolamento in una schiera di eletti, incontaminati ai propri reciproci<br />

occhi e barricati grazie a questa purezza dall’altrui (proprio) male. Una cupa<br />

sofferenza senza pace, senza perdono, senza assoluzione perché non ne viene<br />

riconosciuta l’origine endogena. Vecchio peccato proiettivo da inquisitori fonte<br />

di sofferenza propria ed altrui. A fronte di tanta sofferenza possiamo dire:<br />

“Guai ai puri perché di loro è il regno degli inferi” invertendo la benedizione<br />

degli umili. In queste tetre personalità ho anche avvertito l’esacerbato dolore<br />

che, senza assolverle, le avvicina in un gorgo di sofferenza alle proprie vittime.<br />

Destino che tocca a colui che non riconosce altro perdono che quello dell’altrui

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