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SENTIREASCOLTARE<br />
Battles<br />
Dan Deacon<br />
Hetero Skeleton<br />
Hometapes<br />
Earache<br />
Faust<br />
Dinosaur Jr<br />
Henry Cowell<br />
Monta<br />
online music magazine<br />
MAGGIO N. 31<br />
Björk<br />
<strong>neo</strong> <strong>sciamana</strong> <strong>iperpop</strong><br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
sommario<br />
4 News<br />
8 The Lights On<br />
Dan Deacon, Francesco Tristano, Hetero<br />
Skeleton, Monta<br />
2 Speciali<br />
Battles, Hometapes, Earache, Bjork<br />
4 Recensioni<br />
Bachi Da Pietra, Colleen, Dungen,<br />
EL-P, Nine Inch Nails, Perturbazione,<br />
Tangerine Dream, Throbbin Gristle, Von<br />
Sudenfed, Wilco, Parts & Labour<br />
7 9 Rubriche<br />
(Gi)Ant Steps<br />
Dave Brubeck Quartet<br />
We Are Demo:<br />
Bancali In Pietra, Camillas, Visioni di<br />
Cody, Arbdesastr, Dorothi ...<br />
Classic<br />
Faust, Dinosaur Jr, Henry Cow,<br />
Gobblehoof<br />
Cinema<br />
300, Death Of A President...<br />
Cult: Toro scatenato<br />
I cosiddetti contemporanei<br />
Henry Cowell<br />
Direttore<br />
Edoardo Bridda<br />
Coordinamento<br />
Teresa Greco<br />
Consulenti alla redazione<br />
Daniele Follero<br />
Stefano Solventi<br />
Staff<br />
Valentina Cassano<br />
Antonello Comunale<br />
Antonio Puglia<br />
Hanno collaborato<br />
Gianni Avella, Davide Brace, Filippo Bordignon, Marco<br />
Braggion, Gaspare Caliri, Roberto Canella, Paolo<br />
Grava, Manfredi Lamartina, Andrea Monaco, Massimo<br />
Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea<br />
Provinciali, Stefano Renzi, Federico Romagnoli,<br />
Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Alfonso<br />
Tramontano Guerritore, Giancarlo Turra, Fabrizio<br />
Zampighi, Giuseppe Zucco<br />
Guida spirituale<br />
Adriano Trauber (1966-2004)<br />
Grafica<br />
Edoardo Bridda, Valentina Cassano<br />
in copertina<br />
Björk<br />
SentireAscoltare online music magazine<br />
Registrazione Trib.BO N° 7590<br />
del 28/10/05<br />
Editore Edoardo Bridda<br />
Direttore responsabile Antonello Comunale<br />
Provider NGI S.p.A.<br />
2<br />
Copyright © 2007 Edoardo Bridda. Tutti i<br />
diritti riservati.<br />
La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi<br />
forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi<br />
mezzo, è proibita senza autorizzazione<br />
scritta di SentireAscoltare<br />
82s<br />
e n t i r e a s c o l t a r e<br />
8
news<br />
a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />
Primavera Sound<br />
4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
Cast corposo per il prossimo Festival Estrella Damm Primavera Sound<br />
2007 di Barcellona, previsto dal 31 maggio al 2 giugno prossimi presso il<br />
Parc del Forum. Tra i moltissimi nomi della tre giorni spagnola: Smashing<br />
Pumpkins, The White Stripes, Slint (che riproporranno Spiderland per<br />
intero), i Melvins (che rifaranno Houdini), i Dirty Three (con Ocean Son-<br />
gs), The Fall, Art Brut, Modest Mouse, Built To Spill, Low, Wilco, Sonic<br />
Youth (con Daydream Nation), Isis, Blonde Redhead, Klaxons, Maximo<br />
Park, Shannon Wright, The Durutti Column, Battles, Matt Elliott, Robyn<br />
Hitchcock, Nathan Fake, Of Montreal… Per il programma completo e info<br />
sui biglietti: www.primaverasound.com...<br />
Patrick Wolf come Ziggy Stardust? In un messaggio sul suo forum uffi-<br />
ciale, il 22 aprile l’artista ventitreenne ha annunciato ai suoi fans che il<br />
prossimo novembre si ritirerà dalle scene, con un concerto-retrospettiva a<br />
Londra in cui sarà accompagnato da un’orchestra. Una decisione probabil-<br />
mente nata sull’onda emotiva dello stress da promozione di Magic Posi-<br />
tion, che ha portato, tra le altre cose, al licenziamento del batterista della<br />
band per motivi di droga. In ogni caso, questa uscita ricorda fin troppo da<br />
vicino il famoso retirement speech di Bowie del 1973. Che Patrick voglia<br />
seguire fino in fondo le orme del maestro David?...<br />
La Secretly Canadian ha pubblicato il suo centesimo album il 24 aprile<br />
scorso: il doppio SC100 comprende 18 artisti del roster che si coverizzano<br />
l’uno l’altro. Jens Lekman - che nel disco interpreta Scout Niblett - ha<br />
fatto sapere che il suo secondo LP sarà pubblicato in autunno. Una notizia<br />
da prendere con il beneficio del dubbio, a sentire lo stesso svedese…<br />
Sarà pubblicato il 1 giugno un libro sui Sigur Ròs, dal titolo In A Frozen<br />
Sea: A Year With Sigur Ròs; scritto da un loro fan, Jeff Anderson; il vo-<br />
lume testimonia il tour dello scorso anno, con interviste esclusive, foto e<br />
commenti e con copertina che riproduce un vinile da 12 pollici. In agosto<br />
uscirà un EP, ancora senza titolo, e in ottobre un DVD live del tour dell’an-<br />
no scorso in Islanda…<br />
Damon Albarn ha annunciato dai microfoni di BBC Radio 2 lo scioglimento<br />
definitivo dei suoi Gorillaz, che avverrà entro l’anno dopo la realizzazione<br />
della colonna sonora di un lungometraggio - le cui riprese cominceranno il<br />
prossimo settembre - con loro protagonisti…<br />
Addio alle scene anche per i Cooper Temple Clause, che avevano pubbli-<br />
cato a inizio anno il terzo album Make This Your Own. Lo ha annunciato<br />
sulle pagine di My Space il leader Daniel Fisher…<br />
Gli Spoon pubblicheranno il loro sesto disco Ga Ga Ga Ga Ga il 10 luglio<br />
prossimo su Merge…<br />
Amanda Palmer, cantante e pianista dei Dresden Dolls sta preparando
il debutto solista, dal titolo autoreferenziale Who Killed Amanda Palmer.<br />
Realizzato con la collaborazione di Ben Folds, sarà in uscita presumibil-<br />
mente per la primavera del 2008 su Eight Foot…<br />
La Domino ristamperà il 10 luglio The Freed Man, il primo disco dei Se-<br />
badoh, con l’aggiunta di bonus; l’album era uscito in origine solo su LP e<br />
cassetta per la Homestead nel 1989…<br />
Jack White sta preparando nuovo materiale per i suoi Raconteurs, in pa-<br />
rallelo con il nuovo album dei White Stripes, Icky Tump…<br />
Dopo l’apparizione del 21 aprile scorso all’Auditorium dell’Università del<br />
Texas (con il supporto di archi, fiati e delle voci del gruppo di Austin<br />
Brothers and Sisters), gli Okkervil River, sono stati protagonisti, il 30<br />
aprile scorso, di un concerto tutto esaurito per l’inaugurazione della nuova<br />
Highline Ballroom di New York. In quest’occasione hanno aperto per Lou<br />
Reed, che li ha voluti con sé, dopo averli nominati tra le sue band prefe-<br />
rite per gli Mtv Video Music Awards. Aspettando The Stage Names, il loro<br />
nuovo album che uscirà a settembre su Jagjaguwar…<br />
Non sarà andato bene come Whatever People Say I Am, That’s What I’m<br />
Not, ma anche Favourite Worst Nightmare, il secondo album degli Arctic<br />
Monkeys, è subito schizzato in testa alle classifiche inglesi. Se il record<br />
del debutto (118.000 copie in un giorno) resta imbattibile, il successore è<br />
già il fast selling record del 2007, con 85.000 copie vendute il primo giorno<br />
di uscita, che potrebbero presto diventare 250.000…<br />
Gli Smashing Pumpkins rivelano la tracklist del disco della reunion, Zeit-<br />
geist in uscita il 7 luglio: Doomsday Clock, 7 Shades Of Black, Orchid,<br />
That’s The Way, Tarantula, Starz, United States, Never Lost, Bring The<br />
Light, Come On (Let’s Go), For God And Country, Pomp And Circumstance.<br />
La band farà il suo debutto in Europa il 22 maggio al Grand Rex di Parigi e<br />
sarà in Italia il 16 giugno a Venezia, al Parco San Giuliano per l’Heineken<br />
Jammin’ Festival…<br />
Mentre continua il tour “festivaliero” dei Jesus And Mary Chain, arriva la<br />
notizia di un prossimo box di rarità della band che la Rhino sta compilan-<br />
do…<br />
Dopo i Modest Mouse, continuano gli impegni di Johnny Marr, che par-<br />
teciperà al disco della reunion dei Crowded House di Neil Finn, il primo<br />
da 15 anni a questa parte. Time On Earth sarà pubblicato in luglio dalla<br />
Parlophone…<br />
Sulla homepage del sito ufficiale degli Interpol è apparsa la data di uscita del-<br />
l’atteso terzo disco: 10 luglio. Nessun altro dettaglio confermato, mentre in rete<br />
fra gli utenti del p2p è scattata la caccia all’ultima versione fake in mp3…<br />
Billy Corgan<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
news<br />
a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />
David Yow<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
A due anni dal fortunato Chaos And Creation In The Backyard, Paul Mc-<br />
Cartney dovrebbe tornare i primi di giugno con Memory Almost Full, al-<br />
bum probabilmente ispirato al suo chiacchierato divorzio da Heather Mills<br />
e il primo pubblicato da Hear Music, la casa discografica di Starbucks….<br />
Il secondo disco degli Editors si chiamerà An End Has A Start ed uscirà<br />
il 25 giugno prossimo su Kitchenware…<br />
David Yow (Jesus Lizards e Scratch Acid) è rientrato nel roster della Tou-<br />
ch & Go come membro dei Qui, il duo di Los Angeles a cui si è unito di<br />
recente alla voce; il secondo disco della band, Love’s Miracle sarà pub-<br />
blicato l’11 settembre e comprenderà le cover di Willie The Pimp di Zappa<br />
e Echoes dei Pink Floyd…<br />
I congolesi Kokono n. 1 (che appaiono sul nuovo Volta) e Joanna New-<br />
som apriranno due date americane dei concerti di Björk a inizio maggio;<br />
al link (http://unit.bjork.com/quicktime/video.html) una preview video del<br />
singolo Earth Intruders…<br />
È uscito in aprile My Fleeting House, DVD compilation di rare apparizioni<br />
video di Tim Buckley con interviste e commenti del coautore Larry Bec-<br />
kett, del chitarrista Lee Underwood e del biografo ufficiale David Browne;<br />
a questo link il trailer (http://www.youtube.com/watch?v=AHCccGEUMr0).<br />
Anche il figlio Jeff, in occasione del decennale della scomparsa - 29 mag-<br />
gio - sarà ricordato con due uscite: il best of So Real e il DVD Amazing<br />
Grace, documentario indipendente del 2004. Nessuna novità significativa<br />
riguardo il biopic tratto da Dream Brother, il libro di Browne sulle vite di<br />
padre e figlio, se non che il copione è stato affidato al regista indipendente<br />
Brian Jun…<br />
Tornano i Two Lone Swordsmen (Andrew Weatherall e Keith Tenniswood)<br />
con Wrong Meeting, in uscita il 15 maggio sulla label di Weatherall, Rot-<br />
ter ’s Golf Club…<br />
DVD in uscita il 10 luglio prossimo per i Flaming Lips: UFO’s At The Zoo:<br />
The Legendary Concert In Oklahoma conterrà l’intero concerto tenuto il<br />
15 settembre scorso allo Zoo Amphitheater di Oklahoma City…<br />
Potrebbe uscire già a ottobre il quarto album solista di Stephen Malkmus<br />
su Matador, in fase di ultimazione..<br />
Meg Baird degli Espers pubblicherà un disco solista, Dear Companion,<br />
in uscita in America su Drag City il 22 maggio e il 4 giugno in UK su Wichi-<br />
ta…<br />
Marissa Nadler è entrata nel roster della Kemado Records…
In occasione dei 25 anni del suo Womad, Peter Gabriel torna a luglio in<br />
Italia per ben quattro concerti: il 2 a Brescia, il 3 a Roma, il 5 ad Arezzo<br />
e il 6 a Venezia…<br />
Devendra Banhart sta lavorando al successore di Cripple Crow del 2005,<br />
prodotto insieme a Noah Georgeson; contribuiscono tra gli altri, Andy “Ve-<br />
tiver” Cabic e Otto Hauser degli Espers…<br />
Tornano i Devo in Italia dopo ben 17 anni di assenza, con due date il pros-<br />
simo giugno ( il 29 a Bergamo al Lazzaretto e il 30 ad Azzano Decimo alla<br />
Fiera della Musica). Al link immagini del tour dell’anno scorso (http://www.<br />
devo-obsesso.com/html/news_pgs/tour_06-1.html)...<br />
In collaborazione con All Tomorrow’s Parties, i Sonic Youth portano in<br />
tour, per Don’t Look Back, l’intero Daydream Nation in tre date italiane<br />
organizzate da DNA concerti, il 5 luglio a Torino (Spaziale Festival), il 6<br />
a Ferrara (Piazza Castello) e il 7 a Roma (Teatro Romano di Ostia Anti-<br />
ca)...<br />
I Police ricostituitisi in formazione originale suoneranno a Torino, al Delle<br />
Alpi il 2 ottobre, unica data italiana…<br />
Esce il 21 maggio un EP di 3 canzoni per Scout Niblett, su Too Pure…<br />
Dopo la grande popolarità acquisita in Cina dai Jennifer Gentle, il cui<br />
brano I Do Dream You è stato usato per uno spot tv sulla prevenzione<br />
dell’Aids, il gruppo padovano ha suonato lì una serie di date sold-out.<br />
Intanto si prepara per l’uscita del nuovo disco The Midnight Room, il 18<br />
giugno sempre su Sub Pop, con distribuzione italiana Audioglobe. Al link<br />
si vedono le immagini dello spot, con la musica della band, per invitare i<br />
giovani cinesi all’utilizzo del preservativo (http://www.youtube.com/watch<br />
?v=qDSTVHwkBZQ&mode=related&search=), e ancora immagini del loro<br />
tour (http://www.youtube.com/watch?v=zwCAGYqUE20)...<br />
I White Stripes saranno in Italia per due date in giugno, per promuovere<br />
il nuovo disco Icky Tump in uscita il 12 giugno su XL / Warner, il 6 giugno<br />
a Roma e il 7 a Milano all’Idroscalo…<br />
Per l’etichetta norvegese Smalltown Supersound uscirà il nuovo album di<br />
Sunburned Hand Of The Man intitolato Fire Escare, prodotto da Kieran<br />
Hebden aka Four Tet, il disco vedrà la luce in agosto…<br />
Jennifer Gentle<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
The Lights On...<br />
Dan Deacon<br />
Dan Deacon era un bimbo cicciot-<br />
tello che suonava trombone e tuba<br />
in una banda di Long Island. Non<br />
che oggi non sia buffo (visti gli oc-<br />
chiali che porta, però, credo se ne<br />
assuma la responsabilità), ma nel<br />
frattempo si è laureato al Purchase<br />
College di New York - una specie<br />
di super-scuola d’arte - ed è stato<br />
allievo del compositore e direttore<br />
d’orchestra Joel Thome - fondatore<br />
della Orchestra Of Our Time, con<br />
cui ha risuonato Zappa e Varèse<br />
(quest’ultimo vicino a Iannis Xe-<br />
nakis, riferimento che cita Deacon<br />
in prima persona).<br />
Il nostro si è poi trasferito a Bal-<br />
timora, con la scusa di aprire un<br />
collettivo con alcuni compagni<br />
dell’università; il risultato è sta-<br />
to l’aver infilato tre pubblicazioni<br />
da solista - composizioni elettro-<br />
niche, obviously - solo nel 2003,<br />
per la piccola Standard Oil Recor-<br />
ds. L’esordio, che raccoglie brani<br />
scritti fin dal liceo, si chiama Sil-<br />
ly Hat Vs. Egale Hat ed esce in<br />
aprile (6.0/10); gli segue, in mag-<br />
gio, Meetle Mice (6.3/10); chiude<br />
l’annata Goose On The Loose<br />
(6.0/10), a inizio dicembre.<br />
Dan ne esce come un compositore<br />
fresco, disinvolto e giovanile, qua-<br />
si (a parole) anti-colto; in Meetle<br />
Mice, per esempio, assembla una<br />
traccia (Aerosmith Permanent Va-<br />
cation 24162-2) che comprime<br />
tutto Permanent Vacation degli<br />
Aerosmith (!) in layer stratifica-<br />
ti. Ma la sostanza e la tecnica dei<br />
suoi lavori, nella maggior parte<br />
dei casi, possono essere colloca-<br />
te nel solco dei padri del minima-<br />
lismo. Le tastiere elettroniche, i<br />
vocoder, le sinusoidi che Dan usa<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
per comporre ci ricordano le tec-<br />
niche di LaMonte Young e Terry<br />
Riley, oltre che il frangente com-<br />
puter music del già citato Xenakis.<br />
Sembra di scorgere Riley, mentre<br />
si accarezza il pizzetto fiero del<br />
suo A Rainbow…, nella sovrappo-<br />
sizione di alcune melodie tastieri-<br />
stiche. Young, più concettualmen-<br />
te, emerge per la focalizzazione<br />
sul rapporto col pubblico, come<br />
ci conferma il successivo Green<br />
Cobra Is Awesome Verses The<br />
Sun, (Standard Oil, 2004), dove le<br />
“sine waves” utilizzate sono messe<br />
in lenta variazione, si “muovono”,<br />
con lo spostamento dell’ascoltato-<br />
re. (6.8/10). Ma Dan non sa cosa<br />
gli sta per succedere…<br />
Accade infatti che nel marzo 2004<br />
il nostro sia a metà delle 58 date<br />
della sua tournée in terra norda-<br />
mericana, ma l’auto dell’amico mu-<br />
sicista che lo accompagna si ferma<br />
e “muore”. Dan, che non ha la pa-<br />
tente, raccoglie le poche cose che<br />
può portare con sé e prosegue il<br />
tour a bordo di pullman (un’espe-<br />
rienza no limits, negli USA). È solo<br />
e ha un sacco di tempo per pensa-<br />
re. Deve, come si suole proferire,<br />
fare di necessità virtù. Ovvero il<br />
massimo con mezzi minimi. Un mo-<br />
mento, ma questo è minimalismo!<br />
Dan si trova allora a “concretiz-<br />
zare” giocoforza la sua idea mi-<br />
nimalista di musica nella propria<br />
esperienza. E, curiosamente, ciò<br />
avvicina le sue composizioni a una<br />
delle opzioni più massimaliste che<br />
può scegliere la musica: il ballo.<br />
Le prime avvisaglie si mostrano in<br />
Twacky Cats, EP uscito sempre nel<br />
2004 per la Comfort Stand (scari-<br />
cabile gratuitamente dal sito della<br />
label), dove spiccano le esilaranti<br />
Ohio e Lion With A Shark’s Head<br />
(6.5/10). Ma è sintomatico che sia<br />
la chiave “live” a dispiegare il cam-<br />
biamento in modo più definito.<br />
L’ultimo disco del Dan più legato ai<br />
retaggi di studio è proprio una re-<br />
gistrazione tratta da alcuni concer-<br />
ti passati (Live Recordings 2003,<br />
Standard Oil, 2004). Dopo di che,<br />
il suo stile concertistico si leviga in<br />
altri due anni passati a suonare in<br />
giro, a bordo di pullman. In questo<br />
periodo mette a punto il suo stile in<br />
presenza, inizia a zompettare (più<br />
che a danzare), canta mentre tra-<br />
sfigura la sua voce in timbri da car-<br />
tone animato o lunari, trascinando<br />
il pubblico nel suo ondeggiamento.<br />
Il tutto funziona. E allora nel 2006<br />
il nuovo corso (certo non del tutto<br />
stravolto rispetto al vecchio) inizia<br />
ufficialmente con l’EP Acorn Ma-<br />
ster (Psych-O-Path).<br />
È Dan stesso a rinfrancare le no-<br />
stre impressioni. “Ho capito che la<br />
musica elettronica era qualcosa di<br />
esoterico e io volevo evitare di es-<br />
serlo”, racconta, “volevo renderla<br />
il più divertente possibile, senza<br />
per questo cambiare il mio stile di<br />
composizione” (sentite a proposito<br />
Moses Vs. Predator). E lo fa tenen-<br />
do un passo a un tempo assurdista<br />
e umoristico, futuribile e scanzo-<br />
nato (6.8/10).<br />
Ma Acorn Master è l’antipasto, che<br />
prepara le papille a Spiderman Of<br />
The Rings (vedere spazio recen-<br />
sioni), prova del nove e primo vero<br />
caso, nel percorso di Deacon, a<br />
non suonare né come avanguardia<br />
sdoganata né come uno scimmiot-<br />
tamento dei suoi live.<br />
G a s p a r e C a l i r i
La classica. Nel 2006 il pianista<br />
extraordinarie Francesco Tristano<br />
Schlimé (Lussemburgo, 1981) in-<br />
cideva su disco il Concerto in Sol<br />
di Maurice Ravel e il Concerto Per<br />
Piano n. 5 di Sergei Prokof ’ev<br />
(Pentatone Classics, 2006). Il suo<br />
nome non era certo nuovo ai fre-<br />
quentatori abituali della classica,<br />
dato che a soli venti anni Trista-<br />
no si era cimentato con successo<br />
nell’interpretazione delle Varia-<br />
zioni Goldberg (Accord, 2002); a<br />
ventuno aveva registrato con T he<br />
New Bach Players i Concerti p er<br />
Clavicembalo di Bach (Accord,<br />
2002); e in seguito donato nuova<br />
risonanza ad alcune pagine m eno<br />
note del repertorio di Luciano Be-<br />
rio (penso alle Six Encores), c hé<br />
del maestro ligure il giovane t alen-<br />
to aveva registrato nel 2005 l’in-<br />
tegrale per piano (Sisyphe, 2005).<br />
Ma quel disco, oltre a contenere<br />
l’eccellente lettura dei concerti<br />
per piano di Ravel e Prokof ’ev,<br />
era il primo in cui poter ascoltare<br />
tre improvvisazioni composte d al<br />
pianista e ispirate ai due concer-<br />
ti. Sebbene nelle note esplicative<br />
del booklet venisse precisato c he,<br />
a rigore, nessuna improvvisazio-<br />
ne andrebbe registrata - perché<br />
vive solo nel e del momento in c ui<br />
viene eseguita -, e sebbene l’ar-<br />
tista non fosse certo nuovo alla<br />
composizione, era la prima volta<br />
che accadeva su disco. L’esigen-<br />
te uditorio della musica classica<br />
prendeva semplicemente atto.<br />
La dance. Sempre nel 2006, alla<br />
fine dell’anno, un brano si infiltra-<br />
va con insistenza tra le frequenze<br />
di certe radio. Sembrava Strings<br />
Of Life, il brano Detroit techno par<br />
The Lights On...<br />
Francesco Tristano<br />
excellence, quello portato al suc-<br />
cesso da Derrick May nel 1987,<br />
ma non si trattava esattamente di<br />
Strings Of Life. Perché a condurre<br />
il ritmo incalzante, quello sì rico-<br />
noscibile, era un pianoforte suo-<br />
nato divinamente. Da Chico, come<br />
lo chiamano gli amici. Ad accor-<br />
gersi di lui, stavolta, il pubblico<br />
danzante a ritmo di techno e hou-<br />
se - e i dj, che nei bag ospitavano<br />
fieri almeno una copia di quel 12<br />
pollici arricchito dai remix di Kiki<br />
ed Apparat (Infinè Music, 2006)<br />
- entrambi del giro BPitch Control,<br />
a completo agio con la sintassi<br />
della club culture il primo, legger-<br />
mente più rispettoso della rivisita-<br />
zione di Tristano, il secondo.<br />
Il jazz. Pur rivolgendo un orecchio<br />
distratto al particolare approccio<br />
alla tastiera di Tristano, non è dif-<br />
ficile realizzare di essere al co-<br />
spetto anche di un pianista jazz.<br />
“ Il jazz è morto, decretava quando<br />
avevo 12 anni, un eminente jazzi-<br />
sta, mio vecchio maestro”, scrive<br />
Tristano, “una frase che da allora<br />
non ha fatto che ossessionarmi”.<br />
E ancora: “Il jazz non ha mai ces-<br />
sato di reinventarsi ed è tutt’oggi<br />
capace di incorporare altri generi<br />
musicali, compresi quelli che ha<br />
contribuito a far nascere. Basterà<br />
tutto questo a procrastinarne la<br />
morte?”. La risposta, le risposte<br />
a questo interrogativo stanno tut-<br />
te negli innumerevoli progetti che<br />
Chico tiene in vita sin da adole-<br />
scente in ambito jazz-improv. Da<br />
solista, o con un’altra promessa<br />
del pianoforte, il libanese Rami<br />
Khalifé (nel duo Aufgang e nel col-<br />
lettivo dell’Aufgang Extended);<br />
con il trio Out Of Focus (Aaron<br />
Brown, violino e Kyle Sanna, chi-<br />
tarra), che, stanziato a New York,<br />
accosta a quello del jazz acusti-<br />
co il linguaggio della World Music<br />
(e della samba, da quando il per-<br />
cussionista Raimnudo Penaforte<br />
è della partita); e, ancora, dia-<br />
logando con la musica orientale<br />
grazie all’esperienza Tr iologues<br />
- un confronto con il contrabbasso<br />
di Jean-Daniel Hégé e le percus-<br />
sioni giapponesi di Haruka Fujii.<br />
Il samba, e alcune considerazioni.<br />
L’ultimo amore di Chico, in ordi-<br />
ne di tempo, si chiama samba. La<br />
collaborazione con Penaforte si fa<br />
più salda nel progetto 2 Minds 1<br />
Sounds: così si chiama anche il<br />
brano conclusivo di Not For Piano<br />
(vedi spazio recensioni), che non<br />
è il solo dell’album a respirare gli<br />
umori della danza brasiliana. Se<br />
c’è qualcosa di cui Tristano non<br />
difetta è di un’infinita e quasi pa-<br />
rossistica passione per la musica,<br />
che si estrinseca in un’indefessa<br />
ricerca della perfezione tecnico-<br />
formale, senz’altro, ma soprattut-<br />
to in un intelligente confronto con<br />
i generi meno prossimi alla dorata<br />
fortezza dell’Accademia. Proba-<br />
bilmente una simile eventualità<br />
non si darà mai, ma ci d ivertiamo<br />
ad immaginare la reazione di un<br />
purista della classica che ha par-<br />
ticolarmente apprezzato l’edizio-<br />
ne dell’integrale per piano di Be-<br />
rio all’ascolto di Strings Of Life.<br />
Fosse anche solo per il piacere<br />
procurato da un simile esperimen-<br />
to mentale, c’è davvero da inchi-<br />
narsi di fronte ad una t ale forza<br />
della natura.<br />
Vincenzo Santarcangelo<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9
The Lights On...<br />
Hetero Skeleton<br />
“Ti confido un segreto: noi in real-<br />
tà non sappiamo suonare. Per cui<br />
la parola migliore per definire la<br />
nostra musica è ‘improvvisazione’.<br />
Suoniamo e basta. Nessuna prova,<br />
nessuna second take, tutto succede<br />
una sola volta!”<br />
La maniera ironica, sincera (?!),<br />
diretta e spiazzante con la quale il<br />
batterista Petri Pirtilä mi descrive<br />
la musica dei “suoi” Hetero Skele-<br />
ton è perfettamente in sintonia con<br />
lo stile della band, quasi a voler<br />
sottolineare un’identità che è allo<br />
stesso tempo personale e musicale.<br />
La “simpatica violenza” con la qua-<br />
le questi cinque finlandesi irrompo-<br />
no sulla scena musicale grazie ad<br />
un contratto con una label di tutto<br />
rispetto come la Load, è più diretta<br />
di un cazzotto in faccia, zappiana-<br />
mente ironica nella sua estrema es-<br />
senzialità libertaria. Questa specie<br />
di circo rumorista, messo in piedi<br />
nel 2003 dagli stessi attuali compo-<br />
nenti, nasce dall’ascolto di Live-NY<br />
1980 dei Blue Humans (trio fonda-<br />
to dal chitarrista sperimentale Ru-<br />
dolph Grey, insieme al sassofonista<br />
Arthur Doyle e al batterista Beaver<br />
Harris: “da qualche cosa bisogna<br />
pur cominciare ed era esattamente<br />
quello che volevo suonare, ma na-<br />
turalmente è venuto fuori qualcosa<br />
di totalmente diverso, alla fine”.<br />
Qualcosa di così diverso da poter<br />
essere paragonato soltanto alle<br />
espressioni più estreme dell’ attuale<br />
panorama musicale. Tre riferimenti<br />
su tutti ci sono subito saltati alla<br />
mente: gli esperimenti post-grind<br />
di John Zorn, il free-jazz-core dei<br />
Flying Luttenbachers e il noise<br />
senza limiti dei Wolf Eyes. Il batte-<br />
rista degli Hetero Skeleton è d’ac-<br />
0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
cordo solo per metà con la mia os-<br />
servazione (“i Flying Luttenbachers<br />
e Zorn hanno un approccio troppo<br />
tecnico, mentre ai Wolf Eyes manca<br />
la parte divertente”) e preferisce ri-<br />
lanciare facendomi il suo elenco di<br />
nomi-ispirazione: Boredoms, Peter<br />
Brotzmann, Lighting Bolt, Bor-<br />
betomagus, Butthole Surfers (il<br />
nome della band prende spunto dal<br />
titolo di un brano di questi ultimi).<br />
Potremmo essere d’accordo con lui<br />
al 100 percento se non fosse che il<br />
risultato di queste influenze si per-<br />
de totalmente nel magma rumorista<br />
che mettono in scena: grindcore,<br />
noise, industrial fusi insieme con<br />
un’attitudine più punk del punk e<br />
un’estetica più attenta a colpire che<br />
a presentarsi accettabile. Prima di<br />
fare il grande passo alla Load, che<br />
si può ritenere la prima label a tutti<br />
gli effetti per gli Hetero Skeleton,<br />
la band aveva all’attivo solo regi-<br />
strazioni su cassetta e qualche cdr<br />
autoprodotto distribuito in un centi-<br />
naio di copie, tra i quali spicca Deep<br />
Inside Hetero Skeleon (2004): un<br />
free jazz (molto free e poco jazz)<br />
dal sapore garage-noise, in cui la<br />
fa da padrone il sax lamentoso e<br />
persistente di Sami Pekkola. Oltre<br />
alle irreperibili prove discografi-<br />
che, la loro breve carriera ha dato<br />
vita anche a una miriade di progetti<br />
paralleli altrettanto (se non di più)<br />
sconosciuti (Mohel, Killer Mchann,<br />
Hinageshi Bondage, Amon Dude,<br />
Inbred Retards, Taco Bells, Ava-<br />
rus). Insomma, una visibilità vera-<br />
mente scarsa, senza contare che la<br />
Finlandia non è proprio la capitale<br />
del noise! L’incontro con i tipi del-<br />
l’etichetta di Providence (tra le sue<br />
fila gente come OvO, i loro amati<br />
Lighting Bolt e USA Is A Monster) è<br />
stata la cosiddetta manna dal cielo:<br />
“Un amico di Arttu (Partinen, se-<br />
condo batterista della band) cono-<br />
sceva Mr. Load e gli ha fatto avere<br />
un nostro cdr. Lui ci ha contattati<br />
e ci ha offeto puttane, cocaina e<br />
un contratto discografico. Abbiamo<br />
scelto solo il contratto perchè sia-<br />
mo finlandesi e non usiamo droghe<br />
e donne”, continua scherzosamen-<br />
te Petri. È così che nasce En La<br />
Sombra Del Pajaro Velluto (PDF<br />
#30), che già dal titolo (“all’ombra<br />
dell’uccello peloso”) e dalla co-<br />
pertina (un collage di foto su uno<br />
sfondo verde pisello, che sembra<br />
la versione divertente di Reek Of<br />
Putrefaction dei Carcass) la dice<br />
già lunga sull’ironia dissacrante<br />
di Janne Martinkauppi (sax, voci,<br />
electronics), Juho Pätäri (chitarra,<br />
“l’unico tra noi che sa suonare un<br />
po’, ma è anche bravo a bluffare”)<br />
Sami Pekkola (sax tenore, chitar-<br />
ra) Arttu Partinen (batteria, voci,<br />
electronics) e Petri Pirtilä (batteria,<br />
voci, electronics). Musicalmente, è<br />
l’apoteosi del freak-jazz-noise, ma<br />
sarebbe alquanto riduttivo definire<br />
così un sound che aspira a schian-<br />
tarsi pesantemente sui timpani del-<br />
l’inconsapevole ascoltatore già dai<br />
primi cinque secondi di musica.<br />
Nessun tipo di compromesso, nes-<br />
suna tregua.<br />
Per molti (tra quelli che avranno<br />
il coraggio di ascoltarli) saranno<br />
semplicemente dei pazzi. Qualcuno<br />
li considererà geniali. Chi non cer-<br />
ca il compromesso, del resto, non<br />
si aspetta certo giudizi moderati.<br />
Loro dei giudizi sembrano fregarse-<br />
ne altamente.<br />
D a n i e l e F o l l e r o
È il tedesco Tobias Khun l’invisibi-<br />
le alchimista pop che già da quat-<br />
tro anni si cimenta in solitaria sotto<br />
la sigla Monta. Un nome buffo, ma<br />
gli alchimisti si sa, son fatti così:<br />
stravaganti. Come stravagante è il<br />
loro procedere sintetico. Prendono,<br />
studiano, soppesano e infine amal-<br />
gamano. A volte con risultati disa-<br />
strosi. Altre con esiti stupefacenti.<br />
A quest’ultima categoria corrispon-<br />
de la Grande Opera pop conseguita<br />
dal Nostro. Quel giusto dosare de-<br />
licatamente componenti antinomici<br />
ha finito per premiare quel duro<br />
lavoro, portando alla luce un raf-<br />
finato condensato indie-pop che,<br />
come la pietra filosofale, trasforma<br />
ogni cosa in pura emozione. Al suo<br />
interno troviamo dispiegate sottili<br />
trame cantautoriali che scaldano,<br />
solari melodie che si conficcano in<br />
testa inesorabilmente, timidi orpelli<br />
elettronici di una morbidezza uni-<br />
ca e nostalgiche derive vocali mai<br />
troppo cupe, il tutto condensato<br />
originalmente tramite un profondo<br />
lavoro di ricerca sonora. Sì, forse<br />
è proprio tale precisione stilistica il<br />
tratto più caratteristico di Khun, che<br />
fa si che facili smancerie non pren-<br />
dano mai il sopravvento. Ce lo pos-<br />
siamo immaginare preso anima e<br />
corpo intento a versare e mischiare<br />
parsimoniosamente elementi etero-<br />
genei in un’ampolla gorgogliante, le<br />
cui essenze profumano sia dei più<br />
titolati britannici aromi pop, sia di<br />
quelli derivanti dalle fonderie indie-<br />
rock statunitensi di più bassa lega.<br />
Il loro punto di contatto risiede pro-<br />
prio nella pacata formula musicale<br />
di questo teutonico dal cuore pop.<br />
Che per sensibilità romantica po-<br />
trebbe anche essere accostato ai<br />
suoi connazionali indietronici, ma<br />
l’assenza di quei fondali più netta-<br />
mente elettronici lo rende sempli-<br />
cemente pop.<br />
Dopo esser stato voce e chitar-<br />
re dei misconosciuti Miles, Khun<br />
ha esordito come Monta con l’EP<br />
Always Altamont (Rewika, 2003).<br />
In queste cinque canzoni che lo<br />
compongono sono già evidenti i<br />
tratti contraddistintivi della sua<br />
proposta. Is It Over e Sailor Needs<br />
The Wind rappresentano le canzoni<br />
che mancavano negli ultimi album<br />
pubblicati dal compianto Elliott<br />
Smith. È la loro ricercata semplici-<br />
tà che più colpisce positivamente:<br />
quell’arrangiare che non appesan-<br />
tisce dove ogni elemento sembra<br />
trovare la propria giusta collocazio-<br />
ne. Ovviamente molto in questo EP<br />
è lungi dall’esser definito perfetto.<br />
Anche se le canzoni sono soltanto<br />
cinque nel complesso il lavoro ri-<br />
sulta troppo eteroge<strong>neo</strong>: si passa<br />
dai succitati episodi che rappre-<br />
sentano un ideale incontro fra i<br />
Beatles e quel folk cantautoriale<br />
indipendente, alle più ovvie somi-<br />
glianze con i connazionali Notwist,<br />
fino a certe digressioni sperimen-<br />
tali di puro stampo dEUS. Manca<br />
ancora una presa di coscienza su<br />
quale strada intraprendere, ma una<br />
cosa risulta evidente fin da subito:<br />
il sublime gusto di Khun nel trovare<br />
nostalgiche melodie senza tempo.<br />
(6.3/10)<br />
Un anno più tardi, armato sempre e<br />
soltanto di pochi strumenti di base,<br />
ma con un gusto raffinato per gli<br />
arrangiamenti, Khun se ne esce<br />
con il suo album d’esordio: Where<br />
Circles Begin (Rewika, 2004). La<br />
critica più attenta colse fin da su-<br />
The Lights On...<br />
Monta<br />
bito la sua eccelsa sensibilità pop.<br />
Addirittura ci fu anche chi non si at-<br />
tardò a definire Monta come i Col-<br />
dplay tedeschi. Paragone che ci<br />
può stare soltanto se si spoglia la<br />
band di Chris Martin di tutto quel<br />
manierismo commerciale. Infatti il<br />
primo singolo estratto, I’m Sorry,<br />
riesce a risultare simultaneamente<br />
tanto orecchiabile e incisivo quan-<br />
to ricercato e misterioso nella sua<br />
sempre nuova epifania, che non si<br />
smetterebbe mai di ascoltarlo. Pro-<br />
prio questa immediatezza non trop-<br />
po invasiva, figlia appunto di una<br />
certosino lavoro di ricerca sonora,<br />
rende la musica di Monta in bilico<br />
perfetto tra leggerezza e profondi-<br />
tà, tra lo sbiadito e il colorato, tra<br />
l’evidente e l’imperscrutabile, tra il<br />
solare e il nostalgico. Una perfet-<br />
ta risultante di elementi eterogenei<br />
fusi insieme come soltanto un vero<br />
alchimista potrebbe fare. Le asso-<br />
nanze più evidenti sono ora quelle<br />
più propriamente pop, nobili e non,<br />
affiancate però da una più leggera<br />
attitudine indie-rock che oscilla tra<br />
gli Sparklehorse più intimi e i Dea-<br />
th Cab For Cutie. The Awakening<br />
riesce addirittura a evocare i Ra-<br />
diohead di The Bends. Il disco fila<br />
via leggero non senza però alcune<br />
cadute di tono. (6.7/10)<br />
Cadute di tono che invece non si<br />
registrano nel suo ultimo lavoro<br />
The Brilliant Masses (recensione<br />
sul PDF #30). L’album che consa-<br />
cra definitivamente come riuscito il<br />
percorso alchemico di Monta. Il suo<br />
pop è come un Elisir di lunga vita:<br />
una volta assimilato trasforma tut-<br />
to in quelle Masse brillanti evocate<br />
nel titolo del suo ultimo disco.<br />
A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
Battles<br />
NOT FIGHT, JUST HARD TALKIN’<br />
d i E d o a r d o B r i d d a<br />
Rapido Rewind negli anni Novanta. Quelli del math rock, mostro senza testa uscito dalla bile degli Slint. Poi foo-<br />
ting con Ian Williams attraverso riff serrati e sfilacciamenti. Don Caballero e Storm & Stress. Fino alla svolta dei<br />
2000 allo scoccare dei quali l’indie boy lascia baracca e burattini per ripensarsi e ricominciare. Finirà per ritro-<br />
vare se stesso, uguale e diverso, assieme a Tyondai Braxton e due fedelissimi con i quali, dopo tre anni di live e<br />
session, è arrivato a Mirrored. Non solo un debutto. Piuttosto uno di quegli album che cambiano le prospettive.<br />
Le reinventano, proprio come i Tortoise<br />
Matematico? Teorico? Seguace di<br />
Robert Fripp? Macché, nell’inter-<br />
vista a noi concessa via doppino,<br />
Ian Williams, pezzo da novanta<br />
del math-rock, ex punta di diaman-<br />
te dei Don Caballero e degli Storm<br />
& Stress, ci riassume la sua car-<br />
riera come un endless “tapping”.<br />
Fai un riff, lo metti in loop e poi un<br />
altro. E così via, ricorsivamente.<br />
Troppo modesto. Quello è il meto-<br />
do non la sostanza. La sostanza è<br />
il linguaggio. Un idioma maturato<br />
in seno all’hard rock senza baci-<br />
no (ma braccia) dei Don Caballero<br />
che ha trovato un momento disos-<br />
sato nel progetto parallelo Storm<br />
& Stress, per poi sublimarsi nelle<br />
placente cartilaginose di Ameri-<br />
can Don. Con quest’ultimo - defi-<br />
nitivo - sforzo ci troviamo nel 2000<br />
a tre zeri con un album-ponte per<br />
le sperimentazioni a venire, il pun-<br />
to focale delle rifrazioni del dopo,<br />
l’addio di Williams al gruppo che lo<br />
ha reso famoso e assieme un cor-<br />
pus di regole e costrutti predisposti<br />
a un dialogo possibile con il mon-<br />
do. L’album - che vede protagonisti<br />
tre quarti degli Storm & Stress e il<br />
sodale Damon Che alla batteria -<br />
è l’ultima spiaggia del rock di fine<br />
secolo, ma anche linea di confine<br />
con il feudo King Crimson, un ori-<br />
gami lontano dalle dialettiche har-<br />
dcore dimesse (ma ringhiose) dei<br />
Rodan, dagli squali di quel giugno<br />
del ’44, e i frangiflutti oceanici dei<br />
Dirty Three. American Don dunque<br />
come esperanto del post-rock, l’ol-<br />
tre math perché musica per sinapsi<br />
2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
che friggono, muscoli addomesti-<br />
cati alla circolarità, il minimalismo<br />
che si fa affare logorroico, eppure<br />
esperimento a rischio, prog in de-<br />
riva che si prepara all’archivio e<br />
non all’acquisizione orale.<br />
“A quel tempo provavamo a vede-<br />
re fino a dove potevamo spinger-<br />
ci con una mentalità e strumenti<br />
rockisti”, ammette Williams, “ora<br />
quest’approccio mi sembra limi-<br />
tante”. Così, al voltar del seco-<br />
lo, il chitarrista abbandona sia il<br />
gruppo madre sia il progetto col-<br />
laterale nato con l’amico Kevin<br />
Shea. “Motivi artistici, non perso-<br />
nali” afferma, biascicando un fare<br />
da nineties, tra pause, sbadigli e<br />
qualche frase buttata lì a mo’ di riff<br />
verbale. Tuttavia non deve essere<br />
stato facile trovarsi per strada alla<br />
ricerca di un lavoro qualunque per<br />
sostentarsi. Poco dopo, Williams<br />
lo stralunato rimette la catena ap-<br />
posto, s’inventa un job come video<br />
editor e chiama un po’ di gente per<br />
suonare, non sbarbi qualunque,<br />
tipi con esperienza di verbi vicini<br />
e lontani. Conosce Tyondai Bra-<br />
xton - figlio d’arte (indovinate di<br />
chi..) - uno che come lui va matto<br />
per loop ed echoplex, uno anima-<br />
to dalla sua stessa propensione<br />
in devoluzione nei confronti delle<br />
strofe e dei ritornelli, nonché l’uo-<br />
mo delle electronics (“un aspetto<br />
importante che la mia esperienza<br />
nel campo del video ha contribuito<br />
a far crescere”, ammette). Poi, in<br />
traiettoria capita il chitarrista John<br />
Stanier, già Helmet e Tomahawk<br />
(quelli del Mike Patton e Denison),<br />
batterista tosto abbastanza da non<br />
far rimpiangere la fisicità di Damon<br />
Che. Infine il tessitore/uomo spon-<br />
da, ovvero Dave Konopka, anche<br />
lui figlio di altre lupe (alle spalle<br />
i Lynx, gruppo per certi versi vici-<br />
no ai Don Caballero), una bassista<br />
e assieme buona seconda chitar-<br />
ra di ricamo a bordocampo. Sono<br />
nati i Battles, un ensemble di hard<br />
talkin’ estempora<strong>neo</strong> alla ricerca di<br />
slang. Ma quali? “Non avevo idea<br />
di cosa sarebbe successo, doveva<br />
essere nuovo ma non sapevo quale<br />
direzione avrebbe preso il sound”.<br />
Ian non è uno di molte parole, get-<br />
ta i ragazzi in pasto alla sala prove<br />
senza… “beh, senza nessun di-<br />
scorso, a dire il vero”. Comprensi-<br />
bile in loro un certo spaesamento.<br />
D’altro canto, si trovano di fronte<br />
il contorno di un trentenne dispo-<br />
sto a cambiare senza rinnegare il<br />
passato, pronto a mettersi in gioco<br />
con una mentalità diversa, magari<br />
dandola vinta al sound aperto dei<br />
Tortoise di Millions Now Living (e<br />
del disco di remix Rhythms, Reso-<br />
lutions & Clusters) e rinnegando,<br />
senza patemi, il pensiero da “pro-<br />
grammatore di sistemi rock” à la<br />
What Burn Never Returns.<br />
Da lì anche la scelta di Tyondai,<br />
John e Dave, ragazzi provenienti<br />
da background diversi, tutt’altro<br />
che kid adulanti cresciuti a pane<br />
e Slint. “Avevo in mente tante<br />
idee assurde”, dichiara ridendo<br />
Williams, “tuttavia in poco tempo<br />
siamo arrivati a una session be
nedetta dove registrammo l’intero<br />
materiale che è stato pubblicato,<br />
tra il 2004 e il 2005, nei tre EP a<br />
firma Battles” (verranno raccolti,<br />
un anno dopo, in un doppio CD<br />
dalla label Warp). Tutto in un’uni-<br />
ca session, mica male per uno che<br />
non sapeva dove battere la testa.<br />
E poi via con i live, in presa di-<br />
retta come in studio, come accade<br />
nei nove minuti di SZ2 (B EP, Dim<br />
Mak): un rilascio nervoso/dimes-<br />
so à la Storm & Stress che trova<br />
prima una chitarra hardcore in av-<br />
vicinamento perimetrico, poi rei-<br />
terazioni minimaliste in costante<br />
stuzzico al ringhiare della seconda<br />
sei corde. I Battles costruiscono<br />
bio-meccaniche i cui ingranaggi<br />
vengono sostituiti e riassemblati<br />
in streaming, in libertà. La calco-<br />
latrice non viene rinnegata, ma in<br />
campo ci sono almeno un paio di<br />
antidoti: piccoli esperimenti da un<br />
minuto dove c’è giusto l’idea di un<br />
mood, un giro di orologio da polso,<br />
e l’uso dell’elettronica, sicuramen-<br />
te il più valido rimedio ai possibi-<br />
li vicoli ciechi di American Don.<br />
Non occorre un genio per capire<br />
che è Tyondai Braxton il contralta-<br />
re del chitarrista dinoccolato, del<br />
resto il buon esordio The Violent<br />
Light Through Fall del 2002 - tra<br />
esperimenti free, reverse, rhythms<br />
electro ma anche post-rock, psych<br />
e melodia… - e la collaborazione<br />
con i Parts & Labour, già eviden-<br />
ziavano l’estro e soprattutto la ver-<br />
satilità del personaggio. L’esempio<br />
più significativo tra queste prime<br />
session è sicuramente Bttls (B<br />
EP): dialogo tra colpi sordi di jack<br />
stile Mika Vainio e calibrati bruli-<br />
chii di distorsori. “Abbiamo iniziato<br />
a suonare assieme perché erava-<br />
mo ciascuno fan dell’altro. Tyondai<br />
era a tutti i miei concerti in solo e<br />
viceversa!”, afferma Williams. As-<br />
sieme i due rappresentano la com-<br />
ponente più inventiva del combo,<br />
con Stainer e Konopka a giocare<br />
in struttura (o di sponda). Un ruolo<br />
non facile per quest’ultimi: “ci tro-<br />
vavamo in questo splatter-paint art<br />
project il cui unico punto acquisito<br />
era non ripetere i Don Caballero e<br />
come se non bastasse Williams se<br />
ne veniva fuori con quelle idee folli<br />
come il coro femminile, le musiche<br />
stile Ligeti di Odissea nello Spa-<br />
zio ecc.”, affermano recentemente<br />
i due nella rivista “Xlr8r”. Fortu-<br />
natamente, non prendono posizio-<br />
ni in opposizione, fortificando il<br />
quadrilatero invece di minarlo alla<br />
base, un connubio che nel frattem-<br />
po pare mancare ai progetti dell’ex<br />
compagno di Williams negli Storm<br />
& Stess, Kevin Shea, indaffarato in<br />
una decina di progetti, anch’essi<br />
free (tra cui il buon Talibam!) ma<br />
dal futuro decisamente più preca-<br />
rio.<br />
Del resto, i Battles potendo con-<br />
tare su una strumentazione wave-<br />
rock (macchine e strumenti) e su<br />
un incrocio di sonorità “white” e<br />
“black”, tra intrecci puliti di cor-<br />
de e ritmi caldi (e persino caraibi-<br />
ci), diventano presto un gioco sul<br />
quale scommettere tutte le fiches.<br />
Dance (B EP), ad esempio, dà se-<br />
gnali importanti: un quasi funk ine-<br />
dito per l’ex Storm & Stress, inoltre<br />
electronics, voce encodata, battito<br />
serrato e chitarre in contrappun-<br />
to (e loop). Ancora meglio fa Tras<br />
(Tras EP, Cold Sweat, 2004), altro<br />
funkaccio deciso (e liquori mellow<br />
elettronici). L’affare, dunque, è a<br />
quattro. Quattro cavalli di razza<br />
che fanno quasi rock, anzi “rock<br />
senza avere un cantante” (come<br />
dichiarerà Braxton più in là), ed<br />
è in quest’ottica del “quasi” che il<br />
tastierista ama descrivere l’open<br />
band: quasi qualcosa - o se pre-<br />
ferite metà qualcos’altro. Eppure,<br />
pur figlio di un free jazzer, è an-<br />
cora lui a optare per le strutturare<br />
attraverso mood o temi conduttori.<br />
Braxton versus Williams. Realismo<br />
fotografico versus pittura astratta.<br />
Altra dinamica vincente e bomba<br />
ad orologeria micidiale piazzata su<br />
B+T (C EP, Monitor, 2004), faville<br />
tortoisiane e movenze Teatro No,<br />
gioia dei fan che crescono ben al<br />
di là dei confini della Grande Mela,<br />
act dopo act.<br />
Siamo arrivati in corsa fin qui, al<br />
presente, lasciandoci trasportare<br />
dall’urgenza di raccontarvi la ge-<br />
nesi di un esordio che si farà ri-<br />
cordare a lungo. Il 18 maggio esce<br />
Mirrored (vedere spazio recen-<br />
sioni), un album figlio di session<br />
densissime fatto di corsi e ricorsi,<br />
mood pop e scenografie ad ampio<br />
spettro. Neo-Prog? Post-Rock Re-<br />
vival? Troppo poco: i Battles sono<br />
i Tortoise dei 2000.<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
Hometapes<br />
d i D a n i e l e F o l l e r o<br />
Due coniugi, ex compagni di studi alla facoltà di architettura<br />
uniti dalla passione per il design e la musica<br />
a 360 gradi. Una vita insieme cominciata suonando<br />
hardcore nella loro città natale, Savannah, in Georgia,<br />
fino a decidere di fondare un’etichetta per provare a<br />
vivere con la musica, ma senza riuscirci<br />
appieno, almeno finora.<br />
S t o r i e d i o r d i n a r i a a u t o g e s t i o n e .<br />
I r a c c o n t i d i A d a m e S a r a P a -<br />
d g e t t r i f l e t t o n o l ’ e s s e n z a d e l -<br />
l a m u s i c a i n d i p e n d e n t e c o n l a<br />
I m a i u s c o l a , b a s a t a p i ù s u f o r t i<br />
l e g a m i d i a m i c i z i a e f i d u c i a r e -<br />
c i p r o c a c h e s u f e r r e e r e g o l e d i<br />
m e r c a t o . L a H o m e t a p e s n a s c e<br />
s u l l a b a s e d i q u e s t e p r e m e s s e ,<br />
a g l i a l b o r i d e l n u o v o m i l l e n n i o ,<br />
c o m e u n a s c o m m e s s a , q u e l l a p i ù<br />
d i f f i c i l e : f a r e e p r o d u r r e m u s i c a<br />
s e n z a c o m p r o m e s s i . M a H o m e t a -<br />
p e s n o n f a r i m a s o l o c o n m u s i c a .<br />
L’ a r t e v i s i v a è u n a l t r o e l e m e n -<br />
t o f o n d a m e n t a l e d e l l a c o n c e z i o -<br />
n e e s t e t i c a d e l l a g i o v a n e l a b e l<br />
a m e r i c a n a , d a p o c o m i g r a t a d a l -<br />
l a c a o t i c a F l o r i d a a l l e t r a n q u i l l e<br />
m o n t a g n e d e l C o l o r a d o . L a c u r a<br />
d e l p a c k a g i n g e l a p r o m o z i o n e<br />
d i a r t i s t i f i g u r a t i v i è u n e l e m e n -<br />
t o i m p r e s c i n d i b i l e d e l l ’ a p p r o c c i o<br />
“ a p e r t o ” e a l l - i n c l u s i v e d i A d a m<br />
e S a r a . U n a f i l o s o f i a p r o d u t t i v a<br />
c h e n o n m i r a a l l a “ g r a n d e u s c i -<br />
t a ” , m a c h e , a l c o n t r a r i o , c i t i e n e<br />
a c o s t r u i r e u n c a t a l o g o c o e r e n -<br />
t e , c h e m e t t a a l c e n t r o l a l a b e l<br />
i n q u a n t o l u o g o d i m e d i a z i o n e<br />
e i n c o n t r o t r a a r t i s t i e p r o d u t t o -<br />
r i . U n l a b o r a t o r i o f a t t o i n c a s a ,<br />
d o v e s t a r s y s t e m e m a r k e t i n g<br />
s o n o s o l o p a r o l e v u o t e e d o v e<br />
c o n t a n o l a f a n t a s i a , i l c o r a g g i o<br />
e l a v o g l i a d i e s s e r e d i s p o s t i a<br />
s g o b b a r e m a t t i n a e s e r a p e r r e a -<br />
l i z z a r e i l p r o p r i o o b i e t t i v o : l ’ a u -<br />
t o n o m i a . La consapevolezza di<br />
ciò è chiara nelle parole di Adam e<br />
Sara, disponibili e contenti di rac-<br />
contarci la storia della loro crea-<br />
tura, tra difficoltà quotidiane, vec-<br />
chi e nuovi amici e un futuro che<br />
si prospetta più intenso che mai.<br />
4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
Q u a n d o è n a t a H o m e t a p e s e<br />
c o m e ?<br />
L’ e t i c h e t t a è n a t a u f f i c i a l m e n t e<br />
n e l 2 0 0 3 , q u a n d o a b b i a m o p r o -<br />
d o t t o i l c d d i P a u l D u n c a n , To<br />
A n A m b i e n t H o l l y w o o d , e i l 1 2 ”<br />
d i S h e d d i n g , N o w I ’ m S h e d d i n g ,<br />
m a s i a m o s t a t i u n ’ e n t i t à c r e a t i v a<br />
i n a t t i v i t à g i à p r i m a d i q u e l l ’ a n -<br />
n o . A t t o r n o a l 2 0 0 0 a b b i a m o i n -<br />
f a t t i c o m i n c i a t o a p r o d u r r e C D - R<br />
i n e d i z i o n e l i m i t a t a c o n p a c k a -<br />
g i n g f a t t i a m a n o c h e v e n d e v a m o<br />
“ o n t h e r o a d ” q u a n d o e r a v a m o i n<br />
t o u r c o n l a n o s t r a v e c c h i a b a n d<br />
h a r d c o r e , To D r e a m O f A u t u m n .<br />
Q u a n d o i l g r u p p o s i è s c i o l t o ,<br />
n e l 2 0 0 1 , a b b i a m o c o n t i n u a t o<br />
a l a v o r a r e s u p i c c o l e r e l e a s e .<br />
A d a m s u o n a v a m u s i c a c o n a m i -<br />
c i ( i n p a r t i c o l a r e R o b e r t o L a n g e<br />
e P a u l D u n c a n ) e n o i , i n q u e s t e<br />
o c c a s i o n i v e n d e v a m o i c d d e l l e<br />
l o r o r e g i s t r a z i o n i p i ù r e c e n t i c o n<br />
u n b a n c h e t t o d e l m e r c h a n d i s i n g .<br />
È s t a t o q u a n d o a b b i a m o a s c o l -<br />
t a t o l a m u s i c a d i P a u l D u n c a n<br />
e s u c c e s s i v a m e n t e d i S h e d d i n g<br />
c h e a b b i a m o d e c i s o d i a z z a r d a r e<br />
d i c o n f e z i o n a r e i d i s c h i i n q u a n -<br />
t i t à m a g g i o r e , c e r c a n d o d i m a n -<br />
t e n e r e e a c c r e s c e r e l a n o s t r a a t -<br />
t e n z i o n e p e r l e a r t i v i s i v e e p e r<br />
l a m a g i a d e l p a c k a g i n g i n s é .<br />
C h i h a f o n d a t o l a l a b e l ?<br />
N o i d u e , c i o è A d a m H e a t h c o t t e<br />
S a r a P a d g e t t . S t i a m o i n s i e m e d a<br />
q u i n d i c i a n n i e a b b i a m o d a p o c o<br />
f e s t e g g i a t o i n o s t r i p r i m i d i e c i<br />
a n n i d i m a t r i m o n i o . L a n o s t r a<br />
r e l a z i o n e c r e a t i v a è c o m i n c i a t a<br />
i m m e d i a t a m e n t e ( g i à d a l l i c e o ) ,<br />
q u a n d o a b b i a m o i n i z i a t o s c r i t t u -<br />
r a n d o b a n d d a f a r s u o n a r e a L i t -<br />
ordinaria autonomia<br />
t l e R o c k , A R , f a c e n d o c i l a n o s t r a<br />
f a n z i n e e a n d a n d o i n g i r o i n t o u r<br />
p e r q u a t t r o a n n i c o n To D r e a m<br />
O f A u t u m n . A b b i a m o s t u d i a t o e n -<br />
t r a m b i a r c h i t e t t u r a , s o u n d e f o -<br />
t o g r a f i a a S a v a n n a h e c i s i a m o<br />
p o i s p o s t a t i p e r q u a l c h e a n n o<br />
a M i a m i d o v e a b b i a m o v i s s u t o<br />
t r a a m i c i ( t r a c u i l a b a n d F e a -<br />
t h e r s ) , n u o v i l a v o r i p e r c a m p a r e<br />
e u n ’ e t i c h e t t a d i s c o g r a f i c a c h e<br />
c o m i n c i a v a a c r e s c e r e .<br />
P e r c h é a v e t e s c e l t o i l n o m e H o -<br />
m e t a p e s ? S i r i f e r i s c e a u n ’ i d e a<br />
p r e c i s a d i f a r e m u s i c a ?<br />
I l n o m e H o m e t a p e s c e l o h a s u g -<br />
g e r i t o i l n o s t r o a m i c o A d a m W i l -<br />
l s ( A d a m s u o n a s p e s s o c o n g l i<br />
E s s e n t i a l i s t d i R h y s C h a t h a m e<br />
c o n i B e a r I n H e a v e n , c h e h a n n o<br />
a p p e n a f i r m a t o p e r n o i ) , i n u n o<br />
s t u d i o d i r e g i s t r a z i o n e a S a v a n -<br />
n a h . S t a v a m o l a v o r a n d o a u n o<br />
d e i n o s t r i p r i m i C D - R e a v e v a m o<br />
b i s o g n o d i u n n o m e . C i p i a c q u e<br />
i l s u o n o d i q u e l l a p a r o l a , c h e r i -<br />
c h i a m a u n ’ a t t i t u d i n e d i r e t t a m e n -<br />
t e r e l a z i o n a t a a l m o d o i n c u i n o i<br />
e i n o s t r i a r t i s t i l a v o r i a m o : a u n<br />
l i v e l l o m o l t o s i n c e r o e p e r s o n a -<br />
l e . I n o s t r i p r i m i d i s c h i e r a n o<br />
h o m e - t a p e s n e l s e n s o l e t t e r a l e<br />
d e l t e r m i n e : e r a n o s c r i t t i e r e -<br />
g i s t r a t i i n s t u d i f a t t i i n c a s a d a<br />
P a u l ( D u n c a n ) e C o n n o r ( B e l l ,<br />
a k a S h e d d i n g ) . I l r e s t o l o a b b i a -<br />
m o f a t t o c o n l e n o s t r e m a n i n e l -<br />
l ’ a p p a r t a m e n t o c h e a v e v a m o a<br />
S a v a n n a h . D a a l l o r a , l a m u s i c a<br />
e i l l a v o r o g r a f i c o s o n o s t a t i r e a -<br />
l i z z a t i i n m o d i e l u o g h i d i v e r s i ,<br />
m a , a l l a f i n e d e l l a g i o r n a t a , t u t -<br />
t o t o r n a a l l a m i s s i o n e p e r s o n a l e<br />
d i o g n u n o d i n o i d i c r e a r e q u a l -
c o s a d i i m p o r t a n t e d a a s c o l t a r e ,<br />
m a n e g g i a r e e g u a r d a r e . L a l a b e l<br />
f u n z i o n a u n p o ’ c o m e u n a f a m i -<br />
g l i a , i n q u e s t o s e n s o .<br />
Q u a l è s t a t a l ’ i d e a p r i n c i p a l e<br />
c h e v i h a s p i n t i a f o n d a r e u n a<br />
l a b e l ?<br />
S e m p l i c e : n o i e i n o s t r i a m i c i<br />
s t a v a m o f a c e n d o m u s i c a e a r t e<br />
e v o l e v a m o c o n d i v i d e r l e c o n i l<br />
r e s t o d e l m o n d o .<br />
I l v o s t r o a p p r o c c i o a l l a m u s i c a<br />
a t t r a v e r s a r o c k p r o g r e s s i v e ,<br />
i m p r o v v i s a z i o n e e m u s i c a e l e t -<br />
t r o n i c a . Q u a l è i l l e g a m e c h e<br />
a v e t e c o n q u e s t e m u s i c h e ?<br />
P e n s i a m o c h e l a n o s t r a m u s i c a<br />
i n c l u d a u n p o ’ t u t t o . E s s e n z i a l -<br />
m e n t e t i r i a m o f u o r i l a m u s i c a<br />
c h e p i ù c i p i a c e , f a t t a d a l l a g e n -<br />
t e c h e c i p i a c e . P r o g , i m p r o v e d<br />
e l e t t r o n i c a s o n o g e n e r i c h e c i<br />
a p p a r t e n g o n o , e c c o m e . M a a d o -<br />
r i a m o a n c h e i l m e t a l , l ’ h i p h o p ,<br />
i f i e l d r e c o r d i n g s , i l c o u n t r y e i l<br />
b u o n v e c c h i o r o c k ’ n ’ r o l l !<br />
C o m e m a i v i s i e t e s p o s t a t i d a l -<br />
l a F l o r i d a a l C o l o r a d o ? È c a m -<br />
b i a t o q u a l c o s a p e r i l v o s t r o<br />
l a v o r o a s e g u i t o d i q u e s t o t r a -<br />
s f e r i m e n t o ?<br />
I l m o t i v o è s t a t o i l l a v o r o d i<br />
A d a m d a C r i s p i n P o r t e r + B o -<br />
g u s k y ( u n ’ a g e n z i a d i d e s i g n ) :<br />
q u a n d o a n n u n c i a r o n o c h e a v r e b -<br />
b e r o a p e r t o u n n u o v o u f f i c i o a<br />
B o u l d e r, n e l C o l o r a d o , A d a m f u<br />
i l p r i m o a f a r s i a v a n t i . S i a m o<br />
s t a t i a M i a m i p e r d u e c a o t i c i e<br />
i m p e g n a t i s s i m i a n n i e c i c o m i n -<br />
c i a v a a m a n c a r e q u a l c o s a c h e<br />
a v e v a m o a m a t o d i S a v a n n a h e<br />
d e l l a n o s t r a c i t t à n a t a l e , L i t t l e<br />
R o c k , i n A r k a n s a s . L a v i t a a M i a -<br />
m i s i è r i v e l a t a m o l t o c o s t o s a e<br />
a v o l t e i m p r e v e d i b i l e ( a b b i a m o<br />
v i s s u t o d u e s t a g i o n i d i u r a g a n i ,<br />
a f f r o n t a n d o s e t t i m a n e d ’ i n f e r n o<br />
d u r a n t e l e q u a l i è s t a t o a n c h e<br />
d a n n e g g i a t o i l n o s t r o u f f i c i o ) .<br />
C i a b b i a m o p e n s a t o m o l t o p r i m a<br />
d i a n d a r c e n e , m a l a p r o s p e t t i -<br />
v a d e l l e m o n t a g n e e d i c i t t à p i ù<br />
v i v e m u s i c a l m e n t e c o m e D e n -<br />
v e r e B o u l d e r, c i h a i n f u s o e n -<br />
t u s i a s m o e s p e r a n z a … e n o n n e<br />
s i a m o a n c o r a r i m a s t i d e l u s i ! C i<br />
p i a c e m o l t o v i v e r e i n C o l o r a d o e<br />
q u i S a r a p u ò d e d i c a r s i a t e m p o<br />
p i e n o a H o m e t a p e s . Q u e s t o h a<br />
f a t t o u n ’ e n o r m e d i f f e r e n z a .<br />
V i s i e t e d a t i u n o b i e t t i v o p r e -<br />
c i s o ? Q u a l i s o n o l e m a g g i o r i<br />
d i f f i c o l t à c h e a v e t e i n c o n t r a t o<br />
a d e s s e r e u n ’ e t i c h e t t a i n d i p e n -<br />
d e n t e n e g l i U . S . A . ?<br />
Q u a n d o è n a t a H o m e t a p e s c i s i a -<br />
m o d a t i d e l l e r e g o l e t u t t e n o s t r e .<br />
A b b i a m o d e c i s o c h e a v r e m m o<br />
a v u t o u n a r t i s t a f i g u r a t i v o p e r<br />
o g n i n o s t r a u s c i t a d i s c o g r a f i c a ,<br />
d a p r o m u o v e r e i n s i e m e a i n o s t r i<br />
m u s i c i s t i , e c h e n o n a v r e m m o<br />
m a i p r o d o t t o u n d i s c o i n u n c o -<br />
f a n e t t o p e r i g i o i e l l i . I n o l t r e , s t a -<br />
b i l i m m o c h e o g n i c o s a , d a i n o i o -<br />
s i c o m u n i c a t i a l s i t o i n t e r n e t , l i<br />
a v r e m m o f a t t i d a n o i : H o m e t a -<br />
p e s , A d a m e S a r a . S i a m o p e r -<br />
f e z i o n i s t i e p i e n i d i i d e e e g r a n<br />
p a r t e d e l l a n o s t r a i s p i r a z i o n e<br />
n o n v i e n e d a l l a s c e n a m u s i c a l e .<br />
A m i a m o i l d e s i g n ( a r c h i t e t t u r a ,<br />
t i p o g r a f i a ) e q u e s t a d e v o z i o n e<br />
h a m i g l i o r a t o l a q u a l i t à d i t u t t o<br />
c i ò c h e f a c c i a m o .<br />
E c o s ì , c o n s e g u e n t e m e n t e a q u e -<br />
s t a s t o r i a d i d e v o z i o n e - f i n o - a l l a -<br />
p a z z i a , c i i n s e r i a m o n e l l a s c e n a<br />
i n d i e a m e r i c a n a c o n u n l i v e l l o d i<br />
i d e a l i s m o c h e s p e s s o p a s s a s o t -<br />
t o s i l e n z i o , i n o s s e r v a t o . L e l e n -<br />
t e v e n d i t e , l a m a n c a n z a d i c o v e r<br />
p e r c e r t o m a t e r i a l e d e d i c a t o a l l a<br />
s t a m p a e l a c a p r i c c i o s a m a c c h i -<br />
n a d e l m e r c a t o , p o s s o n o d i s t r u g -<br />
g e r t i d a l l ’ i n t e r n o . C ’ è i n v e c e u n a<br />
f o r m u l a m a g i c a p e r u n s u c c e s s o<br />
s o s t e n i b i l e e n o i l a v o r i a m o g i o r -<br />
n o p e r g i o r n o c o n i n o s t r i a r t i s t i<br />
p e r r a g g i u n g e r e q u e s t o p u n t o .<br />
C ’ è s t a t o q u a l c u n o c h e v i h a<br />
a i u t a t o a d a v v i a r e i l v o s t r o<br />
p r o g e t t o ?<br />
N o n a b b i a m o a v u t o u n a g u i d a s u<br />
c o m e f a r e l e c o s e , s e è q u e s t o<br />
c h e i n t e n d i : a b b i a m o f a t t o t u t t o<br />
d a s o l i p e r m o l t o t e m p o e p i a n<br />
p i a n o a b b i a m o t r o v a t o i l n o s t r o<br />
m o d o p e r s o n a l e d i d i v e n t a r e<br />
u n a “ v e r a l a b e l ” , s e n z a d e l u s i o -<br />
n i e a t t a c c h i d i c u o r e . C i r e n -<br />
d e m m o s u b i t o c o n t o c h e , p e r i<br />
n o s t r i i d e a l i p o c o c o n t r a t t a b i l i ,<br />
p e r i l f a t t o c h e f o s s i m o g l i u n i -<br />
c i a d a v e r i n v e s t i t o n e l l a l a b e l ,<br />
m a a n c h e a c a u s a d i u n a p o s i -<br />
z i o n e g e o g r a f i c a u n p o ’ d i s l o c a -<br />
t a , a v r e m m o d o v u t o f a t i c a r e p e r<br />
g u a d a g n a r c i i l p a n e .<br />
L a v o r i a m o d u r o p e r f a r c o n o s c e -<br />
r e H o m e t a p e s i l p i ù p o s s i b i l e e<br />
c i r e n d i a m o c o n t o c h e l a n o s t r a<br />
f a t i c a s t a d a n d o i s u o i f r u t t i . L a<br />
g e n t e c i c o n o s c e n o n p e r q u a l -<br />
c h e “ g r a n d e u s c i t a ” ( i n r e a l t à<br />
n o n n e a b b i a m o m a i a v u t o u n a<br />
c h e s i p o t e s s e r i t e n e r e t a l e ) m a<br />
p e r i l c a t a l o g o , c h e a b b i a m o c u -<br />
r a t o c o n c u r a m e t i c o l o s a .<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
Pattern Is Movement
Q u a l è i l r a p p o r t o c o n l e b a n d<br />
d e l l a v o s t r a e t i c h e t t a ? C o m e<br />
l a v o r a t e c o n l o r o ?<br />
A b b i a m o r a p p o r t i m o l t o s t r e t t i<br />
c o n t u t t e l e b a n d d e l l a H o m e t a -<br />
p e s . S i a m o t u t t i a m i c i , i n p r i m o<br />
l u o g o . S e g u i a m o q u e s t o i m p e -<br />
g n o a t t r a v e r s o u n a c o m u n i c a z i o -<br />
n e c o s t a n t e , v i a m a i l , t e l e f o n o<br />
o m e s s a g g i i s t a n t a n e i . C i s o n o<br />
g i o r n i i n c u i p a r l i a m o c o n t u t t i !<br />
L a s c i a m o c h e s i a n o i g r u p p i a<br />
d e t t a r c i l e s c h e d e p e r p r e s e n t a -<br />
r e l e l o r o n u o v e u s c i t e . L a n o s t r a<br />
p r i o r i t à è i l l o r o s u c c e s s o c r e a t i -<br />
v o ( e , d i c o n s e g u e n z a , i l n o s t r o )<br />
e n o n v o g l i a m o i n n e s s u n m o d o<br />
f o r z a r e q u e s t o p r o c e s s o .<br />
S i e t e d i s t r i b u i t i s o l o n e g l i<br />
U . S . A . o a n c h e i n E u r o p a ? D i<br />
f a t t o n o n i n I t a l i a …<br />
A l l a f i n e d e l 2 0 0 5 H o m e t a p e s h a<br />
c o m i n c i a t o a d u s c i r e d a g l i S t a -<br />
t e s a t t r a v e r s o u n a c o m p a g n i a<br />
b r i t a n n i c a c h i a m a t a F o r t e . L o r o<br />
h a n n o l a v o r a t o p e r d i s t r i b u i r e i<br />
n o s t r i d i s c h i i n t u t t a E u r o p a e<br />
c i p i a c e l a v o r a r e c o n l o r o m e n -<br />
t r e c r e s c o n o e s i s t a b i l i z z a n o<br />
c o m e r e a l t à . S t i a m o p r o v a n d o<br />
a d e s p a n d e r c i i n E u r o p a a n c h e<br />
c o n i l n o s t r o r o s t e r : l ’ e s t a t e<br />
s c o r s a a b b i a m o s c r i t t u r a t o g l i<br />
S l a r a f f e n l a n d , u n a b a n d d a n e -<br />
s e . I l l o r o n u o v o a l b u m , P r i v a t e<br />
C i n e m a , u s c i r à i n S c a n d i n a v i a<br />
e m o l t i a l t r i p a e s i e u r o p e i p e r<br />
l a d a n e s e R u m r a k e t , g e s t i t a d a<br />
R a s m u s S t o l b e r g d e g l i E f t e r k -<br />
l a n g . S p e r i a m o c h e q u e s t o a i u t i<br />
l a g e n t e a f a m i l i a r i z z a r e c o n H o -<br />
m e t a p e s : i l n o s t r o s c o p o u l t i m o<br />
è d i v e n t a r e u n ’ e t i c h e t t a a l i v e l -<br />
l o m o n d i a l e ! ( i m m a g i n o l a r i s a t a<br />
d a l l ’ a l t r a p a r t e d e l l o s c h e r m o ) …<br />
A p r o p o s i t o , c o n o s c i q u a l c u n o<br />
c h e d i s t r i b u i r e b b e i n o s t r i d i s c h i<br />
i n I t a l i a ?<br />
C o m e è n a t a l ’ i d e a d e l l a c o l l a -<br />
b o r a z i o n e t r a l ’ i n g e g n e r e d e l<br />
s u o n o S c o t t S o l t e r e P a t t e r n I s<br />
M o v e m e n t ?<br />
L a r e l a z i o n e t r a P a t t e r n I s M o -<br />
v e m e n t e S c o t t S o l t e r h a p r e -<br />
s o i l v i a q u a n d o s i s o n o s p o s t a t i<br />
i n s i e m e a S a n F r a n c i s c o p e r r e -<br />
g i s t r a r e i l s e c o n d o a l b u m d e l l a<br />
b a n d , S t o w a w a y , n e l l ’ a l l o r a s t u -<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
d i o d i S c o t t , i l Ti n y Te l e p h o n e . L a<br />
l o r o a m i c i z i a e c o l l a b o r a z i o n e s i<br />
è i n t e n s i f i c a t a d u r a n t e l ’ a r c o d e l<br />
l a v o r o p e r i l d i s c o . L’ i d e a d i C a -<br />
n o n i c , i l r e m i x d e l l ’ i n t e r o a l b u m ,<br />
è v e n u t a d i c o n s e g u e n z a .<br />
P e r c o n t i n u a r e q u e s t a c o l l a b o -<br />
r a z i o n e P a t t e r n I s M o v e m e n t<br />
h a n n o c o m i n c i a t o q u e s t a e s t a t e<br />
a r e g i s t r a r e i l l o r o t e r z o a l b u m<br />
c o n S c o t t n e i s u o i n u o v i s t u d i<br />
n e l N o r t h C a r o l i n a . A q u e s t o l a -<br />
v o r o s e g u i r à u n b r e v e t o u r p e r i l<br />
q u a l e S c o t t s i u n i r à a l o r o . P r a t i -<br />
c a m e n t e è d i v e n t a t o u n m e m b r o<br />
n o n u f f i c i a l e d e l l a b a n d , a q u e -<br />
s t o p u n t o .<br />
C ’ è q u a l c h e l a b e l c h e r a p p r e -<br />
s e n t a p e r v o i u n e s e m p i o , u n<br />
m a r c h i o ? E p e r c h é ?<br />
L a R u n e G r a m m o f o n , i n p a r t i c o -<br />
l a r e p e r i l l o r o i m p e g n o , p e r p a r -<br />
t e d i K i m H i o r t h ø y d i d a r e u n a<br />
r a p p r e s e n t a z i o n e v i s i v a a l l a m u -<br />
s i c a c h e p r o d u c o n o , e p e r i l l o r o<br />
m o d o d i c r e a r e m u s i c a i n n o v a t i -<br />
v a d a t u t t i i g e n e r i . E l a To u c h<br />
& G o : h a n n o d a t o p r o v a d e l f a t t o<br />
c h e n o n b i s o g n a a v e r e c o n t r a t t i<br />
p e r a v e r e s u c c e s s o ( u n l i t i g i o i n<br />
2 5 a n n i è u n r e c o r d d i v e r t e n t e )<br />
e c h e n o n è p e r n i e n t e n e c e s -<br />
s a r i o f i s s a r s i s u u n s o l o g e n e r e<br />
m u s i c a l e .<br />
C i s o n o m o l t e l a b e l c h e s i c o n -<br />
s i d e r a n o i n d i p e n d e n t i , m a c h e<br />
d i f a t t o l a v o r a n o e s i c o m p o r -<br />
t a n o , n e i c o n f r o n t i d e l m e r c a -<br />
t o m u s i c a l e , c o m e d e l l e m a j o r.<br />
C o s a n e p e n s a t e e c o s a p e n s a -<br />
t e s i a l a m u s i c a i n d i p e n d e n t e<br />
o g g i , n e l 2 0 0 7 ?<br />
N o n s i a m o p r o p r i o s i c u r i c h e<br />
e s i s t a a n c o r a u n a m u s i c a i n d i e ,<br />
c o m e n o n s i a m o s i c u r i c h e s i a i m -<br />
p o r t a n t e e s s e r e i n d i p e n d e n t i , a n -<br />
c h e s e è p r e c i s a m e n t e l a n o s t r a<br />
c o n d i z i o n e . È i n t e r e s s a n t e v e d e r e<br />
q u e g l i e n o r m i m o s t r i g i g a n t i c h e<br />
s o n o l e m a j o r, l o t t a r e p e r q u a l c h e<br />
d o l l a r o e f a l l i r e m i s e r a m e n t e .<br />
E s s e r e p i c c o l i e a g i l i c i d à s e n -<br />
s o . S e q u a l c o s a i n c u i s i a m o i m -<br />
p e g n a t i d i v e n t a e n o r m e b e n v e n -<br />
g a , p e r c h é s a p p i a m o c h e i l n o s t r o<br />
p i c c o l o i m p e r o è c o s t r u i t o s u s o -<br />
l i d e r e l a z i o n i u m a n e e n o n s u l e -<br />
g i s l a t o r i e b u r o c r a z i a .<br />
P r o g e t t i p e r i l f u t u r o ?<br />
I l 2 0 0 7 s t a d i v e n t a n d o i m p e g n a -<br />
t i v o ! S a r à d i c e r t o l ’ a n n o p i ù<br />
g r a n d e p e r H o m e t a p e s , c o n 6<br />
c d e a l c u n i 7 ” e d E p i n c a n t i e -<br />
r e , t r a c u i i n u o v i a l b u m d i P a u l<br />
D u n c a n , S l a r a f f e n l a n d ( m a g g i o ) ,<br />
C a r r i b e a n ( s e t t e m b r e ) e i n f i n e<br />
B r a d L a n e r e B e a r I n H e a v e n<br />
c h e p u b b l i c h e r e m o i n a u t u n n o .<br />
P e n s a t e c h e i n t e r n e t s t i a c a m -<br />
b i a n d o l a m u s i c a s t e s s a o n e<br />
s t i a s o l o m o d i f i c a n d o i l b u s i -<br />
n e s s ?<br />
I n t e r n e t s t a c a m b i a n d o l ’ e s p e -<br />
r i e n z a d e l l a m u s i c a , i l s u o<br />
s o u n d , l a s t o r i a d e l p a c k a g i n g<br />
c h e a c c o m p a g n a i d i s c h i , l a d i -<br />
s p o n i b i l i t à d i u s u f r u i r e d e l l a m u -<br />
s i c a e m o l t e a l t r e c o s e . Q u e s t o<br />
i n f l u i s c e s e n z ’ a l t r o a n c h e n e l<br />
b u s i n e s s : c i ò c h e p r i m a e r a u n a<br />
m a c c h i n a d a m a r k e t i n g c o s t r u i t a<br />
s u p i ù d i m e n s i o n i ( c o n g l i o c c h i<br />
p u n t a t i s u n e g o z i , r a d i o , e s e c u -<br />
z i o n i l i v e e a l t r e e s p e r i e n z e a n a -<br />
l o g h e ) s i è t r a s f o r m a t o i n u n a<br />
r e a l t à i n c o s t a n t e m o v i m e n t o ,<br />
m a c h e v i v e i n u n e t e r n o p r e s e n -<br />
t e , i l r e g n o a d u e d i m e n s i o n i d e l -<br />
l o s c h e r m o d i u n c o m p u t e r.<br />
Q u e s t o c a m b i a m e n t o c i e n t u s i a -<br />
s m a , p e r c h é n e s i a m o c o i n v o l t i<br />
i n p r i m a p e r s o n a , a n c h e s e n o n<br />
s i a m o a n c o r a c a p a c i d i p r e v e d e -<br />
r e i n c h e d i r e z i o n e s t i a a n d a n -<br />
d o .
F e a t h e r s - A b s o l u t e N o o n ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />
S y n c h r o m y ( H o m e t a p e s , 1 7 o t t o b r e 2 0 0 6 )<br />
Strano esordio quello di questo trio di Miami che, invece di cominciare la sua car-<br />
riera discografica con un album, preferisce esordire con una trilogia di EP giunta,<br />
per ora, al secondo capitolo. Chi pensa che il rock orchestrale abbia esaurito la sua<br />
forza espressiva trent’anni fa dovrà probabilmente ricredersi ascoltando Absolute<br />
Noon: un omaggio a band come Camel e Caravan, filtrate attraverso tutta la tradi-<br />
zione del progressive, dagli Yes ai King Crimson. (7.3/10)<br />
Diversa l’impostazione del secondo capitolo della trilogia, Syn-<br />
chromy, che pur mantenendo una struttura orchestrale “progres-<br />
siva” di ampio respiro, dal gusto differentemente old-style rispetto<br />
al lavoro precedente, affonda le sue radici nel jazz-rock (Mint<br />
Cairo), nell’elettronica post-Kraftwerk (Tone Poem) e nella psich-<br />
edelica sixties (Skara Brain). (7.3/10)<br />
S h e d d i n g - W h a t G o d D o e s n ’ t B l e s s , Yo u Wo n ’ t L o v e ; W h a t Yo u D o n ’ t<br />
L o v e , T h e C h i l d Wo n ’ t K n o w ( H o m e t a p e s , 1 4 n o v e m b r e 2 0 0 6 )<br />
L’amore di Connor Bell aka Shedding per la musica di Eric Dolphy sta alla base<br />
del suo secondo album What God Doesn’t Bless…, un disco che passa al setaccio<br />
i gesti musicali del sassofonista americano tagliuzzando e ricomponendo i suoi<br />
fraseggi (campionando soprattutto le sue esecuzioni con il flauto), riuscendo a ri-<br />
comporli rispettandone i lineamenti caratteristici e senza spezzettarne la continui-<br />
tà. L’effetto è etereo, lieve, con field recordings elaborati da live electronics, che<br />
dialogano con sax e flauti campionati. (7.0/10)<br />
C a n o n i c : S c o t t S o l t e r P l a y s P a t t e r n I s M o v e m e n t ( H o m e t a p e s , 1 0 o t t o b r e<br />
2 0 0 6 )<br />
Remake dell’ultimo album del combo statunitense, remixato dal suo produttore,<br />
Scott Solter che, affascinato dai ritmi ipnotici di Stowaway, ha provato a darne una<br />
sua propria interpretazione. In questo caso l’“allievo” non supera il “maestro” (l’im-<br />
presa era troppo ardua), ma riesce comunque a valorizzarlo. Estrapolati dal master<br />
tutti (o quasi) i pattern su cui era costruito l’album originale, Solter li trasferisce<br />
in un paesaggio musicale del tutto nuovo, mescolandoli a sonorità glitch-oriented.<br />
(6.8/10)<br />
P a u l D u n c a n - B e C a r e f u l W h a t Yo u C a l l H o m e ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />
La personalità di Paul Duncan, (tra i primi artisti del roster Hometapes, sin dagli<br />
esordi) si divide tra un’anima che affonda le sue radici nel folk e nel cantautorato<br />
americano degli anni 70, e una vena psichedelica e sperimentale che sfocia in<br />
alcuni momenti in un ottimo progressive, fresco anche se dai tratti vintage, altre<br />
volte in ballate meno interessanti, senza disdegnare momenti di pura esplorazione<br />
strumentale. (7.0/10)<br />
T h e C a r i b b e a n - P l a s t i c E x p l o s i v e s ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />
Questa band di Washington D.C. rappresenta senz’altro il lato più morbido e chia-<br />
ramente pop del catalogo Hometapes. Ma si tratta pur sempre di un pop senza com-<br />
promessi, che ti abbindola con qualche ritornello facilone e si perde un attimo dopo<br />
in escursioni electro-industrial (Tarmac Squad, Interfaith Theme), sviluppandosi tra<br />
melodie wyattiane e ballate à la Barrett con lo sfondo di una ricchissima tavolozza<br />
di colori strumentali. (7.1/10)<br />
UN OCCHIO AL CATALOGO<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
Earache<br />
d i A . A . V. V.<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
20 anni all’estremo delle risorse<br />
Earache. In inglese significa “mal d’orecchie”, in musica indica<br />
l’etichetta simbolo del metal estremo. Digby Pearson celebra<br />
nel 2007 i vent’anni di attività della sua label. Grindcore, Death,<br />
Industrial, Techno. Sempre più giù nei gironi infernali dell’estremo,<br />
della velocità, dell’antagonismo, fino a perdersi negli ultimi anni<br />
dietro produzioni di qualità assai dubbia. Ma per un momento o<br />
due, la storia è passata di qui.<br />
La Earache compie vent’anni ma<br />
non ha dovuto aspettare così tan-<br />
to per diventare un punto di rife-<br />
rimento per tutta una scena e in<br />
primis per la musica estrema. Del<br />
resto Digby Pearson, il fondatore<br />
dell’etichetta, ha cominciato a co-<br />
struire la sua creatura partendo dal<br />
basso, tanto che pubblicare dischi<br />
è stato solo il passo conclusivo di<br />
un percorso iniziato con l’organiz-<br />
zazione di concerti hardcore a Not-<br />
tingham, sua città natale. Appas-<br />
sionato di anarco-punk e profondo<br />
conoscitore della scena che anda-<br />
va formandosi nei primi anni 80 in<br />
Inghilterra, Digby si accorse ben<br />
presto che dopo la sbornia punk e<br />
dopo il “great rock’n’roll swindle”<br />
c’era nell’aria qualcosa di nuovo<br />
che stava covando nelle nuove ge-<br />
nerazioni di musicisti. Per la prima<br />
volta scene rigidamente separate e<br />
autonome come quelle del metal e<br />
dell’hardcore si stavano avvicinan-<br />
do con in testa un unico comanda-<br />
mento: suona più veloce del pros-<br />
simo tuo (“Play Fast Or Die” come<br />
cantavano gli Electro Hippies)<br />
All’epoca i gruppi che si stanno<br />
facendo un nome in questo senso<br />
sono davvero pochi e si conoscono<br />
tutti (di persona o tramite un frene-<br />
tico tape-trading) fossero i Siege di<br />
Boston, gli Heresy o i giovanissimi<br />
Napalm Death che suonano il loro<br />
primo concerto alla tenera età di<br />
quattordici-quindici anni. In un pe-<br />
riodo fra i più fertili per la musica<br />
estrema, in cui si sentiva che stava<br />
per accadere qualcosa di non ben<br />
definito, Digby Pearson ebbe il fiu-<br />
to ma anche la fortuna di trovarsi<br />
al posto giusto nel momento giusto,<br />
oltre che una buona dose di corag-<br />
gio. Mentre nelle charts impazzava<br />
il techno-pop e all’oscuro di tutti,<br />
Pearson comincia a far uscire alcu-<br />
ni dei dischi che saranno i capisaldi<br />
del rock estremo per gli anni a veni-<br />
re. Non solo il grindcore di Napalm<br />
Death e Carcass (tanto per citare<br />
i più noti) ma, insieme a un altro<br />
sparuto manipolo di etichette, pose<br />
la basi per la rivoluzione espressi-<br />
va del death metal mettendo sotto<br />
contratto pionieri del genere come<br />
Morbid Angel, Entombed, Massa-<br />
cre, Bolt Thrower e Nocturnus.<br />
Vera fucina di talenti, di provocato-<br />
ri, ma anche di tanti ottimi musici-<br />
sti, la Earache in seguito allargherà<br />
lo spettro delle proprie proposte, e<br />
per un certo periodo non sbaglie-<br />
rà un colpo avendo il coraggio non<br />
solo di far uscire i dischi dei Go-<br />
dflesh di Justin Broadrick, ma an-<br />
che le mutazioni free di John Zorn<br />
(Naked City, Painkiller), mosche<br />
bianche come O.L.D. e Lawnmower<br />
Deth o gli ultimi Brutal Truth, in-<br />
cubi doom (Cathedral, Confessor,<br />
Sleep) e noise (Fudge Tunnel).<br />
Man mano che l’etichetta crescerà<br />
(stipulando a cavallo degli anni 90<br />
un contratto nientemeno che con la<br />
Sony/Columbia) quest’alternanza<br />
fra sperimentazione e uscite ormai<br />
più canonicamente metal diventerà<br />
la regola ma segnerà allo stesso<br />
tempo il culmine e il declino della<br />
sua storia. Pur restando un punto<br />
di riferimento per molti la Earache<br />
doveva far fronte ai primi scontenti<br />
dei gruppi e alla variazioni di gusti<br />
dello stesso Pearson ormai più in-<br />
teressato alla techno o all’elettro-<br />
nica in generale. C’è da parte sua<br />
il desiderio di aprire ancora nuove<br />
strade, di intercettare la nuova on-<br />
data di gruppi pronti a rompere gli<br />
schemi. Ma non sarà più così lun-<br />
gimirante e di vere e proprie sco-<br />
perte la Earache non ne farà più,<br />
visto che il dub degli Scorn nasce<br />
da una costola dei Napalm Death,<br />
gli At The Gates e gli Anal Cunt<br />
erano già realtà assodate e non ba-<br />
stano i pur apprezzabili Dub War o<br />
Ultraviolence a far risalire la china<br />
all’etichetta. Si moltiplicano le sub-<br />
label (come la Wicked World e la<br />
Elitist) che tentano di ripartire dal<br />
basso, da un underground che, al-<br />
meno per quanto riguarda il metal<br />
estremo, era stato già abbondan-<br />
temente saccheggiato da piccole<br />
case discografiche che proprio se-<br />
guendo l’esempio della Earache si<br />
erano ormai fatte un nome. In que-<br />
sto senso etichette anche differenti<br />
fra loro come la Load e la Relapse<br />
hanno raccolto l’eredità della label<br />
di Nottingham. Questo non vuol dire<br />
che Pearson abbia perso di credi-<br />
bilità, né gli si può certo fare una<br />
colpa se da anni si ritrova ad avere<br />
un nutrito staff di collaboratori e un<br />
ufficio pure a New York, anche se<br />
per chi è cresciuto negli anni 90 è<br />
sempre più difficile identificarsi con<br />
certe scelte (Linea 77, tanto per<br />
fare un nome) e soprattutto certe<br />
operazioni, vedi in ultimo il video-<br />
gioco per PS2 Earache Extreme<br />
Metal Racing. Se si ha la pazienza<br />
di cercare nel recente catalogo si<br />
può incrociare ancora più di qual-<br />
che disco degno di nota (Municipal<br />
Waste, Ewigkeit, Carnival In Coal,<br />
Cult Of Luna) ma sembra davvero<br />
passata un’eternità da quando la<br />
storia della musica passava diret-<br />
tamente da qui.<br />
R o b e r t o C a n e l l a
come perdere l’udito con 15 dischi targati Earache<br />
Carcass<br />
N a p a l m D e a t h - S c u m ( E a r a c h e 1 9 8 7 )<br />
Scum è stato tante cose. Collisione fra punk/hardcore e metal, grind zero della scrit-<br />
tura rock e punto di non ritorno ma soprattutto di partenza per molto del metal estremo<br />
a venire, anche a livello concettuale. Ancora oggi, a vent’anni dall’uscita, il disco può<br />
suonare “normale” solo alle orecchie di chi ha già ascolato questo tipo di musica. Testi<br />
anarco-punk triturati dentro schegge deliranti, frammenti di canzoni, brandelli tirati via<br />
a forza dai Discharge e dai Celtic Frost, cose che raramente vanno oltre il minuto, uno<br />
stilema che rende il grind un genere unico rispetto a tutta la musica rock antecedente e<br />
che tocca il suo apice nei tre-secondi-tre di You Suffer. I Napalm Death pagarono con<br />
l’instabilità tanta gloria, già qui infatti abbiamo a che fare con due line-up diverse a seconda del lato del disco,<br />
ma basterà fare qualche nome per capire quanto futuro c’era dentro quel pezzo di vinile: Justin Broadrick (God-<br />
flesh, Final, Techno Animal, Jesu e tanti altri), Mick Harris (Scorn/Lull/Painkiller), Lee Dorrian (Cathedral), Bill<br />
Steer (Carcass). (Roberto Canella)<br />
G o d f l e s h - P u r e ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />
Pure è l’album che segna il passaggio dall’avvincente mistura di industrial, noise e<br />
grindcore degli esordi, il cui apice è il capolavoro Streetcleaner, a una personale forma<br />
di psichedelia, che caratterizza i dischi dei Jesu, attuale progetto di Justin Broadrick.<br />
Complice forse l’ingresso di Robert Hampson (Loop e Main), in Pure le atmosfere cupe<br />
si aprono spesso in ascensioni vertiginose, in stratificazioni chitarristiche di stampo<br />
shoegaze, costruendo un wall of sound che non sprofonda solo negli abissi ma si innal-<br />
za verso la stratosfera. La voce, finora cavernosa e urticante, in alcuni episodi diventa<br />
eterea e allucinata, da sciamano industriale. Per il resto, il suono continua ad essere<br />
claustrofobico e opprimente, segnato dalle reiterazioni inumane della drum-machine squassate da esplosioni chi-<br />
tarristiche improvvise. Un disco di una bellezza paralizzante, una lunga e dolorosa odissea nella psiche di Justin.<br />
I 20 minuti conclusivi di Pure II sono un incredibile esempio di ambient post-apocalittico. (Paolo Grava)<br />
E n t o m b e d - C l a n d e s t i n e ( E a r a c h e 1 9 9 1 )<br />
Fra i capostipiti del death metal scandinavo gli Entombed con Clandestine scrivono<br />
l’ultimo capitolo di un’avventura cominciata coi Nihilist e che con il successivo Wolve-<br />
rine Blues avrà tutt’altre fattezze. Prima di quella virata punk/rock‘n’roll esiste solo un<br />
suono cupo, violento, chiuso fra riff pesanti e veloci, un drumming poderoso e psico-<br />
drammi post-Celtic Frost. Con la classica produzione dei Sunlight Studios l’album non<br />
patisce cali d’intensità e conserva la freschezza di Left Hand Path con significative<br />
variazioni di registro, così che le bordate di Crawl, Shreds Of Flesh, Stranger Aeons e<br />
Dusk lasciano spazio agli arpeggi iniziali di Trough The Collonades e al lugubre break<br />
centrale di Evelyn. Da autentico deus ex machina il batterista Nicke Andersson scrive la maggior parte dei pezzi,<br />
suona la batteria e canta ma, da vorace lettore di Ellroy, non solo si cala nei suoi “luoghi oscuri” ma ha in serbo<br />
anche un colpo di scena: pochi anni dopo lascia tutto e fonda gli Hellacopters. (Roberto Canella)<br />
Godflesh<br />
Napalm Death<br />
Scorn<br />
Bolt Thrower<br />
Morbid Angel<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9
2 0 s e n t i r e aa s c o l t a r e<br />
A t T h e G a t e s - S l a u g h t e r O f T h e S o u l ( E a r a c h e 1 9 9 6 )<br />
Fra i più grandi gruppi di metal estremo di sempre, gli At The Gates ci hanno regalato<br />
solo quattro album ma tutti memorabili. Si potrebbe discutere sull’effettiva portata di<br />
ogni singolo disco (senza contare Gardens Of Grief, monolitico mini-lp di debutto) ma<br />
per comodità si preferisce considerare Slaughter Of The Soul come il loro capolavoro.<br />
Certo è che con quello che sarebbe stato il loro ultimo disco non solo portarono a piena<br />
maturazione un suono che aveva già fatto scuola (e che tanta ancora ne farà) ma rie-<br />
sce a spostarlo un po’ più in là. Il classico, progressivo, rifferama death metal pieno di<br />
schegge melodiche flirta col noise, si avventura brevemente verso sonorità industrial,<br />
il cantato isterico di Tomas “Tompa” Lindberg ricorda certe cose dell’hardcore più estremo. La prima metà del<br />
disco è in assoluto una delle cose migliori uscite in ambito death degli ultimi quindici anni, poi si assesta su una<br />
qualità media comunque superiore a intere carriere. (Roberto Canella)<br />
C a r c a s s - R e e k O f P u t r e f a c t i o n ( E a r a c h e , 1 9 8 8 )<br />
Se il grind core è (stato) soprattutto il tentativo di estremizzare tutti i parametri della<br />
musica, nella ricerca di un sound che riuscisse ad unire il nichilismo del punk alla vio-<br />
lenza sonora del death metal, l’esordio dei Carcass ne rappresenta l’emblema. Nato<br />
ad un anno di distanza dall’album che appiccò l’incendio del grind (Scum dei Napalm<br />
Death), Reek Of Putrefaction segna paradossalmente il culmine e la fine di un genere<br />
così pregno di immediatezza da esaurire il suo senso appena un attimo dopo averlo<br />
espresso. Quest’album, a partire dalla copertina (una capolavoro di necrofilia-splatter,<br />
in seguito barbaramente censurato), è una divertita offesa al pudore, che si esprime<br />
musicalmente in un sound che più malato non si può: batteria iperveloce, chitarre e bassi compressi e una voce<br />
che recita bollettini medici passando rapidamente da urla acute a gorgheggi profondi quanto il vomito, vengono<br />
mixati (mixati?) in modo da creare un amalgama indistinto, volutamente brutto, tanto che la successione dei brani<br />
diviene solo un escamotage per interrompere il flusso continuo. Tutto frulla insieme in un modo così volutamente<br />
antiestetico da “rischiare” di imporsi come opera d’arte. (Daniele Follero)<br />
P a i n k i l l e r - G u t s O f A Vi r g i n / B u r i e d S e c r e t s ( E a r a c h e , 1 9 9 1 / 1 9 9 2 )<br />
“What have you done to me? Oh my God!”. Con l’urlo isterico di Yamatsuka Eye fuori<br />
dalla grazia di dio si apre l’epopea Painkiller, sorta di supergruppo i cui membri stabili<br />
sono il trio delle meraviglie John Zorn-Bill Laswell-Mick Harris, nomi fondamentali<br />
dell’universo musicale di fine millennio. Guts Of A Virgin e Buried Secrets, usciti se-<br />
paratamente come EP e ristampati in un unico CD, sono il documento indispensabile<br />
per conoscere una delle band più originali del catalogo Earache. Siamo di fronte a una<br />
diabolica macchina da guerra, che mischia in maniera non convenzionale dub, free-<br />
jazz, grindcore, industrial e spazza via buona parte dei velleitari gruppi death-grind<br />
alla ricerca della pietra filosofale dell’estremismo rock. Rispetto ai cugini Naked City il piglio cinematico e le<br />
atmosfere d’antan sono sostituiti da forti dosi di rumore e il mood è perennemente virato all’angoscia più nera.<br />
L’ascoltatore viene disorientato dai cambi di tempo frenetici, annichilito dalle progressioni inarrestabili e dalle<br />
atmosfere cupe. Senza pietà. (Paolo Grava)<br />
D u b Wa r - P a i n ( E a r a c h e , 1 9 9 5 )<br />
1995: il crossover impazza. Meticciato rap-metal, chitarre ribassate, immaginario di<br />
superomismo (talvolta impegno politico), fruttano alle major milioni di dollari. I gruppi<br />
si moltiplicano a dismisura, a scapito della qualità media di un’espressione della cultu-<br />
ra giovanile che di lì a poco avrebbe fatto i conti con ridondanza e povertà di idee: la<br />
morte cerebrale prima ancora che del corpo, stramazzante al suolo per qualche anno,<br />
si constati il decesso definitivo. La Earache corre ai ripari mettendo sotto contratto i<br />
Dub War, quartetto di Newport, Galles, già autore di un album e di un paio di EP. Pain<br />
è l’esordio per l’etichetta di Pearson: metal in levare perché declinato con le ritmiche<br />
del dub, la consciousness del reggae, la favella del raggamuffin - e la voce di Benji Webbe, nasale, esagitata<br />
ed incompromissoria è il vero punto di forza della miscela. Il referente immediato di queste note è l’hardcore<br />
contaminato dei Bad Brains ma talvolta, per l’ardire con cui si maneggiano diversi generi, diresti di ascoltare<br />
degli Asian Dub Foundation cresciuti con il trash invece che con il combat rock dei Clash. Quella dei Dub War<br />
su Earache è poco più che una comparsata: dopo dischi di dubbia qualità il quartetto rilascia nel ‘99 un laconico<br />
comunicato che ne sancisce lo scioglimento, le cui reali ragioni vanno rintracciate in incomprensioni di natura<br />
economica con i vertici dell’etichetta. (Vincenzo Santarcangelo)
B r u t a l Tr u t h - N e e d To C o n t r o l ( E a r a c h e , 1 9 9 4 )<br />
Arrivarono come un uragano i Brutal Truth, testimoniando ancora una volta come la<br />
Grande Mela continuasse ad essere la fucina ideale per le frange più estreme dell’uni-<br />
verso rock. Dan Lilker aveva il pedigree di prestigio: un passato con Anthrax, Nuclear<br />
Assault e S.O.D., ma con i Brutal Truth decise di spingersi ancora oltre. Con lui Kevin<br />
Sharp, Brant McCarty e Rich Hoak. Condizioni estreme richiedono misure estreme.<br />
Il primo parto della compagine newyorkese si muoveva sul solco aperto dai Napalm<br />
Death. Un grind death brutale, confusionario e oscurantista che calcava la mano con<br />
furia omicida su temi di natura sociale ed esistenziale. Ma è con Need To Control che<br />
la band si affranca dai modelli ispiratori, coniando un verbo del tutto personale. Le sfuriate grind vengono in-<br />
cassate in strutture più complesse e articolate. Tempi e ritmi si muovono su terreni più organizzati. Cominciano<br />
a farsi largo venature più propriamente hardcore che saranno poi prese con consapevolezza maggiore nei lavori<br />
successivi. Una cover da infarto di Media Blitz dei Germs. Kevin Sharp indemoniato. Capolavoro. (Antonello<br />
Comunale)<br />
N a k e d C i t y - To r t u r e G a r d e n ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />
Mutazione genetica fra le più eccitanti della musica estrema i Naked City ebbero vita<br />
breve ma tremendamente lunga se si considera in cosa consisteva la loro proposta.<br />
Torture Garden applicava al jazz la lezione dei Napalm Death, in una collisione di<br />
generi che faceva sembrare i Faith No More un gruppo di sprovveduti e che ridefiniva<br />
ex abrupto il concetto di crossover. Il risultato era un disco free-jazz sui generis che a<br />
seconda dell’angolazione poteva essere anche un disco grind, un disco hardcore, una<br />
colonna sonora, sonico/ironico grand guignol in cui le musiche più diverse (mettiamoci<br />
anche frammenti di elettronica e classica contemporanea) venivano sminuzzate e vio-<br />
lentate a ripetizione. Quarantadue pezzi in meno di mezz’ora che ci fecero familiarizzare con gli strilli di Yama-<br />
tsuka Eye e che furono possibili grazie a una line-up di altissimo livello e dalle capacità strumentali fuori dal<br />
comune: non solo John Zorn ma anche Bill Frisell, Wayne Horvitz e Joey Baron. (Roberto Canella)<br />
C a t h e d r a l - F o r e s t O f E q u i l i b r i u m ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />
Da un estremo all’altro. Dai Discharge ai Black Sabbath. Lee Dorrian, da Coventry,<br />
dopo il riduzionismo dei Napalm Death veste pantaloni a zampa e si converte freak. Coi<br />
Cathedral di Forest Of Equilibrium prende forma il doom di fine Novecento. L’intro di<br />
flauto e l’acustica di Pictures Of Beauty & Innocence (Intro) / Comiserating The Cele-<br />
bration tradiscono - come pure la cover ad opera di Dave Patchett - un che di fantasy,<br />
ma non appena Garry Jennings ne intona il riff cala la tenebra e messia Lee elargisce<br />
il funereo canto dei nuovi Sabbath. La label sino ad allora sinonimo di grind-core, l’Ea-<br />
rache, pubblica il disco più antitetico ad essa. Nessuno dopo Ozzy & Co si era spinto<br />
cosi oltre la lentezza, forse i Saint Vitus, ma coi Cathedral si eccede in saturazione ed angoscia. Delle succes-<br />
sive prove solo The Ethereal Mirror, invero molto più complesso nella struttura, è degno di nota, ma è con Lee<br />
Dorrian e la sua abilità nel ricreare una tendenza (vedi anche il lavoro con la Rise Above) che il doom ha ragione<br />
di (ri)essere… (Gianni Avella)<br />
F u d g e Tu n n e l - H a t e S o n g s I n E M i n o r ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />
Sicuramente Alex Newport è stato carezzato da quella brezza d’euforismo hard psiche-<br />
delico che soffiò da Seattle ad inizio 90. Altrettanto sicuramente, l’allora chitarrista ven-<br />
tenne di Nothingham, seppe rileggere quei suoni imbarbarendoli in una reazione a ciclo<br />
continuo di psichedelia distorta, matrici metalliche ed una vena depressiva inusuale nel<br />
novero dei gruppi Earache (sentite come sfuma la colossale Hate Song). A coadiuvarlo<br />
nelle manovre della ciclopica pressa di stili Hate Songs In E Minor ci sono Dave Riley<br />
(basso) e Adrian Parkin (batteria). Un power trio atipico e, a suo modo, ferocissimo.<br />
Ferocia intellettuale, male dell’anima, incapacità di controllo emotivo nascosta dietro<br />
partiture quadrangolari (Spanish Fly qualcosa deve a Helmet e Big Black). Ma il succo vero di tali progressioni<br />
metalliche è la distorsione psichedelica e la voce lasciata cupa a disperdersi nella propria eco. I Godflesh hanno<br />
insegnato qualcosa ai nostri (Tweezers). Notevoli anche le cover: Sunshine Of Your Love (Cream) e Cat Scra-<br />
tch Fever (Ted Nugent) di cui si conservano, rispettivamente, il piglio marziale e l’incedere cazzone. (Massimo<br />
Padalino)<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 2
2 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
M o r b i d A n g e l - B l e s s e d A r e T h e S i c k ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />
Se c’è una band che ha appreso meglio di altre la fondamentale lezione slayerana,<br />
questi sono i Morbid Angel di Trey Azagthoth. Il gruppo originario della Florida inizia<br />
lì dove Reign In Blood degli Slayer finisce, diventando rapidamente un punto di rife-<br />
rimento per tutta la fiorente scena death metal. Sul primo disco avevano sacrificato<br />
sull’altare della follia le personali radici trash calcando la mano sul formidabile gran<br />
guignol chitarristico di Azagthoth. Il secondo lavoro mette in scena, invece, un vero e<br />
proprio sabba pagano per cultori di Satana, con tanto di intro, barocchismi gotico sinfo-<br />
nici (Doomsday Celebration), sonate per piano (In Remembrance) e chitarra (Desolate<br />
Ways) in aggiunta agli impenetrabili labirinti di riff malsani su infernali cambi di ritmo: ora lenti e morbosi, ora<br />
veloci e concitati. La padronanza tecnica ha ormai raggiunto una consapevolezza ulteriore, come testimoniato<br />
dall’intricatissimo rifferama di Azagthot, in brani come The Ancient Ones da cui non si esce che a pezzi. In coper-<br />
tina il dipinto di Jean Delville, “Les trésors de Satan”. Una pietra miliare del death e del rock satanico. (Antonello<br />
Comunale)<br />
O L D - L o F l u x Tu b e ( E a r a c h e , 1 9 9 2 )<br />
Un album di rottura nella discografia della creatura del beffardo James Plotkin (qui<br />
sotto il nomignolo di Jimmy Old). Il death metal e tutti i rimasugli “pesanti” dei passati<br />
Old Lady Drivers non vengono certo messi da parte. Precipitano però in una soluzione<br />
d’astrattismi psichedelici, pantomime dub che vanno e vengono, evanescenze quasi<br />
prossime ai cavalieri shoegazer che in quegli anni affollavano la scena indipendente<br />
britannica. Il tutto senza perdere di vista la primitiva forza di impatto metallica. Il tour<br />
de force Z.U., con i suoi mirabili 9 minuti di durata, stabilizza la formula. E scopre quel-<br />
la cotta di maglia - intessuta di precisissimi drumbeats, scariche electro ed un lavoro<br />
alla chitarra duttilissimo - come prima mai. Jason Everman deflagra al basso, mentre Alan Dubin mostra forse il<br />
punto debole del progetto: la voce. A sancire comunque l’entrata nella comunità “virtuale” di sperimentatori metal<br />
che contano c’è anche un cameo di John Zorn al sax. Giusto per far comprendere che la differenza fra il suo<br />
ensemble di creative metal (Naked City) e gli Old non è poi tanto incolmabile. (Massimo Padalino)<br />
S l e e p - H o l y M o u n t a i n ( E a r a c h e , 1 9 9 3 )<br />
Nel 1993 l’Earache pubblica un sampler, Naive, con dentro le nuove regole della musica<br />
estrema. Lì tra Fudge Tunnel e Pitch Shifter, un gruppo di hippy fuori tempo massi-<br />
mo si dice seccato per non aver avuto vent’anni quando correva il decennio ‘65/’75…<br />
Vengono da San Jose, California, e si chiamano Sleep. Il loro secondo lavoro Sleep’s<br />
Holy Mountain è - retro copertina alla mano - un lisergico elogio alla lezione impartita<br />
ventitrè anni prima dai Black Sabbath. Ma non solo: anche molto Blue Cheer e tanto<br />
Black Flag epoca My War. Il riff epico di Dragonaut il cui finale ricalca N.I.B. dei Sab-<br />
bath, l’urlo flagellato di Al Cisneros - sintesi viziata di Ozzy e Henry Rollins - in The<br />
Druid e la concomitante ascesa di Kyuss e Monster Magnet faranno sì che il doom entri nella sua fase stoner.<br />
Il travaglio del successivo Dopesmoker (conosciuto anche come Jerusalem) porterà alla scissione, ma ancora<br />
oggi, dall’avanguardia colta (si chieda a Rhys Chatham) al drone metal stile Sunn O))), quelle pesanti note con-<br />
tinuano a regalare proseliti… (Gianni Avella)<br />
S c o r n - C o l o s s u s ( E a r a c h e , 1 9 9 3 )<br />
Dopo aver segnato con Scum un punto di non ritorno nel campo della musica estrema,<br />
Mick Harris e Nick Bullen si riuniscono nel progetto Scorn e con il secondo album,<br />
Colossus, mettono a segno un colpo incredibile, costringendo pubblico e critica ad<br />
aggiornare mappe e dizionari sonori. Il dub prende il sopravvento nel suono della band,<br />
un dub bianco ipnotico e inquietante. Il basso innesca diastole e sistole rallentate e<br />
impregna l’etere di groove morbosi, il tappeto percussivo passa dalla marzialità delle<br />
macchine a una frammentazione quasi aleatoria, mentre campioni in loop ossessivo si<br />
sovrappongono alla voce. Rispetto al precedente Vae Solis ogni residuo rock è spazza-<br />
to via, sparisce la chitarra di Broadrick, il growl si decompone in un lamento subsonico, alcuni episodi si riallac-<br />
ciano al progetto ambient isolazionista di Harris, Lull. Colossus sta a Metal Box come il grindcore sta al punk,<br />
è come se la galassia generata dal big-bang di Scum di colpo implodesse e generasse un buco nero pulsante,<br />
un ectoplasma indefinibile. (Paolo Grava)
s e n t i r e a s c o l t a r e 2
Björk sembra piovuta sulla terra col preciso scopo di innestare l’avanguardia nel pop e<br />
viceversa. Geograficamente, sessualmente, iconograficamente, musicalmente: una specie<br />
di angelo. Sempre sul punto di cadere.<br />
B j ö r k<br />
un angelo,<br />
probabilmente<br />
“L’unica cosa che capiamo, è la<br />
musica pop”<br />
A n g e l i c a a n t i m a d o n n a<br />
Prendete Madonna. Madonna<br />
che addomestica implacabilmen-<br />
te l’avanguardia ai desiderata del<br />
pop. Tira le fila, riassume, orga-<br />
nizza. Spesso si limita a costruire<br />
hype riarticolando hype già esi-<br />
stente. Hype al quadrato, al cubo!<br />
Perché la musica di Madonna è<br />
strettamente funzionale alla pene-<br />
trazione e aggiornamento dei codici<br />
pop. Questo (le) basta (e le avan-<br />
za). L’avanguardia, se c’è, ne esce<br />
a pezzi, sedotta e - certo - abban-<br />
donata.<br />
Prendete invece Björk. Tra i motivi<br />
per cui mi piace, il primo è la ca-<br />
pacità di piegare l’avanguardia alle<br />
esigenze del pop senza disperderne<br />
il senso. Björk, come Madonna, fa<br />
pop ad ampio spettro, coinvolgendo<br />
nel progetto aspetti extra-musicali,<br />
dalla danza alla moda passando<br />
per l’arte visuale. Dove però Miss<br />
Ciccone è abilissima a stare sul<br />
tempo, seguendo le evoluzioni pop<br />
passo passo ed accaparrandosi i<br />
maghi sonici più cool (“Secondo me<br />
2 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
[Madonna] è una che non rischia<br />
mai”, disse un giorno Björk al mu-<br />
sicista tedesco Console), l’islan-<br />
desina scommette su qualcosa che<br />
ancora deve accadere a livello di<br />
massa, che si svolge negli studi o<br />
nei circoli e nelle enclave culturali/<br />
estetiche. Quel che le interessa è<br />
anzitutto l’energia (di un individuo<br />
o di un collettivo, una comune, una<br />
band, un team…), il pedigree non<br />
è importante. Basti ricordare come<br />
coinvolse la baby sitter del figlio<br />
Sindri nei lavori di Homogenic solo<br />
perché in lei avvertì la sensibilità<br />
giusta, e al diavolo la competenza.<br />
Björk è, probabilmente, un angelo.<br />
Sempre sul punto di cadere. Il suo<br />
messaggio ha appena smesso di<br />
essere lacerante, è diventato mera-<br />
viglioso un attimo fa. Porta ancora<br />
le tracce delle scelleratezze punk,<br />
delle bizzarrie situazioniste, delle<br />
scorribande anarcoidi, dell’estem-<br />
poraneità jazz. È un pensiero che<br />
avanza, cocciuto e instancabile,<br />
verso frontiere ancora da svelare.<br />
La barra puntata tra eresia e tradi-<br />
zione. Tecnoetica sonora militante.<br />
Istinto e raziocinio avvinghiati in<br />
una lotta che col tempo è diventata<br />
un corpo. Come l’avanguardia (nel)<br />
pop.<br />
P r e d e s t i n a z i o n i<br />
Björk Gudmundsdottir venne<br />
al mondo il 21 novembre 1965 a<br />
Reykjavik. Fin da bambina sem-<br />
brò una predestinata. Riproduce-<br />
va pezzi sui tasti del pianoforte ad<br />
orecchio. Memorizzava le melodie<br />
con facilità sconcertante. Cantava<br />
e ballava in continuazione. A soli<br />
undici anni esordì con un disco<br />
omonimo (Björk Gudmundsdottir -<br />
Falkinn, 1977) in cui reinterpretava<br />
con vocina implume ma già risoluta<br />
brani soul e pop (cover dei Beatles<br />
e Stevie Wonder), folk islandesi<br />
e persino un brano di sua compo-<br />
sizione, strumentale, dedicato al<br />
pittore Johannes Kjaval (6.5/10).<br />
Notiamo fin da subito due impor-<br />
tanti elementi: le doti naturali, fin<br />
quasi animalesche, ed un ambiente<br />
favorevolissimo, in cui la ragazzina<br />
sguazzava come un pesce nell’ac-<br />
qua.<br />
Abitava infatti con la madre ed il<br />
patrigno - i genitori si erano sepa-<br />
rati presto - in una comune pseudo<br />
hippy, ricettacolo di artisti e musi
cisti locali. D’altro canto, il padre la<br />
indusse a frequentare la scuola di<br />
musica, che le procurò cognizioni<br />
teoriche e tecniche (studiò flauto e<br />
pianoforte) in un ambiente per nul-<br />
la imbalsamato su posizioni classi-<br />
che.<br />
In pratica, la fanciulla era assediata<br />
da quattro diverse istanze musica-<br />
li: il rock del patrigno (chitarrista in<br />
una cover band) e della “comunità”,<br />
il jazz amato dal padre, le prospet-<br />
tive “colte” della scuola (classica +<br />
avanguardia) e - last but not least -<br />
il folk islandese (non le mancavano<br />
certo nonni a tenerle in caldo le tra-<br />
dizioni, essendosi risposato anche<br />
il padre). Le apparvero fin da subito<br />
labili i confini tra alternativo e po-<br />
polare, tra sperimentazione e tradi-<br />
zione. In quel crogiolo tanto multi-<br />
sfaccettato quanto contraddittorio,<br />
gli unici riferimenti affidabili erano<br />
le proprie inclinazioni, da seguire<br />
con determinazione febbrile, senza<br />
vie di mezzo né preclusioni. Quel<br />
primo disco tanto ingenuo quanto<br />
furbo ottenne discrete vendite pro-<br />
curandole una certa fama cittadina<br />
e quindi nazionale (anche perché<br />
Reykjavik - coi suoi 25.0000 abitan-<br />
ti - corrisponde in pratica all’Islan-<br />
da tutta). Ma la ragazzina non si<br />
fece certo stordire dalla “celebrità”.<br />
Anzi, alla proposta di bissare con<br />
un disco simile rifiutò fermamente.<br />
Voleva altro. Qualcosa che ancora<br />
non conosceva e che stava per ar-<br />
rivare.<br />
L’Islanda, da buona isola, si fece<br />
investire da punk e post-punk con<br />
cospicuo ritardo. Quando accadde,<br />
i Settanta stavano ormai finendo e<br />
Björk sbocciava in tutta la sua irre-<br />
quieta adolescenza. Probabilmente<br />
questa presa di coscienza “in diffe-<br />
rita” consentì a lei e a tutto il milieu<br />
sonoro di Reykjavik di metabolizza-<br />
re una porzione già “pre-digerita”<br />
del post-punk. Di colpo, tutte as-<br />
sieme, le evoluzioni dark-wave di<br />
Joy Division e Bauhaus, l’intransi-<br />
genza artsy di Throbbing Gristle<br />
e Chrome, l’irredentismo dei Fall,<br />
i riflussi psych di Echo & The Bun-<br />
nymen...<br />
Ben presto spuntarono una impres-<br />
sionante - rispetto alla popolazio-<br />
ne - quantità di band, tra cui si<br />
distinsero i Peyr del chitarrista Gu-<br />
dlaugur “Godkrist” Ottarssonn ed<br />
i Purkkurr Pilnikk del cantante e<br />
trombettista - nonché insegnante di<br />
Scienze della Comunicazione - Ei-<br />
nar Orn Benediktsson. Ma anche<br />
Björk si dava da fare: i suoi primi<br />
tentativi “adulti” somigliavano a va-<br />
riegati spasmi new wave-pop-punk.<br />
Dopo un paio di progetti abortiti (i<br />
sofisticati Exodus, la cover band<br />
Jam 80) in cui suonava flauto e<br />
tastiere oltre a cantare, la ormai<br />
quattordicenne islandesina decise<br />
di cambiare vita: lasciò la scuola,<br />
andò a vivere da sola, decise di<br />
fare musica sul serio. Col bassista<br />
Jacob Magnusson trasformò i Jam<br />
80 nei Tappi Tikarrass. Niente più<br />
cover, solo pezzi originali.<br />
Te a t r a l i s t r e g o n e r i e<br />
Il mini Bitid Fast I Vitid (Spor,<br />
1981) conteneva cinque pezzi e<br />
una smania punk-pop selvatica e<br />
ammiccante che potremmo scam-<br />
biare per acerba preveggenza<br />
Pixies chiostrata di fregole artistoi-<br />
di (6.2/10). In ogni caso, fu accol-<br />
to benissimo, così che l’album dei<br />
Tappi vero e proprio comparve sul<br />
mercato come un piccolo evento.<br />
Miranda (Gramm, 1983) mise sul<br />
piatto tutto il loro potenziale ener-<br />
getico (la trafelata title track), così<br />
come le velleità electro-dark (la mi-<br />
nacciosa acidità di Lækning), l’ac-<br />
comodante afflato (quella specie<br />
di rifrittura Japan di Íþróttir) e gli<br />
spigoli danzerecci (i guizzi Gang<br />
Of Four di Beri-Beri). Nulla che il<br />
continente e l’oltreoceano già non<br />
conoscessero, ma l’esotico mistero<br />
dei testi - ovviamente in islandese<br />
- uniti alla buona padronanza dei<br />
mezzi, lo rendono ancora oggi un<br />
oggetto interessante. Col sovrap-<br />
più della voce di Björk, naturalmen-<br />
te, capace di cavarsi di gola graffi<br />
lancinanti e insidie carezzevoli du-<br />
rante performance già piuttosto av-<br />
venturose (6.6/10).<br />
L’esperienza dei Tappi si rivelò<br />
quindi nutritiva ma incapace di la-<br />
sciare segni profondi. Malgrado fa-<br />
cessero parte di una “scena” citta-<br />
dina in pieno fermento (furono loro<br />
- non i più quotati Peyr e Purkkurr<br />
Pilnikk - a finire sulla locandina di<br />
Rock In Rejkiavik, documentario<br />
del regista Por Fridriksson), non<br />
superarono il terzo anno di attività.<br />
Focalizzando su Björk - non pos-<br />
siamo fare altrimenti - verrebbe da<br />
dire che la ormai maggiorenne fa-<br />
tina non faceva altro che obbedire<br />
a quel moto oscillatorio tra pop e<br />
avanguardia che informerà tutta la<br />
sua carriera. Non aveva mai smes-<br />
so infatti di sperimentare situazioni<br />
diverse: jazz con gli Stifgrim, co-<br />
ver con i Cactus, altre jam varie e<br />
disparate, un po’ per seguire l’estro<br />
e un po’ per sbarcare il lunario.<br />
Il 1983 portò molti cambiamenti: la<br />
spinta propulsiva del punk segnò<br />
il passo, nel giro di poco chiusero<br />
battenti i Peyr, i Purkkurr e anche<br />
i Tappi Tikarrass. Questa ecatom-<br />
be fu la premessa dei Kukl, nati da<br />
una all star band allestita per ce-<br />
lebrare l’ultima puntata di un pro-<br />
gramma radiofonico dedicato alle<br />
avanguardie musicali. Principale<br />
artefice del nuovo combo fu Einar<br />
Orn, che fece di tutto per coinvol-<br />
gere Björk e Gudlaugur Ottarssonn<br />
nel progetto. Malgrado la ragione<br />
sociale in islandese (traducibile<br />
con “stregoneria”), i testi furono<br />
vergati in inglese, così come gli in-<br />
dirizzi sonici miravano decisamen-<br />
te il post-punk evoluto d’Albione.<br />
Tetro e tremebondo, minaccioso e<br />
teatrale, il sound dei Kukl sembra-<br />
va una disputa tra il rovello tribale<br />
dei Virgin Prunes e il bieco ince-<br />
dere di Killing Joke e Bauhaus.<br />
Una proposta invero “dark”, voluta-<br />
mente esoterica e fieramente artsy,<br />
in cui però non veniva mai meno la<br />
capacità - il desiderio - di affasci-<br />
nare tramite aspersioni di esotismo<br />
e mistero.<br />
Il canto di Björk non poteva che<br />
essere uno degli ingredienti princi-<br />
pali. Sentirla in Dismembered e so-<br />
prattutto in Open The Window And<br />
Let The Spirit Fly Free, entrambe<br />
da The Eye (Crass, 1984), fa capi-<br />
re quanto le potenzialità della voce<br />
e la personalità dell’interpretazione<br />
avessero ormai raggiunto un livel-<br />
lo che le permetteva d’impadronir-<br />
si del mood, di marchiarlo a fuoco<br />
(6.5/10). In questo periodo la ra-<br />
gazza era abitata da un’ispirazio-<br />
ne fervida che ne accresceva sen-<br />
za posa il bagaglio di esperienze.<br />
Quando era libera dagli impegni coi<br />
Kukl, trovava il tempo di suonare la<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 2
atteria coi Rokha Rokha Drum e<br />
soprattutto dare vita a ninnenanne<br />
minimaliste con Siggi ed il chitarri-<br />
sta Hilmar Hilmarsson nel trio El-<br />
gar Sisters.<br />
La distribuzione Crass - leggen-<br />
daria etichetta alternativa anglo-<br />
sassone contattata grazie ad Einar<br />
- contribuì a fare dei Kukl un picco-<br />
lo culto in Inghilterra, cui rispose-<br />
ro con un tour che poi si estese a<br />
mezza Europa. Non a caso l’opera<br />
seconda s’intitolò Holydays In Eu-<br />
rope (Crass, 1986), ma gli intenti<br />
erano tutt’altro che celebrativi. Mu-<br />
sicalmente faceva ancora meglio<br />
dell’esordio, stratificando la trama<br />
sonora grazie all’utilizzo di ottoni,<br />
pianoforti, tastiere, organini, fisar-<br />
monica, vibrafono, effluvi jazz e<br />
geometrie sintetiche ad innescare<br />
singulti funk, marce nevrasteniche<br />
(soprattutto Gibraltar) e miraggi<br />
Canterbury tra allucinazioni dub<br />
(6.6/10).<br />
Ma col 1986 il progetto Kukl implo-<br />
se per... eccesso d’intensità. Rima-<br />
sta incinta di Þór Eldon, un chitarri-<br />
sta col quale conviveva da circa un<br />
anno, Björk si sposò per poi trasfe-<br />
rirsi col marito in un appartamento<br />
che divenne ben presto il punto di<br />
ritrovo di una ghenga sempre più<br />
infervorata. Saranno proprio le riu-<br />
nioni in casa Björk a gettare le basi<br />
- primavera ‘86 - del collettivo Bad<br />
Taste, sorta di associazione cultu-<br />
rale “contro il buon gusto”. Ancora<br />
una volta il principale artefice fu<br />
Einar. Quale frangia musicale del<br />
collettivo, Björk, Þór, Einar ed il<br />
batterista Siggtryggur “Siggy” Bal-<br />
dursson fondarono i Sycurmolnar-<br />
nir.<br />
S t u p e f a c e n t i z o l l e t t e<br />
Ovvero: i Sugarcubes, come li co-<br />
noscerà (e apprezzerà) l’Occidente.<br />
La loro data di nascita venne fatta<br />
significativamente coincidere con<br />
quella di Sindri Þórrsson (8 giugno<br />
1986), il bimbo di Björk. La giovane<br />
<strong>neo</strong>mamma si dimostrò fin da subi-<br />
to molto attenta e responsabile col<br />
figlio, ma non cedette di un milli-<br />
metro: dopo un paio di settimane si<br />
fece convincere dalla regista statu-<br />
nitense Nietzchka Keene a recitare<br />
in Juniper Tree, film che conobbe<br />
una distribuzione ufficiale solo nel<br />
2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
1991, guadagnandosi consensi al<br />
Sundance Festival. La nuova band<br />
intanto scaldava i motori. Il carbu-<br />
rante, dopo tante tenebre targate<br />
Kukl, era una ridanciana voglia di<br />
divertirsi.<br />
Come spesso ebbero a dichiarare<br />
loro stessi, volevano incarnare una<br />
sorta di parodia pop insidiosa ma<br />
allegra, sferzante ma festaiola. Ar-<br />
ruolati il bassista Bragi Ólafsson<br />
ed il tastierista Einar Melax, debut-<br />
tarono con Ein Mol A Mann (Bad<br />
Taste, 1986), un EP tirato in 500<br />
vinili contenente la brumosa Am-<br />
mæli e la febbrile Köttur (6.8/10). I<br />
due pezzi divennero ben presto un<br />
caso radiofonico, tanto che Derek<br />
Birkett, fondatore assieme a Tim<br />
Kelly (rispettivamente bassista e<br />
chitarrista degli anarco-punk Flux<br />
Of Pink Indians) dell’indipendente<br />
londinese One Little Indian, chiese<br />
loro una versione in inglese di Am-<br />
mæli. Fu così che Birthday, agosto<br />
1987, guadagnò i favori del NME,<br />
che lo nominò singolo della setti-<br />
mana, e di John Peel, che lo man-<br />
dò ripetutamente in onda nel suo<br />
famoso programma.<br />
In breve furono letteralmente ri-<br />
succhiati dallo showbiz londinese.<br />
Fioccarono le richieste di interviste<br />
- la maggior parte delle quali chie-<br />
devano espressamente quale inter-<br />
locutrice la curiosa cantante - mal-<br />
grado non fossero ancora titolari di<br />
un album vero e proprio. Questione<br />
di poco: rifiutate le offerte di alcune<br />
major in nome della totale libertà<br />
artistica, firmarono per One Little<br />
Indian e licenziarono Life’s Too<br />
Good (One Little Indian, 1988).<br />
Per la stampa ed il pubblico fu una<br />
folgorazione: sound multisfaccet-<br />
tato, chitarre luccicose e sferzan-<br />
ti, cromatismi acrilici di tastiere,<br />
ritmiche electro-funk, soul-rock,<br />
reggae, ballate suadenti e irrequie-<br />
te alternate a ghigni blues-wave,<br />
processioni catramose e caricatu-<br />
re hillybilly-swing. Qualche pale-<br />
se ingenuità, per quanto gradevo-<br />
le (una Motorcrash che sembra la<br />
versione bubblegum dei Level 42),<br />
era il minimo che potesse capitare.<br />
Del resto non era un gioco facile,<br />
questo stare sulla corda tra sofisti-<br />
cazione e orecchiabilità. Quando<br />
l’azzeccavano, però, andava alla<br />
grande, vedi il funk denso e raden-<br />
te di Coldsweat, la già citata Bir-<br />
thday e una Delicious Demon che<br />
scomoda i Talking Heads col suo<br />
sbrigliato tribalismo pop. Proprio in<br />
quest’ultimo pezzo, al beffardo re-<br />
citato di Einar facevano eco dei vo-<br />
calizzi björkiani talmente impetuosi<br />
Sugarcubes
da strozzare il mood sbarazzino<br />
(7.0/10).<br />
Un po’ tutto il disco testimonia i no-<br />
tevoli progressi di Björk. E fu lei,<br />
voce e aspetto, a catalizzare l’at-<br />
tenzione in Inghilterra e negli USA,<br />
dove Life’s To Good usufruirà della<br />
distribuzione Elektra. Anche l’Ame-<br />
rica li volle quindi per un tour che<br />
finì per somigliare ad un lungo par-<br />
ty itinerante. Erano gli ultimi fuochi<br />
del 1988. Sulle due sponde del-<br />
l’oceano le vendite dell’album su-<br />
perarono il mezzo milione di pezzi.<br />
I Sugarcubes avevano già toccato<br />
l’apice della loro carriera.<br />
D e v i a z i o n i s e n z a r i t o r n o<br />
Poi tutto cominciò a sembrare<br />
stretto. E confuso. Björk e Þór si<br />
separarono, pur rimanendo in buoni<br />
rapporti. Il chitarrista avviò presto<br />
una relazione con Margrét “Mag-<br />
ga” Örnólfsdóttir, tastierista su-<br />
bentrata al posto del dimissionario<br />
Einar Melax, ma nessun problema<br />
per dei liberali islandesi come loro.<br />
Quel che Björk cominciò a non sop-<br />
portare era semmai la pop attitu-<br />
de sempre più smaccata. Þór era<br />
l’autore dei pezzi più orecchiabili,<br />
l’anima pop del gruppo. Björk, al<br />
contrario, non perdeva occasione<br />
per introdurre elementi diversi nel<br />
sound del gruppo: jazz, elettronica,<br />
hip hop. Inutilmente. Amava stare<br />
nella band, ma iniziava a non tolle-<br />
rarne più la proposta.<br />
Figurarsi poi cosa dovette sembrar-<br />
le Here Today, Tomorrow, Next<br />
Week (One Little Indian, 1989):<br />
concepito e registrato in fretta,<br />
il disco giochicchiava con le pos-<br />
sibilità e la calligrafia della band,<br />
disinnescando i tremori wave tra<br />
funkettini birboni che sembravano<br />
pescati dal cassetto delle burle di<br />
David Byrne, sciorinando paro-<br />
die country-blues più improbabili<br />
che divertenti (Hot Meat). Ne uscì<br />
un disco emblematico, gradevole<br />
contraddizione tra frenesia e di-<br />
sincanto, alla fine anche carino.<br />
Però, insomma, i Sugarcubes era-<br />
no ormai diventati ciò che intende-<br />
vano mettere alla berlina: una pop<br />
band (5.8/10). La critica disprezzò<br />
come un sol uomo, ma questo non<br />
impedì un discreto successo ed<br />
un nuovo tour mondiale dal quale<br />
la band tornò a casa svuotata. A<br />
mo’ di camera di decompressione,<br />
decisero di buttarla in swing alle-<br />
stendo l’estempora<strong>neo</strong> Konrad’s B<br />
Jazz Group, una scappatella senza<br />
pretese, ma per Björk un po’ come<br />
tornare a respirare. Non fosse sta-<br />
to per quel contratto con l’Elektra,<br />
che imponeva un terzo album, pro-<br />
babilmente l’avventura Sugarcubes<br />
sarebbe finita lì.<br />
Arrivò il 1990, un anno cruciale per<br />
la cantante. Trovato lavoro come<br />
commessa in un negozio di dischi,<br />
ebbe modo di ascoltare di tutto:<br />
etnica, elettronica, jazz. A colpirla<br />
particolarmente furono le compi-<br />
lation Artificial Intelligence della<br />
Warp: Autechre, Speedy J e com-<br />
pagnia bella, coi loro singulti evolu-<br />
ti, la dance immischiata con inven-<br />
zioni soniche figlie dei sacerdoti<br />
ambient, dei druidi kraut e degli<br />
stregoni funky-jazz, dovette sem-<br />
brarle la frontiera perfetta verso cui<br />
dirigere le proprie ispirazioni.<br />
Ormai decisa a fare di sé ciò<br />
che riteneva inevitabile, contattò<br />
Graham Massey della techno band<br />
mancuniana 808 State, chiedendo-<br />
gli aiuto per “vestire” dei pezzi di<br />
propria concezione. Massey rima-<br />
se colpito dalle idee, dalle doti e<br />
dalla persona, al punto da proporle<br />
una partecipazione come vocalist<br />
in due pezzi del nuovo album tar-<br />
gato 808 State, Ex:El (ZTT, maggio<br />
1991). Massey ci aveva visto giu-<br />
sto: Björk s’incarnò letteralmente<br />
nel corpo elettronico dei pezzi, vi<br />
si abbandonò senza svanire, trasfi-<br />
gurandosi grazie ad uno scat jazzy<br />
che sprimacciava il timing con una<br />
vena di pastosa corporalità. In Q-<br />
Mart, dinoccolata etno-ambient-te-<br />
chno-jazz, sembra un’invasata ra-<br />
ziocinante, anticipando in qualche<br />
modo gli umori e le astrazioni del<br />
Thom Yorke periodo Kid A. L’altra<br />
canzone, Oops, è invece quasi una<br />
ballad funk-jazz percorsa da fauna<br />
sintetica ed un basso “bristoliano”,<br />
ben più adatta alle palpitazioni sel-<br />
vatiche e struggenti della voce.<br />
Una techno cantata così non s’era<br />
mai sentita.<br />
Al rientro in patria l’attendeva un<br />
piacevole colpo di scena: fu “reclu-<br />
tata” dal rinomato Gudmundur In-<br />
golfsson Trio per un concerto jazz<br />
alla radio di stato. Björk si rivelò<br />
una eccellente per quanto peculia-<br />
re cantante jazz, come testimonia il<br />
successivo, inevitabile live in stu-<br />
dio Gling-Glò (Bad Taste, maggio<br />
1990), che divenne in breve di pla-<br />
tino. Ma, quel che più conta, questa<br />
esperienza fu la deflagrazione del-<br />
le capacità canore di Björk, di quel<br />
suo procedere per fanciulleschi in-<br />
canti, istintive epifanie, puntiglio-<br />
se dedizioni (6.6/10). Dopo, nulla<br />
poteva essere lo stesso. Tranne,<br />
forse, gli Sugarcubes, il cui terzo<br />
album attendeva di germogliare. La<br />
longa manus dell’Elektra interven-<br />
ne per blindare qualitativamente<br />
il lavoro, ingaggiando il producer<br />
Paul Fox, già al lavoro con gli XTC.<br />
La scelta si rivelò azzeccatissima.<br />
Stick Around For Joy (One Little<br />
Indian, febbraio 1992) fu un eccel-<br />
lente canto del cigno. Registrato<br />
tra Reykjavik e New York, mise sul<br />
tavolo arrangiamenti strutturati ma<br />
fluidi, vibranti a tinte forti, infarciti<br />
di trovate e citazioni (trombe vetro-<br />
se, chitarre floydiane, corettini à la<br />
Tom Tom Club, cori da stadio...),<br />
senza mai venire meno alla solidi-<br />
tà del sound. Le chitarre ribolliva-<br />
no di umori blues e spasmi wave,<br />
ad un passo dal big rock e a due<br />
dal synth-pop, le atmosfere e le<br />
melodie capaci di tremiti esplosivi<br />
(Hetero Sum), impetuosi baluginii<br />
Eno/U2 (Leash Called Love) e ro-<br />
manticherie strapazzate funk (Hit).<br />
Björk fece tanto buon viso a cattivo<br />
gioco da mettere a segno le sue mi-<br />
gliori esecuzioni pop-rock di sem-<br />
pre, su tutte l’apprensiva solennità<br />
ed il lirismo accorato di I’m Hungry<br />
(6.9/10). Anche se accolto benissi-<br />
mo dalla critica e dal mercato, l’al-<br />
bum non fece recedere la cantante<br />
dalle proprie intenzioni: la carriera<br />
solista era ormai scritta nelle cose.<br />
La chiamata dei mostri sacri U2,<br />
che li vollero come apertura dello<br />
Zoo Tv tour americano, servì solo<br />
a rinviare l’inevitabile. Con la fine<br />
del ‘92, i Sugarcubes cessarono di<br />
esistere. Björk si trasferì a Londra.<br />
A l i c e n e l l a C i t y d e l l e m e r a v i -<br />
g l i e<br />
Per nulla intimorita dalla distanza<br />
“antropologica” tra Reykjavik e la<br />
City, Björk visse i primi tempi londi-<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 2 7
nesi con analitica ed energica me-<br />
raviglia. La relazione col dj inglese<br />
Dominic Thrupp certo l’aiutò, ma è<br />
grazie alla sua determinazione se<br />
le tessere iniziarono a radunarsi.<br />
Coinvolse a vari livelli Birkett, Fox<br />
e Massey, contattò l’arpista Corky<br />
Hale, il percussionista indiano Tal-<br />
vin Singh ed il sassofonista Oliver<br />
Lake degli Art Ensemble Of Chica-<br />
go. Quindi avvenne l’incontro deci-<br />
sivo con Nellee Hooper, già produ-<br />
cer per Soul II Soul e - soprattutto<br />
- Massive Attack. Tra i due s’in-<br />
staurò un’intesa amniotica attorno<br />
a quell’idea di pop evoluto - gioio-<br />
so, intenso, avanguardistico - che<br />
informerà Debut (One Little Indian,<br />
luglio 1993).<br />
Il disco portava a compimento i<br />
tanti segnali disseminati negli anni<br />
dalla islandese, organizzandoli in<br />
una prospettiva estetica questa sì<br />
del tutto nuova: fin dall’iniziale Hu-<br />
man Behaviour l’amore per il folk,<br />
il soul ed il jazz (latin tinge, visto<br />
il campione di Go Down Dying di<br />
Jobim) vengono come rappresi in<br />
una gelatina electro complessa e<br />
assieme conciliante, portatrice di<br />
un fascino misterioso ma del tut-<br />
to votato alla fruizione popular. La<br />
raffinatezza di Venus As A Boy, con<br />
gli esotici archi arrangiati da Talvin<br />
Singh, il cristallino struggimento<br />
per arpa di Like Someone In Love,<br />
il downtempo languido di Come To<br />
Me (sorta di Night And Day post-<br />
moderna), trovano allibente/gusto-<br />
2 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
so contraltare nel passo dance di<br />
Big Time Sensuality, nella febbrile<br />
spinta techno di Violently Happy e<br />
nella cassa in quattro sudaticcia<br />
di There’s More To Life Than This<br />
(con la geniale trovata del canto a<br />
cappella nel bagno del Milk Bar e<br />
quel corettino che rimanda a Wan-<br />
na Be Startin’ Somethin’ di Michael<br />
Jackson).<br />
Una scaletta eterogenea che la<br />
particolare cifra espressiva di Björk<br />
unifica col suo manifestarsi im-<br />
plume e selvatico, estranea in un<br />
mondo adorato e temuto. Quale<br />
suggello della scaletta originaria<br />
(ruolo che nelle successive edizio-<br />
ni toccherà alla torva magnificenza<br />
di Play Dead, pezzo composto per<br />
la colonna sonora di Young Ame-<br />
ricans, film di David Arnold), The<br />
Anchor Song corrisponde a questo<br />
identikit alieno, col suo impianto<br />
jazz stranito e l’afflato cameristi-<br />
co per ottoni cartilaginosi, non di-<br />
stante da certe diafane concrezioni<br />
Talk Talk (7.2/10).<br />
Il successo di Debut fu addirittu-<br />
ra uno shock: oltre mezzo milione<br />
di copie in tre mesi, che dopo altri<br />
tre mesi divennero un milione (ne-<br />
gli anni saranno quasi tre milioni).<br />
I media strinsero immediatamente<br />
un feroce assedio. Björk divenne<br />
un autentico fenomeno pop-rock,<br />
anche grazie alla franca stranezza<br />
delle sue interviste, oltremodo ge-<br />
nerose e sfrenate rispetto alla me-<br />
dia. A quel punto occorreva allestire<br />
una band per soddisfare le pres-<br />
santi necessità promozionali, ma<br />
anziché affidarsi a turnisti prezzo-<br />
lati, la ragazza scelse di perseguire<br />
un live sound più umano e cosmo-<br />
polita: confermato Talvin Singh alle<br />
percussioni, reclutò un batterista<br />
turco, una tastierista iraniana, un<br />
bassista caraibico... Lo scopo era<br />
costruirsi attorno una combriccola<br />
in cui le intese e l’anticonvenziona-<br />
lità contassero più delle competen-<br />
ze tecniche. Pur tra varie difficoltà,<br />
il tour europeo ed americano furono<br />
portati a termine. La prima apoteo-<br />
si pop giunse nel febbraio del ‘94<br />
ai Brit Awards, dove vinse nelle<br />
categorie Miglior Esordiente e Mi-<br />
glior Artista Femminile: la melmosa<br />
cover di Satisfaction eseguita as-<br />
sieme all’altro fenomeno femminile<br />
PJ Harvey - ragazze esteticamente<br />
agli antipodi ma unite da un’istinti-<br />
vità lacerante - rappresentò il me-<br />
morabile pendant della serata. Nel<br />
frattempo, la diva Madonna bussò<br />
alla sua porta chiedendole una can-<br />
zone: anche se latrice di un quid<br />
estetico agli antipodi, il richiamo<br />
della Ciccone era di quelli irrinun-<br />
ciabili. Così le confezionò Bedtime<br />
Story (singolo non particolarmente<br />
fortunato, del resto). Per la crona-<br />
ca, fioccarono numerose proposte<br />
cinematografiche, tutte rispedite al<br />
mittente. In pochi mesi insomma la<br />
vita di Björk fu stravolta, spedita in<br />
alto a velocità folle. Troppo di tutto,<br />
troppo in fretta. Da crisi di nervi.
M i s s i v e i p e r p o p<br />
Il successore di Debut non poteva<br />
che stupire ulteriormente o delude-<br />
re. Björk scelse la prima opzione,<br />
ma senza ricorrere a trucchi. Solo<br />
se stessa, al massimo livello, con<br />
le proprie doti di compositrice e<br />
interprete ma anche la capacità di<br />
tessere le giuste relazioni. In bre-<br />
ve, sensibilità diverse come il cef-<br />
fo del trip-hop Tricky, il rampante<br />
electro Howie B. e una leggenda<br />
in pensione come Eumir Deoda-<br />
to - oltre ai soliti Nellee Hooper e<br />
Graham Massey - furono coinvolti<br />
nella “fabbrica” sonora dell’islande-<br />
se. Post (One Little Indian, giugno<br />
1995) fu quindi la missiva che Björk<br />
spedì al mondo in risposta a tutte<br />
le aspettative. Le prime incisioni<br />
avvennero alle Bahamas, dove si<br />
ritirò alla ricerca di isolamento da<br />
opporre alla sbornia del successo,<br />
ma anche per obbedire ad una del-<br />
le idee di partenza, cioè che l’elet-<br />
tronica dovesse ricongiungersi alla<br />
natura, perché parte della natura.<br />
Ovvero, la natura attraverso l’elet-<br />
tronica. Rientrata a Londra però,<br />
sentì impellente il bisogno di rimet-<br />
tere mano al materiale, di rendere<br />
più analogica, naturale la cifra sin-<br />
tetica del sound.<br />
Un dualismo poetico ed estetico<br />
speculare a quello tra avanguardia<br />
e pop music, che in questo disco<br />
arrivò molto vicino a compiersi.<br />
Come ci dice una Isobel capace di<br />
far coesistere pulsioni trip-hop, tri-<br />
balismo sottile e la melodrammatica<br />
orchestrazione di Deodato, oppure<br />
quella Hyperballad dove ambient,<br />
dance e jazz covano un plausibile<br />
classico per i decenni a venire, o<br />
ancora quella I Miss You che - pre-<br />
vio Howie B. - diventa un carosello<br />
di pulsazioni e percussioni, mentre<br />
la trickyana Enjoy è squarciata da<br />
vere vampe di tromba a cura del re-<br />
divivo Einar Orn.<br />
Björk appare evidentemente cre-<br />
sciuta e meno fragile, per quanto<br />
mantenesse il suo sguardo appren-<br />
sivo e sbalordito sulle cose, la sen-<br />
sibilità scossa e arguta, sbilanciata<br />
sulla futuristica congiuntura David<br />
Sylvian-Aphex Twin di Possibly<br />
Maybe e scaldata dalla possibili-<br />
tà inestinguibile del passato, che<br />
torna come un colpo di coda nella<br />
irresistibile It’s Oh So Quiet (co-<br />
ver di Blow A Fuse, un brano anni<br />
Quaranta di Betty Hutton), musical<br />
swingante squarciato da ragli libe-<br />
ratori. Con quell’inimitabile miscu-<br />
glio di furia, ingegno e devozione,<br />
con quella scelleratezza bambina<br />
come un eureka sferzante, vivido,<br />
Björk confezionò una eccellente<br />
opera seconda, per molti il suo au-<br />
tentico capolavoro (7.5/10).<br />
Un disco fortunato, sostenuto da vi-<br />
deo clip al solito particolarissimi e<br />
particolarmente efficaci. Se la cen-<br />
sura cassò quello di Army Of Me,<br />
colpevole di evocare suo malgrado<br />
l’ancora fresco attentato terroristi-<br />
co in Oklahoma che costò la vita a<br />
168 persone, quello di It’s Oh So<br />
Quiet, diretto da Spike Jonze, con-<br />
quistò finalmente la fascia oraria<br />
più affollata di MTV. Intanto Björk<br />
s’imbarcò in una trafelata, proble-<br />
matica relazione con Tricky. Ma<br />
non durò molto.<br />
Con la nomination come miglior album<br />
di musica alternativa ai Grammy Awar-<br />
ds, l’anno si chiuse nel migliore dei<br />
modi. Il ‘96 si aprì nel segno di Goldie,<br />
nuovo nome caldo del drum’n’bass,<br />
col quale Björk instaurò una intensa<br />
liason, frustrata dalla inevitabile lonta-<br />
nanza. Questo, assieme alla pressione<br />
sempre meno sostenibile degli impe-<br />
gni, provocò il tracollo nervoso della<br />
cantante, che assalì la giornalista Julie<br />
Kaufman sotto gli occhi delle teleca-<br />
mere. Il periodo difficile fu alleviato da<br />
straordinarie esperienze come l’intervi-<br />
sta a Stockhausen per la rivista “Da-<br />
zed And Confused” e la collaborazione<br />
con Kent Nagano, direttore d’orchestra<br />
che la ingaggiò per eseguire il Pierrot<br />
Lunaire di Schonberg e la Sprechstim-<br />
me al Verbier Festival ‘96 in Svizzera.<br />
Per quanto effimera, l’esperienza fu il<br />
suo apice avanguardistico di sempre.<br />
tre quello in Hidden Place è un<br />
mazzo di carte mischiato (eh, gli<br />
impagabili Matmos…), senza con-<br />
tare che per ottenere l’incantevole<br />
tintinnio di Frosti fu commissionato<br />
uno speciale carillon di plexiglass...<br />
Anche dal punto di vista dei testi<br />
non si scherzava: se An Echo A<br />
Stein s’ispira all’opera della dram-<br />
maturga inglese Sarah Kane, morta<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 2 9
G e o g r a f i e s o n i c h e<br />
Il tour mondiale estivo si svolse<br />
senza intoppi, ma altri giorni diffi-<br />
cili attendevano al varco: prima finì<br />
la storia con Goldie, da cui Björk<br />
uscì a pezzi, quindi un fan si sui-<br />
cidò dopo averle spedito un pacco<br />
bomba, che fortunatamente venne<br />
intercettato da Scotland Yard. I<br />
sensi di colpa e di assedio le fe-<br />
cero prendere in considerazione<br />
l’ipotesi di abbandonare lo show-<br />
biz, ma la stesura dei pezzi per il<br />
nuovo album furono la giusta tera-<br />
pia. Nel frattempo venne licenziato<br />
Telegram (One Little Indian, 1996),<br />
album che raccoglieva alcuni remix<br />
ad opera di LFO, Graham Massey<br />
e Dilinja tra gli altri. Accolto dalla<br />
stampa come un’opera meramen-<br />
te speculativa, fu invece difeso a<br />
spada tratta da Björk. In effetti, la<br />
scaletta soffre di una programma-<br />
tica eterogeneità: troppa la distan-<br />
za che intercorre tra la versione da<br />
camera di Hyperballad e la jungle<br />
ansimante di Cover Me, tra la nuda<br />
latineria di My Spine e la techno-<br />
funk vischiosa di Possibly Maybe.<br />
Così come appare eccessiva al li-<br />
mite del gratuito la trasfigurazione<br />
di Enjoy mentre al contrario Isobel<br />
è forse eccessivamente cremosa<br />
nel suo bozzolo cinematico. Ma il<br />
progetto intendeva ammiccare alla<br />
ricerca infinita (perché impossibile<br />
da compiersi) della versione miglio-<br />
re, un procedimento jazz applicato<br />
al pop. Capace quindi di azzeccare<br />
una stupenda You’ve Been Flirting<br />
Again e soprattutto una Headpho-<br />
nes che è come una strizzata d’oc-<br />
chio all’Eno berlinese gentilmente<br />
fornita da Mika Vannio dei Panso-<br />
nic (6.5/10).<br />
Ma era ormai tempo di Homogenic<br />
(One Little Indian, 1997). Nato nel<br />
segno dell’Islanda, da intendersi<br />
come il desiderio di tornare alle<br />
origini e come simbolo estremo e<br />
puro di Natura, rifletteva la solita<br />
vecchia idea di Björk: raggiungere<br />
il cuore della natura attraverso una<br />
calcolatissima giustapposizione<br />
di analogico e digitale. Concessa<br />
massima libertà all’ingegnere del<br />
suono Mark Dravs - già al lavoro<br />
su Post - per l’ideazione di pat-<br />
tern ritmici e perturbazioni sinte-<br />
tiche, si concentrò sulle melodie,<br />
0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
che già in nuce intendeva suppor-<br />
tare con un quartetto d’archi. Ave-<br />
va tutto in testa, in qualche modo.<br />
Si era costruita anche una teoria,<br />
un po’ strampalata a dire il vero,<br />
per cui le ritmiche simboleggiava-<br />
no la potenza eruttiva e gli archi<br />
una nevicata (!).<br />
Fortunatamente le sessioni si svol-<br />
sero in Spagna, il cui sensuale ab-<br />
braccio assorbì appieno la sensibi-<br />
lità di Björk disperdendo i rischi da<br />
deriva new age. Per quanto sapes-<br />
se di dover partorire un lavoro am-<br />
bizioso, credeva di poterlo produr-<br />
re da sola. Ma, anche stavolta, alla<br />
fine fu costretta a rinunciare per<br />
condividere oneri e onori con Howie<br />
B, Guy Sigsworth e soprattutto<br />
Mark Bell degli LFO. In particola-<br />
re la sofisticata IDM di quest’ultimo<br />
lasciò un segno profondo nel sound<br />
di questi undici pezzi, come dimo-<br />
stra il funk estatico di Alarm Call,<br />
ad un tempo frigido e palpitante,<br />
carezzevole e viscerale.<br />
Alla fine per gli archi fu ingaggiato<br />
un ottetto, che regala agli arrangia-<br />
menti di Deodato un respiro ampio<br />
e pregnante, drammaticissimo in<br />
Bachelorette - tango struggente<br />
concepito in origine per Io ballo da<br />
sola di Bertolucci - e arioso in Joga,<br />
che seppur dedicato all’amica mas-<br />
saggiatrice è il pezzo emblematico<br />
del lavoro, col suo impasto di tu-<br />
multo e reminiscenza digitale, grido<br />
d’allarme e abbandono vagamente<br />
Sylvian. Più o meno ovunque il con-<br />
trasto si risolve con imprendibile<br />
armonia, a partire dalle pulsazioni<br />
sintetiche impastate con le citazio-<br />
ni del Bolero di Ravel in Hunter, la<br />
fisarmonica trasfigurata ed il canto<br />
che gioca tra astratta apprensione<br />
e squarci accorati. Idem dicasi per<br />
Unravel - col passo digitale in un<br />
grembo d’organo, corni, archi, arpa<br />
- e per la conclusiva All Is Full Of<br />
Love, nel cui setoso viluppo elet-<br />
tronico sprofondano gocce di clavi-<br />
chord e gli sbuffi algidi dell’armoni-<br />
ca di vetro.<br />
La voce di Björk appare ulteriormen-<br />
te maturata, si trattiene sull’orlo<br />
delle antiche lacerazioni (a parte i<br />
torvi melismi nella techno nevraste-<br />
nica di Pluto) per abbracciare ten-<br />
sioni diafane e cavalcare tribalismi<br />
scoppiettanti. Sembra provenire or-<br />
mai da un luogo imperscrutabile.<br />
Si astrae, arretra l’evidenza fisica<br />
dietro quella del simbionte, un po’<br />
come accade nell’immagine della<br />
copertina. L’individuo Björk cede<br />
il passo all’artista, forse in conse-<br />
guenza della palese maturazione<br />
estetica e poetica o forse come<br />
reazione alle minacciose pressio-<br />
ni del mondo esterno (7.3/10).<br />
La “macchia” di Telegram venne<br />
subito accantonata quando Ho-<br />
mogenic piovve sul mercato, gua-<br />
dagnandosi ottime recensioni e<br />
buone vendite. Questo e la fresca<br />
relazione con Howie B, apparen-<br />
temente più tranquilla delle prece-<br />
denti, resero questo periodo parti-<br />
colarmente felice.<br />
I l b e l l ’ a n a t r o c c o l o<br />
Mentre Homogenic spediva la sua<br />
autrice sempre più in alto nell’emi-<br />
sfero (electro)rock internaziona-<br />
le, forte anche degli straordinari<br />
videoclip (quello di Bachelorette<br />
del sempre più visionario Gondry,<br />
quello sensualmente cyber di All Is<br />
Full Of Love firmato da Chris Cun-<br />
nigham) e della ipertrofica perfor-<br />
mance agli MTV Awards (coreogra-<br />
fie e costumi da geisha nordica per<br />
una Bachelorette sul filo di un kitch<br />
sofisticato, affabile e sottilmente<br />
provocatorio), qualcuno cospirava<br />
un futuro da attrice per Björk. Era<br />
a lei che il regista danese Lars Von<br />
Trier pensava stendendo la sce-<br />
neggiatura di Dancer In The Dark.<br />
Sorprendentemente, Björk accettò<br />
la proposta: avrebbe interpreta-<br />
to il ruolo di Selma, la disgrazia-<br />
ta e struggente protagonista, e si<br />
sarebbe occupata di tutte le musi-<br />
che. C’erano tutte le premesse per<br />
un’avventura tormentata, cosa che<br />
puntualmente avvenne. Tra il vate<br />
del Dogma 99 e la popstar islande-<br />
se si alternarono momenti di pro-<br />
fonda intesa e laceranti dissidi. Le<br />
cronache delle riprese - avviate in<br />
Svezia nel maggio del ‘99 - riporta-<br />
no di solenni sfuriate e rari momen-<br />
ti di grazia.<br />
Quanto alla soundtrack, altro ele-<br />
mento di contrasto furono i testi<br />
forniti da Von Trier, subito giudicati<br />
inadeguati da Björk, che chiamò il<br />
paroliere Sjon Sigurdsson a porvi<br />
mano. Il disco acquisì presto vita
propria, raccolta di canzoni pensa-<br />
te come omaggio al personaggio di<br />
Selma, in cui - da volenterosa at-<br />
trice dilettante - s’immedesimò to-<br />
talmente: ecco il motivo delle ribel-<br />
lioni ai diktat del regista (che pure<br />
era l’autore del plot) ma anche del-<br />
la sostanziale riuscita dell’interpre-<br />
tazione, che le fruttò addirittura la<br />
Palma d’Oro al Festival di Cannes<br />
2000 come miglior attrice protago-<br />
nista. Lei candidamente confessò<br />
che avrebbe preferito un riconosci-<br />
mento per le musiche. E che col ci-<br />
nema aveva chiuso.<br />
Quanto a Selmasongs (One Little<br />
Indian, maggio 2000), l’ennesimo<br />
scarto dai desiderata della produ-<br />
zione fu il coinvolgimento di Thom<br />
Yorke in I’ve Seen It All, in sosti-<br />
tuzione della tutt’altro che sod-<br />
disfacente voce dell’attore Peter<br />
Stormer. Una scelta felice per una<br />
ballad dal fosco languore mitteleu-<br />
ropeo, dove le volute orchestrali<br />
(fu ingaggiata un’orchestra di ot-<br />
tanta elementi) ed i beat sfrangiati<br />
(a cura di Bell e Sigsworth) sono<br />
lo sfondo cinematico del fascinoso<br />
intreccio vocale. Quanto al resto<br />
della scaletta, tolta la tipica intro-<br />
duzione per orchestra su titoli di<br />
testa di Ouverture (composta da<br />
Björk stessa), l’ascolto non soffre<br />
l’assenza del supporto visivo come<br />
spesso accade per le soundtrack.<br />
Ciò vale anche quando le stranian-<br />
ti situazioni della pellicola - con gli<br />
ipercromatici inserti musical nella<br />
grana sovraesposta della quotidia-<br />
nità - trovano eco nelle strutture<br />
dei pezzi, come nella trascinante In<br />
The Musical - una It’s Oh So Quiet<br />
trafelata da un venticello industriale<br />
- e soprattutto in Cvalda, impetuoso<br />
pastiche tra funk e tip tap, robotico<br />
e swingante, squarciato da vampe<br />
di ottoni, con fugace intervento di<br />
Catherine Deneuve.<br />
Se una 107 Steps gioca invece<br />
a giustapporre angosce Gloomy<br />
Sunday e trame bristoliane, Scat-<br />
terheart è un’eterea ninna nanna<br />
scoppiettante finché non svolta si-<br />
nuosa e noir, mentre la conclusiva<br />
New World è l’amniotica pietas che<br />
- recuperando il tema della Ouver-<br />
ture - procede a cuore pieno ver-<br />
so un agognato futuro, commossa<br />
chiosa ad un’esperienza travagliata<br />
ma - a giudicare dai risultati - estre-<br />
mamente positiva (6.9/10).<br />
L ’ a n n o d e l c i g n o ( d o m e s t i c o )<br />
Durante la tregenda cinematografi-<br />
ca, Björk non smise di pensare e<br />
produrre musica. Ma la situazione<br />
comportò un deciso spostamento di<br />
coordinate: quasi a compensare la<br />
“forzata estroversione” del ruolo di<br />
attrice, si ritirò in un bozzolo intimi-<br />
sta, cullandosi con suoni sussurrati<br />
e ritmi digitali che prendevano vita<br />
nel suo laptop (cordone ombelicale<br />
di internet compreso), supportata<br />
dal fedele Valgeir Sigurdsson. La<br />
sua incessante curiosità si imbatté<br />
nel lavoro del misconosciuto talento<br />
danese Opiate, al secolo Thomas<br />
Knak, mentre si consolidò il rappor-<br />
to coi californiani Matmos, già al<br />
lavoro su un remix di Alarm Call.<br />
Di questi ultimi Björk s’invaghì let-<br />
teralmente, e non poteva essere<br />
altrimenti: la loro capacità di cam-<br />
pionare in pratica qualsiasi cosa<br />
- costruirono tutto il loro Quasi-<br />
Objects (Vague Terrain, 1998) rie-<br />
laborando il rumore di maglie, pallo-<br />
ni, il corpo stesso! - e ricondurlo ad<br />
una dimensione post-concreta più<br />
affabile che inquietante, realizzava<br />
magnificamente l’idea di “avanguar-<br />
dia che si fa pop”. In questo alveo<br />
assieme intimista e ipermodernista,<br />
Björk intendeva sviluppare il con-<br />
cept del nuovo album, che avrebbe<br />
dovuto intitolarsi Domestika. Un<br />
utilizzo meno invasivo degli archi,<br />
quindi arpa, clavichord, celeste,<br />
carillon da una parte, dall’altra le<br />
pulsazioni digitali, e la voce a cuci-<br />
re i due lembi del bozzolo: questa<br />
la rotta iniziale, che Björk terrà più<br />
o meno fino alla fine.<br />
Un folk elettronico da ascoltarsi<br />
in salotto o in camera, lontano dai<br />
rave e dal dancefloor, in omag-<br />
gio al “quotidiano magico” quale<br />
nuovo fulcro sensitivo/creativo<br />
della contemporaneità. Non cer-<br />
to a caso, verso la metà del 2000<br />
si trasferì a Manhattan dal nuo-<br />
vo compagno Matthew Barney,<br />
celebre artista multimediale ori-<br />
ginario di San Francisco, auten-<br />
tica leggenda contemporanea del-<br />
l’avanguardia - per quanto fosse<br />
un classe ‘67 - già premiato alla<br />
Biennale di Venezia per il ciclo di<br />
film The Cremaster, che gli gua-<br />
dagnò un’installazione permanen-<br />
te al Guggenheim Museum.<br />
Björk trovò nella casa di Barney<br />
un ambiente ideale, nido, studio<br />
e alcova. Tuttavia, c’erano anco-<br />
ra dei ticket da pagare. E non al<br />
risparmio. Causa la nomination di<br />
I’ve Seen It All come miglior bra-<br />
no originale, Björk si presentò alla<br />
cerimonia degli Oscar 2001 con un<br />
vestito che passerà alla storia, una<br />
gonna piumata e l’imitazione del<br />
collo di un cigno che l’avvolgeva<br />
come un boa. Il fatto che cammi-<br />
nando depositasse delle uova non<br />
voleva essere una bizzarria fine a<br />
se stessa, ma la spiegazione del-<br />
l’abito: il cigno infatti simboleggia-<br />
va ad un tempo romanticismo e fer-<br />
tilità. I media però non guardarono<br />
tanto per il sottile e risposero alla<br />
provocazione estetica della ragaz-<br />
za con una impietosa campagna<br />
denigratoria. La peggio vestita del<br />
mondo, quelle cose lì. Forse con-<br />
sapevole che un po’ se l’era andata<br />
a cercare, magari anche più matu-<br />
ra, Björk non ne fece un dramma e<br />
anzi rilanciò l’immagine del cigno -<br />
non senza sottile autoironia - nella<br />
copertina del nuovo album che nel<br />
frattempo decise di chiamare Ve-<br />
spertine (One Little Indian, 2001).<br />
Registrato tra Islanda, Spagna e<br />
New York, vide all’opera come al<br />
solito una messe di collaboratori: ai<br />
già citati Opiate - c’è la sua firma<br />
nel palpitante cromatismo electro<br />
soul di Undo e nella sconcertante<br />
nudità di Cocoon - e Matmos - ai<br />
quali propose di intervenire coi<br />
loro campionamenti ridotti a crepi-<br />
tii microtonali su pezzi già formati<br />
- si aggiunsero il tedesco Console<br />
- sua la melodia di Heirloom, il pez-<br />
zo più brioso del lotto - più un bre-<br />
ve intervento di Matthew Herbert<br />
in Hidden Place. L’aspetto sonoro<br />
è estremamente curato eppure di-<br />
screto, lo sforzo è rivolto ai detta-<br />
gli, una definizione quasi frattale<br />
che invita all’indagine e assieme<br />
rilassa abbozzando un ambiente<br />
familiare, per quanto spinto su di-<br />
mensioni avveniristiche.<br />
Suoni vivi, testimoni di vita: basti<br />
pensare che il fruscio all’inizio di<br />
Aurora altro non è che il rumore dei<br />
dei passi di Björk sulla neve, men-<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
suicida nel ‘99, l’esotica svenevo-<br />
lezza di Sun In My Mouth rielabora<br />
un testo dell’eversore grammatica-<br />
le E. E. Cummings, mentre Harm<br />
Of Will è frutto del poeta e regista<br />
statunitense Harmony Korine.<br />
Il cerchio si compie con l’intensa<br />
Pagan Poetry, a passo di geisha<br />
tra brume industriali e soul setoso,<br />
la cui carica sensuale e dispera-<br />
ta trova straordinario riflesso nel<br />
video realizzato da Nick Knight,<br />
tra dissolvimento digitale e fisicità<br />
estrema. Con questo disco proba-<br />
bilmente Björk raggiunse l’ideale<br />
dosaggio tra sperimentazione e<br />
comunicatività, tra avanguardia e<br />
pop. Un punto di equilibrio dove le<br />
opposte istanze cessano di essere<br />
tali, anzi si nutrono l’una dell’altra,<br />
svelandosi nuove possibilità. In<br />
questo senso, Vespertine va con-<br />
siderato il suo capolavoro (8.0/10).<br />
B a t t i t i d i c a r n e<br />
Il successivo tour mondiale venne<br />
concepito come un trionfo: per lo-<br />
cation furono scelti teatri normal-<br />
mente destinati alla “colta” (in Italia<br />
toccò al Teatro Regio di Parma), la<br />
crew - si fa per dire - consisteva in<br />
un’orchestra di 54 elementi, un’arpi-<br />
sta, quattordici voci inuit e una can-<br />
tante “di gola” canadese. A costoro<br />
si aggiunsero i due Matmos ad im-<br />
personare il link con l’iper (o post)<br />
modernità. Il risultato fu esattamen-<br />
te quello pronosticato: un trionfo.<br />
Al termine del quale, inizio 2002,<br />
Björk si prese una pausa. Dovero-<br />
sa e fruttuosa. Presto fu annunciata<br />
la gravidanza e a ottobre nacque la<br />
secondogenita Isadora. Più o meno<br />
contemporaneamente uscirono il<br />
box in 6 cd (best e rarità) Family<br />
Tree (One Little Indian, novembre<br />
2002) ed il Greatest Hits (One Little<br />
Indian, novembre 2002), che frutta-<br />
rono quale unico inedito It’s In Our<br />
Hands, electro-soul sinuoso aperto<br />
come un fiore a nuove prospettive di<br />
speranza e - perché no? - gioia, non<br />
a caso già suggello di molti concerti<br />
passati e a venire.<br />
La rinnovata maternità - vissuta con<br />
sensibilità certo più adulta - pro-<br />
vocò una naturale rivoluzione che<br />
spostò il corpo (la fisicità) in primo<br />
piano. Dopo le ragnatele sintetiche,<br />
i singulti e i sospiri di Vespertine,<br />
2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
in Medulla (One Little Indian, 2004)<br />
avvenne un deciso spostamento<br />
dell’obiettivo (attra)verso la carne,<br />
una dimensione per così dire fisio-<br />
logica, “culturalmente” corporea,<br />
di cui i beats realizzati “a voce”<br />
non erano che il riflesso “formale”.<br />
Se da un lato vennero confermati<br />
Valgeir Sigurdsson e Mark Bell, la<br />
squadra dei collaboratori subì gio-<br />
coforza dei cambiamenti: fu coin-<br />
volto il newyorkese Rahzel, detto<br />
“the godfather of noyze”, un beat<br />
boxer capace di generare quasi<br />
tutte le parti percussive e di basso<br />
con la sola voce, spalleggiato in ciò<br />
dall’omologo giapponese Dokaka e<br />
- udite udite - dall’irrefrenabile e<br />
polimorfo Mike Patton, mentre la<br />
cantante canadese “di gola” Tanya<br />
Tagaq svolse quel ruolo di guarni-<br />
zione che in precedenza spettava<br />
agli espedienti sintetici.<br />
La voce dunque tornava prepoten-<br />
te in prima linea con conseguente<br />
arretramento dell’elettronica, ap-<br />
pena evidente in Desired Constel-<br />
lation (dove comunque molti suoni<br />
all’apparenza digitali sono la voce<br />
di Björk stessa) oppure decisiva ma<br />
stemperata nella fauna di strumen-<br />
ti “umani”, come in Mouth’s Cradle<br />
(aura world-music tra le irrequie-<br />
tezze angelicate dell’Icelandic<br />
Choir), Who Is It (ansiti, tramestii<br />
e basse frequenze per funky ca-<br />
priccioso) e nella pazzesca Where<br />
Is The Line (cui Patton - i suoi pol-<br />
moni, la gola, il naso, il diaframma,<br />
la lingua, il corpo - regala sulfuree<br />
convulsioni).<br />
Björk sembrava voler intraprendere<br />
un’indagine più accurata che acco-<br />
rata sulle tracce del fattore umano<br />
presente e prossimo venturo. Con<br />
sguardo inesorabile e trepido, oniri-<br />
co e surreale, decise di abbracciare<br />
modi e forme perlopiù tradizionali<br />
- quasi arcaiche - trasfigurandone<br />
le sagome all’interno di un incanto<br />
apocalittico. Una premessa esteti-<br />
ca eccessiva se vogliamo, quasi un<br />
reticolo intellettuale posto a sovrin-<br />
tendere lo sbilanciamento fisico. Ne<br />
risultò una prospettiva decisamente<br />
anti-pop. Un’anomalia, per non dire<br />
un difetto, alla luce di una carriera<br />
che ha sempre acquistato senso e<br />
forza proprio nell’incontro/tensione<br />
tra avanguardia e pop.<br />
Per quanto fascinosa - il batticuo-<br />
re sperduto di Ancestors, la para-<br />
disiaca morbosità di Pleasure Is<br />
All Mine - o ammiccante - la danza<br />
disarticolata di Triumph Of A Heart<br />
- la ricerca di Björk sembrava svol-<br />
gersi ad un livello più alto rispetto<br />
al comune sentire. Non sarebbe di<br />
per sé un demerito se non sfiorasse<br />
talvolta il lezioso (nella didascalica<br />
Submarine, composta ed eseguita<br />
assieme a Robert Wyatt) quando<br />
non il pretenzioso, vedi il madrigale<br />
marmorino di Vökuró o il post-tango<br />
cinematico di Oceania, inno delle<br />
Olimpiadi di Atene (6.5/10).<br />
Segnali parzialmente confermati<br />
l’anno successivo da Drawing Re-<br />
straint 9 (One Little Indian, luglio<br />
2005), colonna sonora dell’omoni-<br />
ma pellicola di Barney, anche se<br />
può sembrare ingrato considerarlo<br />
alla stregua di un lavoro di Björk,<br />
che sembrò mettersi completamen-<br />
te a disposizione della proposta<br />
visuale del marito, cantando solo<br />
in tre brani per concentrarsi sulle<br />
austere possibilità dello Sho (stru-<br />
mento giapponese a tre note) e del<br />
teatro Nô (6.0/10).<br />
S c i a m a n e s i m o i p e r p o p<br />
Poi, in sostanza, sparisce. Un si-<br />
lenzio clamoroso perché signifi-<br />
ca attesa. Spezzata dal consueto<br />
rosario di anticipazioni sul nuovo<br />
album, tra cui un paio notevoli: il<br />
progetto vede coinvolti tra gli altri<br />
il superproduttore Timbaland - pro-<br />
prio quello di Missy Elliott, Nelly<br />
Furtado e Justin Timberlake - e<br />
l’efebico e sempre più onnipresen-<br />
te Antony Hegarty. Segnali che<br />
fanno pensare ad una oscillazione<br />
fin troppo contraria rispetto alle re-<br />
centi derive avanguardiste, espe-<br />
dienti ultra hype piuttosto ovvi, per<br />
non dire oziosi. Ma altri nomi come<br />
i Konono N°1 - band percussiva<br />
congolese - e il batterista avant-<br />
noise Chris Corsano - già al lavoro<br />
con Paul Flaherty, Kim Gordon e<br />
Jim O’Rourke tra gli altri - sposta-<br />
no l’ago della bilancia verso l’an-<br />
tico solco björkiano, borderline tra<br />
sperimentazione e pop.<br />
L’antipasto arriva ad aprile 2007<br />
col clip di Earth Intruders, diretto<br />
dal regista e animatore francese<br />
Michel Ocelot (quello di Kirikù).
Una febbrile carrellata bidimensio-<br />
nale, tribalismo ombroso e ipercro-<br />
matico, il volto di Björk come una<br />
aidoru ad altissima risoluzione di<br />
Madre Natura. Ancora una volta la<br />
musicista islandese coglie nel pra-<br />
ticello di confine tra underground e<br />
mainstream, con esiti stranianti ed<br />
attualissimi. Quanto alla musica,<br />
sembra rifarsi alla compenetrazio-<br />
ne etnico/tecnologica dei Talking<br />
Heads eniani, con un piglio dance/<br />
wave che ammicca con disinvoltura<br />
alla “costola” pazzerellona Tom Tom<br />
Club. Ma laddove l’idea di Byrne in-<br />
carnava una globalizzazione este-<br />
tica in fieri, quella rappresentata<br />
da Björk suona come già avvenuta,<br />
metabolizzata ed oltrepassata. Un<br />
linguaggio nuovo che il linguaggio<br />
deve imparare, sta imparando. Non<br />
senza drammatici risvolti che lei,<br />
da guizzante <strong>neo</strong> <strong>sciamana</strong> iper-<br />
pop, tenta di esorcizzare.<br />
Non si tratta insomma di un (furbe-<br />
sco e disperato) ritorno alle frego-<br />
le techno aperte a tutto dei primi<br />
Nineties. Sembra semmai che in<br />
Volta (One Little Indian, 5 maggio<br />
2007) - vedere spazio recensioni<br />
- nulla sia passato invano. Anzi,<br />
tutto ricorre vichianamente: implo-<br />
sioni ed esplosioni, Medulla e De-<br />
but, identificazione panica e fibril-<br />
lazione espressiva, Homogenic e<br />
Post, fino all’intimismo pervadente<br />
e sensuale di Vespertine. Una sin-<br />
tesi che da estetica si fa poetica,<br />
paventando un gioco di opposti<br />
sempre più drastico: la dialettica<br />
tra corpo e mondo, il dissidio che<br />
diventa compenetrazione. Non è<br />
certo un caso che un pezzo come<br />
Declare Independence - una sor-<br />
presina electro punk all’acido mu-<br />
riatico mica male - sia dedicato alla<br />
causa indipendentista delle Isole<br />
Fær Øer e della Groenlandia.<br />
Il gioco non è scoperto, eppure<br />
mai come in questo disco gli espe-<br />
rimenti sul linguaggio ed il pop<br />
sembrano coinvolti con le cose del<br />
mondo. Perciò le strutture eviden-<br />
ziano una diffusa semplicità, una<br />
cura che rifugge il fasto prediligen-<br />
do l’efficacia, poche ma oculatissi-<br />
me, ficcanti soluzioni timbriche. Un<br />
distillato d’arte e mestiere per un<br />
album complesso ma essenziale,<br />
complesso ed essenziale (7.2/10).<br />
Se questo disco conferma la statu-<br />
ra di Björk, d’altro canto è chiaro<br />
come il ruolo di capofila e crocevia<br />
di orientamenti ed istanze esteti-<br />
che non le appartenga ormai più. In<br />
fondo, anche quando così è stato,<br />
non c’era molto di programmatico.<br />
Björk non ha mai rappresentato e<br />
incarnato altri che se stessa, la<br />
propria idea di espressione come<br />
“elevazione liberatoria”. Certo, le è<br />
capitato di farlo nel posto giusto al<br />
momento giusto. Poteva il destino<br />
non arriderle?<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
turn it on<br />
4 s e n t i r e aa s c o l t a r e<br />
B a t t l e s - M i r r o r e d ( Wa r p / S e l f , 1 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e c h o p l e x r o c k<br />
Williams non è un teorico, tanto meno un professore geloso delle proprie<br />
conquiste. Quando ha deciso di mettere insieme un (super)gruppo ne sono<br />
usciti tre titanici eppì recentemente ristampati dalla Warp. Le prove ge-<br />
nerali. Un tentativo (ma è riduttivo) di comunicare e costruire ponti. Con<br />
Mirrored l’obbiettivo si sposta, come era intuibile, dal work in progress al<br />
lavoro di squadra e l’essenza anche qui senza sorprese si sistema lungo<br />
l’autostrada Williams-Braxton, il primo ai riff il secondo agli effetti e voci,<br />
in giochi di sponda con incrociati basso-batteria. Il lavoro sul pop-rock è<br />
l’aspetto di cui si parlerà di più, ha reso il singolo Atlas “math-rock for the<br />
masses” seppure è un’escrescenza, il cuore ritma un linguaggio vivo, fatto<br />
di costrutti complessi. Frasi-riff, botte e risposte a due chitarre quando<br />
non tra il gioco ritmico e gli effetti, periodi che macinano mood, punteg-<br />
giature mai lasciate al caso. Le principali e le secondarie, qualche subordinata. Negli Storm & Stress c’era molto<br />
di non-intenzionale, qui c’è un’evoluzione armonico-matematica più che il contrario.<br />
Ha ragione Braxton quando afferma che i Battles sono una rock’n’roll band con fini non convenzionali. E dice la<br />
verità pure Ian Williams quando afferma che l’influenza delle frippertronics di Robert Fripp sia incidentale e non<br />
programmatica. Mirrored è un mondo di specchi. Immagini dentro immagini e quindi loop. Scienza del Gibson<br />
Echoplex. Ma è un gioco con dietro una scenografia. Una savana, gusti caraibici, fusion umidiccia, appeal rock,<br />
che assume un feeling proggy à la Tortoise tra momenti serrati e sfilacciamenti. Se vogliamo Mirrored è una<br />
risposta agli Standards, una via coraggiosa che avrebbe fatto della band di McEntire un colosso invece di una<br />
grande live band (senza sorprese discografiche). Al contrario, Williams e soci hanno un tridente: teste tartaru-<br />
ga, cuore da cavalli di razza e un disco inattaccabile, studiatissimo eppure accessibile come nient’altro nella<br />
carriera di Williams. Accanto a degli Slint in re-reunion senza novità, saranno loro a portarci il live decisivo. Nel<br />
frattempo l’ascolto casalingo rileva ogni volta nuovi rebus ma anche oasi d’ergonomia, momenti quasi dance e<br />
quasi pop. E tutto nella logica del quasi. L’equazione e la ricreazione. Il discovery channel del chimico in pausa<br />
caffè. (7.7/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a
6 5 daysofstatic – The D e s t r uction<br />
O f S m a l l I d e a s ( M o n o t r e m e , 3 0<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o s t r o c k , e l e t t r o n i c a<br />
Il primo pezzo s’intitola When We<br />
Were Younger And Better. Che,<br />
come dire, non fa iniziare l’album<br />
sotto i migliori auspici. Eppure<br />
sono sempre loro, i 65daysofstatic.<br />
Quelli che avevano praticato un vi-<br />
gorosissimo massaggio cardiaco al<br />
post rock, rianimando le sue stan-<br />
che motivazioni e infiammando nuo-<br />
vamente – e finalmente – la nostra<br />
passione. Finora. Perché dopo due<br />
capolavori sconvolgenti per la loro<br />
rivoluzionaria potenza e personali-<br />
tà (The Fall Of Math e One Time<br />
For All Time) arriva il momento<br />
della mezza delusione.<br />
The Destruction Of Small Ideas<br />
ha le batterie un po’ scariche. Lad-<br />
dove il motore dei suoi predeces-<br />
sori girava a mille, stavolta le cose<br />
non sembrano le stesse. Come se<br />
la band cercasse di premere sul pe-<br />
dale dell’acceleratore con la stessa<br />
forza di sempre ma avendo le ruote<br />
dell’auto che girano a vuoto. I suo-<br />
ni, ad esempio, a volte falliscono in<br />
impatto laddove prima invece face-<br />
vano terra bruciata intorno a sé. E<br />
verrebbe da pensare a qualche pro-<br />
blema in fase di mastering, che non<br />
ha pompato a dovere ciò che dove-<br />
va essere spinto oltre ogni limite.<br />
Sacrificando così chitarre, ritmi,<br />
suoni e idee. L’elettronica è sempre<br />
presente, ma a volte sembra messa<br />
quasi in secondo piano, come se il<br />
gruppo cercasse un approccio più<br />
live. E il risultato ne risente. Don’t<br />
Go Down Sorrow è una ballata pia-<br />
nistica che scivola banale e inoffen-<br />
siva, forse il pezzo – relativamente<br />
– più post rock che la band abbia<br />
mai composto. La conclusiva The<br />
Conspiracy Of Seeds dà fiato alle<br />
corde vocali e si presenta come un<br />
brano quasi metal, ovviamente più<br />
per spirito che per aderenza stili-<br />
stica. Altrove gli spunti sono più<br />
incoraggianti, come negli innesti<br />
di electro schizofrenica che abbel-<br />
liscono l’altrimenti banale melodia<br />
di The Distant Mechanised Glow. Il<br />
rischio è di farsi prendere la mano<br />
e rendere più fosco del lecito ciò<br />
che invece tanto fosco non è. Ma<br />
non si può prescindere da ciò che<br />
sono stati fino ad ora i 65daysof-<br />
static. Che stavolta si sono lasciati<br />
prendere eccessivamente la mano.<br />
Questo lavoro infatti dura quasi il<br />
doppio rispetto al precedente. E il<br />
sospetto che in mezzo ci sia qual-<br />
che riempitivo di troppo è forte.<br />
Così come è forte la tentazione di<br />
indirizzare i <strong>neo</strong>fiti verso il resto del<br />
catalogo targato 65, più aggressivo<br />
ed intrigante. Tutti gli altri, si acco-<br />
stino a The Destruction Of Small<br />
Ideas con poche aspettative. Lo<br />
spirito giusto per trovare alla fine<br />
anche qui pane per i propri denti.<br />
(6.2/10)<br />
M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />
1 2 0 D a y s – S e l f Ti t l e d<br />
( S m a l l t o w n S u p e r s o u n d / W i d e ,<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e t t r o p o p<br />
Non fa notizia un elettropop tecno-<br />
logico e robotico, a decenni di di-<br />
stanza dalle massime realizzazioni<br />
finora ottenute del genere. Ma in<br />
Norvegia, che è la loro patria, que-<br />
sto disco dei 120 Days, già uscito<br />
da tempo, ha letteralmente sbanca-<br />
to, a quanto pare. Primo posto nelle<br />
charts e via andare. Ora ne ristam-<br />
pano pure una edizione limitata con<br />
bonus CD ricco di remix. Ma trala-<br />
sciamo gli orpelli, e andiamo a leg-<br />
gere le maglie della tradizione in<br />
questi ragazzi di Kristiansund.<br />
I primi nomi che vengono da fare<br />
sono quelli del passaggio dell’elet-<br />
tronica robotica al pop, due su tutti:<br />
i Kraftwerk e gli Ultravox, ovvero<br />
la stessa faccia in due medaglie<br />
diverse. I tedeschi, nella traccia<br />
iniziale (gli otto minuti e passa di<br />
Come Out, Come Down, Fade Out,<br />
Be Gone), si potrebbero guardare<br />
rifratti nel passaggio dai primi di-<br />
schi, quelli non più riconosciuti, al-<br />
l’estetica che li ha resi più celebri.<br />
La band di John Foxx (che qui è più<br />
che altro la band di Midge Ure) è<br />
un tirante che preserva delle derive<br />
(ma ahimè sono i punti di maggiore<br />
emancipazione) vocali e chitarristi-<br />
che alla U2 (Sleepwalking).<br />
Qui sta il problema. Il synth di Keep<br />
On Smiling ricorda quello di Brian<br />
Eno ai tempi dei Roxy Music, ma<br />
questa è una banalità che sapeva-<br />
mo già, e contribuisce a turbare la<br />
buona opinione iniziale del disco<br />
– che si sminuzza (anche se non<br />
del tutto) sotto l’accusa (contro la<br />
quale non ci sono argomentazioni,<br />
almeno in 120 Days) di prevedibili-<br />
tà. Fosse questo album tutto come<br />
l’inizio, e come la fine – una lun-<br />
ga suite anti-progressiva che va<br />
al trotto di un’aria e soprattutto di<br />
una ritmica (lo dico l’ultima volta e<br />
poi basta: robotica) Neu! – sarebbe<br />
stata un’altra cosa, perché pur nel<br />
derivativismo la non-forma canzone<br />
a loro riesce meglio. Ecco perché<br />
bisogna essere un po’ severi, per<br />
disincentivare. (5.0/10)<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
1 9 9 0 s – C o o k i e s ( R o u g h Tr a d e /<br />
S e l f , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : g l a m w a v e ’ n ’ r o l l<br />
Sono scozzesi. Sono buffi. Sono<br />
divertentissimi. E ai loro concerti<br />
puoi anche ballare. No, non sono<br />
i Franz Ferdinand, ma ci siamo<br />
parecchio vicini, e non solo per le<br />
indubbie assonanze di See You At<br />
The Lights, che fa subito pensare a<br />
una versione 2.0 della band di Ka-<br />
pranos. Prima di formare i 1990s,<br />
quella sagoma di John McKeown<br />
era la mente e la faccia – e che<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
faccia! - dei Yummy Fur, art wa-<br />
vers ante litteram dal profondo un-<br />
derground di Glasgow, tra le cui fila<br />
hanno militato, in tempi oscuri ma<br />
non lontanissimi, anche Alex e Paul<br />
Thompson dei FF. Insomma è una<br />
lunga storia, in cui alla fine l’unica<br />
cosa che davvero stupisce è la lun-<br />
ga attesa che questo irresistibile<br />
trio – completato da un altro Yummy<br />
Fur, Jamie McMorrow, e da Michael<br />
McGaughrin dei V-Twin, compa-<br />
ri storici dei Belle and Sebastian<br />
– ha patito prima di raggiungere gli<br />
scaffali dei negozi con un full len-<br />
ght. È vero, alla Rough Trade han-<br />
no dato priorità alle Long Blondes,<br />
e sarebbe un peccato se Cookies<br />
venisse scambiato per l’ennesimo<br />
surrogato post Franz Ferdinand<br />
(promesso, è l’ultima volta che li<br />
nominiamo in questa recensione).<br />
Perché, si sarà capito, questo di-<br />
sco è un vero spasso. Uno sberleffo<br />
rock and roll inscenato da tre toons<br />
depravati, i nipoti cazzoni degli<br />
Stones dei ’70, i cugini devastati<br />
dei primi Supergrass, gli zii dege-<br />
neri degli Arctic Monkeys (sceglie-<br />
te voi l’opzione preferita), intenti a<br />
seppellire con una risata l’ondata<br />
emul wave e tutto quello che ci sta<br />
intorno. Le loro armi? Riff secchi e<br />
contagiosi, coretti scemi e appicci-<br />
cosi, liriche comico-demenziali che<br />
ironizzano a manetta sul successo e<br />
il r ’n’r lifestyle (Cult Status, You’re<br />
Supposed To Be My Friend), con<br />
Exile On Main Street (You Made<br />
Me Like It), il Lou Reed glam dei<br />
’70 (Arcade Precint, Switch), Jona-<br />
than Richman e gli immarcescibili<br />
Fall (Situation) a fornire la materia<br />
prima per la colonna sonora di un<br />
party a base di alcol, erba e anfe-<br />
tamine. Assolutamente imperdibile.<br />
(7.3/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
A u t o k a t – L a t e N i g h t S h o p p i n g<br />
( A k o u s t i k A n a r k h y / W i d e ,<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e , p o p ,<br />
p s i c h e d e l i c o<br />
Un debutto – britannico fino al mi-<br />
dollo – che merita. Una raccolta<br />
che prende di peso quanto di me-<br />
glio sia stato prodotto dalla musica<br />
anglosassone negli ultimi vent’anni<br />
riaggiornandone i contenuti. E sono<br />
brividi. Specie nei momenti migliori<br />
– e non pochi. Gli Autokat, insom-<br />
ma, sono bravi. Partono banalmente<br />
garage con Shot (un pezzo che ca-<br />
valca l’onda anomala del rock’n’roll<br />
modaiolo e irritante cui gli inglesi<br />
ci hanno abituato da troppo tempo)<br />
e poi sterzano bruscamente verso<br />
nuove e più eccitanti mete. Poco<br />
importa che si parli di indie (Dish<br />
Out, un brano che gli Interpol fa-<br />
rebbero carte false pur di riprodur-<br />
ne le vibrazioni psichedeliche con<br />
la stessa intensità emotiva), di pop<br />
(Get Off The Bar, un malinconico<br />
capolavoro di armonie e scrittura),<br />
o di post rock (Uber Patriot, ovve-<br />
ro come riproporre i soliti stereotipi<br />
melodici e riuscire comunque a se-<br />
durre il mondo intero). Il risultato<br />
non cambia.<br />
Late Night Shopping è un lavoro<br />
bello e quasi necessario, pur con i<br />
suoi piccoli e sporadici cedimenti.<br />
Potenzialmente gli Autokat potreb-<br />
bero allora diventare la migliore<br />
band attualmente in circolazione. E<br />
che questo non suoni come un’esa-<br />
gerazione. Perché tra le corde del-<br />
le chitarre il complesso si ritrovano<br />
belle melodie e splendide intuizio-<br />
ni. Manca tanto così, e ci ritrovere-<br />
mo fra le mani il nuovo termine di<br />
paragone per tutti i gruppi presenti<br />
sulla faccia della terra. (7.0/10)<br />
M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />
A l a n Ve g a – S t a t i o n ( B l a s t F i r s t ,<br />
3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : rave, industrial suicide<br />
Più avanti, a pagina 69, troverete<br />
lo spot dedicato al lavoro dei Von<br />
Sudenfed, ovvero Mouse On Mars<br />
e Mark E. Smith, due elettronici<br />
e lo storico frontman dei Fall alle<br />
prese con una formula che per pri-<br />
ma è stata terreno d’unione di un<br />
altro trio, formato dai Pan Sonic e<br />
Alan Vega. Il link non è casuale,<br />
forse nemmeno il momento storico:<br />
il nuovo lavoro della metà dei Sui-<br />
cide ronza come una bomba radio-<br />
comandata sul medesimo target. Lo<br />
scoppio è altrettanto imminente.<br />
Anticipando di un paio di settimane<br />
l’uscita del trio, in involontario dia-<br />
logo a distanza armonico-vocale, il<br />
cantante dei Suicide getta il proprio<br />
veleno calando nei Novanta (quel-<br />
li della techno tedesca e dei Rave<br />
come dei Reznor) un archetipico<br />
canto post-punk nutrito a spettrali<br />
teatralità e febbrili espettorazioni<br />
verbali. La voce del mito si fa del-<br />
lo sporco indelebile di un mondo in<br />
deriva, alla deriva. L’ipervelocità<br />
dell’informazione è una cassa drit-<br />
ta, un clangore metallico, vitreo;<br />
l’alienazione farmaceutica della<br />
Darkcore aggiorna il vecchio can-<br />
cro industriale. Tanti i contatti tra<br />
le degenerazioni analogiche e – ora<br />
- digitali, le meccaniche e le chi-<br />
miche dell’alienazione; da entrambi<br />
i capi dell’Atlantico si celebra l’im-<br />
portanza di una lezione storica e<br />
non solo, l’attualità di un approc-<br />
cio che si sposa egregiamente ai<br />
contesti della rivoluzione giovanile<br />
dei Novanta (quella che Reynolds<br />
ha chiamato la generation E); in<br />
più sotto a tutto questo, la detona-<br />
zione più esplosiva, la celebrazio-<br />
ne di una fine, lo scazzo Novanta,<br />
la caparbia devoluzione politica di<br />
quegli anni, la ricerca di una catar-<br />
si post con tutte le commistioni del<br />
caso. È ora di ribellarsi.<br />
Leggerete più avanti che i Von Su-<br />
denfed la butteranno sul trash ag-<br />
grappandosi all’anarco-derisione<br />
di punkiana memoria, posa insidio-
B j ö r k - Vo l t a ( O n e L i t t l e I n d i a n , 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e t n o t e c h n o p o p<br />
Col sesto album vero e proprio Björk opera una sintesi febbrile di quanto<br />
sperimentato in quasi tre lustri di carriera solista, senza che questo signi-<br />
fichi smettere di pensare progressivamente. Certo, la musicista islandese<br />
non è più quel simbolo onnicomprensivo, la musa della techno-pop con<br />
ramificazioni imprevedibili e disparate, ma si dimostra una volta di più - e<br />
sempre più - padrona di un linguaggio multisfaccettato, figlio di mille com-<br />
plessità affrontate, vissute, risolte. La costante ricerca del perfetto punto<br />
di equilibrio tra pop e avanguardia produce oggi una concisione ficcante,<br />
un codice basato su pochi elementi ma potenti, pregni di significato come<br />
graffiti atavici. Basti sentire il singolo Earth Intruders, edificato sulla sola<br />
triangolazione tra le percussioni dei congolesi Konono N°1, gli abrasivi<br />
riff sintetici e la danza della voce. Eppure sembra molto di più, rivanga la<br />
turn it on<br />
florida frenesia etnica dei Talking Heads eniani, quella compenetrazione etnico/tecnologica tra il minaccioso ed<br />
il liberatorio. Naturalmente, laddove l’idea di Byrne incarnava la globalizzazione estetica in corso, quella rap-<br />
presentata da Björk è già avvenuta, metabolizzata ed oltrepassata. Un linguaggio nuovo che il linguaggio deve<br />
imparare, sta imparando. Ecco quindi che Volta guarda al presente con un’urgenza metaforica pressoché inedita.<br />
E’ una preghiera e un grido d’allarme, è lo sforzo presuntuoso e ammirevole di identificare il gesto artistico col<br />
(corpo e col) mondo. In questo senso, nulla è passato invano. Non le implosioni fisiologiche ed esistenziali di<br />
Medulla e Vespertine, non le sbrigliate escursioni ritmico/atmosferiche di Debut e Post, non la sublimazione<br />
spirituale/geografica di Homogenic. Basta scorrere le tracce per rilevare - fin dai titoli - impronte di passato<br />
riarticolate in un presente ancora vivo. Come gli ansiti sintetici su languido sfondo orchestrale di Vertabrae By<br />
Vertabrae, l’identificazione panica di Pneumonia, la scabra delicatezza da giardino orientale di Hope, mentre<br />
Innocence riesuma spasmi da beatbox per un electro-funk crudo e liberatorio che la candida al ruolo di moderna<br />
Violently Happy. Prosegue quel gioco folle e sottile di rimandi simbolici, dove il battito delle percussioni è il cuore<br />
(del corpo, della Natura), i fiati il respiro (muggiti di vento nei fiordi o di navi in partenza, un po’ come i Sigur<br />
Ròs di Ny Battery), le ritmiche digitali sono il reticolato nervoso dei codici metropolitani, mentre il fluire chimico<br />
dei synth rimanda allo scivolare dei fiumi sopra e dentro la terra. Istanze umane e naturali, arcaiche e futuriste,<br />
sonore e visuali: Björk non si smentisce. Anche se si rivela deludente - lo era anche sulla carta - la scelta di<br />
Antony quale partner nella melodrammatica The Dull Flame Of Desire e in My Juvenile. L’angloamericano appare<br />
ormai imbalsamato nel suo lirismo statuario, tanto considerevoli i suoi mezzi quanto già abbondantemente profusi<br />
ed esauriti. Di contro, la scelta dell’acclamatissimo Timbaland quale co-produttore (accanto al fido Mark Bell)<br />
sembra aver sortito gli effetti sperati, ovvero una freschezza aggressiva, graffiante. Ma la vera sorpresa arriva<br />
da Declare Independence, electro punk acre a sbranagola come potrebbe una PJ Harvey aizzata dai Suicide,<br />
brusca auto-affermazione che comprime individuale e collettivo, particolare e indistinto (il pezzo è dedicato<br />
alla questione delle Isole Fær Øer e della Groenlandia, alla ricerca della totale indipendenza dalla Danimarca).<br />
E’ l’ennesima sfaccettatura di Björk, quanto mai inattesa, giacché neanche nei ben più scellerati contesti Tappi<br />
Tikarras, Kukl e Sugarcubes aveva toccato tanta asperità espressiva. Un album vivo insomma di un’artista che<br />
prova a mantenere alta la febbre, pasturando una gioiosa irrequietezza con la brama di nuove conquiste espres-<br />
sive. Il meglio è alle spalle, ma il presente non può ancora fare a meno di lei. (7.2/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 7
sa certamente, ma non sufficiente<br />
per un Vega salito sul ring politico.<br />
L’uomo lo afferma nelle interviste.<br />
Lo spara in un disco incompro-<br />
missorio, duro e essenziale, dove<br />
manco il tocco rockabilly di Rev è<br />
tollerato. Cinque anni per la rea-<br />
lizzazione e ora la soddisfazione:<br />
Station è incazzato proprio come lo<br />
era il primo lavoro dei Suicide che<br />
vomitava disprezzo per l’America<br />
post-Kennedy. Allora il sogno s’era<br />
appena infranto, ora la piega del<br />
reale è meno spaventosa soltanto<br />
per chi non la vuol vedere. Per chi<br />
vive dentro Matrix.<br />
Non è più tempo di fare il coglione<br />
con l’asta del microfono - non lo è<br />
almeno da American Supreme -, in<br />
queste undici coltellate allo stoma-<br />
co l’essenza della rabbia equivale<br />
ad un’essenza di verbo, ripetitiva<br />
(e senza eco). Con i fidi Perkin Bar-<br />
nes e Liz Lamere, il newyorchese<br />
tinge un incubo ermetico nel qua-<br />
le la strofa si fa contrappunto di<br />
basi cyberpunk (Crime Street Cree)<br />
come d’incalzi EBM (i Clock DVA in<br />
Station Station), morbosità techno-<br />
IDM (Psychopatha e quel fantastico<br />
ringhio!), hip-hop Weimar espres-<br />
sionista (Traceman con campiona-<br />
mento di Madonna!) o assalti Pro-<br />
digy tout court (Devastated).<br />
Niente bandanato baraccone da<br />
queste parti, niente schiamazzi,<br />
piuttosto talkin’ secco e statement<br />
feroci colati a freddo. Accade tutto<br />
ciò ed è impressionante sia per la<br />
qualità degli attacchi sonici sia per<br />
la forza politica espressa, soprat-<br />
tutto per quella. Mark Stewart si<br />
genufletterà al suo altare. Questa<br />
volta più che mai. (7.5/10).<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
Av e y Ta r e & K r í a B r e k k a n -<br />
P u l l h a i r R u b e y e ( P a w Tr a c k s /<br />
G o o d f e l l a s , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k - e x p e r i m e n t a l<br />
Come coppia è veramente carina,<br />
niente da dire: pallida ed esile lei,<br />
aplomb loser per lui. Roba che se<br />
li vede Calvin Klein li scrittura per<br />
la collezione prossima estiva. Po-<br />
trebbe essere un futuro sicuro, vi-<br />
sto che artisticamente ragionando,<br />
Avey Tare (metà degli Animal Col-<br />
lective) e Kría Brekkan (transfuga<br />
dai Múm) come binomio rasenta-<br />
no la noia. Un disco folk (?) tutto<br />
suonato in reverse, dalle chitarre<br />
al pianoforte; una vocina, quella di<br />
lei, da lolita esistenziale e un voci-<br />
no - indovinate di chi?! - esangue<br />
e alticcio. Li ha congiunti l’amore<br />
e li ha accolti New York. Nella vita<br />
privata che facciano pure sfracelli,<br />
ma musicalmente, riferendoci prin-<br />
cipalmente a lui: siamo seri, eh!<br />
(4.5/10)<br />
G i a n n i A v e l l a<br />
B a c h i D a P i e t r a – N o n I o<br />
( Wa l l a c e - D i e S c h a c h t e l /<br />
A u d i o g l o b e , m a r z o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : u r - b l u e s<br />
Un groppo in gola. Un sapore ama-<br />
roinbocca. Uno sbocco di sangue<br />
rappreso. Questo e tanto di più<br />
scatenano le visioni sinestetiche<br />
del duo Succi/Dorella. Musica nera<br />
come un dolore troppo intimamente<br />
conosciuto per rimanere ignorato.<br />
Un senso di vago malessere trop-<br />
po familiare per rimanere estra<strong>neo</strong><br />
troppo a lungo.<br />
Non Io è una discesa nei propri<br />
inferi lunga 10 tracce e 42 minu-<br />
ti, che attraversa territori da blues<br />
sbilenco, paesaggi a-ritmici, pa-<br />
norami grigiastri su cui rimbomba<br />
un sordo vibrare di corde in liber-<br />
tà. L’uomo nero ci mette il ritmo,<br />
mai come ora ancestrale, primi-<br />
tivo eppur mai brutale. L’uomo in<br />
blu inchiostro ci mette la faccia, la<br />
voce e il dolore in prima persona.<br />
L’uomo dai lunghi dreads percuote,<br />
colpisce, spazzola ora bluesy, ora<br />
vagamente trip-hop, scontornando<br />
le visioni del collega e ancoran-<br />
dole ad un tappeto (terreno prima<br />
ancora che) ritmico. L’uomo dalla<br />
penna di cristallo ci mette il blues<br />
e la passione, disegnando a base<br />
di suoni catacombali e lirismo sa-<br />
crificale il lancinante dolore della<br />
(sua e nostra) quotidianità. Bachi<br />
Da Pietra è la perfetta summa di<br />
due angoscianti ed angosciose<br />
esperienze umane e artistiche. Di<br />
Ovo/Dorella c’è il senso di clau-<br />
strofobica ed imminente apocalis-<br />
se; di Madrigali Magri/Succi la mi-<br />
nimale verbosità comunicativa che<br />
straccia orecchie e cuore. Di Bachi<br />
Da Pietra c’è la perfezione forma-<br />
le e sostanziale, raggiungibile solo<br />
attraverso un doloroso sacrificio:<br />
per vedere – Succi docet – bisogna<br />
perdere gli occhi. (8.0/10)<br />
S t e f a n o P i f f e r i<br />
B . C . C a m p l i g h t - B l i n k O f A<br />
N i h i l i s t ( O n e L i t t l e I n d i a n /<br />
G o o d f e l l a s , 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o p<br />
“Impara l’arte e mettila da parte”.<br />
Chissà quante volte deve esserse-<br />
lo ripetuto Brian Christinzio prima<br />
di incidere un disco come Blink Of<br />
A Nihilist. Prima di perdersi in una<br />
topografia musicale, che tra fal-<br />
setti e decorazioni di pianoforte,<br />
elaborati arrangiamenti d’archi e<br />
varietà stilistiche quasi stordenti,<br />
fa la corte ai Beach Boys di Pet<br />
Sounds, cita l’onnipresente Burt<br />
Bacharach, raccoglie l’eredità dei<br />
Love - se non nei suoni, di certo in<br />
alcuni passaggi melodici -, rimesta<br />
nel calderone del pop ricavandone,<br />
a seconda dei casi, umori magnilo-<br />
quenti e toni dimessi.<br />
Tipo strano il Nostro, capace di far-<br />
si ritrarre sulla pagina relativa di<br />
My Space circondato da un gruppo<br />
di Oompa Loompa e nel medesimo<br />
istante portato ad enfatizzare sul<br />
sito ufficiale un processo di scrit-<br />
tura che mira a creare il disco pop<br />
perfetto. Una silouette un po’ gof-<br />
fa e dal profilo rotondeggiante che<br />
racchiude creatività e stranezze,<br />
follia e lungimiranza, sussurri in-<br />
fantili e i desideri inespressi di un<br />
direttore d’orchestra col vizio del-<br />
l’eccesso. A titolo d’esempio basti<br />
Soy Tonto, in cui gli accenti suda-<br />
mericani posti in apertura trovano<br />
il modo di trasformarsi in pop dalle<br />
trame intricatissime; Lord I’ve Been<br />
On Fire, da cui emerge prepotente<br />
la lezione di Brian Wilson con in<br />
più un gusto piccante per il ritmo;
The 22 Skidoo, perennemente in<br />
bilico tra rivestimenti in damasco<br />
da club a luci rosse e Beatles. Psi-<br />
chedelia spicciola e backing vocals<br />
chiudono il cerchio (Officer Down e<br />
Grey Young Amelia), consegnando<br />
alla storia l’ennesimo crooner au-<br />
tarchico e particolarmente dotato -<br />
immaginate un Sondre Lerche con<br />
uno spiccato senso dell’umorismo<br />
e una fantasia fuori dall’ordinario<br />
- capace di complicarsi la vita con<br />
una musica domestica e inafferra-<br />
bile, grandiosa e particolareggiata.<br />
(7.4/10)<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
B e n + Ve s p e r - A l l T h i s C o u l d<br />
K i l l Yo u ( S o u n d F a m i l y r e / W i d e ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e<br />
Lo ammettiamo: di fronte all’esordio<br />
discografico di Ben + Vesper non<br />
sappiamo che pesci pigliare. Sarà<br />
forse per la musica o per quel non<br />
so che di snob che si coglie nell’an-<br />
datura svogliata della voce, per i<br />
suoni lontani o le melodie sganghe-<br />
rate, ma l’impatto iniziale ci lascia<br />
piuttosto confusi. Ci affidiamo allo-<br />
ra a note biografiche e credits, per<br />
scoprire che lui+lei hanno finito per<br />
collaborare quasi per caso - “Fate<br />
allowed them to tunnel right into<br />
each other, which gave them quite<br />
a start” scrivono sul sito ufficiale<br />
- e vantano tra gli ospiti di questo<br />
All This Could Kill You un certo<br />
Sufjan Stevens. Il che ci porta a so-<br />
spettare che il crooning annoiato di<br />
Ben - una sorta di via di mezzo tra<br />
un Jarvis Cocker con l’influenza<br />
e i Cousteau dopo una cura dima-<br />
grante - e il backing vocals di Ve-<br />
sper non siano soltanto quello sfo-<br />
go epidermico senza soluzione di<br />
continuità che sembravano di primo<br />
acchito. Scopriamo anche che a<br />
leggere un po’ più in profondità, il<br />
continuum indistinto che sullo sfon-<br />
do fa da contraltare alla voce - in<br />
primo piano ci sono costantemente<br />
batteria, chitarra e piano - è in real-<br />
tà frutto di un apporto strumentale<br />
degno dei migliori songwriters, nu-<br />
trito a suon di fisarmonica, archtop,<br />
basso, tastiere, marimba, banjo,<br />
oboe e armonica. Un’opulenza di<br />
dettagli mascherata da impeto lo-fi<br />
che ben si adatta ai tempi lenti del-<br />
la scrittura e serve a cesellare, a<br />
riempire gli spazi, a donare ai vari<br />
episodi le sfumature necessarie.<br />
Episodi che nello specifico giocano<br />
tra divertissement folk riconducibili<br />
a dei Kings Of Convenience tirati<br />
su a Big Mac e Pepsi (An Honest<br />
Bluff), intimismo depresso di scuo-<br />
la americana (Carnaval e Force<br />
Field), psichedelia acustica (8 Mo e<br />
Live Free Or Try) e atmosfere not-<br />
turne (Nite Walker). (6.9/10)<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
B l a c k E y e d D o g - L o v e I s A D o g<br />
F r o m H e l l ( G h o s t R e c o r d s /<br />
A u d i o g l o b e , 1 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : n e o f o l k<br />
Il suo pseudonimo è uguale al titolo<br />
di un brano di Nick Drake. E già<br />
questo gli fa guadagnare un punto<br />
nella graduatoria delle nostre prefe-<br />
renze. La sua voce ricorda quella di<br />
Devendra Banhart. E anche questo<br />
è un buon lubrificante per il giusto<br />
fluire delle nostre emozioni. E poi<br />
le sue sono belle canzoni. Che non<br />
è certo un aspetto da sottovalutare.<br />
Lui si chiama Fabio Parrinello. Il<br />
suo soprannome è Black Eyed Dog.<br />
Il suo disco s’intitola Love Is A<br />
Dog From Hell. Biografia curiosa,<br />
quella di Parrinello. Nato nel ’79 a<br />
Varese, passata l’adolescenza si<br />
trasferisce prima ad Olympia, nel-<br />
lo stato di Washington, dove vivrà<br />
per tre mesi, e poi a Los Angeles<br />
per altri quattro mesi. Poi il pas-<br />
saggio a Londra (quattro anni, du-<br />
rante i quali sarà attivo in diverse<br />
band alternative) ed infine lo sbar-<br />
co a Palermo. E tutti questi sposta-<br />
menti sembrano rispecchiarsi nelle<br />
tracce dell’album. Che, sia detto<br />
per inciso, suona maledettamente<br />
bene. Nel senso di armonico, ma-<br />
turo, adulto. Un prodotto che, per<br />
come è confezionato e per cosa ha<br />
confezionato, è solido e competiti-<br />
vo nei confronti dei suoi diretti con-<br />
correnti a stelle e strisce. La voce<br />
straordinaria di Parrinello s’inerpi-<br />
ca in soluzioni ora calde e raspo-<br />
se, ora tenui e sussurrate. Come<br />
un Tom Waits apparentemente pa-<br />
cificato con i propri demoni o un<br />
Bonnie “Prince” Billy dalle corde<br />
vocali ancora più commosse e com-<br />
moventi. Un <strong>neo</strong> folk dalla struttu-<br />
ra variabile - chitarra, pianoforte e<br />
sintetizzatore a contendersi l’onore<br />
di duettare con le strofe dei brani<br />
- e dalla forte intensità. Black Eyed<br />
Dog scava nei sentimenti e colpi-<br />
sce al cuore. E mentre evoca la sua<br />
personale luna rosa - Careless - noi<br />
ci struggiamo di emozioni e malin-<br />
conie. (7.2/10)<br />
M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />
B l a c k R e b e l M o t o r c y c l e C l u b –<br />
B a b y 8 1 ( R C A , 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : r o c k<br />
Scettici su ciò che fece dell’omoni-<br />
mo della ditta BRMC un caso disco-<br />
grafico (quasi un milione di copie<br />
vendute finora) e ottimisti riguar-<br />
do alla precedente prova dal gu-<br />
sto unplugged tra transizione USA<br />
e pop post-Creation, ci ritroviamo<br />
di fronte alla roccia Baby 81 con<br />
un certo timore. Per ben un’ora, il<br />
trio somministra un pop psych and<br />
roll corroborante senza rinunciare<br />
alla melodia, mantenendo coolness<br />
e quel tocco britannico da sem-<br />
pre caratteristica e boomerang del<br />
combo. Si attacca con Took Out A<br />
Loan che rallenta la tensione ritmi-<br />
ca delle nuove wave per un ringhio-<br />
so hard-blues accecato dal sole.<br />
Sul finale, la chitarra scatarra un<br />
riff matematico e arcigno mentre<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9
una seconda sguaina un acidissi-<br />
mo assolo psych. È la rotta gros-<br />
somodo dell’intero corso, un Howl<br />
solido e elettrificato senza febbri<br />
feedback che dovrebbe mantenere<br />
le promesse e che purtroppo reite-<br />
rerà alcuni difetti da sempre morbo<br />
del gruppo. Il principale è l’iniezio-<br />
ne di radiofonia standard (britanni-<br />
ca come americana) in un granito<br />
rock’n’roll rincorso come il Sacro<br />
Graal. Un’attitudine che convince<br />
a corrente alternata nelle pose in<br />
ballad dell’album (Window con ac-<br />
centi in falsetto vicini a Beatles e<br />
Oasis, e It’s Not What You Wanted<br />
con strascichi Jesus & Mary Chain<br />
acustici), ma che disgusta (sì, ad-<br />
dirittura) nei ritornelli sbarbini del-<br />
le tessiture più ringhiose a partire<br />
dal singolo Weapon Of Choice (in<br />
streaming gratuito sul sito ufficiale).<br />
Sono sempre stati furbi i Black Re-<br />
bel, furbi e sinceri appassionati del<br />
desert-psych. A molti perciò piace-<br />
rà il ringhio alla Nine Inch Nails di<br />
Cold Wind (un tantino troppo preve-<br />
dibile), come anche un classico in<br />
souplesse dei loro come 666 Con-<br />
ducer (automatico), idem per Need<br />
Some Air che esibisce chiacchiere<br />
e distintivo (quegli “Oh Oh Oh” tri-<br />
sti…). Se ci mettiamo il lentone à la<br />
U2 del caso, All You Do is Talk (non<br />
proprio un must), non è flop à la<br />
Take Them On, On Your Own ma ci<br />
si deve accontentare. (6.0/10)<br />
4 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
B r o n Y A u r -<br />
M i l l e n o v e c e n t o s e t t a n t a t r e<br />
( Wa l l a c e / A u d i o g l o b e , m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : a v a n t - r o c k<br />
Dopo una carriera oscillante tra la<br />
matrice hard Seventies degli esordi<br />
e le propulsioni avant-rock debitri-<br />
ci sia del free-jazz che di tempora-<br />
nee infatuazioni kraute, i tre Bron<br />
Y Aur giungono alla quadratura del<br />
proverbiale cerchio con un album<br />
in cui mostrano una capacità com-<br />
positiva al limite della perfezione.<br />
Il processo di scrittura ricorda per<br />
certi versi alcuni progetti zorniani,<br />
in cui però al posto dell’onnivora<br />
e schizofrenica frantumazione dei<br />
generi in microschegge di suono,<br />
c’è l’attenzione quasi maniacale<br />
per la forma canzone compiuta. Ne<br />
esce un disco totale, indescrivibile<br />
a parole. Quindici brani in cui tut-<br />
to trova spazio e soprattutto sen-<br />
so: ossature vocali a cappella simil<br />
Quartetto Cetra rotte da aggressive<br />
urla grind-hc (Black Samba), echi<br />
di un Santana in acido funk (Muds),<br />
frammenti di tango argentino à la<br />
Gotan Project che si sgretolano in<br />
drammaturgici assalti sonici (The<br />
Box), micropulsioni country-we-<br />
stern, frattali sonori sinistramente<br />
Starfuckers (Useless), schizzi di<br />
angosciante ambient isolazionista,<br />
crescendo kraut-rock, onomatopei-<br />
ci blues catacombali (Doom Blues),<br />
soavi quadretti di tenera psiche-<br />
delia (Mongrel Dog). La “trilogia<br />
dell’estate” (Era Luglio; Poi venne<br />
Agosto; E così passò l’estate) vero<br />
cuore pulsante del disco, pone i<br />
quattro all’altezza dei migliori A<br />
Short Apnea tra destrutturazioni<br />
blues, sabbiosi echi desertici, vuoti<br />
pneumatici. Millenovecentosettan-<br />
tatre offre, dunque, un ostico ma<br />
imprescindibile coacervo di suoni<br />
originati da decenni di ascolti fra i<br />
più svariati, che si coagulano in un<br />
corpus unico, portando il quartet-<br />
to ad una maturità che stupisce e<br />
risalta in crescendo ad ogni ascol-<br />
to. Riusciranno a fare di meglio?<br />
(7.8/10)<br />
S t e f a n o P i f f e r i<br />
G i o r g i o C a n a l i e R o s s o f u o c o -<br />
Tu t t i c o n t r o Tu t t i ( L a Te m p e s t a<br />
/ U n i v e r s a l , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : w a v e - r o c k<br />
Non cede di un millimetro lo sde-<br />
gno militante di Giorgio Canali. Nel<br />
quarto album in proprio, il secondo<br />
per la tempestosa etichetta dei Tre<br />
Allegri Ragazzi Morti, l’invettiva<br />
dei testi viaggia ancora a casset-<br />
ta sulla carrozza infernale, scudi-<br />
sciando a furia di mischie travol-<br />
genti - l’hard punk in odor di Bad<br />
Seeds di Alealè, riciclato dai tempi<br />
di Lazlotòz - abitate da anti-slogan<br />
beffardi e impietosi (vedi la para-<br />
frasi Gaber: “la libertà è partecipa-<br />
zione... agli utili”). Senza smettere<br />
tuttavia di scavare un solco netto<br />
e profondo rispetto a tanta musica<br />
“impegnata”, perché non ci sono ri-<br />
vendicazioni né grandi famiglie alle<br />
spalle, c’è solo il Canali e la sua<br />
amarezza, la rabbia senza sbocco,<br />
l’incazzatura letteraria. Il rocker è<br />
solo. O meglio un tutt’uno con la<br />
fedele combriccola, Marco, Luca e<br />
Claude, i Rossofuoco. Più qualche<br />
amico cui spedire caustiche carto-<br />
line. Qualcuno ancora vivo (come<br />
i Noir Désir, di cui riadatta in ita-<br />
liano la fosca tensione di Septem-<br />
bre en attendent, previa l’armonica<br />
di Bugo) e qualcuno un po’ meno<br />
(come i Gun Club, omaggiati nel-<br />
l’abrasiva Canzone della tolleranza<br />
e dell’amore universale). Robusto<br />
e urticante, è un sound che diresti<br />
figlio spurio d’un Lou Reed invi-<br />
schiato wave (gli arpeggi unghiosi<br />
di Verità, la verità, pezzo dedicato<br />
alla memoria di Federico Aldrovan-<br />
di, come tutto il disco) o di un Cave<br />
melmoso (la stradaiola Swiss Hide,<br />
che tra le altre cose osa recitare:<br />
“auspici del IV Reich, che con un<br />
Papa tedesco non si sa mai”), sal-<br />
vo sciorinare uggiose cupezze cir-<br />
ca The Cure (Non dormi) o scavarsi<br />
nel cuore una psichedelia accorata<br />
(Falso bolero). C’è sentore di pilota<br />
automatico solo nella peraltro mor-<br />
dace Comequandofuoripiove, men-<br />
tre la conclusiva Il ballo della tosse<br />
azzarda una obliqua rilettura/cari-<br />
catura di Águas de março in chiave<br />
beat che proprio non me l’aspet-<br />
tavo. Nelle note stampa Canali ci<br />
promette d’essere più tranquillo e<br />
solare in futuro. Certo. Come no.<br />
(6.9/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
C a p t a i n Q u e n t i n - C e r t e c o s e<br />
d e t e r m i n a t e ( L o Z i o R e c o r d s , 4<br />
m a r z o 2 0 0 7 )<br />
g e n e r e : m a t h p s y c h<br />
Captain Quentin, ex Malajerba,<br />
esistono da ottobre 2005. Il nome
C a s a – Vi t a P o l i t i c a D e i C a s a ( D i s c h i O b l i q u i , 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o s t - p r o g / a v a n t - w a v e<br />
È facile recensire i Casa citando gli Area. Fatto. Non se ne parli più. Ora<br />
ricominciamo.<br />
I Casa sono un gruppo veneto che opera performance linguistiche del<br />
tutto simili a dei witz, i motti di spirito freudiani, dove c’è accostamento e<br />
contrazione straniante. Un witz “esploso” è la conclusione della spiccata<br />
propensione minimalista di Tutti Impazziscono per i Tuoi Occhi di Cammel-<br />
lo ma Lui No (ovvero il titolo stesso del brano); lo è il refrain di Terry Riley<br />
(“I’m your fan but I’m not your friend”); sono sequenze di witz (generaliz-<br />
zando, con ampio margine di errore) le associazioni quasi libere – a farle<br />
libere sono capaci tutti, ma in Vita Politica Dei Casa c’è capacità di fare<br />
i “quasi” – che compongono i testi di tutte queste canzoni.<br />
Non parliamo di lyrics solo perché esse sono in italiano. Sono i Casa a<br />
turn it on<br />
spingere l’attenzione dell’ascoltatore sui barocchismi vocali, che scivolano su un tessuto ritmico e a volta ru-<br />
morista, sul contraltare musicale. Sono i testi a far parlare della musica del disco, perché si ha l’impressione di<br />
una ricerca di traduzione tra quel meccanismo linguistico sopra espresso e l’obliquità musicale di questo disco.<br />
Ma la traduzione non avviene nella superficie di ascolto - che per questo è vagamente dissonante - ma altrove,<br />
chissà dove.<br />
Si ascolti poi Balletto Automatico (che “è per Erik Satie”) - un excursus tra almeno tre temi, tutti efficaci. Se<br />
i connettivi sono di sapore prog-, la disillusione della connessione è post-. C’è un lavoro sul riff tradizionale,<br />
pur nello sviluppo progressivo dei brani (o almeno riportabile agli anni ’70, se in Mozo, come a me pare, c’è il<br />
Faust’o di Suicidio), che fa pensare a presunti ascolti post- dei musicisti. Ma attenzione. L’obliquità dei riff che<br />
i Casa rivendicano per la propria musica è sì per spirito non troppo lontana da Tweez – ma i riferimenti non sono<br />
evidentemente gli stessi. Ci sono le avanguardie strombazzate ai quattro venti. E, giudicate voi se per fortuna o<br />
per peccato, la difficoltà di fruizione (che alle avanguardie a volte si attacca come il liquirone ai denti) è rimasta<br />
a casa. (7.3/10)<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 4
è una crasi tra Captain Beefheart<br />
e Quentin Compson, personaggio<br />
de L’urlo e il furore di Faulkner. La<br />
loro musica si presenta come un<br />
tentativo di farmi cambiare idea cir-<br />
ca l’esaurimento - storico/estetico<br />
- del post-rock. Ovviamente non ci<br />
riescono, però alla fine vincono la<br />
scommessa, evitano la tipica irre-<br />
gimentazione da figliastri di June<br />
Of’44-Tortoise-Slint per imbastire<br />
trame math spasmodiche, duttili,<br />
in perenne e progressivo frasta-<br />
gliamento. Tanto da costeggiare<br />
un’acidità delirante e arcigna (Le<br />
occasioni son macchine rotte, con<br />
echi fuzzati dei primi Floyd e dei<br />
Van Der Graf Generator), rutilanti<br />
trasfigurazioni blues-rock (la fra-<br />
grante e lunare La bottiglia viola,<br />
simile a certi Bron Y Aur) e trepide<br />
ostinazioni soul-funk (tra lo star-<br />
nazzare del sax e la chitarra frasta-<br />
gliata di Dilliman). Disarticolazioni<br />
ad elastico, tastiere spacey che ri-<br />
magliano i fraseggi chiostrati delle<br />
chitarre, tamburi a sprimacciare le<br />
ritmiche convulse. Un’apparecchia-<br />
tura che non lascia riferimenti e ti<br />
prepara ai piatti più sorprendenti,<br />
così che l’alternarsi tra cavalcata<br />
kraut e torvo funk-blues di Disco-<br />
post Inc può sfociare in una psych<br />
robotica (immaginate i RUNI che<br />
grattano la pancia al Brian Eno più<br />
cupo), proponendosi come la por-<br />
tata più gustosa. Senza scordare il<br />
valzer sdrucciolevole e adrenalinico<br />
di Rullante per un vicino, ispirato a<br />
certi menù cinematici e febbrili Jim<br />
O’Rourke. Intensi, sfrenati e furio-<br />
si, tanto per non tradire il nome.<br />
Bravi. (7.1/10)<br />
4 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
Colleen - Les Ondes Silencieuses<br />
( L e a f / Wide, 21 maggio 2007)<br />
G e n e r e : a v a n t f o l k<br />
Ci mette un po’ per farsi apprezza-<br />
re il nuovo lavoro di Colleen. Con<br />
Les Ondes Silencieuses la Nostra<br />
abbandona l’uso di campionamenti<br />
e loop d’elettronica e sembra vo-<br />
lersi allontanare a lunghe falcate<br />
dal mare magnum di incontamina-<br />
te armonie che aveva creato con i<br />
suoi primi due capolavori. Il suono<br />
di questo disco è ruvido e crudo,<br />
deputato quasi esclusivamente al-<br />
l’amata viola da gamba, con l’inser-<br />
to occasionale di clarinetto, cristal-<br />
li, chitarra acustica e spinetta, un<br />
altro strumento desueto di origine<br />
barocca, di cui si è innamorata. Il<br />
risultato è molto più austero e ri-<br />
gido, come si capisce immediata-<br />
mente dall’iniziale This Place In<br />
Time. Anche in sede di songwri-<br />
ting pare che siano cambiate molte<br />
cose e si ceda molto più facilmente<br />
all’improvvisazione. Ma la Colleen<br />
che amiamo, quella che fa fiorire<br />
magicamente le armonie dall’inca-<br />
stro sorprendente di note e suoni<br />
sembra essersi solo nascosta nella<br />
ricerca formale di strumenti e sono-<br />
rità. Eccola apparire nella bellissi-<br />
ma parte centrale di Le Labyrinthe,<br />
costruita integralmente suonando<br />
la spinetta, con quel suono arcano<br />
e arcaico che sa di clavicembalo<br />
settecentesco. Eccola lasciarsi an-<br />
dare alle dolci meditazioni di Blue<br />
Sands, con gli arpeggi che si du-<br />
plicano, triplicano, riverberano. Ec-<br />
cola abbandonarsi alle mareggiate<br />
notturne di Sea Of Tranquility, con<br />
le note pizzicate lentamente una<br />
ad una, come a contornare un cor-<br />
po tra le onde in attesa che albeg-<br />
gi. Gli episodi più severi e diffici-<br />
li sono quelli dove Cecile tende a<br />
nascondere l’armonia sotto il peso<br />
della viola da gamba, come in Past<br />
The Long Black Land e nella title<br />
track, dove cerca di rivivere come<br />
un esorcismo l’attimo in cui fu ab-<br />
bagliata da Marin Marais, vista nel<br />
film Tous Les Matins Du Monde.<br />
Echoes And Coral e Le Bateau sono<br />
invece gli episodi dove cerca di ag-<br />
grapparsi più saldamente all’anco-<br />
ra dell’avanguardia. In definitiva,<br />
un disco diverso, dove Colleen si<br />
concentra sulle singole note, anzi-<br />
ché fonderle in un unico umore in-<br />
distinto come faceva in The Golden<br />
Morning Breaks. Fatta questa di-<br />
stinzione, sottolineato che Les On-<br />
des Silencieuses è sicuramente un<br />
lavoro di più difficile assimilazione,<br />
quello che resta è che Colleen,<br />
come artista e musicista, continua<br />
indisturbata a viaggiare anni luce<br />
davanti agli altri. (7.2/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
C o r n e l i u s - S e n s u o u s ( Wa r n e r<br />
J a p a n , o t t o b r e 2 0 0 6 - E v e r l o v i n g ,<br />
2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : g l o c a l p o p<br />
Tre album in dieci anni (più due<br />
usciti sono in patria). D’accordo,<br />
non sarà molto prolifico Keigo<br />
Oyamada, meglio conosciuto come<br />
Cornelius, ma volete mettere le<br />
perle visionarie lanciate in questi<br />
anni con Fantasma prima e Point<br />
dopo? Senza contare la miriade di<br />
collaborazioni intraprese con con-<br />
nazionali (Sakamoto, Masakatsu)<br />
e non (Blur, U.N.K.L.E.). Non c’è<br />
quindi da girarci troppo attorno: un<br />
delirio di fantasia, un eclettismo<br />
vivace e sincero, ingenuo come<br />
un bambino che pasticci con piat-<br />
ti e bicchieri. Serie tv, psichedelia,<br />
Brasile, leggendario pop beatlesia-<br />
no, hard rock e punk, cut’n’past,<br />
field recordings, orchestre e video-<br />
game. Insomma, questo ennesimo<br />
scarabocchio made in Japan non<br />
lascia fuori proprio nulla, tritando<br />
e risputando fuori perfetti gingil-<br />
li glocal pop. Definito da più parti<br />
come il Beck della postmoderni-<br />
tà, con l’ultimo Sensuous compie<br />
il giusto step in avanti rispetto ai<br />
precedenti lavori: organico nel suo<br />
giocare con generi e stili (il metal<br />
vestito di attitudine punk di Gum,<br />
lo standard jazz di Breezin’, porta-<br />
to al successo da Gabor Szabo e<br />
George Benson, spruzzato di syn-<br />
th), coerente nel suo confrontarsi<br />
col passato (si ascolti ad esempio<br />
Fit Song, con quella sua tipica voce<br />
robotica a decantare singole parole<br />
come “just” o “fit”, in un profluvio di<br />
synth e chitarre), ma con lo sguar-<br />
do sempre attento a cogliere il con-<br />
tempora<strong>neo</strong> (ce li vedreste i Kraf-<br />
twerk con Michael Jackson a rifare<br />
Billie Jean? Beh, Beep It potrebbe<br />
essere una realistica ipotesi). Non<br />
mancano poi quelle delizie per cui
alla fine non ti rimane che perdere<br />
la testa per lo stralunato Oyamada:<br />
l’electro acustico pop di Music (con<br />
cui, ci possiamo scommettere, bis-<br />
serà il successo ottenuto con Drop)<br />
e le nostalgiche atmosfere cinema-<br />
tografiche della title track (chitarra<br />
decompressa e campanelli prima-<br />
verili) e di Omstart, in coppia con il<br />
duo Glambek Bøe/Øye (e quanto ci<br />
piacerebbe che i due regnati suo-<br />
nassero così…). Sarà mica troppo<br />
per un unico disco? Forse. Ma il<br />
marchingegno è talmente oliato da<br />
non risultare strabordante o confu-<br />
sionario. E il bello è che Cornelius<br />
fa tutto da solo. (7.2/10)<br />
V a l e n t i n a C a s s a n o<br />
D e a d b u r g e r - C ’ è a n c o r a v i t a<br />
s u M a r t e ( G o o d f e l l a s , 1 6 a p r i l e<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e t t r o - r o c k<br />
Dovessimo descrivere le coordina-<br />
te entro cui la musica dei fiorenti-<br />
ni Deadburger si muove oggi, uti-<br />
lizzeremmo ancora i termini di cui<br />
ci eravamo serviti per S.t.O.r.1.e<br />
(Wot4, 2003): elettrorock, post-<br />
punk, industrial; e ancora rock in-<br />
dipendente italiano, ironia, critica<br />
sociale, estro ed eclettismo colto<br />
sono tutte dizioni valide per fornire<br />
una guida a beneficio dei perplessi<br />
che si accostino impreparati al pri-<br />
mo ascolto delle ventidue tracce di<br />
C’è ancora vita su Marte - e piace-<br />
volmente storditi, o temerariamente<br />
affascinati, al secondo.<br />
Ma la faccenda, in quest’ultimo la-<br />
voro, si è ulteriormente complicata:<br />
si conceda una scorta pur rapida al<br />
vademecum che, sulla pagina web<br />
del gruppo, di ogni singolo brano<br />
riferisce dettagliatamente genesi,<br />
sviluppo e finalità estetiche (http://<br />
w w w. d e a d b u r g e r. i t / d o w n l o a d / m a r -<br />
t e / d e a d b u r g e r _ m a r t e _ a l b u m . p d f ) :<br />
non si può che rimanere sorpresi<br />
dall’attività proteiforme di una fa-<br />
melica curiosità intellettuale - se-<br />
conda forse solo a quella di (etre)<br />
Salvatore Borrelli - da cui tutto<br />
prende vita. Musiche e testi, suo-<br />
ni ed umori che a qualcuno, c’è da<br />
scommetterci, sembreranno la spia<br />
di un confuso girare a vuoto di na-<br />
tura eclettica e citazionista.<br />
Ma c’è un filo rosso che lega l’an-<br />
themico synth-rock di Come ho fat-<br />
to a finire in questo deserto al fan-<br />
taduetto tra il sassofono di Jacopo<br />
Andreini e la Sun Ra Arkestra - i<br />
campioni di suono della Arkestra<br />
- di Magnesio: la passione sempre<br />
più tangibile per sonorità jazz (Un<br />
luogo dove non sono mai stato) e<br />
l’utilizzo delle tecniche compositi-<br />
ve delle avanguardie (Amber, Sed-<br />
na), il fascino per il calembour ed il<br />
non-sense, retaggio dell’influenza<br />
di certo rock demenziale italiano<br />
(I veri uomini stanno a Chieti, An-<br />
che i bocconiani hanno cominciato<br />
da piccoli, S.B.S.) e le citazioni di<br />
Nanni Balestrini, Michel Houllebe-<br />
cq, Ben Vautier, Giuliano Mesa. C’è<br />
un filo rosso che lega le ventidue<br />
tracce di C’è ancora vita su Marte<br />
ed è compito di un ascoltatore non<br />
preoccupato, che voglia smarrirsi<br />
tra i rivoli di infinite conversazioni,<br />
coglierlo. (6.5/10)<br />
V i n c e n z o S a n t a r c a n g e l o<br />
Defectors – Bruised And Satisfied<br />
(Bad Afro / Wide, marzo 2007)<br />
G e n e r e : h o r r o r - p u n k - r o c k<br />
Che ci sia del marcio in Danimarca<br />
lo si può constatare, senza scomo-<br />
dare lontane reminiscenze lette-<br />
rarie, semplicemente ascoltando<br />
Bruised And Satisfied il nuovo<br />
album di questo oscuro gruppo da-<br />
nese.<br />
Defectors - quintetto dedito ad una<br />
sorta di horror garage-punk perver-<br />
so e melodico - hanno idealmente<br />
diviso in due parti l’album come<br />
fosse un vinile, ma anche come le<br />
due anime del gruppo. Nel “lato A”<br />
a prendere il sopravvento è l’anima<br />
diabolicamente horror, grazie ad un<br />
abbondante uso della strumenta-<br />
zione vintage (organo e farfisa) che<br />
disegna atmosfere lugubri e gothic<br />
tanto che sembra di ascoltare dei<br />
Birthday Party direttamente usci-<br />
ti da un live all’inferno (Dancing<br />
Ghouls) o una versione ancor più<br />
vampiresca dei Fuzztones (Re-<br />
surrection). Insomma musica per<br />
zombie assetati di sangue che non<br />
stonerebbe affatto in un b-movie<br />
splatter o come soundtrack dei film<br />
di Jess Franco. Nel “lato B” invece<br />
emerge l’anima più grezza e sixties<br />
garage oriented sulla falsariga di<br />
quel suono truce, sboccato e slab-<br />
brato che unisce Sonics e Grave-<br />
digger V ai Dwarves passando per<br />
le sonorità In The Red. Pezzi da<br />
due minuti in cui la batteria è un<br />
martello e le chitarre si fanno in-<br />
candescenti (You Better), pop-punk<br />
palindromo e assassino (Love Is<br />
Evol), mid-tempo r ’n’r dei primordi<br />
(Baby When You’re Gone). Insom-<br />
ma, excellent music for driving,<br />
come essi stessi suggeriscono in<br />
copertina. (6.5/10)<br />
S t e f a n o P i f f e r i<br />
D J J a z z y J e f f – T h e R e t u r n<br />
O f T h e M a g n i f i c e n t ( B B E /<br />
A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : h i p h o p o l d s c h o o l<br />
In principio fu Dj Jazzy Jeff & The<br />
Fresh Prince ed il successo plane-<br />
tario di You Are A Dj I’m A Rap-<br />
per (vero capostipite del rap più<br />
disimpegnato e colorato) e della<br />
sit com Il Principe di Bel Air. Poi,<br />
Will Smith (The Fresh Prince) è di-<br />
ventata la superstar hollywoodiana<br />
che tutti conosciamo, la coppia si è<br />
sciolta ed il buon Jeff se n’è rima-<br />
sto da solo a sguazzare tra under-<br />
ground e mainstream dividendosi<br />
tra produzioni, anche per lo stesso<br />
Smith, remix, compilation e dischi<br />
solisti. Inutile dire che ci si trova<br />
di fronte ad un peso massimo del-<br />
la categoria, stimato e rispettato in<br />
ogni angolo del globo, come testi-<br />
monia la miriade di ospiti convocati<br />
per questa seconda prova sulla lun-<br />
ga distanza licenziata con il mar-<br />
chio della BBE. Da CL Smooth a<br />
Pos dei De La Soul passando il ve-<br />
terano Big Daddy Kane e l’inegua-<br />
gliabile Method Man (ammaliante<br />
la prova offerta in Hold It Down)<br />
The Return Of The Magnificent è<br />
un susseguirsi di buone vibrazioni<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 4
old school che profumano di jazz<br />
e soul, fanno dello scratch un’ar-<br />
te ineguagliabile e puntano tutto<br />
il contante sul ballo e l’intratteni-<br />
mento, impartendo una lezione di<br />
stile ai tanti brutti ceffi che oggi si<br />
aggirano impuniti nella scena divi-<br />
dendosi tra denti d’oro e puttanelle<br />
sculettanti. La classe, signori, la<br />
classe. (7.0/10)<br />
4 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
S t e f a n o R e n z i<br />
D o g D a y – N i g h t G r o u p ( To m l a b<br />
/ A u d i o g l o b e , a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e<br />
Qualcuno, ascoltando il disco dei<br />
Dog Day, potrebbe quantomeno<br />
storcere il naso. Quel look così<br />
scombinato – ad arte? – su quei visi<br />
così pulitini. Quelle melodie così<br />
orecchiabili su un approccio da hard<br />
discount dell’indie rock. Una roba<br />
da far venire pruriti auricolari. Ma<br />
non si tratta di un prodotto pensato<br />
per piacere a tutti i costi. Alla fine,<br />
Night Group suona vero e intenso.<br />
Merito della formula adottata, che<br />
nasce negli anni Ottanta e si stabi-<br />
lisce alle soglie del Duemila, dalle<br />
parti della New York descritta dai<br />
Sonic Youth di Murray Street. Gli<br />
echi di certo post punk britannico<br />
sono allora nel basso percussivo<br />
di End Of The World, mentre nella<br />
seguente Oh Dead Life assistiamo<br />
ad una nuova riconfigurazione del<br />
suono dei primissimi R.E.M., che<br />
alla lunga si rivelano qualcosa di<br />
più di uno sporadico punto di rife-<br />
rimento stilistico. Alcuni richiami<br />
grunge – benché dalle distorsioni<br />
appositamente disinnescate – si<br />
trovano nei giri di chitarra di Vow,<br />
così come non manca il più clas-<br />
sico – e coinvolgente – dei pezzi<br />
indie rock, Sleeping, Waiting. La<br />
band non sorprende e non innova.<br />
Ma scrive canzoni che sono fre-<br />
sche, orecchiabili e piacevoli. Con<br />
gli anni potrebbe affinare i propri<br />
pregi e, contemporaneamente, di-<br />
staccarsi definitivamente dai propri<br />
padri putativi. (6.5/10)<br />
M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />
D u n g e n - Ti o B i t a r ( S u b l i m i n a l<br />
S o u n d s / M e g a r o c k / C l e a r S p o t ,<br />
3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p s i c h e d e l i a<br />
Per chi è rimasto stregato dalle at-<br />
mosfere magiche del precedente Ta<br />
Det Lugnt, l’uscita di Tio Bitar non<br />
potrà che essere un appuntamento<br />
segnato in rosso sul calendario da<br />
diversi mesi. È un piacere ritrova-<br />
re le creature del bosco incantato<br />
elettrificato che popolano l’imma-<br />
ginario di Gustav Ejstes. Essere<br />
trascinati dentro la tana da un In-<br />
tro strumentale, che è un tripudio<br />
di chitarre distorte e fiati, per as-<br />
sistere alla messa in scena di uno<br />
spettacolo dal sapore fricchettone<br />
ma da prendere tremendamente sul<br />
serio.<br />
Gli arrangiamenti, tradizionalmen-<br />
te tutt’altro che castigati, si sono<br />
ulteriormente ispessiti, complice<br />
una vena prog che allarga il proprio<br />
campo d’azione a discapito di quel-<br />
la pop, per la felicità di fiati, tastie-<br />
re e scampanellii assortiti, dando<br />
vita ad un’opera dalle sfaccettature<br />
molteplici.<br />
Si ascolti il folk ampolloso di Fa-<br />
milj e il suo contrario Mon Amour,<br />
un piccolo gioiello che parte ga-<br />
rage (Who Sixties) e conclude in<br />
una jam incendiaria, con chitarra,<br />
basso e batteria a fare ciò per cui<br />
sono stati concepiti. O ancora il riff<br />
di basso elementare ma ottundente<br />
di Ett Skäl Att Trias, che spicca in<br />
mezzo a quadretti dal tocco jazzy.<br />
Un lavoro che è forse più “disco”<br />
del precedente ma che alla lunga,<br />
nel confronto, finisce per perdere<br />
qualcosa in freschezza, anche nel<br />
tiro dei singoli pezzi se considerati<br />
separatamente. Comunque buonis-<br />
simo. (7.0/10)<br />
G i a n l u c a Ta l i a<br />
E l e c t r e l a n e – N o S h o u t s , N o<br />
C a l l s ( To o P u r e / S e l f , m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e r o c k / p o p<br />
C’era molta attesa per questo nuo-<br />
vo album in studio delle inglesi<br />
Electrelane, attese al varco dopo<br />
le stupefacenti prove di The Power<br />
Out ed Axes che ne avevano con-<br />
solidato lo status di band culto della<br />
moderna geografia musicale inter-<br />
nazionale. Un’aspettativa resa an-<br />
cora più vibrante dall’incertezza su<br />
quello che sarebbe stato il conte-<br />
nuto di questo No Shouts, No Cal-<br />
ls avendoci, le ragazze di Brighton,<br />
abituati a repentini quanto impossi-<br />
bili cambi di direzione. Gia dall’ini-<br />
ziale The Greater Times, però, si<br />
capisce che questo lavoro parla il<br />
verbo del pop, angolare, sofistica-<br />
to, emancipato, brillante, perspica-<br />
ce addirittura contempora<strong>neo</strong> nella<br />
sua classicità sospesa tra (post)<br />
kraut rock e modernariato Stereo-<br />
lab ma comunque lontano anni luce<br />
dalle improvvisazioni in presa di-<br />
retta del precedente Axes. Canzoni<br />
di una lievità e di una immediatez-<br />
za sorprendenti, come dimostrano<br />
le ninne nanna elettrificate di Cut<br />
And Run e At Sea oppure le ombre<br />
degli Yo La Tengo evocate in After<br />
The Call e tra gli arrangiamenti di<br />
archi di In Berlin preziosi esempi<br />
di come si possa suonare derivativi<br />
senza perdere in lucidità e perso-<br />
nalità. (7.2/10)<br />
S t e f a n o R e n z i<br />
E l - p – I ’ l l S l e e p W h e n Yo u ’ r e<br />
D e a d ( D e f J u x / G o o d f e l l a s , 2 0<br />
m a r z o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e c t r o - h i p h o p<br />
Sono stati ben quattro gli anni di<br />
attesa per il secondo, fatidico se-<br />
condo album di una delle più inte-<br />
ressanti promesse del panorama<br />
electro-hip hop. Quattro anni in cui
D a n D e a c o n – S p i d e r m a n O f T h e R i n g s ( C a r p a r k / G o o d f e l l a s , 1 4<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e t t r o n i c a<br />
La conferma che aspettavamo da Dan Deacon è arrivata, si chiama Spi-<br />
derman Of The Rings, ed esordisce con un manifesto dello stile dell’au-<br />
tore, cartoonistico e lievemente inquietante allo stesso tempo (Wooody<br />
Woodpecker). Si potrebbe generalizzare parlando di “future shock”, specie<br />
per quelle vocine acide (Residents-iane) e alcuni atteggiamenti alla Devo.<br />
Si potrebbe poi andare a guardare l’uso di strumentazioni vintage e al<br />
piano di lavoro minimale di Dan per accostarlo alla nostrana Miss Vio-<br />
letta Beauregarde. Ma Dan Deacon – come abbiamo preannunciato nello<br />
speciale a lui dedicato in questo numero di SentireAscoltare – è laterale<br />
agli ascolti di un indierocker. Va di lato e a volte li supera fatalmente (si-<br />
curamente rispetto all’ultimo riferimento citato). In un certo senso è più<br />
turn it on<br />
giusto in questo caso leggere quello che si sente senza guardare tra le righe, come insegna lui stesso; è così<br />
che notiamo uno stupefacente avvicinamento della stratificazione di Philip Glass e soci (elemento da sempre pre-<br />
sente in Deacon) ai crescendo house e agli accenni techno delle sparate batteristiche digital hard-core. Succede<br />
insomma che queste composizioni abbordabili ma complesse trovino dei concatenamenti (degli anelli mancanti<br />
plurimi?) tra i motivi dei carillon, i cori fanciulleschi, le avanguardie minimaliste e le varie danze ultramoderne. Il<br />
che produce commistioni inedite, ovvero carillon paranoici, minimalismo da ballo e techno “da ascoltare”, renden-<br />
do Spiderman Of The Rings un disco che può creare proselitismo. A volte Deacon esagera (Jimmy Joe Roche),<br />
se si fa prendere la mano. Il punto, in “canzoni” come queste, una volta oleate le tecniche, è quando fermarsi.<br />
Noi ci facciamo prendere la mano con lui, e proponiamo un (7.5/10).<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 4
è successo tutto e il contrario di<br />
tutto in questo campo, così in fer-<br />
mento dopo i fasti e la decadenza<br />
di label-simbolo come la Anticon.<br />
Quattro anni durante i quali l’hip<br />
hop ha cambiato pelle e ha vesti-<br />
to i panni del pop, dell’elettronica,<br />
del rock, diventando un linguaggio<br />
da trasformare, uno strumento di<br />
lavoro per gli sperimentatori del-<br />
la musica. El-p è sempre stato fra<br />
questi, sin dai suoi esordi un esem-<br />
pio da seguire attentamente. Molto<br />
attento a salvaguardare l’identità<br />
di fondo del rap, il bianchissimo dj<br />
di Brooklyn (con l’apporto niente-<br />
popodimeno che del signor Trent<br />
Reznor), in questo suo secondo<br />
lavoro in studio, è riuscito, a diffe-<br />
renza di tanti veterani del genere,<br />
ad operare una perfetta sintesi tra<br />
il vecchio e il nuovo, tra le radici<br />
bass&rhymes delle origini e le nuo-<br />
ve esigenze espressive dell’elettro-<br />
nica. In più, I’ll Sleep When You’re<br />
Dead (simpatico capovolgimento di<br />
un’espressione inneggiante al di-<br />
vertimento ad oltranza, “I’ll sleep<br />
when I’m dead”) porta con sé l’im-<br />
portante conferma di una tendenza<br />
del nuovo avant-hop, che potrem-<br />
mo definire “doom”. La scelta di rit-<br />
mi lenti, filtrata da anni di trip hop,<br />
l’uso di accordi minori stesi a tap-<br />
peto sulla base ritmica e il rapping<br />
incalzante e freddo, compongono un<br />
sound che si ricollega direttamente<br />
alle recenti scelte musicali di band<br />
come Coaxial e Dalek, legandosi<br />
ad un filo che conduce dritto all’atti-<br />
tudine più dark e crepuscolare dell’<br />
hip hop, all’aspetto più cupo della<br />
musica afroamericana del nuovo<br />
millennio. The League Of Extraor-<br />
dinary Nobodies è forse l’esempio<br />
4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
più lampante di questo approccio<br />
che, con differenti gradi d’intensità,<br />
si diffonde a macchia per tutto l’al-<br />
bum e ne impregna alcuni momenti<br />
in maniera particolare (Tasmanian<br />
Pain Coaster; Habeas Corpses;<br />
Dear Sirs). L’originalità e l’ingegno<br />
di El-p risiedono nella sua partico-<br />
lare maniera di amalgamare queste<br />
scelte estetiche con le necessità<br />
ritmiche dell’hip hop radicale (quel-<br />
lo “nero” e senza compromessi,<br />
per intenderci), lasciando sempre<br />
trapelare un sapore old skool a ri-<br />
cordarci continuamente che, in fin<br />
dei conti, è proprio di quello che<br />
stiamo parlando. E’ l’anima dell’hip<br />
hop (come un giorno fu, o magari<br />
lo è ancora, quella del blues) che<br />
aleggia nel pop à la Why? di The<br />
Overly Dramatic Truth, nel funky di<br />
Flyentology e Up All Night o nello<br />
stile vintage di No Kings, EMG e<br />
Run The Numbers, che ripescano<br />
Beastie Boys, Run DMC e Public<br />
Enemy degli esordi e li arricchisco-<br />
no dei colori dell’elettronica. In de-<br />
finitiva, se esistesse un fantomatico<br />
“parlamento stilistico dell’hip hop”,<br />
che disegnasse la collocazione dei<br />
musicisti rispetto alla tradizione<br />
di questa musica e al rapporto tra<br />
conservazione e trasformazione, il<br />
nostro El-p si collocherebbe più a<br />
destra di tanti sperimentatori più<br />
audaci (cLOUDDEAD, Kill The Vul-<br />
tures e via dicendo), preoccupato<br />
com’è al suo rapporto con le radici.<br />
Ma per fortuna non siamo in poli-<br />
tica e, in più, se fossero tutti così<br />
i conservatori, sarebbero molto più<br />
progressisti di tanti che si presu-<br />
mono tali, tanto che verrebbe quasi<br />
voglia di votare a destra… (7.2/10)<br />
D a n i e l e F o l l e r o<br />
F i s h O f A p r i l - Vi o l e t P h a r m a c y<br />
( S e a h o r s e / G o o d f e l l a s , 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : n e w w a v e<br />
Cos’è questa Berlino primi anni 80<br />
che esce dalle casse? Riducendo<br />
il tutto ai minimi termini e consi-<br />
derando le assonanze cromatiche,<br />
verrebbe da chiamarla new wave,<br />
anche se la media dei suoni conte-<br />
nuti nel disco e il sonno agitato che<br />
li attraversa suggerirebbe immagini<br />
di tutt’altra specie. Nello specifico<br />
Ian Curtis imbottito di oppiacei,<br />
Lou Reed stretto in qualche lucido<br />
abitino in latex, i Pavement hea-<br />
dliner a un funerale (Namid Grey),<br />
Aidan Moffat intento a lucidare le<br />
scarpe a punta del Nick Cave pre-<br />
Bad Seeds (Lautarj e Rockmaster).<br />
Musica torbida e scheletrica con<br />
cui non è facile scendere a patti,<br />
un rock cupo e visionario ricco di<br />
entusiasmi al Valium, partorito sot-<br />
to la Cortina di Ferro (Distant Way),<br />
scosso da un battere inespressivo,<br />
martoriato da un cantato senza<br />
grazia. Sgrammaticato e lancinante<br />
come soltanto alcune opere prime<br />
sanno essere, Violet Pharmacy de-<br />
scrive il mondo a tinte forti di Ales-<br />
sio Pinto, “giornalista, scrittore<br />
accanito scommettitore, trascorsi<br />
in galera e poco altro”. Un mondo<br />
in cui il cuore diventa un percuote-<br />
re lontano ma pressante di tambu-<br />
ri, l’anima una chitarra affascinata<br />
dal lato oscuro della forza, i nervi<br />
pulsioni indecifrabili e filastrocche<br />
ipnotiche, il cervello un basso che<br />
gira in tondo. Il tutto sparato lì, di-<br />
sadorno, essenziale, quasi intro-<br />
spettivo, senza fondamenta certe<br />
né riparo sulla testa. Uno scenario<br />
urbano squallido e puzzolente che<br />
all’inizio spaventa, ma che col tra-<br />
scorrere dei minuti viene quasi da<br />
chiamare “casa”. (6.8/10)<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
G a n g G a n g D a n c e - R e t i n a<br />
R i d d i m ( S o c i a l R e g i s t r y / W i d e ,<br />
2 2 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : a r t r o c k c o l l a g e<br />
Sembra che arriverà presto un nuo-<br />
vo parto ufficiale dei Gang Gang<br />
Dance. Per ingannare l’attesa la<br />
strambissima compagine newyorke-<br />
se si ripresenta sugli scaffali dei<br />
negozi con questo Retina Riddim,
il loro primo dvd vero e proprio.<br />
Per metà si tratta di un classico<br />
tour movie, con riprese della band<br />
dal vivo e momenti di scazzo on<br />
the road, concepito durante il tour<br />
americano e australiano del 2004<br />
da un certo Oliver Payne (un amico<br />
della band), per l’altra metà è un<br />
collage audio/video presuntuosa-<br />
mente artsy che vorrebbe richiama-<br />
re la no wave e il cinema sperimen-<br />
tale in super8, quello di Brackhage<br />
soprattutto. Il deus ex machina di<br />
tutta l’operazione è Brian DeGraw,<br />
che quando non è impegnato a con-<br />
cepire la garbage music percussi-<br />
va della band, si diletta nella video<br />
art. Chi ha familiarità con i suoni<br />
dei Gang Gang Dance può immagi-<br />
nare l’effetto di sballo allucinatorio<br />
che emerge da questo progetto. De-<br />
Graw mette mano prima alla traccia<br />
audio, andando a ripescare i fram-<br />
menti più disparati dall’archivio<br />
dei demo e dei nastri perduti della<br />
band, rimettendo tutto in circolo,<br />
con spezzoni di concerti, interviste,<br />
schegge dei passati dischi, misce-<br />
lando poi questo blob schizoide con<br />
la classica tecnica del cut’n’paste.<br />
Segue lo stesso procedimento per<br />
la parte video, cercando di trattare<br />
le immagini in sincrono con l’audio<br />
e ottenendo un perfetto compendio<br />
audio/visivo per il profilo weird del-<br />
la band. Certo… definire “art film”,<br />
un disordinato pastiche di suoni e<br />
immagini con effetti, spesso, da<br />
videocamera cheap, mi sembra un<br />
po’ grossa, ma documenti del gene-<br />
re vanno presi come la testimonian-<br />
za di una deriva dell’underground<br />
americano ormai incontestabile. Si<br />
veda anche il cd accluso dalla So-<br />
cial Registry: 24 minuti di cut’n’pa-<br />
ste sonoro, dove DeGraw assembla<br />
pezzi sparsi di musiche preceden-<br />
temente buttate dalla band. Chi è<br />
sempre alla ricerca di stranezze e<br />
stramberie (alzo la mano) si acco-<br />
modi pure, gli altri, quelli “normali”,<br />
quelli che voglio sempre la classica<br />
verse-chorus-verse, stiano assolu-<br />
tamente alla larga. (6.5/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
M a u r o E r m a n n o G i o v a n a r d i -<br />
C u o r e a n u d o ( R a d i o F a n d a n g o<br />
/ E d e l , 2 3 m a r z o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : c a n t a u t o r i a l e<br />
Ci sono dischi che mi procurano<br />
sensazioni piacevoli ma contraddit-<br />
torie. Dischi come questo esordio<br />
solista di Joe dei La Crus. Contrad-<br />
dittorio, appunto, a partire dal fatto<br />
che si muove sulla linea di confine<br />
tra progetto live - cui la dimensio-<br />
ne live è necessaria - e prodotto di<br />
studio (è evidente il lavoro di post-<br />
produzione). Poi c’è la scelta dei<br />
brani, da un lato piuttosto scontati<br />
e disarmanti come l’immancabile<br />
Tenco di Vedrai vedrai (la consue-<br />
ta, stupenda impossibilità di ag-<br />
giungere altro) o addirittura tediosi<br />
come il Fossati di Navigando (cui<br />
la tromba amicale e i baluginii di<br />
chitarra gettano una ciambella di<br />
salvataggio), dall’altro invece az-<br />
zeccatissimi come Hai pensato<br />
mai?, ballad di Lino Toffolo che<br />
fa incontrare Gino Paoli e Cesare<br />
Basile nel cortile dei Calexico, op-<br />
pure l’irresistibile El mé gàtt, fisa,<br />
canto e traduzione - dal milanese<br />
- per tragicomico cabaret meneghi-<br />
no firmato Ivan Della Mea. Quanto<br />
al Giovanardi interprete, anche qui<br />
luci e ombre: tra reading ora sugge-<br />
stivi (l’assorta elegia di A Milano,<br />
testo di Tondelli) e ora un po’ trop-<br />
po sopra le righe (la frenetica Il mio<br />
amore è come una febbre, su testo<br />
di Shakespeare nientemeno), il<br />
vecchio Joe mette a nudo - appunto<br />
- la grana di una voce tutt’altro che<br />
virtuosa e lo sapevamo, però com-<br />
pensata dalla naturalezza inquieta<br />
(vedi l’altro omaggio tenchiano Un<br />
giorno dopo l’altro), da un languo-<br />
re un po’ dandy un po’ decadente,<br />
capace di rendere con cinismo ac-<br />
corato il De André <strong>neo</strong>-bohemienne<br />
di Giugno ‘73 e di declamare con<br />
La figa (testo di Tonino Guerra)<br />
tutta la devozione e la meraviglia<br />
che si merita questo centro di ogni<br />
cosa (con buona pace dei mania-<br />
ci della Playstation). La band (tra<br />
cui Fabio Barovero dei Mau Mau, il<br />
sodale Paolo Milanesi ed il chitar-<br />
rista Lorenzo Corti, già con Basi-<br />
le e la Donà) si esalta paventan-<br />
do una sorta di Capossela ripulito<br />
nella rivisitazione di La giostra ed<br />
il Paolo Conte tanghesco in Solo<br />
sfiorando. Più sofisticate le trame<br />
imbastite per le due tracce inedite,<br />
entrambe jazz ballad orchestrali:<br />
obliquo struggimento tra tromba e<br />
drumming spazzolato in Un cuore<br />
a nudo, cremosa mestizia di slide<br />
su trame palpitanti di piano in Te-<br />
stamento d’amore. Difficile trovare<br />
un sentiero praticabile tra poesia,<br />
teatro e canzone. Provarci con tan-<br />
ta convinzione è già di per sé un<br />
merito. (6.5/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
G i t h e a d – A r t P o p ( S w i m /<br />
G o o d f e l l a s , 7 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : n e o w a v e<br />
Colin Newman ha fatto a suo tem-<br />
po la storia del post-punk con tre<br />
meraviglie di dischi degli Wire, coi<br />
quali tuttora persevera in un pre-<br />
sente tra i pochi degni di nota tra i<br />
(mai così poco, nel caso) reduci di<br />
allora. Sarebbe di per sé sufficien-<br />
te a garantirsi la nostra sempiter-<br />
na gratitudine, ma poiché Colin è<br />
individuo che, oltre alla fede, vuol<br />
tenersi degna anche la stima, ecco<br />
che nei ritagli di tempo mette su<br />
un gruppo a conduzione familiare<br />
con la consorte Malka Spiegel (nei<br />
Minimal Compact eoni fa), Max<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 4 7
Franken e Robin Rimbaud (ovvero<br />
uno Scanner che fa di tutto per na-<br />
scondersi da se stesso). Questo è<br />
il secondo disco della formazione,<br />
eloquente e nondimeno depistante<br />
nel titolo, giacché i fatti raccontano<br />
un ondeggiare verso la costa “arti-<br />
stica” più che quella poppeggiante<br />
della mistura (sebbene These Days<br />
rimandi all’allure lucente di una Ou-<br />
tdoor Miner rappresa e ritmicamen-<br />
te contratta) dentro architetture che<br />
spesso interpretano il funk da una<br />
prospettiva urbana, algida epperò<br />
umanamente pulsante.<br />
Non così devoto ai percorsi Wire<br />
come si potrebbe paventare (ma<br />
nello scintillante caracollare di Dri-<br />
ve By e nel paradosso Blur ante<br />
litteram All Set Up, sì), il proget-<br />
to mostra di possedere, alla luce<br />
della contemporaneità, motivazioni<br />
salde per la propria esistenza. Nel-<br />
lo spazio di un ascolto, infatti, la<br />
differenza con le decine di copisti<br />
salta all’orecchio, e non potreb-<br />
be essere altrimenti. Chitarre cir-<br />
colari e melodie strisciantemente<br />
appiccicose in estatico aprirsi (On<br />
Your Own), squadrature che osser-<br />
vano la negritudine dal buco della<br />
serratura (Drop, Space Life), nuo-<br />
ve acusticherie da camera spoglia<br />
(un’immensa Lifeloops) tracciano<br />
le coordinate entro cui il quartet-<br />
to si sposta agile padroneggiando<br />
la materia sonora, mescolandola e<br />
plasmandola in forme al contempo<br />
slanciate e spigolose, in ogni caso<br />
ricche di fascino e comunicativa.<br />
Nella giostrina stordente di bolle<br />
ed elio Jet Ear Game addirittura si<br />
ipotizza un proficuo incontro Eno-<br />
Laurie Anderson, dove quel pas-<br />
sato di canzone sperimentale evo-<br />
cato a nuova vita dal noir pigro che<br />
si fa solare in Darkest Star si salda<br />
all’oggi. Infine, non manca spazio<br />
per una ballad obliqua come Live In<br />
Your Head e per la devianza armo-<br />
nica di Rotterdam. Poste in chiusu-<br />
ra, suonano entrambe falsamente<br />
gentili e giocano con le aspettative<br />
dell’ascoltatore come il disco tutto.<br />
Guai ad abbassare la guardia e sot-<br />
tovalutarlo, quindi.<br />
Diceva Mingus che, se Charlie<br />
Parker fosse un pistolero, in giro<br />
ci sarebbero un sacco di scopiaz-<br />
zatori morti stecchiti. A voi l’onore<br />
4 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
di cambiare i riferimenti storico-<br />
stilistici dopo l’ascolto di Art Pop.<br />
Due parole che sono in pochi a ma-<br />
neggiare con sapienza, da sempre.<br />
(7.4/10)<br />
G i a n c a r l o T u r r a<br />
G u i t a r - D e a l i n W i t h S i g n a l A n d<br />
N o i s e ( O n i t o r / W i d e , 2 7 a p r i l e<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : s h o e g a z e<br />
Onestamente è lecito non aspet-<br />
tarsi granché da un gruppo che si<br />
chiama Guitar, nel 2007. In realtà<br />
non è un gruppo, ma un moniker<br />
di Michael Lueckner, giunto con<br />
questo nome al quinto album, per<br />
il quale si è fatto aiutare dalla voce<br />
di Ayako Akashiba e dai Voyager<br />
One di Seattle. Va ammesso che<br />
Michael è di quelli che dissimula-<br />
no il suono della propria chitarra<br />
(Here, Guitardelays), almeno dal-<br />
la sua versione sacrale. Il dato<br />
di fatto è che Dealin With Signal<br />
And Noise è un disco di shoegaze,<br />
come la premessa appena fatta può<br />
far sospettare; quello shoegaze<br />
che lavora sulla soglia liminale con<br />
il dream-pop (Sine Waves), nel cui<br />
campo non si cade grazie proprio<br />
alla fascia sotterranea di feedback<br />
di cui il genere si nutre da più di<br />
vent’anni. Lettore avvisato, mezzo<br />
salvato: se è ascoltatore del gene-<br />
re da allora, forse non reggerà la<br />
cover di Just Like Honey dei (padri)<br />
Jesus And Mary Chain, suonata<br />
(al pari della noiosa What Is Love?)<br />
come da una ipotetica versione da<br />
aperitivo dei My Bloody Valentine<br />
(si perdoni l’arditezza). Sono loro<br />
i veri protagonisti, e potrebbero<br />
rivendicare la paternità, tra le al-<br />
tre, anche di Watch The White Bird<br />
(questa volta nello stato di grazia<br />
- e che grazia - di Loveless). Ma se<br />
lo shogazer che legge ne ha anco-<br />
ra voglia, questo disco gli piacerà.<br />
In qualsiasi caso, sia lui che la sua<br />
nemesi scocciata si ascoltino Bal-<br />
lad Of The Tremoloser, che, scam-<br />
pato ogni derivativismo recente,<br />
incrocia un esercizio vivaldiano per<br />
cembalo con la melodia struggente<br />
(e comunque molto italiana) dell’ul-<br />
timo cinema coreano, per tremolìo<br />
chitarristico solo, come Live At Ho-<br />
tel Palesatine. Sembrano versioni<br />
robotiche dello shoegaze, per ci-<br />
nema muto. Segni (pieni) e rumore<br />
insieme. (6.5/10)<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
H a n d s o m e F u r s - P l a g u e P a r k<br />
( S u b P o p / A u d i o g l o b e , 2 2<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e f o l k - p o p , w a v e<br />
Nell’albero genealogico della gran-<br />
de famiglia indie canadese, gli Han-<br />
dsome Furs discendono direttamen-<br />
te dai Wolf Parade, essendo il side<br />
project del vocalist Dan Boeckner,<br />
qui in duo romantico/casalingo con<br />
la fidanzata Alexei Perry, anch’es-<br />
sa residente di Montreal. Plague<br />
Park è solo l’ultima tessera di un<br />
microcosmo musicale che abbrac-<br />
cia progetti grandi e piccoli, alcuni<br />
fortunati altri meno, ma ciascuno<br />
con il suo peso specifico e il suo<br />
carattere, al punto che è difficile<br />
che qualcosa proveniente da quelle<br />
parti passi inosservata.<br />
In questo caso è la Sub Pop a scom-<br />
mettere sulle mutanti folk songs di<br />
Boeckner, spogliate dalla ricchezza<br />
del gruppo di provenienza e appena<br />
vestite di gelida elettronica al lap-<br />
top e di interventi minimali (corte-<br />
sia della compagna), in un costante<br />
e suggestivo contrasto fra caldo (il<br />
pathos bowiano del canto, i pieni<br />
accordi di acustica) e freddo (i toc-<br />
chi di wurlitzer, le elettriche acute<br />
e aliene, i paesaggi lunari delle ta-<br />
stiere). A una scrittura spesso ispi-<br />
rata, nutrita in prevalenza dagli ’80<br />
e dall’estetica post Kid A - a tratti<br />
diremmo post Funeral, a testimo-<br />
nianza della sopraggiunta impor-<br />
tanza dei cugini Arcade Fire - , si<br />
accompagna inevitabile una certa<br />
monotonia nei suoni, dovuta ai rag-<br />
giunti limiti espressivi dei due. Un<br />
peccato tanto prevedibile quanto<br />
veniale: Handsome Furs Hate This<br />
City, Dead+Rural e Sing! Captain<br />
sono una delizia per ogni fan indie<br />
rock che si rispetti. (6.8/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
H o t C h i p - D J K i c k s ( K 7 ! /<br />
A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e c l e c t i c b e a t s<br />
Dopo due album incredibilmente<br />
perfetti, una serie di remix di gran-<br />
de caratura (essenziale il loro la-<br />
voro di manipolazione sull’ultimo
I s l a j a - U l u a l Y y y ( F o n a l , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f r e e f o l k<br />
Questo terzo disco di Islaja completa in qualche modo una sorta di strana<br />
trilogia uterina del 2007, iniziata con Mira Calix e continuata con il solo<br />
party di Tujiko Noriko. Musiche umorali, diafane, sfuggenti. Musiche che<br />
non sanno se farsi allegre o dimesse, introverse o sfacciate, luminose o<br />
oscure. Con il tempo e il ritmo per perdersi in pensose malinconie e irrime-<br />
diabili tormenti e per sorrisi che si allargano senza fermarsi più. Se i pre-<br />
cedenti lavori di Islaja, Meritie e Palaa Aurinkoon, ci avevano ammaliato,<br />
questo Ulual Yyy ci fa innamorare perdutamente. Dalla Finlandia al resto<br />
del mondo. Dal molto piccolo all’immenso. La musica della prima donna<br />
di casa Fonal ha le qualità primigenie di una lezione impartita con parole<br />
semplici. Non un briciolo di supponenza e presunzione, ma solo un tor-<br />
renziale rovesciare se stessi con tutta l’umiltà di chi sta facendo qualcosa<br />
turn it on<br />
che ama, facendola al meglio. La scenografia è bucolica e stravagante come si conviene alla signorina di punta<br />
del free folk finnico. Le parti di organo hammond sono strutturali pendii su cui camminare da sola avvicinandosi<br />
idealmente alle rovine di Nico. Questa è una musica molto più dolce e terrena, anche quando ci si strugge fino<br />
a maledirsi (Sydanten Ahmija, Pete P). Suona deliziosamente enigmatica quando si lancia ad occhi chiusi in mi-<br />
steriosi sentieri di narcotica psichedelia jazz. Viaggia lontana anni luce da qualsiasi maniera, come negli onirismi<br />
più deliranti (Muusimaa, Muukralais-silma) con la voce a cantare quasi in stato di trance. Come un bambino che<br />
disegna una casa e fa semplicemente un triangolo su un quadrato. Islaja ottiene il massimo dei risultati quasi<br />
involontariamente, con mezzi semplici. Il disco finisce nella nenia fantasy di Suru Li, con il cinguettio degli uccelli<br />
a protrarsi solitario. Per lei in questo disco c’è lo stesso destino delle liceali di Picnic a Hanging Rock. Perdersi<br />
può essere una forma di estrema liberazione o viceversa di dannazione senza appigli. In entrambi i casi non c’è<br />
altra scelta. (7.5/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 4 9
singolo dei !!!) ed una serie di live<br />
show partoriti con grande eleganza<br />
e dedizione, gli inglesi Hot Chip si<br />
rivelano anche come compilatori di<br />
classe sopraffina.<br />
Non ci sono cazzi che tengano,<br />
siamo di fronte ad una delle “cose”<br />
musicali più importanti attualmen-<br />
te in circolazione. La decisione dei<br />
responsabili della K7! di affidare a<br />
loro l’ennesimo episodio della cele-<br />
brata serie DJ Kicks è una scelta<br />
di grande spessore, che restituisce<br />
dignità all’atto fisico del mescolato-<br />
re di dischi oggi più che mai detro-<br />
nizzata da playlist, trend e volgari<br />
softwar per il missaggio impeccabi-<br />
le. Gli Hot Chip esplorano la mate-<br />
ria pop con la certosina abilità di un<br />
chirurgo, la passano ai raggi X e ne<br />
estrapolano una scaletta che non<br />
si vergogna di mostrare una cultu-<br />
ra musicale troppo spesso messa a<br />
disagio.<br />
E così, tra un Tom Zè che si ac-<br />
costa all’inedito dei compilatori, un<br />
Joe Jackson a braccetto con Au-<br />
dion ed i This Heat a fare da ponte<br />
tra la dub disco dei Black Devil Di-<br />
sco Club ed il soul di Ray Charles,<br />
si consuma uno dei più eccitanti<br />
momenti musicali degli ultimi tem-<br />
pi. Immensi. (8.0/10)<br />
0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
S t e f a n o R e n z i<br />
J a m e s Yo r k s t o n – R o a r i n g T h e<br />
G o s p e l ( D o m i n o / S e l f , m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : c a n t a u t o r a t o f o l k<br />
Sulla scia del buon successo otte-<br />
nuto pochi mesi fa con l’ottimo The<br />
Year Of The Leopard ecco arrivare<br />
la prima raccolta retrospettiva dedi-<br />
cata a James Yorkston, scozzese di<br />
nascita, londinese d’adozione, tra<br />
le migliori espressioni del cantau-<br />
torato britannico contempora<strong>neo</strong> .<br />
Roaring The Gospel è il solito di-<br />
sco di rarità, inediti e bonus tracks<br />
che non fa altro che confermare<br />
quanto di buono sapevamo sulla<br />
scrittura del Nostro, incantevole<br />
nella sua semplicità folk (Somepla-<br />
ce Simple, Blue Madonnas), avvin-<br />
cente quando cerca di alzare i ritmi<br />
(Sleep Is The Jewel, A Man With My<br />
Skills), ironico nel concedersi ad<br />
un jazz dimenticato nel tempo (Are<br />
You Coming Home Tonight?), per-<br />
fettamente a suo agio nella rilettura<br />
dei classici, siano questi brani tra-<br />
dizionali come Blue Bleezin Blind<br />
Drunk oppure momenti di assoluta<br />
immortalità come la Song To The<br />
Siren del maestro Tim Buckley.<br />
Prezioso per i fan, Roaring The<br />
Gospel potrebbe servire da ottima<br />
introduzione per chi, colpevolmen-<br />
te, avesse sino ad ora tralascia-<br />
to l’opera di questo menestrello.<br />
(7.0/10)<br />
S t e f a n o R e n z i<br />
J a n a H u n t e r - T h e r e ’s N o H o m e<br />
( G n o m o n s o n g / G o o d f e l l a s ,<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k<br />
Da anni nel giro di Devendra e Co.<br />
la folksinger texana arriva ora alla<br />
seconda uscita dopo Blank Unsta-<br />
ring Heirs Of Doom risalente alla<br />
fine del 2005, sempre per la label<br />
di Banhart e Andy Cabic. Autri-<br />
ce di un songwriting folk in bassa<br />
fedeltà, spoglio quanto basta per<br />
agitarlo di sottili pulsazioni dark,<br />
piuttosto che di visioni bucoliche,<br />
Jana ripropone le sue canzoni, di-<br />
scontinuamente rese come del re-<br />
sto nella prova precedente. Eccola<br />
allora oscillare tra nude ballad in<br />
acustico (l’intensa Palms), pulsio-<br />
ni psyck-folk (le inquiete Movies e<br />
Pinnacles) e ninnananne avvolgenti<br />
(Sleep, la banhartiana title track);<br />
altrove è l’ordinarietà di song folk-<br />
rock dimesse a far calare il tono<br />
(Oracle, Bird) confermandone so-<br />
stanzialmente il giudizio di medie-<br />
tà, per un album che non decolla<br />
mai e che sembra promettere di più<br />
solo sporadicamente. Peccato per<br />
quei guizzi che ci avevano così in-<br />
gannevolmente illuso. (5.0/10)<br />
Te r e s a G r e c o<br />
J i m i Te n o r & K a b u K a b u –<br />
J o y s t o n e ( S ä h k ö / G o o d f e l l a s ,<br />
2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : s o u l - j a z z a f r o - b e a t<br />
La Finlandia incontra l’Africa. Ovve-<br />
ro, Jimi Tenor, accompagnato da un<br />
esercito di orchestrali suoi conna-<br />
zionali, si imbatte nel ritmo percus-<br />
sivo del trio nigeriano Kabu Kabu.<br />
Tutto ciò avviene con il ritorno alle<br />
origini del Nostro; infatti, dopo aver<br />
girato mezzo mondo, pubblicando<br />
album con le etichette più disparate<br />
ma sempre di tutto rispetto, questa<br />
sua ultima fatica viene fatta usci-<br />
re dalla finlandese Sähkö. Ritorno<br />
all’origini soltanto formale, dunque,<br />
in quanto quelle sue sperimenta-<br />
zioni sonore degli esordi sono lungi<br />
dall’essere rievocate in quest’al-<br />
bum. Infatti, ciò che scaturisce da<br />
questo incontro interculturale è un<br />
condensato strutturalmente jazz.<br />
Orchestrato da una magistrale se-<br />
zione fiati, e contrappuntato inces-<br />
santemente da un sostrato percus-<br />
sivo, sul quale, soprattutto, l’uso<br />
anacronistico dell’organo e inserti<br />
più propriamente funk rimandano<br />
a certe colonne sonore da telefilm<br />
anni Settanta. La stessa identica<br />
atmosfera che emanavano i suoi<br />
più recenti lavori. Anche in Joysto-<br />
ne infatti non mancano quelle asso-<br />
nanze esotico-sexy-latine molto kit-<br />
sch, ultimamente così care a Tenor,<br />
evocate da quel suo soul-jazz-loun-<br />
ge tanto complesso e stratificato.<br />
Certo la sua esperienza unita a<br />
quella eccelsa dei musicisti che lo<br />
accompagnano fanno sì che l’al-<br />
bum sia impeccabile dal punto di<br />
vista strumentale, riservando an-<br />
che alcune tracce interessanti:<br />
Anywhere, Anytime, I Wanna Hook<br />
Up With You e Sunrise le migliori<br />
dell’album. Tutte e tre caratterizza-<br />
te da un incessante contagiosa rin-<br />
corsa tra sax, tromba e organo. Ma<br />
è tutto così troppo ben collaudato<br />
a tal punto che le stravaganze di<br />
Tenor – il suo tratto distintivo, tanto<br />
per ricordare i suoi trascorsi Warp<br />
– oramai finiscono per essere ciò<br />
che di più distante ci sia dall’in-<br />
novazione sperimentale. E la sua<br />
formula artistica non sembra altro<br />
che riavvolgersi su se stessa, Kabu<br />
Kabu permettendo.<br />
Sicuramente chi ama incondizio-<br />
natamente tali sonorità troverà in<br />
Joystone pane per i suoi denti.<br />
Jimi tenor saprà cucirgli addosso<br />
un elegante abito estivo con il qua-<br />
le sentirsi perfettamente a suo agio<br />
mentre seduto su una terrazza con<br />
sotto il mare potrà sorseggiare len-<br />
tamente un long-drink ghiacciato.<br />
Sfarzoso e lussurioso ma decisa-<br />
mente poco suggestivo. (5.2/10)<br />
A n d r e a P r o v i n c i a l i
Kammerflimmer Kollektief – Jinx<br />
(Staubgold / Goodfellas, 6 maggio<br />
2007)<br />
G e n e r e : j a z z n o i r<br />
Il Kammerflimmer Kollektief si è ri-<br />
dotto da sei a tre elementi, Thomas<br />
Weber, Heike Aumuller e Johannes<br />
Frisch, ma non per questo sembra<br />
voler mutare di una virgola la col-<br />
laudata formula: jazz noir per animi<br />
inquieti. Con Jinx siamo al capitolo<br />
numero sei, se si esclude il disco di<br />
remix di un anno fa. La scenografia<br />
è, come al solito, allestita con gran-<br />
de cura del dettaglio, ma per forza<br />
di cose, la trama strumentale di oggi<br />
è leggermente diversa rispetto al<br />
passato. Il nuovo disco suona così<br />
meno jazzy degli immediati prede-<br />
cessori, Cicadidae (Temporary Re-<br />
sidence Limited / Staubgold, 2003)<br />
e Absencen (Staubgold, 2005),<br />
ma è come di consueto rigonfio di<br />
struggimento nero.<br />
La visiera calata sullo sguardo,<br />
l’impermeabile chiuso fino all’ultimo<br />
bottone, giusto il tempo di fare due<br />
tiri, prima di immergersi nei vicoli<br />
bui di una Berlino illuminata dalle<br />
insegne dei peep show. Palimpsest<br />
si muove così, fumosa ed elegante,<br />
notturna e fatalista, un po’ James<br />
Ellroy, un po’ Black Heart Proces-<br />
sion, ma il piatto forte è la maledi-<br />
zione esorcizzata nella successiva<br />
Jinx, sette minuti di grovigli vocali<br />
su una cadenzata e mesmerica dark<br />
lounge, con quella micidiale steel<br />
guitar ad aprire l’orizzonte. Le qua-<br />
lità cinematiche del collettivo tede-<br />
sco risaltano nei brani più lunghi,<br />
come nei dieci minuti della conclu-<br />
siva Subnarkotisch, ma il meglio lo<br />
ottengono quando appaiono anche<br />
le parti vocali di Heike Aumuller<br />
(Jinx e Both Eyes Tight Shut) come<br />
inintelligibili enigmi di puro suono<br />
da miscelare con il consueto impa-<br />
sto di piano/harmonium, steel gui-<br />
tar, contrabbasso ed elettronica.<br />
L’album ideale per gli animi inquieti<br />
della Mitteleuropea. Che mettano<br />
su questo disco quando si sentiran-<br />
no soli nella prossima stanza d’al-<br />
bergo. (7.0/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
K a t a m i n e – L a g ( Ti n s t a r<br />
C r e a t i v e P o o l / G o o d f e l l a s ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : c a n t a u t o r a t o i n d i e<br />
C’è stato un momento, si era all’in-<br />
circa nei primi anni Novanta, in cui<br />
il “cantautore come lo conosceva-<br />
mo” è cambiato: non si presenta-<br />
va più col proprio nome o con uno<br />
pseudonimo. Preferiva rinunciare a<br />
sé, trincerarsi dietro un gruppo pa-<br />
ravento. Tra American Music Club<br />
(forse in questo i capostipiti), Smog<br />
e Palace assortiti, noi cinici ci sia-<br />
mo abituati a considerare di tanto in<br />
tanto i “gruppi” per quel che sono in<br />
realtà. Nascondigli di chi non vuole<br />
esporsi, recalcitranti megafoni per<br />
quella Generazione X che Douglas<br />
Coupland raccontò con maestria<br />
nei suoi primi romanzi.<br />
Non fa eccezione nemmeno Assaf<br />
Tager, che dalla sua possiede la<br />
provenienza peculiare (israeliano,<br />
nel suo paese s’è creato attorno<br />
un piccolo caso, ora pronto a far-<br />
si notare anche da noi con questo<br />
secondo disco) e il pregiato cur-<br />
riculum. Ha difatti prestato servi-<br />
zio, tra gli altri, per Moloko, Beth<br />
Gibbons ed Elliot Smith (risorto a<br />
nuova mestizia nella bella chiusu-<br />
ra Someone Came Around e altro<br />
riferimento, meno ricorrente e pri-<br />
vo di retrogusto tra Beatles tardi e<br />
misurato Chilton), prima di tornare<br />
in madrepatria e fondare i Family<br />
Butchers, prodotti nientemeno che<br />
da Bob Weston. Ora, circondato da<br />
un pugno di connazionali, chiarisce<br />
che il suo progetto è sì un ensem-<br />
ble aperto alle collaborazioni, ma<br />
che le redini sono tuttavia detenute<br />
saldamente nelle sue mani.<br />
Winchester Gun rimanda a Bill Cal-<br />
lahan per la mestizia e il rimpiat-<br />
tino vocale femminile, ma l’ex Mr.<br />
Smog – nella sua seconda versio-<br />
ne, priva di ostentata bassa fedel-<br />
tà – si delinea fin da subito come<br />
il santino nella tasca del ragazzo.<br />
Che però possiede buona penna e<br />
sa come variare la posta in gioco,<br />
gettando mestizia sulla bossanova<br />
How Quiet Should I Be, chiaman-<br />
do a testimoniare Mark Eitzel nella<br />
disturbata filigrana di rumori e rul-<br />
lante sparuto di Pulse Song o tra-<br />
sfigurando in acustica tensione la<br />
Creep In The Cellar dei Butthole<br />
Surfers, per non far che qualche<br />
esempio. Where The Ambulance<br />
Rolls sembra uscire dritta da Red<br />
Apple Falls, anche se gli archi sono<br />
sostituiti da uno svolazzare di piatti<br />
e nervi tesi d’elettrica in lontanan-<br />
za, e il cupo narrare di No Wonder<br />
We’re Damaged è attraversato da<br />
fantasmi di suoni e svolte armoni-<br />
che. Ci assicurano che il succes-<br />
sore di Lag sia già in cantiere con<br />
la produzione di Wharton Tiers, e<br />
nel frattempo Tager si faccia vede-<br />
re in giro in compagnia di un certo<br />
Devendra Banhart. Crediamo che<br />
se risentirà parlare presto, allora, e<br />
meritatamente. (7.0/10)<br />
G i a n c a r l o T u r r a<br />
K i d We i r d & T h e C o m b o s - S e l f<br />
Ti t l e d ( P o w e r m a r a c a s / W i d e ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : g a r a g e<br />
Indie dance friulano per chitarre e<br />
drum machine, ok, ma che ci fanno<br />
le tastiere lounge e i fiati jazz? E<br />
quella confusione Mary Chain nel-<br />
la testa di questa gioventù sonica?<br />
L’aceed? Prima che la polizia li ti-<br />
rasse giù, tre ragazzi e due ragaz-<br />
ze, avvistati un paio di anni fa sul<br />
tetto di un condomino di Pordeno-<br />
ne, provavano a farcelo capire con<br />
parole loro masticando chewingum<br />
indie-pop e sparando con pistole di<br />
plastica (Dubrovnik), ballando tor-<br />
bido tra spille firmate Adult e inserti<br />
lounge febbricitanti (Me And Hen-<br />
ry), pogando sopra un punk molto<br />
post che parla la lingua del lower<br />
east side e dei Devo (dr#gs). A<br />
completare, il look: non tanto un af-<br />
fare d’abbigliamento all’inglese ma<br />
di grafica dai font firmati Vivienne-<br />
McLaren e assieme un immagina-<br />
rio street anni ’50 per pinne e dark<br />
lady. Non sorprendono brani come<br />
You Suck tra pose scazzo-punky e<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
smalti d’antan (persino una trom-<br />
ba desertica!), spirito garagista e<br />
asfalto, anzi polvere e mozziconi di<br />
sigaretta come si nasa nel riff ar-<br />
cigno di Speedqueen (ma chi è lo<br />
speaker all’inizio del brano? Sarà<br />
mica John?), e per quella via si fa<br />
giù fino in fondo nel bassofondo dei<br />
Suicide aggiornato aceeed (Gara-<br />
ge) senza esagerare. Ai Kid Weird<br />
piace essere cool e quest’approccio<br />
ha esaltato il pubblico che era lì per<br />
le Pipettes al Milanofilmfestival lo<br />
scorso anno, nonché i ragazzi del-<br />
le radio indipendenti europee e gli<br />
indie kid tedeschi presenti al loro<br />
recente tour berlinese. A distanza<br />
di quattro anni dal loro primo demo<br />
(kwetc demo), dividendosi tra un<br />
approccio live e un altro più indie-<br />
radio, quest’esordio è dedicato a<br />
loro e agli amanti dell’aplomb ur-<br />
bana e del sixties-garage che flirta<br />
con l’assolo di tromba jazz, gli stro-<br />
finacci blues, gli smarties break-<br />
beat, il lounge synth. Pure l’accen-<br />
to italian-thurston moore ci sta, è la<br />
variante riconoscibile di linguaggi<br />
assimilati, gli elementi del classi-<br />
co disco ultraindie che sembra (è!)<br />
nato per diventare un culto. Non lo<br />
sarà ma per un soffio: prendete il<br />
taglio The Fall quasi metal di Spee-<br />
dqueen oppure il mix metronomia/<br />
chitarra garagista e umori jazz-de-<br />
sert di Attack of kw&tc (la migliore).<br />
Roba che quasi i Minutemen. Roba<br />
che scotta. (7.0/10)<br />
2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
K i n g s O f L e o n - B e c a u s e O f T h e<br />
Ti m e s ( R C A , 3 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : r o c k , p s y c h ,<br />
p o p , w a v e<br />
Ripuliti nel look e nel suono, i fra-<br />
telli Followill arrivano al terzo disco<br />
con l’intenzione di rimescolare le<br />
carte ed allargare lo spettro d’azio-<br />
ne; il primo posto raggiunto in UK<br />
da questo Because Of The Times<br />
la dice lunga in tal senso, e suona<br />
allo stesso tempo insolito per una<br />
band che fino all’altro ieri era por-<br />
tabandiera del southern rock per il<br />
ventunesimo secolo.<br />
In effetti, cosa vorranno mai dire i<br />
sette minuti di sospensioni psych<br />
minimali di Knocked Up, messi pro-<br />
prio in apertura? I quattro hanno<br />
imparato a giocare - e bene - con<br />
le dinamiche, ok, ma la scrittura?<br />
Ecco il singolo On Call, che con<br />
l’andamento Pixies e l’insistente<br />
refrain vocale si assicura più di un<br />
ascolto. Peccato che prima c’era<br />
stato l’assalto anni ’90 di Charmer,<br />
uno stoner-blues strappacordevo-<br />
cali. Non c’è molto da stupirsi, suv-<br />
via: Jack e Meg White hanno già<br />
sdoganato ampiamente questo ge-<br />
nere di cose.<br />
Eppure, il set va avanti con più di<br />
una sorpresa, dalle atmosfere Tv<br />
On The Radio di McFearless al<br />
reggae di Ragoo, dal funk bian-<br />
co Modest Mouse di My Party al<br />
wave rock vagamente Police / U2<br />
di True Love Way e così via. Sì, le<br />
radici southern vengono comunque<br />
preservate in Black Thumbnail e<br />
Camaro, ma il bello è che, anche<br />
quando ci si allontana da esse (le<br />
morbidezze psych&soul di Trunk),<br />
tutto suona naturale come dovreb-<br />
be. In altre parole, I Kings Of Leon<br />
hanno aggiunto colori alla tavoloz-<br />
za, azzeccando la giusta miscela<br />
fra il loro rock e il new pop di oggi.<br />
Mica male. (6.8/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
K T L – 2 ( E d i t i o n s M e g o , 7<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : d r o n e m e t a l<br />
d a r k a m b i e n t<br />
Non si ferma più. Non si fermano<br />
più. Potremmo aprire una rubrica<br />
mensile su tutti i presenzialisti da<br />
logorrea discografica, mettendo da<br />
subito in testa la terrificante trimur-<br />
ti: Richard Youngs, Aidan Baker<br />
e Stephen O’Malley. Solo loro tre<br />
sono in grado di riempire interi<br />
scaffali con dischi, progetti, colla-<br />
borazioni, esperimenti. Non tratten-<br />
gono nulla per il loro consumo pri-<br />
vato e pubblicano qualunque cosa.<br />
Certo, la qualità è alta, ma anche<br />
la più bella delle cheerleader se ti<br />
gira troppo intorno alla fine ti stu-<br />
fa. Questo mese allora segnaliamo<br />
il ritorno di O’Malley, che avevamo<br />
lasciato un paio di mesi fa con gli<br />
Aethenor. Questa è la volta di KTL<br />
2, la vendetta di O’Malley e Pita,<br />
che mettono su nastro una secon-<br />
da puntata delle loro gesta a base<br />
di gelido ed efferato black metal<br />
dronato. Quattro lunghissimi brani<br />
composti tra il dicembre 2006 e il<br />
febbraio 2007, presso gli Abattoir<br />
Studios di Angers e – soprattutto<br />
- dentro un maniero del 17° se-<br />
colo, il Manoir Kéroual di Guilers<br />
nell’estremo ovest della Francia. Il<br />
pregio maggiore di O’Malley è quel-<br />
lo di sapersi adattare al proprio in-<br />
terlocutore, di parlare una lingua<br />
inconfondibilmente sua, ma che si<br />
adegua sempre alle circostanze.<br />
Se nei Sunn O))) la sua chitar-<br />
ra suona melmosa e opprimente e<br />
negli Aethenor è maledettamente<br />
strisciante e suggestiva, per i KTL<br />
conserva appositamente il lato più<br />
tagliente e crudo. Pita dal canto<br />
suo allestisce con pochi tocchi (un<br />
riverbero in un angolo, un drone<br />
circolare nell’altro) una scenogra-<br />
fia quanto mai gotica. Rispetto al<br />
primo capitolo, il gioco si è fatto più<br />
scoperto, meno ingessato. I due ci<br />
danno dentro senza tentennamenti,<br />
riconvertendo in pregi i difetti del<br />
primo disco, vedi l’eccessiva gre-<br />
vità che rendeva i brani oltremodo<br />
statici. Qui si gira intorno alle ar-<br />
chitetture per sviscerarne gli angoli<br />
nascosti. Theme in questo senso<br />
è l’esempio principe del disco. 27<br />
minuti di cupi rintocchi metronomi-<br />
ci da catacomba gotica stile film<br />
Hammer, che lentamente vengono<br />
aggrediti da suoni e distorsioni in<br />
crescendo apocalittico fino al ru-<br />
more più efferato. Su Abattoir è la<br />
distorsione chitarristica alla Bur-<br />
zum a fare da malevolo e cupo tap-<br />
peto. Si chiude con Snow2 per la<br />
via di una dark ambient di arredo.<br />
I brani sono probabilmente troppo<br />
lunghi e l’idea stessa alla base del<br />
progetto KTL continua ad essere<br />
eccessivamente teatrale, anche<br />
senza una rappresentazione che ne<br />
giustifichi l’intento. Tra i vari pro-<br />
getti di O’Malley si continua a pre-
J e r e m y Wa r m s l e y – T h e A r t O f F i c t i o n ( R y k o d i s c / A u d i o g l o b e , 7<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e - f o l k p o p<br />
A volte ci sono degli approcci con alcuni album che si rivelano del tutto<br />
sbagliati agli ascolti successivi. Questo è ciò che è successo con The Art<br />
Of Fiction di questo ventitreenne inglese Jeremy Warmsley. Che sia dovu-<br />
to dalla disattenzione dell’ascolto o dalla elusiva, confusionale natura del<br />
disco non ci è dato sapere ora. Ci basti sapere, invece, che questo esordio<br />
è un riuscitissimo esempio di collage musicale fatto in casa. Con chiare<br />
influenze folk, pop, beat, soul, elettroniche e addirittura di musica classica<br />
condite da un domestico uso di laptop mai troppo invasivo. Nonostante ci<br />
siano una quantità estrema di suoni che si rincorrono, si sfiorano e si so-<br />
vrappongono in continuazione, che in un altro caso avrebbero appesantito<br />
e arzigogolato troppo il risultato finale, la bravura di questo giovanissimo<br />
turn it on<br />
inglese sta proprio nel non farcela notare troppo, riuscendo a incastrare il tutto in maniera sorprendente. Questo<br />
album riesce a evocare un numero impressionante di artisti – tra i quali i più evidenti sono Paul Simon, Ra-<br />
diohead, Arcade Fire e Brian Eno – senza mai dare la sensazione di essere marcatamente derivativo. Anzi, è<br />
come se questi fossero tutti presenti sull’attenti tra le quattro mura della cameretta di Warmsley pronti a eseguire<br />
ogni sua direttiva. L’impressione è proprio quella che sia lui a comandare, che sia lui ha decidere quale direzione<br />
intraprendere senza rimaner troppo legato a un artista o a un genere in particolare. Siamo molto vicini agli Archi-<br />
tecture In Helsinki per complessità sonora e a Why? per attitudine sperimentale, ma Warmsley si muove su un<br />
territorio di base decisamente più folk. È sorprendente la sua capacità di cambiare agilmente registro all’interno<br />
di una stessa canzone, passando da generi musicali più disparati. Morden Children ne è un chiaro esempio: inizia<br />
come una canzone dei Joy Division che, passando nel frullatore beat di Beck, finisce per acquistare un passo<br />
decisamente country-folk alla Wilco. Ma oltre a questa dote stilistica del Nostro, a suo favore giocano anche le<br />
facili, dirette e spensierate linee vocali che riesce a far planare leggere su quei mosaici sonori. Come avviene<br />
magistralmente in I Promise, la canzone più riuscita dell’album, che si dischiude malinconica su un folk sbilenco,<br />
molto vicino alle derive nostalgiche di Adem, tanto struggente quanto indimenticabile per quella melodia senza<br />
tempo che non smetteremmo mai di canticchiare. Dirty Blue Jeans, 5 Verses e I Believe In The Way You Move<br />
rappresentano gli episodi più incalzanti con delle melodie tanto immediate in grado di poter raggiungere anche il<br />
grande pubblico. Ma non mancano neppure atmosfere più introspettive evocate sia dal classicismo di I Knew That<br />
Her Face Was A Lie che dall’incedere obliquo di A Matter Of Principle.<br />
Un esordio convincente. Un album composto da canzoni che, nonostante si muovano incontrollate in mezzo a<br />
imprevedibili soluzioni sonore, risultano sempre contagiose e nostalgicamente sbarazzine.<br />
Questo disco ci lascia il sorriso sulle labbra. Il primo ascolto spiazza creando confusione, il secondo convince<br />
mettendo a fuoco, il terzo ammalia contagiando. Un dolce procrastinare il piacere dell’ascolto. The Art Of Fiction,<br />
per l’appunto. (7.5/10)<br />
A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e
ferire Aethenor. Questi KTL appaio-<br />
no sempre più come un simpatico<br />
divertissement. (7.0/10)<br />
4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
L a u n d r e t t e – A S t a t e O f F o r m<br />
( B l a c k C a n d y / A u d i o g l o b e ,<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e / n o i s e<br />
L’ultima testimonianza discografi-<br />
ca dei Laundrette risaliva al lonta-<br />
no 2003, quando su Suiteside uscì<br />
l’ottimo Weird Place To Hide. Da al-<br />
lora della formazione marchigiana<br />
si erano perse un po’ le tracce, tra<br />
defezioni improvvise – il chitarrista<br />
Lucio Febo – e anni trascorsi ad<br />
affinare un suono in perenne mu-<br />
tazione. Fino alla pubblicazione ad<br />
aprile di quest’anno di A State Of<br />
Form, opera che sembra riconfer-<br />
mare gran parte delle buone cose<br />
mostrate in passato dalla band<br />
grazie ad una conturbante mistura<br />
fatta di affluenti noise, impalcature<br />
blues e attente melodie mascherate<br />
da sotterfugi rumoristi. Un po’ alla<br />
maniera di One Dimensional Man,<br />
se ci passate il paragone, pur nei<br />
limiti di un sentire che privilegia il<br />
dialogo tra gli strumenti più che il<br />
ritmo scapicollante, i tempi sinco-<br />
pati più che gli emboli da urlatore.<br />
Dal lavoro di pulizia e di sintesi<br />
messo in opera dalla band – e da<br />
David Lenci, illustre produttore no-<br />
strano con alle spalle collaborazio-<br />
ni con artisti del calibro di Shellac,<br />
Uzeda, Rob Ellis – nascono le die-<br />
ci tracce in scaletta, frutto di una<br />
scrittura che cede al fascino dei<br />
bassi martellanti (A State Of Form<br />
e People Love Money), simpatizza<br />
per la dislessia formale della Blues<br />
Explosion di Jon Spencer (When<br />
You Dance (You Don’t Speak), di-<br />
sarticola la chitarra di John Fru-<br />
sciante tra orgasmi di coretti ce-<br />
lesti (Get Triggered) e in generale<br />
vive di spigoli e rimbalzi di riff, pur<br />
mantenendo il marchio d.o.c. di<br />
prodotto autoctono “da cantina”.<br />
Un’ onoreficenza di cui i Laundrette<br />
possono fregiarsi senza vergogna,<br />
considerati i dieci anni di attività<br />
passati sulla cresta dell’onda del-<br />
l’underground nostrano senza nem-<br />
meno una ruga o un capello bianco.<br />
(6.9/10)<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
L e s b i a n s O n E c s t a s y – We<br />
K n o w Yo u K n o w ( A l i e n 8 / W i d e ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e c t r o c l a s h<br />
A dispetto della freakeria quasi<br />
<strong>neo</strong>platonica della copertina, que-<br />
sto We Know You Know, secondo<br />
disco delle Lesbian On Ecstasy,<br />
è electroclash bello e buono, con<br />
tanto di beat, coretti e, soprattutto,<br />
hand-clap a palla. Le Lezzies, come<br />
si suole chiamare queste ragazze<br />
in estasi, cercano per l’occaisone<br />
di perfezionare (sbilanciandosi più<br />
verso il danzereccio, rispetto alla<br />
prima uscita) il loro tramite femmi-<br />
nista tra !!! e Chemical Brothers<br />
(The Cold Touch Of Leather).<br />
A volersi spingere un po’ in là, ci<br />
può stare una lettura come ver-<br />
sione esplicitamente applicabile<br />
ai dancefloor di Supersystem de-<br />
gli El Guapo. C’è infatti un gioco<br />
con strutture meno pop, tanto che<br />
Victoria’s Secret sembra un adat-<br />
tamento da ballo dell’invenzione<br />
“parlata” di The Book Is On The<br />
Table dei Pere Ubu. Ma qui non si<br />
parla di avanguardie; la maggiore<br />
fonte di scarto dalla massa del ge-<br />
nere sono semmai i suoni industria-<br />
li; quelli che rendono ancora più<br />
efficace il sussurro mefistofelico di<br />
Sediction, che salvano appena Is<br />
This The Way (dove un riff da ele-<br />
fante spinge verso l’heavy-metal),<br />
che lasciano per abbandono Sister<br />
In The Struggle in balia della so-<br />
miglianza con le Hole. Seppure ai<br />
punti, questo disco vince quando si<br />
percepisce lo sforzo di rifuggire la<br />
banalità - il che è un punto di par-<br />
tenza che quantomeno risolleva,<br />
in tempi di conati da indigestione<br />
electroclash. Ma volere non sempre<br />
è potere. (6.5/10)<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
M a n i c S t r e e t P r e a c h e r s – S e n d<br />
Aw a y T h e Ti g e r s ( C o l u m b i a /<br />
S o n y, 7 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : h a r d - p o p<br />
I Manic Street Preachers - o sem-<br />
plicemente Manics - hanno fatto<br />
la storia. O almeno, hanno fatto la<br />
loro storia. Quasi vent’anni di al-<br />
terne vicende, condite da passaggi<br />
a volte difficili, come la sparizione<br />
nel 1995 del chitarrista e autore Ri-<br />
chie James Edwards. Oltre a forni-<br />
re alla mitologia rock d’oltremanica<br />
un nuovo martire, i gallesi si sono<br />
costruiti sin dagli esordi una soli-<br />
da reputazione da combat rockers,<br />
mantenendo sempre lealtà nei con-<br />
fronti del loro fedelissimo seguito,<br />
rimasto al loro fianco anche quando<br />
le concessioni al pop si sono fat-<br />
te palesi (This Is My Truth, Tell<br />
Me Yours, 1998). Non hanno mai<br />
realmente attecchito dalle nostre<br />
parti, ma in patria sono più amati<br />
dei Radiohead, a certi livelli: il loro<br />
The Holy Bible (1994), testamento<br />
grunge-wave di Edwards, ha sca-<br />
valcato Ok Computer in una clas-<br />
sifica di Newsnight della BBC.<br />
Tutto questo per dire che Send<br />
Away The Tigers è l’ennesimo ban-<br />
co di prova che vede un act storico<br />
sottoposto al severo giudizio della<br />
contemporaneità e dei fans. I qua-<br />
li, dopo aver mal digerito l’interlo-<br />
cutorio e poppy Lifeblood (2004),<br />
si trovano blanditi con un ruffiano<br />
sbandieramento delle radici prole-<br />
tarie – con tanto di cover nascosta<br />
della lennoniana Working Class<br />
Hero in chiusura - e dello spirito<br />
combattente dei bei tempi, in una<br />
veste sonora adeguatamente aspra<br />
e old style (per i Manics, chiara-<br />
mente: la formula va indietro fino<br />
all’esordio Generation Terrorists;<br />
alla faccia della contemporaneità).<br />
I tre se la giocano facile dunque,<br />
ma se i testi di Nicky Wire non van-<br />
no oltre una scontata retorica an-<br />
timperialista (Imperial Body Bags,<br />
Rendition), le canzoni restano al<br />
palo, con James Dean Bradfield<br />
che, quando non parodizza se stes-<br />
so (la title track), si sente autoriz-<br />
zato a mettere in mostra tutta la sua<br />
latente (?) tamarraggine hard rock<br />
’80 in cose come I Am Just A Patsy,
oba che manco i migliori - si fa per<br />
dire - Europe. Imbarazzante, come<br />
il brit-pop bolso di Winterlovers e<br />
Autumn Song, ballatone che potreb-<br />
bero fare il paio con le ultime pro-<br />
dezze di Brett Anderson. Se non<br />
ne avete abbastanza, c’è anche un<br />
irritante singolo con Nina Persson<br />
dei Cardigans, Your Love Alone Is<br />
Not Enough, a cercare di riconqui-<br />
stare le classifiche riecheggiando<br />
la vecchia hit You Stole The Sun<br />
From My Heart. Con questo disco,<br />
i Manics vincono il nostro persona-<br />
lissimo Grammy 2007 per il pessi-<br />
mo gusto. (4.5/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
M a r i p o s a - B e s t C o m p a n y<br />
( Tr o v a r o b a t o / A u d i o g l o b e ,<br />
m a r z o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : a v a n t p o p<br />
È il caso di dire: la cover scopre.<br />
Rivela il gioco dei Mariposa forse<br />
meglio di quanto non facciano le<br />
loro garrule opere autografe. Al-<br />
l’uopo, ecco questo dischetto che<br />
raccoglie le cover disseminate dai<br />
sette pseudo-bolognesi nel corso<br />
degli anni. Il confronto con gli ori-<br />
ginali è un meccanismo automatico,<br />
che però ti lascia spiazzato quando<br />
le cose prendono una piega impre-<br />
vista. Ebbene, qui l’imprevisto è<br />
praticamente una garanzia: pren-<br />
dete gli spasmi funk-psych-prog-<br />
glam di Sex Sleep Eat Drink Dream,<br />
dove i Crimson finiscono per somi-<br />
gliare ai Contortions che rifanno i<br />
Parliament con la supervisione di<br />
Stan Ridgway, oppure quella Male<br />
di miele che riduce gli Afterhours<br />
ad una robotica, sconcertante inno-<br />
cenza (perduta), o ancora l’arguta<br />
desolazione di Jannacci spedita<br />
tra electro-visioni Terry Riley in Si<br />
vede.<br />
Sono ovviamente audaci, i Maripo-<br />
sa. Forzano le strutture e i confi-<br />
ni stilistici con la noncuranza di<br />
un fall-out al neutrino, generando<br />
splendide mutazioni, “mostruosi-<br />
tà” illuminanti. Senza mai perdere<br />
il rispetto e la tenerezza, l’amore<br />
per la traccia di partenza. Amore<br />
inevitabile nel caso della magnifi-<br />
ca Monti di Mola di De André, che<br />
mantiene vivo e profondo il respi-<br />
ro folk malgrado gli strapazzi free<br />
e gli spaesamenti seriali Tortoise.<br />
Amore meno scontato ma evidente<br />
anche per una Ob-la-di Ob-la-da<br />
tutta guizzi clowneschi e devolu-<br />
zione wave, salvo quel middle eight<br />
sospeso in un trepido acquario Wil-<br />
co. Ma il pezzo forte della scaletta<br />
è, a parer mio, quella Il mostro e<br />
l’aerosol che spedisce il composi-<br />
tore russo Dmitrij Kabalevskij tra<br />
bucoliche alienazioni un po’ The<br />
Books e un po’ Marco Parente.<br />
Tanti indizi fanno una prova: i Mari-<br />
posa sono dei geni. (7.2/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
M a t s G u s t a f s s o n & Yo s h i m i -<br />
Wo r d s O n T h e F l o o r ( S m a l l t o w n<br />
S u p e r j a z z z / W i d e , 1 6 a p r i l e<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f r e e i m p r o v<br />
L’etichetta norvegese Smalltown<br />
Superjazzz, è di quelle che si muo-<br />
vono lentamente, per piccoli passi,<br />
ma lo fanno in maniera eccellente e<br />
senza sbavature. L’approccio stret-<br />
tamente collaborativo dell’etichetta,<br />
che tende a mettere insieme i più<br />
grandi artisti dell’avanguardia free-<br />
jazz-improv, lo avevamo già notato<br />
nel caso del Diskaholic Anony-<br />
mous Trio di Mats Gustafsson,<br />
Thurston Moore e Jim O’Rourke:<br />
un approccio aperto a tutto, che fa<br />
della diversità di vedute e di espe-<br />
rienze il suo tratto caratteristico.<br />
Di questa sorta di new wave of free<br />
improvisation, il sassofonista Mats<br />
Gustafsson è senz’altro la punta di<br />
diamante, l’emblema stesso della<br />
contaminazione a 360 gradi. Il suo<br />
curriculum parla chiaro: Zu, David<br />
Grubbs e Sonic Youth sono solo<br />
alcuni dei compagni di viaggio con<br />
cui Mats ha scelto di dare vita alle<br />
sue idee musicali. Mancava un ele-<br />
mento principale, però, nelle sue<br />
esperienze: il rapporto con la voce<br />
umana.<br />
Detto fatto: nel 2005 Gustafsson in-<br />
vita in Svezia, per una performan-<br />
ce in duo, la voce femminile dei<br />
Boredoms (nonchè fondatrice di<br />
OOIOO) Yoshimi, della quale aveva<br />
già dichiarato di essere un sincero<br />
fan. Ne viene fuori un’improvvisa-<br />
zione straordinaria, un’esperienza<br />
ipnotica e totalmente “aperta”, il cui<br />
risultato viene sintetizzato, esat-<br />
tamente due anni dopo, in questo<br />
Words On The Floor. Composto<br />
di sole due tracce, l’album si apre<br />
con un’introduzione (Soundless<br />
Cries With Their Arms In The Air,<br />
una sorta di lamento a due voci) di<br />
appena tre minuti, che lascia subito<br />
il posto alla mastodontica And The<br />
Children Play Quietly With Words<br />
On The Floor, un’improvvisazione<br />
che supera i quaranta minuti, un<br />
viaggio musicale che attraversa<br />
tutte le trasformazioni del dialo-<br />
go tra sax e voce, a cui fanno da<br />
sfondo i live electronics, strumento<br />
imprescindibile quando si tratta di<br />
allargare gli spazi della sperimen-<br />
tazione sonora.<br />
La voce di Yoshimi, nella sua ver-<br />
satile ed estenuante ricerca vocale<br />
ricorda il Demetrio Stratos della<br />
maturazione cageiana e in alcuni<br />
casi sfiora i virtuosismi di un Phil<br />
Minton, senza mai abbandonare,<br />
però, quella dolcezza del timbro<br />
femminile che viene fuori anche<br />
nelle parti più urlate e riesce a spa-<br />
ziare tra il puro canto meditativo al<br />
jazz e persino al noise, seguendo<br />
un’ispirazione trasbordante. Gu-<br />
stafsson, che utilizza diversi “ta-<br />
gli” del suo strumento (tra i quali<br />
il raro slide sax), a volte puntella<br />
la voce, limitandosi a tesserne il<br />
contrappunto o a “creare lo sfondo”<br />
con tecniche rumoriste o percus-<br />
sive; altre si immerge in dialoghi<br />
intimi, metafisici, dall’atmosfera<br />
quasi zen, che si trasformano gra-<br />
datamente in esplosioni, picchi di<br />
tensione che i filtri e i suoni elet-<br />
tronici contribuiscono ad amplifi-<br />
care, inserendosi con la plasticità<br />
che gli è propria, tra le trame dei<br />
due strumenti. Dopo venti minuti,<br />
la performance ha già raggiunto un<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
tale livello di coinvolgente potenza<br />
ipnotica, che non può che suscita-<br />
re in noi ascoltatori passivi di un<br />
freddo elettrodomestico, sentimenti<br />
di invidia per quei pochi che quella<br />
sera di aprile di due anni fa han-<br />
no avuto la possibilità di assistere<br />
a questa delizia al Malmo Kunzer-<br />
thus. Ci dobbiamo accontentare di<br />
un disco. Ma in ogni caso, non è<br />
poco. (8.0/10)<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
D a n i e l e F o l l e r o<br />
M i c h a e l A n d r e w s – H a n d O n<br />
S t r i n g ( P i a s / S e l f , 4 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k , i n d i e , p o p<br />
Come altri autori di colonne sono-<br />
re prima di lui, Michael Andrews<br />
corre il rischio di essere ricordato<br />
come “quello di Mad World”, l’eva-<br />
nescente cover dei Tears For Fears<br />
che realizzò insieme all’amico Gary<br />
Jules per la chiusura del cult movie<br />
Donnie Darko. Non proprio un male,<br />
in fondo: a quel bel colpo sono se-<br />
guiti i servigi in veste di produttore<br />
per Brendan Benson e Inara George<br />
(The Bird And The Bee), che han-<br />
no assicurato al musicista losange-<br />
lino il dovuto rispetto nell’ambien-<br />
te, consolidato dalla soundtrack<br />
di Me And You And Everyone We<br />
Know (2005); Hand On String, già<br />
rilasciato l’anno scorso negli Sta-<br />
tes, ha così il compito di mettere<br />
alla prova per la prima volta le sue<br />
doti di autore ed interprete, oltre a<br />
quelle già affermate di arrangiatore<br />
e compositore.<br />
Come da copione, Andrews si mo-<br />
stra raffinato tratteggiatore di pae-<br />
saggi sonori, affidandosi ad una<br />
produzione ariosa dal forte sapore<br />
seventies, con acustiche delicate<br />
e squillanti, bassi gonfi, drumming<br />
secco e sparuti synth d’epoca, per<br />
occasionali effetti space rock e<br />
Canterbury. E’ infatti al songwri-<br />
ting e alla sensibilità eterea di quei<br />
tempi e quei luoghi che Mike ren-<br />
de omaggio, riecheggiando a più<br />
riprese i primi Pink Floyd (Just A<br />
Thought), Nick Drake (quello jaz-<br />
zato in Orange Meet Lemon, quello<br />
della luna rosa in Through The Fog)<br />
e Wyatt (Love Is Tired), conceden-<br />
dosi talvolta a una soffice folktroni-<br />
ca (Sweeping Cleaning and Orga-<br />
nizing) e a nebbioline memori delle<br />
vergini suicide degli Air (Tracings).<br />
Un senso della melodia fra XTC<br />
(Hello Lemon) ed Elliott Smith (Be-<br />
fore The Echo) è l’ulteriore indizio<br />
di un talento indubbio, ma ancora<br />
tutto da scoprire. (7.0/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
N a s t a s i a N i n a & J i m W h i t e - Yo u<br />
F o l l o w M e ( F a t C a t / A u d i o g l o b e ,<br />
2 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : s o n g w r i t i n g<br />
Nina così agguerrita non c’era mai<br />
capitato di sentirla. Già, perché la<br />
sensazione che al primo ascolto dà<br />
questo You Follow Me, in coppia<br />
con Jim White, è proprio questa:<br />
furia scalpitante, grinta, un grida-<br />
re la propria presenza che sa quasi<br />
di catarsi. Certo, i due li avevamo<br />
già visti collaborare sia per Run To<br />
Ruin che per On Leaving, ma que-<br />
sta volta lo spessore del batterista<br />
dei Dirty Three si fa notare e molto.<br />
È come se le pelli percosse da Jim<br />
infondessero di una forza inusuale<br />
la fragilità della splendida voce di<br />
Nina. I sentieri percorsi sono sem-<br />
pre gli stessi oscuri anfratti folk<br />
noir della cantautrice newyorkese,<br />
apprezzati già in abbondanza, ma<br />
con quanta passione e veemenza<br />
vengano interpretati è cosa nuova.<br />
È il caso di I’ve Been Out Walking,<br />
in cui il drumming inizia ad incre-<br />
sparsi verso la metà sorreggendo<br />
una voce solo all’apparenza flebile<br />
e che in Late Night si fa potente urlo<br />
liberatorio, terminando in un’altret-<br />
tanto trascinante I Come After You.<br />
Piace molto questa espressività in-<br />
tensa che rifulge ancor di più sotto<br />
i lampi delle bacchette martoriate<br />
di White, il problema però, se pro-<br />
prio ne vogliamo trovare uno, è che<br />
You Follow Me suona più come un<br />
disco di quest’ultimo che non della<br />
Nastasia. Poco male, dall’ascolto<br />
c’è sempre di che godere. (6.8/10)<br />
V a l e n t i n a C a s s a n o<br />
N e u r o s i s - G i v e n To T h e R i s i n g<br />
( N e u r o t / W i d e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : a p o c a l y p t i c r o c k<br />
Prodotto da Steve Albini, Given To<br />
The Rising è il titolo dell’attesis-<br />
simo ritorno dei Neurosis, uno dei<br />
nomi cardine del panorama della<br />
musica estrema. Una band, parti-<br />
ta a metà degli anni ‘80 dall’har-<br />
dcore radicale, ha subito continue<br />
mutazioni incamerando influenze<br />
molteplici, dal metal al folk apoca-<br />
littico, dall’industrial al post-rock, e<br />
aumentando il numero dei compo-<br />
nenti fino a diventare un ensemble<br />
multimediale. Il disco si apre con<br />
un riff sabbathiano che non è proprio<br />
il massimo dell’originalità per<br />
una band abituata in passato a stupire<br />
dai primi secondi l’ascoltatore.<br />
Fortunatamente Given To The Rising<br />
si evolve poi sprofondando<br />
l’ascoltatore nelle classiche atmosfere<br />
da incubo per poi esplodere<br />
in ciclopici crescendo chitarristici.<br />
Fear and Sickness sfodera colossi<br />
granitici frantumati da un finale<br />
noise dissonante e corrosivo.<br />
Il resto dell’album mostrale armi<br />
migliori dell’arsenale neurotico, To<br />
The Wind ci trasporta in un’odissea<br />
siderale di stampo Constellation<br />
per poi catapultarci nell’occhio di<br />
un ciclone di riff taglienti e percussioni<br />
traumatiche, la quiete che<br />
segue è illusoria perché il brutale<br />
growl di Scott Kelly fa da rampa<br />
per una nuova discesa agli inferi.<br />
Shadow e Nine sono intermezzi in<br />
puro stile Godflesh, in Hidden Faces<br />
il consueto crescendo trova<br />
sbocco in un’eruzione di bordate<br />
chitarristiche e cori infernali. La<br />
quiete di Origin si riallaccia alle atmosfere<br />
eteree degli progetti solisti<br />
di Steve Von Till e pare che il gruppo<br />
si congedi in punta di piedi, se<br />
non fosse per l’epilogo distruttivo.<br />
L’impressione è che i Neurosis si<br />
stiano evolvendo in maniera asintotica,<br />
avvicinandosi sempre più<br />
alla perfezione, ma diminuendo<br />
progressivamente lo scarto e l’ef-
L a r r i k i n L o v e - T h e F r e e d o m S p a r k ( I n f e c t i o u s , 2 0 0 6 ; R y k o /<br />
A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o p<br />
Nel marasma delle recenti uscite albioniche, fra un grande ritorno, un kla-<br />
xon di qua e un horror di là, quasi ci sfuggiva da sotto il naso il debutto<br />
dei Larrikin Love, sbarbatelli di Twickenham che NME non ha esitato a<br />
etichettare come capiscuola di una fantomatica scena Thamesbeat. Cosa<br />
poi volessero dire i colleghi d’oltremanica non è molto chiaro probabilmen-<br />
te neanche a loro; fatto sta che, grazie a un accordo tra la Transgressive<br />
– small label particolarmente acuta - e la Warner, i quattro londinesi si<br />
trovano già in una posizione invidiabile per degli esordienti. Ok, il copione<br />
è il solito, e chi si chiede cosa mai avrà di speciale l’ennesimo parto del-<br />
l’ondata post-Libertines fa bene ad avvalersi del beneficio del dubbio.<br />
Fa bene sì, perché si godrà di più la sorpresa, ascoltando The Freedom<br />
turn it on<br />
Spark. Dite quel che volete, ma innestare in un canovaccio di marca Doherty (ovvero, Clash + Smiths) sonorità<br />
klezmer e tzigane non è cosa che riesce spesso, tantomeno in modo così naturale ed efficace. Six Queens e<br />
Edwould, ovviamente due singoli, stanno lì a dimostrarlo, mentre Happy As Annie fa ancora meglio: un bluegrass<br />
che scivola in reggae e punk come nulla fosse, con tanto di ritornello killer. E ancora: Meet Me By The Getaway<br />
Car, che da brit ballad romantica vira ragamuffin, o On Sussex Down, bossa che si trasforma in power pop à la<br />
Police. E così via, in un mix di arroganza da enfants prodiges (fra gli ospiti c’è un certo Patrick Wolf, guarda<br />
caso) e ricerca stilistica intellettuale e popolare – inteso come pop ma anche folk, se fra le altre cose in At The<br />
Feet Of Re si rievoca lo spirito dei Pogues più classici.<br />
Non bastasse, a capo dell’avventuroso combo c’è uno che vorrebbe “fare un falò a Westminster con la porta di<br />
Downing Street”, a cui “l’Inghilterra non ha più niente da offrire”, dal momento che “ogni cosa che adora è venuta<br />
prima del 1984” (Downing Street Kindling). Viste le assonanze col Morrissey di Meat Is Murder / The Queen Is<br />
Dead - anche nella deliziosa Well, Love Does Furnish a Life –, allungheremmo la soglia di un paio d’anni, a voler<br />
esser precisi.<br />
Eppure questo è il suono della generazione dell’’86, di quelli che in quell’anno ci sono nati, non dei vecchiacci<br />
che se lo ricordano. O meglio, di quella parte di essa che non si riconosce nelle intricate e logorroiche rime<br />
urbane di Alex Turner o nei plastificati weekend in città dei Bloc Party. Che vuole essere diversa. Come Edward<br />
Larrikin e i suoi, un po’ art rockers un po’ bohemiens, un po’ orchestrina un po’ punk band. (7.2/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 7
fetto sorpresa tra un album e l’altro.<br />
Siamo di fronte a una catastrofe<br />
sempre più devastante ma sempre<br />
più prevedibile. (6.5/10)<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
P a o l o G r a v a<br />
N i n e I n c h N a i l s – Ye a r Z e r o<br />
( U n i v e r s a l , 1 6 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d u s t r i a l p o p<br />
In epoca di surriscaldamento globa-<br />
le termo-religioso, prossima inver-<br />
sione dei poli magnetici e probabile<br />
invasione dei Visitors (o degli alie-<br />
ni di Essi Vivono che per la crona-<br />
ca sono già among the living dagli<br />
anni ‘80), Trent non può che cap-<br />
tare nuovi segnali e angosce cyber<br />
contemporanee immergendosi in un<br />
altro dei suoi concept futuristici.<br />
Anticipato da una strategia di comu-<br />
nicazione in grande spolvero culmi-<br />
nata persino (ma ci stupiamo solo<br />
per protocollo) con un trailer stile<br />
La guerra dei Mondi di Spielberg,<br />
è, ancora una volta, un film d’azio-<br />
ne e fantascienza all’americana,<br />
tra cibernetica e survivalism (ap-<br />
punto), l’immaginario a cui il signor<br />
Nine Inch Nails fa riferimento. Un<br />
braccio armato pronto a catturare<br />
l’audience di petto a suon di tripodi<br />
(…tripudi) fritture bio-meccaniche,<br />
latte Alien 10, buon vecchio rock<br />
rivestito Mad Max (anzi facciamo<br />
Blade), appeal techno-punk (vedi<br />
anche Young Gods) e orgasmi ste-<br />
reofonici multipli. A reggere la sce-<br />
nografia, al solito, la scuola cata-<br />
strofica del dopo Thobbing Gristle<br />
aggiornata ai Novanta (e fermatasi<br />
lì), teorie del complotto nella (e per<br />
la) tv generation comprese, un plot<br />
che Reznor canta oggi come allora<br />
ma in maniera più diretta e spesso,<br />
deludentemente, qualunquista, sfi-<br />
gatamente giovanilista. Una voce<br />
accessibile alle masse, che sa come<br />
no di essere rétro, fronte di un pal-<br />
co di led e effetti speciali. E sono<br />
loro di fatti, più che in With Teeh,<br />
a aggiornare il perimetro con sfavil-<br />
lanti electro-strusci laptop, gli unici<br />
spunti innovativi di marchio di fab-<br />
brica che imbarca l’obsolescenza<br />
da molti pori ma non vuole proprio<br />
saperne di apparire vecchio. Una<br />
firma, quella di NIN, che non cer-<br />
ca più l’apoteosi (The Downward<br />
Spiral) né la catarsi (The Fragile),<br />
piuttosto, come nel caso dei recenti<br />
Young Gods porta a sé un revival<br />
possibile mostrano l’immagine più<br />
fruibile e incisiva di sé.<br />
Nel proiettile very punk Survivalism<br />
fanno bella mostra folate radioatti-<br />
ve e effettismo post-rave. Efficace.<br />
Ma è un terreno che crollerà in ba-<br />
nalità melodiche Ottanta come The<br />
Good Soldier, o in ritornello inde-<br />
centi come Vessel. Brano quest’ul-<br />
timo emblematico perché carico di<br />
grandi effettismi cyber-funk che<br />
mostrano bellamente la forbice del<br />
disco: alcuni (pochi) brani dall’ar-<br />
rangiamento impressionante conditi<br />
in una scrittura da allocchi. Le can-<br />
tasse Mike Patton queste canzoni<br />
farebbero faville. Le canta Reznor<br />
e sono roba, nel migliore dei casi,<br />
per fighetti. Magari a quelli che<br />
dopo l’indesiderata ondata Ottanta,<br />
vedono coincidere l’anno zero con<br />
un’auspicata rinascita dei Novanta,<br />
gli anni dell’apocalisse cyber-tech-<br />
no-rock. Sarà. Si vedrà. Ma per un<br />
non più giovane Trent Reznor, che<br />
pare ormai aver vinto la battaglia<br />
contro l’alcol, è il tempo delle can-<br />
zonette in abiti asciutti – pensa lui<br />
– ultra ganzi. Qualche bel comple-<br />
to firmato c’è, l’abbiamo detto, ma<br />
sono pur sempre canzonette e sono<br />
tutte su My Space. Ascoltate e de-<br />
cidete. (5.5/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
Organ Eye – Self Titled (Staubgold<br />
/ Wide, 17 aprile 2007)<br />
G e n e r e : d r o n e m u s i c<br />
La sigla è nuova ma la musica e i<br />
personaggi no. Gli Organ Eye na-<br />
scono infatti dalla fusione di due<br />
delle più interessanti drone ban-<br />
ds in circolazione: i portoghesi<br />
Osso Exòtico (David Maranha e<br />
Patricia Machas) e gli australiani<br />
Minit (Jasmine Guffond e Torben<br />
Tilly). L’album di debutto, omoni-<br />
mo, rappresenta la perfetta fusio-<br />
ne tra l’approccio dei primi e lo<br />
stile dei secondi, tra la plasticità<br />
dei portoghesi e la ripetitività de-<br />
gli australiani. Le due tracce di cui<br />
si compone il disco, intitolate pro-<br />
grammaticamente Tema #1 e Tema<br />
#2, riassumono l’estetica di una<br />
drone music classica, che lavora in<br />
crescendo, passando dal minimali-<br />
smo della prima parte al rumorismo<br />
della seconda. L’introduzione len-<br />
tissima e statica che pigramente si<br />
sostanzia in un drone. Il crescendo<br />
sinistro delle interferenze. Lo scia-<br />
mare elettronico che, alla maniera<br />
dei Growing, si incastra in blocchi<br />
di frequenze interrotte. Un habitat<br />
di microsuoni mandati in loop e<br />
messi in circolo dal suono reiterato<br />
di uno psichedelico organo ham-<br />
mond. Il marziale panorama noisy<br />
alla Fullerton Whitman, in cui si<br />
sfocia nell’ultima parte di Tema #2<br />
prima di annichilirsi nell’apocalitti-<br />
co finale. Per essere drone music,<br />
quella degli Organ Eye si mantiene<br />
meritoriamente lontana dai classi-<br />
ci momenti di noia che affliggono il<br />
genere. Un nome da segnarsi per<br />
gli estimatori di queste sonorità<br />
(6.8/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
Pan Sonic – Katodivaihe /<br />
Cathodephase (Blast First Petite,<br />
aprile 2007)<br />
G e n e r e : p a n s o n i c<br />
Potremmo intervistare Mika e Ilpo<br />
anche fra dieci anni e avremmo<br />
sempre le medesime risposte: “we<br />
just play music”, dove quel “just”<br />
equivale a dire che i due suone-<br />
ranno sempre - e unicamente – per<br />
mezzo di apparecchiature analogi-<br />
che assemblate da un amico di “fa-<br />
miglia”; non utilizzeranno synth o<br />
sample digitali salvo in rari casi (e<br />
se fosse per Mika, mai); infine non<br />
cambieranno mai l’oscillatore video<br />
(anch’esso analogico), tanto meno<br />
registreranno diversamente se non<br />
dal vivo su DAT (senza overdubs<br />
chiaramente). Punto.<br />
Dunque potrebbero queste teste bi-<br />
narie (che odiano i bit) trovarsi bene<br />
in un contesto anche lontanamente
contingente? Certamente no, infat-<br />
ti dopo essersi autoesiliati (!) dalla<br />
Blast First gestita dalla Mute (pas-<br />
sata sotto il controllo EMI), i due si<br />
sono trasferiti nella più agile Bla-<br />
stfirst (Petite) con la quale usciran-<br />
no anche le prossime (due) uscite a<br />
firma Pan Sonic. Stoicismo e immo-<br />
bilità? Sì (come no), Katodivaihe<br />
è un lavoro che affronta in maniera<br />
maggiormente diretta il dub, poi il<br />
funk e persino l’(hard) rock, e se<br />
questo già non è poco (per loro),<br />
troviamo pure l’ospite: la giovane<br />
islandese Hildur Gudnadottir al vio-<br />
loncello (già nel duo Angel a firma<br />
Schneider Tm e Ilpo Vaisanen) ad<br />
aggiungere al sound un tocco ca-<br />
meristico (e gothic) in brani come<br />
Virta (immaginate un incrocio 4AD<br />
e Autechre), oppure una mimesi tra<br />
pittura astratta e digitale (pardon,<br />
analogica) in Hyonteisista, oppure<br />
semplicemente un sibilo cosmico<br />
(molto Karlheinz Stockhausen e<br />
Sun Ra) in Suhteellinen. Conoscen-<br />
doli, dove c’è addizione c’è pure va-<br />
lenza opposta, dunque piece avan-<br />
guardiste - solitamente lasciate<br />
alla sterminata geografia dei titoli<br />
solisti - come Kertsilogia (suoni nel<br />
vuoto, echi, piccoli glitch e silenzi<br />
direttamente dal catalogo Vainio),<br />
oppure lancinanti improvvisazioni<br />
da motosega (la citata Suhteellinen<br />
dalla discografia Angel-Vaisanen).<br />
Naturalmente non possono mancare<br />
le track figlie tanto di Kesto quanto<br />
di Kulma (Laptevinmeri, Kuumuu-<br />
dessa Muodostuva), con almeno<br />
due momenti d’alta classe: il riff<br />
sotto forma di esplosione acquatica<br />
di Lahetys (alzare il volume please)<br />
e le basi Throbbing Gristle / Suici-<br />
de di Virta 2. Giusto sotto, i giochi<br />
di quest’ultime nel bitume subato-<br />
mico del basso (e attitudine metal)<br />
di Koneistaja, o nei glitch insettoidi<br />
di Hyonteisista (tra pause e effetti).<br />
Che dire, un album variegato e di-<br />
spersivo, dove è senz’altro la parte<br />
industrial a far da caparra (anche<br />
i micro suoni glitch insettoidi sono<br />
interessanti) e nel quale non man-<br />
cano neanche i difetti: la Gudna-<br />
dottir non sempre perfettamente<br />
inserita, e soprattutto alcuni aspri<br />
momenti impro che odorano di au-<br />
toreferenzialità, anzi di prevedibile<br />
impermeabilità (ascoltate anche il<br />
recentissimo lavoro di Mika Vainio,<br />
Revitty, Wavetrap, aprile 2007 per<br />
farvene un’idea).<br />
Un monolite in transito. Quello di<br />
Odissea Nello Spazio però. Mica<br />
ma… (7.0/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
P a n k o w – G r e a t M i n d s A g a i n s t<br />
T h e m s e l v e s C o n s p i r e ( W h e e s h t<br />
/ A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e b m / i n d u s t r i a l<br />
Non c’è niente da fare: i Pankow<br />
rimangono fortunatamente uguali<br />
a loro stessi, dietro a qualche pic-<br />
cola differenza. Si specchiano nel<br />
loro passato (allo stesso modo del<br />
precedente Life Is Offensive And<br />
Refuses To Apologise, del 2002),<br />
come l’ascoltatore si specchia nel-<br />
l’interno riflettente del digipack<br />
di questo Great Minds Against<br />
Themselves Conspire (stampato<br />
per l’etichetta Wheesht, nata ad<br />
hoc per il disco). Ovvio, rispetto<br />
all’esordio (Freiheit Fur Die Skla-<br />
ven) il suono è meno secco e ta-<br />
gliente, più corposo ed esplicita-<br />
mente rumorista, meno industriale<br />
e più bruitista. Si è insomma persa<br />
da tempo la personalità invaden-<br />
te (e produttiva) dell’Adrian She-<br />
rwood di allora (anche se qui an-<br />
cora fa eco in Yagan), che in quel<br />
disco “esuberava”, ma che già in<br />
Gisela (dove i Pankow legiferavano<br />
sull’ebm) più non si avvertiva.<br />
La produzione, qui sta il punto, è<br />
la tavolozza che permette a Mau-<br />
rizio Fasolo e Alex Spalck (que-<br />
st’ultimo figliol prodigo tornato già<br />
per lo scorso album) di reputare<br />
questo Great Minds… come il loro<br />
migliore lavoro. Ed è una produzio-<br />
ne sensibilmente computerizzata<br />
(nel senso che si sente, pur non<br />
usando suoni laptop), confezionata<br />
nella casa australiana del vocalist<br />
multilingue. Si parte col botto, cioè<br />
con un disco-inferno come Deny<br />
Everithing. Si va avanti con una<br />
discreta violenza, fino alla melodia<br />
vocale classicamente Pankow – ma<br />
cucita su una canzone che sembra<br />
uscita da The Fat Of The Land<br />
dei Prodigy – di Estreme. Heroi-<br />
na (Für Tobias Gruben) ricorda poi<br />
gli Einstürzende Neubauten degli<br />
anni Novanta. Ma è persa l’anar-<br />
co-aggressività degli inizi, che era<br />
sovversiva ma, sostanzialmente,<br />
divertita – come dimostra l’estro e<br />
l’ironia nella scelta delle innume-<br />
revoli cover registrate dal gruppo<br />
fiorentino. Ormai ai Pankow sem-<br />
brano venir meglio le serpentine<br />
da incubo lento in coda all’album,<br />
da Each Man Has A Way To Betray<br />
The Revolution a The End is Nigh,<br />
finale struggente, trascinato sopra<br />
un fruscio di sottofondo che decolla<br />
e poi atterra, e un beat lentissimo<br />
di cui ci si scorda puntualmente<br />
finché non si ripresenta, come un<br />
singhiozzo paranoico. Una chiusa<br />
che fa cambiare idea chi pensava,<br />
fino a quel punto, di stare sotto al<br />
(7.0/10)<br />
G a s p a r e C a l i r i<br />
Parts & Labor – Mapmaker<br />
(Jagjaguwar – Brah / Audioglobe,<br />
22 maggio 2007)<br />
G e n e r e : p o s t n o i s e - r o c k<br />
Lievemente più melodico dei pre-<br />
cedenti, Mapmaker segna la com-<br />
pleta maturazione del terzetto<br />
americano. Non che il grado di<br />
maturità di una band si colga dal-<br />
la percentuale di melodie inserite<br />
in un album, ma al terzo album in<br />
proprio (escluso Rise Rise Rise,<br />
diviso con Tyondai Braxton) i Par-<br />
ts & Labor ottengono la proverbiale<br />
quadratura del cerchio; infatti alle<br />
coordinate prettamente noise-rock<br />
dei dischi precedenti, i tre hanno<br />
aggiunto una particolare attenzione<br />
alla forma canzone (specialmente<br />
nelle linee melodiche vocali) che<br />
rende il suono orecchiabile senza<br />
perdere in aggressività e compat-<br />
tezza. L’opener Fractured Skies è<br />
una vera e propria bomba: batte-<br />
ria ipercinetica, rumori di fondo da<br />
chincaglieria elettronica da due sol-<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9
di, una melodia vocale ascendente<br />
da sballo e infine una esplosione<br />
di chitarra distorta da smuovere il<br />
cervello dentro la scatola cranica.<br />
Come dire, la convergenza in quat-<br />
tro minuti del noise chitarristico più<br />
brutale e astratto, delle tastierine<br />
giocattolo care alla now wave e di<br />
un invidiabile senso della melodia.<br />
La seguente Brighter Days non è da<br />
meno, rischiando di divenire un an-<br />
them del post-noise-rock, per quel<br />
suo appiccicarsi in testa. Due su<br />
due è già una partenza da brividi,<br />
come non se ne sentiva da tem-<br />
po, ma quando attacca Vision Of<br />
Repair, beh…tre indizi fanno una<br />
prova. Una batteria invasata che si<br />
srotola lungo l’autostrada del rock<br />
americano travolgendo tutto, come<br />
solo un altro gruppo ha saputo fare<br />
negli ultimi anni e che evito di cita-<br />
re solo perché sta dietro l’etichetta<br />
che pubblica il tutto. Se a questo<br />
trittico iniziale aggiungete deflagra-<br />
zioni quasi punk-rock straight-in-<br />
your-face (Camera Shy), una cover<br />
dei Minutemen a ribadire lontane<br />
parentele (King Of The Hill), una<br />
coda sperimental-melodica a far<br />
da chiosa (Knives And Pencils),<br />
converrete con me che Mapmaker<br />
rappresenta l’apice delle potenzia-<br />
lità espressive del trio. Resta solo<br />
da vedere se seguirà una esplo-<br />
sione anche a livello commerciale.<br />
(7.2/10)<br />
0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
S t e f a n o P i f f e r i<br />
P e r t u r b a z i o n e - P i a n i s s i m o<br />
f o r t i s s i m o ( C a p i t o l / E M I , 1 6<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
g e n e r e : a d u l t p o p<br />
Con inflessibile leggerezza da cac-<br />
ciatori di farfalle, riecco i Pertur-<br />
bazione sulle tracce del pop-rock<br />
perfetto. Una ricerca senza posa<br />
che non fa pose (non ancora).<br />
Malgrado, en passant, i ragazzi di<br />
Rivoli siano saltati - oplà - sul tor-<br />
pedone di una major. E che major.<br />
Meritatamente, se ciò vi sembra un<br />
merito. Ad ogni modo, Pianissimo<br />
fortissimo significa dieci canzoni<br />
che si aggiungono al repertorio ir-<br />
robustendolo non poco, perché tra<br />
esse non c’è ombra di stanchezza:<br />
non nei testi, non nelle musiche, gli<br />
uni e le altre sempre ben a fuoco.<br />
Un incendio di quieta inquietudine<br />
che cova nel quotidiano, ad altez-<br />
za d’uomo. Palpiti semplici e banali<br />
sì, ma dall’inestimabile pregnanza,<br />
sospesi tra vibrazioni psichedeli-<br />
che (i reverse e i coretti angosciosi<br />
di Qualcuno si dimentica), distilla-<br />
ti jingle-wave (On/Off), post-soul<br />
dinoccolati (Leggere parole) e<br />
struggimenti da camera (Casa mia,<br />
Giugno, dov’eri?). I potenti mez-<br />
zi a disposizione consentono loro<br />
d’ingaggiare un Manuel Agnelli ma<br />
solo per mimetizzarlo tra i tremori<br />
di Nel mio scrigno, senza osten-<br />
tazione, al modo d’un ingrediente<br />
ben stemperato. Così come gli ar-<br />
chi di Davide Rossi - già al lavoro<br />
per i Goldfrapp - sposano la cau-<br />
sa con organica empatia (sentitelo<br />
tra i riverberi foschi di Brautigan).<br />
Così come il fonico Maurice Andi-<br />
loro regala la fragranza pungente e<br />
caramellosa già profusa nei lavori<br />
con Pecksniff e Baustelle. Insom-<br />
ma, forse potevano stupirci con<br />
mirabolanti effetti speciali, inve-<br />
ce Cerasuolo e compagni puntano<br />
sulla “consueta” effettistica targata<br />
Perturbazione: parafrasi dolceagre<br />
(“produco, consumo... credo”), sen-<br />
timentalismo fatalista (“c’è un lam-<br />
pione che si accende proprio sotto<br />
casa tua/quando passo nella notte<br />
forse è un caso forse no/sembra<br />
tutto fatto apposta per scommet-<br />
tere su te”), meditazioni socioesi-<br />
stenziali tra rigurgiti Bacharach<br />
(Controfigurine), quella impagabile<br />
cospirazione di trovate e delicatez-<br />
za (riff di violoncello, fisarmonica e<br />
tromba nella bossa belleandseba-<br />
stiana di Battiti per un minuto - che<br />
a Sanremo avrebbe fatto un figuro-<br />
ne, non l’avessero scartata).<br />
Ma ce la fanno, alla fine, a mettere<br />
nel retino il pop-rock definitivo? No,<br />
naturalmente. Però ci si avvicinano<br />
come a pochi è capitato, almeno da<br />
queste parti. (7.0/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
P i a n o M a g i c – P a r t M o n s t e r<br />
( H o m e s l e e p , 2 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
F u t u r e C o n d i t i o n a l – We<br />
D o n ’ t J u s t D i s a p p e a r ( LT M<br />
R e c o r d i n g s , 2 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
K l i m a - S e l f Ti t l e d ( P e a c e f r o g ,<br />
1 6 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e w a v e r o c k<br />
E pensare che con The Troubled<br />
Sleep… del 2004 sembrava che do-<br />
vessero sciogliersi. I Piano Magic<br />
di Glen Johnson hanno invece tro-<br />
vato nuova linfa vitale rinascendo<br />
letteralmente a nuova vita e oggi<br />
siamo qui a discutere di un disco<br />
che completa una trilogia sugli anni<br />
’80 iniziata proprio con quel lavoro.<br />
Se si è disposti a riconoscere che<br />
il genio estroso di Glen Johnson<br />
non ha una sola faccia e che le sue<br />
costruzioni di elettronica barocca e<br />
surrealista sono state ormai dele-<br />
gate alla sigla Textile Ranch, con<br />
Part Monster abbiamo una prova<br />
ulteriore che per il gruppo madre<br />
vengono conservati i brani più pro-<br />
priamente rock. Brani sempre pen-<br />
sati per parlare un idioma emotivo<br />
recepito immediatamente dall’angst<br />
adolescenziale. Forse si spiega an-<br />
che così, e con quell’aria di elegan-<br />
za 4AD, con il faro di un’Inghilterra<br />
mai troppo oscura, che il gruppo<br />
ha trovato terreno fertile proprio<br />
in Italia, al punto che il nuovo di-<br />
sco viene licenziato per il mercato<br />
italiano dalla nostra Homesleep. Il<br />
canovaccio è lo stesso da quando<br />
i Nostri approdarono proprio su<br />
4AD con il tanto bistrattato Writers<br />
Without Home. Un rock scuro e<br />
teso che odora di wave britannica
S h a n n o n Wr i g h t – L e t I n T h e L i g h t ( To u c h & G o / W i d e , 8 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e r o c k , s o n g w r i t i n g<br />
Lasciandosi alle spalle il suono piuttosto pieno che aveva caratterizza-<br />
to finora gran parte della sua carriera, collaborazione con Yann Tiersen<br />
compresa (2005), con l’ultimo Let In The Light Shannon Wright arriva alla<br />
semplificazione degli elementi sonori, mettendo al centro delle sue can-<br />
zoni il piano, da cui deriva ritmo e geometria sonora. Il risultato si perce-<br />
pisce sin da subito con l’incipit di Defy This Love, marziale e spettrale al<br />
contempo, il cui incedere cabarettistico di chiara matrice Brecht/Weill fa,<br />
di contrasto, penetrare nell’universo lirico della Nostra che declama tutto<br />
il dolore di cui è capace, mettendosi così completamente a nudo. Con la<br />
tensione emotiva, viene da pensare, che è mancata negli ultimi anni a una<br />
come Lisa Germano.<br />
turn it on<br />
Altrove è l’indie rock teso tra le corde di un’elettrica, mentre ci si arrende all’ineluttabilità di una storia ormai<br />
alla fine (‘Cause you won’t be coming home to me and there’s no fight left in me); o ci si interroga su amicizia e<br />
amore nella sussurrata When The Light Shone Down dove la voce viene tenuta sapientemente a freno. Seguono<br />
dark ballad (In The Morning), song minimali per piano dove l’impeto vocale viene liberato pienamente (Steadfast<br />
And True) scaricandone l’elettricità palpabile, echi pavementiani (St. Pete) e song che potrebbero appartenere<br />
alla prima Cat Power (Don’t You Doubt Me).<br />
E sul finale l’impressionistica Louise nella quale al pianoforte fa eco la voce che, tra malinconie e memorie re-<br />
mote, rende perfettamente lo stato di sospensione tra realtà e sogno, di cui buona parte del disco è impregnato.<br />
Album della maturità, conferma la Wright sensuale e intensa interprete di una canzone d’autore che fa dell’au-<br />
tenticità la sua matrice, emozionalmente tesa a rivelarne la natura più nascosta. (7.4/10)<br />
Te r e s a G r e c o<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e
al punto che Johnson e soci fanno<br />
citazioni con l’occhiolino, ma sen-<br />
za che gli ammiccamenti inficino di<br />
un grammo la solidità delle canzo-<br />
ni. In questo senso il gioco critico<br />
si può esercitare già solo sul pia-<br />
no delle parentele. Tastiere e ritmi<br />
alla Cure in The Last Engineer e<br />
Incurable (versione analogico-velo-<br />
cizzata rispetto alla magnifica ver-<br />
sione dell’Ep), i bassi rotondi dei<br />
Joy Division in The King Cannot<br />
Be Found, le chitarre celestiali alla<br />
Felt di Great Escapes, la languidis-<br />
sima steel-guitar di Cities & Facto-<br />
ries che strizza l’occhio alla Whish<br />
You Were Here dei Pink Floyd.<br />
Part Monster è un disco dalla scrit-<br />
tura sicura, con quel tocco di post<br />
modernismo che non guasta e con<br />
il dono di avere un prezioso filo<br />
diretto con il suo pubblico. Ma la<br />
sorprendente primavera dei Piano<br />
Magic non si ferma certo al gruppo<br />
madre. Nell’attesa di ascoltare nuo-<br />
vamente un disco intero dei Textile<br />
Ranch, Johnson in compagnia del<br />
compagno di band, Cedric Pin, si<br />
nasconde dietro la sigla Future<br />
Conditional e dà libero sfogo al<br />
suo amore per il synth-pop. Quin-<br />
di riferimenti a piene mani a New<br />
Order e Kraftwerk e alla stagio-<br />
ne d’oro degli anni ’80. Qualunque<br />
cosa faccia, la mano di Johnson si<br />
sente immediatamente. I suoi svo-<br />
lazzi barocchi e gli inconfondibili<br />
arabeschi elettronici che fanno da<br />
tappeto per le parti vocali, sono la<br />
cosa più vicina ai primissimi singoli<br />
dei Piano Magic che abbia fatto di<br />
recente. Non potevano mancare un<br />
po’ di ospiti per il party rétro: Me-<br />
lanie Pain (Nouvelle Vague) Bob-<br />
by Wratten (Field Mice/Trembling<br />
Blue Stars), Carolyn Allen (The<br />
Wake), Dan Matz (Windsor for the<br />
Derby) e la solita Angele David-<br />
Guillou (Klima). Quest’ultima poi<br />
si cimenta in proprio con un disco<br />
intero dei Klima che mostra tutte<br />
le qualità di questa giovane donna,<br />
voluta espressamente da Johnson<br />
alla voce di alcuni brani degli ulti-<br />
mi Piano Magic e di fatto diventa-<br />
ta un membro aggiunto. Un lavoro<br />
composto interamente da sola e<br />
prodotto, come lo stesso Part Mon-<br />
ster, da Guy Fixsen dei Laika. Una<br />
musica molto femminile che anche<br />
2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
con l’inserto strumentale di amici<br />
come Jerome Tcherneyan dei Pia-<br />
no Magic e Gwen Cheeseman degli<br />
Psapp si avvicina molto a quella<br />
del gruppo madre. Il disco di Klima<br />
non può non ricordare un incrocio<br />
tra i Piano Magic e la Bjork meno<br />
enfatica quando gioca la carta del-<br />
l’elettronica, mentre le cose migliori<br />
le ottiene proprio lontano dai cam-<br />
pionamenti quando gira intorno a<br />
teneri bozzetti bucolici con gli archi<br />
in gran spolvero di You Make Me<br />
Laugh e The Lady Of The Lake. Per<br />
il futuro dovrà giocare soprattutto<br />
queste carte per avere un suono<br />
ancora più personale. La primavera<br />
2007 è insomma quanto mai nel se-<br />
gno dei Piano Magic. (7.2/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
P o l l y P a u l u s m a – F i n g e r s A n d<br />
T h u m b s ( O n e L i t t l e I n d i a n /<br />
G o o d f e l l a s , 2 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o p - r o c k<br />
Al secondo disco dopo l’interessan-<br />
te e fortunato debutto risalente al<br />
2004 (Scissors In My Pocket) la<br />
londinese Paulusma, cantautrice di<br />
impostazione classica fattasi cono-<br />
scere con un folk-pop acustico inti-<br />
mo ed essenziale, debitore in egual<br />
maniera di Joni Mitchell, Carole<br />
King e Laura Nyro, svolta ora verso<br />
un pop elettrico, complice la produ-<br />
zione di Ken Nelson - già con Col-<br />
dplay, Gomez e Badly Drawn Boy<br />
- . Le atmosfere dilatate e soffuse<br />
cedono il passo ad un pop-rock per<br />
la maggior parte abbastanza di ma-<br />
niera che la allineano decisamen-<br />
te al mainstream, ed è un peccato,<br />
perché la stoffa dimostrata con le<br />
consuete ballad umorali (l’inquieta<br />
title track, il singolo Woods, l’inten-<br />
sa Matilda, jazz per piano di ascen-<br />
denza Rickie Lee Jones) avrebbero<br />
promesso ben di più. Ma non ba-<br />
stano i testi profondi, l’attitudine<br />
inquieta e qualche guizzo sporadi-<br />
co qua e là. (5.5/10)<br />
Te r e s a G r e c o<br />
P o r t R o y a l - A f r a i d To D a n c e<br />
( R e s o n a n t , 2 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
Avvistati in rotta verso il blu dai<br />
torrioni del post-rock e dell’indie-<br />
tronica post-shoegaze europea, a<br />
distanza di due anni dall’acclama-<br />
to Flares, i genovesi Port Royal<br />
tornano a attraccare a Reykjavík e<br />
Glasgow con Afraid To Dance. Già<br />
dalla copertina, una clip in super8<br />
che ritrae alcuni ragazzi in azione<br />
di gioco, si può già intuire un imma-<br />
ginario Boards Of Canada di spazi<br />
e tempi della pre-adolescenza tra<br />
speranza, memoria e malinconia.<br />
E così è (se vi pare) con laptop,<br />
tastiere e chitarre a muoversi tra<br />
le coordinate tracciate da Mogwai,<br />
Slowdive, Pan American Sigur Ros,<br />
Mum. Si va dalla cosmica all’ac-<br />
quatica, dalla psyco ambient della<br />
casa, a scenari più scuri tipo 4AD<br />
e qualche incursione a mo’ di bale-<br />
na sott’acqua nell’ambient House<br />
e nella drum’n’bass, il tutto per-<br />
formato con gusto e una caparbia<br />
ricerca di classicità. L’esordio non<br />
era differente ma possedeva pizzi-<br />
chi di grande classe che lo distin-<br />
guevano dal luogo comune, aspetti<br />
che in Afraid To Dance, paiono<br />
dissipati o convertiti alla “descri-<br />
zione dell’attimo”. Forse qualcosa<br />
s’è perso. Un passo a lato più che<br />
uno avanti. Soltanto un buon di-<br />
sco. (6.5/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
P t e r o d a c t y l – S e l f Ti t l e d ( B r a h /<br />
A u d i o g l o b e , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e - r o c k<br />
Siparietti da asilo nido (Blue Jay),<br />
code strumentali in pieno trip slu-<br />
dge/Oneida (Astros), reiterazioni<br />
noise come un imberbe Branca in<br />
totale delirio adolescenziale (Chx<br />
Bx), dreamy pop songs stuprate da<br />
un approccio incoscientemente fol-<br />
le (Safe Like A Train), assalti strai-<br />
ght-in-your-face e urgenza comuni-<br />
cativa (Ask Me Nicely). Questo, ma<br />
anche molto di più, ritroverete nel-<br />
l’omonimo debutto bomba di questo
trio newyorchese d’adozione.<br />
L’ormai scomparso pterodattile, di<br />
cui si può sentir il verso nel fram-<br />
mento untitled che dà inizio all’al-<br />
bum, è volato in quel di NY dopo<br />
aver visto la luce sulle infinite diste-<br />
se di grano dell’Ohio; nella grande<br />
mela è finito sotto contratto per la<br />
lungimirante etichetta degli Oneida<br />
grazie al proprio post-punk di nuo-<br />
va generazione, tribale e asimme-<br />
trico, melodicamente destrutturato<br />
e iconoclasta.<br />
Gli ingredienti non sono nuovi ma<br />
ben amalgamati: armonie vocali<br />
spastiche e intrecciate come nella<br />
migliore tradizione dei padroni di<br />
casa, un tappeto ritmico furibondo<br />
e versatile, una chitarra agile suo-<br />
nata con la grazia di un cavernico-<br />
lo. Se aggiungete frammenti sparsi<br />
del miglior rock cittadino (da Parts<br />
& Labor a Ex Models, passando<br />
per Lightning Bolt) come spezie<br />
che impreziosiscono il sapore e mi-<br />
schiate tutto in un frullatore ad al-<br />
tissime velocità otterrete quel con-<br />
centrato di totale incoscienza che è<br />
Pterodactyl: musica sensualmente<br />
infantile, arty e aggressiva, bislac-<br />
ca e naif.<br />
Al momento non ce n’è bisogno, ma<br />
un domani, quando si dovrà cer-<br />
care gli eredi degli Oneida, beh, i<br />
più accorti sapranno dove cercarli.<br />
(7.0/10)<br />
S t e f a n o P i f f e r i<br />
R a f a e l To r a l – S p a c e S o l o 1<br />
( Q u e c k s i l b e r / S t a u b g o l d /<br />
W i d e , a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e x p e r i m e n t a l<br />
Abbandonati temporaneamente gli<br />
esperimenti alla chitarra - quegli<br />
esperimenti che hanno funzionato<br />
per anni come una sorta di proces-<br />
so di sublimazione consistito nel-<br />
l’approcciarsi allo strumento amato<br />
come a semplice cosa tra le cose,<br />
in grado, esattamente alla stregua<br />
di tutte gli oggetti, di emettere suo-<br />
ni -, il portoghese Rafael Toral ha<br />
inaugurato un nuovo programma<br />
di ricerca che lo terrà impegna-<br />
to almeno fino al 2012. Lo Space<br />
Program consisterà in una serie di<br />
sperimentazioni (strutturate in tre<br />
differenti capitoli: gli Space Stu-<br />
dies, gli Space Elements e gli Spa-<br />
ce Solos, ed inaugurata da quella<br />
specie di manifesto programmatico<br />
che è stato, qualche mese fa, Spa-<br />
ce) che reperteranno su supporto<br />
frammenti infinitesimali delle mi-<br />
gliaia di ore di musica realizzate<br />
nello studio di Lisbona dove l’arti-<br />
sta lavora da anni - nella migliore<br />
tradizione del tecnico del suono - a<br />
dispositivi e generatori di onde so-<br />
nore personalmente brevettati.<br />
Spazio è qui parola da accogliere<br />
nel pieno della sua valenza poli-<br />
semica - e ovviamente, il pensie-<br />
ro non può che tornare a Sun Ra.<br />
Spazio è l’estensione illimitata en-<br />
tro cui il suono si propaga. Spazio il<br />
luogo privato in cui sentirsi a casa<br />
propria - lo studio in cui l’artista<br />
sperimenta senza remora. Spazio<br />
l’avamposto ideale di infinite possi-<br />
bili civiltà aliene – lo Spazio su cui<br />
ancora timidamente fantasticavano<br />
i primi film di fantascienza.<br />
Space Solo 1, il primo lavoro della<br />
serie Space Solo pare concentrarsi<br />
proprio su quest’ultima accezione<br />
del termine. Così, in Portable Ampi-<br />
flier e Portable Amplifier 3, l’ampli-<br />
ficatore portatile elaborato da Toral<br />
sembra quasi voler mimare le con-<br />
versazioni impossibili degli alieni<br />
protagonisti di uno z-movie fanta-<br />
erotico di Mario Gariazzo; il circuito<br />
generatore di feedback in Echo-Feed<br />
simula i rumori di un ecosistema,<br />
con tanto di fauna, appartenente a<br />
una galassia sconosciuta (riuscite<br />
a figurarvi cosa sarebbe successo<br />
se Olivier Messiaen avesse com-<br />
pilato il Catalogue d’Oiseaux su un<br />
altro pianeta?); l’oscillatore porta-<br />
tile di Electrode Oscillator produce<br />
frequenze al limite dell’udibile per<br />
l’orecchio già culturalmente forgia-<br />
to dell’ascoltatore medio - che, è<br />
facile ipotizzarlo, le riterrà scanda-<br />
losamente in-ascoltabili. Ormai to-<br />
talmente affrancata dai concetti di<br />
scrittura o notazione - non a caso<br />
l’influsso più duraturo sull’operato<br />
del portoghese è stato quello eser-<br />
citato dall’opera di John Cage -, la<br />
musica di Rafael Toral vive di azio-<br />
ni, nel senso che a questo termine<br />
dava il Gruppo di Improvvisazio-<br />
ne Nuova Consonanza. Spesso<br />
del tutto subordinati alle dinamiche<br />
corporee di chi li maneggia (si dia<br />
un’occhiata ai video presenti nella<br />
pagina web del musicista), gli ap-<br />
parecchi di Toral diventano quasi<br />
protesi di un corpo umano che non<br />
ha più parola, interfacce fisiche tra<br />
la propria cassa di risonanza inte-<br />
riore e il rumore dello spazio ester-<br />
no - qualunque cosa qui la parola<br />
voglia significare. (7.3/10)<br />
V i n c e n z o S a n t a r c a n g e l o<br />
R i g h e i r a – M o n d o v i s i o n e ( T h e<br />
S a i f a m G r o u p / S e l f , 2 f e b b r a i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e c t r o d i s c o p o p<br />
Dopo più di vent’anni. Azzardare il<br />
ritorno sul pianeta terra. Ritornare<br />
con un bagaglio old school che non<br />
è più nostalgia. È storia. Il nuovo<br />
Righeira è un simbolo di quello che<br />
solo Bologna è stata. Pazienza, gli<br />
Stupid Set, il punk demenziale de-<br />
gli Skiantos, Radio Alice. Gli anni<br />
‘80 eran tanto tempo fa? Non tanto.<br />
Qui si scopre che la cicatrice è an-<br />
cora fresca. Anche se le avvisaglie<br />
si erano già sentite, di prepotenza,<br />
da tempo, qui si spara un colpo di<br />
cannone. Un disco che si rifà a Guy<br />
Debord in maniera sfacciata. La te-<br />
levisione, l’apparire, la verità è solo<br />
tutto falso. E come i Sex Pistols<br />
avevano dichiarato e rivoluzionato<br />
il rock, con il disvelamento della<br />
grande truffa, anche qui si costrui-<br />
sce un mondo fittizio, un grado zero<br />
dell’electro pop. Per ripartire.<br />
Un concept sulla società post-rea-<br />
lity, dove lo stato/chiesa non esiste<br />
se non passa sullo schermo (vedi<br />
il pop-kitch di Il destino di una na-<br />
zione), dove l’individuo vive solo<br />
per i famosi 15 minuti warholiani (il<br />
ricordo post-house à la Subsonica<br />
di Tu sei sul video), dove il mez-<br />
zo pervade tutto (vedi la citazione<br />
dei Kraftwerk nei primi secondi di<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e
apertura di Accendi la televisione).<br />
Ma non solo critica naïf: c’è anche il<br />
ricordo delle serate in cui si andava<br />
‘a la playa’ che riemerge dal sin-<br />
golo uber-italo-ispanico (anticipa-<br />
to su My Space qualche tempo fa)<br />
La Musica Electronica, il pastiche<br />
nonsense con i backing che devo-<br />
no tanto alla lezione ottantiana di<br />
Battiato in Futurista e in Il numero<br />
che non c’è, l’urban electro-soul di<br />
Invisibile con la bella voce di Lub-<br />
na che potrebbe stare nel prossimo<br />
Casino Royale, il post-punk di La<br />
Mujer Que Tu Qieres e il funketto-<br />
ne di China Disco. Un riassunto di<br />
quello che è stato e di quello che<br />
sarà. Gli alieni son tornati e noi<br />
siamo pronti a ballare tutti i loro<br />
singoli. Un incontro ravvicinato del<br />
terzo tipo che osa sorpassare il cli-<br />
ché, che prevede una nuova inva-<br />
sione barbarica di paillettes, spalli-<br />
ne e cerchietti. L’electro(ttanta)pop<br />
(non) è (ancora) morto. Viva i(l) re.<br />
(7.0/10)<br />
4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
M a r c o B r a g g i o n<br />
R u f u s Wa i n w r i g h t - R e l e a s e T h e<br />
S t a r s ( U n i v e r s a l , 1 5 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i p e r p o p<br />
Rufus Wainwright capitolo cinque.<br />
Con quella voce da cugino tenebro-<br />
so di Thom Yorke, da zio saputello<br />
di Patrick Wolf. Con l’ipertrofico<br />
armamentario orchestrale e i cori<br />
gospel. Con quel vaporizzare folk,<br />
errebì, soul, vaudeville e glam as-<br />
sieme a sfavillanti miraggi operisti-<br />
ci e languori da camera, ottenendo<br />
una congettura pop che sa d’alluci-<br />
nazione indomita, del capriccio più<br />
solenne in circolazione. Una propo-<br />
sta che continua a sembrare credi-<br />
bile solo perché in qualche modo<br />
lo stesso Rufus ti fa intendere di<br />
crederci sì intensamente ma non<br />
fino in fondo, lasciando aperto uno<br />
spiraglio in modo che s’intravedano<br />
le quinte, che s’avverta l’odore di<br />
messinscena, di ossessione realiz-<br />
zata. Lui ed il piano al centro del-<br />
la scena, nel cono di luce, col buio<br />
abitato dagli archi trepidi (Tulsa,<br />
Nobody’s Off The Hook), i fondali<br />
screziati da improvvisi esotismi (il<br />
palpitante bolero di Do I Disappoint<br />
You), l’amarezza irrorata da vampe<br />
soul (Going To A Town) e cartilagi-<br />
nosa delicatezza (Leaving For Pa-<br />
ris n° 2). Con quel distacco parte-<br />
cipe, filmico, un carosello di pose<br />
sonore che gli permettono di allun-<br />
gare cordoni ombelicali da Marc<br />
Bolan a Morrissey passando per<br />
Belle And Sebastian (Rules And<br />
Regulations), di sembrare un Neil<br />
Young con la parrucca incipria-<br />
ta sulla famosa spiaggia solitaria<br />
(I’m Not Ready To Love), gli Abba<br />
prodotti dal Brian Eno dei jet cal-<br />
di (Between My Legs) o uno Scott<br />
Walker ipnotizzato Steely Dan<br />
(Slideshow). Naturalmente, inevita-<br />
bilmente, continui ad accettarne le<br />
avances, sostieni il flirt senza te-<br />
mere conseguenze spiacevoli. Per-<br />
ché sai che, una volta consumato<br />
lo spettacolo d’arte varia, si accen-<br />
dono le luci, scompaiono le stelle.<br />
Liberate, finalmente, al loro destino<br />
di polvere. (6.8/10)<br />
Stefano Solventi<br />
S h y C h i l d – N o i s e Wo n ’ t S t o p<br />
( Wa l l O f S o u n d / S e l f , 2 5<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e k e y t a r p o p , w a v e<br />
…e noi che sentite quelle sirene<br />
da ballosballo – Pressure To Come<br />
– stavamo giocando a chi era usci-<br />
to prima se il primo singolo a firma<br />
Shy Child, Noise Won’t Stop (no-<br />
vembre 2005) o quello dei Klaxons<br />
(Gravity’s Rainbow, aprile 2005). Il<br />
nu-rave dei secondi che aveva pre-<br />
ceduto il synth rock dei primi e caz-<br />
zate del genere. Il duo composto<br />
da Pete Cafarella (voce e tastiera<br />
a braccio) e Nate Smith (batteria)<br />
è nato in verità molto prima, nel-<br />
l’estate del 2000, all’epoca degli<br />
esperimenti del cantante/tastierista<br />
con gli Abcs e la realizzazione del<br />
live The Geopraphy of Dissolu-<br />
tion, giusto prima della lavorazione<br />
del capolavoro Super/System (un<br />
lavoro che tra synth, dance e avan-<br />
guardie wave assortite che avrebbe<br />
da dir la sua ancor ’oggi). Protago-<br />
nista d’ogni incrocio possibile che<br />
ha visto un synth protagonista, Ca-<br />
farella, uno che è passato da Terry<br />
Riley con gli Abcs ai Duran Duran<br />
dei Supersysyem senza colpo feri-<br />
re; niente super progetti da queste<br />
parti, piuttosto un side project ri-<br />
stretto a due fatto di teso wave-pop<br />
e kitchume anni Ottanta/Novanta,<br />
la wild side del synth a braccio (la<br />
keytar) in una formula White Stri-<br />
pes convertita ai rave con qualche<br />
song tra indie e synth lo-fi.<br />
Rispetto a Please Consider Our<br />
Time, 2002, il seguito del 2004 One<br />
With The Sun, e tre singoli da allo-<br />
ra a oggi in rapida sintonizzazione<br />
post-rave, gli Shy Child sembrano<br />
fare più sul serio con Noise Won’t<br />
Stop montando sul carrozzone del-<br />
la hard dance al passo del nu-rave<br />
reso famoso dai Klaxons e della<br />
wave danzereccia dei The Faint<br />
(oltre alle stesse esperienze del<br />
Caffarella). Drop The Phone, singo-<br />
lo uscito a febbraio accompagnato<br />
da un video sembra avere i numeri<br />
giusti: strofe à la El Guapo, ten-<br />
sione ritmica per tut del telefono,<br />
batteria e gorgheggi simil Roland<br />
303, poi esplosione sottoforma di<br />
bordoni synth doppiata dalle pel-<br />
li. Pressure To Come è ancora più<br />
tesa ma con meno mordente, idem<br />
per Kick Drum che gioca in sinco-<br />
pe, rapping e vocals Supersystem<br />
e così via, per quasi tutto il platter,<br />
tranne quando i due si cimentano<br />
in indie-pop come Summer (proiet-<br />
tile di gomma carino, volutamente<br />
sfrontato Ottanta/ingenuo Sessan-<br />
ta), oppure nell’attacco synth punk<br />
alla CSS arcigne del singolo Noi-<br />
se Don’t Stop. Estempora<strong>neo</strong>, non<br />
proprio freschissimo ma un passo<br />
nei dancefloor indie non glielo leva<br />
nessuno (p.s. in What it Feels Like<br />
compare dal nulla un reading de-<br />
dicato a De Andrè in italiano. Non<br />
c’entra nulla. Non serve a nulla. Ma<br />
ve lo dovevo dire…). (6.5/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a
T h r o b b i n g G r i s t l e – P a r t Tw o - T h e E n d l e s s N o t ( I n d u s t r i a l R e c o r d s<br />
/ M u t e , 1 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d u s t r i a l<br />
Il virus che muta l’organismo e lo replica in altro. La metastasi che si<br />
allarga a vista d’occhio come un mare di cellule maligne. Uno sguardo<br />
compiaciuto sul disastro in atto. Questo erano i Throbbing Gristle quando,<br />
dalla grigia Inghilterra di fine anni ’70, documentavano a suon di “Rap-<br />
porti Annuali” la catastrofe nel suo farsi e inventavano di sana pianta<br />
l’Industrial. I Throbbing Gristle nel 2007 invece non hanno più bisogno di<br />
catalogare traumi, né di erigere architetture storte e radicali, ma si gusta-<br />
no morbosamente il panorama di un mondo che è già stato contaminato,<br />
infettato, condannato a morte. Se l’anno scorso Scott Walker saliva in<br />
cattedra, muovendo come una marionetta il cadavere di un Elvis decompo-<br />
sto e mettendo in scena il dramma della storia che ripete insensatamente<br />
turn it on<br />
i suoi orrori, quest’anno i quattro si pongono volutamente fuori dal corso degli eventi, fuori dal contesto, fuori da<br />
tutto, vagheggiando già dalla copertina una Montagna Sacra e un’eternità non da conquistare, ma già raggiunta.<br />
Il discorso musicale allora non può che lavorare di sintesi. Psychic Tv, Carter&Cosey e soprattutto Coil, con<br />
lo spirito di John Balance a benedire dall’aldilà. La tromba di Cosey Fanni Tutti quasi sembra invocarlo nel jazz<br />
catacombale di Rabbit Snare, mentre danzando con nani e giganti tra pesanti tendaggi rossi, Genesis P. Orridge<br />
assicura che non c’è da aver paura: “Why are you scared?”. L’ombra lunga dei Coil, quelli più enigmatici e sotto-<br />
pelle, si allunga su gran parte del disco. Christopherson ha gioco facile con l’invocazione affettiva di Orridge in<br />
Almost A Kiss, ma anche Chris Carter e Cosey Fanni Tutti punzecchiano con la loro minimal-techno imbrattata di<br />
ombre in Endless Not. Ma è nei gorghi più neri, nelle disamine più astratte e radicali, negli affreschi ambientali<br />
più liquidi ed esoterici che i quattro eccellono come sempre. Il funk gorgogliante e allucinato di Vow Of Silence<br />
spegne sadicamente le luci in sala; Separated si allunga mantrica e silenziosa su un tappeto di suoni translucidi;<br />
Greasy Spoon si incastra melmosa tra orecchio e orecchio, divorando per nove minuti cervelli e crani annebbiati<br />
dal vuoto quotidiano delle cose. C’è una certa differenza tra il buttarsi dal ciglio del precipizio e l’essere spinti<br />
con un urlo che ti risuona fino a toccare il fondo. I Throbbing Gristle nemmeno se lo pongono il problema. Loro<br />
l’urlo lo hanno lanciato già anni fa. Ora per parafrasare le ultime tracce di questo disco si tratta solo di aspettare<br />
che la caduta termini e di vedere quando toccherà ai vermi. (7.5/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e
S o u l s a v e r s ( f e a t . M a r k L a n e g a n )<br />
- I t ’s N o t H o w F a r Yo u F a l l , I t ’s<br />
T h e Wa y Yo u L a n d ( V 2 , 2 a p r i l e<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k , g o s p e l , t r i p h o p<br />
Da quando ha smesso di essere artista<br />
di culto (leggi: dai Queens Of<br />
The Stone Age in poi), Mark Lanegan<br />
è diventato l’ingrediente buono<br />
per ogni ricetta, la spezia miracolosa<br />
in grado di insaporire anche il<br />
piatto più insipido. Un gioco cui l’ex<br />
Screaming Trees si presta volentieri,<br />
al punto di ritrovarselo in posti<br />
apparentemente inaspettati come<br />
un disco di Isobel Campbell (il<br />
fortunato Ballads Of The Broken<br />
Seas) o, in questo caso, il secondo<br />
album di un duo inglese approdato<br />
al trip hop fuori tempo massimo.<br />
A Rich Machin e Ian Glover, in arte<br />
Soulsavers, non sarà neanche<br />
sembrato vero di avere a disposizione<br />
il vocione più ambito degli ultimi<br />
anni, attorno al quale hanno cucito<br />
atmosfere su misura partendo da<br />
canovacci gospel, blues e spiritual<br />
trattati secondo i dettami del Bristol<br />
sound, con più di una concessione<br />
all’ambient. In una scaletta<br />
che ripartisce originali, strumentali<br />
e cover - non senza ambizioni: No<br />
Expectations degli Stones e Through<br />
My Sails di Neil Young, in duetto<br />
con Bonnie ‘Prince’ Billy), il risultato<br />
arriva senza sforzo. Se a sentire<br />
la rilettura di Kingdoms Of Rain<br />
(dal lontano Whiskey For The Holy<br />
Ghost) giunge puntuale un brivido,<br />
il resto è un ibrido fra I’ll Take<br />
Care Of You e Bubblegum, rivisitato<br />
da Moby e Portishead, con<br />
Lanegan che dispiega gratuitamente<br />
tutto il suo inevitabile carisma<br />
un brano dopo l’altro. Un giochino<br />
d’effetto suggestivo, ma tutto sommato<br />
facile facile. Più che in quelle<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
di crooner di extralusso, piacerebbe<br />
– finalmente! - rivedere il buon<br />
vecchio Mark nelle vesti di autore<br />
ispirato. (5.8/10)<br />
A n t o n i o P u g l i a<br />
Ta k e s h i N i s h i m o t o – M o n o l o g u e<br />
( B ü r o / W i d e , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : s o l a c h i t a r r a<br />
Se nel disco con John Tejada (a<br />
nome I’m Not A Gun) si confermavano<br />
le previsioni sulla carta, non si<br />
può dire diversamente di questo lavoro<br />
solista di Takeshi Nishimoto,<br />
chitarrista giapponese. Nel precedente<br />
il musicista sosteneva di “pensare<br />
come uno strumento”; in questo<br />
Monologue – dodici pezzi per<br />
chitarra classica solista, registrato<br />
in un giorno solo a Berlino, in chiesa<br />
(cosa che ultimamente dà ottimi<br />
frutti, se pensiamo a David Thomas<br />
Broughton) - si lascia andare a un<br />
soliloquio, parlato nella lingua della<br />
sua sei corde, più che a un monologo<br />
dedicato a un pubblico. Desta<br />
interesse un giapponese che decide<br />
non di confrontarsi con le armonie e<br />
la musica occidentale, ma di suonarle<br />
come se fosse occidentale, adoperando<br />
un mimetismo; non traspaiono<br />
infatti una tensione oriente-occidente,<br />
o le tracce di un’escursione in<br />
una tradizione diversa dalla propria.<br />
Chi non si sente appassionato o predisposto<br />
alla chitarra solista farà un<br />
po’ di fatica ad arrivare fino in fondo.<br />
Che però salti qualche traccia per<br />
ascoltarsi la penultima, la splendida<br />
Coming Soon, tormentata con delicatezza<br />
dall’ossessione di un tema trascinato<br />
per sette minuti, in un modo<br />
che ricorda le schiume dei cavalloni<br />
a rallentatore dei Dirty Three. È in<br />
questo brano che assume, forse più<br />
di ogni altro, un senso definitivo la<br />
scelta della chitarra classica, anziché<br />
acustica, specie nella seconda<br />
parte del brano.<br />
La buona notizia è che comunque<br />
non si scade mai sull’ostentazione di<br />
tecnicismi segoviani, né sull’accordatura<br />
blue più mielosa. A pensarci<br />
bene, in questo può aver influito la<br />
provenienza di Nishimoto. Rimane<br />
una constatazione: parte del disco,<br />
forse, avrebbe avuto miglior vita<br />
nelle confidenze tra Takeshi e il suo<br />
strumento. (6.3/10)<br />
Gaspare Caliri<br />
Ta n g e r i n e D r e a m - M a d c a p ’s<br />
F l a m i n g D u t y ( Vo i c e p r i n t , 2<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o p<br />
Ammesso che si riesca ad ascoltare<br />
interamente quest’album, viene<br />
da chiedersi che senso abbia festeggiare<br />
i quarant’anni di carriera<br />
(trentasette dall’uscita dello storico<br />
Electronic Meditation) provando<br />
ad infangare sempre di più il proprio<br />
nome, invece di collimare una<br />
storia cominciata dignitosamente.<br />
Per i Tangerine Dream, come per<br />
i Pooh, fare musica è diventata<br />
ormai da molto tempo una routine<br />
insensata. I padri dei cosmic couriers<br />
non sono neanche più la cattiva<br />
copia di se stessi, impelagati<br />
da decenni in un sound che non<br />
ricorda neanche lontanamente gli<br />
esperimenti elettronici (tra)passati.<br />
Se non avessero quel nome, che<br />
comunque desta curiosità, non sarebbe<br />
neanche il caso di scrivere<br />
qualche riga su un disco in cui,<br />
pur sforzandosi a cercare qualcosa<br />
di interessante, non si trova<br />
nulla che valga la pena ascoltare.<br />
Un noiosissimo synth pop di bassa<br />
lega (a metà tra Vangelis e il lato<br />
più doom di Biagio Antonacci),<br />
ricordo sbiadito della già pessima<br />
svolta degli anni ‘80, che ha la pretesa<br />
di accompagnare testi basati<br />
sulla poesia anglo-americana del<br />
XVII e XVIII secolo. Il tutto dedicato<br />
al povero Syd Barrett. Possibile<br />
che a Edgar Froese, musicista<br />
d’esperienza, uno che ha toccato<br />
gli apici dell’avanguardia rock, non<br />
provi neanche un po’ di vergogna?<br />
(3.0/10)<br />
D a n i e l e F o l l e r o<br />
Te l e f o n Te l Av i v – R e m i x e s<br />
C o m p i l e d ( H e f t y / A u d i o g l o b e ,<br />
3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : e l e c t r o g l i t c h<br />
Che i Telefon Tel Aviv avessero i<br />
numeri per sfondare lo si era capito<br />
già con il precedente Map Of<br />
What Is Effortless (Hefty, 2004):<br />
un piccolo manualetto su come mescolare<br />
Morr e glitch, sentimento<br />
e freddezza, soul e ghiaccio elettrico.<br />
Nel nuovo lavoro rischiano<br />
la carta remix: territorio minato e<br />
mostruosamente abusato, tour de<br />
force che spreme le meningi, dove
solo i migliori hanno detto qualcosa<br />
di nuovo. Il gioco, signori, vale la<br />
candela.<br />
Non il solito disco promozionale pri-<br />
ma del nuovo album. Dai Nine Inch<br />
Nails a Bebel Gilberto, da Nitrada<br />
a Apparat: un’eterogeneità incon-<br />
sueta e all’apparenza difficilmente<br />
manipolabile; il duo si rimastica tut-<br />
to ben bene e in poco più di 50 mi-<br />
nuti ci conduce ai limiti dell’electro-<br />
shoegazing: il ricordo robotico dei<br />
Kraftwerk in Green Green Grass<br />
(American Analog Set) che esplo-<br />
de in una bomba armonica di cori<br />
post-wave, il richiamo alla scuola<br />
Autechre in Time Is Running Out<br />
(Phil Ranelin), lo slancio inevita-<br />
bilmente chilly à la Thievery Cor-<br />
poration in All Around (Bebel Gi-<br />
lberto), la sensibilità di un Howie<br />
B infarcito di archi in Genuine Di-<br />
splay (Midwest Product).<br />
Se per caso ve li foste persi (di vi-<br />
sta), la ricomparsa di Joshua Eu-<br />
stis e Charlie Cooper ribadisce il<br />
loro posto di eccellenza nell’olimpo<br />
emo-electro. Un disco che è un ice-<br />
berg con un cuore melò, uno di quei<br />
sogni che solo gli Air ultimamente<br />
hanno raccontato, il nu-balearic del<br />
2007. La nuova Thievery Corp., o i<br />
nuovi K&D? Si accettano scommes-<br />
se. (7.1/10)<br />
M a r c o B r a g g i o n<br />
T h e D e t r o i t C o b r a s – Ti e d<br />
A n d Tr u e ( R o u g h Tr a d e / S e l f ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : g a r a g e / r ’ n ’ r<br />
I Detroit Cobras sono una cover<br />
band. Una cover band con una mis-<br />
sione da compiere, quella cioè di<br />
riportare alla luce e re-interpreta-<br />
re con fare garage/rock una serie<br />
di successi minori presi in prestito<br />
dalla sterminata produzione (nor-<br />
thern) soul/r ’n’b degli anni Cin-<br />
quanta/Sessanta. Un’operazione a<br />
tratti meritevole, portata avanti con<br />
grande dedizione e diventata, gra-<br />
zie all’aiuto di alcuni famosissimi<br />
spot pubblicitari, una sorta di pic-<br />
colo fenomeno mainstream nei pae-<br />
si anglosassoni, più avvezzi di noi<br />
a trattare con certi tipi di sonorità.<br />
Il gioco, però, è bello (talvolta bel-<br />
lissimo) quando dura poco e per i<br />
Detroit Cobras sembra veramente<br />
arrivato il momento del capolinea,<br />
già peraltro ampiamente preven-<br />
tivato dopo la pubblicazione del<br />
precedente Baby. Una caduta non<br />
certo imputabile alla scelta delle<br />
canzoni, ancora una volta di altissi-<br />
mo spessore (nel lotto anche brani<br />
di James Brown ed un “tradiziona-<br />
le” pre-war folk) né alla splendida<br />
voce della cantante Rachel Nagy<br />
da sempre vero propulsore della<br />
band americana. A latitare è inve-<br />
ce quell’irruenza (s)composta e<br />
quell’attitudine volutamente ed in-<br />
genuamente precaria che ne ave-<br />
va contraddistinto gli esordi, oggi<br />
schiacciata da una produzione tal-<br />
mente fredda e calcolata da rende-<br />
re persino insopportabile l’ascolto<br />
di alcune parti dell’album. Il mes-<br />
saggio è chiaro, dunque: meglio<br />
puntare a chiusi sui primi due lavori<br />
della band (il sottoscritto propende<br />
per Life, Love And Leaving) e get-<br />
tare alle ortiche questo inutile, ma<br />
veramente inutile, Tied And True.<br />
(4.0/10)<br />
S t e f a n o R e n z i<br />
T h e S e a A n d C a k e - E v e r y b o d y<br />
( T h r i l l J o c k e y / W i d e , 8 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : j a z z f u n k y p o p<br />
Più di dieci anni di carriera e non<br />
sentirli. Che i Sea And Cake siano<br />
affetti dalla sindrome di Peter Pan?<br />
No, semplicemente quello che suo-<br />
nano li rende degli imperterriti ra-<br />
gazzini. E, cosa più importante, fa<br />
sentire ragazzini tutti. Potere della<br />
melodia, di cui il quartetto chica-<br />
goano è indubbiamente il detento-<br />
re. Quattro anni per vedere quali<br />
direzioni avrebbero preso dopo le<br />
complesse electromanie del pre-<br />
cedente One Bedroom, ed eccoli<br />
tuffarsi in una bottiglia di coca cola<br />
agitata. Frizzante, infatti, è l’agget-<br />
tivo più immediato e calzante per<br />
descrivere Everybody, settimo cro-<br />
nologicamente ma primo album con<br />
McEntire seduto esclusivamente<br />
dietro la batteria. Pare strano, ma<br />
i quattro questa volta hanno deciso<br />
di dedicarsi solo ai propri strumen-<br />
ti, chiamando Brian Paulson alla<br />
produzione (Slint e Wilco possono<br />
bastare come curriculum?). E an-<br />
cora più strano è sentire suonare<br />
il gruppo come un gruppo. Coesi,<br />
affiatati, in perfetta sintonia, i No-<br />
stri non lesinano sottigliezze jazzy<br />
(i Tortoise scaraventati sull’euro-<br />
star della quasi strumentale Left<br />
On), turgore funky (Introducting),<br />
scorribande afro-tropicaliste (il<br />
mid-tempo scoppiettante di Exact<br />
To Me) mescolate sapientemente<br />
ad un’astuta scrittura pop (i per-<br />
fetti tre minuti di Coconut), che li<br />
rendono diversi, ma pur sempre<br />
fedeli al loro credo. E non abbia-<br />
mo neanche accennato alla voce<br />
incomparabile e inconfondibile di<br />
Prekop, vero trademark della band.<br />
Ma con un brano d’apertura come<br />
Up On Crutches le parole non ser-<br />
vono. Spazi aperti e aria pungen-<br />
te che solletica il viso, per sentirsi<br />
ancora degli adolescenti spensie-<br />
rati. Se la primavera non ha ancora<br />
risvegliato in voi questo desiderio,<br />
ci penserà Everybody, statene pur<br />
certi. (7.2/10)<br />
V a l e n t i n a C a s s a n o<br />
Tw o L o n e S w o r d s m e n - Wr o n g<br />
M e e t i n g ( R o t t e r s G o l f C l u b , 1 5<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : r o c k a b i l l y,<br />
s w a m p r o c k<br />
“Influences are deep in the bones<br />
of the music”, hanno dichiarato alla<br />
press britannica, una frase che suo-<br />
na spocchiosa e arrogante al primo<br />
ascolto di Wrong Meeting, il nuovo<br />
album della ditta Weatherall e Ten-<br />
niswood. Nove canzoni in bilico tra<br />
una produzione vintage e vecchi<br />
spettri anni ’80, pistole Gun Club e<br />
Cramps, Cave e persino rock’n’roll,<br />
fanno del lavoro una soundtrack di<br />
quelle Strade Perdute a cui il pro-<br />
duttore di screamadelia è legato a<br />
doppia e più mandate. Il punk inna-<br />
morato dei Cinquanta del resto, è<br />
un’ossessione che qui si consuma<br />
senza compromessi e chi s’aspet-<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
tava le arcigne miscele rockabilly,<br />
dub e elettronica Warp syle, del<br />
piccolo capolavoro From The Dou-<br />
ble Gone Chaple, rimarrà probabil-<br />
mente deluso.<br />
Salvo un effetto qua (Puritan Fist) e<br />
uno là (Nevermore (Than Just Enou-<br />
gh)), questo è un disco per nulla<br />
figlio dell’elettronica, con pochissi-<br />
me tastiere e persino con l’accento<br />
posto nelle parti vocali, dunque un<br />
puzzle incompleto alla luce del per-<br />
corso degli spadaccini, soprattutto<br />
se s’apprende che Wrong Meeting<br />
è il nome del party mensile dove gli<br />
East Londoneers s’incontrano al-<br />
l’insegna di una serata fatta di so-<br />
norità tra le più disparate: da Elvis<br />
fino alla techno. Lì si suonano – e<br />
Weatherall ci suona chiaramente<br />
– le influenze dei Two Lone Sword-<br />
smen, mistone che manca a queste<br />
dieci canzoni. Sembrano sottotono<br />
i Two Lone Swordsmen, umilmente<br />
acustici, garage, indie lo-fi, eppure<br />
da queste parti si nascondo dei se-<br />
greti, polveri da sparo che, ascolto<br />
dopo ascolto, ribaltano e incendia-<br />
no la tiepida prima impressione. Ci<br />
si scorge del tintinnio di un there-<br />
min molto Ubu in No Girl In My Plan,<br />
il ritmo e l’arrangiamento dei Gun<br />
Club, un testo à la Cave prima ma-<br />
niera. È una polpa autentica, come<br />
una Fire Of Love (ma non di cover<br />
si tratta). Nell’ottica della canzone<br />
(non ci sono strumentali), c’è del-<br />
l’indietronica in Rattlesnake Daddy<br />
tra tastiere e drum machine à la<br />
Morr che sale pian piano. Si pone<br />
con il giusto mezzo. Non sempre il<br />
Weatherall della svolta “rock” az-<br />
zecca una scrittura convincente (il<br />
ritornello di Wrong Meeting, le stro-<br />
fe à la Michael Gira di Work At Ni-<br />
ght), eppure il produttore è un mae-<br />
stro nel sintetizzare la passione per<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
la musica con la quale è cresciuto.<br />
Prendete per dire il punk’n’roll di<br />
Evangeline, suonato con tensione e<br />
ironia, oppure la bella, conclusiva,<br />
Get Out Of My Kindom, tra piccoli<br />
rimaneggi ritmici Stones, country<br />
bonario à la Hazlewood, e un pizzi-<br />
co di soul. Avevano ragione loro: le<br />
influenze dei Two Lone Swordsmen<br />
sono dentro alle ossa della loro mu-<br />
sica. (7.0/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
Vo n S p a r – S e l t Ti t l e d ( To m l a b /<br />
W i d e , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p o s t - k r a u t<br />
I Von Spar debuttano nel 2004 con<br />
un lavoro, Die Uneingeschränkte<br />
Freiheit Der Privaten Iniziative,<br />
(L’Age D’Or, 2004), assolutamen-<br />
te in tema – sono passati appena<br />
tra anni ma sembrano eoni – con<br />
l’allora febbrile mania punk-funk.<br />
A tre anni quindi da quel debutto,<br />
un intervallo in cui il gruppo da trio<br />
si è evoluto in quintetto, la musica<br />
svolta altrove.<br />
Vengono da Colonia, patria dei Can,<br />
epicentro acculturato del krautrock<br />
che si manifesta nella prima metà<br />
di Von Spar: Xaxapoya apre con un<br />
drone vagamente sinistro che ac-<br />
compagna una batteria tribale. Si<br />
leva un synth vacillante, il drum-<br />
ming si fa sempre più maniacale<br />
e una voce, un guaito opprimente<br />
si insinua. Siamo al dodicesimo<br />
minuto e potrebbe già essere ab-<br />
bastanza; ma inaspettatamente si<br />
innalza un sequencer, il preludio: il<br />
ritmo prende forma, la batteria si fa<br />
quadrata e parte un motorik krau-<br />
twave. Si ritorna, nelle intenzioni,<br />
al debutto, ma il serrate è seve-<br />
ro e la voce nevrotica, come se i<br />
Polyrock volessero fare i Devo. Si<br />
termina stremati. In Dead Voices In<br />
The Temple Of Error l’argomento si<br />
fa più pastoso e pesante. La voce<br />
passa attraverso un filtro e la batte-<br />
ria scandisce accenti doom. Persi-<br />
no la chitarra, ora più solenne, vira<br />
in certi lidi a là Goodspeed You!<br />
Black Emperor; anche qui, però,<br />
si deraglia, questa volta dalla parti<br />
dello sludge più slabbrato, in una<br />
terra di nessuno tra Black Sabbath<br />
e Godflesh. Se prima ne si è usciti<br />
stremati, ora si è in trappola. Due<br />
canzoni per quaranta minuti di mu-<br />
sica. Raramente, oggi, si ascolta<br />
un disco come quello dei Von Spar,<br />
quasi mai si è dinanzi ad un lavoro<br />
cosi compiuto. Caustici! (8.0/10)<br />
G i a n n i A v e l l a<br />
Vo x t r o t – S e l f Ti t l e d ( B e g g a r s<br />
G r o u p / P l a y l o u d e r, 2 2 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : i n d i e - p o p<br />
Dopo una manciata di EP che han-<br />
no scaldato gli animi di molti blog di<br />
tutto il mondo, annunciando i texani<br />
Voxtrot come il nuovo caso nell’uni-<br />
verso indierock, ecco arrivare il<br />
loro omonimo album d’esordio non<br />
senza molta entusiastica attesa.<br />
Entusiasmo che però, lo diciamo<br />
subito, risulta fin dal primo ascolto<br />
sterile e pericoloso.<br />
Se gli EP erano incentrati su un<br />
vivace indie-pop scarno e allegro<br />
impregnato di una certa attitudi-<br />
ne lo-fi che strizzava l’occhio tan-<br />
to alle classiche sonorità pop anni<br />
sessanta, quanto agli Smiths, Vox-<br />
trot invece risulta sì sempre muo-<br />
versi su quella scia di vitalità pop,<br />
ma senza più quella bassa fedeltà<br />
di fondo e soprattutto senza più ri-<br />
chiamare la band di Morrissey. Ci<br />
troviamo dinnanzi a canzoni allegre<br />
che non superano i quattro minuti<br />
di lunghezza, che debbano molto<br />
all’immediatezza dei Beach Boys<br />
ma anche a quella leggerezza indie<br />
tipica di band come i primi Promis<br />
Ring, non senza marcate influenze<br />
brit-pop. Infatti una delle somiglian-<br />
ze più marcate è proprio quella con<br />
gli inglesi The Thrills, sia per il<br />
contesto musicale, ma soprattutto<br />
per l’evidente somiglianza vocale.<br />
Una produzione più attenta e cura-<br />
ta ha sicuramente tolto ai Voxtrot<br />
quell’urgenza adolescenziale che<br />
aveva fatto la fortuna sulla breve<br />
distanza, facendogli però guada-<br />
gnare in qualità sonora e stilistica.<br />
È un disco come se ne sento-<br />
no molti in giro. Dunque niente di<br />
nuovo. Però dobbiamo ammettere<br />
che almeno una buona parte del-<br />
le canzoni è di buona fattura pop<br />
a presa diretta. Non sorprendetevi<br />
dunque se quest’estate vi troverete<br />
a ballare Kid Gloves o Firecracker<br />
sparate a tutto volume dal DJ del<br />
momento. Il divertimento è assicu-<br />
rato. Ma quell’alone di venerazione
Vo n S u d e n f e d - Tr o m a t i c R e f l e x x i o n s ( D o m i n o / S e l f , 1 8 m a g g i o<br />
2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : t e c h n o p u n k + i n t e r m i s s i o n s<br />
L’idea del duo elettronico che chiama a sé il mito post-punk pare la stessa<br />
che infiammò gli animi dei Pan Sonic. In quell’album, dove l’ospite era<br />
Alan Vega e in questo, che vede protagonisti i Mouse On Mars e Mark E.<br />
Smith (The Fall), il platter si sviluppa attorno a ruvide texture e sincopi ra-<br />
dioattive, declami riverberati e putridume a picco in una chirurgia elettrica,<br />
disumanizzante e sacrilega. Un’alienazione e un’angoscia da sballo, pri-<br />
mitiva e post-industriale. Cartoonesca ma senza ammetterlo frontalmente.<br />
L’heaven per le coalizioni post-punk e l’orgasmo per quelle techno-noise<br />
cresciute con il culto dei Throbbing Gristle, 23 Skidoo e Clock DVA.<br />
Eppure in Tromatic Reflexxions, fin dalle prime note, c’è qualcosa di<br />
diverso. Rispetto al fortunato Endless, l’ingrediente allora mancante pare<br />
turn it on<br />
qui venir somministrato. Qual è? Il gusto provato da New York Dolls e Stooges nel riformarsi. La stessa sublima-<br />
zione del marcio che qui si pone come un ponte tra cultura rave e post-punk. La fede, il rito se volete, che Von<br />
Sudenfed ha praticato fondendo l’erbaccia sindacalista di manchesteriana memoria con lo streaming delle radio<br />
pirata anni ’90.<br />
Fin dal – formidabile – robo-James Brown Fledermaus Can’t Get Enough (video warholiano con trans che cantano<br />
al posto di Smith compreso), dove è quasi ovvia la dialettica a distanza con James Murphy, il corpo sacrificato<br />
all’altare della tana delle tigri finnica è torturato con spade funk-dance e arpioni electro-noise, compiacimento<br />
e ironia. Immaginate un Tarantino che mette mano alle scenografie LCD Soundsystem libero dai citazionismi,<br />
quegli allacci di cui Smith non ha bisogno tranne che per questi fatidici Novanta allora bramati e mai conquistati<br />
e ora pasto nudo divorato con religiosa cupidigia. Novanta nei quali i re elettronici Andi Toma e Jan Werner<br />
ritornano a padroneggiare iniettando della sana (e apparente) monotonia punk su tracce (apparentemente)<br />
techno. Un boomerang lanciato ancora (e con successo) in The Rhinohead (con il conseguente target sfottò Nine<br />
Inch Nails) in un sovrapporsi di Kling Klang chitarra/batteria e rasoiate elettro a favore di un ritornello – persino<br />
– commerciale. Sempre in tensione, c’è inoltre Flooded dove Mark parla dall’altoparlante della fabbrica-discote-<br />
ca. “I’m Am The Dj Tonight!” esclama, e i tedeschi a rispondergli con briscole KLF e basso ignorante.<br />
Il resto è spugnoso quanto l’idea stessa del dirt: Family Feud gioca sui bleep e i break, Serious Brainskin rincara<br />
con una confusione di autechrismi hip-hop, The Young The Faceless And The Codes gigiona con la Roland acid-<br />
house in scazzo indie-90. Noia da troppa ortodossia? Ecco servito il remissaggio del singolo Wipe That Sound<br />
(dei marsiani) in una versione da Madchester malata (That Sound Wiped), un country-blues simil Matmos chia-<br />
mato Chicken Yiamas, e un folk con slide guitar che prende il nome di Dearest Friends. Smith la canta sognan-<br />
te e rilassato da non credere (…). Che ne dite, a questo punto, di un Iggy Pop con dei riformati Atari Teenage<br />
Riot? Difficile pensare di meglio della partnership Mouse On Mars e Mark E. Smith. Nati per suonare assieme.<br />
(7.5/10)<br />
E d o a r d o B r i d d a<br />
s e n t i r e aa s c o l t a r e 9
che si è creato intorno ai Voxtrot<br />
speriamo svanisca in fretta perché<br />
per prima cosa, non c’è veramen-<br />
te niente di così speciale nella loro<br />
formula musicale per farli innalzare<br />
sull’altare del pop; secondo, tutto<br />
ciò potrebbe far montare la testa a<br />
questi giovani musicisti rischiando<br />
così di non fargli mai più scrivere<br />
una canzone come Every Night:<br />
esempio perfetto di come costruire<br />
una semplice ma immediata canzo-<br />
ne pop. Sufficiente, ma rimandati al<br />
secondo disco.(6.0/10)<br />
7 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />
W i l c o - S k y B l u e S k y ( N o n e s u c h<br />
R e c o r d s , 1 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k r o c k<br />
La spinta propulsiva dei Wilco se-<br />
gna il passo. Non è più tempo di<br />
sperimentazione, di ricerca. E’ tem-<br />
po di raccolta, di harvest, di storie<br />
narrate sotto al front porch cogli<br />
occhi pieni di cielo. Il cielo dolce<br />
e meraviglioso di casa coi margi-<br />
ni perturbati da truppe di nubi mi-<br />
nacciose. Che forse sono solo un<br />
temporale. Forse. Stavolta O’Rou-<br />
rke non c’è ma la sua impronta è<br />
ormai metabolizzata, è una vibra-<br />
zione sotto la pelle, uno spasmo in<br />
agguato. E’ la possibilità/capacità<br />
di rivangare reminiscenze soniche<br />
disparate e applicarle ad un tessu-<br />
to stranamente coeso, stranamente<br />
placido. La cui trama è pur sempre,<br />
mai come oggi, folk rock.<br />
Un folk rock inevitabile: i Wilco<br />
sembrano infatti procedere come<br />
se ciò che si lasciano alle spalle<br />
iniziasse a pesare più del futuro.<br />
Lasciando loro in dote un presente<br />
fatto perlopiù di apprensione, ap-<br />
pena confortato da una brezza di<br />
speranza. Così, questo Sky Blue<br />
Sky somiglia un po’ ad una preghie-<br />
ra, al tentativo di tenersi in piedi,<br />
alla sensazione cordiale del ritor-<br />
no a casa. Un disco che smussa gli<br />
spigoli, elegge a numi tutelari The<br />
Band più che Dylan (l’iniziale Ei-<br />
ther Way), George Harrison prima<br />
che Lennon (Leave Me Like You<br />
Found Me), corroborando la ma-<br />
linconia Big Star con sbrigliatezze<br />
soul di stampo Steely Dan (Impos-<br />
sible Germany) e la crepuscolarità<br />
folk younghiana con certe palpita-<br />
zioni jazzy Matt Ward (la stupenda<br />
title track).<br />
Eppure, nella generale sensazione<br />
di inquietudine pacificata, accado-<br />
no cambi di scena sconcertanti, ap-<br />
parizioni improvvise come rigurgiti<br />
incontenibili dal di dentro, tipo il<br />
glam repentino nel chorus di I Hate<br />
It There, gli spasmi vaudeville che<br />
incendiano lo stomp sghembo di<br />
Shake It Off, quella Walken che fa<br />
boogie acidulo come potrebbe un<br />
Ry Cooder illuminato sulle strisce<br />
di Abbey Road, oppure l’excursus<br />
wave-prog da qualche parte tra Su-<br />
pertramp e Television di You Are<br />
My Face.<br />
Una quiete apparente, insomma.<br />
Chi è rimasto folgorato dalle evo-<br />
luzioni di Yankee Hotel Foxtrot e<br />
A Ghost Is Born, sappia che qui<br />
tutto si svolge ad un livello più pro-<br />
fondo, perciò sembra meno visibile.<br />
E perciò la scrittura torna in primo<br />
piano. Una signora scrittura. Che<br />
ha il coraggio di spendere assolo<br />
incredibilmente opportuni, archi<br />
voltaici tra seventies e post-post-<br />
rock. Come quello in Please Be Pa-<br />
tient With Me, caldo come un amico<br />
che porta da bere. Non meno che<br />
emblematico il doppio finale: prima<br />
una What Light che chiede indica-<br />
zioni a papà Dylan, ma sono indub-<br />
biamente i Wilco a guidare il pick<br />
up sulla strada polverosa d’un folk<br />
sbrigliato. Poi l’angoscia strisciante<br />
di On And On And On, trama dram-<br />
matica di piano e chitarra, l’organo<br />
che sbava irrequieto, una sterzata<br />
teatrale col drumming impetuoso,<br />
l’assolo affilato e gli archi che chiu-<br />
dono il cerchio. Una band cui voler<br />
bene, senza riserve. (7.2/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
W i l d B i l l y C h i l d i s h & M u s i c i a n s<br />
O f T h e B r i t i s h E m p i r e - P u n k<br />
R o c k A t T h e B r i t i s h L e g i o n H a l l<br />
( D a m a g e d G o o d s / A u d i o g l o b e ,<br />
m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : p u n k - r o c k<br />
C’è un solo motivo per cui trovo<br />
raccomandabile l’ascolto di questo<br />
Punk Rock At The British Legion<br />
Hall, ed è: la verità. Un motivo im-<br />
portante, ne converrete. Perché<br />
questa energia veemente e sgra-<br />
ziata - fatta di vibrazioni scabre<br />
e splendide impurità, d’invettive<br />
aspre, beffarde e un po’ disperate<br />
- è la testa d’ariete di chi conside-<br />
ra chitarre, pelli, pianoforte e voce<br />
strumenti necessari a tenersi dritti<br />
sul mondo. Mestando nel torbido<br />
con spasmodica arguzia, con gene-<br />
rosa mancanza di riguardo. Suona-<br />
re con ferino istinto di autoconser-<br />
vazione e resistenza esistenziale è<br />
lo stesso che bere, mangiare, respi-<br />
rare. Quanto alle canzoni, si tratta<br />
perlopiù di camminare sul filo teso<br />
tra gli spasmi errebì dei Sixties in-<br />
glesi ed i relativi rimbombi garage,<br />
usando come bilanciere una indo-<br />
mita punk attitude.<br />
Nello specifico, è tutto un ricicla-<br />
re i benemeriti riff delle You Real-<br />
ly Got Me e delle Psycho, Kinks e<br />
Troggs, Sonics e Small Faces, la<br />
flagranza selvatica da corpo scos-<br />
so (Joe Strummer ’s Grave), i brividi<br />
pericolosi (Date With Doug), quella<br />
roba lì. Salvo poi giocare al nonno<br />
di Jon Spencer in guisa Fleetwod<br />
Mac (Bugger The Buffs), rigurgitan-<br />
do stilettate mod (We 4 Beatles Of<br />
Liverpool Are) ed eruzioni Stooges<br />
(A Few Smart Men, Snack Crack),<br />
per poi chiudere con una title track<br />
che stringe in un abbraccio solo<br />
Beatles, Clash e Cash. Dimentica-
vo: lui è Wild Billy Childhish, clas-<br />
se 60, misconosciuta leggenda del<br />
punk rock britannico, un repertorio<br />
sterminato di album a suo nome e<br />
in almeno sei formazioni diverse.<br />
Inoltre è pittore, poeta, romanziere.<br />
Un tipo pervicacemente fuori dal<br />
coro, per quanto platealmente ado-<br />
rato da calibri come Beck, Kurt Co-<br />
bain, Graham Coxon e Brian Eno.<br />
Ogni tanto su di lui si accendono<br />
i riflettori, giusto per quel quarto<br />
d’ora. (6.6/10)<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
Wo o d e n Wa n d – J a m e s A n d<br />
T h e Q u i e t ( E c s t a t i c P e a c e /<br />
U n i v e r s a l , 1 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : c o u n t r y f o l k<br />
“I want it to be an un-weird record”.<br />
Parola di James Thot. Noi lo si di-<br />
ceva da tempo che Wooden Wand<br />
And The Vanishing Voice non era<br />
un ensemble weird-free come gli<br />
altri. L’ancoraggio alle radici folk<br />
troppo pronunciato e la scrittura<br />
troppo evoluta. James Thot, del re-<br />
sto, anche con il suo primo disco<br />
solista aveva fatto capire chiara-<br />
mente dove voleva andare a parare<br />
e il Second Attention di appena un<br />
anno fa, con quella stupenda co-<br />
pertina a fare il verso a Stormbrin-<br />
ger di John e Beverly Martyn era<br />
stato ancora più chiaro. Con James<br />
And The Quiet, Thot tenta ora un<br />
vero e proprio turning-point nella<br />
sua carriera e ha già fatto sapere<br />
che sarà l’ultimo disco dove userà<br />
il moniker Wooden Wand, forse per<br />
l’eccessiva confusione generata in<br />
giornalisti e fan di passaggio, che<br />
lo ha portato a scrivere una lette-<br />
ra infuriata sul suo myspace chia-<br />
rendo tutti i punti oscuri delle sue<br />
diverse attività musicali. E’ assai<br />
probabile che questo sia il disco<br />
dove Wooden Wand smette defini-<br />
tivamente di essere un culto under-<br />
ground e si affaccia in superficie,<br />
supportato in questo dalla longa<br />
mano dei Sonic Youth: Thurston<br />
Moore che distribuisce il disco con<br />
la sua Estatic Peace, Lee Ranaldo<br />
che produce e suona alcune parti di<br />
chitarra e Steve Shelley che met-<br />
te mano alle spartane percussioni.<br />
La musica non potrebbe essere più<br />
distante dai vortici psichedelici dei<br />
Vanishing Voice. Molto più acco-<br />
modante e piacevole, con Thot che<br />
vi riversa un songwriting grasso e<br />
sicuro, colto (anche troppo) e old<br />
fashioned. Jeans sdruciti, stivali e<br />
cappello da cowboy, camicia di fla-<br />
nella e barba incolta, James incarna<br />
sempre più il modello del crooner<br />
country arso dalla caligine deserti-<br />
ca e perso nelle infinite strade blu<br />
americane. Del resto è il primo ad<br />
ammettere come modelli ispiratori<br />
per questo disco, due stelle della<br />
tradizione country americana, come<br />
Kris Kristofferson e Waylon Jen-<br />
nings (quello della mitica Good Old<br />
Boys del telefilm Hazzard!).<br />
Ma sulle canzoni di questo disco si<br />
affacciano anche altri giganti, come<br />
Leonard Cohen (i cori di Jessica<br />
‘Satya Sai’ Thot nell’omaggiante<br />
Delia) e Bob Dylan (il piglio sem-<br />
pre più nasale con cui Thot canta<br />
il trittico Invisibile Children/Blood/<br />
Blessed Damnation). Detto che in<br />
un disco del genere non sentirci<br />
anche Neil Young, Johnny Cash e<br />
Willie Nelson è impossibile (Future<br />
Dream e James & The Quiet da ma-<br />
nuale country, Wired to the Sky a<br />
due passi da una jam tra Neil Young<br />
e Low), James And The Quiet fa<br />
il suo lavoro in maniera egreggia.<br />
Personalmente, avrei preferito che<br />
l’accento southern del singolo The<br />
Pushers fosse sviscerato maggior-<br />
mente, ma forse sarà per la pros-<br />
sima volta. Tanto si è capito che<br />
Wooden Wand vuole essere l’ulti-<br />
mo dei cowboy, che con la chitar-<br />
ra in spalla rivisita la old countries<br />
d’America. (7.0/10)<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
Backyard<br />
A n n e B r i g g s – T h e Ti m e H a s<br />
C o m e ( C B S , 1 9 7 1 - Wa t e r, 2<br />
a p r i l e 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : f o l k<br />
The Time Has Come. Il tempo per<br />
riascoltare Anne Briggs è giunto.<br />
Mancava ancora un classico come<br />
questo nella lista delle ristampe di<br />
british folk anni ’70. Se da un lato<br />
il fascino del vinile impolverato e<br />
scricchiolante è irraggiungibile,<br />
dall’altro il remastering di suoni da-<br />
tati come questi offre nuove possi-<br />
bilità di ascolto a tutta una nuova<br />
generazione, che ha come unica<br />
colpa quella di essere nata dopo<br />
il 1971. Questa la data di pubbli-<br />
cazione del disco in questione. Il<br />
secondo a firma Anne Briggs, ma<br />
a tutti gli effetti il suo primo come<br />
autrice della propria musica, con-<br />
siderato che il primo era compo-<br />
sto per lo più da riarrangiamenti di<br />
traditional. La musica di The Time<br />
Has Come arriva vicinissima, con<br />
umiltà e sentimento, al cuore primi-<br />
genio della passione. Null’altro che<br />
lei, la sua chitarra e un cuore colmo<br />
di nostalgia e bellezza. Una voce<br />
che letteralmente coccola le note<br />
e ti accarezza con dolcezza. E poi<br />
certi dettagli meravigliosi e irripe-<br />
tibili, come quando su Sandman’s<br />
Song, per due secondi sembra al-<br />
lontanarsi dal microfono con la<br />
7 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
voce che quasi vuole scomparire,<br />
o ancora il leggerissimo e straor-<br />
dinario eco che si poggia su Ride,<br />
Ride. Anne rimase volutamente una<br />
figura defilata nella scena musica-<br />
le dell’epoca. Dopo questo disco si<br />
trasferì in Scozia, registrò un altro<br />
lavoro mentre era incinta, ma non<br />
ne fu mai personalmente soddisfat-<br />
ta. Eppure l’eco della suo voce è<br />
stato vasto ed è arrivato fino ad<br />
oggi, e te ne accorgi quando la vedi<br />
citata di continuo dei nuovi eroi del<br />
folk moderno e la risenti nelle pie-<br />
ghe della loro musica. Le note del<br />
booklet di questa ristampa, siglate<br />
da una penna fine come Andy Beta,<br />
iniziano programmaticamente così:<br />
“Quando stringi tra le mani questo<br />
booklet, sappi che nel 21° seco-<br />
lo, stai impugnando il più tenace,<br />
umano e concreto documento della<br />
legenda British folk anni ’60, Anne<br />
Briggs. E quando senti il suo can-<br />
to del cigno datato 1971, The Time<br />
Has Come, ascolta la sua voce nuda<br />
come vento poggiarsi sulle tredici<br />
canzoni, il documento registrato di<br />
una carriera irregolare, allora le tue<br />
mani saranno vuote, e stringeran-<br />
no nient’altro che aria. Anne sarà<br />
fuggita alla cattura ancora una vol-<br />
ta”. Ma il ritratto migliore di Anne lo<br />
diede un anno prima un’altra donna<br />
bellissima che si chiamava Sandy<br />
Denny, nell’unico disco firmato dai<br />
Fotheringay. Così cantava Sandy<br />
in The Pond and the Stream : “An-<br />
nie wanders on the land / She loves<br />
the freedom of the air…”.<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
Durutti Column - Sporadic Three<br />
(Kooky Disc / Goodfellas, 2 aprile<br />
2007)<br />
Genere: new wave<br />
Sporadic Three è, come titolo sug-<br />
gerisce, il terzo volume di una serie<br />
di inediti, outakes e versioni alter-<br />
native che Vini Reilly ha raccolto<br />
nella sua ormai ventennale car-<br />
riera. I primi due della serie sono<br />
da tempo fuori catalogo (come del<br />
resto buona parte della produzione<br />
dei Column: a quando qualche ri-<br />
stampa, cari interessati?!) e per chi<br />
si fosse perso le prercedenti punta-<br />
te - rivolgendoci soprattutto ai fans<br />
appassionati, visto che l’operazio-<br />
ne è su di loro che va a parare -<br />
consigliamo nel frattempo di ripie-<br />
gare su queste “nuove” canzoni.<br />
L’interesse è suscitato dalle note<br />
affisse nel booklet, scoprendo cosi<br />
che il drumming hip-hop di Mama<br />
And Papa nasce anche per un uso<br />
“importante” di ganja, che Birthday<br />
Present è dedicata ad una amica di<br />
famiglia Really, che Loretta è per<br />
la sorella di Vini e New Order Tri-<br />
bute riverisce - indovinate un po’<br />
- la banda di Sumner, Hook e tutta<br />
l’epopea Madchester.<br />
Lo dicemmo in sede di articolo e lo<br />
ribadiamo ora: i Durutti Column che<br />
contano si riducono ai primi tre di-<br />
schi; tutto quello venuto dopo - fat-<br />
ta qualche particolare eccezione - è<br />
pertinenza dei seguaci. Comunque:<br />
rispetto. (7.0/10) P.s. però com’è<br />
bella I B Yours…<br />
Gianni Avella
Elliott Smith - New Moon (Domino<br />
/ Self, 8 maggio 2007)<br />
Genere: indie-pop<br />
Dopo che se n’è andato tragicamen-<br />
te quattro anni fa ogni nuova usci-<br />
ta di Elliott Smith suscita emozioni<br />
contrastanti. C’è senz’altro il rim-<br />
pianto di aver perso un musicista<br />
così talentuoso troppo presto, ma<br />
anche il sollievo di poter riascoltare<br />
la sua voce, sentire le sue canzo-<br />
ni, fosse pure postume o in versioni<br />
più o meno alternative come in que-<br />
sto caso. Perché, al di là di qua-<br />
lunque operazione-nostalgia, resta<br />
la qualità palpabile del songwriting,<br />
di quella voce che arrivava da den-<br />
tro un corpo che sembrava sempre<br />
altrove. Questi due cd raccolgono<br />
materiale registrato a cavallo degli<br />
anni 90 e che era già circolato in<br />
rete fra i fan più accaniti grazie a<br />
un bootleg - Basement II -, anche<br />
se gli archivi a cui sta ancora met-<br />
tendo mano Larry Crane potrebbero<br />
regalare qualche sorpresa in futu-<br />
ro. Queste canzoni pertanto posso-<br />
no considerarsi inedite ma non del<br />
tutto, e appartengono al periodo di<br />
transizione di Smith da folk-singer<br />
in punta di pennaalle prime ambi-<br />
zioni pop che sfoceranno compiu-<br />
tamente quando si accaserà alla<br />
DreamWorks e che erano già affio-<br />
rate in Either/Or. Variazioni mini-<br />
me, b-sides, outtakes che non di-<br />
cono più di quanto già espresso dal<br />
cantautore americano negli album<br />
in studio, ma che appunto ci aprono<br />
uno spiraglio verso il suo mondo,<br />
anche attraverso piccoli dettagli<br />
come i respiri della presa diretta,<br />
delle dita che scorrono precise sul-<br />
le corde. Fra le curiosità possiamo<br />
annoverare una cover di Thirteen<br />
dei Big Star, una paio di rifacimen-<br />
ti di pezzi degli Heatmiser (prece-<br />
dente gruppo di Smith) e una prima<br />
versione di Miss Misery. Ma la rico-<br />
struzione filologica è stata già fatta<br />
a monte da Larry Crane, a noi non<br />
resta altro che perderci nelle melo-<br />
die e nei sussurri di New Disaster,<br />
Angel In The Snow, Going Nowhere<br />
o Seen How Things Are Hard. Elliott<br />
Smith è stato uno dei più grandi per<br />
come ha saputo rielaborare in ver-<br />
sione pop la lezione di Nick Drake,<br />
tenendosi a distanza non solo dalle<br />
urla disperate di Kurt Cobain ma<br />
soprattutto da tanti crooner emuli<br />
di Will Oldham che solo raramen-<br />
te hanno raggiunto questi risulta-<br />
ti. Quando un disco di questo tipo<br />
suona meglio di tanti altri, inediti,<br />
che ci vengono propinati ogni setti-<br />
mana, vuol dire semplicemente che<br />
prima viene la musica e solo dopo<br />
la leggenda. La leggenda da sola<br />
non tiene in piedi se non sé stessa,<br />
a volte neanche, viene tramandata<br />
ma ognuno può aggiungerci qual-<br />
cosa di suo. Coi classici è diverso:<br />
ognuno può vederci qualcosa di dif-<br />
ferente ma la radice da cui nasce<br />
resta ben conficcata nel terreno.<br />
(7.0/10)<br />
R o b e r t o C a n e l l a<br />
Screaming Trees - Clairvoyance<br />
(Hall Of Records / Goodfellas,<br />
maggio 2007)<br />
Genere: psychedelic-rock<br />
Quando gli Alberi Urlanti esordiro-<br />
no nel 1985 con l’ep Other Worlds,<br />
Kurt Cobain - per dirla come dei<br />
nostri conterranei - nemmeno si fa-<br />
ceva le pippe. Seattle era la città di<br />
Sonics e Jimi Hendrix, la Sub Pop<br />
ancora una fanzine e le camicie di<br />
flanella una necessità. Avevano un<br />
cantante gli Screaming Trees (nome<br />
di un famoso distorsore per chitar-<br />
ra), Mark Lanegan, che bramava a<br />
là Iggy Pop e/o Jim Morisson e due<br />
fratelli, Van e Gary Lee Conner,<br />
cresciuti tra garage e psichedelia,<br />
nei solchi di Byrds e Soft Boys.<br />
Allorché pubblicarono, nel 1986, il<br />
full lenght Clairvoyance il mondo<br />
accoglieva Psychocandy dei Jesus<br />
And Mary Chain e Sound Of Con-<br />
fusion dei Spaceman 3. Pochi si<br />
accorsero di quelle dieci canzoni<br />
che suonavano punk e pop insieme<br />
(Clairvoyance), hendrixiane (Oran-<br />
ge Airplane, quasi un apologia<br />
punk di Fire), doorsiane (in Strange<br />
Out Here Lanegan sembra proprio<br />
Morrison), epiche (Seeing And Be-<br />
lieving) e psycho (vedi l’organetto<br />
The Turning).<br />
Tra quei pochi un chitarrista, Greg<br />
Ginn, propose loro di unirsi al ro-<br />
ster Sst, tra un Dinosaur Jr., qual-<br />
che Minutemen e dei Black Flag.<br />
Ci rimasero per tre dischi. Il resto,<br />
come suole dirsi, è storia: i Nirvana,<br />
il Seattle sound, Cameron Crowe<br />
e Singles, film generazionale la<br />
cui soundtrack ospitò il massimo<br />
successo dei nostri, ovvero quella<br />
Nearly Lost You per molti eccitante<br />
quanto Smells Like Teen Spirit. Al-<br />
lora erano su major gli Screaming<br />
Trees, e furono i primi del poi det-<br />
to grunge a firmare per una multi-<br />
nazionale… Una ristampa dovuta.<br />
(7.5/10)<br />
G i a n n i A v e l l a<br />
S e e f e e l – Q u i q u e ( To o P u r e ,<br />
1 9 9 3 / R e d u x E d i t i o n - To o P u r e ,<br />
1 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />
G e n e r e : a m b i e n t , I D M<br />
Reynolds cita proprio i Seefeel, nel<br />
suo ormai celeberrimo articolo sul<br />
post-rock. “Come chiamare questo<br />
territorio? – riflette – alcuni dei<br />
suoi occupanti, I Seefeel per esem-<br />
pio, potrebbero essere etichettati<br />
come ambient dubbato; altri, Bark<br />
Psychosis e Papa Sprain, potreb-<br />
bero essere chiamati ‘art rock’.<br />
‘Avant rock’ potrebbe bastare, ma<br />
è troppo indicativo di nomi che si<br />
comportano in maniera altalenan-<br />
te e di una penuria di amore per<br />
la melodia, che non è necessaria-<br />
mente il caso. Forse l’unico termi-<br />
ni spendibile e abbastanza preciso<br />
da comprendere tutta la scena è<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
‘post-rock’”. I Seefeel come ante-<br />
signani del post-rock. E in effetti<br />
ci sta se si è disposti a ragionare<br />
sull’eredità lasciata dai londinesi.<br />
Lo scenario di riferimento è quello<br />
della Too Pure dei primi ’90. Eti-<br />
chetta che distribuiva anche Pram,<br />
Moonshake, Stereolab. Sempre a<br />
cavallo tra rock ed elettronica. Tra<br />
tangibile ed evocazione del tangi-<br />
bile. Come i fantasmi di Kairo. Fi-<br />
gure che si poggiano su una parete<br />
e quando le osservi da vicino sono<br />
solo ombre. I Seefeel esordivano<br />
con questo Quique nel 1993 dan-<br />
do a Reynolds il perfetto esempio<br />
di gruppo rock che non vuole più<br />
suonare il rock, ma solo l’ombra<br />
del rock. La chitarra che scioglie<br />
il riff in mille celestiali riverberi,<br />
le ritmiche che si mimetizzano in<br />
una giocosa dance robotica o in<br />
un mantrico tic toc da metronomo<br />
dub. Le voci sempre più come de-<br />
gli ectoplasmi prima di scomparire<br />
del tutto. Lo riascolti Quique e ti<br />
accorgi di come faccia palesemen-<br />
te da ponte tra la wave britanni-<br />
ca degli ’80 e il post-rock dei ’90.<br />
Di come conservi l’idioma alterato<br />
delle chitarre trattate stile Kevin<br />
Shields e Robin Guthrie e di come<br />
anticipi i suoni che arriveranno di<br />
lì a poco. Too Pure ristampa ora<br />
in doppio CD, rimasterizzando il<br />
disco originale e aggiungendo ra-<br />
rità, inediti e versioni remix nel se-<br />
condo disco. Un’ottima occasione<br />
per ritrovare un lavoro abbastanza<br />
fondamentale.<br />
7 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />
Sly & The Family Stone - There’s<br />
A Riot Goin’ On (Epic, 1971,<br />
ristampa Sony, 24 aprile 2007)<br />
Genere: funk<br />
1969, il palco è quello di Woo-<br />
dstock: Janis Joplin lascia la<br />
scena sudata come suo solito.<br />
Il torrenziale blues della bianca<br />
più nera d’America ha scaldato<br />
l’ambiente. I roadie preparano il<br />
palcoscenico al prossimo set. La<br />
tenebra cala e Sly & The Fami-<br />
ly Stone attaccano lo show. Lui,<br />
Sly, sembra un alieno: collare<br />
color oro e mise sgargiante. L’oc-<br />
chiale roseo nasconde appena lo<br />
sguardo. D ance To The Music c’è,<br />
Stand - title track del disco prima-<br />
verile - pure. Un’estate trionfale.<br />
Nel Natale dello stesso anno, a<br />
ridosso della sesta stagione del<br />
conflitto vietnamita, Sly e famiglia<br />
pubblicano Thank You (Falettinme<br />
Be Mice Elf Agin). È un singolo<br />
di cinque-minuti-cinque la cui li-<br />
nea di basso, dal pollice di Larry<br />
Graham, è un sisma ritmico che<br />
apre al nuovo ciclo della musica<br />
nera. L’antefatto dei nuovi Stone<br />
nello slapping che - anche secon-<br />
do gli studiosi del genere - cam-<br />
bierà il corso del funk.<br />
Da San Francisco si muove verso<br />
Los Angeles, nella città degli an-<br />
geli. Siamo nel 1970 e Sly cambia<br />
pelle: lo sguardo diviene severo e<br />
ragiona da despota. Si rinchiude<br />
in uno studio di Bel Air, all’interno<br />
di una villa affittata ad una cifra<br />
smisurata, e decide che d’ora in<br />
avanti si ragiona come vuole lui.<br />
Quando vuole lui. È viziato dalla<br />
droga, cocaina e pcp (un alluci-<br />
nogeno noto anche come polvere<br />
d’angelo), e le mura della nuova<br />
residenza sono spettatrici di un<br />
andirivieni tra sconosciuti e ami-<br />
ci, pusher e musicisti. Una casa<br />
aperta che ospiterà anche - cosi<br />
narrano le varie leggende - un<br />
certo Miles Davis…<br />
C’è ressa e agitazione, le regi-<br />
strazioni ne risentono e durano<br />
un anno. Sly sovraincide sessione<br />
su sessione e il suono si sporca,<br />
ma si annusa il capolavoro. Anche<br />
i guest Billy Preston e Ike Tur-<br />
ner non hanno voce in capitolo,<br />
limitandosi ad eseguire gli ordi-<br />
ni. Finalmente si termina: la front<br />
cover, raffigurante una bandiera<br />
americana con dei fiori anziché le<br />
solite stelle, non ha alcuna sigla,<br />
neanche quella del gruppo; ed il<br />
titolo, dopo i provvisori The In-<br />
credibile And The Unpredictable<br />
Sly & The Family Stone e Africa<br />
Talks To You, risolve in There’s<br />
A Riot Goin’ On, imperativo rivol-<br />
to al What’s Going On di Marvin<br />
Gaye.<br />
Corre il decennio dei Seventies<br />
ed il funk allestisce la sua furente<br />
stagione: nei soli mesi del 1971<br />
si ascoltano Maggot Brain dei<br />
Funkadelic, Shaft di Isaac Hayes<br />
e l’anzidetto lavoro di Gaye. Sly<br />
& The Family Stone pubblicano<br />
There’s A Riot Goin’ On quando<br />
tutto sembra stato scritto. Sem-<br />
bra. Il disco è scuro, intimo nei<br />
contenuti (il rapporto con la droga<br />
in Luv N’ Haight, i problemi fami-<br />
liari di Family Affair) e avveniri-<br />
stico negli arrangiamenti (la drum<br />
machine della stessa Family Af-<br />
fair, la lounge di Runnin’ Away),<br />
indolente nei soul ( Time) e dopato<br />
nei funk (Brave And Strong). Ci si<br />
riaggancia al passato (la ripresa,<br />
narcotizzata per quasi otto minuti,<br />
di Thank You Falettinme Be M ice<br />
Elf Agin rieditata come Thank You<br />
For Talkin’ To Me Africa) e si av-<br />
verte la fine di un era (eloquenti<br />
le parole di Africa Talks To You<br />
“The Asphalt Jungle” che salutano<br />
le buone vibrazioni dei 60). Ora<br />
si, tutto è stato scritto.<br />
Billboard lo accoglie al primo po-<br />
sto, ma la famiglia si sfalda: dopo<br />
la fuoriuscita del batterista Greg<br />
D’Errico, avvenuta durante le<br />
session di There’s A Riot Goin’<br />
On, anche Larry Graham (uno che<br />
stava a Sly Stone come Bootsy<br />
Collins stava a James Brown)<br />
abbandona la cricca. La nuova<br />
sezione ritmica produce l’ottimo<br />
Fresh (Epic, giugno 1973) ma<br />
d’ora in avanti sarà più cronaca<br />
nera - vedi il clamoroso arresto<br />
per droga del 1981 in compagnia<br />
di George Clinton - che ottima<br />
musica. Più cocaina che funk.<br />
Ok, There’s A Riot Goin’ On è di<br />
nuovo nei negozi, in edizione li-<br />
mitata e allungato con quattro bo-<br />
nus, tre inediti strumentali - rare<br />
groove che faranno la gioia di Dj<br />
Shadow e Madlib - e una versio-<br />
ne mono di Runnin’ Away. Fos-<br />
si in voi non aspetterei domani.<br />
( 8.0/10)<br />
Gianni Avella
Tim Buckley - My Fleeting House<br />
DVD (Manifesto, aprile 2007)<br />
My Fleeting House rende final-<br />
mente accessibili, al di fuori della<br />
ristrettissima cerchia di appassio-<br />
nati collezionisti, rare testimonian-<br />
ze video di Tim Buckley, protagoni-<br />
sta dal 1967 al 1974 di sporadiche<br />
apparizioni TV promozionali; alcu-<br />
ni dei filmati si potevano finora ve-<br />
dere in streaming sul sito ufficiale<br />
timbuckley.com., mentre non si co-<br />
nosce l’esistenza di riprese video<br />
integrali di suoi concerti.<br />
Il DVD è frutto del lavoro del pro-<br />
duttore Rick Fuller, il quale ha<br />
messo insieme ogni spezzone a di-<br />
sposizione, accompagnandolo con<br />
il prezioso e filologico commento<br />
del chitarrista Lee Underwood,<br />
dell’amico e collaboratore Larry<br />
Beckett e del biografo ufficiale<br />
David Browne, autore del libro<br />
Dream Brother, bio incrociata dei<br />
Buckley padre e figlio.<br />
Intervallati da illuminanti estratti di<br />
interviste inedite dell’epoca (Steve<br />
Allen Show del ’69 e WIFT’s The<br />
Show del ‘70), in cui Buckley si<br />
esprime su temi allora caldissimi,<br />
come la guerra in Vietnam, ecco<br />
le testimonianze tv, come l’ormai<br />
celebre apparizione al Monkees<br />
Tv Show del ’67 in cui Tim cantò<br />
una primitiva versione di Song To<br />
The Siren, le splendide performan-<br />
ces alla tv europea del 1968 in trio<br />
con Lee Underwood e Carter CC<br />
Collins (periodo Happy Sad), gli<br />
estratti della fase jazz insieme alla<br />
Starsailor Band, fino alla Dolphins<br />
di Fred Neil all’Old Grey Whistle<br />
Test del 1974, nel tardo periodo<br />
“normalizzato” della sua straordi-<br />
naria quanto sfortunata carriera.<br />
Finalmente dopo anni si vede Tim<br />
muoversi, parlare, cantare ed esi-<br />
birsi live, tutte cose su cui si è<br />
sempre favoleggiato, ma che in<br />
pochissimi avevano avuto modo di<br />
vedere. Un percorso fulminante il<br />
suo - che come si sa non ha avu-<br />
to riscontri in un vasto pubblico -,<br />
durante il quale ha abbracciato di-<br />
versi stili, dal folk-rock degli inizi<br />
alla fase avant-jazz fino ai dischi<br />
“rock” con cui cercava di avere<br />
maggior fortuna commerciale. E<br />
che le testimonianze del DVD aiu-<br />
tano a decifrare meglio, chiudendo<br />
il cerchio su una parabola breve<br />
ma fondamentale, che sotterranea-<br />
mente avrebbe avuto un culto de-<br />
voto negli anni, poi ratificato con il<br />
successo del figlio Jeff, che aiutò<br />
anche la riscoperta del padre.<br />
Concepito come un documenta-<br />
rio crono-biografico, My Fleeting<br />
House segue, scandita dalle varie<br />
performance, la carriera di Buckley,<br />
con l’aiuto dei preziosi commen-<br />
ti, da Underwood, il più tecnico, a<br />
Beckett, che fornisce le testimo-<br />
nianze più toccanti, fino al biogra-<br />
fo Browne, il più puntuale. Unica<br />
pecca la mancanza di sottotitoli,<br />
che ne avrebbe reso più agevole<br />
la fruizione. Di immenso valore le<br />
testimonianze risalenti al periodo<br />
1970 di Starsailor, ispirato dal ge-<br />
nio di Miles Davis, con I Woke Up,<br />
Come Here Woman in una versione<br />
alternativa e l’inedita Venice Bea-<br />
ch (Music Boats By The Bay), epi-<br />
sodi rivelatori su quanto si fosse<br />
ormai spinto al di là abbracciando<br />
l’improvvisazione del jazz e del-<br />
la musica contemporanea, anche<br />
vocalmente. Scelte artistiche che<br />
poi avrebbe duramente pagato, ma<br />
questa è un’altra storia.<br />
Teresa Greco<br />
Xela - For Frosty Mornings And<br />
Summer Nights (Type / Wide, 2<br />
marzo 2007)<br />
Genere: indietronica<br />
Sette anni fa, un giovane e squat-<br />
trinato John Twells si divideva tra<br />
i corsi d’arte all’Università e l’atti-<br />
vità di venditore d’auto, trovando<br />
anche il tempo di concepire picco-<br />
li congegni di musica elettronica,<br />
secondo il gusto dell’epoca. Quindi<br />
omaggi a piene mani tanto all’osan-<br />
nata Warp, quanto alla nascente<br />
elettronica in odor di shoegaze che<br />
tramava intorno alla Morr Music. È<br />
in questo contesto che nasceva-<br />
no le composizioni di For Frosty<br />
Mornings And Summer Nights, il<br />
primo disco di Xela, che ora ci vie-<br />
ne presentato in versione riveduta<br />
e corretta, con una masterizzazio-<br />
ne nuova di zecca, fatta presso i<br />
prestigiosi Dubplates & Mastering<br />
Studios di Berlino.<br />
Da allora all’ultimo The Dead Sea,<br />
molte cose sono cambiate. Twells<br />
è passato prima per gli Yasume,<br />
ha poi inserito parti sempre più in-<br />
sistite di chitarra nel successivo<br />
Tangled Wool ed è infine approda-<br />
to alla complessa tessitura elettro<br />
folk del suo ultimo lavoro. Ma qui,<br />
agli esordi, ci muoviamo ancora<br />
nel più classico e manierato regi-<br />
stro da IDM bagnata di ambient.<br />
Le ombre di Boards Of Canada e<br />
Aphex Twin si poggiano evidenti<br />
su brani come Afraid Of Monsters,<br />
Japanese Whispers e Impulsive<br />
Behaviour. Non mancano timidi ac-<br />
centi di elettro shoegaze secondo i<br />
dettami che la Morr Music avrebbe<br />
divulgato di lì a breve con il disco<br />
tributo agli Slowdive e con gente<br />
dallo spirito affine come Styro-<br />
foam e Ulrich Snauss. Due belle<br />
bonus track incluse nella ristam-<br />
pa, A Glance e Danse Macabre.<br />
In conclusione, un buon amarcord<br />
dei bei tempi che furono, acerbi ed<br />
ingenui, ma pieni di una passione<br />
evidente. (6.8/10)<br />
Antonello Comunale<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7
Strangles<br />
Dal vivo<br />
John Foxx - Milano, Transilvania<br />
(14 aprile 2007)<br />
Un balzo spazio-temporale mica da<br />
poco. In un apparentemente tran-<br />
quillo sabato sera milanese ci si<br />
ritrova - nel non pienissimo Tran-<br />
silvania - catapultati in una terra di<br />
mezzo, i cui confini risultano labili.<br />
Circondati in maggioranza da una<br />
fauna di replicanti new wave più o<br />
meno giovani assistiamo all’appari-<br />
zione di John Foxx, non quello am-<br />
bient e riflessivo degli ultimi tempi,<br />
ma decisamente quello tra post-<br />
punk e synth-pop degli Ultravox!<br />
e della prima parte della carriera<br />
solista. Un excursus che dalle ori-<br />
gini procede per i classici di Meta-<br />
matic (a discapito di The Garden,<br />
ed è un peccato…), inframezzati<br />
dal presente e dal passato prossi-<br />
mo dell’artista. Accompagnato dal<br />
fido Louis Gordon - che offre uno<br />
show personale agitandosi come un<br />
folletto -, con il quale ha realizzato<br />
negli ultimi anni quattro dischi tra<br />
elettro-rock e synth pop, il Nostro<br />
appare in gran forma, anche vocal-<br />
mente e offre più di un’ora e mezza<br />
di concerto serratissimo. Entrambi<br />
7 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
alle tastiere ed effetti elettronici,<br />
vengono circondati da nuvole di<br />
fumo che creano un’atmosfera di al-<br />
gida impenetrabilità, sortendo uno<br />
strano effetto nel contrasto con il<br />
calore delle melodie e i racconti di<br />
quotidiana alienazione metropolita-<br />
na. Il battito metallico-metamatico<br />
si manifesta sin da quasi subito, e<br />
come resistere a una scaletta che<br />
presenta, in successiva sequenza,<br />
classici quali He’s A Liquid, Metal<br />
Beat, Plaza, Underpass? Per non<br />
parlare di reminescenze ultravoxia-<br />
ne (The Man Who Dies Everyday,<br />
Slow Motion, Hiroshima Mon Amour,<br />
My Sex), a cui assistiamo incredu-<br />
li di cotanto amarcord. E fortunati<br />
di aver potuto esserci. In mezzo,<br />
i pezzi più o meno recenti (Crash<br />
And Burn, From Trash) anche in<br />
versione allungata, che pur non sfi-<br />
gurando appaiono per forza di cose<br />
più sfumati dei classici di Foxx. Il<br />
quale sembra godere parecchio per<br />
averci offerto più di uno sguardo al<br />
suo passato. Assisteremo, magari<br />
in un futuro non lontano, a un’altra<br />
reunion eccellente? Chissà.<br />
Teresa Greco<br />
Maxïmo Park + Settlefish –<br />
Rolling Stone, Milano (16 aprile<br />
2007)<br />
“Questo è il Rolling Stone, no? È<br />
qui che abbiamo suonato l’ultima<br />
volta in Italia. Chi c’era di voi?”.<br />
Dal folto pubblico si alzano sol-<br />
tanto poche mani, per lo più tra le<br />
prime file. Sorride Paul Smith, si<br />
rivolge al chitarrista e fa: “Beh, se<br />
non altro vuol dire che stavolta ab-<br />
biamo portato un sacco di nuova<br />
gente!”, per poi buttarsi a capofit-<br />
to in Apply Some Pressure. Giusto<br />
sotto il palco, la security non ha<br />
vita facile: il crowd surfing è sel-<br />
vaggio, ed è tutto un saliscendi di<br />
ragazzi e ragazze tirati via dalla<br />
calca. Neanche fossimo nei primi<br />
90, mannaggia. Pare proprio che<br />
con Our Earthly Pleasures i Ma-<br />
xïmo Park abbiano fatto l’atteso<br />
botto pure da noi, proprio come<br />
i Klaxons e gli Arctic Monkeys,<br />
che nelle scorse settimane hanno<br />
calcato lo stesso palco milanese,<br />
con lo stesso effetto. Il disco non è<br />
uscito da molto, eppure sono tanti<br />
a conoscere già i testi a memoria<br />
e a cantarli insieme allo stiloso<br />
frontman, bombetta ben calcata<br />
sulla fronte, camicia attillata (da
metà set in poi incollata dal sudo-<br />
re) e lucidissime scarpe nere.<br />
Che sia hype o vera gloria, sta suc-<br />
cedendo qui e adesso, e se la gen-<br />
te accorsa è tanta non può essere<br />
soltanto perché stasera si entra<br />
gratis (è la seconda delle Brand<br />
New Nights di MTV); di sicuro,<br />
una simile esposizione ha giovato<br />
ai “nostri” Settlefish, autori di un<br />
set d’apertura grintoso ed efficace<br />
all’insegna del loro indie pop-rock<br />
anglofono. Anche se molte delle<br />
canzoni non sono note neanche<br />
agli aficionados - faranno parte<br />
del secondo album, in uscita pre-<br />
sumibilmente in ottobre -, il feeling<br />
è quello giusto, e la sensazione<br />
che Jonathan Clancy e compagni<br />
ci lasciano è che quel sano spiri-<br />
to che fu dei Pavement è tutt’altro<br />
che scomparso, e che dei Novanta<br />
non avremo mai abbastanza. Tor-<br />
nando agli headliners, va detto che<br />
se l’impatto (emotivo e sonoro) sul<br />
pubblico è indubbio, spiace un po’<br />
constatare che i diversi umori di<br />
cui si nutrono le nuove canzoni sul<br />
palco vengano omologati in un co-<br />
stante assalto wave punk a base<br />
di chitarra, con meno tastiera e<br />
meno propensione al romanticismo<br />
(problemi dovuti all’impostazione<br />
dello show, ma anche a un’acusti-<br />
ca non ottimale). Due elementi ben<br />
in evidenza in Our Earthly Plea-<br />
sures (qui solo accennati con By<br />
The Monument e Nose Bleeding,<br />
purtroppo prive d’atmosfera), che<br />
viene tuttavia saccheggiato in lun-<br />
go e in largo, da Girls Who Play<br />
Guitars a Parisian Skies passando<br />
per Karaoke Plays, Russian Lite-<br />
rature e l’ovvia Our Velocity; il de-<br />
butto non è da meno, con All Over<br />
The Shop, Graffiti e soprattutto<br />
Going Missing, che dà a Paul Smi-<br />
th l’opportunità di chiudere il con-<br />
certo col verso: “I sleep with my<br />
arms around my chest and I dream<br />
of you with someone else”. Ecco-<br />
lo qui, l’emo-Morrissey dei nostri<br />
tempi.<br />
Antonio Puglia<br />
Stranglers - Colle di Val d’Elsa<br />
(SI) (16 marzo 2007)<br />
Sull’onda della nuova onda della<br />
Nuova Onda, nonché di un rinnova-<br />
to interesse generale nei loro con-<br />
fronti, gli Stranglers tornano a farsi<br />
vedere in Italia dopo un po’. Il pub-<br />
blico è composto da giovani <strong>neo</strong>-<br />
fan curiosi della leggenda, ma an-<br />
che di persone che probabilmente<br />
in Italia li hanno visti già nel 1980.<br />
Sul palco la situazione è la stessa:<br />
accanto ai veterani cinquantenni<br />
Burnell e Greenfield troviamo Baz<br />
Warne, omone della working class<br />
che non possiede il look da genti-<br />
luomo trucido che aveva Cornwell<br />
ma la cui voce segue bene le finez-<br />
ze e i cambiamenti di registro del<br />
predecessore, e alla batteria “not<br />
a big man as usual”, come spie-<br />
ga Burnell. Il sessantottenne Jet<br />
Black, infatti, è in convalescenza<br />
da un’infezione polmonare che ha<br />
interessato anche il cuore, ed è<br />
temporaneamente rimpiazzato dal<br />
suo tecnico di palco Ian Barnard,<br />
23 anni, che non sbaglia uno stac-<br />
co e pesta come un dannato.<br />
Già perché gli Stranglers che ve-<br />
diamo questa sera sono quelli più<br />
pestoni e aggressivi, “prima manie-<br />
ra” ancor più che negli ultimi due<br />
album. La scaletta attinge princi-<br />
palmente ai primi tre album (perfi-<br />
no Burning Up Time, per dire) e al-<br />
l’ultimo, e anche quando va su The<br />
Raven ne sceglie i brani più vicini<br />
a questo filone. Eccettuati i reggae<br />
bastardi di Nice’n’Sleazy e Pea-<br />
ches, le finezze di Golden Brown,<br />
il pop di Always The Sun, gli assoli<br />
di Walk On By e il country di I Hate<br />
You (dedicata, dicono loro, a “the<br />
real Man in Black” Johnny Cash:<br />
musicalmente è vero, ma si fan-<br />
no ipotesi sul destinatario di ver-<br />
si “gentili” quali “I hate you now, I<br />
always will, and when you’re dead<br />
I’ll hate you still”...), siamo intorno<br />
al ’78, pur fresco e grintoso.<br />
E se si parla di Stranglers “vecchi”,<br />
la serata non poteva andare liscia,<br />
qualcosa doveva succedere. Infatti:<br />
Burnell a inizio concerto sembrava<br />
un ex-irrequieto, felice di suonare<br />
e sorpreso, quasi imbarazzato da<br />
tanto pubblico e da tanto affetto:<br />
poi a un certo punto riesce fuori<br />
il fantasma del turbolento, quando<br />
durante Summat Outanowt vede un<br />
ragazzo che filma il concerto ap-<br />
poggiato a una spia. Prima tenta di<br />
colpirlo con un calcio (tra l’altro, è<br />
cintura nera di karate) poi, mentre<br />
i roadies prima apostrofano il ra-<br />
gazzo (che evitato il calcio aveva<br />
ricominciato a filmare) con svariati<br />
“fuck off” poi gli si assembrano in-<br />
torno e lo allontanano, JJ salta giù<br />
dal palco senza nemmeno sfilarsi<br />
il basso e si unisce al crocchio, col<br />
suo amplificatore che ci restitui-<br />
sce una precisa mappa sonora dei<br />
suoi movimenti e della schiena del<br />
roadie, prima che il cavo si stacchi<br />
e il resto del gruppo si accorga di<br />
quanto successo e smetta di suo-<br />
nare. Poi vedo uno dei roadies con<br />
in mano la videocamera mentre<br />
cerca di togliere la cassetta (spero<br />
che almeno la camera gliel’abbia-<br />
no restituita), e il gruppo si scusa,<br />
ma dicendo “Don’t do it anymo-<br />
re”. Più tardi, colpito dalla luce di<br />
un flash, Burnell ha una reazione<br />
più normale ma non meno decisa:<br />
guarda negli occhi lo spettatore<br />
e scuote la testa a dire “No, per<br />
favore”. Evidentemente gli dà pro-<br />
prio fastidio...<br />
Insomma, a parte l’episodio (ma<br />
è una rarità, ormai i loro concerti<br />
sono tranquilli da decenni) la pre-<br />
miata ditta Stranglers va avanti,<br />
con rinnovata vitalità e nuove leve<br />
pronte a raccogliere il testimone. E<br />
se un futuro i gruppi fossero come<br />
le compagnie teatrali, col nome<br />
che resta e le generazioni che si<br />
succedono?<br />
Giulio Pasquali<br />
Faust - Teatro Galleria Toledo,<br />
Napoli (5 aprile 2007), Centro<br />
Stabile di Cultura, San Vito di<br />
Leguzzano (VI) (8 aprile 2007)<br />
Il contesto performativo, soprat-<br />
tutto quando si tratta di band ver-<br />
satili e letteralmente “totali” come<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7 7
Faust. Fot di Taxi so far<br />
i Faust, può davvero fare la diffe-<br />
renza. E così è stato. Le date di Vi-<br />
cenza e Napoli, seppure a distan-<br />
za di soli tre giorni l’una dall’altra,<br />
hanno rappresentato due diversi<br />
volti della band krauta, alle pre-<br />
se con spazi e pubblico quasi agli<br />
antipodi e si sono rivelate un’oc-<br />
casione imperdibile per scrutare il<br />
trio franco-tedesco da più punti di<br />
vista, nessuno dei quali trascura-<br />
bile.<br />
A Vicenza, l’impianto faustiano si<br />
impone, occupando tutto lo spazio<br />
sul palco: una batteria da gigante<br />
- quale Zappi è - e oggetti da robi-<br />
vecchi disseminati ovunque, dalla<br />
trombetta da stadio all’aspirapol-<br />
vere; non si capisce dove possano<br />
inserirsi, fisicamente, le autorità<br />
kraute.<br />
Aprono la serata i Casa, che, per<br />
non perturbare la preparazione, si<br />
posizionano nel mezzo della sala<br />
(mentre il pubblico retrocede in<br />
zona bar) e riescono a far ottima-<br />
mente ventilare l’aura di perfor-<br />
mance del concerto che li seguirà.<br />
Quando è il momento dei Faust, il<br />
tappeto violinistico di Outside The<br />
Dream Syndicate è forse l’unico<br />
evento del concerto che richiama<br />
la maestosità del krautrock; la se-<br />
riosità è interrotta e mai più ripresa<br />
dall’ingresso di Peron e Diermaier<br />
con Cambuzat, che ironizzano sul-<br />
la propria identità, si presentano<br />
al pubblico come un gruppo tede-<br />
sco che, beh, fa krautrock, e non<br />
possono che iniziare a suonare<br />
7 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
con Krautrock, nonché finire con<br />
It’s A Rainy Day (Sunshine Girl).<br />
Nel mezzo, la potenza ritmica del<br />
gruppo battaglia con l’anima da<br />
vaudeville della formazione; Peron,<br />
anima teatrante, stira (con tanto di<br />
asse) la t-shirt di un astante, in-<br />
sistendo sulla seriosità dell’opera-<br />
zione domestica, mentre sottolinea<br />
che la musica, a quanto gli risulta,<br />
non è seria.<br />
Ai punti, però, vincono le struttu-<br />
re ritmiche; gli strumenti possono<br />
commutare (Peron, a un certo pun-<br />
to, non funzionando una chitarra<br />
per un riff motoristico dei suoi, de-<br />
cide di ripiegare sul basso senza<br />
che la cosa causi problemi di pro-<br />
grammazione), ma è il gentle giant<br />
Diermaier il protagonista musicale.<br />
Gli oggetti vengono raccolti, suo-<br />
nati, rigettati nella mischia. L’uni-<br />
ca fissità concessa è batteristica.<br />
Non che i Faust siano pura strut-<br />
turazione ritmica, certo, ma forse<br />
è questo che oggi li rende ancora<br />
environment, qui al Centro Stabile<br />
di Cultura.<br />
Persa la dimensione intima sul pal-<br />
co, seppur piccolo, del Teatro Gal-<br />
leria Toledo, i Faust non sembrano<br />
però abbandonare, neanche a Na-<br />
poli, l’attitudine teatrale che li ca-<br />
ratterizza, semmai esaltandone la<br />
vena brechtiana nel contesto che<br />
più gli è proprio.<br />
Qualcuno, dal pubblico, rigorosa-<br />
mente seduto, non può evitare di<br />
muoversi un po’ battendo il ritmo<br />
dei classici krauti, ma è la dimen-<br />
sione psichedelica a pervadere<br />
l’aria con maggior forza. Il reper-<br />
torio è lo stesso di Vicenza (non la<br />
scaletta, che a Napoli prevedeva<br />
Krautrock e altri brani di Faust IV<br />
come bis conclusivi), ma è la per-<br />
cezione della musica che cambia.<br />
Il teatro è come ipnotizzato sia dai<br />
suoni che dagli sketch teatrali di<br />
Peron, anche in questo caso alla<br />
prese con il ferro da stiro e l’afori-<br />
sma “there’s nothing serious about<br />
music”.<br />
Certo, non tutto ciò che fanno i<br />
Faust dimostra di adattarsi perfet-<br />
tamente al teatro: si diffonde un po’<br />
di panico tra le prime file quando<br />
Peron, sventolando una sega elet-<br />
trica come fosse una bandiera, de-<br />
cide di fare un giretto davanti alla<br />
platea. Ma la paura passa presto.<br />
Nonostante il piacere di trovarsi di<br />
fronte il mito-Faust, sorge spon-<br />
ta<strong>neo</strong>, quasi come una necessi-<br />
tà, all’uscita, chiedersi che sen-<br />
so abbia un concerto della band<br />
franco-tedesca a quarant’anni da-<br />
gli esordi e cosa riesce ancora a<br />
stupire di loro. La risposta? Umil-<br />
tà, ironia, una visione totalmente<br />
“aperta” della musica (intesa sia<br />
come ricerca che come spettacolo)<br />
e l’energia e l’entusiasmo di una<br />
band giovane giovane. Se vi sem-<br />
bra poco...<br />
Daniele Folero e Gaspare Caliri
(Gi)Ant Steps#6<br />
Come giocare con ritmo e improv-<br />
visazione uscendone puliti: Dave<br />
Brubeck e il suo Time Out, ideale<br />
punto di incontro tra musica afroa-<br />
mericana e tradizione colta occi-<br />
dentale.<br />
The Dave Brubeck Quartet - Time<br />
Out (Columbia,1959)<br />
Genere: jazz<br />
Av r ò a v u t o o p i ù o m e n o o t t o a n n i .<br />
P r o b a b i l m e n t e q u a l c u n o i n p i ù .<br />
A l l a r a d i o , s u u n o d e i c a n a l i n a -<br />
z i o n a l i , p a s s a v a u n a t r a s m i s s i o -<br />
n e d i c u i n o n r i c o r d o n é t i t o l o n e<br />
c o n t e n u t i , m a c h e a v e v a l a c a p a -<br />
c i t à d i c a t a l i z z a r e l ’ a t t e n z i o n e d i<br />
u n b a m b i n o a n c o r a a l l ’ o s c u r o d i<br />
t u t t o , g r a z i e a l l a s i g l a d i a p e r t u -<br />
r a . Tu t t o p a r t i v a c o n d u e a c c o r d i<br />
d i p i a n o f o r t e r i p e t u t i a o l t r a n z a<br />
s u u n t e m p o z o p p i c a n t e , i n t r o -<br />
d u z i o n e e a c c o m p a g n a m e n t o p e r<br />
l ’ a v a n z a t a d i u n s a x d a l s u o n o<br />
t a n t o i n t e n s o d a m u o v e r e a l p i a n -<br />
t o . U n r i ff s o t t i l e , n o t t u r n o , e r o -<br />
t i c o , a p p e n a s u s s u r r a t o m a d a l l a<br />
p o t e n z a i n a u d i t a .<br />
D o v e v a n o p a s s a r e q u a s i v e n t ’ a n -<br />
n i p r i m a c h e s c o p r i s s i c h e q u e l -<br />
l a s u c c e s s i o n e d i n o t e - c h i s s à<br />
c o m e , a n c o r a l ì d o v e l ’ a v e v o l a -<br />
s c i a t a - a l t r o n o n e r a c h e l a Ta k e<br />
F i v e d i D a v e B r u b e c k , m u s i c i s t a<br />
a m e r i c a n o d a l l ’ a s p e t t o o r d i n a r i o<br />
e , p e r g i u n t a , b i a n c o . U n o c h e<br />
q u e l p e z z o - b o n t à s u a - l o a v e v a<br />
t r a d o t t o i n u n s e m p l i c e e s e r c i z i o<br />
d i s t i l e , u n m o d o c o m e u n a l t r o<br />
p e r a p p l i c a r e a l j a z z i l f a s c i n o<br />
o b l i q u o d e l l e r i t m i c h e d i s p a r i e<br />
r i c a v a r n e m o t i v o d i i m p r o v v i s a -<br />
z i o n e . A d i r e i l v e r o t u t t o Ti m e<br />
O u t - o p e r a i n c u i r i e n t r a a n c h e<br />
i l b r a n o d i c u i s i d i c e v a - m u o -<br />
v e i n q u e s t o s e n s o , a p a r t i r e d a l<br />
t i t o l o f i n o a d a r r i v a r e a i s e t t e<br />
b r a n i c h e c o m p o n g o n o l a s c a -<br />
l e t t a : u n a s u c c e s s i o n e d i r o n d ò ,<br />
v a l z e r, p a s s a c a g l i a , i m p r e s s i n e i<br />
f r a s e g g i s w i n g a n t i d e i m u s i c i s t i e<br />
t r a s f i g u r a t i i n u n i d e a l e p u n t o d i<br />
i n c o n t r o t r a m u s i c a a f r o a m e r i c a -<br />
n a e t r a d i z i o n e c o l t a o c c i d e n t a l e .<br />
F i n d a l b r a n o d i a p e r t u r a , i n c u i<br />
l o s c a p i c o l l a r e r i t m i c o d e l p i a n o -<br />
f o r t e d i B r u b e c k t o g l i e i l f i a t o p e r<br />
d u e m i n u t i p e r p o i l a s c i a r s p a z i o<br />
a l l a q u i e t e d e l l ’ i m p r o v v i s a z i o n e ,<br />
i n u n ’ a l t e r n a n z a d i s a l i s c e n d i c h e<br />
n e l s u c c e s s i v o S t r a n g e M e a d o w<br />
L a r k d i v e n t a e l e g a n z a f o r m a l e ,<br />
g u s t o p e r l a s f u m a t u r a , p a c a t e z -<br />
z a d i c h i s a c h e i l j a z z è a n c h e<br />
m a t e r i a d a c l a s s e m e d i o - a l t a .<br />
P e r a s c o l t a r e Ta k e F i v e è n e c e s -<br />
s a r i o a s p e t t a r e l a t e r z a t r a c c i a ,<br />
m a è u n ’ a t t e s a r i p a g a t a a m p i a -<br />
m e n t e d a l l a m u s i c a : s p a z z o l e ,<br />
p i a n o f o r t e , c o n t r a b b a s s o e s a x<br />
e n t r a n o u n o d o p o l ’ a l t r o , m o d e l -<br />
l a n d o m i n u t i c h e s a n n o d i n o t t i<br />
p i o v o s e p a s s a t e a b e r e i n q u a l c h e<br />
b a r e d i v e n t a n o u n t a p p e t o p r e -<br />
z i o s o p e r l e i m p r o v v i s a z i o n i d e l l a<br />
b a t t e r i a d i J o e M o r e l l o . T h r e e To<br />
G e t R e a d y e K a t h y ’s Wa l t z r a p -<br />
p r e s e n t a n o i p a s s a g g i i n t e r m e d i<br />
d e l d i s c o , i l p r i m o o r g a n i z z a t o s u<br />
u n t e m a l e g g e r o d i s a x e l e g i t t i m o<br />
p r o p r i e t a r i o d i u n o d e g l i a s s o l i<br />
p i ù s i g n i f i c a t i v i d e l l o s t e s s o B r u -<br />
b e c k , i l s e c o n d o g i o c a t o s u u n a<br />
r i t m i c a s l o w t e m p o “ c o n v e n z i o n a -<br />
l e ” c h e m u t a i m p r o v v i s a m e n t e i n<br />
u n v a l z e r i n p i e n a r e g o l a .<br />
E p i s o d i c h e c o n i l l o r o i n c e d e r e<br />
s c o p p i e t t a n t e p o r t a n o d r i t t i d r i t -<br />
t i a l l a c h i u s u r a d e l l ’ o p e r a , s u l l e<br />
n o t e d i u n a E v e r y b o d y ’s J u m -<br />
p i n g s o l c a t a d a s c a m b i c o n t i n u i<br />
t r a p e r c u s s i o n i e p i a n o e d i u n a<br />
P i c k U p T h e S t i c k s i n c u i a f a r l a<br />
d a p a d r o n e s o n o i l 6 / 4 d e l b a s -<br />
s o d i E u g e n e Wr i g h t e u n l a v o r o<br />
c o r a l e s u l p r o s c e n i o d e l l ’ i m p r o v -<br />
v i s a z i o n e .<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 7 9<br />
( G i ) A n t S t e p s u n a r u b r i c a j a z z a c u r a d i S t e f a n o S o l v e n t i e F a b r i z i o Z a m p i g h i
a c u r a d i S t e f a n o S o l v e n t i e F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
W E A R E D E M O<br />
WE ARE DEMO#16<br />
S i d e A<br />
I due Bancali In Pietra, Psico e<br />
Mone, provengono rispettivamente<br />
da Scacciano e Sogliano che signi-<br />
fica profondo e selvaggio entroter-<br />
ra romagnolo ed hanno sviluppato<br />
una preoccupante ossessione per<br />
tutto ciò che è magico: chitarre di<br />
legno magiche, boschi magici, ra-<br />
dio magiche (datevi una letta alla<br />
tracklist). La musica che propon-<br />
gono non può perciò che essere...<br />
magica. Trattasi di improvvisazioni<br />
strutturate, remixate e rimiscelate<br />
in seguito. Suonano un po’ di tut-<br />
to: chitarracce, tastierine ed orga-<br />
ni d’ogni sorta, drum machine e un<br />
mare d’effetti. Quel che ne esce è<br />
un unico fluire di composizioni aee-<br />
re, ambient a bassa fedeltà, grap-<br />
poli di note snocciolati senza sosta<br />
e nessun rispetto per le regole ar-<br />
moniche, spazialità craute ed echi<br />
boredoms, sovrapposizioni di tap-<br />
peti ritmici, suoni digitali e quan-<br />
t’altro. Nonostante quel che può<br />
apparire da una tale descrizione,<br />
l’amalgama funziona proprio bene<br />
e produce un effetto ipnotico, stor-<br />
dente ed infine rilassante. Munitevi<br />
di una scatola di Moment (non si sa<br />
mai) ed abbandonatevi senza paura<br />
alla liquida follia di questo magico<br />
duo, non ve ne pentirete, o forse<br />
sì. (7.0/10) Zagor e Ruben, i due<br />
Camillas, sono di Pesaro o forse<br />
8 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
di Pordenone, non si capisce bene,<br />
potrebbero essere fratelli o anche<br />
no. Per ora hanno registrato solo<br />
questo ep di cinque pezzi ma i loro<br />
concerti sono già un piccolo culto<br />
che conta numerosi adepti: teatrini<br />
situazionisti sempre sopra le righe<br />
in cui ha largo spazio l’improvvi-<br />
sazione, il cabaret ed il coinvolgi-<br />
mento del pubblico. Le loro canzoni<br />
sono minimali (un synth, una chi-<br />
tarra elettrica, qualche base elet-<br />
tronica) inni discodance, deliranti<br />
temporeggiamenti krauti, eccitati<br />
garage-punk, imbarazzanti melodie<br />
di quel pop italiano che in molti si<br />
vergognano ad ammettere di tro-<br />
varsi spesso a canticchiare, soul<br />
all’amatriciana, ciccia, risa, sudo-<br />
re, sangue, vino, vita. I Camillas<br />
sono teneri e surreali punk avan-<br />
guardisti, genuinamente intelligen-<br />
ti, di quell’intelligenza che in quan-<br />
to tale non ha paura di travestirsi<br />
di ridicolo e follia, restando comun-<br />
que tagliente e lasciando il giusto<br />
spazio ad una moderna, sincera ed<br />
inevitabile amarezza esistenziale di<br />
fondo. Nell’ep in questione c’è solo<br />
una piccola parte di tutto questo<br />
“Mondo Camillas” ma è già qualco-<br />
sa. Cercatelo (è prevista un’uscita<br />
ufficiale a fine maggio su etichetta I<br />
Dischi Di Plastica), cercateli e non<br />
mancate per nulla al mondo ai loro<br />
concerti. W I Camillas! (7.5/10)<br />
Si diventa grandi, cambiano i gu-<br />
sti, si viene influenzati da quel che<br />
c’è al momento, anche, e mi ero<br />
dimenticato. Mi ero dimenticato di<br />
quel periodo d’oro del rock italia-<br />
no. La fine degli Ottanta e i pri-<br />
mi Novanta: i Litfiba, il Consorzio<br />
Produttori Indipendenti, i Marlene<br />
Kuntz, gli Afterhours, la seconda<br />
o terza giovinezza di Battiato. Al-<br />
lora mi sembrava dovesse cambia-<br />
re chissà che, che ce la si potesse<br />
fare, si respirava aria nuova. Ci si<br />
sorprendeva orgogliosi e capaci di<br />
fare un qualche cosa che appariva,<br />
ed era, nuovo anche attraverso la<br />
riscoperta delle nostre radici, di<br />
cantautori in penombra e certo prog<br />
Settanta che all’estero ci è sempre<br />
stato invidiato. L’ascolto di Semio-<br />
tique delle Visioni di Cody mi ha<br />
riacceso una certa nostalgia per<br />
quel periodo: inizia con l’ennesi-<br />
ma cover de La canzone dell’amor<br />
perduto di De Andrè (e ci vuole del<br />
coraggio!) che è pure bella col suo<br />
andamento evocativo e lirico, tutto<br />
un trattenersi e rilasciarsi continuo<br />
e prosegue con quattro canzoni di<br />
pregevole rock italiano dall’ampio<br />
respiro, più o meno melodico, in<br />
equilibrio tra languido e ruvido. Un<br />
demo suonato e registrato molto<br />
bene che lascia presagire interes-<br />
santi ed emozionanti sviluppi. For-<br />
za così. (6.5/10)<br />
S i d e B<br />
D a v i d e B r a c e<br />
Gli Arbdesastr sono due verone-<br />
si dediti ad una electro-ambient-<br />
soul madreperlacea e palpitante a<br />
base di laptop e synth corroborati<br />
da tocchi leggeri di chitarra e gloc-<br />
kenspiel. Più la voce, s’intende, di<br />
quelle che cantano ninne nanne<br />
dall’esoterica tenerezza Wyatt/Si
gur Rós (come è palese nella ghost<br />
track). Tra accartocciamenti glitch e<br />
sibili cosmici (Sleep On The Grass),<br />
poliritmie sfarfallanti e found voices<br />
(Endless Run), vibrazioni lunari e<br />
corrucciati struggimenti (Underwa-<br />
ter Bedroom), mettono in piedi un<br />
teatrino olografico convincente, il<br />
calore dell’angoscia, certe allibite<br />
meraviglie, quel prostrarsi genero-<br />
so e luccicante che rimanda a dei<br />
Notwist sospesi su una nuvola d’elio<br />
(Fallen Trees). Facciamo che sono<br />
un po’ derivativi, che tutto sappia di<br />
già udito non troppo tempo fa. Cer-<br />
to è che nella fibra (traslucida) dei<br />
brani s’intravede l’embrione d’una<br />
personalità intensa. Per il momen-<br />
to, buona gestazione. (6.9/10)<br />
Quintetto attivo nel senese con tan-<br />
ta voglia di post-punk ed evidenti<br />
fregole psych a guarnire, i Dorothi<br />
Vulgar Questions debuttano nel<br />
magnifico mondo dei demo con<br />
un omonimo sei tracce non meno<br />
che promettente. Non bellissimo, a<br />
tratti anche risaputo, eppure quel<br />
loro procedere ostinato e ondiva-<br />
go in un solco scavato tra garage<br />
e wave non manca di stuzzicare il<br />
nervolino dell’aspettativa. Sentite-<br />
vi quei tremori acidi tra foschie Joy<br />
Division di Red Flower, ballatone<br />
cupo e marziale con tanto di wah<br />
wah ed effetti sibilanti. Oppure la<br />
veemenza robotica e sferzante di<br />
Senza scuse (che nel pianeta del-<br />
le cose impossibili sarebbe una<br />
jam tra Ultimate Spinach e CCCP).<br />
Eppoi ancora l’invettiva infervorata<br />
nel punk-boogie di Le occasioni, o<br />
quella specie di flemma Garbo tra<br />
bruciori frippiani ne La macchia.<br />
Un caracollare tra il beffardo e il<br />
lugubre che scomoda un po’ della<br />
(tras)lucida follia Barrett, il ghigno<br />
cupo di Ian Curtis, il Giolindo Fer-<br />
retti più sordidello. Insomma è uno<br />
stare a cavallo tra due idee rock<br />
come se fossero una, e forse è dav-<br />
vero così. (6.8/10)<br />
I Taboo di Exotic Sessions sono in-<br />
vece un trio mantovano dalla curio-<br />
sa propensione etno/exotic/avant.<br />
Nulla ci è dato sapere circa i titoli<br />
dei quattro pezzi, d’altronde sono<br />
o sarebbero “sessions”, appunto,<br />
quindi che fluiscano libere col loro<br />
straniante afflato post-qualcosa. A<br />
vederle in prospettiva, sembrano<br />
un soffice groviglio di percussioni<br />
echoizzate, chincaglierie liquide,<br />
brume lattescenti, cinguettii digitali<br />
e flauto stentoreo. Pseudo-ambient<br />
accattivante e sordida, ipnotica e<br />
insidiosa. Un po’ come addentrar-<br />
si nel fitto di una foresta di piume<br />
e gommapiuma. Trame seriali e<br />
astratte avvolte in un bozzolo ci-<br />
nematico, tipo gli Starfuckers scrit-<br />
turati per una danza del ventre al<br />
ralenti, o David Lynch che immer-<br />
ge Sun Ra in un liquido amniotico<br />
erotizzante. Eppoi quelle voci come<br />
una folata di ectoplasmi a pettina-<br />
re rigurgiti dub su griglie di loop<br />
alieni/minimali. Tutto ciò somiglia<br />
molto alla soundtrack dei miei so-<br />
gni più mollicci e angosciosi. Ok, il<br />
concept non è facile, anzi nel tirare<br />
la corda finisce spesso con tutti e<br />
due i piedi nel lato scostante del-<br />
la questione. Tuttavia, intuizione<br />
e realizzazione hanno i crismi del-<br />
l’originalità e dell’efficacia. Mi sa<br />
che ne riparleremo. (7.0/10)<br />
B o n u s Tr a c k<br />
S t e f a n o S o l v e n t i<br />
I Qeta partono dal metal e arrivano<br />
ad altro. Nello specifico, a una mu-<br />
sica che mantiene il gusto per il riff<br />
pur affondando le radici in ritmiche<br />
rallentate e quasi marziali, mostra<br />
scorci di melodia pur sottostando<br />
a un basso solido e martellante.<br />
Audioslave e Alice in Chains in<br />
pinzimonio (Sei), in bilico tra con-<br />
cessioni al binomio cuore-amore<br />
(Cosa siamo noi) e plettri in fibril-<br />
lazione (voto: 6.5/10 web: http://<br />
www.myspace.com/qeta). Discorso<br />
diverso per gli Eterno 21, fautori<br />
di un rock “all’italiana” che dalle<br />
parti di Pordenone - terra d’origine<br />
della band - si tinge di melodie li-<br />
neari e aperture vagamente espan-<br />
sive (Profumo di niente), ruvidezze<br />
di chitarra e volteggi progressivi di<br />
tastiere (Sottopressione), morbi-<br />
dezze all’Hammond e slanci vocali<br />
à la Bono Vox (Come l’aria). Non<br />
tutto gira a dovere, lo ammettiamo<br />
- alcune soluzioni melodiche odo-<br />
rano di stantio -, ma frequentare<br />
certi territori senza restare invi-<br />
schiati in qualche luogo comune<br />
non è impresa facile (voto: 6.2/10<br />
web: http://www.eterno21.com/).<br />
Suoni dallo spazio e rumori assorti-<br />
ti - emessi da chissà quali creature<br />
aliene -, sono invece il pane quo-<br />
tidiano dei BedEx. Sotto l’ala pro-<br />
tettiva di un lo-fi “obbligato” quan-<br />
to attraente, la band racimola un<br />
pugno di buone idee e i mezzi ne-<br />
cessari per metterle in opera, dan-<br />
do vita a un quadretto onirico che<br />
vorrebbe solleticare l’appetito de-<br />
gli orfani dello shoegaze. Lo scopo<br />
viene infine raggiunto, grazie a un<br />
connubio riuscito tra melodie tra-<br />
sparenti, elettronica artigianale, e<br />
cornici strumentali gradevoli (voto:<br />
6.5/10 mail: d.rissone@libero.it).<br />
F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />
W E A R E D E M O
C l a s s i c<br />
Dinosaur Jr.<br />
21ST CENTURY FREAK SCENE<br />
d i A n t o n i o P u g l i a<br />
Sinistra del palco: chitarrista indici-<br />
bilmente sciatto, jeans lisi e t-shirt<br />
sbiadita. Una tenda lercia di capelli<br />
ormai grigi gli incornicia il volto pa-<br />
cioso, mentre un accenno di pan-<br />
zetta fa capolino poco sopra la sua<br />
fida Fender Jazzmaster. Canta con<br />
aria quasi indifferente, come fosse<br />
lì per caso; non di rado, lo si può<br />
sorprendere in un sorrisino beffardo<br />
e sfuggente. Sul lato opposto: bas-<br />
sista dall’aria vagamente incazzata.<br />
Riccioli scuri, montatura spessa, un<br />
Rickenbacker imbracciato e suonato<br />
a mo’ di chitarra. Picchia su quelle<br />
quattro corde come se ogni accordo<br />
fosse l’ultimo, e quando si avvicina<br />
al microfono, il più delle volte non<br />
è per cantare. Nel mezzo: batterista<br />
completamente calvo. Occhialini da<br />
intellettuale, bermuda stile turista<br />
tedesco, pesta come un dannato,<br />
mentre i tre pezzi del drumkit sem-<br />
brano cedere da un momento all’al-<br />
tro. No, non è il 1987, e si vede. Ma<br />
quello che esce dalle pile di amplifi-<br />
8 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
catori - le Marshall stacks cantate dai<br />
Sonic Youth in Teenage Riot, avete<br />
presente? - è lo stesso frastuono di<br />
allora (se non ancora più potente),<br />
la stessa tempesta sonora che si<br />
abbatte sugli spettatori, esaltati e<br />
assieme assordati dai decibel. Chi<br />
ha assistito ad uno dei concerti del-<br />
la reunion più desiderata dell’indie<br />
rock può ben testimoniare sulla sce-<br />
na appena descritta. La scena freak<br />
del 21° secolo. Un sogno ad occhi<br />
aperti o un incubo incredibilmente<br />
realistico, dipende dai punti di vista.<br />
In realtà, fino all’altro ieri nessuno ci<br />
avrebbe scommesso un cent, alme-<br />
no finché non è successo per davve-<br />
ro: ci sono voluti quindici anni prima<br />
che J Mascis, Lou Barlow e Mur-<br />
ph si convincessero a ricostituire la<br />
formazione storica dei Dinosaur Jr.<br />
Quella dei primi tre dischi, per ca-<br />
pirci, quella del retro-copertina del-<br />
l’omonimo del 1985 (mai visti ceffi<br />
più improbabili dietro un pezzo di<br />
vinile), quella di Freak Scene e della<br />
cover di Just Like Heaven. L’unica<br />
che conta, per certi versi. Oggi, che<br />
a scorrere il calendario dei prossi-<br />
mi concerti ci si imbatte nei nomi<br />
di Police, Who, Slint e Sonic Youth<br />
quanto mai dinosaurizzati (a portare<br />
in giro la magnum opus Daydream<br />
Nation), questa reunion sembra per-<br />
fettamente naturale, come se Mascis<br />
e Barlow non si fossero cordialmen-<br />
te ignorati per ere (non che tuttora<br />
parlino granché tra loro, a quanto si<br />
sa). In una stagione musicale in cui<br />
l’orologio si è magicamente ferma-<br />
to e tutto è nuovamente a portata di<br />
mano, niente ormai fa più stupore;<br />
e così, accanto al quarto album de-<br />
gli Stooges, troviamo sugli scaffa-<br />
li Beyond (recensione su SA #30),<br />
il fatidico ritorno dei Dinosaur Jr.,<br />
cui tocca il compito di riallacciare<br />
i fili di un discorso troncato quasi<br />
due lustri fa. In mezzo c’è stato di<br />
tutto: il grunge, il lo fi, lo sdogana-<br />
mento dell’indie, le massicce ondate<br />
di epigoni; cose di cui i tre signori
in questione sono fra i maggiori re-<br />
sponsabili. E intanto rieccoli qua im-<br />
perturbabili (date un occhio alle foto<br />
promozionali), a raccogliere i frutti<br />
del passato, a celebrare se stessi<br />
e un’intera era, o semplicemente a<br />
fare baccano su un palco come se<br />
niente fosse successo. A Lou Barlow<br />
la cosa è piaciuta tanto da rimette-<br />
re insieme i Sebadoh originari, con<br />
Eric Gaffney e Jason Loewenstein.<br />
Anche questo è indie rock, in fondo:<br />
d’altronde i Sonic Youth, che sono<br />
sempre stati lì, sono la dimostrazio-<br />
ne vivente che anche quello che nei<br />
90 veniva chiamato alternative può<br />
attraversare una terza età, proprio<br />
come il caro vecchio rock. Una fac-<br />
cenda di cocciutaggine, di compia-<br />
cimento e auto-celebrazione, a dosi<br />
uguali e ben miscelate. Sia come<br />
sia, i Dinosaur Jr. sono nuovamente<br />
una realtà con cui fare i conti, vuoi<br />
per quello che hanno significato,<br />
vuoi per quello che ancora possono<br />
- vogliono - significare. Superfluo ri-<br />
cordare nel dettaglio ciò che è stato<br />
seminato e ciò che è stato raccolto<br />
(e da chi); meglio, a questo punto,<br />
provare a ricostruire ciò che è stato<br />
ieri, per capire ciò che è (o potrebbe<br />
essere) oggi. Domani, chissà.<br />
“È cominciato nel 1983, quando ho<br />
iniziato a vedere le cose in maniera<br />
diversa / l’hardcore non faceva più<br />
per me”. È lo stesso Lou Barlow che<br />
ci racconta la genesi dei Dinosaur<br />
(e, consapevolmente, di un intero<br />
movimento/sottocultura) nei versi<br />
iniziali della sua Gimme Indie Rock<br />
(Sebadoh, 1991). Come tanti altri<br />
adolescenti della provincia ameri-<br />
cana dei primi 80, anche lui e Jo-<br />
seph Mascis, studentello di origini<br />
medio borghesi, avevano trovato<br />
nell’hardcore la principale valvo-<br />
la di sfogo per tutte le frustrazioni<br />
di quell’età: un modo di esprimersi<br />
diretto, furioso e soprattutto il più<br />
veloce possibile, tanto che oggi c’è<br />
chi pensa che i Deep Wound - que-<br />
sto il nome della band, che vedeva<br />
J seduto dietro la batteria e Lou alla<br />
chitarra - siano stati tra i precursori<br />
del grindcore. Giusto il tempo di un<br />
demotape, un 7’’, due brani in una<br />
compilation (Bands That Could Be<br />
God, per la Conflict di Gerard Co-<br />
sloy) e una manciata di concerti<br />
prevalentemente nel New England,<br />
che i due mollano i compagni Scott<br />
Helland e Charlie Nakajima per<br />
iniziare un progetto tutto loro, con<br />
l’intenzione di partire da altre basi.<br />
Già R.E.M., Hüsker Dü, Replace-<br />
ments e i gruppi del Paisley Under-<br />
ground stavano dimostrando che da<br />
punk, new wave e hardcore i confini<br />
potevano allargarsi fino riscoprire i<br />
60. Poi c’erano quei geni sciroccati<br />
dei Meat Puppets, per non parlare<br />
di ciò che di lì a poco sarebbero stati<br />
capaci di fare i cervelli mandati in<br />
pappa dall’acido dei Flaming Lips.<br />
Perché mai dei maledettissimi nerd<br />
di Amherst, Massachussets, non po-<br />
tevano fare semplicemente la loro<br />
cosa? Che poi questa cosa si sareb-<br />
be chiamata indie rock era ancora<br />
tutto da vedere, come dimostra il de-<br />
butto della nuova band, ovvero Jay<br />
al timone con chitarra e voce, Lou<br />
virato al basso e il drummer Emmett<br />
Patrick Murphy (più semplicemente,<br />
Murph) a completare il leggendario<br />
trio. L’eponimo Dinosaur (ancora<br />
senza il Jr.) esce nel luglio 1985 per<br />
la Homestead, la label di Cosloy che<br />
ospita gente come Big Black e So-<br />
nic Youth, già gruppi con una pro-<br />
pria identità; la musica che contiene<br />
però non è altrettanto etichettabile,<br />
nemmeno oggi. C’è dentro un po’ di<br />
tutto: hardcore, Neil Young, Meat<br />
Puppets, hard rock, new wave ingle-<br />
se, in una sorta di versione andata<br />
a male della psichedelia west coast.<br />
Qui i tre sembrano per lo più i cugi-<br />
ni straccioni e casinisti dei R.E.M.,<br />
ma a ben guardare, dietro uno stile<br />
e un suono non ancora definiti (ol-<br />
tre che pessimamente amalgamati),<br />
si nasconde una creatività a briglia<br />
sciolta, tanto che nello stesso bra-<br />
no convivono diverse anime e idee<br />
(Forget The Swan, Does It Float e<br />
Pointless sono i migliori esempi in<br />
tal senso); altrove sbuca fuori una<br />
sensibilità melodica che diventerà<br />
trademark (Severed Lips), mentre<br />
non c’è ancora traccia del suono<br />
possente ed elefantiaco e del chi-<br />
tarrismo sguaiato di Mascis. In com-<br />
penso, in Repulsion c’è già il Cobain<br />
più introverso, Quest sfoggia tutte le<br />
ascendenze younghiane del leader<br />
e Cats In A Bowl odora di Sebadoh<br />
(in questo stadio Barlow ha ancora<br />
uguale peso, dietro al microfono e<br />
in fase compositiva). Come suggeri-<br />
sce il bianco e nero dell’improbabile<br />
copertina, questo esordio è la carto-<br />
lina di un’America indie che non c’è<br />
più: quella della sperduta provincia<br />
di metà 80, con tutte le sue con-<br />
traddizioni ed ingenuità, destinate<br />
comunque a sbocciare di lì a poco<br />
in forma compiuta. (6.5/10) È infatti<br />
con la cascata di fuzz e wah di Little<br />
Fury Things, il singolo del 1987 che<br />
apre You’re Living All Over Me,<br />
che la musica cambia per davvero.<br />
Nel frattempo i tre, su pressione de-<br />
gli amici e fan Sonic Youth, erano<br />
passati alla SST (casa di leggende<br />
hardcore del calibro di Minutemen e<br />
Black Flag) ed erano stati costretti<br />
ad allungare la ragione sociale con<br />
un “Jr” per distinguersi da omoni-<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />
C l a s s i c
C l a s s i c<br />
mi colleghi (ex membri di Jefferson<br />
Airplane e Country Joe & The Fish,<br />
dinosauri di fatto). Nuovo nome,<br />
nuova identità, ed è quella giusta:<br />
in Kracked arrivano le schitarrate e<br />
gli assoloni trash di Mascis, in un<br />
muro di suono rafforzato dagli ac-<br />
cordi distorti di Lou e dai possenti<br />
fills di Murph; l’alchimia perfetta, la<br />
formula sonora che serviva. Rispet-<br />
to all’esordio, tutto qui è più com-<br />
patto, compresso e a fuoco, dai riff<br />
sabbathiani di Sludgefeast alla bal-<br />
latona pre-grunge Tarpit (l’antenata<br />
di Get Me, futura hit del 1993), dal<br />
power pop roccioso di Raisans alla<br />
bislacca struttura di The Lung - pra-<br />
ticamente un canovaccio per l’indie-<br />
post-rock a venire, dai primi Polvo<br />
ai Built To Spill e Modest Mouse.<br />
Allo stesso tempo però, emergono<br />
le prime fratture: con Jay a perfe-<br />
zionare il suo songwriting annoiato,<br />
Barlow viene relegato in chiusura<br />
con l’emo-core ante litteram di Lose<br />
e i cinque minuti del collage folk lo-fi<br />
Poledo; due soli brani che racchiu-<br />
dono una personalità artistica auto-<br />
noma, seppur in nuce. Nondimeno,<br />
al centro della scaletta c’è la prima<br />
vera perla del repertorio, In A Jar:<br />
melodia vocale pigra doppiata da un<br />
basso in primo piano, poi un susse-<br />
guirsi di riff, cambi di tempo, chiave<br />
e registro in struttura circolare, per<br />
3:30 da manuale. Un classico istan-<br />
ta<strong>neo</strong>, così come l’intero album, ad<br />
oggi considerato da molti uno dei<br />
migliori della band (8.0/10).<br />
C’è tuttavia qualcosa che manca an-<br />
cora ai Dinosaur, ed è la canzone<br />
definitiva, quella che marchia a fuo-<br />
co una carriera (e, in questo caso,<br />
8 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
un’epoca). Eccola qua, all’inizio<br />
di Bug (SST, 1988), terzo capitolo<br />
pubblicato proprio quando insieme<br />
alla crescente popolarità - specie<br />
in Europa - i contrasti nell’organico<br />
montano sempre più. A riascoltarla<br />
oggi e a rivederne lo sgangherato<br />
e artigianale video, Freak Scene è<br />
semplicemente la perfetta indie rock<br />
song, l’inno per una generazione<br />
futura ancora senza nome; il brano<br />
simbolo, insieme alla coeva Teena-<br />
ge Riot (che, guarda caso, è ispira-<br />
ta dalla figura di J), di un altro rock<br />
a stelle e strisce, innocente e fie-<br />
ramente indipendente, non ancora<br />
moda, non ancora contaminato dal<br />
business che presto sorgerà intorno<br />
all’alternative.<br />
Con il suo testo scioglilingua, la me-<br />
lodia Cure ricoperta da strati di chi-<br />
tarre distorte, i caratteristici break e<br />
gli assoli da guitar hero è la quintes-<br />
senza dello stile pop di Mascis, una<br />
formula fortunata a cui tantissimi - lui<br />
per primo - attingeranno; ma il resto<br />
del programma non è da meno, nel<br />
concentrare la scrittura in direzio-<br />
ne della forma-canzone (la stessa<br />
intrapresa, tanto per cambiare, da<br />
Thurston Moore & Co.: le affinità sti-<br />
listiche coi sonici in questo disco si<br />
sprecano, vedi They Always Come).<br />
Non a caso il modello Neil Young<br />
qui si fa sempre più forte, dai riffo-<br />
ni psych di No Bones alla cavalcata<br />
Yeah We Know fino a Pond Song,<br />
prototipo della ballad acustica Ma-<br />
scis-iana, laddove Let It Ride, Bud-<br />
ge e The Post fanno ampio sfoggio<br />
di decibel e adrenalina punk. Ormai<br />
c’è sempre meno spazio per Barlow,<br />
relegato anche stavolta in chiusura<br />
a urlare tutta la sua insoddisfazione<br />
nella cacofonia psicotica di Don’t;<br />
non passerà troppo e Jay lo metterà<br />
definitivamente alla porta, segnan-<br />
do la fine di un menage-à-trois che<br />
proprio in Bug si era espresso al<br />
meglio delle potenzialità (8.5/10).<br />
Da qui sarà l’inizio di una nuova era,<br />
per i Dinosaur Jr e non solo. Nel-<br />
l’agosto del 1991, mentre Seattle è<br />
lì lì per esplodere, la SST pubblica<br />
la compilation Fossils, ideale ap-<br />
pendice alla band (così come era<br />
conosciuta); accanto ad alcune b-si-<br />
des ci sono Little Fury Things, Freak<br />
Scene, In A Jar e soprattutto Just<br />
Like Heaven (pubblicata come sin-<br />
golo a inizio 1989), trasfigurazione<br />
indie rock del pop-wave romantico<br />
di Robert Smith, con Lou Barlow a<br />
fornire l’ultimo colpo di genio alla<br />
causa del Dinosauro: un ritornello<br />
in stile thrash metal. Quel tragico-<br />
mico “YOOOOUUU!!!!!” urlato dalle<br />
viscere è così l’epitaffio ideale per<br />
una formazione tra le più mitizzate<br />
degli ultimi vent’anni, al punto che<br />
neanche gli stessi protagonisti han-<br />
no poi saputo resistere all’odierno<br />
richiamo della gloria.<br />
E i 90? Volendo usare una frase ad<br />
effetto, verrebbe da dire che i Di-<br />
nosaur Jr. i Novanta non li hanno<br />
vissuti, li hanno creati. Del resto,<br />
quanto fatto da Mascis in quel de-<br />
cennio (e poi a inizio 2000 a nome<br />
The Fog) andrebbe meglio consi-<br />
derato come produzione solista,<br />
laddove la vicenda dei Sebadoh<br />
meriterebbe - che ve lo diciamo a<br />
fare - un intero capitolo a parte, e<br />
neppure breve, con tanto di appen-<br />
dice dedicata ai Folk Implosion.<br />
Non che Green Mind (1991), Where<br />
You Been (1993), Without A Sound<br />
(1994) e Hand It Over (1997) non<br />
siano all’altezza del nome Dinosaur<br />
Jr. (ok, almeno i primi due), ma la<br />
formula JayLouMurph era semplice-<br />
mente un’altra cosa. D’altronde, il<br />
rock da sempre vive dei suoi miti, si<br />
alimenta e si rigenera attraverso di<br />
essi; l’indie rock, da par suo, non fa<br />
certo eccezione. Che la celebrazio-<br />
ne continui.
s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />
C l a s s i c
C l a s s i c<br />
Faust<br />
NULLA DI SERIO<br />
d i G a s p a r e C a l i r i<br />
T h e W ü m m e Ye a r s<br />
I . M e s s a a f u o c o<br />
Storia di una cacofonia elettronica:<br />
nasce, si ingrossa, diventa uno dei<br />
rumori più molesti della musica po-<br />
polare, prima di morire fagocita in un<br />
boccone qualche nota di Satisfac-<br />
tion dei Rolling Stones e di All We<br />
Need Is Love dei Beatles, digerendo<br />
all’istante tutto il pop e il rock.<br />
Oppure: una cacofonia che cresce,<br />
si stabilizza come in un ingranaggio,<br />
e una coda che le scodinzola dietro,<br />
che si nutre dei prodotti del lampo<br />
iniziale, che continua a figliare per-<br />
sonaggi krauti.<br />
L’intro di Why Don’t You Eat Car-<br />
rots - primo brano del primo disco<br />
dei Faust -, parabola di rumore elet-<br />
tronico, potrebbe essere utilizzata<br />
come metafora e chiave di lettura<br />
di tutta la carriera dei suoi autori.<br />
Dopo un esordio che fa consuma-<br />
re le penne per descriverlo, i Faust<br />
continuarono la propria produzione<br />
normalizzandola, in un certo senso,<br />
o declinandola in modo diverso da<br />
quel leggendario esordio.<br />
Se vogliamo cedere all’approssima-<br />
zione, possiamo segmentare ciò che<br />
uscì sotto il nome Faust in tre tron-<br />
coni: uno immediatamente successi-<br />
vo al capolavoro iniziale, ancorato<br />
allo studio di Wümme, uno legato<br />
alla disgregazione di quell’ambien-<br />
te, uno scaturito dallo scossone di<br />
inizio Novanta, che li fece tornare<br />
nell’auge alternativa. Ma andiamo<br />
con ordine.<br />
Nel 1970 il giornalista musicale Uwe<br />
Nettelbeck (scomparso di recente),<br />
in combutta con il funzionario della<br />
Polydor Kurt Enders, ebbe un antici-<br />
po dalla casa discografica per met-<br />
tere in piedi un gruppo rock tedesco.<br />
8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
Con parte di quei soldi, costruì uno<br />
studio tra Amburgo e Brema, nel<br />
villaggio di Wümme, e vi fece tra-<br />
sferire sei musicisti, che presero il<br />
nome di Faust - “pugno”, in tedesco.<br />
L’anno dopo uscì il loro primo album<br />
(omonimo), prodotto da Nettelbeck,<br />
che come recita la minimal coperti-<br />
na contemplava ben otto musicisti, i<br />
primi sei seminali al progetto: Wer-<br />
ner Diermaier (detto Zappi) alla<br />
batteria insieme ad Arnulf Meifert,<br />
Hans-Joachim Irmler all’organo,<br />
Jean-Hervé Péron al basso, Rudolf<br />
Sosna alla chitarra e alle tastiere,<br />
Gunter Wuesthoff al sax e al synth,<br />
Kurt Graupner come ingegnere del<br />
suono, Andy Hertel come percus-<br />
sionista aggiuntivo.<br />
Il disco vendette pochissimo in pa-<br />
tria - dove i Faust vennero accolti<br />
con attonita incomprensione -, ma<br />
la Polydor decise di stamparlo an-<br />
che in Inghilterra, nazione già allo-<br />
ra aperta alle novità di provenien-<br />
za tedesca. La versione inglese di<br />
Faust (9.2/10) (detta anche Clear),<br />
fu stampata su un vinile trasparente,<br />
contenuto in una copertina (altret-<br />
tanto trasparente) sulla quale com-<br />
pariva un pugno radiografato. Dopo<br />
la cacofonia di cui sopra, si snoda-<br />
vano tre lunghe tracce (per un totale<br />
di mezz’ora circa) costruite su col-<br />
lage superkraut-avantprog, concate-<br />
nati tra loro da elettronica e musique<br />
concrète; una moltitudine di forme,<br />
annoiat, dall’ostentazione dell’intel-<br />
ligenza e della tecnica, con le quali<br />
i Faust ci restituirono un sarcasmo<br />
poliedrico e sublime, fastidioso e<br />
disinteressato ad essere percepi-<br />
to come colto e basta. In quelle tre<br />
composizioni i nostri amici procedet-<br />
tero con un’arte dell’argomentazio-<br />
ne illeggibile, patafisica, ma palpa-<br />
bile, mai eterea. Faust è infatti una<br />
sequenza di sillogismi che sbandano<br />
in continuazione, sbronzi ed elettro-<br />
nici; non si sa dove vogliano arriva-<br />
re. A chiunque ne parli, quel disco fa<br />
diventare dislessico, contraddittorio,<br />
gli fa vagabondare il ragionamento,<br />
esercitare la contraddizione.<br />
Ora, non ha senso dire “patafisica”<br />
senza spiegarsi, se non si voglio-<br />
no mandare a dire delle parole a<br />
caso. L’idea è che attraverso quella<br />
“scienza delle soluzioni immagina-<br />
rie” si riesca ad avere una lettura<br />
lungimirante, che non ci faccia in-<br />
dugiare e che ci permetta di passa-<br />
re ai dischi successivi. La buttiamo<br />
lì: può essere che in Clear i Faust<br />
abbiano trasposto in musica il mec-<br />
canismo del “discorso indiretto libe-<br />
ro”. In che modo? Appropriandosi,<br />
nel loro cut-up, non solo di linguag-<br />
gi diversi - cosa che faceva anche<br />
Frank Zappa - ma delle voci che li<br />
parlano, prese in blocco, utilizzate<br />
senza appiattirle in un unico punto<br />
di vista. Un meccanismo che deriva<br />
direttamente dalla musica concre-<br />
ta, almeno concettualmente, che<br />
non parafrasa il quotidiano, ma ne<br />
sfrutta indirettamente il discorso ri-<br />
portato, si adegua al suo respiro.<br />
Questa è patafisica, è compresenza<br />
argomentativa di mondi diversi (e ir-<br />
riducibili al compromesso) basata su<br />
una coesione impossibile. È impos-<br />
sibilità dialettica di scegliere tra due<br />
opzioni, tra due opposti, ma neces-<br />
sità di farli parlare insieme. I Faust<br />
si presero la libertà di parlare con la<br />
lingua d’altri, e di fare in modo che<br />
la propria non fosse individuabile e<br />
descrivibile.
T h e W ü m m e Ye a r s<br />
I I . A n g o l a t u r e<br />
Quest’arte, però, per sopravvivere<br />
dovette cambiare. Detto fatto, con<br />
il secondo disco di Wümme (che<br />
non raggiunse quei livelli di sopraf-<br />
fazione dell’ascoltatore), vennero<br />
fuori gli stilemi faustiani. Faust So<br />
Far (7.7/10), uscito nel 1972 pri-<br />
ma in Inghilterra che in Germania,<br />
sempre per la Polydor, crebbe così<br />
con due anime ben differenziate, se-<br />
condo una segmentazione netta che<br />
era del tutto assente solo un anno<br />
prima: quella “pastorale”, più vicina<br />
all’allora tradizione dilagante del-<br />
la psichedelia progressiva; ma so-<br />
prattutto quella percussiva, di “pura<br />
struttura”, fatta di trame che, auto-<br />
nome, possono essere affrontate<br />
solo una alla volta.<br />
Molte cose cambiarono, dicevamo,<br />
ma alcune diventarono l’opposto. La<br />
copertina, per esempio, era nera con<br />
i caratteri in rilievo. It’s A Rainy Day<br />
(Sunshine Girl) (la prima traccia, il<br />
nuovo manifesto) è ancora oggi uno<br />
spassosissimo mantra percussivo,<br />
destinato a rimanere la canzone<br />
forse più nota dei Faust, basata su<br />
un martellare di tamburo (che non<br />
lascia troppo all’immaginazione la<br />
mole di Diermaier) ossessivamente<br />
perpetrato per sette minuti e mezzo,<br />
dentro cui si incastona lo scherzetto<br />
melodico che dà il titolo al brano, un<br />
refrain che basta a se stesso. È una<br />
struttura ipnotica, meccanica ed eu-<br />
forica al tempo stesso, che si fa can-<br />
ticchiare. Ha un inizio e una fine.<br />
Segue il disimpegno arioso che in-<br />
troduce No Harm, sornione quanto il<br />
lento sfocare finale di On The Wat<br />
To Abamae. Ma nel frattempo accade<br />
un altro evento: Mamie Is Blue ci fa<br />
passare qualche brutto (bellissimo)<br />
minuto di musica industriale ante lit-<br />
teram, musica che ingrana una cate-<br />
na di montaggio e la mostra mentre<br />
si muove ciclicamente. Tecnologica<br />
la musica dei Faust, lo si è detto<br />
spesso. Ma cosa è più tecnologico?<br />
La perdita estetizzata di certezze, o<br />
la nuova certezza estetizzante, ov-<br />
vero la cultura paranoica dell’ingra-<br />
naggio? In So Far i Faust hanno vira-<br />
to status, da descrizione sfaccettata<br />
dello scompenso macchinino, visto<br />
nell’isolamento di Wümme, a prove<br />
di emulazione mimetica della tecno-<br />
logia, tramite strutture sonore.<br />
Il punto è che potrebbe essere di<br />
non ritorno. L’unica salvezza, in certi<br />
casi, è la leggerezza, diceva anche<br />
Calvino. I Faust ne avevano dato pro-<br />
va con il primo album. L’unico modo<br />
per destreggiarsi tra tante angolatu-<br />
re dell’orripilante poliedro umano è<br />
lasciare che esse si parlino, ma non<br />
integrandosi, bensì mantenendo la<br />
propria identità nella condizione di<br />
non essere vista, in stato di sorvolo.<br />
Una “messa a distanza” che permise<br />
il dispiegamento dell’ironia.<br />
Un altro modo, sembrano però dirci<br />
i Faust, può essere l’estrema fram-<br />
mentazione: essa permette l’utilizzo<br />
degli spezzoni “concreti” del primo<br />
disco accanto alle messe in moto<br />
di ingranaggi puri introdotti nel se-<br />
condo. È la tecnica con cui venne<br />
suonato e prodotto The Faust Ta-<br />
pes (8.0/10), uscito per la Virgin nel<br />
1973. Nettelbeck cercò di dare al<br />
disco la parvenza di taglia e cuci ca-<br />
suale del materiale provato a Wüm-<br />
me. Non fu così, ma è l’effetto che<br />
conta: ventisei tracce, tra cui “eser-<br />
cizi”, “canzoni” (Flashback Caruso),<br />
le (già) solite strutture matematiche<br />
(J’Ai Mal Aux Dents) e industriali.<br />
C’è anche la sega elettrica. Più di<br />
metà dei brani non ha titolo.<br />
I “nastri” dei Faust ebbero un suc-<br />
cesso di vendita clamoroso. La Virgin<br />
riuscì a mettere in scaffale il disco<br />
a 49 cents, una miseria anche per<br />
allora, e risultò un peccato non com-<br />
prare un disco con così alte pretese<br />
a così basso prezzo. I brani erano<br />
stati registrati tra il 1971 e il 1973,<br />
e la loro pubblicazione fu un’ottima<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 8 7<br />
C l a s s i c
C l a s s i c<br />
Jean e Zappi<br />
conclusione all’esperienza di Wüm-<br />
me. Dopo The Faust Tapes, infatti,<br />
Péron, Sosna e soci se ne andarono<br />
dalla loro oasi per produrre il quarto<br />
disco in uno studio dello Oxfordshi-<br />
re. Ma in contemporanea al terzo al-<br />
bum dei Faust non si può non men-<br />
zionare un capitolo importante della<br />
loro esperienza tedesca: il contatto<br />
con l’avanguardia americana.<br />
Il “Dream Syndicate” era il quartier<br />
generale newyorkese di LaMonte<br />
Young, vi parteciparono anche John<br />
Cale, in periodo Factory, e vi stava<br />
diventando molto noto un composi-<br />
tore di nome Tony Conrad. L’incon-<br />
tro di quest’ultimo con Nettelbeck<br />
significò l’uscita di Outside The<br />
Dream Syndicate, collaborazione<br />
tra Conrad e alcuni dei Faust (tranne<br />
Wüsthoff al sax, per esempio). Ecco,<br />
questa è musica del tutto minimali-<br />
sta. Un tono di basso e un tempo ri-<br />
petuti all’infinito (From The Side Of<br />
Man And Womankind), con la viola<br />
di Tony ad accrescere la ripetizione<br />
e il cambiamento infinitesimo. Fu<br />
un evento. I Faust fecero dell’avan-<br />
guardia bell’e buona, invece che la-<br />
sciare che essa fosse una secrezio-<br />
ne della loro arte argomentativa. E,<br />
in definitiva, fu anche un campanello<br />
d’allarme.<br />
I l d o p o - W ü m m e e l a<br />
d i s g r e g a z i o n e<br />
Faust IV (Virgin, 1974) (8.2/10) fu<br />
dunque registrato a Manor, nel-<br />
l’Oxfordshire, nel 1973. Non ebbe il<br />
successo di pubblico del preceden-<br />
8 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
te e compromise di fatto il mito dei<br />
Faust. Ma in un modo abbagliante,<br />
si può dire. Giocando con l’etichet-<br />
ta data ai gruppi tedeschi di allora,<br />
la prima traccia (Krautrock) è pura<br />
ortodossia tedesca, certo al modo<br />
dei Faust. È minimalista, ancora<br />
una volta, distorta e sballona come<br />
le migliori cavalcate Kosmische. Ma<br />
poi finisce. E iniziano le canzoni.<br />
Una in levare (Sad Skinhead), una<br />
quasi ballabile (Giggy Smile), una<br />
rassegnata e trasognata a un tempo<br />
(Jennifer). Praticamente, tutti incubi<br />
narrabili.<br />
Faust IV espresse l’unica e vera al-<br />
ternativa nata internamente al suono<br />
Faust per evitare la ripetizione con-<br />
tinua degli stili individuati dagli altri<br />
dischi. E in questo è l’album la cui<br />
riuscita risultava più difficile rispetto<br />
a ogni altro (esordio a parte). Ma an-<br />
cor più difficile era farne seguire un<br />
nuovo capitolo.<br />
Risultò più che difficile, impossibile:<br />
Faust V rimase allo stato di casset-<br />
ta, perché la Virgin non si convinse<br />
a mandarlo in stampa e distribuirlo<br />
(forse anche perché la verve mana-<br />
geriale di Nettelbeck - che subito<br />
dopo abbandonò il gruppo - era sce-<br />
mata insieme al suo interesse per la<br />
faccenda. Vi si può fare un breve ac-<br />
cenno, come stimolatore di tenden-<br />
ze, a proposito di una delle sue trac-<br />
ce, la versione di Flashback Caruso<br />
(uno dei cavalli di battaglia dei tede-<br />
schi, tratto da Tapes) qui intitolata<br />
Groceries Caruso. Essa inaugura<br />
un processo di auto-archeologia nel<br />
modo che forse ha più fornito una<br />
forte peculiarità ai Faust del post-<br />
Wumme: il recupero, il trattamento e<br />
l’autocoverizzazione dei propri bra-<br />
ni, secondo un crocevia di versioni<br />
tutte simili e tutte diverse e un cro-<br />
cevia di nomi e titoli che si richiama-<br />
no l’un l’altro. Se una versione viene<br />
ripresa in continuazione, si dichiara<br />
pertinente la struttura soggiacente<br />
oppure l’effettistica che permette a<br />
quella struttura di ricevere nuovi sol-<br />
chi di vinile di cui appropriarsi?<br />
Non è una domanda a cui possiamo<br />
qui rispondere, ma i Faust danno<br />
materiale a non finire per architet-<br />
tare una risposta. Faust V, come le<br />
uscite immediatamente successive a<br />
esso (a parte i Party Extracts, che<br />
uscirono nel 1979 e raccolsero ul-<br />
teriori alternative version di alcuni<br />
brani di Wümme), ruotano attorno<br />
al materiale registrato nel 1975 ad<br />
Annarella, Monaco di Baviera. Munic<br />
è lo spezzone macchinico che fa da<br />
perno per 71 Minutes Of… (Recom-<br />
mended, 1979) (6.8/10) e per Return<br />
Of A Legend: Munic And Elsewhe-<br />
re (Recommended, 1986) (6.5/10),<br />
mentre alcuni resti della prima metà<br />
dei Settanta di Wümme compongono<br />
The Last LP (Recommended, 1989)<br />
(5.8/10). Nel frattempo se ne sono<br />
andati Irmler e Sosna e, come si<br />
sarà notato, i Faust hanno avviato,<br />
prima di sciogliersi provvisoriamen-<br />
te, una collaborazione con la Re-<br />
commended Records di Chris Cutler<br />
degli Henry Cow. In questo periodo<br />
il culto del frammento reso prolisso<br />
non ha uguali; neanche dopo la reu-<br />
nion le strutture industrial-cosmiche<br />
che comporranno i nuovi brani sa-<br />
ranno tanto condizionate dall’indagi-<br />
ne (o dalla mancata indagine) sul-<br />
la forza espressiva di una struttura<br />
mandata a morire per paranoia. Vol-<br />
gendo lo sguardo a tutto quello che<br />
si è detto, non è forse un caso che<br />
nel primo disco ci siano tre lunghe<br />
composizioni di frammenti infram-<br />
mentabili (seppure chirurgicamente<br />
frazionabili, a discrezione dell’ana-<br />
lista), e che invece il frammento sia<br />
autonomizzato nei dischi successivi.<br />
È un problema, ancora una volta, di
prospettive e, aggiungiamo, di chiu-<br />
sura di un testo. La focalizzazione è<br />
ormai unicamente concentrata sulla<br />
struttura industriale, sul frammento,<br />
proprio perché i Faust hanno deciso<br />
di isolarlo e di buttarcisi a pesce. Ma<br />
sono anche gli anni in cui, a Shef-<br />
field, nasce un qualcosa di molto<br />
teutonico, che sarà poi battezzata<br />
(senza un accordo di paternità defi-<br />
nitivo) musica industriale…<br />
L a r i c o m p o s i z i o n e<br />
Non resterà nulla, degli anni Ottan-<br />
ta faustiani. Il decennio successivo<br />
invece venne inaugurato da una ri-<br />
presa dei lavori, siglata da una se-<br />
rie di concerti degni del potenziale<br />
abrasivo dei Faust - uno, ad Ambur-<br />
go, finì su The Faust Concerts 1<br />
(Table Of The Elements, 1990), un<br />
altro, al Marquee di Londra, diven-<br />
ne The Faust Concerts 2 (Table Of<br />
The Elements, 1990) -, ma anche<br />
dalla morte di Sosna. I Faust rima-<br />
sti erano Irmler, Zappi e Péron. Per<br />
avvisare che non si trattava di can-<br />
to del cigno, pubblicarono il singolo<br />
Chemical Imbalance (Chemical Im-<br />
balance, 1990). Subito arrivò Jim<br />
O’Rourke, a segnare il territorio,<br />
e a produrre il disco successivo, il<br />
primo con materiale originale dopo<br />
vent’anni. Il titolo, particolarmen-<br />
te riuscito, fu Rien (Table Of The<br />
Elements, 1994) (6.8/10), stando a<br />
significare sei ostiche tracce senza<br />
canto. L’eccezione è Fin, una rima<br />
interna alla carriera dei Faust, visto<br />
che riverbera il finale (semplicemen-<br />
te perfetto) di Miss Fortune, brano<br />
conclusivo di Clear. Ma anche, coe-<br />
rente con la “francesità” dilagante<br />
nell’album, quel brano ci rimanda a<br />
Le Mepris di Godard, dove, in piena<br />
Nouvelle Vague, una voce introduce-<br />
va il simulacro della visione, facen-<br />
do le veci dei titoli di testa.<br />
La title track è come un tema à la<br />
Krautrock montato su un finale alla<br />
Gastr Del Sol: è il prezzo da pagare<br />
per l’interessamento del prezzemo-<br />
lo O’Rourke, che è evidentemente<br />
la cartina di tornasole del tempismo<br />
che hanno avuto i Faust negli anni<br />
Novanta (ciò è dimostrato anche<br />
dalla presenza, a una delle chitar-<br />
re, di Keiji Haino), quel tempismo<br />
che è mancato loro per IV. L’effetto<br />
è più classicamente “cosmico”, mol-<br />
to più che nel pieno splendore della<br />
Kosmsiche Musik. E sarà così da lì a<br />
un’altra decina d’anni abbondante.<br />
N u l l a d i s e r i o<br />
È brutto dirlo, ma il risultato più<br />
evidente della rinascita del pugno<br />
radiografato è stata una logorrea<br />
di pubblicazioni antitetica al tempe-<br />
ramento faustiano. A testimonianza<br />
del tempismo di cui sopra, da Rien<br />
a oggi abbiamo assistito a una ven-<br />
tina di uscite, di cui solo due - tre,<br />
se aggiungiamo una collaborazione<br />
- sono album veri e propri. Il primo<br />
è anche meglio di Rien, si intitola<br />
You Know Faust (Klangbad, 1997)<br />
(7.0/10) e sperimenta una sofistica-<br />
zione del rumore abbastanza inedita.<br />
Il secondo è Ravvivando (Klangbad,<br />
1997), ma scopre l’acqua calda e si<br />
scotta. La collaborazione - con Dä-<br />
lek, ma senza Péron - è Derbe Re-<br />
spect, Alder (Staubgold / Klangbad<br />
/ Indigo, 2004). Riguardo a quest’ul-<br />
tima, la commistione con l’hip-hop<br />
non giova granché: tale tentativo lu-<br />
gubre e oscuro urla la sua schiavitù<br />
nei confronti degli anni 90. Si salva<br />
Collected Twighlight, proprio perché<br />
valorizza il lavoro batteristico, oltre<br />
che un ululato elettronico strozzato.<br />
Ma già da You Know (e ancor prima<br />
da Rien) lo stile ha del tutto perso<br />
quella eccellente combinazione di<br />
artificiale e sanguigno che, a pen-<br />
sarci bene, per tutti gli anni 70 era<br />
stata una costante - probabilmente<br />
grazie alla batteria di Zappi. Tut-<br />
to sommato è allora meglio vedere<br />
queste menti straordinarie dal vivo,<br />
anche se le menti oggi sono solo due<br />
(ha abbandonato anche Irmler), coa-<br />
diuvate a turno dai due Ulan Bator<br />
Audrey Cambuzat e Olivier Man-<br />
chion. Sembra che qualcuno l’abbia<br />
capito: è appena uscito l’ennesimo<br />
cofanetto (In Autumn) in DVD.<br />
Qui però urge una conclusione un<br />
po’ mistica. Probabilmente Julian<br />
Cope (autore di Krautrocksampler,<br />
bigino indispensabile per iniziarsi al<br />
rock tedesco), dubiterebbe delle ul-<br />
time cose dette. E ci sta, perché ci<br />
sono molti modi di fruire del krau-<br />
trock, tra i quali ne isoliamo due e<br />
li mettiamo in risonanza reciproca,<br />
perché, come ci insegna la patafi-<br />
sica, le contrapposizioni pure non<br />
esistono. Da un lato si può guardare<br />
criticamente alle costruzioni kraute,<br />
calcolarle nel loro spazio e nel loro<br />
tempo, come abbiamo cercato di<br />
fare, dall’altro si può cedere, sguin-<br />
zagliare i propri neuroni perché as-<br />
secondino il trip, come spesso fa<br />
Cope, e lasciare che le strutture dei<br />
Faust, anche quelle meno riuscite,<br />
quelle più derivative, alimentino la<br />
Grande Musica Caos-mica, che è<br />
vorace e ha bisogno di cibo, anche<br />
non originale. Ma sarebbe forse una<br />
cosa troppo seria.<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 8 9<br />
C l a s s i c
C l a s s i c<br />
Che lo si consideri il canto del cigno di una band che aveva esaurito la sua<br />
carica espressiva, o semplicemente il cambio di pelle di una creatura in<br />
continua mutazione, sta di fatto che Western Culture rappresenta l’ultimo<br />
capitolo del “collettivo” Henry Cow, termine che meglio si addice ad un<br />
progetto “aperto” che ha fatto della trasformazione la sua più importante<br />
caratteristica. Un solo capitolo, comunque, di un libro che di lì a poco sa-<br />
rebbe continuato con altri nomi (Art Bears, Cassiber e via dicendo), senza<br />
tuttavia tralasciare l’approccio avanguardista e “di opposizione”, già punto<br />
di partenza del nucleo originario.<br />
Abbandonata momentaneamente la voce di Dagmar Krause (che si sa-<br />
rebbe presto riunita a Frith e Cutler per formare gli Art Bears) e conclusa<br />
l’esperienza di fusione con gli Slapp Happy, il quartetto (con Lyndsay<br />
Cooper ai fiati, Chris Cutler alla batteria, Hodgkinson arrangiatore e poli-<br />
strumentista e Fred Frith alla chitarra) chiude in bellezza i suoi quasi dieci<br />
anni di attività con un disco che è la logica conclusione di un percorso artistico partito dal jazz-rock e approdato<br />
ad una musica sempre più concettuale e sempre meno legata ad un genere ben preciso.<br />
Western Culture è senz’altro l’album più difficile, la scommessa più azzardata della band di Cambridge, il più<br />
vicino ai metodi compositivi della musica “colta”, dichiarazione esplicita e critica allo stesso tempo, di apparte-<br />
nenza alla cultura occidentale, profonda analisi sonora della società industriale, nell’epoca più decadente del<br />
capitalismo mondiale, che proprio alla fine degli anni 70 viveva il suo momento più difficile. Lasciata la Virgin per<br />
motivi strettamente ideologici, nel momento in cui la label, dopo il suo periodo di grande disponibilità e interesse<br />
verso il progressive, muoveva i primi passi verso il suo futuro da grande major iper-commerciale e in attesa di<br />
dare vita alla Recommended Records (ReR), divenuta poi la casa comune della comunità di Rock In Opposition e<br />
più in generale degli artisti coerentemente indipendenti, Western Culture esce per la Broadcast, piccola etichet-<br />
ta fondata da loro stessi con l’intento di svincolarsi il più presto possibile dalle ridicolaggini della ormai celebre<br />
etichetta inglese.<br />
La totale libertà compositiva del quartetto si esprime qui nella sua essenza, intervenendo sulla forma e sui conte-<br />
nuti, estremizzandoli. Due lunghe suite, che sintetizzano in maniera eccellente le due anime della band: History<br />
& Prospects porta la firma di Hodgkinson e già dai titoli presuppone il lato più “marxista” (oddio, non credo che<br />
accetterebbe questo aggettivo, bastian contrario com’è) di questa sorta di analisi sociologia in musica. Industry,<br />
The Decay Of The Cities, richiamano esplicitamente alla decadenza delle grandi città, culla del capitalismo e ve-<br />
trina del mondo moderno e la partitura (tipica dello stile dell’autore) ben si addice, nel suo incedere frastagliato<br />
e scomposto, alla schizofrenia del mondo occidentale. Le industrie e i grattacieli crollano metaforicamente sotto i<br />
colpi della chitarra-percussione di Frith e le punteggiature dei fiati e della batteria, quasi fossero proiettili sparati<br />
a cadenza irregolare.<br />
Di più ampio respiro la seconda suite, Day By Day (scritta dalla Cooper), che, nei quattro episodi che la costitui-<br />
scono, lascia più spazio ai fiati e alle trame contrappuntistiche. Ne deriva un’atmosfera più compatta, meno fra-<br />
stagliata della precedente e più legata ad un sound tipicamente rock progressive, almeno per quello che riguarda<br />
le parti tematiche. Per il resto anche in questo caso, i cambi rimangono bruschi e alla fine si scopre di trovarsi<br />
di fronte ad una successione di quadri sovrapposti che si intersecano melodicamente gli uni con gli altri, come<br />
in una sorta di sinfonia mahleriana (massì, azzardiamo!) in cui tutto è legato ma non secondo la semplice logica<br />
compositiva dello sviluppo tematico.<br />
Cala il sipario, dopo poco più di una trentina di minuti, su una delle realtà musicali più interessanti degli anni Set-<br />
tanta. Senza rancori, né rimpianti, così come si era aperto. Anche perché il sipario, in realtà, in quanto simbolo<br />
di divisione tra realtà e spettacolo, questi geniali ex-studenti di Cambridge, non lo avevano mai neanche imma-<br />
ginato, provando a smontare pezzo per pezzo il teatro dello show business, senza la speranza né l’intenzione di<br />
riuscirci. Semplicemente rimanendo se stessi e custodendo gelosamente le proprie idee, di cui oggi, per nostra<br />
fortuna (e grazie ad una mai sopita loro ispirazione) possiamo ancora godere appieno.<br />
9 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
Classic album<br />
Henry Cow - Western Culture<br />
Daniele Follero
Lost Grunge Heroes<br />
Gobblehoof - Confessions Of Mr. Sadist<br />
Nell’anno del ritorno sulle scene di J. Mascis e proprio quando, con Al-<br />
most Complete (Baked Goods, 2007, opera omnia della band hc), i Deep<br />
Wound (J. Mascis, Lou Barlow, Charles Nakajima, Scott Helland) paiono<br />
retrospettivamente tornare all’onore delle cronache musicali nostrane, non<br />
è forse fuor di luogo riesumare il cadavere, non del tutto decompostosi<br />
nella memoria dei cultori grunge della prima ondata, dei Gobblehoof. Ad<br />
Amherst, infatti, non furono attive solo stelle di primissima grandezza quale<br />
il Dinosauro Giovinetto. Altro smosse le acque rock, fra i tardi anni 80 ed il<br />
principio della decade successiva, in USA. Perlomeno in Massachussetts.<br />
Charles Nakajima, cantante dei Deep Wound, fu il fautore primo della mi-<br />
steriosa creatura grunge chiamata Gobblehoof. Così come emerse il capo<br />
dal marasma musicale “di genere” dell’epoca, altrettanto repentinamente lo<br />
reimmerse per mai più riaffiorar sulle acque rock da allora a noi. L’esordio<br />
del combo è un extended-play omonimo: Gobblehoof (New Alliance, 1990).<br />
J. Macis - c’è anche lui - si diletta a menar giù di batteria con la grazia di un bulldozer in questo disco. Canta invece<br />
Nakajima. E lo fa con passionalità somma, personalità versatile, a volte parlando e scandendo le parole più che<br />
cantarle, sempre ben conscio dei suoi psicodrammi interiori. Teso, quando serve, a consumarsi/immolarsi sul palco<br />
della canzoncina grunge da pochi minuti come istrione ben navigato. Uno spreco di mezzi espressivi il suo, non di<br />
quelli tecnici. Non osa nemmeno accreditarsi come vocalist nella backsleeve del vinile. Piuttosto come “narrator”.<br />
Gran uso, ed abuso, di quella gracchiante voce che Madre Natura gli ha donato, insomma. Ma qui il gioco funziona<br />
eccome. Soffocato da strette al collo del blues più primitivo, il sound dei <strong>neo</strong>nati Gobblehoof non si nutre solamen-<br />
te del latte poppato dalla mammella di Mamma J. Mascis. Tutt’altro! Charles Nakajima e Tim Aaron gestiscono il<br />
gruppo dalle fondamenta. Compongono l’uno i testi, l’altro le musiche. Ed è sul loro talento che la baracca si regge,<br />
se vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare. Sono loro, infatti, con concreta fantasia musicale, a dettare le<br />
direttive sonore in questo corto LP. Il registro, dicevamo, potrebbe essere quello del blues primitivo dei Birthday<br />
Party. Ma con più raziocinio rivisitato, meno barbaro e forse non meno efferato. Torch, Fried, Upside Down, Mad<br />
Dog, Sacrifice, Menacing Realm (su CD anche What’s A Head? e Age Of Darkness) sono tutti titoli genericamente<br />
ascrivibili al grunge. Ad esso furono accomunati a posteriori, a cose fatte. All’epoca, il loro disturbante melange<br />
di heavy metal sound e psichedelia pesante accelerata, era grunge per appartenenza anagrafica. Il suono grunge<br />
come protesi evolutiva di certo post-hc. Tutto qui. Anche i sommi dell’hard rock storico vengono tirati per le ma-<br />
niche a ballare queste armonie prepotenti. Led Zeppelin su tutti forse. Anche se ben mascherati. Camuffati sino<br />
a rendersi spesso solo vaga ascendenza sul suono complessivo dei Gobblehoof. Che già è, e sempre più sarà,<br />
psichedelico e maniacale. Non da ultimo nei testi, come vedremo. Uno iato di ben tre anni separa però l’esordio dal<br />
successivo capolavoro. Freezer Burn (New Alliance, 1992) - al nucleo storico Nakajima/Aaron si aggiungono ben<br />
due innesti: Kurt Fedora e George Berz - vola alto, libra addirittura, in una terra di nessuno fatta di psichedelia,<br />
hard rock, grunge ed un qualcosa di non ben classificabile, in termini di influenze sulla musica della band, dovuta<br />
forse alla dipartita di Mascis (qui solo produttore) e al prepotente emergere delle liriche di Nakajima. Questo ele-<br />
mento disturbante è la psicosi. Cantata in Sadist, di cui vale riassumere in breve la storia narrata. Quella di uno<br />
psicopatico che attende le sue innocenti giovani vittime sul retro di uno schoolbus. L’intero pezzo, in un crescendo<br />
traumatico ed orrorifico che ha pochi pari nella storia non sempre gloriosa del grunge, narra la vicenda dal punto di<br />
vista di questo oscuro figuro: Mr. Ernie. Si apre come una fantasia macabra rievocata, nel nome del Marchese de<br />
Sade, dal protagonista stesso come in un flusso di coscienza tutto suo. Poi, a poco a poco, l’invito (“louder plea-<br />
se!”) che il cantante/Mr. Ernie fa a se stesso riconduce la narrazione musicale nel campo della confessione “aperta<br />
al pubblico”. Adesso il cantante, quindi Mr. Ernie, parla di se stesso in terza persona. Le musiche sono sempre più<br />
cupe. L’imprinting vocale è quello di Nick Cave. Il vissuto drammatizzato prima, diviene poi epico ed infine catartico<br />
lamento lisergico. Sino alle urla finali, sampling di donne gementi sullo sfondo del tappeto sonoro, accompagnate<br />
dalle chitarre che sempre più si amalgamo in un unico riflusso di suoni distorti e cadenzati. Bellissimo. Il resto<br />
dell’album non è certo fatto di riempitivi. Tutt’altro. Dai Minutemen in versione funky grunge della successiva Sin<br />
Tax alla cingolata opener Nomad Lust, dall’incrocio Saccharine Trust/Black Sabbath in Embryo sino al singolo<br />
Headbanger (a voce distorta). Ciliegine sulla torta la ballata Seed e la messa nera a ritmo hard rock di Shotgun.<br />
M a s s i m o P a d a l i n o<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />
C l a s s i c
l a s e r a d e l l a p r i m a a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />
VISIONI<br />
9 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
3 0 0 ( d i Z a c k S n y d e r – U s a , 2 0 0 7 )<br />
300 è uno dei film più spettacolari della stagione, è cinema uscito fuori<br />
dalla graphic novel di Frank Miller. 300 è il numero dei soldati spartani<br />
che, per giorni, con Re Leonida in testa, inchiodarono alle Termopili la<br />
più grande macchina da guerra dell’antichità, l’esercito persiano. 300 è il<br />
resoconto di un massacro. 300 è il prezzo pagato per la libertà. 300 non<br />
è solo un film, ma epica allo stato puro, una forma narrativa con i muscoli<br />
in evidenza e le spade sguainate, il cielo nero di frecce e la terra rossa di<br />
sangue. 300 è un film americano, e lo si capisce da molte cose, specie da<br />
come dispiega l’epica – del resto, Saviano, su L’Espresso, scrive: “Gli Usa<br />
sono gli ultimi in grado di fare epica. L’epica si sedimenta e si crea quando<br />
è forte il senso di appartenenza a una civiltà e ancor più quando essa si<br />
sente minacciata. L’epica la fonda e la difende. In contrapposizione agli<br />
altri, ma non può essere che così.”<br />
Eppure c’è qualcosa che il giovane regista Zack Snyder, con questo suo<br />
film, aggiunge a secoli e secoli di racconto epico. Il rallenti. Chiaramente<br />
non lo inventa Snyder, né è la prima volta in cui compare tra le pieghe<br />
dell’epica cinematografica – per crederci, guardate i più recenti Alexan-<br />
der, Troy, Il gladiatore. Ma in 300 l’uso è sistematico. Non c’è scena di<br />
battaglia che non dia prova di un rallenti. E’ così chiara e lampante la<br />
scelta, che la struttura, l’estetica del film, potrebbe benissimo reggersi su questa piccola figura del linguaggio<br />
cinematografico.<br />
Il risultato è che il film è punteggiato dal rallenti. Proprio come le virgole in un testo letterario, imprime un effetto<br />
ritmico, crea una micro-sospensione temporale, insinua la suspense non solo in mezzo alla narrazione, ma per-<br />
fino tra i gesti ed i movimenti degli attori. Con il rallenti la battaglia diventa una danza macabra, un minuetto tra<br />
teste mozze e braccia recise. Ma in fondo, 300 azzarda che lo stesso racconto epico sia un grande esercizio di<br />
rallenti: perchè rallenta il corso degli eventi, e spinge il lettore/spettatore a sospendere la vita quotidiana, e farsi<br />
catturare dalla storia, ripercorrere la leggenda.<br />
Resta da aggiungere che un film come questo, al di là dei meriti e delle accuse, è molto interessante, perché in<br />
sole due ore spinge, condensa, riformula il nostro immaginario, il nostro modo di pensare, vedere, la storia, le<br />
storie, il cinema: non è difficile scorgere gli stilemi del pulp (gli schizzi di sangue), l’iconografia greca ripresa<br />
dai vasi, il bestiario fantastico alla Tolkien, le coreografie sanguinarie stile Matrix, un certo modo di raffigurare<br />
la virilità – che tra l’altro, nonostante sia un racconto di eroi, dove si consacra la famiglia e l’amore coniugale,<br />
sconfina sorprendentemente nel camp, parte della cultura gay. E tutto questo senza soluzione di continuità, come<br />
se il film fosse una centrifuga che rimescola i nostri tempi, restituendogli nuove forme, nuove luci – ma soprat-<br />
tutto, un’arcaica ferocia.<br />
G i u s e p p e Z u c c o
H o l l y w o o d l a n d ( d i A l l e n C o u l t e r - U S A , 2 0 0 6 )<br />
La storia di Hollywood è piena di starlet drogate e prostituite, morte in<br />
circostanze misteriose, di produttori poco sensibili e votati al dio denaro,<br />
gente che insegue il sogno e di cui nessuno si ricorderà più. La storia di<br />
questo film è una di queste. Tema interessante ma il suo problema è che<br />
è raccontata male e non riesce ad intrigare. E’ la sequenza degli avve-<br />
nimenti che non convince e la cosa, dopo un po’, comincia a scocciare<br />
perché sembra che Coulter, la vicenda, non abbia proprio voglia di raccon-<br />
tarcela. Così sceglie la strada del montaggio alternato fra differenti piani<br />
temporali, pretesto che nasconde forse il fatto che nessuno, nemmeno lo<br />
sceneggiatore, avesse ben capito cosa accadde quella fatidica notte. Il<br />
protagonista è George Reeves, divenuto celebre grazie alla serie tv Le<br />
avventure di Superman, tra il 1951 e il 1958. Ma Reeves nutriva ben<br />
altre aspirazioni. Il suo sogno finì con una morte violenta, ferito da arma<br />
da fuoco, in circostanze misteriose nella sua casa di Los Angeles. La so-<br />
luzione più probabile fu individuata nel suicidio. Le cose che si salvano<br />
del film sono due: l’ambientazione, al punto giusto del glamour degli anni<br />
‘50 quando fare film era già imporre mode, atteggiamenti, gesti, accessori.<br />
L’altra cosa sono gli interpreti: due, di carisma e di mestiere come Bob<br />
Hoskins e Diane Lane e due più giovani, Ben Affleck, che ha pure preso la<br />
coppa Volpi (mi permetto di dissentire) e Adrien Brody che convince di più, mentre commenta le vicende, dolente<br />
e ironico, beve e fuma costantemente come ogni detective che si rispetti e mastica chewing gum come i ragaz-<br />
zetti che sballano per il loro beniamino televisivo.<br />
Già negli anni ‘50 in USA l’eroe visto in una serie tv veniva considerato più raggiungibile, una specie di simpatico<br />
vicino di casa dell’intera nazione. Ma gli attori tv hanno sempre patito questa condizione, trovandola svilente in<br />
confronto a quella del collega cinematografico. Che questo film parli di quanto la tv abbia influenzato il cinema<br />
lo dimostra anche il fatto che sia il regista Coulter che lo sceneggiatore Bernbaum provengono dalle serie tv<br />
(Sopranos, Six Feet Under, Sex and the City, X-Files il primo, A-Team e Halloweentown il secondo). E lo si vede<br />
dagli accostamenti tra diverse formule espressive: un po’ di noir, una punta di malinconia drammatica e melensa<br />
e lo sfondo giallo del delitto da indagare, alla maniera del contenitore tv.<br />
Una curiosità: il titolo doveva essere Truth, Justice and the American Way ma la DC Comics non lo ha per-<br />
messo perché troppo simile alla frase-lancio della serie tv in America. Un tempo, la famosa scritta su Mount Lee<br />
era “Hollywoodland” (l’impresa immobiliare di Mack Sennett) poi venne ristrutturata nei ‘60 eliminando le ultime<br />
quattro lettere. In quegli stessi anni raccontati dal film una giovane attricetta, Peg Entwistle, dopo essersi arram-<br />
picata sull’ultima lettera, la tredicesima, la D finale, si buttò nel vuoto, nauseata dall’indifferenza delle majors.<br />
Fu seguita da parecchi altri. La faccia oscura del luccichio del cinema.<br />
C o s t a n z a S a l v i<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />
l a s e r a d e l l a p r i m a
l a s e r a d e l l a p r i m a<br />
VISIONI<br />
9 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
L’ombra del potere – The Good Shepherd (di Robert De Niro - Usa, 2006)<br />
Da sempre, la tentazione del cinema americano è quella di puntare i ri-<br />
flettori sulla storia del proprio paese per scandagliarne le ombre e portare<br />
allo scoperto gli scheletri. Ma se il cinema indipendente stringe il campo<br />
sul presente o sul passato prossimo con una massiccia produzione di<br />
documentari, il cinema hollywoodiano preferisce scardinare le storie del<br />
passato, quelle ormai ingessate nel mito e nella leggenda. Così a Gangs<br />
of New York di Scorsese, o al recente split-film su Iwo Jima di Clint Ea-<br />
stwood, ecco aggiungersi L’ombra del potere di Robert De Niro.<br />
Il film, allacciandosi alla fulminante carriera di Edward Wilson – un ottimo<br />
e gelido Matt Damon, come non si vedeva da Gerry di Van Sant – rac-<br />
conta come nacque il più celebre e potente servizio segreto del mondo: la<br />
CIA. Dalla società para-massonica degli Skulls and Bones (che annovera<br />
tra i suoi iscritti tutti i presidenti degli Usa); all’OSS, l’ufficio dei servizi<br />
strategici in attività durante la seconda guerra mondiale; alla CIA vera e<br />
propria, progettata per contrastare l’Urss in piena guerra fredda. Ma, no-<br />
nostante il grande lavoro di ricostruzione storica, la cura e la perfezione<br />
dei dettagli, il taglio piano e documentaristico, che eccelle soprattutto<br />
nella precisione delle scenografie, la sceneggiatura di Eric Roth media<br />
con abilità tra la coralità con cui si dispiega la Storia e la singolarità della<br />
vita del protagonista. Così, il motore della narrazione - che spinge il film all’indietro in lunghi flashback - sono gli<br />
eventi che fanno del promettente studente di Yale il capo indiscusso del controspionaggio: un uomo taciturno, la<br />
cui vita quotidiana si svuota mentre il potere si concentra nelle sue mani. Da notare – ed è una finezza da sce-<br />
neggiatori – che il grande amore della sua vita sarà una donna sorda: l’unica persona che, in un mondo di spie,<br />
non può carpirgli segreti. Ovviamente, come dice il titolo, la fotografia del film è intessuta di ombre e chiaroscu-<br />
ri. Le azioni si svolgono soprattutto di notte, e tra l’oscurità ognuno mette in atto doppi giochi. Ma non sono le<br />
azioni ciò che interessano De Niro. Anzi, per un film del genere, di azioni ce ne sono perfino poche e la violenza<br />
è concentrata in alcune scene, come se la riflessione e la descrizione minuta dei Servizi potessero lasciare in-<br />
tuire tutto il resto – tanto che L’ombra del potere appare come l’esatto opposto di Munich, sebbene condividano<br />
lo stesso sceneggiatore. Tra le poche, solo una scena esplora con estrema precisione la violenza del sistema e<br />
riannoda i fili con il presente: quella dell’interrogatorio che diventa tortura, dove la vittima ha la testa ficcata in<br />
un sacco nero, che subito ricorda i procedimenti utilizzati dall’esercito americano nelle carceri irachene di Abu<br />
Ghraib. Forse lo spaccato sulla burocrazia del potere contagia tutto il resto: un protagonista grigissimo, una<br />
regia controllata, un tono dimesso che non strappa emozioni. Il potere è banale, ma i film sarebbe meglio di no.<br />
G i u s e p p e Z u c c o
M o r t e d i u n p r e s i d e n t e ( d i G a b r i e l R a n g e – U K , 2 0 0 6 )<br />
La storia come avrebbe potuto essere e le sue implicazioni: questo il tema<br />
della fittizia ricostruzione documentaristica di Morte di un presidente<br />
dell’inglese Gabriel Range, che tante polemiche ha suscitato in America.<br />
Nell’ottobre del 2007, subito dopo aver parlato a un convegno a Chicago,<br />
George W. Bush viene assassinato e muore dopo poche ore, mentre il<br />
vicepresidente Cheney gli subentra. Alternando materiale d’archivio e ri-<br />
costruzioni con attori – alla maniera di un report tv, con interviste ad FBI,<br />
entourage, poliziotti e addetti alla sicurezza - si assiste da una parte agli<br />
eventi che precedono l’attentato – l’arrivo di Bush in mezzo ad imponenti<br />
manifestazioni di protesta contro la sua politica in Iraq – dall’altra alle<br />
indagini che ne seguono. Paradigmatico appare il senso di colpa degli<br />
agenti dell’FBI, deputati alla difesa del presidente, che disperatamente<br />
ammettono di aver lasciato falle nella sorveglianza.<br />
Appare subito chiaro che, così come per i film di Michael Moore, la pelli-<br />
cola è un forte atto d’accusa nei confronti dell’amministrazione americana<br />
in merito a limitazioni dei diritti civili e razzismo, post 11 settembre. Le<br />
indagini si rivolgono infatti prevedibilmente verso una pista araba, nono-<br />
stante alcune evidenze portino anche altrove. Al regista interessa mostra-<br />
re infatti, più che la prosecuzione dei fatti in direzione della successiva<br />
presidenza, il clima di sospetto sociale che si va man mano instaurando, mentre si ricostruisce l’attentato; il<br />
mescolare vero e finzione si sovrappone alla “costruzione” di prove ad hoc, elemento quest’ultimo che tanta parte<br />
ha avuto nei fatti recenti post-torri gemelle, e non solo.<br />
L’uomo di origine siriana che viene condannato infatti, anche forzando alcune prove, ne è l’evidente dimostrazio-<br />
ne. Niente che non si sapesse già, quindi e si potesse supporre, data la storia degli ultimissimi anni. E il film si<br />
spinge solo alla fine verso l’altra pista, mentre il sospettato rimane programmaticamente in carcere, e vi resterà<br />
anche dopo che il vero colpevole (un veterano nero americano) sarà rivelato.<br />
Il film risente della forma documentaristica, lenta in molti punti, nonostante un buon montaggio tra vero e rico-<br />
struito; si perde infatti nei molti rivoli delle interviste e delle ricostruzioni, risultando meno efficace proprio quan-<br />
do si vuole spiegare troppo. Le domande che si pone ruotano intorno al concetto di democrazia americana e sul<br />
senso insito di giustizia e libertà, così opportunamente esportati all’estero, che si trasformano in opportunismo<br />
politico e propaganda. L’espressione di un forte dissenso quindi, e la denuncia della ormai ineluttabile paranoia<br />
americana nei confronti del diverso, che sta alla base della sua iperdifesa socio-politica. Un altro docu-film che<br />
si aggiunge alla serie di testimonianze vere e ricostruite sul clima di caccia alle streghe di questi ultimi anni. Un<br />
what if ambientato in un futuro così drammaticamente già avveratosi.<br />
Te r e s a G r e c o<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />
l a s e r a d e l l a p r i m a
l a s e r a d e l l a p r i m a<br />
CULT MOVIE<br />
To r o s c a t e n a t o ( d i M a r t i n S c o r s e s e - U s a , 1 9 8 0 )<br />
Tra cinema e boxe, l’attrazione è fatale. La pellicola sembra impressionarsi<br />
sul serio solo se davanti alla macchina da presa piovono pugni assassini<br />
e i nasi si ammaccano, i sopraccigli si rompono, i pugili sputano<br />
sangue. Nella boxe c’è tutta una grammatica della violenza che il cinema<br />
non ha mai smesso di mettere in scena. I combattimenti possono avvenire<br />
nei luoghi più strani, tra i personaggi più differenti, con durate temporali<br />
ora fulminanti ora più estese, ma è sempre la stessa logica che accomuna<br />
la scazzottata tra commilitoni in Barry Lyndon, la mattanza seriale di<br />
Rocky, i pestaggi deliranti di Fight Club, la lotta progressista di Million<br />
Dollar Baby. La boxe radicalizza il conflitto, e questo piace al cinema.<br />
Né intreccio, né trama, neppure l’ombra di complicazioni psicologiche o<br />
di ideologie di massa: solo due corpi, nel deserto bianchissimo del ring,<br />
a darsele di santa ragione – il Bene contro il Male, l’eroe contro l’aggressore,<br />
il prevalere della Vita contro la stasi della Morte. Ed è questa<br />
la magia della boxe rappresentata sul grande schermo: caricare i pugili<br />
di significato, farli diventare simboli spietati di qualcosa che resisterà<br />
nella memoria. Ovviamente c’è di più. La boxe è un intreccio fortissimo di<br />
passato e di futuro. Le sue radici non affondano solo nella preistoria del<br />
conflitto - l’uno contro l’altro, unico fine: la sopravvivenza – ma soprattutto<br />
nello spettacolo del conflitto. La boxe è violenza per gli occhi, battaglia<br />
organizzata per lo sguardo, guerra stilizzata per la visione. La boxe è tale solo quando le luci sono puntate sui<br />
pugili e il pubblico pagante circonda il ring. Per questo è sopravvissuta così a lungo: perché fin dall’inizio concilia<br />
l’arcaico con il moderno, l’arena con il cinema, il sangue e i pugni con la pellicola e i pixel. In fondo - per<br />
il dramma, la suspense e l’inevitabile catarsi finale - è già un’opera teatrale divisa in quindici atti. Ma è con il<br />
cinema il legame formidabile.<br />
Guardate meglio: il ring immacolato, su cui si staglia nettamente il rosso del sangue e il movimento dei pugili, è<br />
uno schermo cinematografico disposto orizzontalmente. Su di esso, i pugili scorrono e agiscono come attori tridimensionali.<br />
La boxe, così, consegna alla visione ciò che il cinema insegue da sempre: il volume dell’immagine. Ma<br />
non basta. Per guardare ancora più in profondità, infilate i guantoni, salite sul ring, e mollate un uppercut, prima<br />
che l’avversario ve lo rifili. Ovviamente, è la prima volta che siete sul ring. E per quanto schiviate, e vi muoviate<br />
bene, i pugni vi raggiungono e vi stordiscono. Così imparate che fanno male, che i colpi più feroci puntano al viso<br />
- e se non è la mascella a saltare, di sicuro il guantone vi si è stampato molto vicino agli occhi, tanto che ormai un<br />
sopracciglio è andato, e sanguina, sanguina a tal punto che alla fine del round vi devono ricucire. Cominciate a capire<br />
come andrà avanti la lotta: con gli occhi gonfi, che quasi non ci vedete più. Un paio di nuovi colpi ben piazzati,<br />
e nei prossimi round vi batterete ciechi, senza più controllo. Allora, fisicamente provati, capite: il cinema, quando<br />
filma la boxe, racconta della crisi dello sguardo, della perdita di controllo dello sguardo, della cecità imminente, del<br />
nero che arriva senza dissolversi in nuove immagini. Sigmund Freud direbbe: una sorta di castrazione.<br />
I registi, lungo la loro carriera, avvertono spesso questa sensazione da pugile. Basta poco: un flop in sala, le<br />
incomprensioni con i produttori, le difficoltà della messa in scena, i soldi che non girano, le tristezze personali,<br />
e subito sembra che le storie non quadrino più e lo sguardo sia tanto confuso quanto poco incisivo. Martin Scorsese<br />
provò una cosa del genere tra il 1976 e il 1978. New York, New York era appena uscito, ma non piacque a<br />
nessuno, tantomeno al regista – sebbene oggi venga apprezzato come rivisitazione evocativa del classico musical<br />
in stile Hollywood. All’insuccesso si aggiunsero depressione, asma e problemi personali. Così, per evadere<br />
dal perimetro dello sconforto, si aggrappò con forza al progetto di Toro scatenato. L’idea arrivò con Robert De<br />
Niro. Fu lui a consigliargli di ricavare un film da Raging Bull, la biografia di un pugile italo-americano, Jack La<br />
Motta. La stesura della sceneggiatura fu parecchio complicata. Passò dalle mani di Paul Schrader e Mardik<br />
Martin prima che Scorsese e De Niro volassero su un isola per completare l’opera tranquilli. Un paio di settimane<br />
più tardi il copione fu pronto e il film diventò realtà. Quello che venne fuori fu pellicola a cinque stelle: roba da<br />
Storia del Cinema, e uno tra i migliori film di Scorsese – benché ci sia da sgranare gli occhi per qualsiasi suo<br />
lavoro – tanto che incassò due Oscar e ancora oggi scintilla di bellezza e disperazione. Il film, seppure con molti<br />
cambiamenti, girato nel bianco e nero dei reportage fotografici degli anni ’40, cavalca la parabola esistenziale di<br />
Jack La Motta: dalla palestra nel Bronx dove si allena, al ring su cui conquista il titolo di campione del mondo,<br />
9 s e n t i r e a s c o l t a r e
ai locali di infimo ordine dove si guadagna da vivere recitando monologhi. La particolarità di Jack La Motta era<br />
quella di trascinarsi dietro il ring, dovunque andasse. La vita, per lui, non era poi così diversa dai quindici round,<br />
se le sberle erano la norma della vita quotidiana, e l’unico modo per difendersi era quello di attaccare per primo<br />
e fare male senza riserve. Gli insegnamenti della boxe erano per La Motta guida e metafora - una strategia esistenziale<br />
violenta e primitiva. Per non andare giù al tappeto, mise alle corde praticamente tutta la sua famiglia:<br />
non solo la prima moglie, ma perfino Vickie, il suo unico amore, e Joey, fratello e manager. Per questo, vinse<br />
e perse senza soluzione di continuità. Perchè in tutti vedeva, e cercava, l’avversario da battere, il nemico da<br />
stendere. Ma la resa dei conti arriva nell’ultima scena del film. In un camerino vuoto, davanti ad uno specchio. Lì<br />
rintraccia il profilo del suo più grande rivale: un se stesso fuori forma, strizzato nel vestito elegante, ormai fuori<br />
da qualsiasi giro, senza più nessuno a puntare sulla sua furia.<br />
Scorsese scovò se stesso in quella figura tragica e autodistruttiva. Pensò che quello fosse l’ultimo film che<br />
avrebbe girato. Così trasse da Jack la Motta la storia di un uomo che insegue la redenzione senza trovarla<br />
davvero, e operò perchè il film fosse qualcosa da rivedere e ricordare, tecnicamente completo – insomma, un<br />
testamento. Girò tutto con grande maestria, trovando un equilibrio perfetto tra movimento (i carrelli e i sinuosi<br />
movimenti di macchina sono il brand di Scorsese) e fissità della macchina presa. Adottò tecniche diverse per<br />
filmare i combattimenti e renderli emotivamente unici: il primo con la macchina a mano, il secondo con grandi<br />
focali, il terzo con una carrellata, il quarto in falsa prospettiva. Montò il film, insieme a Thelma Schoonmaker,<br />
come una partitura musicale. Usò la sua conoscenza della storia del cinema e delle opere di Shakespeare, soprattutto<br />
l’Otello. E, infine, meravigliò tutti per la forza e il rigore, anticipando temi e ossessioni che appariranno<br />
poi nei film futuri : la violenza di Quei bravi ragazzi, Casinò, Gangs of New York, la difficoltà nei rapporti personali<br />
di Fuori orario, il martirio de L’ultima tentazione di Cristo, l’isolamento di The Aviator. Qui, il legame<br />
tra Scorsese e De Niro raggiunse la vetta. De Niro scivolò nei panni di Jack La Motta con tale precisione che,<br />
per rendere il personaggio davvero credibile, ingrassò di 30 chili. Le ultime scene furono girate in tutta fretta: il<br />
peso gli causò problemi cardio-respiratori. E tutto questo arriva a noi con la potenza di un Simbolo da aprire e<br />
guardarci dentro. Il cinema, direbbero allora Scorsese e De Niro, non è mai neutro: ma ci cambia, ci ingrassa, ci<br />
deforma, ci trasforma. Spinge più in là la nostra identità, dilata la nostra coscienza, convoglia idee e soluzioni,<br />
muove il futuro. Ovviamente, solo se siamo disponibili.<br />
G i u s e p p e Z u c c o<br />
s e n t i r e a s c o l t a r e 9 7<br />
l a s e r a d e l l a p r i m a
i c o s i d d e t t i c o n t e m p o r a n e i a c u r a d i D a n i e l e F o l l e r o<br />
Henry Cowell<br />
IL PROFETA DELLA WORLD MUSIC<br />
d i D a n i e l e F o l l e r o<br />
“Voglio vivere nell’intero mondo<br />
della musica” (Henry Cowell)<br />
A volte, come si dice, l’allievo supera<br />
il maestro. Ma può anche capitare<br />
che la storia sia ingrata (spesso<br />
lo è) e i maestri vengano addirittura<br />
dimenticati o rimangano semisconosciuti.<br />
Henry Cowell è un caso<br />
emblematico di questa “dimenticanza”,<br />
complice il fatto di essere stato<br />
insegnante di una delle più grandi<br />
menti pensanti della musica del Novecento,<br />
John Cage, un compositore<br />
così all’avanguardia da sembrare<br />
venuto dal nulla.<br />
E invece no. Dietro le scelte più coraggiose<br />
del musicista e pensatore<br />
statunitense, risiedono gli insegnamenti<br />
di questo strano personaggio,<br />
tanto anticipatore da cadere<br />
nell’oblio, nonostante i numerosi<br />
riconoscimenti istituzionali di cui,<br />
ancora in vita, ha potuto godere.<br />
Troppo “avanti”, Cowell, anche per<br />
un secolo sperimentale come quello<br />
appena trascorso, che già ai suoi albori<br />
aveva avviato la distruzione dei<br />
linguaggi tradizionali. Così avanti<br />
che persino un grande e importante<br />
compositore come Bela Bartòk,<br />
affascinato dalla tecnica dei cluster,<br />
di sua invenzione, arrivò a chiedergli<br />
il permesso di utilizzarla.<br />
Già, i cluster, quelli che in termini<br />
strettamente musicali vengono definiti<br />
aggregati di seconde maggiori<br />
e minori e che nella pratica si ottengono<br />
premendo mani, braccia o<br />
quant’altro sulla tastiera del pianoforte.<br />
Una tecnica che è diventata<br />
presto uno dei simboli del modernismo<br />
musicale, un gesto dissacrante<br />
nei riguardi della classicità, estrema<br />
sintesi dell’apoteosi del cromatismo.<br />
Ebbene, ne è stato proprio lui l’inventore,<br />
con quel suo tipico estro di<br />
chi intende la musica in una dimensione<br />
“totale”, in quanto insieme di<br />
scienza, umanismo e tecnica strumentale.<br />
9 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />
La cultura “alternativa” di Henry<br />
a metà tra l’ultra-moderno e il<br />
post-moderno<br />
Henry Cowell può essere, a ben<br />
dire, collocato in quella corrente,<br />
definita modernista, che all’inizio<br />
del secolo scorso si contrappose,<br />
con una rottura decisa, agli ormai<br />
decadenti linguaggi del Romanticismo.<br />
Ma a differenza di molti suoi<br />
colleghi, Cowell aveva una cultura<br />
che andava ben al di là degli ambienti<br />
accademici. Non a caso il<br />
suo più grande maestro in gioventù<br />
fu un famoso etnomusicologo,<br />
Charles Seeger. Con lui imparò a<br />
capire ed apprezzare le musiche<br />
del mondo, dai monti Appalachi al<br />
Giappone, subendone il fascino<br />
della varietà di linguaggi musicali,<br />
sia dal punto di vista compositivo<br />
che antropologico. Questo doppio<br />
aspetto di ricercatore-compositore,<br />
non lo abbandonerà mai: nella<br />
vita del musicista, lo studio e in seguito<br />
l’insegnamento del gamelan<br />
giavanese, la collaborazione con<br />
la scuola berlinese di musicologia<br />
comparata (disciplina genitrice dell’etnomusicologia<br />
e dell’antropologia<br />
musicale) e in particolare con<br />
Eric Von Horbonstel, sono andati<br />
di pari passo agli esperimenti pianistici<br />
e alla carriera di esecutore.<br />
Complici della sua formazione fuori<br />
dal comune, anche i genitori che,<br />
filosoficamente anarchici e poco<br />
convinti dei sistemi educativi, non<br />
hanno esitato a occuparsi loro<br />
stessi dell’educazione del figlio.<br />
E, in effetti, le origini irlandesi del<br />
padre, contribuirono non poco ad<br />
influenzare l’interesse del giovane<br />
Henry per le culture “altre”, che<br />
presto divenne una delle più importanti<br />
caratteristiche del suo essere<br />
musicista. Una sorta di post-moderno<br />
ante litteram, in definitiva. Ultramodernista<br />
(aggettivo usato dalla<br />
critica anche per musicisti come<br />
Varèse e Antheil) e già con un piede<br />
nel nuovo millennio, quello della<br />
globalizzazione, ai suoi tempi ancora<br />
troppo lontano. Si aggiunga a<br />
questo una vita borderline che in<br />
epoca di maccartismo imperante gli<br />
procurò anche la galera (essere dichiaratamente<br />
bisessuali era ancora<br />
un reato nella “libera America”).<br />
Il profilo del perfetto “outsider” a<br />
questo punto è completo.<br />
Cage lo definì “l’’apriti sesamo’ per<br />
la nuova musica americana”, Charles<br />
Ives fu il suo più grande amico<br />
e perfino un conservatore come<br />
Schoenberg lo invitò a Berlino per<br />
tenere delle lezioni ai suoi corsi di<br />
composizione. Nessuno riuscì a resistere<br />
al fascino di quest’ometto<br />
con la faccia da comico che profetizzava<br />
la World Music quando la<br />
musica era per molti ancora una<br />
faccenda tutta interna al mondo occidentale.<br />
Oltre c’era la musica di<br />
tradizione orale, quella della plebaglia.<br />
Dal pianoforte al mondo.<br />
L’evoluzione stilistica di Cowell<br />
dallo sperimentalismo alle musiche<br />
“altre”<br />
Come già accennato, è il pianoforte,<br />
inteso nella sua totalità fisica,<br />
lo strumento principe di Cowell, il<br />
fulcro della sperimentazione musicale.<br />
Le esplorazioni all’interno<br />
della cassa armonica, pizzicando o<br />
sfregando le corde, giocando contemporaneamente<br />
sui pedali per<br />
variare il timbro e l’intensità del<br />
suono, hanno rappresentato un ampliamento<br />
delle tecniche pianistiche<br />
così importante da diffondersi<br />
presto non solo in ambienti colti ma<br />
anche e soprattutto, in ambito jazzistico<br />
e, più in generale, improvvisativo.<br />
Molte delle opere che,<br />
praticamente, sanciranno l’al ba del<br />
pianismo d’avanguardia sono quasi<br />
datati nel periodo che va dagli
anni 20 ai 30: Tiger (1928) prevede<br />
l’uso di cluster suonati con pugni,<br />
avambracci e mano piatta, a seconda<br />
dell’ampiezza dell’intervallocornice;<br />
Aeolian Harp (1923), che<br />
rese nota la tecnica del cosiddetto<br />
“string piano”, sfrutta la manipolazione<br />
diretta delle corde con una<br />
mano, mentre l’altra preme i tasti<br />
senza suonarli; una tecnica simile<br />
è suggerita in The Banshee (1925)<br />
la cui esecuzione si avvale, però, di<br />
due musicisti, uno dei quali gioca<br />
con i pedali del piano mentre l’altro<br />
è intento a manipolare le corde;<br />
di natura più percussiva è invece<br />
Sinister Resonance (1930), in cui<br />
una mano percuote i tasti mentre<br />
l’altra altera il timbro mediante le<br />
corde.<br />
Non è difficile immaginare, a questo<br />
punto, da dove provengano<br />
le intuizioni di Cage riguardo al<br />
pianoforte preparato, logica prosecuzione<br />
delle idee cowelliane.<br />
Sebbene il suo pianismo avrebbe<br />
condizionato in maniera indelebile<br />
la sua carriera di musicista, il compositore<br />
di Menlo Park non si fermò<br />
certo allo strumento solista. Molte<br />
furono anche le partiture a sua firma,<br />
sia per ensemble da camera<br />
che per formazioni orchestrali più<br />
grandi, già dagli esordi. Tra il 1915<br />
e il 1919, infatti, Cowell scrive due<br />
quartetti, Quartet Romantic (1915-<br />
17) e Quartet Euphometric (1916-<br />
19) che già anticipano i presupposti<br />
della sua celebre teoria compositiva<br />
definita Rythm-Harmony, che<br />
consiste, in parole povere, nell’attribuzione,<br />
in un brano polifonico,<br />
di un differente ritmo per ciascuna<br />
linea melodica.<br />
Pochi lo sanno, ma fu proprio questa<br />
teoria ad ispirare Lev Theremin<br />
(inventore qualche anno più tardi<br />
dello strumento che prende il suo<br />
nome) a progettare il Rhythmicon,<br />
uno strumento capace di produrre<br />
simultaneamente una serie di pattern<br />
ritmici. Praticamente l’antenato<br />
della drum machine, la prima rythm<br />
machine del mondo! Naturalmente<br />
Henry Cowell scrisse molto per<br />
questo strumento che, però, cadde<br />
presto in disuso per poi essere rivalutato<br />
negli anni 60 dal produttore<br />
pop Joe Meek, noto soprattutto<br />
per aver lavorato con The Tornados<br />
(numero uno negli U.S.A. nel<br />
‘62) in epoca pre-beatelsiana.<br />
A partire dagli anni 30, il Nostro<br />
si avvicinò sempre più al concetto<br />
di musica aleatoria (altro concetto<br />
che attirerà molto John Cage), conferendo<br />
sempre maggiori responsabilità<br />
di scelta agli esecutori. Uno<br />
tra i suoi migliori brani da camera,<br />
il Mosaic Quartet (String Quartet<br />
N. 3), del 1935, costituito da cinque<br />
movimenti intercambiabili in base<br />
alle scelte degli esecutori, rimane<br />
l’esempio più chiaro della sua<br />
crescente attenzione verso questi<br />
nuovissimi e alquanto avanguardisti<br />
approcci compositivi.<br />
Da non sottovalutare anche l’apporto<br />
e il sostegno che Cowell nella<br />
sua vita diede alla diffusione della<br />
musica contemporanea, soprattutto<br />
grazie alla casa editrice e discografica<br />
New Music, fondata da lui<br />
stesso negli anni 30. Furono molti i<br />
musicisti, da Varese a Ives, a beneficiare<br />
delle sue pubblicazioni per<br />
la diffusione delle proprie opere.<br />
Gli ultimi vent’anni di carriera del<br />
musicista californiano saranno caratterizzati<br />
da un sempre crescente<br />
interesse per le musiche del mondo,<br />
che lo portò a sperimentare le<br />
più svariate tecniche compositive<br />
e ad avvicinarsi con maggiore concretezza<br />
alla musica popolare sia<br />
orientale (Ongaku, del 1957; Homage<br />
To Iran del 1959, Symphony<br />
n. 13 “Madras”, eseguita per la<br />
prima volta nel ‘58 nella città di cui<br />
porta il nome) che occidentale, incluso<br />
il folklore americano e i canti<br />
puritani, che in questo periodo<br />
divenne di moda rivisitare (Hymn<br />
And Fuguing Tunes, composti a<br />
partire dal 1942).<br />
Henry Cow(ell)<br />
Quando Henry Cowell morì nel<br />
1965, dall’altra parte dell’oceano,<br />
un gruppo di poco più che ventenni<br />
si preparava a dar vita a un<br />
collettivo musicale radicale, avanguardista<br />
e comunista che avrebbe<br />
dato uno scossone alla musica<br />
indipendente, radicalizzandone<br />
il linguaggio e avvicinando forme<br />
espressive così lontane come il<br />
jazz, il rock e la musica d’arte del<br />
Novecento. Qualcuno sostiene che<br />
lo strano nome che quei ragazzi<br />
scelsero non stesse ad indicare<br />
qualche fantomatico Enrico Mucca,<br />
ma fosse derivato direttamente<br />
dall’elisione del cognome del compositore<br />
californiano. Qualcun’altro<br />
nega, mentre tra le fonti di ispirazione<br />
dei fondatori della band,<br />
Fred Frith e Tim Hodgkinson, troviamo<br />
scritto il nome di Cowell a<br />
caratteri cubitali, segno che, filologica<br />
o meno, la relazione tra gli<br />
Henry Cow ed Henry Cowell non è<br />
casuale né si esaurisce nel gioco<br />
di parole.<br />
Certo è che uno sperimentatore<br />
come lui avrebbe pienamente approvato<br />
l’approccio rivoluzionario<br />
di quei ragazzi di Cambridge,<br />
intellettuali e fricchettoni che già<br />
alla fine degli anni 60 preparavano<br />
la nascita del loro rock in opposition.<br />
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