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neo sciamana iperpop - Infiné

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SENTIREASCOLTARE<br />

Battles<br />

Dan Deacon<br />

Hetero Skeleton<br />

Hometapes<br />

Earache<br />

Faust<br />

Dinosaur Jr<br />

Henry Cowell<br />

Monta<br />

online music magazine<br />

MAGGIO N. 31<br />

Björk<br />

<strong>neo</strong> <strong>sciamana</strong> <strong>iperpop</strong><br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


sommario<br />

4 News<br />

8 The Lights On<br />

Dan Deacon, Francesco Tristano, Hetero<br />

Skeleton, Monta<br />

2 Speciali<br />

Battles, Hometapes, Earache, Bjork<br />

4 Recensioni<br />

Bachi Da Pietra, Colleen, Dungen,<br />

EL-P, Nine Inch Nails, Perturbazione,<br />

Tangerine Dream, Throbbin Gristle, Von<br />

Sudenfed, Wilco, Parts & Labour<br />

7 9 Rubriche<br />

(Gi)Ant Steps<br />

Dave Brubeck Quartet<br />

We Are Demo:<br />

Bancali In Pietra, Camillas, Visioni di<br />

Cody, Arbdesastr, Dorothi ...<br />

Classic<br />

Faust, Dinosaur Jr, Henry Cow,<br />

Gobblehoof<br />

Cinema<br />

300, Death Of A President...<br />

Cult: Toro scatenato<br />

I cosiddetti contemporanei<br />

Henry Cowell<br />

Direttore<br />

Edoardo Bridda<br />

Coordinamento<br />

Teresa Greco<br />

Consulenti alla redazione<br />

Daniele Follero<br />

Stefano Solventi<br />

Staff<br />

Valentina Cassano<br />

Antonello Comunale<br />

Antonio Puglia<br />

Hanno collaborato<br />

Gianni Avella, Davide Brace, Filippo Bordignon, Marco<br />

Braggion, Gaspare Caliri, Roberto Canella, Paolo<br />

Grava, Manfredi Lamartina, Andrea Monaco, Massimo<br />

Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea<br />

Provinciali, Stefano Renzi, Federico Romagnoli,<br />

Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Alfonso<br />

Tramontano Guerritore, Giancarlo Turra, Fabrizio<br />

Zampighi, Giuseppe Zucco<br />

Guida spirituale<br />

Adriano Trauber (1966-2004)<br />

Grafica<br />

Edoardo Bridda, Valentina Cassano<br />

in copertina<br />

Björk<br />

SentireAscoltare online music magazine<br />

Registrazione Trib.BO N° 7590<br />

del 28/10/05<br />

Editore Edoardo Bridda<br />

Direttore responsabile Antonello Comunale<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

2<br />

Copyright © 2007 Edoardo Bridda. Tutti i<br />

diritti riservati.<br />

La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi<br />

forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi<br />

mezzo, è proibita senza autorizzazione<br />

scritta di SentireAscoltare<br />

82s<br />

e n t i r e a s c o l t a r e<br />

8


news<br />

a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />

Primavera Sound<br />

4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

Cast corposo per il prossimo Festival Estrella Damm Primavera Sound<br />

2007 di Barcellona, previsto dal 31 maggio al 2 giugno prossimi presso il<br />

Parc del Forum. Tra i moltissimi nomi della tre giorni spagnola: Smashing<br />

Pumpkins, The White Stripes, Slint (che riproporranno Spiderland per<br />

intero), i Melvins (che rifaranno Houdini), i Dirty Three (con Ocean Son-<br />

gs), The Fall, Art Brut, Modest Mouse, Built To Spill, Low, Wilco, Sonic<br />

Youth (con Daydream Nation), Isis, Blonde Redhead, Klaxons, Maximo<br />

Park, Shannon Wright, The Durutti Column, Battles, Matt Elliott, Robyn<br />

Hitchcock, Nathan Fake, Of Montreal… Per il programma completo e info<br />

sui biglietti: www.primaverasound.com...<br />

Patrick Wolf come Ziggy Stardust? In un messaggio sul suo forum uffi-<br />

ciale, il 22 aprile l’artista ventitreenne ha annunciato ai suoi fans che il<br />

prossimo novembre si ritirerà dalle scene, con un concerto-retrospettiva a<br />

Londra in cui sarà accompagnato da un’orchestra. Una decisione probabil-<br />

mente nata sull’onda emotiva dello stress da promozione di Magic Posi-<br />

tion, che ha portato, tra le altre cose, al licenziamento del batterista della<br />

band per motivi di droga. In ogni caso, questa uscita ricorda fin troppo da<br />

vicino il famoso retirement speech di Bowie del 1973. Che Patrick voglia<br />

seguire fino in fondo le orme del maestro David?...<br />

La Secretly Canadian ha pubblicato il suo centesimo album il 24 aprile<br />

scorso: il doppio SC100 comprende 18 artisti del roster che si coverizzano<br />

l’uno l’altro. Jens Lekman - che nel disco interpreta Scout Niblett - ha<br />

fatto sapere che il suo secondo LP sarà pubblicato in autunno. Una notizia<br />

da prendere con il beneficio del dubbio, a sentire lo stesso svedese…<br />

Sarà pubblicato il 1 giugno un libro sui Sigur Ròs, dal titolo In A Frozen<br />

Sea: A Year With Sigur Ròs; scritto da un loro fan, Jeff Anderson; il vo-<br />

lume testimonia il tour dello scorso anno, con interviste esclusive, foto e<br />

commenti e con copertina che riproduce un vinile da 12 pollici. In agosto<br />

uscirà un EP, ancora senza titolo, e in ottobre un DVD live del tour dell’an-<br />

no scorso in Islanda…<br />

Damon Albarn ha annunciato dai microfoni di BBC Radio 2 lo scioglimento<br />

definitivo dei suoi Gorillaz, che avverrà entro l’anno dopo la realizzazione<br />

della colonna sonora di un lungometraggio - le cui riprese cominceranno il<br />

prossimo settembre - con loro protagonisti…<br />

Addio alle scene anche per i Cooper Temple Clause, che avevano pubbli-<br />

cato a inizio anno il terzo album Make This Your Own. Lo ha annunciato<br />

sulle pagine di My Space il leader Daniel Fisher…<br />

Gli Spoon pubblicheranno il loro sesto disco Ga Ga Ga Ga Ga il 10 luglio<br />

prossimo su Merge…<br />

Amanda Palmer, cantante e pianista dei Dresden Dolls sta preparando


il debutto solista, dal titolo autoreferenziale Who Killed Amanda Palmer.<br />

Realizzato con la collaborazione di Ben Folds, sarà in uscita presumibil-<br />

mente per la primavera del 2008 su Eight Foot…<br />

La Domino ristamperà il 10 luglio The Freed Man, il primo disco dei Se-<br />

badoh, con l’aggiunta di bonus; l’album era uscito in origine solo su LP e<br />

cassetta per la Homestead nel 1989…<br />

Jack White sta preparando nuovo materiale per i suoi Raconteurs, in pa-<br />

rallelo con il nuovo album dei White Stripes, Icky Tump…<br />

Dopo l’apparizione del 21 aprile scorso all’Auditorium dell’Università del<br />

Texas (con il supporto di archi, fiati e delle voci del gruppo di Austin<br />

Brothers and Sisters), gli Okkervil River, sono stati protagonisti, il 30<br />

aprile scorso, di un concerto tutto esaurito per l’inaugurazione della nuova<br />

Highline Ballroom di New York. In quest’occasione hanno aperto per Lou<br />

Reed, che li ha voluti con sé, dopo averli nominati tra le sue band prefe-<br />

rite per gli Mtv Video Music Awards. Aspettando The Stage Names, il loro<br />

nuovo album che uscirà a settembre su Jagjaguwar…<br />

Non sarà andato bene come Whatever People Say I Am, That’s What I’m<br />

Not, ma anche Favourite Worst Nightmare, il secondo album degli Arctic<br />

Monkeys, è subito schizzato in testa alle classifiche inglesi. Se il record<br />

del debutto (118.000 copie in un giorno) resta imbattibile, il successore è<br />

già il fast selling record del 2007, con 85.000 copie vendute il primo giorno<br />

di uscita, che potrebbero presto diventare 250.000…<br />

Gli Smashing Pumpkins rivelano la tracklist del disco della reunion, Zeit-<br />

geist in uscita il 7 luglio: Doomsday Clock, 7 Shades Of Black, Orchid,<br />

That’s The Way, Tarantula, Starz, United States, Never Lost, Bring The<br />

Light, Come On (Let’s Go), For God And Country, Pomp And Circumstance.<br />

La band farà il suo debutto in Europa il 22 maggio al Grand Rex di Parigi e<br />

sarà in Italia il 16 giugno a Venezia, al Parco San Giuliano per l’Heineken<br />

Jammin’ Festival…<br />

Mentre continua il tour “festivaliero” dei Jesus And Mary Chain, arriva la<br />

notizia di un prossimo box di rarità della band che la Rhino sta compilan-<br />

do…<br />

Dopo i Modest Mouse, continuano gli impegni di Johnny Marr, che par-<br />

teciperà al disco della reunion dei Crowded House di Neil Finn, il primo<br />

da 15 anni a questa parte. Time On Earth sarà pubblicato in luglio dalla<br />

Parlophone…<br />

Sulla homepage del sito ufficiale degli Interpol è apparsa la data di uscita del-<br />

l’atteso terzo disco: 10 luglio. Nessun altro dettaglio confermato, mentre in rete<br />

fra gli utenti del p2p è scattata la caccia all’ultima versione fake in mp3…<br />

Billy Corgan<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


news<br />

a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />

David Yow<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

A due anni dal fortunato Chaos And Creation In The Backyard, Paul Mc-<br />

Cartney dovrebbe tornare i primi di giugno con Memory Almost Full, al-<br />

bum probabilmente ispirato al suo chiacchierato divorzio da Heather Mills<br />

e il primo pubblicato da Hear Music, la casa discografica di Starbucks….<br />

Il secondo disco degli Editors si chiamerà An End Has A Start ed uscirà<br />

il 25 giugno prossimo su Kitchenware…<br />

David Yow (Jesus Lizards e Scratch Acid) è rientrato nel roster della Tou-<br />

ch & Go come membro dei Qui, il duo di Los Angeles a cui si è unito di<br />

recente alla voce; il secondo disco della band, Love’s Miracle sarà pub-<br />

blicato l’11 settembre e comprenderà le cover di Willie The Pimp di Zappa<br />

e Echoes dei Pink Floyd…<br />

I congolesi Kokono n. 1 (che appaiono sul nuovo Volta) e Joanna New-<br />

som apriranno due date americane dei concerti di Björk a inizio maggio;<br />

al link (http://unit.bjork.com/quicktime/video.html) una preview video del<br />

singolo Earth Intruders…<br />

È uscito in aprile My Fleeting House, DVD compilation di rare apparizioni<br />

video di Tim Buckley con interviste e commenti del coautore Larry Bec-<br />

kett, del chitarrista Lee Underwood e del biografo ufficiale David Browne;<br />

a questo link il trailer (http://www.youtube.com/watch?v=AHCccGEUMr0).<br />

Anche il figlio Jeff, in occasione del decennale della scomparsa - 29 mag-<br />

gio - sarà ricordato con due uscite: il best of So Real e il DVD Amazing<br />

Grace, documentario indipendente del 2004. Nessuna novità significativa<br />

riguardo il biopic tratto da Dream Brother, il libro di Browne sulle vite di<br />

padre e figlio, se non che il copione è stato affidato al regista indipendente<br />

Brian Jun…<br />

Tornano i Two Lone Swordsmen (Andrew Weatherall e Keith Tenniswood)<br />

con Wrong Meeting, in uscita il 15 maggio sulla label di Weatherall, Rot-<br />

ter ’s Golf Club…<br />

DVD in uscita il 10 luglio prossimo per i Flaming Lips: UFO’s At The Zoo:<br />

The Legendary Concert In Oklahoma conterrà l’intero concerto tenuto il<br />

15 settembre scorso allo Zoo Amphitheater di Oklahoma City…<br />

Potrebbe uscire già a ottobre il quarto album solista di Stephen Malkmus<br />

su Matador, in fase di ultimazione..<br />

Meg Baird degli Espers pubblicherà un disco solista, Dear Companion,<br />

in uscita in America su Drag City il 22 maggio e il 4 giugno in UK su Wichi-<br />

ta…<br />

Marissa Nadler è entrata nel roster della Kemado Records…


In occasione dei 25 anni del suo Womad, Peter Gabriel torna a luglio in<br />

Italia per ben quattro concerti: il 2 a Brescia, il 3 a Roma, il 5 ad Arezzo<br />

e il 6 a Venezia…<br />

Devendra Banhart sta lavorando al successore di Cripple Crow del 2005,<br />

prodotto insieme a Noah Georgeson; contribuiscono tra gli altri, Andy “Ve-<br />

tiver” Cabic e Otto Hauser degli Espers…<br />

Tornano i Devo in Italia dopo ben 17 anni di assenza, con due date il pros-<br />

simo giugno ( il 29 a Bergamo al Lazzaretto e il 30 ad Azzano Decimo alla<br />

Fiera della Musica). Al link immagini del tour dell’anno scorso (http://www.<br />

devo-obsesso.com/html/news_pgs/tour_06-1.html)...<br />

In collaborazione con All Tomorrow’s Parties, i Sonic Youth portano in<br />

tour, per Don’t Look Back, l’intero Daydream Nation in tre date italiane<br />

organizzate da DNA concerti, il 5 luglio a Torino (Spaziale Festival), il 6<br />

a Ferrara (Piazza Castello) e il 7 a Roma (Teatro Romano di Ostia Anti-<br />

ca)...<br />

I Police ricostituitisi in formazione originale suoneranno a Torino, al Delle<br />

Alpi il 2 ottobre, unica data italiana…<br />

Esce il 21 maggio un EP di 3 canzoni per Scout Niblett, su Too Pure…<br />

Dopo la grande popolarità acquisita in Cina dai Jennifer Gentle, il cui<br />

brano I Do Dream You è stato usato per uno spot tv sulla prevenzione<br />

dell’Aids, il gruppo padovano ha suonato lì una serie di date sold-out.<br />

Intanto si prepara per l’uscita del nuovo disco The Midnight Room, il 18<br />

giugno sempre su Sub Pop, con distribuzione italiana Audioglobe. Al link<br />

si vedono le immagini dello spot, con la musica della band, per invitare i<br />

giovani cinesi all’utilizzo del preservativo (http://www.youtube.com/watch<br />

?v=qDSTVHwkBZQ&mode=related&search=), e ancora immagini del loro<br />

tour (http://www.youtube.com/watch?v=zwCAGYqUE20)...<br />

I White Stripes saranno in Italia per due date in giugno, per promuovere<br />

il nuovo disco Icky Tump in uscita il 12 giugno su XL / Warner, il 6 giugno<br />

a Roma e il 7 a Milano all’Idroscalo…<br />

Per l’etichetta norvegese Smalltown Supersound uscirà il nuovo album di<br />

Sunburned Hand Of The Man intitolato Fire Escare, prodotto da Kieran<br />

Hebden aka Four Tet, il disco vedrà la luce in agosto…<br />

Jennifer Gentle<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


The Lights On...<br />

Dan Deacon<br />

Dan Deacon era un bimbo cicciot-<br />

tello che suonava trombone e tuba<br />

in una banda di Long Island. Non<br />

che oggi non sia buffo (visti gli oc-<br />

chiali che porta, però, credo se ne<br />

assuma la responsabilità), ma nel<br />

frattempo si è laureato al Purchase<br />

College di New York - una specie<br />

di super-scuola d’arte - ed è stato<br />

allievo del compositore e direttore<br />

d’orchestra Joel Thome - fondatore<br />

della Orchestra Of Our Time, con<br />

cui ha risuonato Zappa e Varèse<br />

(quest’ultimo vicino a Iannis Xe-<br />

nakis, riferimento che cita Deacon<br />

in prima persona).<br />

Il nostro si è poi trasferito a Bal-<br />

timora, con la scusa di aprire un<br />

collettivo con alcuni compagni<br />

dell’università; il risultato è sta-<br />

to l’aver infilato tre pubblicazioni<br />

da solista - composizioni elettro-<br />

niche, obviously - solo nel 2003,<br />

per la piccola Standard Oil Recor-<br />

ds. L’esordio, che raccoglie brani<br />

scritti fin dal liceo, si chiama Sil-<br />

ly Hat Vs. Egale Hat ed esce in<br />

aprile (6.0/10); gli segue, in mag-<br />

gio, Meetle Mice (6.3/10); chiude<br />

l’annata Goose On The Loose<br />

(6.0/10), a inizio dicembre.<br />

Dan ne esce come un compositore<br />

fresco, disinvolto e giovanile, qua-<br />

si (a parole) anti-colto; in Meetle<br />

Mice, per esempio, assembla una<br />

traccia (Aerosmith Permanent Va-<br />

cation 24162-2) che comprime<br />

tutto Permanent Vacation degli<br />

Aerosmith (!) in layer stratifica-<br />

ti. Ma la sostanza e la tecnica dei<br />

suoi lavori, nella maggior parte<br />

dei casi, possono essere colloca-<br />

te nel solco dei padri del minima-<br />

lismo. Le tastiere elettroniche, i<br />

vocoder, le sinusoidi che Dan usa<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

per comporre ci ricordano le tec-<br />

niche di LaMonte Young e Terry<br />

Riley, oltre che il frangente com-<br />

puter music del già citato Xenakis.<br />

Sembra di scorgere Riley, mentre<br />

si accarezza il pizzetto fiero del<br />

suo A Rainbow…, nella sovrappo-<br />

sizione di alcune melodie tastieri-<br />

stiche. Young, più concettualmen-<br />

te, emerge per la focalizzazione<br />

sul rapporto col pubblico, come<br />

ci conferma il successivo Green<br />

Cobra Is Awesome Verses The<br />

Sun, (Standard Oil, 2004), dove le<br />

“sine waves” utilizzate sono messe<br />

in lenta variazione, si “muovono”,<br />

con lo spostamento dell’ascoltato-<br />

re. (6.8/10). Ma Dan non sa cosa<br />

gli sta per succedere…<br />

Accade infatti che nel marzo 2004<br />

il nostro sia a metà delle 58 date<br />

della sua tournée in terra norda-<br />

mericana, ma l’auto dell’amico mu-<br />

sicista che lo accompagna si ferma<br />

e “muore”. Dan, che non ha la pa-<br />

tente, raccoglie le poche cose che<br />

può portare con sé e prosegue il<br />

tour a bordo di pullman (un’espe-<br />

rienza no limits, negli USA). È solo<br />

e ha un sacco di tempo per pensa-<br />

re. Deve, come si suole proferire,<br />

fare di necessità virtù. Ovvero il<br />

massimo con mezzi minimi. Un mo-<br />

mento, ma questo è minimalismo!<br />

Dan si trova allora a “concretiz-<br />

zare” giocoforza la sua idea mi-<br />

nimalista di musica nella propria<br />

esperienza. E, curiosamente, ciò<br />

avvicina le sue composizioni a una<br />

delle opzioni più massimaliste che<br />

può scegliere la musica: il ballo.<br />

Le prime avvisaglie si mostrano in<br />

Twacky Cats, EP uscito sempre nel<br />

2004 per la Comfort Stand (scari-<br />

cabile gratuitamente dal sito della<br />

label), dove spiccano le esilaranti<br />

Ohio e Lion With A Shark’s Head<br />

(6.5/10). Ma è sintomatico che sia<br />

la chiave “live” a dispiegare il cam-<br />

biamento in modo più definito.<br />

L’ultimo disco del Dan più legato ai<br />

retaggi di studio è proprio una re-<br />

gistrazione tratta da alcuni concer-<br />

ti passati (Live Recordings 2003,<br />

Standard Oil, 2004). Dopo di che,<br />

il suo stile concertistico si leviga in<br />

altri due anni passati a suonare in<br />

giro, a bordo di pullman. In questo<br />

periodo mette a punto il suo stile in<br />

presenza, inizia a zompettare (più<br />

che a danzare), canta mentre tra-<br />

sfigura la sua voce in timbri da car-<br />

tone animato o lunari, trascinando<br />

il pubblico nel suo ondeggiamento.<br />

Il tutto funziona. E allora nel 2006<br />

il nuovo corso (certo non del tutto<br />

stravolto rispetto al vecchio) inizia<br />

ufficialmente con l’EP Acorn Ma-<br />

ster (Psych-O-Path).<br />

È Dan stesso a rinfrancare le no-<br />

stre impressioni. “Ho capito che la<br />

musica elettronica era qualcosa di<br />

esoterico e io volevo evitare di es-<br />

serlo”, racconta, “volevo renderla<br />

il più divertente possibile, senza<br />

per questo cambiare il mio stile di<br />

composizione” (sentite a proposito<br />

Moses Vs. Predator). E lo fa tenen-<br />

do un passo a un tempo assurdista<br />

e umoristico, futuribile e scanzo-<br />

nato (6.8/10).<br />

Ma Acorn Master è l’antipasto, che<br />

prepara le papille a Spiderman Of<br />

The Rings (vedere spazio recen-<br />

sioni), prova del nove e primo vero<br />

caso, nel percorso di Deacon, a<br />

non suonare né come avanguardia<br />

sdoganata né come uno scimmiot-<br />

tamento dei suoi live.<br />

G a s p a r e C a l i r i


La classica. Nel 2006 il pianista<br />

extraordinarie Francesco Tristano<br />

Schlimé (Lussemburgo, 1981) in-<br />

cideva su disco il Concerto in Sol<br />

di Maurice Ravel e il Concerto Per<br />

Piano n. 5 di Sergei Prokof ’ev<br />

(Pentatone Classics, 2006). Il suo<br />

nome non era certo nuovo ai fre-<br />

quentatori abituali della classica,<br />

dato che a soli venti anni Trista-<br />

no si era cimentato con successo<br />

nell’interpretazione delle Varia-<br />

zioni Goldberg (Accord, 2002); a<br />

ventuno aveva registrato con T he<br />

New Bach Players i Concerti p er<br />

Clavicembalo di Bach (Accord,<br />

2002); e in seguito donato nuova<br />

risonanza ad alcune pagine m eno<br />

note del repertorio di Luciano Be-<br />

rio (penso alle Six Encores), c hé<br />

del maestro ligure il giovane t alen-<br />

to aveva registrato nel 2005 l’in-<br />

tegrale per piano (Sisyphe, 2005).<br />

Ma quel disco, oltre a contenere<br />

l’eccellente lettura dei concerti<br />

per piano di Ravel e Prokof ’ev,<br />

era il primo in cui poter ascoltare<br />

tre improvvisazioni composte d al<br />

pianista e ispirate ai due concer-<br />

ti. Sebbene nelle note esplicative<br />

del booklet venisse precisato c he,<br />

a rigore, nessuna improvvisazio-<br />

ne andrebbe registrata - perché<br />

vive solo nel e del momento in c ui<br />

viene eseguita -, e sebbene l’ar-<br />

tista non fosse certo nuovo alla<br />

composizione, era la prima volta<br />

che accadeva su disco. L’esigen-<br />

te uditorio della musica classica<br />

prendeva semplicemente atto.<br />

La dance. Sempre nel 2006, alla<br />

fine dell’anno, un brano si infiltra-<br />

va con insistenza tra le frequenze<br />

di certe radio. Sembrava Strings<br />

Of Life, il brano Detroit techno par<br />

The Lights On...<br />

Francesco Tristano<br />

excellence, quello portato al suc-<br />

cesso da Derrick May nel 1987,<br />

ma non si trattava esattamente di<br />

Strings Of Life. Perché a condurre<br />

il ritmo incalzante, quello sì rico-<br />

noscibile, era un pianoforte suo-<br />

nato divinamente. Da Chico, come<br />

lo chiamano gli amici. Ad accor-<br />

gersi di lui, stavolta, il pubblico<br />

danzante a ritmo di techno e hou-<br />

se - e i dj, che nei bag ospitavano<br />

fieri almeno una copia di quel 12<br />

pollici arricchito dai remix di Kiki<br />

ed Apparat (Infinè Music, 2006)<br />

- entrambi del giro BPitch Control,<br />

a completo agio con la sintassi<br />

della club culture il primo, legger-<br />

mente più rispettoso della rivisita-<br />

zione di Tristano, il secondo.<br />

Il jazz. Pur rivolgendo un orecchio<br />

distratto al particolare approccio<br />

alla tastiera di Tristano, non è dif-<br />

ficile realizzare di essere al co-<br />

spetto anche di un pianista jazz.<br />

“ Il jazz è morto, decretava quando<br />

avevo 12 anni, un eminente jazzi-<br />

sta, mio vecchio maestro”, scrive<br />

Tristano, “una frase che da allora<br />

non ha fatto che ossessionarmi”.<br />

E ancora: “Il jazz non ha mai ces-<br />

sato di reinventarsi ed è tutt’oggi<br />

capace di incorporare altri generi<br />

musicali, compresi quelli che ha<br />

contribuito a far nascere. Basterà<br />

tutto questo a procrastinarne la<br />

morte?”. La risposta, le risposte<br />

a questo interrogativo stanno tut-<br />

te negli innumerevoli progetti che<br />

Chico tiene in vita sin da adole-<br />

scente in ambito jazz-improv. Da<br />

solista, o con un’altra promessa<br />

del pianoforte, il libanese Rami<br />

Khalifé (nel duo Aufgang e nel col-<br />

lettivo dell’Aufgang Extended);<br />

con il trio Out Of Focus (Aaron<br />

Brown, violino e Kyle Sanna, chi-<br />

tarra), che, stanziato a New York,<br />

accosta a quello del jazz acusti-<br />

co il linguaggio della World Music<br />

(e della samba, da quando il per-<br />

cussionista Raimnudo Penaforte<br />

è della partita); e, ancora, dia-<br />

logando con la musica orientale<br />

grazie all’esperienza Tr iologues<br />

- un confronto con il contrabbasso<br />

di Jean-Daniel Hégé e le percus-<br />

sioni giapponesi di Haruka Fujii.<br />

Il samba, e alcune considerazioni.<br />

L’ultimo amore di Chico, in ordi-<br />

ne di tempo, si chiama samba. La<br />

collaborazione con Penaforte si fa<br />

più salda nel progetto 2 Minds 1<br />

Sounds: così si chiama anche il<br />

brano conclusivo di Not For Piano<br />

(vedi spazio recensioni), che non<br />

è il solo dell’album a respirare gli<br />

umori della danza brasiliana. Se<br />

c’è qualcosa di cui Tristano non<br />

difetta è di un’infinita e quasi pa-<br />

rossistica passione per la musica,<br />

che si estrinseca in un’indefessa<br />

ricerca della perfezione tecnico-<br />

formale, senz’altro, ma soprattut-<br />

to in un intelligente confronto con<br />

i generi meno prossimi alla dorata<br />

fortezza dell’Accademia. Proba-<br />

bilmente una simile eventualità<br />

non si darà mai, ma ci d ivertiamo<br />

ad immaginare la reazione di un<br />

purista della classica che ha par-<br />

ticolarmente apprezzato l’edizio-<br />

ne dell’integrale per piano di Be-<br />

rio all’ascolto di Strings Of Life.<br />

Fosse anche solo per il piacere<br />

procurato da un simile esperimen-<br />

to mentale, c’è davvero da inchi-<br />

narsi di fronte ad una t ale forza<br />

della natura.<br />

Vincenzo Santarcangelo<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9


The Lights On...<br />

Hetero Skeleton<br />

“Ti confido un segreto: noi in real-<br />

tà non sappiamo suonare. Per cui<br />

la parola migliore per definire la<br />

nostra musica è ‘improvvisazione’.<br />

Suoniamo e basta. Nessuna prova,<br />

nessuna second take, tutto succede<br />

una sola volta!”<br />

La maniera ironica, sincera (?!),<br />

diretta e spiazzante con la quale il<br />

batterista Petri Pirtilä mi descrive<br />

la musica dei “suoi” Hetero Skele-<br />

ton è perfettamente in sintonia con<br />

lo stile della band, quasi a voler<br />

sottolineare un’identità che è allo<br />

stesso tempo personale e musicale.<br />

La “simpatica violenza” con la qua-<br />

le questi cinque finlandesi irrompo-<br />

no sulla scena musicale grazie ad<br />

un contratto con una label di tutto<br />

rispetto come la Load, è più diretta<br />

di un cazzotto in faccia, zappiana-<br />

mente ironica nella sua estrema es-<br />

senzialità libertaria. Questa specie<br />

di circo rumorista, messo in piedi<br />

nel 2003 dagli stessi attuali compo-<br />

nenti, nasce dall’ascolto di Live-NY<br />

1980 dei Blue Humans (trio fonda-<br />

to dal chitarrista sperimentale Ru-<br />

dolph Grey, insieme al sassofonista<br />

Arthur Doyle e al batterista Beaver<br />

Harris: “da qualche cosa bisogna<br />

pur cominciare ed era esattamente<br />

quello che volevo suonare, ma na-<br />

turalmente è venuto fuori qualcosa<br />

di totalmente diverso, alla fine”.<br />

Qualcosa di così diverso da poter<br />

essere paragonato soltanto alle<br />

espressioni più estreme dell’ attuale<br />

panorama musicale. Tre riferimenti<br />

su tutti ci sono subito saltati alla<br />

mente: gli esperimenti post-grind<br />

di John Zorn, il free-jazz-core dei<br />

Flying Luttenbachers e il noise<br />

senza limiti dei Wolf Eyes. Il batte-<br />

rista degli Hetero Skeleton è d’ac-<br />

0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

cordo solo per metà con la mia os-<br />

servazione (“i Flying Luttenbachers<br />

e Zorn hanno un approccio troppo<br />

tecnico, mentre ai Wolf Eyes manca<br />

la parte divertente”) e preferisce ri-<br />

lanciare facendomi il suo elenco di<br />

nomi-ispirazione: Boredoms, Peter<br />

Brotzmann, Lighting Bolt, Bor-<br />

betomagus, Butthole Surfers (il<br />

nome della band prende spunto dal<br />

titolo di un brano di questi ultimi).<br />

Potremmo essere d’accordo con lui<br />

al 100 percento se non fosse che il<br />

risultato di queste influenze si per-<br />

de totalmente nel magma rumorista<br />

che mettono in scena: grindcore,<br />

noise, industrial fusi insieme con<br />

un’attitudine più punk del punk e<br />

un’estetica più attenta a colpire che<br />

a presentarsi accettabile. Prima di<br />

fare il grande passo alla Load, che<br />

si può ritenere la prima label a tutti<br />

gli effetti per gli Hetero Skeleton,<br />

la band aveva all’attivo solo regi-<br />

strazioni su cassetta e qualche cdr<br />

autoprodotto distribuito in un centi-<br />

naio di copie, tra i quali spicca Deep<br />

Inside Hetero Skeleon (2004): un<br />

free jazz (molto free e poco jazz)<br />

dal sapore garage-noise, in cui la<br />

fa da padrone il sax lamentoso e<br />

persistente di Sami Pekkola. Oltre<br />

alle irreperibili prove discografi-<br />

che, la loro breve carriera ha dato<br />

vita anche a una miriade di progetti<br />

paralleli altrettanto (se non di più)<br />

sconosciuti (Mohel, Killer Mchann,<br />

Hinageshi Bondage, Amon Dude,<br />

Inbred Retards, Taco Bells, Ava-<br />

rus). Insomma, una visibilità vera-<br />

mente scarsa, senza contare che la<br />

Finlandia non è proprio la capitale<br />

del noise! L’incontro con i tipi del-<br />

l’etichetta di Providence (tra le sue<br />

fila gente come OvO, i loro amati<br />

Lighting Bolt e USA Is A Monster) è<br />

stata la cosiddetta manna dal cielo:<br />

“Un amico di Arttu (Partinen, se-<br />

condo batterista della band) cono-<br />

sceva Mr. Load e gli ha fatto avere<br />

un nostro cdr. Lui ci ha contattati<br />

e ci ha offeto puttane, cocaina e<br />

un contratto discografico. Abbiamo<br />

scelto solo il contratto perchè sia-<br />

mo finlandesi e non usiamo droghe<br />

e donne”, continua scherzosamen-<br />

te Petri. È così che nasce En La<br />

Sombra Del Pajaro Velluto (PDF<br />

#30), che già dal titolo (“all’ombra<br />

dell’uccello peloso”) e dalla co-<br />

pertina (un collage di foto su uno<br />

sfondo verde pisello, che sembra<br />

la versione divertente di Reek Of<br />

Putrefaction dei Carcass) la dice<br />

già lunga sull’ironia dissacrante<br />

di Janne Martinkauppi (sax, voci,<br />

electronics), Juho Pätäri (chitarra,<br />

“l’unico tra noi che sa suonare un<br />

po’, ma è anche bravo a bluffare”)<br />

Sami Pekkola (sax tenore, chitar-<br />

ra) Arttu Partinen (batteria, voci,<br />

electronics) e Petri Pirtilä (batteria,<br />

voci, electronics). Musicalmente, è<br />

l’apoteosi del freak-jazz-noise, ma<br />

sarebbe alquanto riduttivo definire<br />

così un sound che aspira a schian-<br />

tarsi pesantemente sui timpani del-<br />

l’inconsapevole ascoltatore già dai<br />

primi cinque secondi di musica.<br />

Nessun tipo di compromesso, nes-<br />

suna tregua.<br />

Per molti (tra quelli che avranno<br />

il coraggio di ascoltarli) saranno<br />

semplicemente dei pazzi. Qualcuno<br />

li considererà geniali. Chi non cer-<br />

ca il compromesso, del resto, non<br />

si aspetta certo giudizi moderati.<br />

Loro dei giudizi sembrano fregarse-<br />

ne altamente.<br />

D a n i e l e F o l l e r o


È il tedesco Tobias Khun l’invisibi-<br />

le alchimista pop che già da quat-<br />

tro anni si cimenta in solitaria sotto<br />

la sigla Monta. Un nome buffo, ma<br />

gli alchimisti si sa, son fatti così:<br />

stravaganti. Come stravagante è il<br />

loro procedere sintetico. Prendono,<br />

studiano, soppesano e infine amal-<br />

gamano. A volte con risultati disa-<br />

strosi. Altre con esiti stupefacenti.<br />

A quest’ultima categoria corrispon-<br />

de la Grande Opera pop conseguita<br />

dal Nostro. Quel giusto dosare de-<br />

licatamente componenti antinomici<br />

ha finito per premiare quel duro<br />

lavoro, portando alla luce un raf-<br />

finato condensato indie-pop che,<br />

come la pietra filosofale, trasforma<br />

ogni cosa in pura emozione. Al suo<br />

interno troviamo dispiegate sottili<br />

trame cantautoriali che scaldano,<br />

solari melodie che si conficcano in<br />

testa inesorabilmente, timidi orpelli<br />

elettronici di una morbidezza uni-<br />

ca e nostalgiche derive vocali mai<br />

troppo cupe, il tutto condensato<br />

originalmente tramite un profondo<br />

lavoro di ricerca sonora. Sì, forse<br />

è proprio tale precisione stilistica il<br />

tratto più caratteristico di Khun, che<br />

fa si che facili smancerie non pren-<br />

dano mai il sopravvento. Ce lo pos-<br />

siamo immaginare preso anima e<br />

corpo intento a versare e mischiare<br />

parsimoniosamente elementi etero-<br />

genei in un’ampolla gorgogliante, le<br />

cui essenze profumano sia dei più<br />

titolati britannici aromi pop, sia di<br />

quelli derivanti dalle fonderie indie-<br />

rock statunitensi di più bassa lega.<br />

Il loro punto di contatto risiede pro-<br />

prio nella pacata formula musicale<br />

di questo teutonico dal cuore pop.<br />

Che per sensibilità romantica po-<br />

trebbe anche essere accostato ai<br />

suoi connazionali indietronici, ma<br />

l’assenza di quei fondali più netta-<br />

mente elettronici lo rende sempli-<br />

cemente pop.<br />

Dopo esser stato voce e chitar-<br />

re dei misconosciuti Miles, Khun<br />

ha esordito come Monta con l’EP<br />

Always Altamont (Rewika, 2003).<br />

In queste cinque canzoni che lo<br />

compongono sono già evidenti i<br />

tratti contraddistintivi della sua<br />

proposta. Is It Over e Sailor Needs<br />

The Wind rappresentano le canzoni<br />

che mancavano negli ultimi album<br />

pubblicati dal compianto Elliott<br />

Smith. È la loro ricercata semplici-<br />

tà che più colpisce positivamente:<br />

quell’arrangiare che non appesan-<br />

tisce dove ogni elemento sembra<br />

trovare la propria giusta collocazio-<br />

ne. Ovviamente molto in questo EP<br />

è lungi dall’esser definito perfetto.<br />

Anche se le canzoni sono soltanto<br />

cinque nel complesso il lavoro ri-<br />

sulta troppo eteroge<strong>neo</strong>: si passa<br />

dai succitati episodi che rappre-<br />

sentano un ideale incontro fra i<br />

Beatles e quel folk cantautoriale<br />

indipendente, alle più ovvie somi-<br />

glianze con i connazionali Notwist,<br />

fino a certe digressioni sperimen-<br />

tali di puro stampo dEUS. Manca<br />

ancora una presa di coscienza su<br />

quale strada intraprendere, ma una<br />

cosa risulta evidente fin da subito:<br />

il sublime gusto di Khun nel trovare<br />

nostalgiche melodie senza tempo.<br />

(6.3/10)<br />

Un anno più tardi, armato sempre e<br />

soltanto di pochi strumenti di base,<br />

ma con un gusto raffinato per gli<br />

arrangiamenti, Khun se ne esce<br />

con il suo album d’esordio: Where<br />

Circles Begin (Rewika, 2004). La<br />

critica più attenta colse fin da su-<br />

The Lights On...<br />

Monta<br />

bito la sua eccelsa sensibilità pop.<br />

Addirittura ci fu anche chi non si at-<br />

tardò a definire Monta come i Col-<br />

dplay tedeschi. Paragone che ci<br />

può stare soltanto se si spoglia la<br />

band di Chris Martin di tutto quel<br />

manierismo commerciale. Infatti il<br />

primo singolo estratto, I’m Sorry,<br />

riesce a risultare simultaneamente<br />

tanto orecchiabile e incisivo quan-<br />

to ricercato e misterioso nella sua<br />

sempre nuova epifania, che non si<br />

smetterebbe mai di ascoltarlo. Pro-<br />

prio questa immediatezza non trop-<br />

po invasiva, figlia appunto di una<br />

certosino lavoro di ricerca sonora,<br />

rende la musica di Monta in bilico<br />

perfetto tra leggerezza e profondi-<br />

tà, tra lo sbiadito e il colorato, tra<br />

l’evidente e l’imperscrutabile, tra il<br />

solare e il nostalgico. Una perfet-<br />

ta risultante di elementi eterogenei<br />

fusi insieme come soltanto un vero<br />

alchimista potrebbe fare. Le asso-<br />

nanze più evidenti sono ora quelle<br />

più propriamente pop, nobili e non,<br />

affiancate però da una più leggera<br />

attitudine indie-rock che oscilla tra<br />

gli Sparklehorse più intimi e i Dea-<br />

th Cab For Cutie. The Awakening<br />

riesce addirittura a evocare i Ra-<br />

diohead di The Bends. Il disco fila<br />

via leggero non senza però alcune<br />

cadute di tono. (6.7/10)<br />

Cadute di tono che invece non si<br />

registrano nel suo ultimo lavoro<br />

The Brilliant Masses (recensione<br />

sul PDF #30). L’album che consa-<br />

cra definitivamente come riuscito il<br />

percorso alchemico di Monta. Il suo<br />

pop è come un Elisir di lunga vita:<br />

una volta assimilato trasforma tut-<br />

to in quelle Masse brillanti evocate<br />

nel titolo del suo ultimo disco.<br />

A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


Battles<br />

NOT FIGHT, JUST HARD TALKIN’<br />

d i E d o a r d o B r i d d a<br />

Rapido Rewind negli anni Novanta. Quelli del math rock, mostro senza testa uscito dalla bile degli Slint. Poi foo-<br />

ting con Ian Williams attraverso riff serrati e sfilacciamenti. Don Caballero e Storm & Stress. Fino alla svolta dei<br />

2000 allo scoccare dei quali l’indie boy lascia baracca e burattini per ripensarsi e ricominciare. Finirà per ritro-<br />

vare se stesso, uguale e diverso, assieme a Tyondai Braxton e due fedelissimi con i quali, dopo tre anni di live e<br />

session, è arrivato a Mirrored. Non solo un debutto. Piuttosto uno di quegli album che cambiano le prospettive.<br />

Le reinventano, proprio come i Tortoise<br />

Matematico? Teorico? Seguace di<br />

Robert Fripp? Macché, nell’inter-<br />

vista a noi concessa via doppino,<br />

Ian Williams, pezzo da novanta<br />

del math-rock, ex punta di diaman-<br />

te dei Don Caballero e degli Storm<br />

& Stress, ci riassume la sua car-<br />

riera come un endless “tapping”.<br />

Fai un riff, lo metti in loop e poi un<br />

altro. E così via, ricorsivamente.<br />

Troppo modesto. Quello è il meto-<br />

do non la sostanza. La sostanza è<br />

il linguaggio. Un idioma maturato<br />

in seno all’hard rock senza baci-<br />

no (ma braccia) dei Don Caballero<br />

che ha trovato un momento disos-<br />

sato nel progetto parallelo Storm<br />

& Stress, per poi sublimarsi nelle<br />

placente cartilaginose di Ameri-<br />

can Don. Con quest’ultimo - defi-<br />

nitivo - sforzo ci troviamo nel 2000<br />

a tre zeri con un album-ponte per<br />

le sperimentazioni a venire, il pun-<br />

to focale delle rifrazioni del dopo,<br />

l’addio di Williams al gruppo che lo<br />

ha reso famoso e assieme un cor-<br />

pus di regole e costrutti predisposti<br />

a un dialogo possibile con il mon-<br />

do. L’album - che vede protagonisti<br />

tre quarti degli Storm & Stress e il<br />

sodale Damon Che alla batteria -<br />

è l’ultima spiaggia del rock di fine<br />

secolo, ma anche linea di confine<br />

con il feudo King Crimson, un ori-<br />

gami lontano dalle dialettiche har-<br />

dcore dimesse (ma ringhiose) dei<br />

Rodan, dagli squali di quel giugno<br />

del ’44, e i frangiflutti oceanici dei<br />

Dirty Three. American Don dunque<br />

come esperanto del post-rock, l’ol-<br />

tre math perché musica per sinapsi<br />

2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

che friggono, muscoli addomesti-<br />

cati alla circolarità, il minimalismo<br />

che si fa affare logorroico, eppure<br />

esperimento a rischio, prog in de-<br />

riva che si prepara all’archivio e<br />

non all’acquisizione orale.<br />

“A quel tempo provavamo a vede-<br />

re fino a dove potevamo spinger-<br />

ci con una mentalità e strumenti<br />

rockisti”, ammette Williams, “ora<br />

quest’approccio mi sembra limi-<br />

tante”. Così, al voltar del seco-<br />

lo, il chitarrista abbandona sia il<br />

gruppo madre sia il progetto col-<br />

laterale nato con l’amico Kevin<br />

Shea. “Motivi artistici, non perso-<br />

nali” afferma, biascicando un fare<br />

da nineties, tra pause, sbadigli e<br />

qualche frase buttata lì a mo’ di riff<br />

verbale. Tuttavia non deve essere<br />

stato facile trovarsi per strada alla<br />

ricerca di un lavoro qualunque per<br />

sostentarsi. Poco dopo, Williams<br />

lo stralunato rimette la catena ap-<br />

posto, s’inventa un job come video<br />

editor e chiama un po’ di gente per<br />

suonare, non sbarbi qualunque,<br />

tipi con esperienza di verbi vicini<br />

e lontani. Conosce Tyondai Bra-<br />

xton - figlio d’arte (indovinate di<br />

chi..) - uno che come lui va matto<br />

per loop ed echoplex, uno anima-<br />

to dalla sua stessa propensione<br />

in devoluzione nei confronti delle<br />

strofe e dei ritornelli, nonché l’uo-<br />

mo delle electronics (“un aspetto<br />

importante che la mia esperienza<br />

nel campo del video ha contribuito<br />

a far crescere”, ammette). Poi, in<br />

traiettoria capita il chitarrista John<br />

Stanier, già Helmet e Tomahawk<br />

(quelli del Mike Patton e Denison),<br />

batterista tosto abbastanza da non<br />

far rimpiangere la fisicità di Damon<br />

Che. Infine il tessitore/uomo spon-<br />

da, ovvero Dave Konopka, anche<br />

lui figlio di altre lupe (alle spalle<br />

i Lynx, gruppo per certi versi vici-<br />

no ai Don Caballero), una bassista<br />

e assieme buona seconda chitar-<br />

ra di ricamo a bordocampo. Sono<br />

nati i Battles, un ensemble di hard<br />

talkin’ estempora<strong>neo</strong> alla ricerca di<br />

slang. Ma quali? “Non avevo idea<br />

di cosa sarebbe successo, doveva<br />

essere nuovo ma non sapevo quale<br />

direzione avrebbe preso il sound”.<br />

Ian non è uno di molte parole, get-<br />

ta i ragazzi in pasto alla sala prove<br />

senza… “beh, senza nessun di-<br />

scorso, a dire il vero”. Comprensi-<br />

bile in loro un certo spaesamento.<br />

D’altro canto, si trovano di fronte<br />

il contorno di un trentenne dispo-<br />

sto a cambiare senza rinnegare il<br />

passato, pronto a mettersi in gioco<br />

con una mentalità diversa, magari<br />

dandola vinta al sound aperto dei<br />

Tortoise di Millions Now Living (e<br />

del disco di remix Rhythms, Reso-<br />

lutions & Clusters) e rinnegando,<br />

senza patemi, il pensiero da “pro-<br />

grammatore di sistemi rock” à la<br />

What Burn Never Returns.<br />

Da lì anche la scelta di Tyondai,<br />

John e Dave, ragazzi provenienti<br />

da background diversi, tutt’altro<br />

che kid adulanti cresciuti a pane<br />

e Slint. “Avevo in mente tante<br />

idee assurde”, dichiara ridendo<br />

Williams, “tuttavia in poco tempo<br />

siamo arrivati a una session be


nedetta dove registrammo l’intero<br />

materiale che è stato pubblicato,<br />

tra il 2004 e il 2005, nei tre EP a<br />

firma Battles” (verranno raccolti,<br />

un anno dopo, in un doppio CD<br />

dalla label Warp). Tutto in un’uni-<br />

ca session, mica male per uno che<br />

non sapeva dove battere la testa.<br />

E poi via con i live, in presa di-<br />

retta come in studio, come accade<br />

nei nove minuti di SZ2 (B EP, Dim<br />

Mak): un rilascio nervoso/dimes-<br />

so à la Storm & Stress che trova<br />

prima una chitarra hardcore in av-<br />

vicinamento perimetrico, poi rei-<br />

terazioni minimaliste in costante<br />

stuzzico al ringhiare della seconda<br />

sei corde. I Battles costruiscono<br />

bio-meccaniche i cui ingranaggi<br />

vengono sostituiti e riassemblati<br />

in streaming, in libertà. La calco-<br />

latrice non viene rinnegata, ma in<br />

campo ci sono almeno un paio di<br />

antidoti: piccoli esperimenti da un<br />

minuto dove c’è giusto l’idea di un<br />

mood, un giro di orologio da polso,<br />

e l’uso dell’elettronica, sicuramen-<br />

te il più valido rimedio ai possibi-<br />

li vicoli ciechi di American Don.<br />

Non occorre un genio per capire<br />

che è Tyondai Braxton il contralta-<br />

re del chitarrista dinoccolato, del<br />

resto il buon esordio The Violent<br />

Light Through Fall del 2002 - tra<br />

esperimenti free, reverse, rhythms<br />

electro ma anche post-rock, psych<br />

e melodia… - e la collaborazione<br />

con i Parts & Labour, già eviden-<br />

ziavano l’estro e soprattutto la ver-<br />

satilità del personaggio. L’esempio<br />

più significativo tra queste prime<br />

session è sicuramente Bttls (B<br />

EP): dialogo tra colpi sordi di jack<br />

stile Mika Vainio e calibrati bruli-<br />

chii di distorsori. “Abbiamo iniziato<br />

a suonare assieme perché erava-<br />

mo ciascuno fan dell’altro. Tyondai<br />

era a tutti i miei concerti in solo e<br />

viceversa!”, afferma Williams. As-<br />

sieme i due rappresentano la com-<br />

ponente più inventiva del combo,<br />

con Stainer e Konopka a giocare<br />

in struttura (o di sponda). Un ruolo<br />

non facile per quest’ultimi: “ci tro-<br />

vavamo in questo splatter-paint art<br />

project il cui unico punto acquisito<br />

era non ripetere i Don Caballero e<br />

come se non bastasse Williams se<br />

ne veniva fuori con quelle idee folli<br />

come il coro femminile, le musiche<br />

stile Ligeti di Odissea nello Spa-<br />

zio ecc.”, affermano recentemente<br />

i due nella rivista “Xlr8r”. Fortu-<br />

natamente, non prendono posizio-<br />

ni in opposizione, fortificando il<br />

quadrilatero invece di minarlo alla<br />

base, un connubio che nel frattem-<br />

po pare mancare ai progetti dell’ex<br />

compagno di Williams negli Storm<br />

& Stess, Kevin Shea, indaffarato in<br />

una decina di progetti, anch’essi<br />

free (tra cui il buon Talibam!) ma<br />

dal futuro decisamente più preca-<br />

rio.<br />

Del resto, i Battles potendo con-<br />

tare su una strumentazione wave-<br />

rock (macchine e strumenti) e su<br />

un incrocio di sonorità “white” e<br />

“black”, tra intrecci puliti di cor-<br />

de e ritmi caldi (e persino caraibi-<br />

ci), diventano presto un gioco sul<br />

quale scommettere tutte le fiches.<br />

Dance (B EP), ad esempio, dà se-<br />

gnali importanti: un quasi funk ine-<br />

dito per l’ex Storm & Stress, inoltre<br />

electronics, voce encodata, battito<br />

serrato e chitarre in contrappun-<br />

to (e loop). Ancora meglio fa Tras<br />

(Tras EP, Cold Sweat, 2004), altro<br />

funkaccio deciso (e liquori mellow<br />

elettronici). L’affare, dunque, è a<br />

quattro. Quattro cavalli di razza<br />

che fanno quasi rock, anzi “rock<br />

senza avere un cantante” (come<br />

dichiarerà Braxton più in là), ed<br />

è in quest’ottica del “quasi” che il<br />

tastierista ama descrivere l’open<br />

band: quasi qualcosa - o se pre-<br />

ferite metà qualcos’altro. Eppure,<br />

pur figlio di un free jazzer, è an-<br />

cora lui a optare per le strutturare<br />

attraverso mood o temi conduttori.<br />

Braxton versus Williams. Realismo<br />

fotografico versus pittura astratta.<br />

Altra dinamica vincente e bomba<br />

ad orologeria micidiale piazzata su<br />

B+T (C EP, Monitor, 2004), faville<br />

tortoisiane e movenze Teatro No,<br />

gioia dei fan che crescono ben al<br />

di là dei confini della Grande Mela,<br />

act dopo act.<br />

Siamo arrivati in corsa fin qui, al<br />

presente, lasciandoci trasportare<br />

dall’urgenza di raccontarvi la ge-<br />

nesi di un esordio che si farà ri-<br />

cordare a lungo. Il 18 maggio esce<br />

Mirrored (vedere spazio recen-<br />

sioni), un album figlio di session<br />

densissime fatto di corsi e ricorsi,<br />

mood pop e scenografie ad ampio<br />

spettro. Neo-Prog? Post-Rock Re-<br />

vival? Troppo poco: i Battles sono<br />

i Tortoise dei 2000.<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


Hometapes<br />

d i D a n i e l e F o l l e r o<br />

Due coniugi, ex compagni di studi alla facoltà di architettura<br />

uniti dalla passione per il design e la musica<br />

a 360 gradi. Una vita insieme cominciata suonando<br />

hardcore nella loro città natale, Savannah, in Georgia,<br />

fino a decidere di fondare un’etichetta per provare a<br />

vivere con la musica, ma senza riuscirci<br />

appieno, almeno finora.<br />

S t o r i e d i o r d i n a r i a a u t o g e s t i o n e .<br />

I r a c c o n t i d i A d a m e S a r a P a -<br />

d g e t t r i f l e t t o n o l ’ e s s e n z a d e l -<br />

l a m u s i c a i n d i p e n d e n t e c o n l a<br />

I m a i u s c o l a , b a s a t a p i ù s u f o r t i<br />

l e g a m i d i a m i c i z i a e f i d u c i a r e -<br />

c i p r o c a c h e s u f e r r e e r e g o l e d i<br />

m e r c a t o . L a H o m e t a p e s n a s c e<br />

s u l l a b a s e d i q u e s t e p r e m e s s e ,<br />

a g l i a l b o r i d e l n u o v o m i l l e n n i o ,<br />

c o m e u n a s c o m m e s s a , q u e l l a p i ù<br />

d i f f i c i l e : f a r e e p r o d u r r e m u s i c a<br />

s e n z a c o m p r o m e s s i . M a H o m e t a -<br />

p e s n o n f a r i m a s o l o c o n m u s i c a .<br />

L’ a r t e v i s i v a è u n a l t r o e l e m e n -<br />

t o f o n d a m e n t a l e d e l l a c o n c e z i o -<br />

n e e s t e t i c a d e l l a g i o v a n e l a b e l<br />

a m e r i c a n a , d a p o c o m i g r a t a d a l -<br />

l a c a o t i c a F l o r i d a a l l e t r a n q u i l l e<br />

m o n t a g n e d e l C o l o r a d o . L a c u r a<br />

d e l p a c k a g i n g e l a p r o m o z i o n e<br />

d i a r t i s t i f i g u r a t i v i è u n e l e m e n -<br />

t o i m p r e s c i n d i b i l e d e l l ’ a p p r o c c i o<br />

“ a p e r t o ” e a l l - i n c l u s i v e d i A d a m<br />

e S a r a . U n a f i l o s o f i a p r o d u t t i v a<br />

c h e n o n m i r a a l l a “ g r a n d e u s c i -<br />

t a ” , m a c h e , a l c o n t r a r i o , c i t i e n e<br />

a c o s t r u i r e u n c a t a l o g o c o e r e n -<br />

t e , c h e m e t t a a l c e n t r o l a l a b e l<br />

i n q u a n t o l u o g o d i m e d i a z i o n e<br />

e i n c o n t r o t r a a r t i s t i e p r o d u t t o -<br />

r i . U n l a b o r a t o r i o f a t t o i n c a s a ,<br />

d o v e s t a r s y s t e m e m a r k e t i n g<br />

s o n o s o l o p a r o l e v u o t e e d o v e<br />

c o n t a n o l a f a n t a s i a , i l c o r a g g i o<br />

e l a v o g l i a d i e s s e r e d i s p o s t i a<br />

s g o b b a r e m a t t i n a e s e r a p e r r e a -<br />

l i z z a r e i l p r o p r i o o b i e t t i v o : l ’ a u -<br />

t o n o m i a . La consapevolezza di<br />

ciò è chiara nelle parole di Adam e<br />

Sara, disponibili e contenti di rac-<br />

contarci la storia della loro crea-<br />

tura, tra difficoltà quotidiane, vec-<br />

chi e nuovi amici e un futuro che<br />

si prospetta più intenso che mai.<br />

4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

Q u a n d o è n a t a H o m e t a p e s e<br />

c o m e ?<br />

L’ e t i c h e t t a è n a t a u f f i c i a l m e n t e<br />

n e l 2 0 0 3 , q u a n d o a b b i a m o p r o -<br />

d o t t o i l c d d i P a u l D u n c a n , To<br />

A n A m b i e n t H o l l y w o o d , e i l 1 2 ”<br />

d i S h e d d i n g , N o w I ’ m S h e d d i n g ,<br />

m a s i a m o s t a t i u n ’ e n t i t à c r e a t i v a<br />

i n a t t i v i t à g i à p r i m a d i q u e l l ’ a n -<br />

n o . A t t o r n o a l 2 0 0 0 a b b i a m o i n -<br />

f a t t i c o m i n c i a t o a p r o d u r r e C D - R<br />

i n e d i z i o n e l i m i t a t a c o n p a c k a -<br />

g i n g f a t t i a m a n o c h e v e n d e v a m o<br />

“ o n t h e r o a d ” q u a n d o e r a v a m o i n<br />

t o u r c o n l a n o s t r a v e c c h i a b a n d<br />

h a r d c o r e , To D r e a m O f A u t u m n .<br />

Q u a n d o i l g r u p p o s i è s c i o l t o ,<br />

n e l 2 0 0 1 , a b b i a m o c o n t i n u a t o<br />

a l a v o r a r e s u p i c c o l e r e l e a s e .<br />

A d a m s u o n a v a m u s i c a c o n a m i -<br />

c i ( i n p a r t i c o l a r e R o b e r t o L a n g e<br />

e P a u l D u n c a n ) e n o i , i n q u e s t e<br />

o c c a s i o n i v e n d e v a m o i c d d e l l e<br />

l o r o r e g i s t r a z i o n i p i ù r e c e n t i c o n<br />

u n b a n c h e t t o d e l m e r c h a n d i s i n g .<br />

È s t a t o q u a n d o a b b i a m o a s c o l -<br />

t a t o l a m u s i c a d i P a u l D u n c a n<br />

e s u c c e s s i v a m e n t e d i S h e d d i n g<br />

c h e a b b i a m o d e c i s o d i a z z a r d a r e<br />

d i c o n f e z i o n a r e i d i s c h i i n q u a n -<br />

t i t à m a g g i o r e , c e r c a n d o d i m a n -<br />

t e n e r e e a c c r e s c e r e l a n o s t r a a t -<br />

t e n z i o n e p e r l e a r t i v i s i v e e p e r<br />

l a m a g i a d e l p a c k a g i n g i n s é .<br />

C h i h a f o n d a t o l a l a b e l ?<br />

N o i d u e , c i o è A d a m H e a t h c o t t e<br />

S a r a P a d g e t t . S t i a m o i n s i e m e d a<br />

q u i n d i c i a n n i e a b b i a m o d a p o c o<br />

f e s t e g g i a t o i n o s t r i p r i m i d i e c i<br />

a n n i d i m a t r i m o n i o . L a n o s t r a<br />

r e l a z i o n e c r e a t i v a è c o m i n c i a t a<br />

i m m e d i a t a m e n t e ( g i à d a l l i c e o ) ,<br />

q u a n d o a b b i a m o i n i z i a t o s c r i t t u -<br />

r a n d o b a n d d a f a r s u o n a r e a L i t -<br />

ordinaria autonomia<br />

t l e R o c k , A R , f a c e n d o c i l a n o s t r a<br />

f a n z i n e e a n d a n d o i n g i r o i n t o u r<br />

p e r q u a t t r o a n n i c o n To D r e a m<br />

O f A u t u m n . A b b i a m o s t u d i a t o e n -<br />

t r a m b i a r c h i t e t t u r a , s o u n d e f o -<br />

t o g r a f i a a S a v a n n a h e c i s i a m o<br />

p o i s p o s t a t i p e r q u a l c h e a n n o<br />

a M i a m i d o v e a b b i a m o v i s s u t o<br />

t r a a m i c i ( t r a c u i l a b a n d F e a -<br />

t h e r s ) , n u o v i l a v o r i p e r c a m p a r e<br />

e u n ’ e t i c h e t t a d i s c o g r a f i c a c h e<br />

c o m i n c i a v a a c r e s c e r e .<br />

P e r c h é a v e t e s c e l t o i l n o m e H o -<br />

m e t a p e s ? S i r i f e r i s c e a u n ’ i d e a<br />

p r e c i s a d i f a r e m u s i c a ?<br />

I l n o m e H o m e t a p e s c e l o h a s u g -<br />

g e r i t o i l n o s t r o a m i c o A d a m W i l -<br />

l s ( A d a m s u o n a s p e s s o c o n g l i<br />

E s s e n t i a l i s t d i R h y s C h a t h a m e<br />

c o n i B e a r I n H e a v e n , c h e h a n n o<br />

a p p e n a f i r m a t o p e r n o i ) , i n u n o<br />

s t u d i o d i r e g i s t r a z i o n e a S a v a n -<br />

n a h . S t a v a m o l a v o r a n d o a u n o<br />

d e i n o s t r i p r i m i C D - R e a v e v a m o<br />

b i s o g n o d i u n n o m e . C i p i a c q u e<br />

i l s u o n o d i q u e l l a p a r o l a , c h e r i -<br />

c h i a m a u n ’ a t t i t u d i n e d i r e t t a m e n -<br />

t e r e l a z i o n a t a a l m o d o i n c u i n o i<br />

e i n o s t r i a r t i s t i l a v o r i a m o : a u n<br />

l i v e l l o m o l t o s i n c e r o e p e r s o n a -<br />

l e . I n o s t r i p r i m i d i s c h i e r a n o<br />

h o m e - t a p e s n e l s e n s o l e t t e r a l e<br />

d e l t e r m i n e : e r a n o s c r i t t i e r e -<br />

g i s t r a t i i n s t u d i f a t t i i n c a s a d a<br />

P a u l ( D u n c a n ) e C o n n o r ( B e l l ,<br />

a k a S h e d d i n g ) . I l r e s t o l o a b b i a -<br />

m o f a t t o c o n l e n o s t r e m a n i n e l -<br />

l ’ a p p a r t a m e n t o c h e a v e v a m o a<br />

S a v a n n a h . D a a l l o r a , l a m u s i c a<br />

e i l l a v o r o g r a f i c o s o n o s t a t i r e a -<br />

l i z z a t i i n m o d i e l u o g h i d i v e r s i ,<br />

m a , a l l a f i n e d e l l a g i o r n a t a , t u t -<br />

t o t o r n a a l l a m i s s i o n e p e r s o n a l e<br />

d i o g n u n o d i n o i d i c r e a r e q u a l -


c o s a d i i m p o r t a n t e d a a s c o l t a r e ,<br />

m a n e g g i a r e e g u a r d a r e . L a l a b e l<br />

f u n z i o n a u n p o ’ c o m e u n a f a m i -<br />

g l i a , i n q u e s t o s e n s o .<br />

Q u a l è s t a t a l ’ i d e a p r i n c i p a l e<br />

c h e v i h a s p i n t i a f o n d a r e u n a<br />

l a b e l ?<br />

S e m p l i c e : n o i e i n o s t r i a m i c i<br />

s t a v a m o f a c e n d o m u s i c a e a r t e<br />

e v o l e v a m o c o n d i v i d e r l e c o n i l<br />

r e s t o d e l m o n d o .<br />

I l v o s t r o a p p r o c c i o a l l a m u s i c a<br />

a t t r a v e r s a r o c k p r o g r e s s i v e ,<br />

i m p r o v v i s a z i o n e e m u s i c a e l e t -<br />

t r o n i c a . Q u a l è i l l e g a m e c h e<br />

a v e t e c o n q u e s t e m u s i c h e ?<br />

P e n s i a m o c h e l a n o s t r a m u s i c a<br />

i n c l u d a u n p o ’ t u t t o . E s s e n z i a l -<br />

m e n t e t i r i a m o f u o r i l a m u s i c a<br />

c h e p i ù c i p i a c e , f a t t a d a l l a g e n -<br />

t e c h e c i p i a c e . P r o g , i m p r o v e d<br />

e l e t t r o n i c a s o n o g e n e r i c h e c i<br />

a p p a r t e n g o n o , e c c o m e . M a a d o -<br />

r i a m o a n c h e i l m e t a l , l ’ h i p h o p ,<br />

i f i e l d r e c o r d i n g s , i l c o u n t r y e i l<br />

b u o n v e c c h i o r o c k ’ n ’ r o l l !<br />

C o m e m a i v i s i e t e s p o s t a t i d a l -<br />

l a F l o r i d a a l C o l o r a d o ? È c a m -<br />

b i a t o q u a l c o s a p e r i l v o s t r o<br />

l a v o r o a s e g u i t o d i q u e s t o t r a -<br />

s f e r i m e n t o ?<br />

I l m o t i v o è s t a t o i l l a v o r o d i<br />

A d a m d a C r i s p i n P o r t e r + B o -<br />

g u s k y ( u n ’ a g e n z i a d i d e s i g n ) :<br />

q u a n d o a n n u n c i a r o n o c h e a v r e b -<br />

b e r o a p e r t o u n n u o v o u f f i c i o a<br />

B o u l d e r, n e l C o l o r a d o , A d a m f u<br />

i l p r i m o a f a r s i a v a n t i . S i a m o<br />

s t a t i a M i a m i p e r d u e c a o t i c i e<br />

i m p e g n a t i s s i m i a n n i e c i c o m i n -<br />

c i a v a a m a n c a r e q u a l c o s a c h e<br />

a v e v a m o a m a t o d i S a v a n n a h e<br />

d e l l a n o s t r a c i t t à n a t a l e , L i t t l e<br />

R o c k , i n A r k a n s a s . L a v i t a a M i a -<br />

m i s i è r i v e l a t a m o l t o c o s t o s a e<br />

a v o l t e i m p r e v e d i b i l e ( a b b i a m o<br />

v i s s u t o d u e s t a g i o n i d i u r a g a n i ,<br />

a f f r o n t a n d o s e t t i m a n e d ’ i n f e r n o<br />

d u r a n t e l e q u a l i è s t a t o a n c h e<br />

d a n n e g g i a t o i l n o s t r o u f f i c i o ) .<br />

C i a b b i a m o p e n s a t o m o l t o p r i m a<br />

d i a n d a r c e n e , m a l a p r o s p e t t i -<br />

v a d e l l e m o n t a g n e e d i c i t t à p i ù<br />

v i v e m u s i c a l m e n t e c o m e D e n -<br />

v e r e B o u l d e r, c i h a i n f u s o e n -<br />

t u s i a s m o e s p e r a n z a … e n o n n e<br />

s i a m o a n c o r a r i m a s t i d e l u s i ! C i<br />

p i a c e m o l t o v i v e r e i n C o l o r a d o e<br />

q u i S a r a p u ò d e d i c a r s i a t e m p o<br />

p i e n o a H o m e t a p e s . Q u e s t o h a<br />

f a t t o u n ’ e n o r m e d i f f e r e n z a .<br />

V i s i e t e d a t i u n o b i e t t i v o p r e -<br />

c i s o ? Q u a l i s o n o l e m a g g i o r i<br />

d i f f i c o l t à c h e a v e t e i n c o n t r a t o<br />

a d e s s e r e u n ’ e t i c h e t t a i n d i p e n -<br />

d e n t e n e g l i U . S . A . ?<br />

Q u a n d o è n a t a H o m e t a p e s c i s i a -<br />

m o d a t i d e l l e r e g o l e t u t t e n o s t r e .<br />

A b b i a m o d e c i s o c h e a v r e m m o<br />

a v u t o u n a r t i s t a f i g u r a t i v o p e r<br />

o g n i n o s t r a u s c i t a d i s c o g r a f i c a ,<br />

d a p r o m u o v e r e i n s i e m e a i n o s t r i<br />

m u s i c i s t i , e c h e n o n a v r e m m o<br />

m a i p r o d o t t o u n d i s c o i n u n c o -<br />

f a n e t t o p e r i g i o i e l l i . I n o l t r e , s t a -<br />

b i l i m m o c h e o g n i c o s a , d a i n o i o -<br />

s i c o m u n i c a t i a l s i t o i n t e r n e t , l i<br />

a v r e m m o f a t t i d a n o i : H o m e t a -<br />

p e s , A d a m e S a r a . S i a m o p e r -<br />

f e z i o n i s t i e p i e n i d i i d e e e g r a n<br />

p a r t e d e l l a n o s t r a i s p i r a z i o n e<br />

n o n v i e n e d a l l a s c e n a m u s i c a l e .<br />

A m i a m o i l d e s i g n ( a r c h i t e t t u r a ,<br />

t i p o g r a f i a ) e q u e s t a d e v o z i o n e<br />

h a m i g l i o r a t o l a q u a l i t à d i t u t t o<br />

c i ò c h e f a c c i a m o .<br />

E c o s ì , c o n s e g u e n t e m e n t e a q u e -<br />

s t a s t o r i a d i d e v o z i o n e - f i n o - a l l a -<br />

p a z z i a , c i i n s e r i a m o n e l l a s c e n a<br />

i n d i e a m e r i c a n a c o n u n l i v e l l o d i<br />

i d e a l i s m o c h e s p e s s o p a s s a s o t -<br />

t o s i l e n z i o , i n o s s e r v a t o . L e l e n -<br />

t e v e n d i t e , l a m a n c a n z a d i c o v e r<br />

p e r c e r t o m a t e r i a l e d e d i c a t o a l l a<br />

s t a m p a e l a c a p r i c c i o s a m a c c h i -<br />

n a d e l m e r c a t o , p o s s o n o d i s t r u g -<br />

g e r t i d a l l ’ i n t e r n o . C ’ è i n v e c e u n a<br />

f o r m u l a m a g i c a p e r u n s u c c e s s o<br />

s o s t e n i b i l e e n o i l a v o r i a m o g i o r -<br />

n o p e r g i o r n o c o n i n o s t r i a r t i s t i<br />

p e r r a g g i u n g e r e q u e s t o p u n t o .<br />

C ’ è s t a t o q u a l c u n o c h e v i h a<br />

a i u t a t o a d a v v i a r e i l v o s t r o<br />

p r o g e t t o ?<br />

N o n a b b i a m o a v u t o u n a g u i d a s u<br />

c o m e f a r e l e c o s e , s e è q u e s t o<br />

c h e i n t e n d i : a b b i a m o f a t t o t u t t o<br />

d a s o l i p e r m o l t o t e m p o e p i a n<br />

p i a n o a b b i a m o t r o v a t o i l n o s t r o<br />

m o d o p e r s o n a l e d i d i v e n t a r e<br />

u n a “ v e r a l a b e l ” , s e n z a d e l u s i o -<br />

n i e a t t a c c h i d i c u o r e . C i r e n -<br />

d e m m o s u b i t o c o n t o c h e , p e r i<br />

n o s t r i i d e a l i p o c o c o n t r a t t a b i l i ,<br />

p e r i l f a t t o c h e f o s s i m o g l i u n i -<br />

c i a d a v e r i n v e s t i t o n e l l a l a b e l ,<br />

m a a n c h e a c a u s a d i u n a p o s i -<br />

z i o n e g e o g r a f i c a u n p o ’ d i s l o c a -<br />

t a , a v r e m m o d o v u t o f a t i c a r e p e r<br />

g u a d a g n a r c i i l p a n e .<br />

L a v o r i a m o d u r o p e r f a r c o n o s c e -<br />

r e H o m e t a p e s i l p i ù p o s s i b i l e e<br />

c i r e n d i a m o c o n t o c h e l a n o s t r a<br />

f a t i c a s t a d a n d o i s u o i f r u t t i . L a<br />

g e n t e c i c o n o s c e n o n p e r q u a l -<br />

c h e “ g r a n d e u s c i t a ” ( i n r e a l t à<br />

n o n n e a b b i a m o m a i a v u t o u n a<br />

c h e s i p o t e s s e r i t e n e r e t a l e ) m a<br />

p e r i l c a t a l o g o , c h e a b b i a m o c u -<br />

r a t o c o n c u r a m e t i c o l o s a .<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

Pattern Is Movement


Q u a l è i l r a p p o r t o c o n l e b a n d<br />

d e l l a v o s t r a e t i c h e t t a ? C o m e<br />

l a v o r a t e c o n l o r o ?<br />

A b b i a m o r a p p o r t i m o l t o s t r e t t i<br />

c o n t u t t e l e b a n d d e l l a H o m e t a -<br />

p e s . S i a m o t u t t i a m i c i , i n p r i m o<br />

l u o g o . S e g u i a m o q u e s t o i m p e -<br />

g n o a t t r a v e r s o u n a c o m u n i c a z i o -<br />

n e c o s t a n t e , v i a m a i l , t e l e f o n o<br />

o m e s s a g g i i s t a n t a n e i . C i s o n o<br />

g i o r n i i n c u i p a r l i a m o c o n t u t t i !<br />

L a s c i a m o c h e s i a n o i g r u p p i a<br />

d e t t a r c i l e s c h e d e p e r p r e s e n t a -<br />

r e l e l o r o n u o v e u s c i t e . L a n o s t r a<br />

p r i o r i t à è i l l o r o s u c c e s s o c r e a t i -<br />

v o ( e , d i c o n s e g u e n z a , i l n o s t r o )<br />

e n o n v o g l i a m o i n n e s s u n m o d o<br />

f o r z a r e q u e s t o p r o c e s s o .<br />

S i e t e d i s t r i b u i t i s o l o n e g l i<br />

U . S . A . o a n c h e i n E u r o p a ? D i<br />

f a t t o n o n i n I t a l i a …<br />

A l l a f i n e d e l 2 0 0 5 H o m e t a p e s h a<br />

c o m i n c i a t o a d u s c i r e d a g l i S t a -<br />

t e s a t t r a v e r s o u n a c o m p a g n i a<br />

b r i t a n n i c a c h i a m a t a F o r t e . L o r o<br />

h a n n o l a v o r a t o p e r d i s t r i b u i r e i<br />

n o s t r i d i s c h i i n t u t t a E u r o p a e<br />

c i p i a c e l a v o r a r e c o n l o r o m e n -<br />

t r e c r e s c o n o e s i s t a b i l i z z a n o<br />

c o m e r e a l t à . S t i a m o p r o v a n d o<br />

a d e s p a n d e r c i i n E u r o p a a n c h e<br />

c o n i l n o s t r o r o s t e r : l ’ e s t a t e<br />

s c o r s a a b b i a m o s c r i t t u r a t o g l i<br />

S l a r a f f e n l a n d , u n a b a n d d a n e -<br />

s e . I l l o r o n u o v o a l b u m , P r i v a t e<br />

C i n e m a , u s c i r à i n S c a n d i n a v i a<br />

e m o l t i a l t r i p a e s i e u r o p e i p e r<br />

l a d a n e s e R u m r a k e t , g e s t i t a d a<br />

R a s m u s S t o l b e r g d e g l i E f t e r k -<br />

l a n g . S p e r i a m o c h e q u e s t o a i u t i<br />

l a g e n t e a f a m i l i a r i z z a r e c o n H o -<br />

m e t a p e s : i l n o s t r o s c o p o u l t i m o<br />

è d i v e n t a r e u n ’ e t i c h e t t a a l i v e l -<br />

l o m o n d i a l e ! ( i m m a g i n o l a r i s a t a<br />

d a l l ’ a l t r a p a r t e d e l l o s c h e r m o ) …<br />

A p r o p o s i t o , c o n o s c i q u a l c u n o<br />

c h e d i s t r i b u i r e b b e i n o s t r i d i s c h i<br />

i n I t a l i a ?<br />

C o m e è n a t a l ’ i d e a d e l l a c o l l a -<br />

b o r a z i o n e t r a l ’ i n g e g n e r e d e l<br />

s u o n o S c o t t S o l t e r e P a t t e r n I s<br />

M o v e m e n t ?<br />

L a r e l a z i o n e t r a P a t t e r n I s M o -<br />

v e m e n t e S c o t t S o l t e r h a p r e -<br />

s o i l v i a q u a n d o s i s o n o s p o s t a t i<br />

i n s i e m e a S a n F r a n c i s c o p e r r e -<br />

g i s t r a r e i l s e c o n d o a l b u m d e l l a<br />

b a n d , S t o w a w a y , n e l l ’ a l l o r a s t u -<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

d i o d i S c o t t , i l Ti n y Te l e p h o n e . L a<br />

l o r o a m i c i z i a e c o l l a b o r a z i o n e s i<br />

è i n t e n s i f i c a t a d u r a n t e l ’ a r c o d e l<br />

l a v o r o p e r i l d i s c o . L’ i d e a d i C a -<br />

n o n i c , i l r e m i x d e l l ’ i n t e r o a l b u m ,<br />

è v e n u t a d i c o n s e g u e n z a .<br />

P e r c o n t i n u a r e q u e s t a c o l l a b o -<br />

r a z i o n e P a t t e r n I s M o v e m e n t<br />

h a n n o c o m i n c i a t o q u e s t a e s t a t e<br />

a r e g i s t r a r e i l l o r o t e r z o a l b u m<br />

c o n S c o t t n e i s u o i n u o v i s t u d i<br />

n e l N o r t h C a r o l i n a . A q u e s t o l a -<br />

v o r o s e g u i r à u n b r e v e t o u r p e r i l<br />

q u a l e S c o t t s i u n i r à a l o r o . P r a t i -<br />

c a m e n t e è d i v e n t a t o u n m e m b r o<br />

n o n u f f i c i a l e d e l l a b a n d , a q u e -<br />

s t o p u n t o .<br />

C ’ è q u a l c h e l a b e l c h e r a p p r e -<br />

s e n t a p e r v o i u n e s e m p i o , u n<br />

m a r c h i o ? E p e r c h é ?<br />

L a R u n e G r a m m o f o n , i n p a r t i c o -<br />

l a r e p e r i l l o r o i m p e g n o , p e r p a r -<br />

t e d i K i m H i o r t h ø y d i d a r e u n a<br />

r a p p r e s e n t a z i o n e v i s i v a a l l a m u -<br />

s i c a c h e p r o d u c o n o , e p e r i l l o r o<br />

m o d o d i c r e a r e m u s i c a i n n o v a t i -<br />

v a d a t u t t i i g e n e r i . E l a To u c h<br />

& G o : h a n n o d a t o p r o v a d e l f a t t o<br />

c h e n o n b i s o g n a a v e r e c o n t r a t t i<br />

p e r a v e r e s u c c e s s o ( u n l i t i g i o i n<br />

2 5 a n n i è u n r e c o r d d i v e r t e n t e )<br />

e c h e n o n è p e r n i e n t e n e c e s -<br />

s a r i o f i s s a r s i s u u n s o l o g e n e r e<br />

m u s i c a l e .<br />

C i s o n o m o l t e l a b e l c h e s i c o n -<br />

s i d e r a n o i n d i p e n d e n t i , m a c h e<br />

d i f a t t o l a v o r a n o e s i c o m p o r -<br />

t a n o , n e i c o n f r o n t i d e l m e r c a -<br />

t o m u s i c a l e , c o m e d e l l e m a j o r.<br />

C o s a n e p e n s a t e e c o s a p e n s a -<br />

t e s i a l a m u s i c a i n d i p e n d e n t e<br />

o g g i , n e l 2 0 0 7 ?<br />

N o n s i a m o p r o p r i o s i c u r i c h e<br />

e s i s t a a n c o r a u n a m u s i c a i n d i e ,<br />

c o m e n o n s i a m o s i c u r i c h e s i a i m -<br />

p o r t a n t e e s s e r e i n d i p e n d e n t i , a n -<br />

c h e s e è p r e c i s a m e n t e l a n o s t r a<br />

c o n d i z i o n e . È i n t e r e s s a n t e v e d e r e<br />

q u e g l i e n o r m i m o s t r i g i g a n t i c h e<br />

s o n o l e m a j o r, l o t t a r e p e r q u a l c h e<br />

d o l l a r o e f a l l i r e m i s e r a m e n t e .<br />

E s s e r e p i c c o l i e a g i l i c i d à s e n -<br />

s o . S e q u a l c o s a i n c u i s i a m o i m -<br />

p e g n a t i d i v e n t a e n o r m e b e n v e n -<br />

g a , p e r c h é s a p p i a m o c h e i l n o s t r o<br />

p i c c o l o i m p e r o è c o s t r u i t o s u s o -<br />

l i d e r e l a z i o n i u m a n e e n o n s u l e -<br />

g i s l a t o r i e b u r o c r a z i a .<br />

P r o g e t t i p e r i l f u t u r o ?<br />

I l 2 0 0 7 s t a d i v e n t a n d o i m p e g n a -<br />

t i v o ! S a r à d i c e r t o l ’ a n n o p i ù<br />

g r a n d e p e r H o m e t a p e s , c o n 6<br />

c d e a l c u n i 7 ” e d E p i n c a n t i e -<br />

r e , t r a c u i i n u o v i a l b u m d i P a u l<br />

D u n c a n , S l a r a f f e n l a n d ( m a g g i o ) ,<br />

C a r r i b e a n ( s e t t e m b r e ) e i n f i n e<br />

B r a d L a n e r e B e a r I n H e a v e n<br />

c h e p u b b l i c h e r e m o i n a u t u n n o .<br />

P e n s a t e c h e i n t e r n e t s t i a c a m -<br />

b i a n d o l a m u s i c a s t e s s a o n e<br />

s t i a s o l o m o d i f i c a n d o i l b u s i -<br />

n e s s ?<br />

I n t e r n e t s t a c a m b i a n d o l ’ e s p e -<br />

r i e n z a d e l l a m u s i c a , i l s u o<br />

s o u n d , l a s t o r i a d e l p a c k a g i n g<br />

c h e a c c o m p a g n a i d i s c h i , l a d i -<br />

s p o n i b i l i t à d i u s u f r u i r e d e l l a m u -<br />

s i c a e m o l t e a l t r e c o s e . Q u e s t o<br />

i n f l u i s c e s e n z ’ a l t r o a n c h e n e l<br />

b u s i n e s s : c i ò c h e p r i m a e r a u n a<br />

m a c c h i n a d a m a r k e t i n g c o s t r u i t a<br />

s u p i ù d i m e n s i o n i ( c o n g l i o c c h i<br />

p u n t a t i s u n e g o z i , r a d i o , e s e c u -<br />

z i o n i l i v e e a l t r e e s p e r i e n z e a n a -<br />

l o g h e ) s i è t r a s f o r m a t o i n u n a<br />

r e a l t à i n c o s t a n t e m o v i m e n t o ,<br />

m a c h e v i v e i n u n e t e r n o p r e s e n -<br />

t e , i l r e g n o a d u e d i m e n s i o n i d e l -<br />

l o s c h e r m o d i u n c o m p u t e r.<br />

Q u e s t o c a m b i a m e n t o c i e n t u s i a -<br />

s m a , p e r c h é n e s i a m o c o i n v o l t i<br />

i n p r i m a p e r s o n a , a n c h e s e n o n<br />

s i a m o a n c o r a c a p a c i d i p r e v e d e -<br />

r e i n c h e d i r e z i o n e s t i a a n d a n -<br />

d o .


F e a t h e r s - A b s o l u t e N o o n ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />

S y n c h r o m y ( H o m e t a p e s , 1 7 o t t o b r e 2 0 0 6 )<br />

Strano esordio quello di questo trio di Miami che, invece di cominciare la sua car-<br />

riera discografica con un album, preferisce esordire con una trilogia di EP giunta,<br />

per ora, al secondo capitolo. Chi pensa che il rock orchestrale abbia esaurito la sua<br />

forza espressiva trent’anni fa dovrà probabilmente ricredersi ascoltando Absolute<br />

Noon: un omaggio a band come Camel e Caravan, filtrate attraverso tutta la tradi-<br />

zione del progressive, dagli Yes ai King Crimson. (7.3/10)<br />

Diversa l’impostazione del secondo capitolo della trilogia, Syn-<br />

chromy, che pur mantenendo una struttura orchestrale “progres-<br />

siva” di ampio respiro, dal gusto differentemente old-style rispetto<br />

al lavoro precedente, affonda le sue radici nel jazz-rock (Mint<br />

Cairo), nell’elettronica post-Kraftwerk (Tone Poem) e nella psich-<br />

edelica sixties (Skara Brain). (7.3/10)<br />

S h e d d i n g - W h a t G o d D o e s n ’ t B l e s s , Yo u Wo n ’ t L o v e ; W h a t Yo u D o n ’ t<br />

L o v e , T h e C h i l d Wo n ’ t K n o w ( H o m e t a p e s , 1 4 n o v e m b r e 2 0 0 6 )<br />

L’amore di Connor Bell aka Shedding per la musica di Eric Dolphy sta alla base<br />

del suo secondo album What God Doesn’t Bless…, un disco che passa al setaccio<br />

i gesti musicali del sassofonista americano tagliuzzando e ricomponendo i suoi<br />

fraseggi (campionando soprattutto le sue esecuzioni con il flauto), riuscendo a ri-<br />

comporli rispettandone i lineamenti caratteristici e senza spezzettarne la continui-<br />

tà. L’effetto è etereo, lieve, con field recordings elaborati da live electronics, che<br />

dialogano con sax e flauti campionati. (7.0/10)<br />

C a n o n i c : S c o t t S o l t e r P l a y s P a t t e r n I s M o v e m e n t ( H o m e t a p e s , 1 0 o t t o b r e<br />

2 0 0 6 )<br />

Remake dell’ultimo album del combo statunitense, remixato dal suo produttore,<br />

Scott Solter che, affascinato dai ritmi ipnotici di Stowaway, ha provato a darne una<br />

sua propria interpretazione. In questo caso l’“allievo” non supera il “maestro” (l’im-<br />

presa era troppo ardua), ma riesce comunque a valorizzarlo. Estrapolati dal master<br />

tutti (o quasi) i pattern su cui era costruito l’album originale, Solter li trasferisce<br />

in un paesaggio musicale del tutto nuovo, mescolandoli a sonorità glitch-oriented.<br />

(6.8/10)<br />

P a u l D u n c a n - B e C a r e f u l W h a t Yo u C a l l H o m e ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />

La personalità di Paul Duncan, (tra i primi artisti del roster Hometapes, sin dagli<br />

esordi) si divide tra un’anima che affonda le sue radici nel folk e nel cantautorato<br />

americano degli anni 70, e una vena psichedelica e sperimentale che sfocia in<br />

alcuni momenti in un ottimo progressive, fresco anche se dai tratti vintage, altre<br />

volte in ballate meno interessanti, senza disdegnare momenti di pura esplorazione<br />

strumentale. (7.0/10)<br />

T h e C a r i b b e a n - P l a s t i c E x p l o s i v e s ( H o m e t a p e s , 2 0 0 5 )<br />

Questa band di Washington D.C. rappresenta senz’altro il lato più morbido e chia-<br />

ramente pop del catalogo Hometapes. Ma si tratta pur sempre di un pop senza com-<br />

promessi, che ti abbindola con qualche ritornello facilone e si perde un attimo dopo<br />

in escursioni electro-industrial (Tarmac Squad, Interfaith Theme), sviluppandosi tra<br />

melodie wyattiane e ballate à la Barrett con lo sfondo di una ricchissima tavolozza<br />

di colori strumentali. (7.1/10)<br />

UN OCCHIO AL CATALOGO<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


Earache<br />

d i A . A . V. V.<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

20 anni all’estremo delle risorse<br />

Earache. In inglese significa “mal d’orecchie”, in musica indica<br />

l’etichetta simbolo del metal estremo. Digby Pearson celebra<br />

nel 2007 i vent’anni di attività della sua label. Grindcore, Death,<br />

Industrial, Techno. Sempre più giù nei gironi infernali dell’estremo,<br />

della velocità, dell’antagonismo, fino a perdersi negli ultimi anni<br />

dietro produzioni di qualità assai dubbia. Ma per un momento o<br />

due, la storia è passata di qui.<br />

La Earache compie vent’anni ma<br />

non ha dovuto aspettare così tan-<br />

to per diventare un punto di rife-<br />

rimento per tutta una scena e in<br />

primis per la musica estrema. Del<br />

resto Digby Pearson, il fondatore<br />

dell’etichetta, ha cominciato a co-<br />

struire la sua creatura partendo dal<br />

basso, tanto che pubblicare dischi<br />

è stato solo il passo conclusivo di<br />

un percorso iniziato con l’organiz-<br />

zazione di concerti hardcore a Not-<br />

tingham, sua città natale. Appas-<br />

sionato di anarco-punk e profondo<br />

conoscitore della scena che anda-<br />

va formandosi nei primi anni 80 in<br />

Inghilterra, Digby si accorse ben<br />

presto che dopo la sbornia punk e<br />

dopo il “great rock’n’roll swindle”<br />

c’era nell’aria qualcosa di nuovo<br />

che stava covando nelle nuove ge-<br />

nerazioni di musicisti. Per la prima<br />

volta scene rigidamente separate e<br />

autonome come quelle del metal e<br />

dell’hardcore si stavano avvicinan-<br />

do con in testa un unico comanda-<br />

mento: suona più veloce del pros-<br />

simo tuo (“Play Fast Or Die” come<br />

cantavano gli Electro Hippies)<br />

All’epoca i gruppi che si stanno<br />

facendo un nome in questo senso<br />

sono davvero pochi e si conoscono<br />

tutti (di persona o tramite un frene-<br />

tico tape-trading) fossero i Siege di<br />

Boston, gli Heresy o i giovanissimi<br />

Napalm Death che suonano il loro<br />

primo concerto alla tenera età di<br />

quattordici-quindici anni. In un pe-<br />

riodo fra i più fertili per la musica<br />

estrema, in cui si sentiva che stava<br />

per accadere qualcosa di non ben<br />

definito, Digby Pearson ebbe il fiu-<br />

to ma anche la fortuna di trovarsi<br />

al posto giusto nel momento giusto,<br />

oltre che una buona dose di corag-<br />

gio. Mentre nelle charts impazzava<br />

il techno-pop e all’oscuro di tutti,<br />

Pearson comincia a far uscire alcu-<br />

ni dei dischi che saranno i capisaldi<br />

del rock estremo per gli anni a veni-<br />

re. Non solo il grindcore di Napalm<br />

Death e Carcass (tanto per citare<br />

i più noti) ma, insieme a un altro<br />

sparuto manipolo di etichette, pose<br />

la basi per la rivoluzione espressi-<br />

va del death metal mettendo sotto<br />

contratto pionieri del genere come<br />

Morbid Angel, Entombed, Massa-<br />

cre, Bolt Thrower e Nocturnus.<br />

Vera fucina di talenti, di provocato-<br />

ri, ma anche di tanti ottimi musici-<br />

sti, la Earache in seguito allargherà<br />

lo spettro delle proprie proposte, e<br />

per un certo periodo non sbaglie-<br />

rà un colpo avendo il coraggio non<br />

solo di far uscire i dischi dei Go-<br />

dflesh di Justin Broadrick, ma an-<br />

che le mutazioni free di John Zorn<br />

(Naked City, Painkiller), mosche<br />

bianche come O.L.D. e Lawnmower<br />

Deth o gli ultimi Brutal Truth, in-<br />

cubi doom (Cathedral, Confessor,<br />

Sleep) e noise (Fudge Tunnel).<br />

Man mano che l’etichetta crescerà<br />

(stipulando a cavallo degli anni 90<br />

un contratto nientemeno che con la<br />

Sony/Columbia) quest’alternanza<br />

fra sperimentazione e uscite ormai<br />

più canonicamente metal diventerà<br />

la regola ma segnerà allo stesso<br />

tempo il culmine e il declino della<br />

sua storia. Pur restando un punto<br />

di riferimento per molti la Earache<br />

doveva far fronte ai primi scontenti<br />

dei gruppi e alla variazioni di gusti<br />

dello stesso Pearson ormai più in-<br />

teressato alla techno o all’elettro-<br />

nica in generale. C’è da parte sua<br />

il desiderio di aprire ancora nuove<br />

strade, di intercettare la nuova on-<br />

data di gruppi pronti a rompere gli<br />

schemi. Ma non sarà più così lun-<br />

gimirante e di vere e proprie sco-<br />

perte la Earache non ne farà più,<br />

visto che il dub degli Scorn nasce<br />

da una costola dei Napalm Death,<br />

gli At The Gates e gli Anal Cunt<br />

erano già realtà assodate e non ba-<br />

stano i pur apprezzabili Dub War o<br />

Ultraviolence a far risalire la china<br />

all’etichetta. Si moltiplicano le sub-<br />

label (come la Wicked World e la<br />

Elitist) che tentano di ripartire dal<br />

basso, da un underground che, al-<br />

meno per quanto riguarda il metal<br />

estremo, era stato già abbondan-<br />

temente saccheggiato da piccole<br />

case discografiche che proprio se-<br />

guendo l’esempio della Earache si<br />

erano ormai fatte un nome. In que-<br />

sto senso etichette anche differenti<br />

fra loro come la Load e la Relapse<br />

hanno raccolto l’eredità della label<br />

di Nottingham. Questo non vuol dire<br />

che Pearson abbia perso di credi-<br />

bilità, né gli si può certo fare una<br />

colpa se da anni si ritrova ad avere<br />

un nutrito staff di collaboratori e un<br />

ufficio pure a New York, anche se<br />

per chi è cresciuto negli anni 90 è<br />

sempre più difficile identificarsi con<br />

certe scelte (Linea 77, tanto per<br />

fare un nome) e soprattutto certe<br />

operazioni, vedi in ultimo il video-<br />

gioco per PS2 Earache Extreme<br />

Metal Racing. Se si ha la pazienza<br />

di cercare nel recente catalogo si<br />

può incrociare ancora più di qual-<br />

che disco degno di nota (Municipal<br />

Waste, Ewigkeit, Carnival In Coal,<br />

Cult Of Luna) ma sembra davvero<br />

passata un’eternità da quando la<br />

storia della musica passava diret-<br />

tamente da qui.<br />

R o b e r t o C a n e l l a


come perdere l’udito con 15 dischi targati Earache<br />

Carcass<br />

N a p a l m D e a t h - S c u m ( E a r a c h e 1 9 8 7 )<br />

Scum è stato tante cose. Collisione fra punk/hardcore e metal, grind zero della scrit-<br />

tura rock e punto di non ritorno ma soprattutto di partenza per molto del metal estremo<br />

a venire, anche a livello concettuale. Ancora oggi, a vent’anni dall’uscita, il disco può<br />

suonare “normale” solo alle orecchie di chi ha già ascolato questo tipo di musica. Testi<br />

anarco-punk triturati dentro schegge deliranti, frammenti di canzoni, brandelli tirati via<br />

a forza dai Discharge e dai Celtic Frost, cose che raramente vanno oltre il minuto, uno<br />

stilema che rende il grind un genere unico rispetto a tutta la musica rock antecedente e<br />

che tocca il suo apice nei tre-secondi-tre di You Suffer. I Napalm Death pagarono con<br />

l’instabilità tanta gloria, già qui infatti abbiamo a che fare con due line-up diverse a seconda del lato del disco,<br />

ma basterà fare qualche nome per capire quanto futuro c’era dentro quel pezzo di vinile: Justin Broadrick (God-<br />

flesh, Final, Techno Animal, Jesu e tanti altri), Mick Harris (Scorn/Lull/Painkiller), Lee Dorrian (Cathedral), Bill<br />

Steer (Carcass). (Roberto Canella)<br />

G o d f l e s h - P u r e ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />

Pure è l’album che segna il passaggio dall’avvincente mistura di industrial, noise e<br />

grindcore degli esordi, il cui apice è il capolavoro Streetcleaner, a una personale forma<br />

di psichedelia, che caratterizza i dischi dei Jesu, attuale progetto di Justin Broadrick.<br />

Complice forse l’ingresso di Robert Hampson (Loop e Main), in Pure le atmosfere cupe<br />

si aprono spesso in ascensioni vertiginose, in stratificazioni chitarristiche di stampo<br />

shoegaze, costruendo un wall of sound che non sprofonda solo negli abissi ma si innal-<br />

za verso la stratosfera. La voce, finora cavernosa e urticante, in alcuni episodi diventa<br />

eterea e allucinata, da sciamano industriale. Per il resto, il suono continua ad essere<br />

claustrofobico e opprimente, segnato dalle reiterazioni inumane della drum-machine squassate da esplosioni chi-<br />

tarristiche improvvise. Un disco di una bellezza paralizzante, una lunga e dolorosa odissea nella psiche di Justin.<br />

I 20 minuti conclusivi di Pure II sono un incredibile esempio di ambient post-apocalittico. (Paolo Grava)<br />

E n t o m b e d - C l a n d e s t i n e ( E a r a c h e 1 9 9 1 )<br />

Fra i capostipiti del death metal scandinavo gli Entombed con Clandestine scrivono<br />

l’ultimo capitolo di un’avventura cominciata coi Nihilist e che con il successivo Wolve-<br />

rine Blues avrà tutt’altre fattezze. Prima di quella virata punk/rock‘n’roll esiste solo un<br />

suono cupo, violento, chiuso fra riff pesanti e veloci, un drumming poderoso e psico-<br />

drammi post-Celtic Frost. Con la classica produzione dei Sunlight Studios l’album non<br />

patisce cali d’intensità e conserva la freschezza di Left Hand Path con significative<br />

variazioni di registro, così che le bordate di Crawl, Shreds Of Flesh, Stranger Aeons e<br />

Dusk lasciano spazio agli arpeggi iniziali di Trough The Collonades e al lugubre break<br />

centrale di Evelyn. Da autentico deus ex machina il batterista Nicke Andersson scrive la maggior parte dei pezzi,<br />

suona la batteria e canta ma, da vorace lettore di Ellroy, non solo si cala nei suoi “luoghi oscuri” ma ha in serbo<br />

anche un colpo di scena: pochi anni dopo lascia tutto e fonda gli Hellacopters. (Roberto Canella)<br />

Godflesh<br />

Napalm Death<br />

Scorn<br />

Bolt Thrower<br />

Morbid Angel<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9


2 0 s e n t i r e aa s c o l t a r e<br />

A t T h e G a t e s - S l a u g h t e r O f T h e S o u l ( E a r a c h e 1 9 9 6 )<br />

Fra i più grandi gruppi di metal estremo di sempre, gli At The Gates ci hanno regalato<br />

solo quattro album ma tutti memorabili. Si potrebbe discutere sull’effettiva portata di<br />

ogni singolo disco (senza contare Gardens Of Grief, monolitico mini-lp di debutto) ma<br />

per comodità si preferisce considerare Slaughter Of The Soul come il loro capolavoro.<br />

Certo è che con quello che sarebbe stato il loro ultimo disco non solo portarono a piena<br />

maturazione un suono che aveva già fatto scuola (e che tanta ancora ne farà) ma rie-<br />

sce a spostarlo un po’ più in là. Il classico, progressivo, rifferama death metal pieno di<br />

schegge melodiche flirta col noise, si avventura brevemente verso sonorità industrial,<br />

il cantato isterico di Tomas “Tompa” Lindberg ricorda certe cose dell’hardcore più estremo. La prima metà del<br />

disco è in assoluto una delle cose migliori uscite in ambito death degli ultimi quindici anni, poi si assesta su una<br />

qualità media comunque superiore a intere carriere. (Roberto Canella)<br />

C a r c a s s - R e e k O f P u t r e f a c t i o n ( E a r a c h e , 1 9 8 8 )<br />

Se il grind core è (stato) soprattutto il tentativo di estremizzare tutti i parametri della<br />

musica, nella ricerca di un sound che riuscisse ad unire il nichilismo del punk alla vio-<br />

lenza sonora del death metal, l’esordio dei Carcass ne rappresenta l’emblema. Nato<br />

ad un anno di distanza dall’album che appiccò l’incendio del grind (Scum dei Napalm<br />

Death), Reek Of Putrefaction segna paradossalmente il culmine e la fine di un genere<br />

così pregno di immediatezza da esaurire il suo senso appena un attimo dopo averlo<br />

espresso. Quest’album, a partire dalla copertina (una capolavoro di necrofilia-splatter,<br />

in seguito barbaramente censurato), è una divertita offesa al pudore, che si esprime<br />

musicalmente in un sound che più malato non si può: batteria iperveloce, chitarre e bassi compressi e una voce<br />

che recita bollettini medici passando rapidamente da urla acute a gorgheggi profondi quanto il vomito, vengono<br />

mixati (mixati?) in modo da creare un amalgama indistinto, volutamente brutto, tanto che la successione dei brani<br />

diviene solo un escamotage per interrompere il flusso continuo. Tutto frulla insieme in un modo così volutamente<br />

antiestetico da “rischiare” di imporsi come opera d’arte. (Daniele Follero)<br />

P a i n k i l l e r - G u t s O f A Vi r g i n / B u r i e d S e c r e t s ( E a r a c h e , 1 9 9 1 / 1 9 9 2 )<br />

“What have you done to me? Oh my God!”. Con l’urlo isterico di Yamatsuka Eye fuori<br />

dalla grazia di dio si apre l’epopea Painkiller, sorta di supergruppo i cui membri stabili<br />

sono il trio delle meraviglie John Zorn-Bill Laswell-Mick Harris, nomi fondamentali<br />

dell’universo musicale di fine millennio. Guts Of A Virgin e Buried Secrets, usciti se-<br />

paratamente come EP e ristampati in un unico CD, sono il documento indispensabile<br />

per conoscere una delle band più originali del catalogo Earache. Siamo di fronte a una<br />

diabolica macchina da guerra, che mischia in maniera non convenzionale dub, free-<br />

jazz, grindcore, industrial e spazza via buona parte dei velleitari gruppi death-grind<br />

alla ricerca della pietra filosofale dell’estremismo rock. Rispetto ai cugini Naked City il piglio cinematico e le<br />

atmosfere d’antan sono sostituiti da forti dosi di rumore e il mood è perennemente virato all’angoscia più nera.<br />

L’ascoltatore viene disorientato dai cambi di tempo frenetici, annichilito dalle progressioni inarrestabili e dalle<br />

atmosfere cupe. Senza pietà. (Paolo Grava)<br />

D u b Wa r - P a i n ( E a r a c h e , 1 9 9 5 )<br />

1995: il crossover impazza. Meticciato rap-metal, chitarre ribassate, immaginario di<br />

superomismo (talvolta impegno politico), fruttano alle major milioni di dollari. I gruppi<br />

si moltiplicano a dismisura, a scapito della qualità media di un’espressione della cultu-<br />

ra giovanile che di lì a poco avrebbe fatto i conti con ridondanza e povertà di idee: la<br />

morte cerebrale prima ancora che del corpo, stramazzante al suolo per qualche anno,<br />

si constati il decesso definitivo. La Earache corre ai ripari mettendo sotto contratto i<br />

Dub War, quartetto di Newport, Galles, già autore di un album e di un paio di EP. Pain<br />

è l’esordio per l’etichetta di Pearson: metal in levare perché declinato con le ritmiche<br />

del dub, la consciousness del reggae, la favella del raggamuffin - e la voce di Benji Webbe, nasale, esagitata<br />

ed incompromissoria è il vero punto di forza della miscela. Il referente immediato di queste note è l’hardcore<br />

contaminato dei Bad Brains ma talvolta, per l’ardire con cui si maneggiano diversi generi, diresti di ascoltare<br />

degli Asian Dub Foundation cresciuti con il trash invece che con il combat rock dei Clash. Quella dei Dub War<br />

su Earache è poco più che una comparsata: dopo dischi di dubbia qualità il quartetto rilascia nel ‘99 un laconico<br />

comunicato che ne sancisce lo scioglimento, le cui reali ragioni vanno rintracciate in incomprensioni di natura<br />

economica con i vertici dell’etichetta. (Vincenzo Santarcangelo)


B r u t a l Tr u t h - N e e d To C o n t r o l ( E a r a c h e , 1 9 9 4 )<br />

Arrivarono come un uragano i Brutal Truth, testimoniando ancora una volta come la<br />

Grande Mela continuasse ad essere la fucina ideale per le frange più estreme dell’uni-<br />

verso rock. Dan Lilker aveva il pedigree di prestigio: un passato con Anthrax, Nuclear<br />

Assault e S.O.D., ma con i Brutal Truth decise di spingersi ancora oltre. Con lui Kevin<br />

Sharp, Brant McCarty e Rich Hoak. Condizioni estreme richiedono misure estreme.<br />

Il primo parto della compagine newyorkese si muoveva sul solco aperto dai Napalm<br />

Death. Un grind death brutale, confusionario e oscurantista che calcava la mano con<br />

furia omicida su temi di natura sociale ed esistenziale. Ma è con Need To Control che<br />

la band si affranca dai modelli ispiratori, coniando un verbo del tutto personale. Le sfuriate grind vengono in-<br />

cassate in strutture più complesse e articolate. Tempi e ritmi si muovono su terreni più organizzati. Cominciano<br />

a farsi largo venature più propriamente hardcore che saranno poi prese con consapevolezza maggiore nei lavori<br />

successivi. Una cover da infarto di Media Blitz dei Germs. Kevin Sharp indemoniato. Capolavoro. (Antonello<br />

Comunale)<br />

N a k e d C i t y - To r t u r e G a r d e n ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />

Mutazione genetica fra le più eccitanti della musica estrema i Naked City ebbero vita<br />

breve ma tremendamente lunga se si considera in cosa consisteva la loro proposta.<br />

Torture Garden applicava al jazz la lezione dei Napalm Death, in una collisione di<br />

generi che faceva sembrare i Faith No More un gruppo di sprovveduti e che ridefiniva<br />

ex abrupto il concetto di crossover. Il risultato era un disco free-jazz sui generis che a<br />

seconda dell’angolazione poteva essere anche un disco grind, un disco hardcore, una<br />

colonna sonora, sonico/ironico grand guignol in cui le musiche più diverse (mettiamoci<br />

anche frammenti di elettronica e classica contemporanea) venivano sminuzzate e vio-<br />

lentate a ripetizione. Quarantadue pezzi in meno di mezz’ora che ci fecero familiarizzare con gli strilli di Yama-<br />

tsuka Eye e che furono possibili grazie a una line-up di altissimo livello e dalle capacità strumentali fuori dal<br />

comune: non solo John Zorn ma anche Bill Frisell, Wayne Horvitz e Joey Baron. (Roberto Canella)<br />

C a t h e d r a l - F o r e s t O f E q u i l i b r i u m ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />

Da un estremo all’altro. Dai Discharge ai Black Sabbath. Lee Dorrian, da Coventry,<br />

dopo il riduzionismo dei Napalm Death veste pantaloni a zampa e si converte freak. Coi<br />

Cathedral di Forest Of Equilibrium prende forma il doom di fine Novecento. L’intro di<br />

flauto e l’acustica di Pictures Of Beauty & Innocence (Intro) / Comiserating The Cele-<br />

bration tradiscono - come pure la cover ad opera di Dave Patchett - un che di fantasy,<br />

ma non appena Garry Jennings ne intona il riff cala la tenebra e messia Lee elargisce<br />

il funereo canto dei nuovi Sabbath. La label sino ad allora sinonimo di grind-core, l’Ea-<br />

rache, pubblica il disco più antitetico ad essa. Nessuno dopo Ozzy & Co si era spinto<br />

cosi oltre la lentezza, forse i Saint Vitus, ma coi Cathedral si eccede in saturazione ed angoscia. Delle succes-<br />

sive prove solo The Ethereal Mirror, invero molto più complesso nella struttura, è degno di nota, ma è con Lee<br />

Dorrian e la sua abilità nel ricreare una tendenza (vedi anche il lavoro con la Rise Above) che il doom ha ragione<br />

di (ri)essere… (Gianni Avella)<br />

F u d g e Tu n n e l - H a t e S o n g s I n E M i n o r ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />

Sicuramente Alex Newport è stato carezzato da quella brezza d’euforismo hard psiche-<br />

delico che soffiò da Seattle ad inizio 90. Altrettanto sicuramente, l’allora chitarrista ven-<br />

tenne di Nothingham, seppe rileggere quei suoni imbarbarendoli in una reazione a ciclo<br />

continuo di psichedelia distorta, matrici metalliche ed una vena depressiva inusuale nel<br />

novero dei gruppi Earache (sentite come sfuma la colossale Hate Song). A coadiuvarlo<br />

nelle manovre della ciclopica pressa di stili Hate Songs In E Minor ci sono Dave Riley<br />

(basso) e Adrian Parkin (batteria). Un power trio atipico e, a suo modo, ferocissimo.<br />

Ferocia intellettuale, male dell’anima, incapacità di controllo emotivo nascosta dietro<br />

partiture quadrangolari (Spanish Fly qualcosa deve a Helmet e Big Black). Ma il succo vero di tali progressioni<br />

metalliche è la distorsione psichedelica e la voce lasciata cupa a disperdersi nella propria eco. I Godflesh hanno<br />

insegnato qualcosa ai nostri (Tweezers). Notevoli anche le cover: Sunshine Of Your Love (Cream) e Cat Scra-<br />

tch Fever (Ted Nugent) di cui si conservano, rispettivamente, il piglio marziale e l’incedere cazzone. (Massimo<br />

Padalino)<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 2


2 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

M o r b i d A n g e l - B l e s s e d A r e T h e S i c k ( E a r a c h e , 1 9 9 1 )<br />

Se c’è una band che ha appreso meglio di altre la fondamentale lezione slayerana,<br />

questi sono i Morbid Angel di Trey Azagthoth. Il gruppo originario della Florida inizia<br />

lì dove Reign In Blood degli Slayer finisce, diventando rapidamente un punto di rife-<br />

rimento per tutta la fiorente scena death metal. Sul primo disco avevano sacrificato<br />

sull’altare della follia le personali radici trash calcando la mano sul formidabile gran<br />

guignol chitarristico di Azagthoth. Il secondo lavoro mette in scena, invece, un vero e<br />

proprio sabba pagano per cultori di Satana, con tanto di intro, barocchismi gotico sinfo-<br />

nici (Doomsday Celebration), sonate per piano (In Remembrance) e chitarra (Desolate<br />

Ways) in aggiunta agli impenetrabili labirinti di riff malsani su infernali cambi di ritmo: ora lenti e morbosi, ora<br />

veloci e concitati. La padronanza tecnica ha ormai raggiunto una consapevolezza ulteriore, come testimoniato<br />

dall’intricatissimo rifferama di Azagthot, in brani come The Ancient Ones da cui non si esce che a pezzi. In coper-<br />

tina il dipinto di Jean Delville, “Les trésors de Satan”. Una pietra miliare del death e del rock satanico. (Antonello<br />

Comunale)<br />

O L D - L o F l u x Tu b e ( E a r a c h e , 1 9 9 2 )<br />

Un album di rottura nella discografia della creatura del beffardo James Plotkin (qui<br />

sotto il nomignolo di Jimmy Old). Il death metal e tutti i rimasugli “pesanti” dei passati<br />

Old Lady Drivers non vengono certo messi da parte. Precipitano però in una soluzione<br />

d’astrattismi psichedelici, pantomime dub che vanno e vengono, evanescenze quasi<br />

prossime ai cavalieri shoegazer che in quegli anni affollavano la scena indipendente<br />

britannica. Il tutto senza perdere di vista la primitiva forza di impatto metallica. Il tour<br />

de force Z.U., con i suoi mirabili 9 minuti di durata, stabilizza la formula. E scopre quel-<br />

la cotta di maglia - intessuta di precisissimi drumbeats, scariche electro ed un lavoro<br />

alla chitarra duttilissimo - come prima mai. Jason Everman deflagra al basso, mentre Alan Dubin mostra forse il<br />

punto debole del progetto: la voce. A sancire comunque l’entrata nella comunità “virtuale” di sperimentatori metal<br />

che contano c’è anche un cameo di John Zorn al sax. Giusto per far comprendere che la differenza fra il suo<br />

ensemble di creative metal (Naked City) e gli Old non è poi tanto incolmabile. (Massimo Padalino)<br />

S l e e p - H o l y M o u n t a i n ( E a r a c h e , 1 9 9 3 )<br />

Nel 1993 l’Earache pubblica un sampler, Naive, con dentro le nuove regole della musica<br />

estrema. Lì tra Fudge Tunnel e Pitch Shifter, un gruppo di hippy fuori tempo massi-<br />

mo si dice seccato per non aver avuto vent’anni quando correva il decennio ‘65/’75…<br />

Vengono da San Jose, California, e si chiamano Sleep. Il loro secondo lavoro Sleep’s<br />

Holy Mountain è - retro copertina alla mano - un lisergico elogio alla lezione impartita<br />

ventitrè anni prima dai Black Sabbath. Ma non solo: anche molto Blue Cheer e tanto<br />

Black Flag epoca My War. Il riff epico di Dragonaut il cui finale ricalca N.I.B. dei Sab-<br />

bath, l’urlo flagellato di Al Cisneros - sintesi viziata di Ozzy e Henry Rollins - in The<br />

Druid e la concomitante ascesa di Kyuss e Monster Magnet faranno sì che il doom entri nella sua fase stoner.<br />

Il travaglio del successivo Dopesmoker (conosciuto anche come Jerusalem) porterà alla scissione, ma ancora<br />

oggi, dall’avanguardia colta (si chieda a Rhys Chatham) al drone metal stile Sunn O))), quelle pesanti note con-<br />

tinuano a regalare proseliti… (Gianni Avella)<br />

S c o r n - C o l o s s u s ( E a r a c h e , 1 9 9 3 )<br />

Dopo aver segnato con Scum un punto di non ritorno nel campo della musica estrema,<br />

Mick Harris e Nick Bullen si riuniscono nel progetto Scorn e con il secondo album,<br />

Colossus, mettono a segno un colpo incredibile, costringendo pubblico e critica ad<br />

aggiornare mappe e dizionari sonori. Il dub prende il sopravvento nel suono della band,<br />

un dub bianco ipnotico e inquietante. Il basso innesca diastole e sistole rallentate e<br />

impregna l’etere di groove morbosi, il tappeto percussivo passa dalla marzialità delle<br />

macchine a una frammentazione quasi aleatoria, mentre campioni in loop ossessivo si<br />

sovrappongono alla voce. Rispetto al precedente Vae Solis ogni residuo rock è spazza-<br />

to via, sparisce la chitarra di Broadrick, il growl si decompone in un lamento subsonico, alcuni episodi si riallac-<br />

ciano al progetto ambient isolazionista di Harris, Lull. Colossus sta a Metal Box come il grindcore sta al punk,<br />

è come se la galassia generata dal big-bang di Scum di colpo implodesse e generasse un buco nero pulsante,<br />

un ectoplasma indefinibile. (Paolo Grava)


s e n t i r e a s c o l t a r e 2


Björk sembra piovuta sulla terra col preciso scopo di innestare l’avanguardia nel pop e<br />

viceversa. Geograficamente, sessualmente, iconograficamente, musicalmente: una specie<br />

di angelo. Sempre sul punto di cadere.<br />

B j ö r k<br />

un angelo,<br />

probabilmente<br />

“L’unica cosa che capiamo, è la<br />

musica pop”<br />

A n g e l i c a a n t i m a d o n n a<br />

Prendete Madonna. Madonna<br />

che addomestica implacabilmen-<br />

te l’avanguardia ai desiderata del<br />

pop. Tira le fila, riassume, orga-<br />

nizza. Spesso si limita a costruire<br />

hype riarticolando hype già esi-<br />

stente. Hype al quadrato, al cubo!<br />

Perché la musica di Madonna è<br />

strettamente funzionale alla pene-<br />

trazione e aggiornamento dei codici<br />

pop. Questo (le) basta (e le avan-<br />

za). L’avanguardia, se c’è, ne esce<br />

a pezzi, sedotta e - certo - abban-<br />

donata.<br />

Prendete invece Björk. Tra i motivi<br />

per cui mi piace, il primo è la ca-<br />

pacità di piegare l’avanguardia alle<br />

esigenze del pop senza disperderne<br />

il senso. Björk, come Madonna, fa<br />

pop ad ampio spettro, coinvolgendo<br />

nel progetto aspetti extra-musicali,<br />

dalla danza alla moda passando<br />

per l’arte visuale. Dove però Miss<br />

Ciccone è abilissima a stare sul<br />

tempo, seguendo le evoluzioni pop<br />

passo passo ed accaparrandosi i<br />

maghi sonici più cool (“Secondo me<br />

2 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

[Madonna] è una che non rischia<br />

mai”, disse un giorno Björk al mu-<br />

sicista tedesco Console), l’islan-<br />

desina scommette su qualcosa che<br />

ancora deve accadere a livello di<br />

massa, che si svolge negli studi o<br />

nei circoli e nelle enclave culturali/<br />

estetiche. Quel che le interessa è<br />

anzitutto l’energia (di un individuo<br />

o di un collettivo, una comune, una<br />

band, un team…), il pedigree non<br />

è importante. Basti ricordare come<br />

coinvolse la baby sitter del figlio<br />

Sindri nei lavori di Homogenic solo<br />

perché in lei avvertì la sensibilità<br />

giusta, e al diavolo la competenza.<br />

Björk è, probabilmente, un angelo.<br />

Sempre sul punto di cadere. Il suo<br />

messaggio ha appena smesso di<br />

essere lacerante, è diventato mera-<br />

viglioso un attimo fa. Porta ancora<br />

le tracce delle scelleratezze punk,<br />

delle bizzarrie situazioniste, delle<br />

scorribande anarcoidi, dell’estem-<br />

poraneità jazz. È un pensiero che<br />

avanza, cocciuto e instancabile,<br />

verso frontiere ancora da svelare.<br />

La barra puntata tra eresia e tradi-<br />

zione. Tecnoetica sonora militante.<br />

Istinto e raziocinio avvinghiati in<br />

una lotta che col tempo è diventata<br />

un corpo. Come l’avanguardia (nel)<br />

pop.<br />

P r e d e s t i n a z i o n i<br />

Björk Gudmundsdottir venne<br />

al mondo il 21 novembre 1965 a<br />

Reykjavik. Fin da bambina sem-<br />

brò una predestinata. Riproduce-<br />

va pezzi sui tasti del pianoforte ad<br />

orecchio. Memorizzava le melodie<br />

con facilità sconcertante. Cantava<br />

e ballava in continuazione. A soli<br />

undici anni esordì con un disco<br />

omonimo (Björk Gudmundsdottir -<br />

Falkinn, 1977) in cui reinterpretava<br />

con vocina implume ma già risoluta<br />

brani soul e pop (cover dei Beatles<br />

e Stevie Wonder), folk islandesi<br />

e persino un brano di sua compo-<br />

sizione, strumentale, dedicato al<br />

pittore Johannes Kjaval (6.5/10).<br />

Notiamo fin da subito due impor-<br />

tanti elementi: le doti naturali, fin<br />

quasi animalesche, ed un ambiente<br />

favorevolissimo, in cui la ragazzina<br />

sguazzava come un pesce nell’ac-<br />

qua.<br />

Abitava infatti con la madre ed il<br />

patrigno - i genitori si erano sepa-<br />

rati presto - in una comune pseudo<br />

hippy, ricettacolo di artisti e musi


cisti locali. D’altro canto, il padre la<br />

indusse a frequentare la scuola di<br />

musica, che le procurò cognizioni<br />

teoriche e tecniche (studiò flauto e<br />

pianoforte) in un ambiente per nul-<br />

la imbalsamato su posizioni classi-<br />

che.<br />

In pratica, la fanciulla era assediata<br />

da quattro diverse istanze musica-<br />

li: il rock del patrigno (chitarrista in<br />

una cover band) e della “comunità”,<br />

il jazz amato dal padre, le prospet-<br />

tive “colte” della scuola (classica +<br />

avanguardia) e - last but not least -<br />

il folk islandese (non le mancavano<br />

certo nonni a tenerle in caldo le tra-<br />

dizioni, essendosi risposato anche<br />

il padre). Le apparvero fin da subito<br />

labili i confini tra alternativo e po-<br />

polare, tra sperimentazione e tradi-<br />

zione. In quel crogiolo tanto multi-<br />

sfaccettato quanto contraddittorio,<br />

gli unici riferimenti affidabili erano<br />

le proprie inclinazioni, da seguire<br />

con determinazione febbrile, senza<br />

vie di mezzo né preclusioni. Quel<br />

primo disco tanto ingenuo quanto<br />

furbo ottenne discrete vendite pro-<br />

curandole una certa fama cittadina<br />

e quindi nazionale (anche perché<br />

Reykjavik - coi suoi 25.0000 abitan-<br />

ti - corrisponde in pratica all’Islan-<br />

da tutta). Ma la ragazzina non si<br />

fece certo stordire dalla “celebrità”.<br />

Anzi, alla proposta di bissare con<br />

un disco simile rifiutò fermamente.<br />

Voleva altro. Qualcosa che ancora<br />

non conosceva e che stava per ar-<br />

rivare.<br />

L’Islanda, da buona isola, si fece<br />

investire da punk e post-punk con<br />

cospicuo ritardo. Quando accadde,<br />

i Settanta stavano ormai finendo e<br />

Björk sbocciava in tutta la sua irre-<br />

quieta adolescenza. Probabilmente<br />

questa presa di coscienza “in diffe-<br />

rita” consentì a lei e a tutto il milieu<br />

sonoro di Reykjavik di metabolizza-<br />

re una porzione già “pre-digerita”<br />

del post-punk. Di colpo, tutte as-<br />

sieme, le evoluzioni dark-wave di<br />

Joy Division e Bauhaus, l’intransi-<br />

genza artsy di Throbbing Gristle<br />

e Chrome, l’irredentismo dei Fall,<br />

i riflussi psych di Echo & The Bun-<br />

nymen...<br />

Ben presto spuntarono una impres-<br />

sionante - rispetto alla popolazio-<br />

ne - quantità di band, tra cui si<br />

distinsero i Peyr del chitarrista Gu-<br />

dlaugur “Godkrist” Ottarssonn ed<br />

i Purkkurr Pilnikk del cantante e<br />

trombettista - nonché insegnante di<br />

Scienze della Comunicazione - Ei-<br />

nar Orn Benediktsson. Ma anche<br />

Björk si dava da fare: i suoi primi<br />

tentativi “adulti” somigliavano a va-<br />

riegati spasmi new wave-pop-punk.<br />

Dopo un paio di progetti abortiti (i<br />

sofisticati Exodus, la cover band<br />

Jam 80) in cui suonava flauto e<br />

tastiere oltre a cantare, la ormai<br />

quattordicenne islandesina decise<br />

di cambiare vita: lasciò la scuola,<br />

andò a vivere da sola, decise di<br />

fare musica sul serio. Col bassista<br />

Jacob Magnusson trasformò i Jam<br />

80 nei Tappi Tikarrass. Niente più<br />

cover, solo pezzi originali.<br />

Te a t r a l i s t r e g o n e r i e<br />

Il mini Bitid Fast I Vitid (Spor,<br />

1981) conteneva cinque pezzi e<br />

una smania punk-pop selvatica e<br />

ammiccante che potremmo scam-<br />

biare per acerba preveggenza<br />

Pixies chiostrata di fregole artistoi-<br />

di (6.2/10). In ogni caso, fu accol-<br />

to benissimo, così che l’album dei<br />

Tappi vero e proprio comparve sul<br />

mercato come un piccolo evento.<br />

Miranda (Gramm, 1983) mise sul<br />

piatto tutto il loro potenziale ener-<br />

getico (la trafelata title track), così<br />

come le velleità electro-dark (la mi-<br />

nacciosa acidità di Lækning), l’ac-<br />

comodante afflato (quella specie<br />

di rifrittura Japan di Íþróttir) e gli<br />

spigoli danzerecci (i guizzi Gang<br />

Of Four di Beri-Beri). Nulla che il<br />

continente e l’oltreoceano già non<br />

conoscessero, ma l’esotico mistero<br />

dei testi - ovviamente in islandese<br />

- uniti alla buona padronanza dei<br />

mezzi, lo rendono ancora oggi un<br />

oggetto interessante. Col sovrap-<br />

più della voce di Björk, naturalmen-<br />

te, capace di cavarsi di gola graffi<br />

lancinanti e insidie carezzevoli du-<br />

rante performance già piuttosto av-<br />

venturose (6.6/10).<br />

L’esperienza dei Tappi si rivelò<br />

quindi nutritiva ma incapace di la-<br />

sciare segni profondi. Malgrado fa-<br />

cessero parte di una “scena” citta-<br />

dina in pieno fermento (furono loro<br />

- non i più quotati Peyr e Purkkurr<br />

Pilnikk - a finire sulla locandina di<br />

Rock In Rejkiavik, documentario<br />

del regista Por Fridriksson), non<br />

superarono il terzo anno di attività.<br />

Focalizzando su Björk - non pos-<br />

siamo fare altrimenti - verrebbe da<br />

dire che la ormai maggiorenne fa-<br />

tina non faceva altro che obbedire<br />

a quel moto oscillatorio tra pop e<br />

avanguardia che informerà tutta la<br />

sua carriera. Non aveva mai smes-<br />

so infatti di sperimentare situazioni<br />

diverse: jazz con gli Stifgrim, co-<br />

ver con i Cactus, altre jam varie e<br />

disparate, un po’ per seguire l’estro<br />

e un po’ per sbarcare il lunario.<br />

Il 1983 portò molti cambiamenti: la<br />

spinta propulsiva del punk segnò<br />

il passo, nel giro di poco chiusero<br />

battenti i Peyr, i Purkkurr e anche<br />

i Tappi Tikarrass. Questa ecatom-<br />

be fu la premessa dei Kukl, nati da<br />

una all star band allestita per ce-<br />

lebrare l’ultima puntata di un pro-<br />

gramma radiofonico dedicato alle<br />

avanguardie musicali. Principale<br />

artefice del nuovo combo fu Einar<br />

Orn, che fece di tutto per coinvol-<br />

gere Björk e Gudlaugur Ottarssonn<br />

nel progetto. Malgrado la ragione<br />

sociale in islandese (traducibile<br />

con “stregoneria”), i testi furono<br />

vergati in inglese, così come gli in-<br />

dirizzi sonici miravano decisamen-<br />

te il post-punk evoluto d’Albione.<br />

Tetro e tremebondo, minaccioso e<br />

teatrale, il sound dei Kukl sembra-<br />

va una disputa tra il rovello tribale<br />

dei Virgin Prunes e il bieco ince-<br />

dere di Killing Joke e Bauhaus.<br />

Una proposta invero “dark”, voluta-<br />

mente esoterica e fieramente artsy,<br />

in cui però non veniva mai meno la<br />

capacità - il desiderio - di affasci-<br />

nare tramite aspersioni di esotismo<br />

e mistero.<br />

Il canto di Björk non poteva che<br />

essere uno degli ingredienti princi-<br />

pali. Sentirla in Dismembered e so-<br />

prattutto in Open The Window And<br />

Let The Spirit Fly Free, entrambe<br />

da The Eye (Crass, 1984), fa capi-<br />

re quanto le potenzialità della voce<br />

e la personalità dell’interpretazione<br />

avessero ormai raggiunto un livel-<br />

lo che le permetteva d’impadronir-<br />

si del mood, di marchiarlo a fuoco<br />

(6.5/10). In questo periodo la ra-<br />

gazza era abitata da un’ispirazio-<br />

ne fervida che ne accresceva sen-<br />

za posa il bagaglio di esperienze.<br />

Quando era libera dagli impegni coi<br />

Kukl, trovava il tempo di suonare la<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 2


atteria coi Rokha Rokha Drum e<br />

soprattutto dare vita a ninnenanne<br />

minimaliste con Siggi ed il chitarri-<br />

sta Hilmar Hilmarsson nel trio El-<br />

gar Sisters.<br />

La distribuzione Crass - leggen-<br />

daria etichetta alternativa anglo-<br />

sassone contattata grazie ad Einar<br />

- contribuì a fare dei Kukl un picco-<br />

lo culto in Inghilterra, cui rispose-<br />

ro con un tour che poi si estese a<br />

mezza Europa. Non a caso l’opera<br />

seconda s’intitolò Holydays In Eu-<br />

rope (Crass, 1986), ma gli intenti<br />

erano tutt’altro che celebrativi. Mu-<br />

sicalmente faceva ancora meglio<br />

dell’esordio, stratificando la trama<br />

sonora grazie all’utilizzo di ottoni,<br />

pianoforti, tastiere, organini, fisar-<br />

monica, vibrafono, effluvi jazz e<br />

geometrie sintetiche ad innescare<br />

singulti funk, marce nevrasteniche<br />

(soprattutto Gibraltar) e miraggi<br />

Canterbury tra allucinazioni dub<br />

(6.6/10).<br />

Ma col 1986 il progetto Kukl implo-<br />

se per... eccesso d’intensità. Rima-<br />

sta incinta di Þór Eldon, un chitarri-<br />

sta col quale conviveva da circa un<br />

anno, Björk si sposò per poi trasfe-<br />

rirsi col marito in un appartamento<br />

che divenne ben presto il punto di<br />

ritrovo di una ghenga sempre più<br />

infervorata. Saranno proprio le riu-<br />

nioni in casa Björk a gettare le basi<br />

- primavera ‘86 - del collettivo Bad<br />

Taste, sorta di associazione cultu-<br />

rale “contro il buon gusto”. Ancora<br />

una volta il principale artefice fu<br />

Einar. Quale frangia musicale del<br />

collettivo, Björk, Þór, Einar ed il<br />

batterista Siggtryggur “Siggy” Bal-<br />

dursson fondarono i Sycurmolnar-<br />

nir.<br />

S t u p e f a c e n t i z o l l e t t e<br />

Ovvero: i Sugarcubes, come li co-<br />

noscerà (e apprezzerà) l’Occidente.<br />

La loro data di nascita venne fatta<br />

significativamente coincidere con<br />

quella di Sindri Þórrsson (8 giugno<br />

1986), il bimbo di Björk. La giovane<br />

<strong>neo</strong>mamma si dimostrò fin da subi-<br />

to molto attenta e responsabile col<br />

figlio, ma non cedette di un milli-<br />

metro: dopo un paio di settimane si<br />

fece convincere dalla regista statu-<br />

nitense Nietzchka Keene a recitare<br />

in Juniper Tree, film che conobbe<br />

una distribuzione ufficiale solo nel<br />

2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

1991, guadagnandosi consensi al<br />

Sundance Festival. La nuova band<br />

intanto scaldava i motori. Il carbu-<br />

rante, dopo tante tenebre targate<br />

Kukl, era una ridanciana voglia di<br />

divertirsi.<br />

Come spesso ebbero a dichiarare<br />

loro stessi, volevano incarnare una<br />

sorta di parodia pop insidiosa ma<br />

allegra, sferzante ma festaiola. Ar-<br />

ruolati il bassista Bragi Ólafsson<br />

ed il tastierista Einar Melax, debut-<br />

tarono con Ein Mol A Mann (Bad<br />

Taste, 1986), un EP tirato in 500<br />

vinili contenente la brumosa Am-<br />

mæli e la febbrile Köttur (6.8/10). I<br />

due pezzi divennero ben presto un<br />

caso radiofonico, tanto che Derek<br />

Birkett, fondatore assieme a Tim<br />

Kelly (rispettivamente bassista e<br />

chitarrista degli anarco-punk Flux<br />

Of Pink Indians) dell’indipendente<br />

londinese One Little Indian, chiese<br />

loro una versione in inglese di Am-<br />

mæli. Fu così che Birthday, agosto<br />

1987, guadagnò i favori del NME,<br />

che lo nominò singolo della setti-<br />

mana, e di John Peel, che lo man-<br />

dò ripetutamente in onda nel suo<br />

famoso programma.<br />

In breve furono letteralmente ri-<br />

succhiati dallo showbiz londinese.<br />

Fioccarono le richieste di interviste<br />

- la maggior parte delle quali chie-<br />

devano espressamente quale inter-<br />

locutrice la curiosa cantante - mal-<br />

grado non fossero ancora titolari di<br />

un album vero e proprio. Questione<br />

di poco: rifiutate le offerte di alcune<br />

major in nome della totale libertà<br />

artistica, firmarono per One Little<br />

Indian e licenziarono Life’s Too<br />

Good (One Little Indian, 1988).<br />

Per la stampa ed il pubblico fu una<br />

folgorazione: sound multisfaccet-<br />

tato, chitarre luccicose e sferzan-<br />

ti, cromatismi acrilici di tastiere,<br />

ritmiche electro-funk, soul-rock,<br />

reggae, ballate suadenti e irrequie-<br />

te alternate a ghigni blues-wave,<br />

processioni catramose e caricatu-<br />

re hillybilly-swing. Qualche pale-<br />

se ingenuità, per quanto gradevo-<br />

le (una Motorcrash che sembra la<br />

versione bubblegum dei Level 42),<br />

era il minimo che potesse capitare.<br />

Del resto non era un gioco facile,<br />

questo stare sulla corda tra sofisti-<br />

cazione e orecchiabilità. Quando<br />

l’azzeccavano, però, andava alla<br />

grande, vedi il funk denso e raden-<br />

te di Coldsweat, la già citata Bir-<br />

thday e una Delicious Demon che<br />

scomoda i Talking Heads col suo<br />

sbrigliato tribalismo pop. Proprio in<br />

quest’ultimo pezzo, al beffardo re-<br />

citato di Einar facevano eco dei vo-<br />

calizzi björkiani talmente impetuosi<br />

Sugarcubes


da strozzare il mood sbarazzino<br />

(7.0/10).<br />

Un po’ tutto il disco testimonia i no-<br />

tevoli progressi di Björk. E fu lei,<br />

voce e aspetto, a catalizzare l’at-<br />

tenzione in Inghilterra e negli USA,<br />

dove Life’s To Good usufruirà della<br />

distribuzione Elektra. Anche l’Ame-<br />

rica li volle quindi per un tour che<br />

finì per somigliare ad un lungo par-<br />

ty itinerante. Erano gli ultimi fuochi<br />

del 1988. Sulle due sponde del-<br />

l’oceano le vendite dell’album su-<br />

perarono il mezzo milione di pezzi.<br />

I Sugarcubes avevano già toccato<br />

l’apice della loro carriera.<br />

D e v i a z i o n i s e n z a r i t o r n o<br />

Poi tutto cominciò a sembrare<br />

stretto. E confuso. Björk e Þór si<br />

separarono, pur rimanendo in buoni<br />

rapporti. Il chitarrista avviò presto<br />

una relazione con Margrét “Mag-<br />

ga” Örnólfsdóttir, tastierista su-<br />

bentrata al posto del dimissionario<br />

Einar Melax, ma nessun problema<br />

per dei liberali islandesi come loro.<br />

Quel che Björk cominciò a non sop-<br />

portare era semmai la pop attitu-<br />

de sempre più smaccata. Þór era<br />

l’autore dei pezzi più orecchiabili,<br />

l’anima pop del gruppo. Björk, al<br />

contrario, non perdeva occasione<br />

per introdurre elementi diversi nel<br />

sound del gruppo: jazz, elettronica,<br />

hip hop. Inutilmente. Amava stare<br />

nella band, ma iniziava a non tolle-<br />

rarne più la proposta.<br />

Figurarsi poi cosa dovette sembrar-<br />

le Here Today, Tomorrow, Next<br />

Week (One Little Indian, 1989):<br />

concepito e registrato in fretta,<br />

il disco giochicchiava con le pos-<br />

sibilità e la calligrafia della band,<br />

disinnescando i tremori wave tra<br />

funkettini birboni che sembravano<br />

pescati dal cassetto delle burle di<br />

David Byrne, sciorinando paro-<br />

die country-blues più improbabili<br />

che divertenti (Hot Meat). Ne uscì<br />

un disco emblematico, gradevole<br />

contraddizione tra frenesia e di-<br />

sincanto, alla fine anche carino.<br />

Però, insomma, i Sugarcubes era-<br />

no ormai diventati ciò che intende-<br />

vano mettere alla berlina: una pop<br />

band (5.8/10). La critica disprezzò<br />

come un sol uomo, ma questo non<br />

impedì un discreto successo ed<br />

un nuovo tour mondiale dal quale<br />

la band tornò a casa svuotata. A<br />

mo’ di camera di decompressione,<br />

decisero di buttarla in swing alle-<br />

stendo l’estempora<strong>neo</strong> Konrad’s B<br />

Jazz Group, una scappatella senza<br />

pretese, ma per Björk un po’ come<br />

tornare a respirare. Non fosse sta-<br />

to per quel contratto con l’Elektra,<br />

che imponeva un terzo album, pro-<br />

babilmente l’avventura Sugarcubes<br />

sarebbe finita lì.<br />

Arrivò il 1990, un anno cruciale per<br />

la cantante. Trovato lavoro come<br />

commessa in un negozio di dischi,<br />

ebbe modo di ascoltare di tutto:<br />

etnica, elettronica, jazz. A colpirla<br />

particolarmente furono le compi-<br />

lation Artificial Intelligence della<br />

Warp: Autechre, Speedy J e com-<br />

pagnia bella, coi loro singulti evolu-<br />

ti, la dance immischiata con inven-<br />

zioni soniche figlie dei sacerdoti<br />

ambient, dei druidi kraut e degli<br />

stregoni funky-jazz, dovette sem-<br />

brarle la frontiera perfetta verso cui<br />

dirigere le proprie ispirazioni.<br />

Ormai decisa a fare di sé ciò<br />

che riteneva inevitabile, contattò<br />

Graham Massey della techno band<br />

mancuniana 808 State, chiedendo-<br />

gli aiuto per “vestire” dei pezzi di<br />

propria concezione. Massey rima-<br />

se colpito dalle idee, dalle doti e<br />

dalla persona, al punto da proporle<br />

una partecipazione come vocalist<br />

in due pezzi del nuovo album tar-<br />

gato 808 State, Ex:El (ZTT, maggio<br />

1991). Massey ci aveva visto giu-<br />

sto: Björk s’incarnò letteralmente<br />

nel corpo elettronico dei pezzi, vi<br />

si abbandonò senza svanire, trasfi-<br />

gurandosi grazie ad uno scat jazzy<br />

che sprimacciava il timing con una<br />

vena di pastosa corporalità. In Q-<br />

Mart, dinoccolata etno-ambient-te-<br />

chno-jazz, sembra un’invasata ra-<br />

ziocinante, anticipando in qualche<br />

modo gli umori e le astrazioni del<br />

Thom Yorke periodo Kid A. L’altra<br />

canzone, Oops, è invece quasi una<br />

ballad funk-jazz percorsa da fauna<br />

sintetica ed un basso “bristoliano”,<br />

ben più adatta alle palpitazioni sel-<br />

vatiche e struggenti della voce.<br />

Una techno cantata così non s’era<br />

mai sentita.<br />

Al rientro in patria l’attendeva un<br />

piacevole colpo di scena: fu “reclu-<br />

tata” dal rinomato Gudmundur In-<br />

golfsson Trio per un concerto jazz<br />

alla radio di stato. Björk si rivelò<br />

una eccellente per quanto peculia-<br />

re cantante jazz, come testimonia il<br />

successivo, inevitabile live in stu-<br />

dio Gling-Glò (Bad Taste, maggio<br />

1990), che divenne in breve di pla-<br />

tino. Ma, quel che più conta, questa<br />

esperienza fu la deflagrazione del-<br />

le capacità canore di Björk, di quel<br />

suo procedere per fanciulleschi in-<br />

canti, istintive epifanie, puntiglio-<br />

se dedizioni (6.6/10). Dopo, nulla<br />

poteva essere lo stesso. Tranne,<br />

forse, gli Sugarcubes, il cui terzo<br />

album attendeva di germogliare. La<br />

longa manus dell’Elektra interven-<br />

ne per blindare qualitativamente<br />

il lavoro, ingaggiando il producer<br />

Paul Fox, già al lavoro con gli XTC.<br />

La scelta si rivelò azzeccatissima.<br />

Stick Around For Joy (One Little<br />

Indian, febbraio 1992) fu un eccel-<br />

lente canto del cigno. Registrato<br />

tra Reykjavik e New York, mise sul<br />

tavolo arrangiamenti strutturati ma<br />

fluidi, vibranti a tinte forti, infarciti<br />

di trovate e citazioni (trombe vetro-<br />

se, chitarre floydiane, corettini à la<br />

Tom Tom Club, cori da stadio...),<br />

senza mai venire meno alla solidi-<br />

tà del sound. Le chitarre ribolliva-<br />

no di umori blues e spasmi wave,<br />

ad un passo dal big rock e a due<br />

dal synth-pop, le atmosfere e le<br />

melodie capaci di tremiti esplosivi<br />

(Hetero Sum), impetuosi baluginii<br />

Eno/U2 (Leash Called Love) e ro-<br />

manticherie strapazzate funk (Hit).<br />

Björk fece tanto buon viso a cattivo<br />

gioco da mettere a segno le sue mi-<br />

gliori esecuzioni pop-rock di sem-<br />

pre, su tutte l’apprensiva solennità<br />

ed il lirismo accorato di I’m Hungry<br />

(6.9/10). Anche se accolto benissi-<br />

mo dalla critica e dal mercato, l’al-<br />

bum non fece recedere la cantante<br />

dalle proprie intenzioni: la carriera<br />

solista era ormai scritta nelle cose.<br />

La chiamata dei mostri sacri U2,<br />

che li vollero come apertura dello<br />

Zoo Tv tour americano, servì solo<br />

a rinviare l’inevitabile. Con la fine<br />

del ‘92, i Sugarcubes cessarono di<br />

esistere. Björk si trasferì a Londra.<br />

A l i c e n e l l a C i t y d e l l e m e r a v i -<br />

g l i e<br />

Per nulla intimorita dalla distanza<br />

“antropologica” tra Reykjavik e la<br />

City, Björk visse i primi tempi londi-<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 2 7


nesi con analitica ed energica me-<br />

raviglia. La relazione col dj inglese<br />

Dominic Thrupp certo l’aiutò, ma è<br />

grazie alla sua determinazione se<br />

le tessere iniziarono a radunarsi.<br />

Coinvolse a vari livelli Birkett, Fox<br />

e Massey, contattò l’arpista Corky<br />

Hale, il percussionista indiano Tal-<br />

vin Singh ed il sassofonista Oliver<br />

Lake degli Art Ensemble Of Chica-<br />

go. Quindi avvenne l’incontro deci-<br />

sivo con Nellee Hooper, già produ-<br />

cer per Soul II Soul e - soprattutto<br />

- Massive Attack. Tra i due s’in-<br />

staurò un’intesa amniotica attorno<br />

a quell’idea di pop evoluto - gioio-<br />

so, intenso, avanguardistico - che<br />

informerà Debut (One Little Indian,<br />

luglio 1993).<br />

Il disco portava a compimento i<br />

tanti segnali disseminati negli anni<br />

dalla islandese, organizzandoli in<br />

una prospettiva estetica questa sì<br />

del tutto nuova: fin dall’iniziale Hu-<br />

man Behaviour l’amore per il folk,<br />

il soul ed il jazz (latin tinge, visto<br />

il campione di Go Down Dying di<br />

Jobim) vengono come rappresi in<br />

una gelatina electro complessa e<br />

assieme conciliante, portatrice di<br />

un fascino misterioso ma del tut-<br />

to votato alla fruizione popular. La<br />

raffinatezza di Venus As A Boy, con<br />

gli esotici archi arrangiati da Talvin<br />

Singh, il cristallino struggimento<br />

per arpa di Like Someone In Love,<br />

il downtempo languido di Come To<br />

Me (sorta di Night And Day post-<br />

moderna), trovano allibente/gusto-<br />

2 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

so contraltare nel passo dance di<br />

Big Time Sensuality, nella febbrile<br />

spinta techno di Violently Happy e<br />

nella cassa in quattro sudaticcia<br />

di There’s More To Life Than This<br />

(con la geniale trovata del canto a<br />

cappella nel bagno del Milk Bar e<br />

quel corettino che rimanda a Wan-<br />

na Be Startin’ Somethin’ di Michael<br />

Jackson).<br />

Una scaletta eterogenea che la<br />

particolare cifra espressiva di Björk<br />

unifica col suo manifestarsi im-<br />

plume e selvatico, estranea in un<br />

mondo adorato e temuto. Quale<br />

suggello della scaletta originaria<br />

(ruolo che nelle successive edizio-<br />

ni toccherà alla torva magnificenza<br />

di Play Dead, pezzo composto per<br />

la colonna sonora di Young Ame-<br />

ricans, film di David Arnold), The<br />

Anchor Song corrisponde a questo<br />

identikit alieno, col suo impianto<br />

jazz stranito e l’afflato cameristi-<br />

co per ottoni cartilaginosi, non di-<br />

stante da certe diafane concrezioni<br />

Talk Talk (7.2/10).<br />

Il successo di Debut fu addirittu-<br />

ra uno shock: oltre mezzo milione<br />

di copie in tre mesi, che dopo altri<br />

tre mesi divennero un milione (ne-<br />

gli anni saranno quasi tre milioni).<br />

I media strinsero immediatamente<br />

un feroce assedio. Björk divenne<br />

un autentico fenomeno pop-rock,<br />

anche grazie alla franca stranezza<br />

delle sue interviste, oltremodo ge-<br />

nerose e sfrenate rispetto alla me-<br />

dia. A quel punto occorreva allestire<br />

una band per soddisfare le pres-<br />

santi necessità promozionali, ma<br />

anziché affidarsi a turnisti prezzo-<br />

lati, la ragazza scelse di perseguire<br />

un live sound più umano e cosmo-<br />

polita: confermato Talvin Singh alle<br />

percussioni, reclutò un batterista<br />

turco, una tastierista iraniana, un<br />

bassista caraibico... Lo scopo era<br />

costruirsi attorno una combriccola<br />

in cui le intese e l’anticonvenziona-<br />

lità contassero più delle competen-<br />

ze tecniche. Pur tra varie difficoltà,<br />

il tour europeo ed americano furono<br />

portati a termine. La prima apoteo-<br />

si pop giunse nel febbraio del ‘94<br />

ai Brit Awards, dove vinse nelle<br />

categorie Miglior Esordiente e Mi-<br />

glior Artista Femminile: la melmosa<br />

cover di Satisfaction eseguita as-<br />

sieme all’altro fenomeno femminile<br />

PJ Harvey - ragazze esteticamente<br />

agli antipodi ma unite da un’istinti-<br />

vità lacerante - rappresentò il me-<br />

morabile pendant della serata. Nel<br />

frattempo, la diva Madonna bussò<br />

alla sua porta chiedendole una can-<br />

zone: anche se latrice di un quid<br />

estetico agli antipodi, il richiamo<br />

della Ciccone era di quelli irrinun-<br />

ciabili. Così le confezionò Bedtime<br />

Story (singolo non particolarmente<br />

fortunato, del resto). Per la crona-<br />

ca, fioccarono numerose proposte<br />

cinematografiche, tutte rispedite al<br />

mittente. In pochi mesi insomma la<br />

vita di Björk fu stravolta, spedita in<br />

alto a velocità folle. Troppo di tutto,<br />

troppo in fretta. Da crisi di nervi.


M i s s i v e i p e r p o p<br />

Il successore di Debut non poteva<br />

che stupire ulteriormente o delude-<br />

re. Björk scelse la prima opzione,<br />

ma senza ricorrere a trucchi. Solo<br />

se stessa, al massimo livello, con<br />

le proprie doti di compositrice e<br />

interprete ma anche la capacità di<br />

tessere le giuste relazioni. In bre-<br />

ve, sensibilità diverse come il cef-<br />

fo del trip-hop Tricky, il rampante<br />

electro Howie B. e una leggenda<br />

in pensione come Eumir Deoda-<br />

to - oltre ai soliti Nellee Hooper e<br />

Graham Massey - furono coinvolti<br />

nella “fabbrica” sonora dell’islande-<br />

se. Post (One Little Indian, giugno<br />

1995) fu quindi la missiva che Björk<br />

spedì al mondo in risposta a tutte<br />

le aspettative. Le prime incisioni<br />

avvennero alle Bahamas, dove si<br />

ritirò alla ricerca di isolamento da<br />

opporre alla sbornia del successo,<br />

ma anche per obbedire ad una del-<br />

le idee di partenza, cioè che l’elet-<br />

tronica dovesse ricongiungersi alla<br />

natura, perché parte della natura.<br />

Ovvero, la natura attraverso l’elet-<br />

tronica. Rientrata a Londra però,<br />

sentì impellente il bisogno di rimet-<br />

tere mano al materiale, di rendere<br />

più analogica, naturale la cifra sin-<br />

tetica del sound.<br />

Un dualismo poetico ed estetico<br />

speculare a quello tra avanguardia<br />

e pop music, che in questo disco<br />

arrivò molto vicino a compiersi.<br />

Come ci dice una Isobel capace di<br />

far coesistere pulsioni trip-hop, tri-<br />

balismo sottile e la melodrammatica<br />

orchestrazione di Deodato, oppure<br />

quella Hyperballad dove ambient,<br />

dance e jazz covano un plausibile<br />

classico per i decenni a venire, o<br />

ancora quella I Miss You che - pre-<br />

vio Howie B. - diventa un carosello<br />

di pulsazioni e percussioni, mentre<br />

la trickyana Enjoy è squarciata da<br />

vere vampe di tromba a cura del re-<br />

divivo Einar Orn.<br />

Björk appare evidentemente cre-<br />

sciuta e meno fragile, per quanto<br />

mantenesse il suo sguardo appren-<br />

sivo e sbalordito sulle cose, la sen-<br />

sibilità scossa e arguta, sbilanciata<br />

sulla futuristica congiuntura David<br />

Sylvian-Aphex Twin di Possibly<br />

Maybe e scaldata dalla possibili-<br />

tà inestinguibile del passato, che<br />

torna come un colpo di coda nella<br />

irresistibile It’s Oh So Quiet (co-<br />

ver di Blow A Fuse, un brano anni<br />

Quaranta di Betty Hutton), musical<br />

swingante squarciato da ragli libe-<br />

ratori. Con quell’inimitabile miscu-<br />

glio di furia, ingegno e devozione,<br />

con quella scelleratezza bambina<br />

come un eureka sferzante, vivido,<br />

Björk confezionò una eccellente<br />

opera seconda, per molti il suo au-<br />

tentico capolavoro (7.5/10).<br />

Un disco fortunato, sostenuto da vi-<br />

deo clip al solito particolarissimi e<br />

particolarmente efficaci. Se la cen-<br />

sura cassò quello di Army Of Me,<br />

colpevole di evocare suo malgrado<br />

l’ancora fresco attentato terroristi-<br />

co in Oklahoma che costò la vita a<br />

168 persone, quello di It’s Oh So<br />

Quiet, diretto da Spike Jonze, con-<br />

quistò finalmente la fascia oraria<br />

più affollata di MTV. Intanto Björk<br />

s’imbarcò in una trafelata, proble-<br />

matica relazione con Tricky. Ma<br />

non durò molto.<br />

Con la nomination come miglior album<br />

di musica alternativa ai Grammy Awar-<br />

ds, l’anno si chiuse nel migliore dei<br />

modi. Il ‘96 si aprì nel segno di Goldie,<br />

nuovo nome caldo del drum’n’bass,<br />

col quale Björk instaurò una intensa<br />

liason, frustrata dalla inevitabile lonta-<br />

nanza. Questo, assieme alla pressione<br />

sempre meno sostenibile degli impe-<br />

gni, provocò il tracollo nervoso della<br />

cantante, che assalì la giornalista Julie<br />

Kaufman sotto gli occhi delle teleca-<br />

mere. Il periodo difficile fu alleviato da<br />

straordinarie esperienze come l’intervi-<br />

sta a Stockhausen per la rivista “Da-<br />

zed And Confused” e la collaborazione<br />

con Kent Nagano, direttore d’orchestra<br />

che la ingaggiò per eseguire il Pierrot<br />

Lunaire di Schonberg e la Sprechstim-<br />

me al Verbier Festival ‘96 in Svizzera.<br />

Per quanto effimera, l’esperienza fu il<br />

suo apice avanguardistico di sempre.<br />

tre quello in Hidden Place è un<br />

mazzo di carte mischiato (eh, gli<br />

impagabili Matmos…), senza con-<br />

tare che per ottenere l’incantevole<br />

tintinnio di Frosti fu commissionato<br />

uno speciale carillon di plexiglass...<br />

Anche dal punto di vista dei testi<br />

non si scherzava: se An Echo A<br />

Stein s’ispira all’opera della dram-<br />

maturga inglese Sarah Kane, morta<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 2 9


G e o g r a f i e s o n i c h e<br />

Il tour mondiale estivo si svolse<br />

senza intoppi, ma altri giorni diffi-<br />

cili attendevano al varco: prima finì<br />

la storia con Goldie, da cui Björk<br />

uscì a pezzi, quindi un fan si sui-<br />

cidò dopo averle spedito un pacco<br />

bomba, che fortunatamente venne<br />

intercettato da Scotland Yard. I<br />

sensi di colpa e di assedio le fe-<br />

cero prendere in considerazione<br />

l’ipotesi di abbandonare lo show-<br />

biz, ma la stesura dei pezzi per il<br />

nuovo album furono la giusta tera-<br />

pia. Nel frattempo venne licenziato<br />

Telegram (One Little Indian, 1996),<br />

album che raccoglieva alcuni remix<br />

ad opera di LFO, Graham Massey<br />

e Dilinja tra gli altri. Accolto dalla<br />

stampa come un’opera meramen-<br />

te speculativa, fu invece difeso a<br />

spada tratta da Björk. In effetti, la<br />

scaletta soffre di una programma-<br />

tica eterogeneità: troppa la distan-<br />

za che intercorre tra la versione da<br />

camera di Hyperballad e la jungle<br />

ansimante di Cover Me, tra la nuda<br />

latineria di My Spine e la techno-<br />

funk vischiosa di Possibly Maybe.<br />

Così come appare eccessiva al li-<br />

mite del gratuito la trasfigurazione<br />

di Enjoy mentre al contrario Isobel<br />

è forse eccessivamente cremosa<br />

nel suo bozzolo cinematico. Ma il<br />

progetto intendeva ammiccare alla<br />

ricerca infinita (perché impossibile<br />

da compiersi) della versione miglio-<br />

re, un procedimento jazz applicato<br />

al pop. Capace quindi di azzeccare<br />

una stupenda You’ve Been Flirting<br />

Again e soprattutto una Headpho-<br />

nes che è come una strizzata d’oc-<br />

chio all’Eno berlinese gentilmente<br />

fornita da Mika Vannio dei Panso-<br />

nic (6.5/10).<br />

Ma era ormai tempo di Homogenic<br />

(One Little Indian, 1997). Nato nel<br />

segno dell’Islanda, da intendersi<br />

come il desiderio di tornare alle<br />

origini e come simbolo estremo e<br />

puro di Natura, rifletteva la solita<br />

vecchia idea di Björk: raggiungere<br />

il cuore della natura attraverso una<br />

calcolatissima giustapposizione<br />

di analogico e digitale. Concessa<br />

massima libertà all’ingegnere del<br />

suono Mark Dravs - già al lavoro<br />

su Post - per l’ideazione di pat-<br />

tern ritmici e perturbazioni sinte-<br />

tiche, si concentrò sulle melodie,<br />

0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

che già in nuce intendeva suppor-<br />

tare con un quartetto d’archi. Ave-<br />

va tutto in testa, in qualche modo.<br />

Si era costruita anche una teoria,<br />

un po’ strampalata a dire il vero,<br />

per cui le ritmiche simboleggiava-<br />

no la potenza eruttiva e gli archi<br />

una nevicata (!).<br />

Fortunatamente le sessioni si svol-<br />

sero in Spagna, il cui sensuale ab-<br />

braccio assorbì appieno la sensibi-<br />

lità di Björk disperdendo i rischi da<br />

deriva new age. Per quanto sapes-<br />

se di dover partorire un lavoro am-<br />

bizioso, credeva di poterlo produr-<br />

re da sola. Ma, anche stavolta, alla<br />

fine fu costretta a rinunciare per<br />

condividere oneri e onori con Howie<br />

B, Guy Sigsworth e soprattutto<br />

Mark Bell degli LFO. In particola-<br />

re la sofisticata IDM di quest’ultimo<br />

lasciò un segno profondo nel sound<br />

di questi undici pezzi, come dimo-<br />

stra il funk estatico di Alarm Call,<br />

ad un tempo frigido e palpitante,<br />

carezzevole e viscerale.<br />

Alla fine per gli archi fu ingaggiato<br />

un ottetto, che regala agli arrangia-<br />

menti di Deodato un respiro ampio<br />

e pregnante, drammaticissimo in<br />

Bachelorette - tango struggente<br />

concepito in origine per Io ballo da<br />

sola di Bertolucci - e arioso in Joga,<br />

che seppur dedicato all’amica mas-<br />

saggiatrice è il pezzo emblematico<br />

del lavoro, col suo impasto di tu-<br />

multo e reminiscenza digitale, grido<br />

d’allarme e abbandono vagamente<br />

Sylvian. Più o meno ovunque il con-<br />

trasto si risolve con imprendibile<br />

armonia, a partire dalle pulsazioni<br />

sintetiche impastate con le citazio-<br />

ni del Bolero di Ravel in Hunter, la<br />

fisarmonica trasfigurata ed il canto<br />

che gioca tra astratta apprensione<br />

e squarci accorati. Idem dicasi per<br />

Unravel - col passo digitale in un<br />

grembo d’organo, corni, archi, arpa<br />

- e per la conclusiva All Is Full Of<br />

Love, nel cui setoso viluppo elet-<br />

tronico sprofondano gocce di clavi-<br />

chord e gli sbuffi algidi dell’armoni-<br />

ca di vetro.<br />

La voce di Björk appare ulteriormen-<br />

te maturata, si trattiene sull’orlo<br />

delle antiche lacerazioni (a parte i<br />

torvi melismi nella techno nevraste-<br />

nica di Pluto) per abbracciare ten-<br />

sioni diafane e cavalcare tribalismi<br />

scoppiettanti. Sembra provenire or-<br />

mai da un luogo imperscrutabile.<br />

Si astrae, arretra l’evidenza fisica<br />

dietro quella del simbionte, un po’<br />

come accade nell’immagine della<br />

copertina. L’individuo Björk cede<br />

il passo all’artista, forse in conse-<br />

guenza della palese maturazione<br />

estetica e poetica o forse come<br />

reazione alle minacciose pressio-<br />

ni del mondo esterno (7.3/10).<br />

La “macchia” di Telegram venne<br />

subito accantonata quando Ho-<br />

mogenic piovve sul mercato, gua-<br />

dagnandosi ottime recensioni e<br />

buone vendite. Questo e la fresca<br />

relazione con Howie B, apparen-<br />

temente più tranquilla delle prece-<br />

denti, resero questo periodo parti-<br />

colarmente felice.<br />

I l b e l l ’ a n a t r o c c o l o<br />

Mentre Homogenic spediva la sua<br />

autrice sempre più in alto nell’emi-<br />

sfero (electro)rock internaziona-<br />

le, forte anche degli straordinari<br />

videoclip (quello di Bachelorette<br />

del sempre più visionario Gondry,<br />

quello sensualmente cyber di All Is<br />

Full Of Love firmato da Chris Cun-<br />

nigham) e della ipertrofica perfor-<br />

mance agli MTV Awards (coreogra-<br />

fie e costumi da geisha nordica per<br />

una Bachelorette sul filo di un kitch<br />

sofisticato, affabile e sottilmente<br />

provocatorio), qualcuno cospirava<br />

un futuro da attrice per Björk. Era<br />

a lei che il regista danese Lars Von<br />

Trier pensava stendendo la sce-<br />

neggiatura di Dancer In The Dark.<br />

Sorprendentemente, Björk accettò<br />

la proposta: avrebbe interpreta-<br />

to il ruolo di Selma, la disgrazia-<br />

ta e struggente protagonista, e si<br />

sarebbe occupata di tutte le musi-<br />

che. C’erano tutte le premesse per<br />

un’avventura tormentata, cosa che<br />

puntualmente avvenne. Tra il vate<br />

del Dogma 99 e la popstar islande-<br />

se si alternarono momenti di pro-<br />

fonda intesa e laceranti dissidi. Le<br />

cronache delle riprese - avviate in<br />

Svezia nel maggio del ‘99 - riporta-<br />

no di solenni sfuriate e rari momen-<br />

ti di grazia.<br />

Quanto alla soundtrack, altro ele-<br />

mento di contrasto furono i testi<br />

forniti da Von Trier, subito giudicati<br />

inadeguati da Björk, che chiamò il<br />

paroliere Sjon Sigurdsson a porvi<br />

mano. Il disco acquisì presto vita


propria, raccolta di canzoni pensa-<br />

te come omaggio al personaggio di<br />

Selma, in cui - da volenterosa at-<br />

trice dilettante - s’immedesimò to-<br />

talmente: ecco il motivo delle ribel-<br />

lioni ai diktat del regista (che pure<br />

era l’autore del plot) ma anche del-<br />

la sostanziale riuscita dell’interpre-<br />

tazione, che le fruttò addirittura la<br />

Palma d’Oro al Festival di Cannes<br />

2000 come miglior attrice protago-<br />

nista. Lei candidamente confessò<br />

che avrebbe preferito un riconosci-<br />

mento per le musiche. E che col ci-<br />

nema aveva chiuso.<br />

Quanto a Selmasongs (One Little<br />

Indian, maggio 2000), l’ennesimo<br />

scarto dai desiderata della produ-<br />

zione fu il coinvolgimento di Thom<br />

Yorke in I’ve Seen It All, in sosti-<br />

tuzione della tutt’altro che sod-<br />

disfacente voce dell’attore Peter<br />

Stormer. Una scelta felice per una<br />

ballad dal fosco languore mitteleu-<br />

ropeo, dove le volute orchestrali<br />

(fu ingaggiata un’orchestra di ot-<br />

tanta elementi) ed i beat sfrangiati<br />

(a cura di Bell e Sigsworth) sono<br />

lo sfondo cinematico del fascinoso<br />

intreccio vocale. Quanto al resto<br />

della scaletta, tolta la tipica intro-<br />

duzione per orchestra su titoli di<br />

testa di Ouverture (composta da<br />

Björk stessa), l’ascolto non soffre<br />

l’assenza del supporto visivo come<br />

spesso accade per le soundtrack.<br />

Ciò vale anche quando le stranian-<br />

ti situazioni della pellicola - con gli<br />

ipercromatici inserti musical nella<br />

grana sovraesposta della quotidia-<br />

nità - trovano eco nelle strutture<br />

dei pezzi, come nella trascinante In<br />

The Musical - una It’s Oh So Quiet<br />

trafelata da un venticello industriale<br />

- e soprattutto in Cvalda, impetuoso<br />

pastiche tra funk e tip tap, robotico<br />

e swingante, squarciato da vampe<br />

di ottoni, con fugace intervento di<br />

Catherine Deneuve.<br />

Se una 107 Steps gioca invece<br />

a giustapporre angosce Gloomy<br />

Sunday e trame bristoliane, Scat-<br />

terheart è un’eterea ninna nanna<br />

scoppiettante finché non svolta si-<br />

nuosa e noir, mentre la conclusiva<br />

New World è l’amniotica pietas che<br />

- recuperando il tema della Ouver-<br />

ture - procede a cuore pieno ver-<br />

so un agognato futuro, commossa<br />

chiosa ad un’esperienza travagliata<br />

ma - a giudicare dai risultati - estre-<br />

mamente positiva (6.9/10).<br />

L ’ a n n o d e l c i g n o ( d o m e s t i c o )<br />

Durante la tregenda cinematografi-<br />

ca, Björk non smise di pensare e<br />

produrre musica. Ma la situazione<br />

comportò un deciso spostamento di<br />

coordinate: quasi a compensare la<br />

“forzata estroversione” del ruolo di<br />

attrice, si ritirò in un bozzolo intimi-<br />

sta, cullandosi con suoni sussurrati<br />

e ritmi digitali che prendevano vita<br />

nel suo laptop (cordone ombelicale<br />

di internet compreso), supportata<br />

dal fedele Valgeir Sigurdsson. La<br />

sua incessante curiosità si imbatté<br />

nel lavoro del misconosciuto talento<br />

danese Opiate, al secolo Thomas<br />

Knak, mentre si consolidò il rappor-<br />

to coi californiani Matmos, già al<br />

lavoro su un remix di Alarm Call.<br />

Di questi ultimi Björk s’invaghì let-<br />

teralmente, e non poteva essere<br />

altrimenti: la loro capacità di cam-<br />

pionare in pratica qualsiasi cosa<br />

- costruirono tutto il loro Quasi-<br />

Objects (Vague Terrain, 1998) rie-<br />

laborando il rumore di maglie, pallo-<br />

ni, il corpo stesso! - e ricondurlo ad<br />

una dimensione post-concreta più<br />

affabile che inquietante, realizzava<br />

magnificamente l’idea di “avanguar-<br />

dia che si fa pop”. In questo alveo<br />

assieme intimista e ipermodernista,<br />

Björk intendeva sviluppare il con-<br />

cept del nuovo album, che avrebbe<br />

dovuto intitolarsi Domestika. Un<br />

utilizzo meno invasivo degli archi,<br />

quindi arpa, clavichord, celeste,<br />

carillon da una parte, dall’altra le<br />

pulsazioni digitali, e la voce a cuci-<br />

re i due lembi del bozzolo: questa<br />

la rotta iniziale, che Björk terrà più<br />

o meno fino alla fine.<br />

Un folk elettronico da ascoltarsi<br />

in salotto o in camera, lontano dai<br />

rave e dal dancefloor, in omag-<br />

gio al “quotidiano magico” quale<br />

nuovo fulcro sensitivo/creativo<br />

della contemporaneità. Non cer-<br />

to a caso, verso la metà del 2000<br />

si trasferì a Manhattan dal nuo-<br />

vo compagno Matthew Barney,<br />

celebre artista multimediale ori-<br />

ginario di San Francisco, auten-<br />

tica leggenda contemporanea del-<br />

l’avanguardia - per quanto fosse<br />

un classe ‘67 - già premiato alla<br />

Biennale di Venezia per il ciclo di<br />

film The Cremaster, che gli gua-<br />

dagnò un’installazione permanen-<br />

te al Guggenheim Museum.<br />

Björk trovò nella casa di Barney<br />

un ambiente ideale, nido, studio<br />

e alcova. Tuttavia, c’erano anco-<br />

ra dei ticket da pagare. E non al<br />

risparmio. Causa la nomination di<br />

I’ve Seen It All come miglior bra-<br />

no originale, Björk si presentò alla<br />

cerimonia degli Oscar 2001 con un<br />

vestito che passerà alla storia, una<br />

gonna piumata e l’imitazione del<br />

collo di un cigno che l’avvolgeva<br />

come un boa. Il fatto che cammi-<br />

nando depositasse delle uova non<br />

voleva essere una bizzarria fine a<br />

se stessa, ma la spiegazione del-<br />

l’abito: il cigno infatti simboleggia-<br />

va ad un tempo romanticismo e fer-<br />

tilità. I media però non guardarono<br />

tanto per il sottile e risposero alla<br />

provocazione estetica della ragaz-<br />

za con una impietosa campagna<br />

denigratoria. La peggio vestita del<br />

mondo, quelle cose lì. Forse con-<br />

sapevole che un po’ se l’era andata<br />

a cercare, magari anche più matu-<br />

ra, Björk non ne fece un dramma e<br />

anzi rilanciò l’immagine del cigno -<br />

non senza sottile autoironia - nella<br />

copertina del nuovo album che nel<br />

frattempo decise di chiamare Ve-<br />

spertine (One Little Indian, 2001).<br />

Registrato tra Islanda, Spagna e<br />

New York, vide all’opera come al<br />

solito una messe di collaboratori: ai<br />

già citati Opiate - c’è la sua firma<br />

nel palpitante cromatismo electro<br />

soul di Undo e nella sconcertante<br />

nudità di Cocoon - e Matmos - ai<br />

quali propose di intervenire coi<br />

loro campionamenti ridotti a crepi-<br />

tii microtonali su pezzi già formati<br />

- si aggiunsero il tedesco Console<br />

- sua la melodia di Heirloom, il pez-<br />

zo più brioso del lotto - più un bre-<br />

ve intervento di Matthew Herbert<br />

in Hidden Place. L’aspetto sonoro<br />

è estremamente curato eppure di-<br />

screto, lo sforzo è rivolto ai detta-<br />

gli, una definizione quasi frattale<br />

che invita all’indagine e assieme<br />

rilassa abbozzando un ambiente<br />

familiare, per quanto spinto su di-<br />

mensioni avveniristiche.<br />

Suoni vivi, testimoni di vita: basti<br />

pensare che il fruscio all’inizio di<br />

Aurora altro non è che il rumore dei<br />

dei passi di Björk sulla neve, men-<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


suicida nel ‘99, l’esotica svenevo-<br />

lezza di Sun In My Mouth rielabora<br />

un testo dell’eversore grammatica-<br />

le E. E. Cummings, mentre Harm<br />

Of Will è frutto del poeta e regista<br />

statunitense Harmony Korine.<br />

Il cerchio si compie con l’intensa<br />

Pagan Poetry, a passo di geisha<br />

tra brume industriali e soul setoso,<br />

la cui carica sensuale e dispera-<br />

ta trova straordinario riflesso nel<br />

video realizzato da Nick Knight,<br />

tra dissolvimento digitale e fisicità<br />

estrema. Con questo disco proba-<br />

bilmente Björk raggiunse l’ideale<br />

dosaggio tra sperimentazione e<br />

comunicatività, tra avanguardia e<br />

pop. Un punto di equilibrio dove le<br />

opposte istanze cessano di essere<br />

tali, anzi si nutrono l’una dell’altra,<br />

svelandosi nuove possibilità. In<br />

questo senso, Vespertine va con-<br />

siderato il suo capolavoro (8.0/10).<br />

B a t t i t i d i c a r n e<br />

Il successivo tour mondiale venne<br />

concepito come un trionfo: per lo-<br />

cation furono scelti teatri normal-<br />

mente destinati alla “colta” (in Italia<br />

toccò al Teatro Regio di Parma), la<br />

crew - si fa per dire - consisteva in<br />

un’orchestra di 54 elementi, un’arpi-<br />

sta, quattordici voci inuit e una can-<br />

tante “di gola” canadese. A costoro<br />

si aggiunsero i due Matmos ad im-<br />

personare il link con l’iper (o post)<br />

modernità. Il risultato fu esattamen-<br />

te quello pronosticato: un trionfo.<br />

Al termine del quale, inizio 2002,<br />

Björk si prese una pausa. Dovero-<br />

sa e fruttuosa. Presto fu annunciata<br />

la gravidanza e a ottobre nacque la<br />

secondogenita Isadora. Più o meno<br />

contemporaneamente uscirono il<br />

box in 6 cd (best e rarità) Family<br />

Tree (One Little Indian, novembre<br />

2002) ed il Greatest Hits (One Little<br />

Indian, novembre 2002), che frutta-<br />

rono quale unico inedito It’s In Our<br />

Hands, electro-soul sinuoso aperto<br />

come un fiore a nuove prospettive di<br />

speranza e - perché no? - gioia, non<br />

a caso già suggello di molti concerti<br />

passati e a venire.<br />

La rinnovata maternità - vissuta con<br />

sensibilità certo più adulta - pro-<br />

vocò una naturale rivoluzione che<br />

spostò il corpo (la fisicità) in primo<br />

piano. Dopo le ragnatele sintetiche,<br />

i singulti e i sospiri di Vespertine,<br />

2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

in Medulla (One Little Indian, 2004)<br />

avvenne un deciso spostamento<br />

dell’obiettivo (attra)verso la carne,<br />

una dimensione per così dire fisio-<br />

logica, “culturalmente” corporea,<br />

di cui i beats realizzati “a voce”<br />

non erano che il riflesso “formale”.<br />

Se da un lato vennero confermati<br />

Valgeir Sigurdsson e Mark Bell, la<br />

squadra dei collaboratori subì gio-<br />

coforza dei cambiamenti: fu coin-<br />

volto il newyorkese Rahzel, detto<br />

“the godfather of noyze”, un beat<br />

boxer capace di generare quasi<br />

tutte le parti percussive e di basso<br />

con la sola voce, spalleggiato in ciò<br />

dall’omologo giapponese Dokaka e<br />

- udite udite - dall’irrefrenabile e<br />

polimorfo Mike Patton, mentre la<br />

cantante canadese “di gola” Tanya<br />

Tagaq svolse quel ruolo di guarni-<br />

zione che in precedenza spettava<br />

agli espedienti sintetici.<br />

La voce dunque tornava prepoten-<br />

te in prima linea con conseguente<br />

arretramento dell’elettronica, ap-<br />

pena evidente in Desired Constel-<br />

lation (dove comunque molti suoni<br />

all’apparenza digitali sono la voce<br />

di Björk stessa) oppure decisiva ma<br />

stemperata nella fauna di strumen-<br />

ti “umani”, come in Mouth’s Cradle<br />

(aura world-music tra le irrequie-<br />

tezze angelicate dell’Icelandic<br />

Choir), Who Is It (ansiti, tramestii<br />

e basse frequenze per funky ca-<br />

priccioso) e nella pazzesca Where<br />

Is The Line (cui Patton - i suoi pol-<br />

moni, la gola, il naso, il diaframma,<br />

la lingua, il corpo - regala sulfuree<br />

convulsioni).<br />

Björk sembrava voler intraprendere<br />

un’indagine più accurata che acco-<br />

rata sulle tracce del fattore umano<br />

presente e prossimo venturo. Con<br />

sguardo inesorabile e trepido, oniri-<br />

co e surreale, decise di abbracciare<br />

modi e forme perlopiù tradizionali<br />

- quasi arcaiche - trasfigurandone<br />

le sagome all’interno di un incanto<br />

apocalittico. Una premessa esteti-<br />

ca eccessiva se vogliamo, quasi un<br />

reticolo intellettuale posto a sovrin-<br />

tendere lo sbilanciamento fisico. Ne<br />

risultò una prospettiva decisamente<br />

anti-pop. Un’anomalia, per non dire<br />

un difetto, alla luce di una carriera<br />

che ha sempre acquistato senso e<br />

forza proprio nell’incontro/tensione<br />

tra avanguardia e pop.<br />

Per quanto fascinosa - il batticuo-<br />

re sperduto di Ancestors, la para-<br />

disiaca morbosità di Pleasure Is<br />

All Mine - o ammiccante - la danza<br />

disarticolata di Triumph Of A Heart<br />

- la ricerca di Björk sembrava svol-<br />

gersi ad un livello più alto rispetto<br />

al comune sentire. Non sarebbe di<br />

per sé un demerito se non sfiorasse<br />

talvolta il lezioso (nella didascalica<br />

Submarine, composta ed eseguita<br />

assieme a Robert Wyatt) quando<br />

non il pretenzioso, vedi il madrigale<br />

marmorino di Vökuró o il post-tango<br />

cinematico di Oceania, inno delle<br />

Olimpiadi di Atene (6.5/10).<br />

Segnali parzialmente confermati<br />

l’anno successivo da Drawing Re-<br />

straint 9 (One Little Indian, luglio<br />

2005), colonna sonora dell’omoni-<br />

ma pellicola di Barney, anche se<br />

può sembrare ingrato considerarlo<br />

alla stregua di un lavoro di Björk,<br />

che sembrò mettersi completamen-<br />

te a disposizione della proposta<br />

visuale del marito, cantando solo<br />

in tre brani per concentrarsi sulle<br />

austere possibilità dello Sho (stru-<br />

mento giapponese a tre note) e del<br />

teatro Nô (6.0/10).<br />

S c i a m a n e s i m o i p e r p o p<br />

Poi, in sostanza, sparisce. Un si-<br />

lenzio clamoroso perché signifi-<br />

ca attesa. Spezzata dal consueto<br />

rosario di anticipazioni sul nuovo<br />

album, tra cui un paio notevoli: il<br />

progetto vede coinvolti tra gli altri<br />

il superproduttore Timbaland - pro-<br />

prio quello di Missy Elliott, Nelly<br />

Furtado e Justin Timberlake - e<br />

l’efebico e sempre più onnipresen-<br />

te Antony Hegarty. Segnali che<br />

fanno pensare ad una oscillazione<br />

fin troppo contraria rispetto alle re-<br />

centi derive avanguardiste, espe-<br />

dienti ultra hype piuttosto ovvi, per<br />

non dire oziosi. Ma altri nomi come<br />

i Konono N°1 - band percussiva<br />

congolese - e il batterista avant-<br />

noise Chris Corsano - già al lavoro<br />

con Paul Flaherty, Kim Gordon e<br />

Jim O’Rourke tra gli altri - sposta-<br />

no l’ago della bilancia verso l’an-<br />

tico solco björkiano, borderline tra<br />

sperimentazione e pop.<br />

L’antipasto arriva ad aprile 2007<br />

col clip di Earth Intruders, diretto<br />

dal regista e animatore francese<br />

Michel Ocelot (quello di Kirikù).


Una febbrile carrellata bidimensio-<br />

nale, tribalismo ombroso e ipercro-<br />

matico, il volto di Björk come una<br />

aidoru ad altissima risoluzione di<br />

Madre Natura. Ancora una volta la<br />

musicista islandese coglie nel pra-<br />

ticello di confine tra underground e<br />

mainstream, con esiti stranianti ed<br />

attualissimi. Quanto alla musica,<br />

sembra rifarsi alla compenetrazio-<br />

ne etnico/tecnologica dei Talking<br />

Heads eniani, con un piglio dance/<br />

wave che ammicca con disinvoltura<br />

alla “costola” pazzerellona Tom Tom<br />

Club. Ma laddove l’idea di Byrne in-<br />

carnava una globalizzazione este-<br />

tica in fieri, quella rappresentata<br />

da Björk suona come già avvenuta,<br />

metabolizzata ed oltrepassata. Un<br />

linguaggio nuovo che il linguaggio<br />

deve imparare, sta imparando. Non<br />

senza drammatici risvolti che lei,<br />

da guizzante <strong>neo</strong> <strong>sciamana</strong> iper-<br />

pop, tenta di esorcizzare.<br />

Non si tratta insomma di un (furbe-<br />

sco e disperato) ritorno alle frego-<br />

le techno aperte a tutto dei primi<br />

Nineties. Sembra semmai che in<br />

Volta (One Little Indian, 5 maggio<br />

2007) - vedere spazio recensioni<br />

- nulla sia passato invano. Anzi,<br />

tutto ricorre vichianamente: implo-<br />

sioni ed esplosioni, Medulla e De-<br />

but, identificazione panica e fibril-<br />

lazione espressiva, Homogenic e<br />

Post, fino all’intimismo pervadente<br />

e sensuale di Vespertine. Una sin-<br />

tesi che da estetica si fa poetica,<br />

paventando un gioco di opposti<br />

sempre più drastico: la dialettica<br />

tra corpo e mondo, il dissidio che<br />

diventa compenetrazione. Non è<br />

certo un caso che un pezzo come<br />

Declare Independence - una sor-<br />

presina electro punk all’acido mu-<br />

riatico mica male - sia dedicato alla<br />

causa indipendentista delle Isole<br />

Fær Øer e della Groenlandia.<br />

Il gioco non è scoperto, eppure<br />

mai come in questo disco gli espe-<br />

rimenti sul linguaggio ed il pop<br />

sembrano coinvolti con le cose del<br />

mondo. Perciò le strutture eviden-<br />

ziano una diffusa semplicità, una<br />

cura che rifugge il fasto prediligen-<br />

do l’efficacia, poche ma oculatissi-<br />

me, ficcanti soluzioni timbriche. Un<br />

distillato d’arte e mestiere per un<br />

album complesso ma essenziale,<br />

complesso ed essenziale (7.2/10).<br />

Se questo disco conferma la statu-<br />

ra di Björk, d’altro canto è chiaro<br />

come il ruolo di capofila e crocevia<br />

di orientamenti ed istanze esteti-<br />

che non le appartenga ormai più. In<br />

fondo, anche quando così è stato,<br />

non c’era molto di programmatico.<br />

Björk non ha mai rappresentato e<br />

incarnato altri che se stessa, la<br />

propria idea di espressione come<br />

“elevazione liberatoria”. Certo, le è<br />

capitato di farlo nel posto giusto al<br />

momento giusto. Poteva il destino<br />

non arriderle?<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


turn it on<br />

4 s e n t i r e aa s c o l t a r e<br />

B a t t l e s - M i r r o r e d ( Wa r p / S e l f , 1 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e c h o p l e x r o c k<br />

Williams non è un teorico, tanto meno un professore geloso delle proprie<br />

conquiste. Quando ha deciso di mettere insieme un (super)gruppo ne sono<br />

usciti tre titanici eppì recentemente ristampati dalla Warp. Le prove ge-<br />

nerali. Un tentativo (ma è riduttivo) di comunicare e costruire ponti. Con<br />

Mirrored l’obbiettivo si sposta, come era intuibile, dal work in progress al<br />

lavoro di squadra e l’essenza anche qui senza sorprese si sistema lungo<br />

l’autostrada Williams-Braxton, il primo ai riff il secondo agli effetti e voci,<br />

in giochi di sponda con incrociati basso-batteria. Il lavoro sul pop-rock è<br />

l’aspetto di cui si parlerà di più, ha reso il singolo Atlas “math-rock for the<br />

masses” seppure è un’escrescenza, il cuore ritma un linguaggio vivo, fatto<br />

di costrutti complessi. Frasi-riff, botte e risposte a due chitarre quando<br />

non tra il gioco ritmico e gli effetti, periodi che macinano mood, punteg-<br />

giature mai lasciate al caso. Le principali e le secondarie, qualche subordinata. Negli Storm & Stress c’era molto<br />

di non-intenzionale, qui c’è un’evoluzione armonico-matematica più che il contrario.<br />

Ha ragione Braxton quando afferma che i Battles sono una rock’n’roll band con fini non convenzionali. E dice la<br />

verità pure Ian Williams quando afferma che l’influenza delle frippertronics di Robert Fripp sia incidentale e non<br />

programmatica. Mirrored è un mondo di specchi. Immagini dentro immagini e quindi loop. Scienza del Gibson<br />

Echoplex. Ma è un gioco con dietro una scenografia. Una savana, gusti caraibici, fusion umidiccia, appeal rock,<br />

che assume un feeling proggy à la Tortoise tra momenti serrati e sfilacciamenti. Se vogliamo Mirrored è una<br />

risposta agli Standards, una via coraggiosa che avrebbe fatto della band di McEntire un colosso invece di una<br />

grande live band (senza sorprese discografiche). Al contrario, Williams e soci hanno un tridente: teste tartaru-<br />

ga, cuore da cavalli di razza e un disco inattaccabile, studiatissimo eppure accessibile come nient’altro nella<br />

carriera di Williams. Accanto a degli Slint in re-reunion senza novità, saranno loro a portarci il live decisivo. Nel<br />

frattempo l’ascolto casalingo rileva ogni volta nuovi rebus ma anche oasi d’ergonomia, momenti quasi dance e<br />

quasi pop. E tutto nella logica del quasi. L’equazione e la ricreazione. Il discovery channel del chimico in pausa<br />

caffè. (7.7/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a


6 5 daysofstatic – The D e s t r uction<br />

O f S m a l l I d e a s ( M o n o t r e m e , 3 0<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o s t r o c k , e l e t t r o n i c a<br />

Il primo pezzo s’intitola When We<br />

Were Younger And Better. Che,<br />

come dire, non fa iniziare l’album<br />

sotto i migliori auspici. Eppure<br />

sono sempre loro, i 65daysofstatic.<br />

Quelli che avevano praticato un vi-<br />

gorosissimo massaggio cardiaco al<br />

post rock, rianimando le sue stan-<br />

che motivazioni e infiammando nuo-<br />

vamente – e finalmente – la nostra<br />

passione. Finora. Perché dopo due<br />

capolavori sconvolgenti per la loro<br />

rivoluzionaria potenza e personali-<br />

tà (The Fall Of Math e One Time<br />

For All Time) arriva il momento<br />

della mezza delusione.<br />

The Destruction Of Small Ideas<br />

ha le batterie un po’ scariche. Lad-<br />

dove il motore dei suoi predeces-<br />

sori girava a mille, stavolta le cose<br />

non sembrano le stesse. Come se<br />

la band cercasse di premere sul pe-<br />

dale dell’acceleratore con la stessa<br />

forza di sempre ma avendo le ruote<br />

dell’auto che girano a vuoto. I suo-<br />

ni, ad esempio, a volte falliscono in<br />

impatto laddove prima invece face-<br />

vano terra bruciata intorno a sé. E<br />

verrebbe da pensare a qualche pro-<br />

blema in fase di mastering, che non<br />

ha pompato a dovere ciò che dove-<br />

va essere spinto oltre ogni limite.<br />

Sacrificando così chitarre, ritmi,<br />

suoni e idee. L’elettronica è sempre<br />

presente, ma a volte sembra messa<br />

quasi in secondo piano, come se il<br />

gruppo cercasse un approccio più<br />

live. E il risultato ne risente. Don’t<br />

Go Down Sorrow è una ballata pia-<br />

nistica che scivola banale e inoffen-<br />

siva, forse il pezzo – relativamente<br />

– più post rock che la band abbia<br />

mai composto. La conclusiva The<br />

Conspiracy Of Seeds dà fiato alle<br />

corde vocali e si presenta come un<br />

brano quasi metal, ovviamente più<br />

per spirito che per aderenza stili-<br />

stica. Altrove gli spunti sono più<br />

incoraggianti, come negli innesti<br />

di electro schizofrenica che abbel-<br />

liscono l’altrimenti banale melodia<br />

di The Distant Mechanised Glow. Il<br />

rischio è di farsi prendere la mano<br />

e rendere più fosco del lecito ciò<br />

che invece tanto fosco non è. Ma<br />

non si può prescindere da ciò che<br />

sono stati fino ad ora i 65daysof-<br />

static. Che stavolta si sono lasciati<br />

prendere eccessivamente la mano.<br />

Questo lavoro infatti dura quasi il<br />

doppio rispetto al precedente. E il<br />

sospetto che in mezzo ci sia qual-<br />

che riempitivo di troppo è forte.<br />

Così come è forte la tentazione di<br />

indirizzare i <strong>neo</strong>fiti verso il resto del<br />

catalogo targato 65, più aggressivo<br />

ed intrigante. Tutti gli altri, si acco-<br />

stino a The Destruction Of Small<br />

Ideas con poche aspettative. Lo<br />

spirito giusto per trovare alla fine<br />

anche qui pane per i propri denti.<br />

(6.2/10)<br />

M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />

1 2 0 D a y s – S e l f Ti t l e d<br />

( S m a l l t o w n S u p e r s o u n d / W i d e ,<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e t t r o p o p<br />

Non fa notizia un elettropop tecno-<br />

logico e robotico, a decenni di di-<br />

stanza dalle massime realizzazioni<br />

finora ottenute del genere. Ma in<br />

Norvegia, che è la loro patria, que-<br />

sto disco dei 120 Days, già uscito<br />

da tempo, ha letteralmente sbanca-<br />

to, a quanto pare. Primo posto nelle<br />

charts e via andare. Ora ne ristam-<br />

pano pure una edizione limitata con<br />

bonus CD ricco di remix. Ma trala-<br />

sciamo gli orpelli, e andiamo a leg-<br />

gere le maglie della tradizione in<br />

questi ragazzi di Kristiansund.<br />

I primi nomi che vengono da fare<br />

sono quelli del passaggio dell’elet-<br />

tronica robotica al pop, due su tutti:<br />

i Kraftwerk e gli Ultravox, ovvero<br />

la stessa faccia in due medaglie<br />

diverse. I tedeschi, nella traccia<br />

iniziale (gli otto minuti e passa di<br />

Come Out, Come Down, Fade Out,<br />

Be Gone), si potrebbero guardare<br />

rifratti nel passaggio dai primi di-<br />

schi, quelli non più riconosciuti, al-<br />

l’estetica che li ha resi più celebri.<br />

La band di John Foxx (che qui è più<br />

che altro la band di Midge Ure) è<br />

un tirante che preserva delle derive<br />

(ma ahimè sono i punti di maggiore<br />

emancipazione) vocali e chitarristi-<br />

che alla U2 (Sleepwalking).<br />

Qui sta il problema. Il synth di Keep<br />

On Smiling ricorda quello di Brian<br />

Eno ai tempi dei Roxy Music, ma<br />

questa è una banalità che sapeva-<br />

mo già, e contribuisce a turbare la<br />

buona opinione iniziale del disco<br />

– che si sminuzza (anche se non<br />

del tutto) sotto l’accusa (contro la<br />

quale non ci sono argomentazioni,<br />

almeno in 120 Days) di prevedibili-<br />

tà. Fosse questo album tutto come<br />

l’inizio, e come la fine – una lun-<br />

ga suite anti-progressiva che va<br />

al trotto di un’aria e soprattutto di<br />

una ritmica (lo dico l’ultima volta e<br />

poi basta: robotica) Neu! – sarebbe<br />

stata un’altra cosa, perché pur nel<br />

derivativismo la non-forma canzone<br />

a loro riesce meglio. Ecco perché<br />

bisogna essere un po’ severi, per<br />

disincentivare. (5.0/10)<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

1 9 9 0 s – C o o k i e s ( R o u g h Tr a d e /<br />

S e l f , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : g l a m w a v e ’ n ’ r o l l<br />

Sono scozzesi. Sono buffi. Sono<br />

divertentissimi. E ai loro concerti<br />

puoi anche ballare. No, non sono<br />

i Franz Ferdinand, ma ci siamo<br />

parecchio vicini, e non solo per le<br />

indubbie assonanze di See You At<br />

The Lights, che fa subito pensare a<br />

una versione 2.0 della band di Ka-<br />

pranos. Prima di formare i 1990s,<br />

quella sagoma di John McKeown<br />

era la mente e la faccia – e che<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


faccia! - dei Yummy Fur, art wa-<br />

vers ante litteram dal profondo un-<br />

derground di Glasgow, tra le cui fila<br />

hanno militato, in tempi oscuri ma<br />

non lontanissimi, anche Alex e Paul<br />

Thompson dei FF. Insomma è una<br />

lunga storia, in cui alla fine l’unica<br />

cosa che davvero stupisce è la lun-<br />

ga attesa che questo irresistibile<br />

trio – completato da un altro Yummy<br />

Fur, Jamie McMorrow, e da Michael<br />

McGaughrin dei V-Twin, compa-<br />

ri storici dei Belle and Sebastian<br />

– ha patito prima di raggiungere gli<br />

scaffali dei negozi con un full len-<br />

ght. È vero, alla Rough Trade han-<br />

no dato priorità alle Long Blondes,<br />

e sarebbe un peccato se Cookies<br />

venisse scambiato per l’ennesimo<br />

surrogato post Franz Ferdinand<br />

(promesso, è l’ultima volta che li<br />

nominiamo in questa recensione).<br />

Perché, si sarà capito, questo di-<br />

sco è un vero spasso. Uno sberleffo<br />

rock and roll inscenato da tre toons<br />

depravati, i nipoti cazzoni degli<br />

Stones dei ’70, i cugini devastati<br />

dei primi Supergrass, gli zii dege-<br />

neri degli Arctic Monkeys (sceglie-<br />

te voi l’opzione preferita), intenti a<br />

seppellire con una risata l’ondata<br />

emul wave e tutto quello che ci sta<br />

intorno. Le loro armi? Riff secchi e<br />

contagiosi, coretti scemi e appicci-<br />

cosi, liriche comico-demenziali che<br />

ironizzano a manetta sul successo e<br />

il r ’n’r lifestyle (Cult Status, You’re<br />

Supposed To Be My Friend), con<br />

Exile On Main Street (You Made<br />

Me Like It), il Lou Reed glam dei<br />

’70 (Arcade Precint, Switch), Jona-<br />

than Richman e gli immarcescibili<br />

Fall (Situation) a fornire la materia<br />

prima per la colonna sonora di un<br />

party a base di alcol, erba e anfe-<br />

tamine. Assolutamente imperdibile.<br />

(7.3/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

A u t o k a t – L a t e N i g h t S h o p p i n g<br />

( A k o u s t i k A n a r k h y / W i d e ,<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e , p o p ,<br />

p s i c h e d e l i c o<br />

Un debutto – britannico fino al mi-<br />

dollo – che merita. Una raccolta<br />

che prende di peso quanto di me-<br />

glio sia stato prodotto dalla musica<br />

anglosassone negli ultimi vent’anni<br />

riaggiornandone i contenuti. E sono<br />

brividi. Specie nei momenti migliori<br />

– e non pochi. Gli Autokat, insom-<br />

ma, sono bravi. Partono banalmente<br />

garage con Shot (un pezzo che ca-<br />

valca l’onda anomala del rock’n’roll<br />

modaiolo e irritante cui gli inglesi<br />

ci hanno abituato da troppo tempo)<br />

e poi sterzano bruscamente verso<br />

nuove e più eccitanti mete. Poco<br />

importa che si parli di indie (Dish<br />

Out, un brano che gli Interpol fa-<br />

rebbero carte false pur di riprodur-<br />

ne le vibrazioni psichedeliche con<br />

la stessa intensità emotiva), di pop<br />

(Get Off The Bar, un malinconico<br />

capolavoro di armonie e scrittura),<br />

o di post rock (Uber Patriot, ovve-<br />

ro come riproporre i soliti stereotipi<br />

melodici e riuscire comunque a se-<br />

durre il mondo intero). Il risultato<br />

non cambia.<br />

Late Night Shopping è un lavoro<br />

bello e quasi necessario, pur con i<br />

suoi piccoli e sporadici cedimenti.<br />

Potenzialmente gli Autokat potreb-<br />

bero allora diventare la migliore<br />

band attualmente in circolazione. E<br />

che questo non suoni come un’esa-<br />

gerazione. Perché tra le corde del-<br />

le chitarre il complesso si ritrovano<br />

belle melodie e splendide intuizio-<br />

ni. Manca tanto così, e ci ritrovere-<br />

mo fra le mani il nuovo termine di<br />

paragone per tutti i gruppi presenti<br />

sulla faccia della terra. (7.0/10)<br />

M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />

A l a n Ve g a – S t a t i o n ( B l a s t F i r s t ,<br />

3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : rave, industrial suicide<br />

Più avanti, a pagina 69, troverete<br />

lo spot dedicato al lavoro dei Von<br />

Sudenfed, ovvero Mouse On Mars<br />

e Mark E. Smith, due elettronici<br />

e lo storico frontman dei Fall alle<br />

prese con una formula che per pri-<br />

ma è stata terreno d’unione di un<br />

altro trio, formato dai Pan Sonic e<br />

Alan Vega. Il link non è casuale,<br />

forse nemmeno il momento storico:<br />

il nuovo lavoro della metà dei Sui-<br />

cide ronza come una bomba radio-<br />

comandata sul medesimo target. Lo<br />

scoppio è altrettanto imminente.<br />

Anticipando di un paio di settimane<br />

l’uscita del trio, in involontario dia-<br />

logo a distanza armonico-vocale, il<br />

cantante dei Suicide getta il proprio<br />

veleno calando nei Novanta (quel-<br />

li della techno tedesca e dei Rave<br />

come dei Reznor) un archetipico<br />

canto post-punk nutrito a spettrali<br />

teatralità e febbrili espettorazioni<br />

verbali. La voce del mito si fa del-<br />

lo sporco indelebile di un mondo in<br />

deriva, alla deriva. L’ipervelocità<br />

dell’informazione è una cassa drit-<br />

ta, un clangore metallico, vitreo;<br />

l’alienazione farmaceutica della<br />

Darkcore aggiorna il vecchio can-<br />

cro industriale. Tanti i contatti tra<br />

le degenerazioni analogiche e – ora<br />

- digitali, le meccaniche e le chi-<br />

miche dell’alienazione; da entrambi<br />

i capi dell’Atlantico si celebra l’im-<br />

portanza di una lezione storica e<br />

non solo, l’attualità di un approc-<br />

cio che si sposa egregiamente ai<br />

contesti della rivoluzione giovanile<br />

dei Novanta (quella che Reynolds<br />

ha chiamato la generation E); in<br />

più sotto a tutto questo, la detona-<br />

zione più esplosiva, la celebrazio-<br />

ne di una fine, lo scazzo Novanta,<br />

la caparbia devoluzione politica di<br />

quegli anni, la ricerca di una catar-<br />

si post con tutte le commistioni del<br />

caso. È ora di ribellarsi.<br />

Leggerete più avanti che i Von Su-<br />

denfed la butteranno sul trash ag-<br />

grappandosi all’anarco-derisione<br />

di punkiana memoria, posa insidio-


B j ö r k - Vo l t a ( O n e L i t t l e I n d i a n , 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e t n o t e c h n o p o p<br />

Col sesto album vero e proprio Björk opera una sintesi febbrile di quanto<br />

sperimentato in quasi tre lustri di carriera solista, senza che questo signi-<br />

fichi smettere di pensare progressivamente. Certo, la musicista islandese<br />

non è più quel simbolo onnicomprensivo, la musa della techno-pop con<br />

ramificazioni imprevedibili e disparate, ma si dimostra una volta di più - e<br />

sempre più - padrona di un linguaggio multisfaccettato, figlio di mille com-<br />

plessità affrontate, vissute, risolte. La costante ricerca del perfetto punto<br />

di equilibrio tra pop e avanguardia produce oggi una concisione ficcante,<br />

un codice basato su pochi elementi ma potenti, pregni di significato come<br />

graffiti atavici. Basti sentire il singolo Earth Intruders, edificato sulla sola<br />

triangolazione tra le percussioni dei congolesi Konono N°1, gli abrasivi<br />

riff sintetici e la danza della voce. Eppure sembra molto di più, rivanga la<br />

turn it on<br />

florida frenesia etnica dei Talking Heads eniani, quella compenetrazione etnico/tecnologica tra il minaccioso ed<br />

il liberatorio. Naturalmente, laddove l’idea di Byrne incarnava la globalizzazione estetica in corso, quella rap-<br />

presentata da Björk è già avvenuta, metabolizzata ed oltrepassata. Un linguaggio nuovo che il linguaggio deve<br />

imparare, sta imparando. Ecco quindi che Volta guarda al presente con un’urgenza metaforica pressoché inedita.<br />

E’ una preghiera e un grido d’allarme, è lo sforzo presuntuoso e ammirevole di identificare il gesto artistico col<br />

(corpo e col) mondo. In questo senso, nulla è passato invano. Non le implosioni fisiologiche ed esistenziali di<br />

Medulla e Vespertine, non le sbrigliate escursioni ritmico/atmosferiche di Debut e Post, non la sublimazione<br />

spirituale/geografica di Homogenic. Basta scorrere le tracce per rilevare - fin dai titoli - impronte di passato<br />

riarticolate in un presente ancora vivo. Come gli ansiti sintetici su languido sfondo orchestrale di Vertabrae By<br />

Vertabrae, l’identificazione panica di Pneumonia, la scabra delicatezza da giardino orientale di Hope, mentre<br />

Innocence riesuma spasmi da beatbox per un electro-funk crudo e liberatorio che la candida al ruolo di moderna<br />

Violently Happy. Prosegue quel gioco folle e sottile di rimandi simbolici, dove il battito delle percussioni è il cuore<br />

(del corpo, della Natura), i fiati il respiro (muggiti di vento nei fiordi o di navi in partenza, un po’ come i Sigur<br />

Ròs di Ny Battery), le ritmiche digitali sono il reticolato nervoso dei codici metropolitani, mentre il fluire chimico<br />

dei synth rimanda allo scivolare dei fiumi sopra e dentro la terra. Istanze umane e naturali, arcaiche e futuriste,<br />

sonore e visuali: Björk non si smentisce. Anche se si rivela deludente - lo era anche sulla carta - la scelta di<br />

Antony quale partner nella melodrammatica The Dull Flame Of Desire e in My Juvenile. L’angloamericano appare<br />

ormai imbalsamato nel suo lirismo statuario, tanto considerevoli i suoi mezzi quanto già abbondantemente profusi<br />

ed esauriti. Di contro, la scelta dell’acclamatissimo Timbaland quale co-produttore (accanto al fido Mark Bell)<br />

sembra aver sortito gli effetti sperati, ovvero una freschezza aggressiva, graffiante. Ma la vera sorpresa arriva<br />

da Declare Independence, electro punk acre a sbranagola come potrebbe una PJ Harvey aizzata dai Suicide,<br />

brusca auto-affermazione che comprime individuale e collettivo, particolare e indistinto (il pezzo è dedicato<br />

alla questione delle Isole Fær Øer e della Groenlandia, alla ricerca della totale indipendenza dalla Danimarca).<br />

E’ l’ennesima sfaccettatura di Björk, quanto mai inattesa, giacché neanche nei ben più scellerati contesti Tappi<br />

Tikarras, Kukl e Sugarcubes aveva toccato tanta asperità espressiva. Un album vivo insomma di un’artista che<br />

prova a mantenere alta la febbre, pasturando una gioiosa irrequietezza con la brama di nuove conquiste espres-<br />

sive. Il meglio è alle spalle, ma il presente non può ancora fare a meno di lei. (7.2/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 7


sa certamente, ma non sufficiente<br />

per un Vega salito sul ring politico.<br />

L’uomo lo afferma nelle interviste.<br />

Lo spara in un disco incompro-<br />

missorio, duro e essenziale, dove<br />

manco il tocco rockabilly di Rev è<br />

tollerato. Cinque anni per la rea-<br />

lizzazione e ora la soddisfazione:<br />

Station è incazzato proprio come lo<br />

era il primo lavoro dei Suicide che<br />

vomitava disprezzo per l’America<br />

post-Kennedy. Allora il sogno s’era<br />

appena infranto, ora la piega del<br />

reale è meno spaventosa soltanto<br />

per chi non la vuol vedere. Per chi<br />

vive dentro Matrix.<br />

Non è più tempo di fare il coglione<br />

con l’asta del microfono - non lo è<br />

almeno da American Supreme -, in<br />

queste undici coltellate allo stoma-<br />

co l’essenza della rabbia equivale<br />

ad un’essenza di verbo, ripetitiva<br />

(e senza eco). Con i fidi Perkin Bar-<br />

nes e Liz Lamere, il newyorchese<br />

tinge un incubo ermetico nel qua-<br />

le la strofa si fa contrappunto di<br />

basi cyberpunk (Crime Street Cree)<br />

come d’incalzi EBM (i Clock DVA in<br />

Station Station), morbosità techno-<br />

IDM (Psychopatha e quel fantastico<br />

ringhio!), hip-hop Weimar espres-<br />

sionista (Traceman con campiona-<br />

mento di Madonna!) o assalti Pro-<br />

digy tout court (Devastated).<br />

Niente bandanato baraccone da<br />

queste parti, niente schiamazzi,<br />

piuttosto talkin’ secco e statement<br />

feroci colati a freddo. Accade tutto<br />

ciò ed è impressionante sia per la<br />

qualità degli attacchi sonici sia per<br />

la forza politica espressa, soprat-<br />

tutto per quella. Mark Stewart si<br />

genufletterà al suo altare. Questa<br />

volta più che mai. (7.5/10).<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

Av e y Ta r e & K r í a B r e k k a n -<br />

P u l l h a i r R u b e y e ( P a w Tr a c k s /<br />

G o o d f e l l a s , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k - e x p e r i m e n t a l<br />

Come coppia è veramente carina,<br />

niente da dire: pallida ed esile lei,<br />

aplomb loser per lui. Roba che se<br />

li vede Calvin Klein li scrittura per<br />

la collezione prossima estiva. Po-<br />

trebbe essere un futuro sicuro, vi-<br />

sto che artisticamente ragionando,<br />

Avey Tare (metà degli Animal Col-<br />

lective) e Kría Brekkan (transfuga<br />

dai Múm) come binomio rasenta-<br />

no la noia. Un disco folk (?) tutto<br />

suonato in reverse, dalle chitarre<br />

al pianoforte; una vocina, quella di<br />

lei, da lolita esistenziale e un voci-<br />

no - indovinate di chi?! - esangue<br />

e alticcio. Li ha congiunti l’amore<br />

e li ha accolti New York. Nella vita<br />

privata che facciano pure sfracelli,<br />

ma musicalmente, riferendoci prin-<br />

cipalmente a lui: siamo seri, eh!<br />

(4.5/10)<br />

G i a n n i A v e l l a<br />

B a c h i D a P i e t r a – N o n I o<br />

( Wa l l a c e - D i e S c h a c h t e l /<br />

A u d i o g l o b e , m a r z o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : u r - b l u e s<br />

Un groppo in gola. Un sapore ama-<br />

roinbocca. Uno sbocco di sangue<br />

rappreso. Questo e tanto di più<br />

scatenano le visioni sinestetiche<br />

del duo Succi/Dorella. Musica nera<br />

come un dolore troppo intimamente<br />

conosciuto per rimanere ignorato.<br />

Un senso di vago malessere trop-<br />

po familiare per rimanere estra<strong>neo</strong><br />

troppo a lungo.<br />

Non Io è una discesa nei propri<br />

inferi lunga 10 tracce e 42 minu-<br />

ti, che attraversa territori da blues<br />

sbilenco, paesaggi a-ritmici, pa-<br />

norami grigiastri su cui rimbomba<br />

un sordo vibrare di corde in liber-<br />

tà. L’uomo nero ci mette il ritmo,<br />

mai come ora ancestrale, primi-<br />

tivo eppur mai brutale. L’uomo in<br />

blu inchiostro ci mette la faccia, la<br />

voce e il dolore in prima persona.<br />

L’uomo dai lunghi dreads percuote,<br />

colpisce, spazzola ora bluesy, ora<br />

vagamente trip-hop, scontornando<br />

le visioni del collega e ancoran-<br />

dole ad un tappeto (terreno prima<br />

ancora che) ritmico. L’uomo dalla<br />

penna di cristallo ci mette il blues<br />

e la passione, disegnando a base<br />

di suoni catacombali e lirismo sa-<br />

crificale il lancinante dolore della<br />

(sua e nostra) quotidianità. Bachi<br />

Da Pietra è la perfetta summa di<br />

due angoscianti ed angosciose<br />

esperienze umane e artistiche. Di<br />

Ovo/Dorella c’è il senso di clau-<br />

strofobica ed imminente apocalis-<br />

se; di Madrigali Magri/Succi la mi-<br />

nimale verbosità comunicativa che<br />

straccia orecchie e cuore. Di Bachi<br />

Da Pietra c’è la perfezione forma-<br />

le e sostanziale, raggiungibile solo<br />

attraverso un doloroso sacrificio:<br />

per vedere – Succi docet – bisogna<br />

perdere gli occhi. (8.0/10)<br />

S t e f a n o P i f f e r i<br />

B . C . C a m p l i g h t - B l i n k O f A<br />

N i h i l i s t ( O n e L i t t l e I n d i a n /<br />

G o o d f e l l a s , 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o p<br />

“Impara l’arte e mettila da parte”.<br />

Chissà quante volte deve esserse-<br />

lo ripetuto Brian Christinzio prima<br />

di incidere un disco come Blink Of<br />

A Nihilist. Prima di perdersi in una<br />

topografia musicale, che tra fal-<br />

setti e decorazioni di pianoforte,<br />

elaborati arrangiamenti d’archi e<br />

varietà stilistiche quasi stordenti,<br />

fa la corte ai Beach Boys di Pet<br />

Sounds, cita l’onnipresente Burt<br />

Bacharach, raccoglie l’eredità dei<br />

Love - se non nei suoni, di certo in<br />

alcuni passaggi melodici -, rimesta<br />

nel calderone del pop ricavandone,<br />

a seconda dei casi, umori magnilo-<br />

quenti e toni dimessi.<br />

Tipo strano il Nostro, capace di far-<br />

si ritrarre sulla pagina relativa di<br />

My Space circondato da un gruppo<br />

di Oompa Loompa e nel medesimo<br />

istante portato ad enfatizzare sul<br />

sito ufficiale un processo di scrit-<br />

tura che mira a creare il disco pop<br />

perfetto. Una silouette un po’ gof-<br />

fa e dal profilo rotondeggiante che<br />

racchiude creatività e stranezze,<br />

follia e lungimiranza, sussurri in-<br />

fantili e i desideri inespressi di un<br />

direttore d’orchestra col vizio del-<br />

l’eccesso. A titolo d’esempio basti<br />

Soy Tonto, in cui gli accenti suda-<br />

mericani posti in apertura trovano<br />

il modo di trasformarsi in pop dalle<br />

trame intricatissime; Lord I’ve Been<br />

On Fire, da cui emerge prepotente<br />

la lezione di Brian Wilson con in<br />

più un gusto piccante per il ritmo;


The 22 Skidoo, perennemente in<br />

bilico tra rivestimenti in damasco<br />

da club a luci rosse e Beatles. Psi-<br />

chedelia spicciola e backing vocals<br />

chiudono il cerchio (Officer Down e<br />

Grey Young Amelia), consegnando<br />

alla storia l’ennesimo crooner au-<br />

tarchico e particolarmente dotato -<br />

immaginate un Sondre Lerche con<br />

uno spiccato senso dell’umorismo<br />

e una fantasia fuori dall’ordinario<br />

- capace di complicarsi la vita con<br />

una musica domestica e inafferra-<br />

bile, grandiosa e particolareggiata.<br />

(7.4/10)<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

B e n + Ve s p e r - A l l T h i s C o u l d<br />

K i l l Yo u ( S o u n d F a m i l y r e / W i d e ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e<br />

Lo ammettiamo: di fronte all’esordio<br />

discografico di Ben + Vesper non<br />

sappiamo che pesci pigliare. Sarà<br />

forse per la musica o per quel non<br />

so che di snob che si coglie nell’an-<br />

datura svogliata della voce, per i<br />

suoni lontani o le melodie sganghe-<br />

rate, ma l’impatto iniziale ci lascia<br />

piuttosto confusi. Ci affidiamo allo-<br />

ra a note biografiche e credits, per<br />

scoprire che lui+lei hanno finito per<br />

collaborare quasi per caso - “Fate<br />

allowed them to tunnel right into<br />

each other, which gave them quite<br />

a start” scrivono sul sito ufficiale<br />

- e vantano tra gli ospiti di questo<br />

All This Could Kill You un certo<br />

Sufjan Stevens. Il che ci porta a so-<br />

spettare che il crooning annoiato di<br />

Ben - una sorta di via di mezzo tra<br />

un Jarvis Cocker con l’influenza<br />

e i Cousteau dopo una cura dima-<br />

grante - e il backing vocals di Ve-<br />

sper non siano soltanto quello sfo-<br />

go epidermico senza soluzione di<br />

continuità che sembravano di primo<br />

acchito. Scopriamo anche che a<br />

leggere un po’ più in profondità, il<br />

continuum indistinto che sullo sfon-<br />

do fa da contraltare alla voce - in<br />

primo piano ci sono costantemente<br />

batteria, chitarra e piano - è in real-<br />

tà frutto di un apporto strumentale<br />

degno dei migliori songwriters, nu-<br />

trito a suon di fisarmonica, archtop,<br />

basso, tastiere, marimba, banjo,<br />

oboe e armonica. Un’opulenza di<br />

dettagli mascherata da impeto lo-fi<br />

che ben si adatta ai tempi lenti del-<br />

la scrittura e serve a cesellare, a<br />

riempire gli spazi, a donare ai vari<br />

episodi le sfumature necessarie.<br />

Episodi che nello specifico giocano<br />

tra divertissement folk riconducibili<br />

a dei Kings Of Convenience tirati<br />

su a Big Mac e Pepsi (An Honest<br />

Bluff), intimismo depresso di scuo-<br />

la americana (Carnaval e Force<br />

Field), psichedelia acustica (8 Mo e<br />

Live Free Or Try) e atmosfere not-<br />

turne (Nite Walker). (6.9/10)<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

B l a c k E y e d D o g - L o v e I s A D o g<br />

F r o m H e l l ( G h o s t R e c o r d s /<br />

A u d i o g l o b e , 1 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : n e o f o l k<br />

Il suo pseudonimo è uguale al titolo<br />

di un brano di Nick Drake. E già<br />

questo gli fa guadagnare un punto<br />

nella graduatoria delle nostre prefe-<br />

renze. La sua voce ricorda quella di<br />

Devendra Banhart. E anche questo<br />

è un buon lubrificante per il giusto<br />

fluire delle nostre emozioni. E poi<br />

le sue sono belle canzoni. Che non<br />

è certo un aspetto da sottovalutare.<br />

Lui si chiama Fabio Parrinello. Il<br />

suo soprannome è Black Eyed Dog.<br />

Il suo disco s’intitola Love Is A<br />

Dog From Hell. Biografia curiosa,<br />

quella di Parrinello. Nato nel ’79 a<br />

Varese, passata l’adolescenza si<br />

trasferisce prima ad Olympia, nel-<br />

lo stato di Washington, dove vivrà<br />

per tre mesi, e poi a Los Angeles<br />

per altri quattro mesi. Poi il pas-<br />

saggio a Londra (quattro anni, du-<br />

rante i quali sarà attivo in diverse<br />

band alternative) ed infine lo sbar-<br />

co a Palermo. E tutti questi sposta-<br />

menti sembrano rispecchiarsi nelle<br />

tracce dell’album. Che, sia detto<br />

per inciso, suona maledettamente<br />

bene. Nel senso di armonico, ma-<br />

turo, adulto. Un prodotto che, per<br />

come è confezionato e per cosa ha<br />

confezionato, è solido e competiti-<br />

vo nei confronti dei suoi diretti con-<br />

correnti a stelle e strisce. La voce<br />

straordinaria di Parrinello s’inerpi-<br />

ca in soluzioni ora calde e raspo-<br />

se, ora tenui e sussurrate. Come<br />

un Tom Waits apparentemente pa-<br />

cificato con i propri demoni o un<br />

Bonnie “Prince” Billy dalle corde<br />

vocali ancora più commosse e com-<br />

moventi. Un <strong>neo</strong> folk dalla struttu-<br />

ra variabile - chitarra, pianoforte e<br />

sintetizzatore a contendersi l’onore<br />

di duettare con le strofe dei brani<br />

- e dalla forte intensità. Black Eyed<br />

Dog scava nei sentimenti e colpi-<br />

sce al cuore. E mentre evoca la sua<br />

personale luna rosa - Careless - noi<br />

ci struggiamo di emozioni e malin-<br />

conie. (7.2/10)<br />

M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />

B l a c k R e b e l M o t o r c y c l e C l u b –<br />

B a b y 8 1 ( R C A , 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : r o c k<br />

Scettici su ciò che fece dell’omoni-<br />

mo della ditta BRMC un caso disco-<br />

grafico (quasi un milione di copie<br />

vendute finora) e ottimisti riguar-<br />

do alla precedente prova dal gu-<br />

sto unplugged tra transizione USA<br />

e pop post-Creation, ci ritroviamo<br />

di fronte alla roccia Baby 81 con<br />

un certo timore. Per ben un’ora, il<br />

trio somministra un pop psych and<br />

roll corroborante senza rinunciare<br />

alla melodia, mantenendo coolness<br />

e quel tocco britannico da sem-<br />

pre caratteristica e boomerang del<br />

combo. Si attacca con Took Out A<br />

Loan che rallenta la tensione ritmi-<br />

ca delle nuove wave per un ringhio-<br />

so hard-blues accecato dal sole.<br />

Sul finale, la chitarra scatarra un<br />

riff matematico e arcigno mentre<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9


una seconda sguaina un acidissi-<br />

mo assolo psych. È la rotta gros-<br />

somodo dell’intero corso, un Howl<br />

solido e elettrificato senza febbri<br />

feedback che dovrebbe mantenere<br />

le promesse e che purtroppo reite-<br />

rerà alcuni difetti da sempre morbo<br />

del gruppo. Il principale è l’iniezio-<br />

ne di radiofonia standard (britanni-<br />

ca come americana) in un granito<br />

rock’n’roll rincorso come il Sacro<br />

Graal. Un’attitudine che convince<br />

a corrente alternata nelle pose in<br />

ballad dell’album (Window con ac-<br />

centi in falsetto vicini a Beatles e<br />

Oasis, e It’s Not What You Wanted<br />

con strascichi Jesus & Mary Chain<br />

acustici), ma che disgusta (sì, ad-<br />

dirittura) nei ritornelli sbarbini del-<br />

le tessiture più ringhiose a partire<br />

dal singolo Weapon Of Choice (in<br />

streaming gratuito sul sito ufficiale).<br />

Sono sempre stati furbi i Black Re-<br />

bel, furbi e sinceri appassionati del<br />

desert-psych. A molti perciò piace-<br />

rà il ringhio alla Nine Inch Nails di<br />

Cold Wind (un tantino troppo preve-<br />

dibile), come anche un classico in<br />

souplesse dei loro come 666 Con-<br />

ducer (automatico), idem per Need<br />

Some Air che esibisce chiacchiere<br />

e distintivo (quegli “Oh Oh Oh” tri-<br />

sti…). Se ci mettiamo il lentone à la<br />

U2 del caso, All You Do is Talk (non<br />

proprio un must), non è flop à la<br />

Take Them On, On Your Own ma ci<br />

si deve accontentare. (6.0/10)<br />

4 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

B r o n Y A u r -<br />

M i l l e n o v e c e n t o s e t t a n t a t r e<br />

( Wa l l a c e / A u d i o g l o b e , m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : a v a n t - r o c k<br />

Dopo una carriera oscillante tra la<br />

matrice hard Seventies degli esordi<br />

e le propulsioni avant-rock debitri-<br />

ci sia del free-jazz che di tempora-<br />

nee infatuazioni kraute, i tre Bron<br />

Y Aur giungono alla quadratura del<br />

proverbiale cerchio con un album<br />

in cui mostrano una capacità com-<br />

positiva al limite della perfezione.<br />

Il processo di scrittura ricorda per<br />

certi versi alcuni progetti zorniani,<br />

in cui però al posto dell’onnivora<br />

e schizofrenica frantumazione dei<br />

generi in microschegge di suono,<br />

c’è l’attenzione quasi maniacale<br />

per la forma canzone compiuta. Ne<br />

esce un disco totale, indescrivibile<br />

a parole. Quindici brani in cui tut-<br />

to trova spazio e soprattutto sen-<br />

so: ossature vocali a cappella simil<br />

Quartetto Cetra rotte da aggressive<br />

urla grind-hc (Black Samba), echi<br />

di un Santana in acido funk (Muds),<br />

frammenti di tango argentino à la<br />

Gotan Project che si sgretolano in<br />

drammaturgici assalti sonici (The<br />

Box), micropulsioni country-we-<br />

stern, frattali sonori sinistramente<br />

Starfuckers (Useless), schizzi di<br />

angosciante ambient isolazionista,<br />

crescendo kraut-rock, onomatopei-<br />

ci blues catacombali (Doom Blues),<br />

soavi quadretti di tenera psiche-<br />

delia (Mongrel Dog). La “trilogia<br />

dell’estate” (Era Luglio; Poi venne<br />

Agosto; E così passò l’estate) vero<br />

cuore pulsante del disco, pone i<br />

quattro all’altezza dei migliori A<br />

Short Apnea tra destrutturazioni<br />

blues, sabbiosi echi desertici, vuoti<br />

pneumatici. Millenovecentosettan-<br />

tatre offre, dunque, un ostico ma<br />

imprescindibile coacervo di suoni<br />

originati da decenni di ascolti fra i<br />

più svariati, che si coagulano in un<br />

corpus unico, portando il quartet-<br />

to ad una maturità che stupisce e<br />

risalta in crescendo ad ogni ascol-<br />

to. Riusciranno a fare di meglio?<br />

(7.8/10)<br />

S t e f a n o P i f f e r i<br />

G i o r g i o C a n a l i e R o s s o f u o c o -<br />

Tu t t i c o n t r o Tu t t i ( L a Te m p e s t a<br />

/ U n i v e r s a l , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : w a v e - r o c k<br />

Non cede di un millimetro lo sde-<br />

gno militante di Giorgio Canali. Nel<br />

quarto album in proprio, il secondo<br />

per la tempestosa etichetta dei Tre<br />

Allegri Ragazzi Morti, l’invettiva<br />

dei testi viaggia ancora a casset-<br />

ta sulla carrozza infernale, scudi-<br />

sciando a furia di mischie travol-<br />

genti - l’hard punk in odor di Bad<br />

Seeds di Alealè, riciclato dai tempi<br />

di Lazlotòz - abitate da anti-slogan<br />

beffardi e impietosi (vedi la para-<br />

frasi Gaber: “la libertà è partecipa-<br />

zione... agli utili”). Senza smettere<br />

tuttavia di scavare un solco netto<br />

e profondo rispetto a tanta musica<br />

“impegnata”, perché non ci sono ri-<br />

vendicazioni né grandi famiglie alle<br />

spalle, c’è solo il Canali e la sua<br />

amarezza, la rabbia senza sbocco,<br />

l’incazzatura letteraria. Il rocker è<br />

solo. O meglio un tutt’uno con la<br />

fedele combriccola, Marco, Luca e<br />

Claude, i Rossofuoco. Più qualche<br />

amico cui spedire caustiche carto-<br />

line. Qualcuno ancora vivo (come<br />

i Noir Désir, di cui riadatta in ita-<br />

liano la fosca tensione di Septem-<br />

bre en attendent, previa l’armonica<br />

di Bugo) e qualcuno un po’ meno<br />

(come i Gun Club, omaggiati nel-<br />

l’abrasiva Canzone della tolleranza<br />

e dell’amore universale). Robusto<br />

e urticante, è un sound che diresti<br />

figlio spurio d’un Lou Reed invi-<br />

schiato wave (gli arpeggi unghiosi<br />

di Verità, la verità, pezzo dedicato<br />

alla memoria di Federico Aldrovan-<br />

di, come tutto il disco) o di un Cave<br />

melmoso (la stradaiola Swiss Hide,<br />

che tra le altre cose osa recitare:<br />

“auspici del IV Reich, che con un<br />

Papa tedesco non si sa mai”), sal-<br />

vo sciorinare uggiose cupezze cir-<br />

ca The Cure (Non dormi) o scavarsi<br />

nel cuore una psichedelia accorata<br />

(Falso bolero). C’è sentore di pilota<br />

automatico solo nella peraltro mor-<br />

dace Comequandofuoripiove, men-<br />

tre la conclusiva Il ballo della tosse<br />

azzarda una obliqua rilettura/cari-<br />

catura di Águas de março in chiave<br />

beat che proprio non me l’aspet-<br />

tavo. Nelle note stampa Canali ci<br />

promette d’essere più tranquillo e<br />

solare in futuro. Certo. Come no.<br />

(6.9/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

C a p t a i n Q u e n t i n - C e r t e c o s e<br />

d e t e r m i n a t e ( L o Z i o R e c o r d s , 4<br />

m a r z o 2 0 0 7 )<br />

g e n e r e : m a t h p s y c h<br />

Captain Quentin, ex Malajerba,<br />

esistono da ottobre 2005. Il nome


C a s a – Vi t a P o l i t i c a D e i C a s a ( D i s c h i O b l i q u i , 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o s t - p r o g / a v a n t - w a v e<br />

È facile recensire i Casa citando gli Area. Fatto. Non se ne parli più. Ora<br />

ricominciamo.<br />

I Casa sono un gruppo veneto che opera performance linguistiche del<br />

tutto simili a dei witz, i motti di spirito freudiani, dove c’è accostamento e<br />

contrazione straniante. Un witz “esploso” è la conclusione della spiccata<br />

propensione minimalista di Tutti Impazziscono per i Tuoi Occhi di Cammel-<br />

lo ma Lui No (ovvero il titolo stesso del brano); lo è il refrain di Terry Riley<br />

(“I’m your fan but I’m not your friend”); sono sequenze di witz (generaliz-<br />

zando, con ampio margine di errore) le associazioni quasi libere – a farle<br />

libere sono capaci tutti, ma in Vita Politica Dei Casa c’è capacità di fare<br />

i “quasi” – che compongono i testi di tutte queste canzoni.<br />

Non parliamo di lyrics solo perché esse sono in italiano. Sono i Casa a<br />

turn it on<br />

spingere l’attenzione dell’ascoltatore sui barocchismi vocali, che scivolano su un tessuto ritmico e a volta ru-<br />

morista, sul contraltare musicale. Sono i testi a far parlare della musica del disco, perché si ha l’impressione di<br />

una ricerca di traduzione tra quel meccanismo linguistico sopra espresso e l’obliquità musicale di questo disco.<br />

Ma la traduzione non avviene nella superficie di ascolto - che per questo è vagamente dissonante - ma altrove,<br />

chissà dove.<br />

Si ascolti poi Balletto Automatico (che “è per Erik Satie”) - un excursus tra almeno tre temi, tutti efficaci. Se<br />

i connettivi sono di sapore prog-, la disillusione della connessione è post-. C’è un lavoro sul riff tradizionale,<br />

pur nello sviluppo progressivo dei brani (o almeno riportabile agli anni ’70, se in Mozo, come a me pare, c’è il<br />

Faust’o di Suicidio), che fa pensare a presunti ascolti post- dei musicisti. Ma attenzione. L’obliquità dei riff che<br />

i Casa rivendicano per la propria musica è sì per spirito non troppo lontana da Tweez – ma i riferimenti non sono<br />

evidentemente gli stessi. Ci sono le avanguardie strombazzate ai quattro venti. E, giudicate voi se per fortuna o<br />

per peccato, la difficoltà di fruizione (che alle avanguardie a volte si attacca come il liquirone ai denti) è rimasta<br />

a casa. (7.3/10)<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 4


è una crasi tra Captain Beefheart<br />

e Quentin Compson, personaggio<br />

de L’urlo e il furore di Faulkner. La<br />

loro musica si presenta come un<br />

tentativo di farmi cambiare idea cir-<br />

ca l’esaurimento - storico/estetico<br />

- del post-rock. Ovviamente non ci<br />

riescono, però alla fine vincono la<br />

scommessa, evitano la tipica irre-<br />

gimentazione da figliastri di June<br />

Of’44-Tortoise-Slint per imbastire<br />

trame math spasmodiche, duttili,<br />

in perenne e progressivo frasta-<br />

gliamento. Tanto da costeggiare<br />

un’acidità delirante e arcigna (Le<br />

occasioni son macchine rotte, con<br />

echi fuzzati dei primi Floyd e dei<br />

Van Der Graf Generator), rutilanti<br />

trasfigurazioni blues-rock (la fra-<br />

grante e lunare La bottiglia viola,<br />

simile a certi Bron Y Aur) e trepide<br />

ostinazioni soul-funk (tra lo star-<br />

nazzare del sax e la chitarra frasta-<br />

gliata di Dilliman). Disarticolazioni<br />

ad elastico, tastiere spacey che ri-<br />

magliano i fraseggi chiostrati delle<br />

chitarre, tamburi a sprimacciare le<br />

ritmiche convulse. Un’apparecchia-<br />

tura che non lascia riferimenti e ti<br />

prepara ai piatti più sorprendenti,<br />

così che l’alternarsi tra cavalcata<br />

kraut e torvo funk-blues di Disco-<br />

post Inc può sfociare in una psych<br />

robotica (immaginate i RUNI che<br />

grattano la pancia al Brian Eno più<br />

cupo), proponendosi come la por-<br />

tata più gustosa. Senza scordare il<br />

valzer sdrucciolevole e adrenalinico<br />

di Rullante per un vicino, ispirato a<br />

certi menù cinematici e febbrili Jim<br />

O’Rourke. Intensi, sfrenati e furio-<br />

si, tanto per non tradire il nome.<br />

Bravi. (7.1/10)<br />

4 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

Colleen - Les Ondes Silencieuses<br />

( L e a f / Wide, 21 maggio 2007)<br />

G e n e r e : a v a n t f o l k<br />

Ci mette un po’ per farsi apprezza-<br />

re il nuovo lavoro di Colleen. Con<br />

Les Ondes Silencieuses la Nostra<br />

abbandona l’uso di campionamenti<br />

e loop d’elettronica e sembra vo-<br />

lersi allontanare a lunghe falcate<br />

dal mare magnum di incontamina-<br />

te armonie che aveva creato con i<br />

suoi primi due capolavori. Il suono<br />

di questo disco è ruvido e crudo,<br />

deputato quasi esclusivamente al-<br />

l’amata viola da gamba, con l’inser-<br />

to occasionale di clarinetto, cristal-<br />

li, chitarra acustica e spinetta, un<br />

altro strumento desueto di origine<br />

barocca, di cui si è innamorata. Il<br />

risultato è molto più austero e ri-<br />

gido, come si capisce immediata-<br />

mente dall’iniziale This Place In<br />

Time. Anche in sede di songwri-<br />

ting pare che siano cambiate molte<br />

cose e si ceda molto più facilmente<br />

all’improvvisazione. Ma la Colleen<br />

che amiamo, quella che fa fiorire<br />

magicamente le armonie dall’inca-<br />

stro sorprendente di note e suoni<br />

sembra essersi solo nascosta nella<br />

ricerca formale di strumenti e sono-<br />

rità. Eccola apparire nella bellissi-<br />

ma parte centrale di Le Labyrinthe,<br />

costruita integralmente suonando<br />

la spinetta, con quel suono arcano<br />

e arcaico che sa di clavicembalo<br />

settecentesco. Eccola lasciarsi an-<br />

dare alle dolci meditazioni di Blue<br />

Sands, con gli arpeggi che si du-<br />

plicano, triplicano, riverberano. Ec-<br />

cola abbandonarsi alle mareggiate<br />

notturne di Sea Of Tranquility, con<br />

le note pizzicate lentamente una<br />

ad una, come a contornare un cor-<br />

po tra le onde in attesa che albeg-<br />

gi. Gli episodi più severi e diffici-<br />

li sono quelli dove Cecile tende a<br />

nascondere l’armonia sotto il peso<br />

della viola da gamba, come in Past<br />

The Long Black Land e nella title<br />

track, dove cerca di rivivere come<br />

un esorcismo l’attimo in cui fu ab-<br />

bagliata da Marin Marais, vista nel<br />

film Tous Les Matins Du Monde.<br />

Echoes And Coral e Le Bateau sono<br />

invece gli episodi dove cerca di ag-<br />

grapparsi più saldamente all’anco-<br />

ra dell’avanguardia. In definitiva,<br />

un disco diverso, dove Colleen si<br />

concentra sulle singole note, anzi-<br />

ché fonderle in un unico umore in-<br />

distinto come faceva in The Golden<br />

Morning Breaks. Fatta questa di-<br />

stinzione, sottolineato che Les On-<br />

des Silencieuses è sicuramente un<br />

lavoro di più difficile assimilazione,<br />

quello che resta è che Colleen,<br />

come artista e musicista, continua<br />

indisturbata a viaggiare anni luce<br />

davanti agli altri. (7.2/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

C o r n e l i u s - S e n s u o u s ( Wa r n e r<br />

J a p a n , o t t o b r e 2 0 0 6 - E v e r l o v i n g ,<br />

2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : g l o c a l p o p<br />

Tre album in dieci anni (più due<br />

usciti sono in patria). D’accordo,<br />

non sarà molto prolifico Keigo<br />

Oyamada, meglio conosciuto come<br />

Cornelius, ma volete mettere le<br />

perle visionarie lanciate in questi<br />

anni con Fantasma prima e Point<br />

dopo? Senza contare la miriade di<br />

collaborazioni intraprese con con-<br />

nazionali (Sakamoto, Masakatsu)<br />

e non (Blur, U.N.K.L.E.). Non c’è<br />

quindi da girarci troppo attorno: un<br />

delirio di fantasia, un eclettismo<br />

vivace e sincero, ingenuo come<br />

un bambino che pasticci con piat-<br />

ti e bicchieri. Serie tv, psichedelia,<br />

Brasile, leggendario pop beatlesia-<br />

no, hard rock e punk, cut’n’past,<br />

field recordings, orchestre e video-<br />

game. Insomma, questo ennesimo<br />

scarabocchio made in Japan non<br />

lascia fuori proprio nulla, tritando<br />

e risputando fuori perfetti gingil-<br />

li glocal pop. Definito da più parti<br />

come il Beck della postmoderni-<br />

tà, con l’ultimo Sensuous compie<br />

il giusto step in avanti rispetto ai<br />

precedenti lavori: organico nel suo<br />

giocare con generi e stili (il metal<br />

vestito di attitudine punk di Gum,<br />

lo standard jazz di Breezin’, porta-<br />

to al successo da Gabor Szabo e<br />

George Benson, spruzzato di syn-<br />

th), coerente nel suo confrontarsi<br />

col passato (si ascolti ad esempio<br />

Fit Song, con quella sua tipica voce<br />

robotica a decantare singole parole<br />

come “just” o “fit”, in un profluvio di<br />

synth e chitarre), ma con lo sguar-<br />

do sempre attento a cogliere il con-<br />

tempora<strong>neo</strong> (ce li vedreste i Kraf-<br />

twerk con Michael Jackson a rifare<br />

Billie Jean? Beh, Beep It potrebbe<br />

essere una realistica ipotesi). Non<br />

mancano poi quelle delizie per cui


alla fine non ti rimane che perdere<br />

la testa per lo stralunato Oyamada:<br />

l’electro acustico pop di Music (con<br />

cui, ci possiamo scommettere, bis-<br />

serà il successo ottenuto con Drop)<br />

e le nostalgiche atmosfere cinema-<br />

tografiche della title track (chitarra<br />

decompressa e campanelli prima-<br />

verili) e di Omstart, in coppia con il<br />

duo Glambek Bøe/Øye (e quanto ci<br />

piacerebbe che i due regnati suo-<br />

nassero così…). Sarà mica troppo<br />

per un unico disco? Forse. Ma il<br />

marchingegno è talmente oliato da<br />

non risultare strabordante o confu-<br />

sionario. E il bello è che Cornelius<br />

fa tutto da solo. (7.2/10)<br />

V a l e n t i n a C a s s a n o<br />

D e a d b u r g e r - C ’ è a n c o r a v i t a<br />

s u M a r t e ( G o o d f e l l a s , 1 6 a p r i l e<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e t t r o - r o c k<br />

Dovessimo descrivere le coordina-<br />

te entro cui la musica dei fiorenti-<br />

ni Deadburger si muove oggi, uti-<br />

lizzeremmo ancora i termini di cui<br />

ci eravamo serviti per S.t.O.r.1.e<br />

(Wot4, 2003): elettrorock, post-<br />

punk, industrial; e ancora rock in-<br />

dipendente italiano, ironia, critica<br />

sociale, estro ed eclettismo colto<br />

sono tutte dizioni valide per fornire<br />

una guida a beneficio dei perplessi<br />

che si accostino impreparati al pri-<br />

mo ascolto delle ventidue tracce di<br />

C’è ancora vita su Marte - e piace-<br />

volmente storditi, o temerariamente<br />

affascinati, al secondo.<br />

Ma la faccenda, in quest’ultimo la-<br />

voro, si è ulteriormente complicata:<br />

si conceda una scorta pur rapida al<br />

vademecum che, sulla pagina web<br />

del gruppo, di ogni singolo brano<br />

riferisce dettagliatamente genesi,<br />

sviluppo e finalità estetiche (http://<br />

w w w. d e a d b u r g e r. i t / d o w n l o a d / m a r -<br />

t e / d e a d b u r g e r _ m a r t e _ a l b u m . p d f ) :<br />

non si può che rimanere sorpresi<br />

dall’attività proteiforme di una fa-<br />

melica curiosità intellettuale - se-<br />

conda forse solo a quella di (etre)<br />

Salvatore Borrelli - da cui tutto<br />

prende vita. Musiche e testi, suo-<br />

ni ed umori che a qualcuno, c’è da<br />

scommetterci, sembreranno la spia<br />

di un confuso girare a vuoto di na-<br />

tura eclettica e citazionista.<br />

Ma c’è un filo rosso che lega l’an-<br />

themico synth-rock di Come ho fat-<br />

to a finire in questo deserto al fan-<br />

taduetto tra il sassofono di Jacopo<br />

Andreini e la Sun Ra Arkestra - i<br />

campioni di suono della Arkestra<br />

- di Magnesio: la passione sempre<br />

più tangibile per sonorità jazz (Un<br />

luogo dove non sono mai stato) e<br />

l’utilizzo delle tecniche compositi-<br />

ve delle avanguardie (Amber, Sed-<br />

na), il fascino per il calembour ed il<br />

non-sense, retaggio dell’influenza<br />

di certo rock demenziale italiano<br />

(I veri uomini stanno a Chieti, An-<br />

che i bocconiani hanno cominciato<br />

da piccoli, S.B.S.) e le citazioni di<br />

Nanni Balestrini, Michel Houllebe-<br />

cq, Ben Vautier, Giuliano Mesa. C’è<br />

un filo rosso che lega le ventidue<br />

tracce di C’è ancora vita su Marte<br />

ed è compito di un ascoltatore non<br />

preoccupato, che voglia smarrirsi<br />

tra i rivoli di infinite conversazioni,<br />

coglierlo. (6.5/10)<br />

V i n c e n z o S a n t a r c a n g e l o<br />

Defectors – Bruised And Satisfied<br />

(Bad Afro / Wide, marzo 2007)<br />

G e n e r e : h o r r o r - p u n k - r o c k<br />

Che ci sia del marcio in Danimarca<br />

lo si può constatare, senza scomo-<br />

dare lontane reminiscenze lette-<br />

rarie, semplicemente ascoltando<br />

Bruised And Satisfied il nuovo<br />

album di questo oscuro gruppo da-<br />

nese.<br />

Defectors - quintetto dedito ad una<br />

sorta di horror garage-punk perver-<br />

so e melodico - hanno idealmente<br />

diviso in due parti l’album come<br />

fosse un vinile, ma anche come le<br />

due anime del gruppo. Nel “lato A”<br />

a prendere il sopravvento è l’anima<br />

diabolicamente horror, grazie ad un<br />

abbondante uso della strumenta-<br />

zione vintage (organo e farfisa) che<br />

disegna atmosfere lugubri e gothic<br />

tanto che sembra di ascoltare dei<br />

Birthday Party direttamente usci-<br />

ti da un live all’inferno (Dancing<br />

Ghouls) o una versione ancor più<br />

vampiresca dei Fuzztones (Re-<br />

surrection). Insomma musica per<br />

zombie assetati di sangue che non<br />

stonerebbe affatto in un b-movie<br />

splatter o come soundtrack dei film<br />

di Jess Franco. Nel “lato B” invece<br />

emerge l’anima più grezza e sixties<br />

garage oriented sulla falsariga di<br />

quel suono truce, sboccato e slab-<br />

brato che unisce Sonics e Grave-<br />

digger V ai Dwarves passando per<br />

le sonorità In The Red. Pezzi da<br />

due minuti in cui la batteria è un<br />

martello e le chitarre si fanno in-<br />

candescenti (You Better), pop-punk<br />

palindromo e assassino (Love Is<br />

Evol), mid-tempo r ’n’r dei primordi<br />

(Baby When You’re Gone). Insom-<br />

ma, excellent music for driving,<br />

come essi stessi suggeriscono in<br />

copertina. (6.5/10)<br />

S t e f a n o P i f f e r i<br />

D J J a z z y J e f f – T h e R e t u r n<br />

O f T h e M a g n i f i c e n t ( B B E /<br />

A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : h i p h o p o l d s c h o o l<br />

In principio fu Dj Jazzy Jeff & The<br />

Fresh Prince ed il successo plane-<br />

tario di You Are A Dj I’m A Rap-<br />

per (vero capostipite del rap più<br />

disimpegnato e colorato) e della<br />

sit com Il Principe di Bel Air. Poi,<br />

Will Smith (The Fresh Prince) è di-<br />

ventata la superstar hollywoodiana<br />

che tutti conosciamo, la coppia si è<br />

sciolta ed il buon Jeff se n’è rima-<br />

sto da solo a sguazzare tra under-<br />

ground e mainstream dividendosi<br />

tra produzioni, anche per lo stesso<br />

Smith, remix, compilation e dischi<br />

solisti. Inutile dire che ci si trova<br />

di fronte ad un peso massimo del-<br />

la categoria, stimato e rispettato in<br />

ogni angolo del globo, come testi-<br />

monia la miriade di ospiti convocati<br />

per questa seconda prova sulla lun-<br />

ga distanza licenziata con il mar-<br />

chio della BBE. Da CL Smooth a<br />

Pos dei De La Soul passando il ve-<br />

terano Big Daddy Kane e l’inegua-<br />

gliabile Method Man (ammaliante<br />

la prova offerta in Hold It Down)<br />

The Return Of The Magnificent è<br />

un susseguirsi di buone vibrazioni<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 4


old school che profumano di jazz<br />

e soul, fanno dello scratch un’ar-<br />

te ineguagliabile e puntano tutto<br />

il contante sul ballo e l’intratteni-<br />

mento, impartendo una lezione di<br />

stile ai tanti brutti ceffi che oggi si<br />

aggirano impuniti nella scena divi-<br />

dendosi tra denti d’oro e puttanelle<br />

sculettanti. La classe, signori, la<br />

classe. (7.0/10)<br />

4 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

S t e f a n o R e n z i<br />

D o g D a y – N i g h t G r o u p ( To m l a b<br />

/ A u d i o g l o b e , a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e<br />

Qualcuno, ascoltando il disco dei<br />

Dog Day, potrebbe quantomeno<br />

storcere il naso. Quel look così<br />

scombinato – ad arte? – su quei visi<br />

così pulitini. Quelle melodie così<br />

orecchiabili su un approccio da hard<br />

discount dell’indie rock. Una roba<br />

da far venire pruriti auricolari. Ma<br />

non si tratta di un prodotto pensato<br />

per piacere a tutti i costi. Alla fine,<br />

Night Group suona vero e intenso.<br />

Merito della formula adottata, che<br />

nasce negli anni Ottanta e si stabi-<br />

lisce alle soglie del Duemila, dalle<br />

parti della New York descritta dai<br />

Sonic Youth di Murray Street. Gli<br />

echi di certo post punk britannico<br />

sono allora nel basso percussivo<br />

di End Of The World, mentre nella<br />

seguente Oh Dead Life assistiamo<br />

ad una nuova riconfigurazione del<br />

suono dei primissimi R.E.M., che<br />

alla lunga si rivelano qualcosa di<br />

più di uno sporadico punto di rife-<br />

rimento stilistico. Alcuni richiami<br />

grunge – benché dalle distorsioni<br />

appositamente disinnescate – si<br />

trovano nei giri di chitarra di Vow,<br />

così come non manca il più clas-<br />

sico – e coinvolgente – dei pezzi<br />

indie rock, Sleeping, Waiting. La<br />

band non sorprende e non innova.<br />

Ma scrive canzoni che sono fre-<br />

sche, orecchiabili e piacevoli. Con<br />

gli anni potrebbe affinare i propri<br />

pregi e, contemporaneamente, di-<br />

staccarsi definitivamente dai propri<br />

padri putativi. (6.5/10)<br />

M a n f r e d i L a m a r t i n a<br />

D u n g e n - Ti o B i t a r ( S u b l i m i n a l<br />

S o u n d s / M e g a r o c k / C l e a r S p o t ,<br />

3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p s i c h e d e l i a<br />

Per chi è rimasto stregato dalle at-<br />

mosfere magiche del precedente Ta<br />

Det Lugnt, l’uscita di Tio Bitar non<br />

potrà che essere un appuntamento<br />

segnato in rosso sul calendario da<br />

diversi mesi. È un piacere ritrova-<br />

re le creature del bosco incantato<br />

elettrificato che popolano l’imma-<br />

ginario di Gustav Ejstes. Essere<br />

trascinati dentro la tana da un In-<br />

tro strumentale, che è un tripudio<br />

di chitarre distorte e fiati, per as-<br />

sistere alla messa in scena di uno<br />

spettacolo dal sapore fricchettone<br />

ma da prendere tremendamente sul<br />

serio.<br />

Gli arrangiamenti, tradizionalmen-<br />

te tutt’altro che castigati, si sono<br />

ulteriormente ispessiti, complice<br />

una vena prog che allarga il proprio<br />

campo d’azione a discapito di quel-<br />

la pop, per la felicità di fiati, tastie-<br />

re e scampanellii assortiti, dando<br />

vita ad un’opera dalle sfaccettature<br />

molteplici.<br />

Si ascolti il folk ampolloso di Fa-<br />

milj e il suo contrario Mon Amour,<br />

un piccolo gioiello che parte ga-<br />

rage (Who Sixties) e conclude in<br />

una jam incendiaria, con chitarra,<br />

basso e batteria a fare ciò per cui<br />

sono stati concepiti. O ancora il riff<br />

di basso elementare ma ottundente<br />

di Ett Skäl Att Trias, che spicca in<br />

mezzo a quadretti dal tocco jazzy.<br />

Un lavoro che è forse più “disco”<br />

del precedente ma che alla lunga,<br />

nel confronto, finisce per perdere<br />

qualcosa in freschezza, anche nel<br />

tiro dei singoli pezzi se considerati<br />

separatamente. Comunque buonis-<br />

simo. (7.0/10)<br />

G i a n l u c a Ta l i a<br />

E l e c t r e l a n e – N o S h o u t s , N o<br />

C a l l s ( To o P u r e / S e l f , m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e r o c k / p o p<br />

C’era molta attesa per questo nuo-<br />

vo album in studio delle inglesi<br />

Electrelane, attese al varco dopo<br />

le stupefacenti prove di The Power<br />

Out ed Axes che ne avevano con-<br />

solidato lo status di band culto della<br />

moderna geografia musicale inter-<br />

nazionale. Un’aspettativa resa an-<br />

cora più vibrante dall’incertezza su<br />

quello che sarebbe stato il conte-<br />

nuto di questo No Shouts, No Cal-<br />

ls avendoci, le ragazze di Brighton,<br />

abituati a repentini quanto impossi-<br />

bili cambi di direzione. Gia dall’ini-<br />

ziale The Greater Times, però, si<br />

capisce che questo lavoro parla il<br />

verbo del pop, angolare, sofistica-<br />

to, emancipato, brillante, perspica-<br />

ce addirittura contempora<strong>neo</strong> nella<br />

sua classicità sospesa tra (post)<br />

kraut rock e modernariato Stereo-<br />

lab ma comunque lontano anni luce<br />

dalle improvvisazioni in presa di-<br />

retta del precedente Axes. Canzoni<br />

di una lievità e di una immediatez-<br />

za sorprendenti, come dimostrano<br />

le ninne nanna elettrificate di Cut<br />

And Run e At Sea oppure le ombre<br />

degli Yo La Tengo evocate in After<br />

The Call e tra gli arrangiamenti di<br />

archi di In Berlin preziosi esempi<br />

di come si possa suonare derivativi<br />

senza perdere in lucidità e perso-<br />

nalità. (7.2/10)<br />

S t e f a n o R e n z i<br />

E l - p – I ’ l l S l e e p W h e n Yo u ’ r e<br />

D e a d ( D e f J u x / G o o d f e l l a s , 2 0<br />

m a r z o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e c t r o - h i p h o p<br />

Sono stati ben quattro gli anni di<br />

attesa per il secondo, fatidico se-<br />

condo album di una delle più inte-<br />

ressanti promesse del panorama<br />

electro-hip hop. Quattro anni in cui


D a n D e a c o n – S p i d e r m a n O f T h e R i n g s ( C a r p a r k / G o o d f e l l a s , 1 4<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e t t r o n i c a<br />

La conferma che aspettavamo da Dan Deacon è arrivata, si chiama Spi-<br />

derman Of The Rings, ed esordisce con un manifesto dello stile dell’au-<br />

tore, cartoonistico e lievemente inquietante allo stesso tempo (Wooody<br />

Woodpecker). Si potrebbe generalizzare parlando di “future shock”, specie<br />

per quelle vocine acide (Residents-iane) e alcuni atteggiamenti alla Devo.<br />

Si potrebbe poi andare a guardare l’uso di strumentazioni vintage e al<br />

piano di lavoro minimale di Dan per accostarlo alla nostrana Miss Vio-<br />

letta Beauregarde. Ma Dan Deacon – come abbiamo preannunciato nello<br />

speciale a lui dedicato in questo numero di SentireAscoltare – è laterale<br />

agli ascolti di un indierocker. Va di lato e a volte li supera fatalmente (si-<br />

curamente rispetto all’ultimo riferimento citato). In un certo senso è più<br />

turn it on<br />

giusto in questo caso leggere quello che si sente senza guardare tra le righe, come insegna lui stesso; è così<br />

che notiamo uno stupefacente avvicinamento della stratificazione di Philip Glass e soci (elemento da sempre pre-<br />

sente in Deacon) ai crescendo house e agli accenni techno delle sparate batteristiche digital hard-core. Succede<br />

insomma che queste composizioni abbordabili ma complesse trovino dei concatenamenti (degli anelli mancanti<br />

plurimi?) tra i motivi dei carillon, i cori fanciulleschi, le avanguardie minimaliste e le varie danze ultramoderne. Il<br />

che produce commistioni inedite, ovvero carillon paranoici, minimalismo da ballo e techno “da ascoltare”, renden-<br />

do Spiderman Of The Rings un disco che può creare proselitismo. A volte Deacon esagera (Jimmy Joe Roche),<br />

se si fa prendere la mano. Il punto, in “canzoni” come queste, una volta oleate le tecniche, è quando fermarsi.<br />

Noi ci facciamo prendere la mano con lui, e proponiamo un (7.5/10).<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 4


è successo tutto e il contrario di<br />

tutto in questo campo, così in fer-<br />

mento dopo i fasti e la decadenza<br />

di label-simbolo come la Anticon.<br />

Quattro anni durante i quali l’hip<br />

hop ha cambiato pelle e ha vesti-<br />

to i panni del pop, dell’elettronica,<br />

del rock, diventando un linguaggio<br />

da trasformare, uno strumento di<br />

lavoro per gli sperimentatori del-<br />

la musica. El-p è sempre stato fra<br />

questi, sin dai suoi esordi un esem-<br />

pio da seguire attentamente. Molto<br />

attento a salvaguardare l’identità<br />

di fondo del rap, il bianchissimo dj<br />

di Brooklyn (con l’apporto niente-<br />

popodimeno che del signor Trent<br />

Reznor), in questo suo secondo<br />

lavoro in studio, è riuscito, a diffe-<br />

renza di tanti veterani del genere,<br />

ad operare una perfetta sintesi tra<br />

il vecchio e il nuovo, tra le radici<br />

bass&rhymes delle origini e le nuo-<br />

ve esigenze espressive dell’elettro-<br />

nica. In più, I’ll Sleep When You’re<br />

Dead (simpatico capovolgimento di<br />

un’espressione inneggiante al di-<br />

vertimento ad oltranza, “I’ll sleep<br />

when I’m dead”) porta con sé l’im-<br />

portante conferma di una tendenza<br />

del nuovo avant-hop, che potrem-<br />

mo definire “doom”. La scelta di rit-<br />

mi lenti, filtrata da anni di trip hop,<br />

l’uso di accordi minori stesi a tap-<br />

peto sulla base ritmica e il rapping<br />

incalzante e freddo, compongono un<br />

sound che si ricollega direttamente<br />

alle recenti scelte musicali di band<br />

come Coaxial e Dalek, legandosi<br />

ad un filo che conduce dritto all’atti-<br />

tudine più dark e crepuscolare dell’<br />

hip hop, all’aspetto più cupo della<br />

musica afroamericana del nuovo<br />

millennio. The League Of Extraor-<br />

dinary Nobodies è forse l’esempio<br />

4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

più lampante di questo approccio<br />

che, con differenti gradi d’intensità,<br />

si diffonde a macchia per tutto l’al-<br />

bum e ne impregna alcuni momenti<br />

in maniera particolare (Tasmanian<br />

Pain Coaster; Habeas Corpses;<br />

Dear Sirs). L’originalità e l’ingegno<br />

di El-p risiedono nella sua partico-<br />

lare maniera di amalgamare queste<br />

scelte estetiche con le necessità<br />

ritmiche dell’hip hop radicale (quel-<br />

lo “nero” e senza compromessi,<br />

per intenderci), lasciando sempre<br />

trapelare un sapore old skool a ri-<br />

cordarci continuamente che, in fin<br />

dei conti, è proprio di quello che<br />

stiamo parlando. E’ l’anima dell’hip<br />

hop (come un giorno fu, o magari<br />

lo è ancora, quella del blues) che<br />

aleggia nel pop à la Why? di The<br />

Overly Dramatic Truth, nel funky di<br />

Flyentology e Up All Night o nello<br />

stile vintage di No Kings, EMG e<br />

Run The Numbers, che ripescano<br />

Beastie Boys, Run DMC e Public<br />

Enemy degli esordi e li arricchisco-<br />

no dei colori dell’elettronica. In de-<br />

finitiva, se esistesse un fantomatico<br />

“parlamento stilistico dell’hip hop”,<br />

che disegnasse la collocazione dei<br />

musicisti rispetto alla tradizione<br />

di questa musica e al rapporto tra<br />

conservazione e trasformazione, il<br />

nostro El-p si collocherebbe più a<br />

destra di tanti sperimentatori più<br />

audaci (cLOUDDEAD, Kill The Vul-<br />

tures e via dicendo), preoccupato<br />

com’è al suo rapporto con le radici.<br />

Ma per fortuna non siamo in poli-<br />

tica e, in più, se fossero tutti così<br />

i conservatori, sarebbero molto più<br />

progressisti di tanti che si presu-<br />

mono tali, tanto che verrebbe quasi<br />

voglia di votare a destra… (7.2/10)<br />

D a n i e l e F o l l e r o<br />

F i s h O f A p r i l - Vi o l e t P h a r m a c y<br />

( S e a h o r s e / G o o d f e l l a s , 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : n e w w a v e<br />

Cos’è questa Berlino primi anni 80<br />

che esce dalle casse? Riducendo<br />

il tutto ai minimi termini e consi-<br />

derando le assonanze cromatiche,<br />

verrebbe da chiamarla new wave,<br />

anche se la media dei suoni conte-<br />

nuti nel disco e il sonno agitato che<br />

li attraversa suggerirebbe immagini<br />

di tutt’altra specie. Nello specifico<br />

Ian Curtis imbottito di oppiacei,<br />

Lou Reed stretto in qualche lucido<br />

abitino in latex, i Pavement hea-<br />

dliner a un funerale (Namid Grey),<br />

Aidan Moffat intento a lucidare le<br />

scarpe a punta del Nick Cave pre-<br />

Bad Seeds (Lautarj e Rockmaster).<br />

Musica torbida e scheletrica con<br />

cui non è facile scendere a patti,<br />

un rock cupo e visionario ricco di<br />

entusiasmi al Valium, partorito sot-<br />

to la Cortina di Ferro (Distant Way),<br />

scosso da un battere inespressivo,<br />

martoriato da un cantato senza<br />

grazia. Sgrammaticato e lancinante<br />

come soltanto alcune opere prime<br />

sanno essere, Violet Pharmacy de-<br />

scrive il mondo a tinte forti di Ales-<br />

sio Pinto, “giornalista, scrittore<br />

accanito scommettitore, trascorsi<br />

in galera e poco altro”. Un mondo<br />

in cui il cuore diventa un percuote-<br />

re lontano ma pressante di tambu-<br />

ri, l’anima una chitarra affascinata<br />

dal lato oscuro della forza, i nervi<br />

pulsioni indecifrabili e filastrocche<br />

ipnotiche, il cervello un basso che<br />

gira in tondo. Il tutto sparato lì, di-<br />

sadorno, essenziale, quasi intro-<br />

spettivo, senza fondamenta certe<br />

né riparo sulla testa. Uno scenario<br />

urbano squallido e puzzolente che<br />

all’inizio spaventa, ma che col tra-<br />

scorrere dei minuti viene quasi da<br />

chiamare “casa”. (6.8/10)<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

G a n g G a n g D a n c e - R e t i n a<br />

R i d d i m ( S o c i a l R e g i s t r y / W i d e ,<br />

2 2 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : a r t r o c k c o l l a g e<br />

Sembra che arriverà presto un nuo-<br />

vo parto ufficiale dei Gang Gang<br />

Dance. Per ingannare l’attesa la<br />

strambissima compagine newyorke-<br />

se si ripresenta sugli scaffali dei<br />

negozi con questo Retina Riddim,


il loro primo dvd vero e proprio.<br />

Per metà si tratta di un classico<br />

tour movie, con riprese della band<br />

dal vivo e momenti di scazzo on<br />

the road, concepito durante il tour<br />

americano e australiano del 2004<br />

da un certo Oliver Payne (un amico<br />

della band), per l’altra metà è un<br />

collage audio/video presuntuosa-<br />

mente artsy che vorrebbe richiama-<br />

re la no wave e il cinema sperimen-<br />

tale in super8, quello di Brackhage<br />

soprattutto. Il deus ex machina di<br />

tutta l’operazione è Brian DeGraw,<br />

che quando non è impegnato a con-<br />

cepire la garbage music percussi-<br />

va della band, si diletta nella video<br />

art. Chi ha familiarità con i suoni<br />

dei Gang Gang Dance può immagi-<br />

nare l’effetto di sballo allucinatorio<br />

che emerge da questo progetto. De-<br />

Graw mette mano prima alla traccia<br />

audio, andando a ripescare i fram-<br />

menti più disparati dall’archivio<br />

dei demo e dei nastri perduti della<br />

band, rimettendo tutto in circolo,<br />

con spezzoni di concerti, interviste,<br />

schegge dei passati dischi, misce-<br />

lando poi questo blob schizoide con<br />

la classica tecnica del cut’n’paste.<br />

Segue lo stesso procedimento per<br />

la parte video, cercando di trattare<br />

le immagini in sincrono con l’audio<br />

e ottenendo un perfetto compendio<br />

audio/visivo per il profilo weird del-<br />

la band. Certo… definire “art film”,<br />

un disordinato pastiche di suoni e<br />

immagini con effetti, spesso, da<br />

videocamera cheap, mi sembra un<br />

po’ grossa, ma documenti del gene-<br />

re vanno presi come la testimonian-<br />

za di una deriva dell’underground<br />

americano ormai incontestabile. Si<br />

veda anche il cd accluso dalla So-<br />

cial Registry: 24 minuti di cut’n’pa-<br />

ste sonoro, dove DeGraw assembla<br />

pezzi sparsi di musiche preceden-<br />

temente buttate dalla band. Chi è<br />

sempre alla ricerca di stranezze e<br />

stramberie (alzo la mano) si acco-<br />

modi pure, gli altri, quelli “normali”,<br />

quelli che voglio sempre la classica<br />

verse-chorus-verse, stiano assolu-<br />

tamente alla larga. (6.5/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

M a u r o E r m a n n o G i o v a n a r d i -<br />

C u o r e a n u d o ( R a d i o F a n d a n g o<br />

/ E d e l , 2 3 m a r z o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : c a n t a u t o r i a l e<br />

Ci sono dischi che mi procurano<br />

sensazioni piacevoli ma contraddit-<br />

torie. Dischi come questo esordio<br />

solista di Joe dei La Crus. Contrad-<br />

dittorio, appunto, a partire dal fatto<br />

che si muove sulla linea di confine<br />

tra progetto live - cui la dimensio-<br />

ne live è necessaria - e prodotto di<br />

studio (è evidente il lavoro di post-<br />

produzione). Poi c’è la scelta dei<br />

brani, da un lato piuttosto scontati<br />

e disarmanti come l’immancabile<br />

Tenco di Vedrai vedrai (la consue-<br />

ta, stupenda impossibilità di ag-<br />

giungere altro) o addirittura tediosi<br />

come il Fossati di Navigando (cui<br />

la tromba amicale e i baluginii di<br />

chitarra gettano una ciambella di<br />

salvataggio), dall’altro invece az-<br />

zeccatissimi come Hai pensato<br />

mai?, ballad di Lino Toffolo che<br />

fa incontrare Gino Paoli e Cesare<br />

Basile nel cortile dei Calexico, op-<br />

pure l’irresistibile El mé gàtt, fisa,<br />

canto e traduzione - dal milanese<br />

- per tragicomico cabaret meneghi-<br />

no firmato Ivan Della Mea. Quanto<br />

al Giovanardi interprete, anche qui<br />

luci e ombre: tra reading ora sugge-<br />

stivi (l’assorta elegia di A Milano,<br />

testo di Tondelli) e ora un po’ trop-<br />

po sopra le righe (la frenetica Il mio<br />

amore è come una febbre, su testo<br />

di Shakespeare nientemeno), il<br />

vecchio Joe mette a nudo - appunto<br />

- la grana di una voce tutt’altro che<br />

virtuosa e lo sapevamo, però com-<br />

pensata dalla naturalezza inquieta<br />

(vedi l’altro omaggio tenchiano Un<br />

giorno dopo l’altro), da un languo-<br />

re un po’ dandy un po’ decadente,<br />

capace di rendere con cinismo ac-<br />

corato il De André <strong>neo</strong>-bohemienne<br />

di Giugno ‘73 e di declamare con<br />

La figa (testo di Tonino Guerra)<br />

tutta la devozione e la meraviglia<br />

che si merita questo centro di ogni<br />

cosa (con buona pace dei mania-<br />

ci della Playstation). La band (tra<br />

cui Fabio Barovero dei Mau Mau, il<br />

sodale Paolo Milanesi ed il chitar-<br />

rista Lorenzo Corti, già con Basi-<br />

le e la Donà) si esalta paventan-<br />

do una sorta di Capossela ripulito<br />

nella rivisitazione di La giostra ed<br />

il Paolo Conte tanghesco in Solo<br />

sfiorando. Più sofisticate le trame<br />

imbastite per le due tracce inedite,<br />

entrambe jazz ballad orchestrali:<br />

obliquo struggimento tra tromba e<br />

drumming spazzolato in Un cuore<br />

a nudo, cremosa mestizia di slide<br />

su trame palpitanti di piano in Te-<br />

stamento d’amore. Difficile trovare<br />

un sentiero praticabile tra poesia,<br />

teatro e canzone. Provarci con tan-<br />

ta convinzione è già di per sé un<br />

merito. (6.5/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

G i t h e a d – A r t P o p ( S w i m /<br />

G o o d f e l l a s , 7 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : n e o w a v e<br />

Colin Newman ha fatto a suo tem-<br />

po la storia del post-punk con tre<br />

meraviglie di dischi degli Wire, coi<br />

quali tuttora persevera in un pre-<br />

sente tra i pochi degni di nota tra i<br />

(mai così poco, nel caso) reduci di<br />

allora. Sarebbe di per sé sufficien-<br />

te a garantirsi la nostra sempiter-<br />

na gratitudine, ma poiché Colin è<br />

individuo che, oltre alla fede, vuol<br />

tenersi degna anche la stima, ecco<br />

che nei ritagli di tempo mette su<br />

un gruppo a conduzione familiare<br />

con la consorte Malka Spiegel (nei<br />

Minimal Compact eoni fa), Max<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 4 7


Franken e Robin Rimbaud (ovvero<br />

uno Scanner che fa di tutto per na-<br />

scondersi da se stesso). Questo è<br />

il secondo disco della formazione,<br />

eloquente e nondimeno depistante<br />

nel titolo, giacché i fatti raccontano<br />

un ondeggiare verso la costa “arti-<br />

stica” più che quella poppeggiante<br />

della mistura (sebbene These Days<br />

rimandi all’allure lucente di una Ou-<br />

tdoor Miner rappresa e ritmicamen-<br />

te contratta) dentro architetture che<br />

spesso interpretano il funk da una<br />

prospettiva urbana, algida epperò<br />

umanamente pulsante.<br />

Non così devoto ai percorsi Wire<br />

come si potrebbe paventare (ma<br />

nello scintillante caracollare di Dri-<br />

ve By e nel paradosso Blur ante<br />

litteram All Set Up, sì), il proget-<br />

to mostra di possedere, alla luce<br />

della contemporaneità, motivazioni<br />

salde per la propria esistenza. Nel-<br />

lo spazio di un ascolto, infatti, la<br />

differenza con le decine di copisti<br />

salta all’orecchio, e non potreb-<br />

be essere altrimenti. Chitarre cir-<br />

colari e melodie strisciantemente<br />

appiccicose in estatico aprirsi (On<br />

Your Own), squadrature che osser-<br />

vano la negritudine dal buco della<br />

serratura (Drop, Space Life), nuo-<br />

ve acusticherie da camera spoglia<br />

(un’immensa Lifeloops) tracciano<br />

le coordinate entro cui il quartet-<br />

to si sposta agile padroneggiando<br />

la materia sonora, mescolandola e<br />

plasmandola in forme al contempo<br />

slanciate e spigolose, in ogni caso<br />

ricche di fascino e comunicativa.<br />

Nella giostrina stordente di bolle<br />

ed elio Jet Ear Game addirittura si<br />

ipotizza un proficuo incontro Eno-<br />

Laurie Anderson, dove quel pas-<br />

sato di canzone sperimentale evo-<br />

cato a nuova vita dal noir pigro che<br />

si fa solare in Darkest Star si salda<br />

all’oggi. Infine, non manca spazio<br />

per una ballad obliqua come Live In<br />

Your Head e per la devianza armo-<br />

nica di Rotterdam. Poste in chiusu-<br />

ra, suonano entrambe falsamente<br />

gentili e giocano con le aspettative<br />

dell’ascoltatore come il disco tutto.<br />

Guai ad abbassare la guardia e sot-<br />

tovalutarlo, quindi.<br />

Diceva Mingus che, se Charlie<br />

Parker fosse un pistolero, in giro<br />

ci sarebbero un sacco di scopiaz-<br />

zatori morti stecchiti. A voi l’onore<br />

4 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

di cambiare i riferimenti storico-<br />

stilistici dopo l’ascolto di Art Pop.<br />

Due parole che sono in pochi a ma-<br />

neggiare con sapienza, da sempre.<br />

(7.4/10)<br />

G i a n c a r l o T u r r a<br />

G u i t a r - D e a l i n W i t h S i g n a l A n d<br />

N o i s e ( O n i t o r / W i d e , 2 7 a p r i l e<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : s h o e g a z e<br />

Onestamente è lecito non aspet-<br />

tarsi granché da un gruppo che si<br />

chiama Guitar, nel 2007. In realtà<br />

non è un gruppo, ma un moniker<br />

di Michael Lueckner, giunto con<br />

questo nome al quinto album, per<br />

il quale si è fatto aiutare dalla voce<br />

di Ayako Akashiba e dai Voyager<br />

One di Seattle. Va ammesso che<br />

Michael è di quelli che dissimula-<br />

no il suono della propria chitarra<br />

(Here, Guitardelays), almeno dal-<br />

la sua versione sacrale. Il dato<br />

di fatto è che Dealin With Signal<br />

And Noise è un disco di shoegaze,<br />

come la premessa appena fatta può<br />

far sospettare; quello shoegaze<br />

che lavora sulla soglia liminale con<br />

il dream-pop (Sine Waves), nel cui<br />

campo non si cade grazie proprio<br />

alla fascia sotterranea di feedback<br />

di cui il genere si nutre da più di<br />

vent’anni. Lettore avvisato, mezzo<br />

salvato: se è ascoltatore del gene-<br />

re da allora, forse non reggerà la<br />

cover di Just Like Honey dei (padri)<br />

Jesus And Mary Chain, suonata<br />

(al pari della noiosa What Is Love?)<br />

come da una ipotetica versione da<br />

aperitivo dei My Bloody Valentine<br />

(si perdoni l’arditezza). Sono loro<br />

i veri protagonisti, e potrebbero<br />

rivendicare la paternità, tra le al-<br />

tre, anche di Watch The White Bird<br />

(questa volta nello stato di grazia<br />

- e che grazia - di Loveless). Ma se<br />

lo shogazer che legge ne ha anco-<br />

ra voglia, questo disco gli piacerà.<br />

In qualsiasi caso, sia lui che la sua<br />

nemesi scocciata si ascoltino Bal-<br />

lad Of The Tremoloser, che, scam-<br />

pato ogni derivativismo recente,<br />

incrocia un esercizio vivaldiano per<br />

cembalo con la melodia struggente<br />

(e comunque molto italiana) dell’ul-<br />

timo cinema coreano, per tremolìo<br />

chitarristico solo, come Live At Ho-<br />

tel Palesatine. Sembrano versioni<br />

robotiche dello shoegaze, per ci-<br />

nema muto. Segni (pieni) e rumore<br />

insieme. (6.5/10)<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

H a n d s o m e F u r s - P l a g u e P a r k<br />

( S u b P o p / A u d i o g l o b e , 2 2<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e f o l k - p o p , w a v e<br />

Nell’albero genealogico della gran-<br />

de famiglia indie canadese, gli Han-<br />

dsome Furs discendono direttamen-<br />

te dai Wolf Parade, essendo il side<br />

project del vocalist Dan Boeckner,<br />

qui in duo romantico/casalingo con<br />

la fidanzata Alexei Perry, anch’es-<br />

sa residente di Montreal. Plague<br />

Park è solo l’ultima tessera di un<br />

microcosmo musicale che abbrac-<br />

cia progetti grandi e piccoli, alcuni<br />

fortunati altri meno, ma ciascuno<br />

con il suo peso specifico e il suo<br />

carattere, al punto che è difficile<br />

che qualcosa proveniente da quelle<br />

parti passi inosservata.<br />

In questo caso è la Sub Pop a scom-<br />

mettere sulle mutanti folk songs di<br />

Boeckner, spogliate dalla ricchezza<br />

del gruppo di provenienza e appena<br />

vestite di gelida elettronica al lap-<br />

top e di interventi minimali (corte-<br />

sia della compagna), in un costante<br />

e suggestivo contrasto fra caldo (il<br />

pathos bowiano del canto, i pieni<br />

accordi di acustica) e freddo (i toc-<br />

chi di wurlitzer, le elettriche acute<br />

e aliene, i paesaggi lunari delle ta-<br />

stiere). A una scrittura spesso ispi-<br />

rata, nutrita in prevalenza dagli ’80<br />

e dall’estetica post Kid A - a tratti<br />

diremmo post Funeral, a testimo-<br />

nianza della sopraggiunta impor-<br />

tanza dei cugini Arcade Fire - , si<br />

accompagna inevitabile una certa<br />

monotonia nei suoni, dovuta ai rag-<br />

giunti limiti espressivi dei due. Un<br />

peccato tanto prevedibile quanto<br />

veniale: Handsome Furs Hate This<br />

City, Dead+Rural e Sing! Captain<br />

sono una delizia per ogni fan indie<br />

rock che si rispetti. (6.8/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

H o t C h i p - D J K i c k s ( K 7 ! /<br />

A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e c l e c t i c b e a t s<br />

Dopo due album incredibilmente<br />

perfetti, una serie di remix di gran-<br />

de caratura (essenziale il loro la-<br />

voro di manipolazione sull’ultimo


I s l a j a - U l u a l Y y y ( F o n a l , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f r e e f o l k<br />

Questo terzo disco di Islaja completa in qualche modo una sorta di strana<br />

trilogia uterina del 2007, iniziata con Mira Calix e continuata con il solo<br />

party di Tujiko Noriko. Musiche umorali, diafane, sfuggenti. Musiche che<br />

non sanno se farsi allegre o dimesse, introverse o sfacciate, luminose o<br />

oscure. Con il tempo e il ritmo per perdersi in pensose malinconie e irrime-<br />

diabili tormenti e per sorrisi che si allargano senza fermarsi più. Se i pre-<br />

cedenti lavori di Islaja, Meritie e Palaa Aurinkoon, ci avevano ammaliato,<br />

questo Ulual Yyy ci fa innamorare perdutamente. Dalla Finlandia al resto<br />

del mondo. Dal molto piccolo all’immenso. La musica della prima donna<br />

di casa Fonal ha le qualità primigenie di una lezione impartita con parole<br />

semplici. Non un briciolo di supponenza e presunzione, ma solo un tor-<br />

renziale rovesciare se stessi con tutta l’umiltà di chi sta facendo qualcosa<br />

turn it on<br />

che ama, facendola al meglio. La scenografia è bucolica e stravagante come si conviene alla signorina di punta<br />

del free folk finnico. Le parti di organo hammond sono strutturali pendii su cui camminare da sola avvicinandosi<br />

idealmente alle rovine di Nico. Questa è una musica molto più dolce e terrena, anche quando ci si strugge fino<br />

a maledirsi (Sydanten Ahmija, Pete P). Suona deliziosamente enigmatica quando si lancia ad occhi chiusi in mi-<br />

steriosi sentieri di narcotica psichedelia jazz. Viaggia lontana anni luce da qualsiasi maniera, come negli onirismi<br />

più deliranti (Muusimaa, Muukralais-silma) con la voce a cantare quasi in stato di trance. Come un bambino che<br />

disegna una casa e fa semplicemente un triangolo su un quadrato. Islaja ottiene il massimo dei risultati quasi<br />

involontariamente, con mezzi semplici. Il disco finisce nella nenia fantasy di Suru Li, con il cinguettio degli uccelli<br />

a protrarsi solitario. Per lei in questo disco c’è lo stesso destino delle liceali di Picnic a Hanging Rock. Perdersi<br />

può essere una forma di estrema liberazione o viceversa di dannazione senza appigli. In entrambi i casi non c’è<br />

altra scelta. (7.5/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 4 9


singolo dei !!!) ed una serie di live<br />

show partoriti con grande eleganza<br />

e dedizione, gli inglesi Hot Chip si<br />

rivelano anche come compilatori di<br />

classe sopraffina.<br />

Non ci sono cazzi che tengano,<br />

siamo di fronte ad una delle “cose”<br />

musicali più importanti attualmen-<br />

te in circolazione. La decisione dei<br />

responsabili della K7! di affidare a<br />

loro l’ennesimo episodio della cele-<br />

brata serie DJ Kicks è una scelta<br />

di grande spessore, che restituisce<br />

dignità all’atto fisico del mescolato-<br />

re di dischi oggi più che mai detro-<br />

nizzata da playlist, trend e volgari<br />

softwar per il missaggio impeccabi-<br />

le. Gli Hot Chip esplorano la mate-<br />

ria pop con la certosina abilità di un<br />

chirurgo, la passano ai raggi X e ne<br />

estrapolano una scaletta che non<br />

si vergogna di mostrare una cultu-<br />

ra musicale troppo spesso messa a<br />

disagio.<br />

E così, tra un Tom Zè che si ac-<br />

costa all’inedito dei compilatori, un<br />

Joe Jackson a braccetto con Au-<br />

dion ed i This Heat a fare da ponte<br />

tra la dub disco dei Black Devil Di-<br />

sco Club ed il soul di Ray Charles,<br />

si consuma uno dei più eccitanti<br />

momenti musicali degli ultimi tem-<br />

pi. Immensi. (8.0/10)<br />

0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

S t e f a n o R e n z i<br />

J a m e s Yo r k s t o n – R o a r i n g T h e<br />

G o s p e l ( D o m i n o / S e l f , m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : c a n t a u t o r a t o f o l k<br />

Sulla scia del buon successo otte-<br />

nuto pochi mesi fa con l’ottimo The<br />

Year Of The Leopard ecco arrivare<br />

la prima raccolta retrospettiva dedi-<br />

cata a James Yorkston, scozzese di<br />

nascita, londinese d’adozione, tra<br />

le migliori espressioni del cantau-<br />

torato britannico contempora<strong>neo</strong> .<br />

Roaring The Gospel è il solito di-<br />

sco di rarità, inediti e bonus tracks<br />

che non fa altro che confermare<br />

quanto di buono sapevamo sulla<br />

scrittura del Nostro, incantevole<br />

nella sua semplicità folk (Somepla-<br />

ce Simple, Blue Madonnas), avvin-<br />

cente quando cerca di alzare i ritmi<br />

(Sleep Is The Jewel, A Man With My<br />

Skills), ironico nel concedersi ad<br />

un jazz dimenticato nel tempo (Are<br />

You Coming Home Tonight?), per-<br />

fettamente a suo agio nella rilettura<br />

dei classici, siano questi brani tra-<br />

dizionali come Blue Bleezin Blind<br />

Drunk oppure momenti di assoluta<br />

immortalità come la Song To The<br />

Siren del maestro Tim Buckley.<br />

Prezioso per i fan, Roaring The<br />

Gospel potrebbe servire da ottima<br />

introduzione per chi, colpevolmen-<br />

te, avesse sino ad ora tralascia-<br />

to l’opera di questo menestrello.<br />

(7.0/10)<br />

S t e f a n o R e n z i<br />

J a n a H u n t e r - T h e r e ’s N o H o m e<br />

( G n o m o n s o n g / G o o d f e l l a s ,<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k<br />

Da anni nel giro di Devendra e Co.<br />

la folksinger texana arriva ora alla<br />

seconda uscita dopo Blank Unsta-<br />

ring Heirs Of Doom risalente alla<br />

fine del 2005, sempre per la label<br />

di Banhart e Andy Cabic. Autri-<br />

ce di un songwriting folk in bassa<br />

fedeltà, spoglio quanto basta per<br />

agitarlo di sottili pulsazioni dark,<br />

piuttosto che di visioni bucoliche,<br />

Jana ripropone le sue canzoni, di-<br />

scontinuamente rese come del re-<br />

sto nella prova precedente. Eccola<br />

allora oscillare tra nude ballad in<br />

acustico (l’intensa Palms), pulsio-<br />

ni psyck-folk (le inquiete Movies e<br />

Pinnacles) e ninnananne avvolgenti<br />

(Sleep, la banhartiana title track);<br />

altrove è l’ordinarietà di song folk-<br />

rock dimesse a far calare il tono<br />

(Oracle, Bird) confermandone so-<br />

stanzialmente il giudizio di medie-<br />

tà, per un album che non decolla<br />

mai e che sembra promettere di più<br />

solo sporadicamente. Peccato per<br />

quei guizzi che ci avevano così in-<br />

gannevolmente illuso. (5.0/10)<br />

Te r e s a G r e c o<br />

J i m i Te n o r & K a b u K a b u –<br />

J o y s t o n e ( S ä h k ö / G o o d f e l l a s ,<br />

2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : s o u l - j a z z a f r o - b e a t<br />

La Finlandia incontra l’Africa. Ovve-<br />

ro, Jimi Tenor, accompagnato da un<br />

esercito di orchestrali suoi conna-<br />

zionali, si imbatte nel ritmo percus-<br />

sivo del trio nigeriano Kabu Kabu.<br />

Tutto ciò avviene con il ritorno alle<br />

origini del Nostro; infatti, dopo aver<br />

girato mezzo mondo, pubblicando<br />

album con le etichette più disparate<br />

ma sempre di tutto rispetto, questa<br />

sua ultima fatica viene fatta usci-<br />

re dalla finlandese Sähkö. Ritorno<br />

all’origini soltanto formale, dunque,<br />

in quanto quelle sue sperimenta-<br />

zioni sonore degli esordi sono lungi<br />

dall’essere rievocate in quest’al-<br />

bum. Infatti, ciò che scaturisce da<br />

questo incontro interculturale è un<br />

condensato strutturalmente jazz.<br />

Orchestrato da una magistrale se-<br />

zione fiati, e contrappuntato inces-<br />

santemente da un sostrato percus-<br />

sivo, sul quale, soprattutto, l’uso<br />

anacronistico dell’organo e inserti<br />

più propriamente funk rimandano<br />

a certe colonne sonore da telefilm<br />

anni Settanta. La stessa identica<br />

atmosfera che emanavano i suoi<br />

più recenti lavori. Anche in Joysto-<br />

ne infatti non mancano quelle asso-<br />

nanze esotico-sexy-latine molto kit-<br />

sch, ultimamente così care a Tenor,<br />

evocate da quel suo soul-jazz-loun-<br />

ge tanto complesso e stratificato.<br />

Certo la sua esperienza unita a<br />

quella eccelsa dei musicisti che lo<br />

accompagnano fanno sì che l’al-<br />

bum sia impeccabile dal punto di<br />

vista strumentale, riservando an-<br />

che alcune tracce interessanti:<br />

Anywhere, Anytime, I Wanna Hook<br />

Up With You e Sunrise le migliori<br />

dell’album. Tutte e tre caratterizza-<br />

te da un incessante contagiosa rin-<br />

corsa tra sax, tromba e organo. Ma<br />

è tutto così troppo ben collaudato<br />

a tal punto che le stravaganze di<br />

Tenor – il suo tratto distintivo, tanto<br />

per ricordare i suoi trascorsi Warp<br />

– oramai finiscono per essere ciò<br />

che di più distante ci sia dall’in-<br />

novazione sperimentale. E la sua<br />

formula artistica non sembra altro<br />

che riavvolgersi su se stessa, Kabu<br />

Kabu permettendo.<br />

Sicuramente chi ama incondizio-<br />

natamente tali sonorità troverà in<br />

Joystone pane per i suoi denti.<br />

Jimi tenor saprà cucirgli addosso<br />

un elegante abito estivo con il qua-<br />

le sentirsi perfettamente a suo agio<br />

mentre seduto su una terrazza con<br />

sotto il mare potrà sorseggiare len-<br />

tamente un long-drink ghiacciato.<br />

Sfarzoso e lussurioso ma decisa-<br />

mente poco suggestivo. (5.2/10)<br />

A n d r e a P r o v i n c i a l i


Kammerflimmer Kollektief – Jinx<br />

(Staubgold / Goodfellas, 6 maggio<br />

2007)<br />

G e n e r e : j a z z n o i r<br />

Il Kammerflimmer Kollektief si è ri-<br />

dotto da sei a tre elementi, Thomas<br />

Weber, Heike Aumuller e Johannes<br />

Frisch, ma non per questo sembra<br />

voler mutare di una virgola la col-<br />

laudata formula: jazz noir per animi<br />

inquieti. Con Jinx siamo al capitolo<br />

numero sei, se si esclude il disco di<br />

remix di un anno fa. La scenografia<br />

è, come al solito, allestita con gran-<br />

de cura del dettaglio, ma per forza<br />

di cose, la trama strumentale di oggi<br />

è leggermente diversa rispetto al<br />

passato. Il nuovo disco suona così<br />

meno jazzy degli immediati prede-<br />

cessori, Cicadidae (Temporary Re-<br />

sidence Limited / Staubgold, 2003)<br />

e Absencen (Staubgold, 2005),<br />

ma è come di consueto rigonfio di<br />

struggimento nero.<br />

La visiera calata sullo sguardo,<br />

l’impermeabile chiuso fino all’ultimo<br />

bottone, giusto il tempo di fare due<br />

tiri, prima di immergersi nei vicoli<br />

bui di una Berlino illuminata dalle<br />

insegne dei peep show. Palimpsest<br />

si muove così, fumosa ed elegante,<br />

notturna e fatalista, un po’ James<br />

Ellroy, un po’ Black Heart Proces-<br />

sion, ma il piatto forte è la maledi-<br />

zione esorcizzata nella successiva<br />

Jinx, sette minuti di grovigli vocali<br />

su una cadenzata e mesmerica dark<br />

lounge, con quella micidiale steel<br />

guitar ad aprire l’orizzonte. Le qua-<br />

lità cinematiche del collettivo tede-<br />

sco risaltano nei brani più lunghi,<br />

come nei dieci minuti della conclu-<br />

siva Subnarkotisch, ma il meglio lo<br />

ottengono quando appaiono anche<br />

le parti vocali di Heike Aumuller<br />

(Jinx e Both Eyes Tight Shut) come<br />

inintelligibili enigmi di puro suono<br />

da miscelare con il consueto impa-<br />

sto di piano/harmonium, steel gui-<br />

tar, contrabbasso ed elettronica.<br />

L’album ideale per gli animi inquieti<br />

della Mitteleuropea. Che mettano<br />

su questo disco quando si sentiran-<br />

no soli nella prossima stanza d’al-<br />

bergo. (7.0/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

K a t a m i n e – L a g ( Ti n s t a r<br />

C r e a t i v e P o o l / G o o d f e l l a s ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : c a n t a u t o r a t o i n d i e<br />

C’è stato un momento, si era all’in-<br />

circa nei primi anni Novanta, in cui<br />

il “cantautore come lo conosceva-<br />

mo” è cambiato: non si presenta-<br />

va più col proprio nome o con uno<br />

pseudonimo. Preferiva rinunciare a<br />

sé, trincerarsi dietro un gruppo pa-<br />

ravento. Tra American Music Club<br />

(forse in questo i capostipiti), Smog<br />

e Palace assortiti, noi cinici ci sia-<br />

mo abituati a considerare di tanto in<br />

tanto i “gruppi” per quel che sono in<br />

realtà. Nascondigli di chi non vuole<br />

esporsi, recalcitranti megafoni per<br />

quella Generazione X che Douglas<br />

Coupland raccontò con maestria<br />

nei suoi primi romanzi.<br />

Non fa eccezione nemmeno Assaf<br />

Tager, che dalla sua possiede la<br />

provenienza peculiare (israeliano,<br />

nel suo paese s’è creato attorno<br />

un piccolo caso, ora pronto a far-<br />

si notare anche da noi con questo<br />

secondo disco) e il pregiato cur-<br />

riculum. Ha difatti prestato servi-<br />

zio, tra gli altri, per Moloko, Beth<br />

Gibbons ed Elliot Smith (risorto a<br />

nuova mestizia nella bella chiusu-<br />

ra Someone Came Around e altro<br />

riferimento, meno ricorrente e pri-<br />

vo di retrogusto tra Beatles tardi e<br />

misurato Chilton), prima di tornare<br />

in madrepatria e fondare i Family<br />

Butchers, prodotti nientemeno che<br />

da Bob Weston. Ora, circondato da<br />

un pugno di connazionali, chiarisce<br />

che il suo progetto è sì un ensem-<br />

ble aperto alle collaborazioni, ma<br />

che le redini sono tuttavia detenute<br />

saldamente nelle sue mani.<br />

Winchester Gun rimanda a Bill Cal-<br />

lahan per la mestizia e il rimpiat-<br />

tino vocale femminile, ma l’ex Mr.<br />

Smog – nella sua seconda versio-<br />

ne, priva di ostentata bassa fedel-<br />

tà – si delinea fin da subito come<br />

il santino nella tasca del ragazzo.<br />

Che però possiede buona penna e<br />

sa come variare la posta in gioco,<br />

gettando mestizia sulla bossanova<br />

How Quiet Should I Be, chiaman-<br />

do a testimoniare Mark Eitzel nella<br />

disturbata filigrana di rumori e rul-<br />

lante sparuto di Pulse Song o tra-<br />

sfigurando in acustica tensione la<br />

Creep In The Cellar dei Butthole<br />

Surfers, per non far che qualche<br />

esempio. Where The Ambulance<br />

Rolls sembra uscire dritta da Red<br />

Apple Falls, anche se gli archi sono<br />

sostituiti da uno svolazzare di piatti<br />

e nervi tesi d’elettrica in lontanan-<br />

za, e il cupo narrare di No Wonder<br />

We’re Damaged è attraversato da<br />

fantasmi di suoni e svolte armoni-<br />

che. Ci assicurano che il succes-<br />

sore di Lag sia già in cantiere con<br />

la produzione di Wharton Tiers, e<br />

nel frattempo Tager si faccia vede-<br />

re in giro in compagnia di un certo<br />

Devendra Banhart. Crediamo che<br />

se risentirà parlare presto, allora, e<br />

meritatamente. (7.0/10)<br />

G i a n c a r l o T u r r a<br />

K i d We i r d & T h e C o m b o s - S e l f<br />

Ti t l e d ( P o w e r m a r a c a s / W i d e ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : g a r a g e<br />

Indie dance friulano per chitarre e<br />

drum machine, ok, ma che ci fanno<br />

le tastiere lounge e i fiati jazz? E<br />

quella confusione Mary Chain nel-<br />

la testa di questa gioventù sonica?<br />

L’aceed? Prima che la polizia li ti-<br />

rasse giù, tre ragazzi e due ragaz-<br />

ze, avvistati un paio di anni fa sul<br />

tetto di un condomino di Pordeno-<br />

ne, provavano a farcelo capire con<br />

parole loro masticando chewingum<br />

indie-pop e sparando con pistole di<br />

plastica (Dubrovnik), ballando tor-<br />

bido tra spille firmate Adult e inserti<br />

lounge febbricitanti (Me And Hen-<br />

ry), pogando sopra un punk molto<br />

post che parla la lingua del lower<br />

east side e dei Devo (dr#gs). A<br />

completare, il look: non tanto un af-<br />

fare d’abbigliamento all’inglese ma<br />

di grafica dai font firmati Vivienne-<br />

McLaren e assieme un immagina-<br />

rio street anni ’50 per pinne e dark<br />

lady. Non sorprendono brani come<br />

You Suck tra pose scazzo-punky e<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


smalti d’antan (persino una trom-<br />

ba desertica!), spirito garagista e<br />

asfalto, anzi polvere e mozziconi di<br />

sigaretta come si nasa nel riff ar-<br />

cigno di Speedqueen (ma chi è lo<br />

speaker all’inizio del brano? Sarà<br />

mica John?), e per quella via si fa<br />

giù fino in fondo nel bassofondo dei<br />

Suicide aggiornato aceeed (Gara-<br />

ge) senza esagerare. Ai Kid Weird<br />

piace essere cool e quest’approccio<br />

ha esaltato il pubblico che era lì per<br />

le Pipettes al Milanofilmfestival lo<br />

scorso anno, nonché i ragazzi del-<br />

le radio indipendenti europee e gli<br />

indie kid tedeschi presenti al loro<br />

recente tour berlinese. A distanza<br />

di quattro anni dal loro primo demo<br />

(kwetc demo), dividendosi tra un<br />

approccio live e un altro più indie-<br />

radio, quest’esordio è dedicato a<br />

loro e agli amanti dell’aplomb ur-<br />

bana e del sixties-garage che flirta<br />

con l’assolo di tromba jazz, gli stro-<br />

finacci blues, gli smarties break-<br />

beat, il lounge synth. Pure l’accen-<br />

to italian-thurston moore ci sta, è la<br />

variante riconoscibile di linguaggi<br />

assimilati, gli elementi del classi-<br />

co disco ultraindie che sembra (è!)<br />

nato per diventare un culto. Non lo<br />

sarà ma per un soffio: prendete il<br />

taglio The Fall quasi metal di Spee-<br />

dqueen oppure il mix metronomia/<br />

chitarra garagista e umori jazz-de-<br />

sert di Attack of kw&tc (la migliore).<br />

Roba che quasi i Minutemen. Roba<br />

che scotta. (7.0/10)<br />

2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

K i n g s O f L e o n - B e c a u s e O f T h e<br />

Ti m e s ( R C A , 3 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : r o c k , p s y c h ,<br />

p o p , w a v e<br />

Ripuliti nel look e nel suono, i fra-<br />

telli Followill arrivano al terzo disco<br />

con l’intenzione di rimescolare le<br />

carte ed allargare lo spettro d’azio-<br />

ne; il primo posto raggiunto in UK<br />

da questo Because Of The Times<br />

la dice lunga in tal senso, e suona<br />

allo stesso tempo insolito per una<br />

band che fino all’altro ieri era por-<br />

tabandiera del southern rock per il<br />

ventunesimo secolo.<br />

In effetti, cosa vorranno mai dire i<br />

sette minuti di sospensioni psych<br />

minimali di Knocked Up, messi pro-<br />

prio in apertura? I quattro hanno<br />

imparato a giocare - e bene - con<br />

le dinamiche, ok, ma la scrittura?<br />

Ecco il singolo On Call, che con<br />

l’andamento Pixies e l’insistente<br />

refrain vocale si assicura più di un<br />

ascolto. Peccato che prima c’era<br />

stato l’assalto anni ’90 di Charmer,<br />

uno stoner-blues strappacordevo-<br />

cali. Non c’è molto da stupirsi, suv-<br />

via: Jack e Meg White hanno già<br />

sdoganato ampiamente questo ge-<br />

nere di cose.<br />

Eppure, il set va avanti con più di<br />

una sorpresa, dalle atmosfere Tv<br />

On The Radio di McFearless al<br />

reggae di Ragoo, dal funk bian-<br />

co Modest Mouse di My Party al<br />

wave rock vagamente Police / U2<br />

di True Love Way e così via. Sì, le<br />

radici southern vengono comunque<br />

preservate in Black Thumbnail e<br />

Camaro, ma il bello è che, anche<br />

quando ci si allontana da esse (le<br />

morbidezze psych&soul di Trunk),<br />

tutto suona naturale come dovreb-<br />

be. In altre parole, I Kings Of Leon<br />

hanno aggiunto colori alla tavoloz-<br />

za, azzeccando la giusta miscela<br />

fra il loro rock e il new pop di oggi.<br />

Mica male. (6.8/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

K T L – 2 ( E d i t i o n s M e g o , 7<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : d r o n e m e t a l<br />

d a r k a m b i e n t<br />

Non si ferma più. Non si fermano<br />

più. Potremmo aprire una rubrica<br />

mensile su tutti i presenzialisti da<br />

logorrea discografica, mettendo da<br />

subito in testa la terrificante trimur-<br />

ti: Richard Youngs, Aidan Baker<br />

e Stephen O’Malley. Solo loro tre<br />

sono in grado di riempire interi<br />

scaffali con dischi, progetti, colla-<br />

borazioni, esperimenti. Non tratten-<br />

gono nulla per il loro consumo pri-<br />

vato e pubblicano qualunque cosa.<br />

Certo, la qualità è alta, ma anche<br />

la più bella delle cheerleader se ti<br />

gira troppo intorno alla fine ti stu-<br />

fa. Questo mese allora segnaliamo<br />

il ritorno di O’Malley, che avevamo<br />

lasciato un paio di mesi fa con gli<br />

Aethenor. Questa è la volta di KTL<br />

2, la vendetta di O’Malley e Pita,<br />

che mettono su nastro una secon-<br />

da puntata delle loro gesta a base<br />

di gelido ed efferato black metal<br />

dronato. Quattro lunghissimi brani<br />

composti tra il dicembre 2006 e il<br />

febbraio 2007, presso gli Abattoir<br />

Studios di Angers e – soprattutto<br />

- dentro un maniero del 17° se-<br />

colo, il Manoir Kéroual di Guilers<br />

nell’estremo ovest della Francia. Il<br />

pregio maggiore di O’Malley è quel-<br />

lo di sapersi adattare al proprio in-<br />

terlocutore, di parlare una lingua<br />

inconfondibilmente sua, ma che si<br />

adegua sempre alle circostanze.<br />

Se nei Sunn O))) la sua chitar-<br />

ra suona melmosa e opprimente e<br />

negli Aethenor è maledettamente<br />

strisciante e suggestiva, per i KTL<br />

conserva appositamente il lato più<br />

tagliente e crudo. Pita dal canto<br />

suo allestisce con pochi tocchi (un<br />

riverbero in un angolo, un drone<br />

circolare nell’altro) una scenogra-<br />

fia quanto mai gotica. Rispetto al<br />

primo capitolo, il gioco si è fatto più<br />

scoperto, meno ingessato. I due ci<br />

danno dentro senza tentennamenti,<br />

riconvertendo in pregi i difetti del<br />

primo disco, vedi l’eccessiva gre-<br />

vità che rendeva i brani oltremodo<br />

statici. Qui si gira intorno alle ar-<br />

chitetture per sviscerarne gli angoli<br />

nascosti. Theme in questo senso<br />

è l’esempio principe del disco. 27<br />

minuti di cupi rintocchi metronomi-<br />

ci da catacomba gotica stile film<br />

Hammer, che lentamente vengono<br />

aggrediti da suoni e distorsioni in<br />

crescendo apocalittico fino al ru-<br />

more più efferato. Su Abattoir è la<br />

distorsione chitarristica alla Bur-<br />

zum a fare da malevolo e cupo tap-<br />

peto. Si chiude con Snow2 per la<br />

via di una dark ambient di arredo.<br />

I brani sono probabilmente troppo<br />

lunghi e l’idea stessa alla base del<br />

progetto KTL continua ad essere<br />

eccessivamente teatrale, anche<br />

senza una rappresentazione che ne<br />

giustifichi l’intento. Tra i vari pro-<br />

getti di O’Malley si continua a pre-


J e r e m y Wa r m s l e y – T h e A r t O f F i c t i o n ( R y k o d i s c / A u d i o g l o b e , 7<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e - f o l k p o p<br />

A volte ci sono degli approcci con alcuni album che si rivelano del tutto<br />

sbagliati agli ascolti successivi. Questo è ciò che è successo con The Art<br />

Of Fiction di questo ventitreenne inglese Jeremy Warmsley. Che sia dovu-<br />

to dalla disattenzione dell’ascolto o dalla elusiva, confusionale natura del<br />

disco non ci è dato sapere ora. Ci basti sapere, invece, che questo esordio<br />

è un riuscitissimo esempio di collage musicale fatto in casa. Con chiare<br />

influenze folk, pop, beat, soul, elettroniche e addirittura di musica classica<br />

condite da un domestico uso di laptop mai troppo invasivo. Nonostante ci<br />

siano una quantità estrema di suoni che si rincorrono, si sfiorano e si so-<br />

vrappongono in continuazione, che in un altro caso avrebbero appesantito<br />

e arzigogolato troppo il risultato finale, la bravura di questo giovanissimo<br />

turn it on<br />

inglese sta proprio nel non farcela notare troppo, riuscendo a incastrare il tutto in maniera sorprendente. Questo<br />

album riesce a evocare un numero impressionante di artisti – tra i quali i più evidenti sono Paul Simon, Ra-<br />

diohead, Arcade Fire e Brian Eno – senza mai dare la sensazione di essere marcatamente derivativo. Anzi, è<br />

come se questi fossero tutti presenti sull’attenti tra le quattro mura della cameretta di Warmsley pronti a eseguire<br />

ogni sua direttiva. L’impressione è proprio quella che sia lui a comandare, che sia lui ha decidere quale direzione<br />

intraprendere senza rimaner troppo legato a un artista o a un genere in particolare. Siamo molto vicini agli Archi-<br />

tecture In Helsinki per complessità sonora e a Why? per attitudine sperimentale, ma Warmsley si muove su un<br />

territorio di base decisamente più folk. È sorprendente la sua capacità di cambiare agilmente registro all’interno<br />

di una stessa canzone, passando da generi musicali più disparati. Morden Children ne è un chiaro esempio: inizia<br />

come una canzone dei Joy Division che, passando nel frullatore beat di Beck, finisce per acquistare un passo<br />

decisamente country-folk alla Wilco. Ma oltre a questa dote stilistica del Nostro, a suo favore giocano anche le<br />

facili, dirette e spensierate linee vocali che riesce a far planare leggere su quei mosaici sonori. Come avviene<br />

magistralmente in I Promise, la canzone più riuscita dell’album, che si dischiude malinconica su un folk sbilenco,<br />

molto vicino alle derive nostalgiche di Adem, tanto struggente quanto indimenticabile per quella melodia senza<br />

tempo che non smetteremmo mai di canticchiare. Dirty Blue Jeans, 5 Verses e I Believe In The Way You Move<br />

rappresentano gli episodi più incalzanti con delle melodie tanto immediate in grado di poter raggiungere anche il<br />

grande pubblico. Ma non mancano neppure atmosfere più introspettive evocate sia dal classicismo di I Knew That<br />

Her Face Was A Lie che dall’incedere obliquo di A Matter Of Principle.<br />

Un esordio convincente. Un album composto da canzoni che, nonostante si muovano incontrollate in mezzo a<br />

imprevedibili soluzioni sonore, risultano sempre contagiose e nostalgicamente sbarazzine.<br />

Questo disco ci lascia il sorriso sulle labbra. Il primo ascolto spiazza creando confusione, il secondo convince<br />

mettendo a fuoco, il terzo ammalia contagiando. Un dolce procrastinare il piacere dell’ascolto. The Art Of Fiction,<br />

per l’appunto. (7.5/10)<br />

A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e


ferire Aethenor. Questi KTL appaio-<br />

no sempre più come un simpatico<br />

divertissement. (7.0/10)<br />

4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

L a u n d r e t t e – A S t a t e O f F o r m<br />

( B l a c k C a n d y / A u d i o g l o b e ,<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e / n o i s e<br />

L’ultima testimonianza discografi-<br />

ca dei Laundrette risaliva al lonta-<br />

no 2003, quando su Suiteside uscì<br />

l’ottimo Weird Place To Hide. Da al-<br />

lora della formazione marchigiana<br />

si erano perse un po’ le tracce, tra<br />

defezioni improvvise – il chitarrista<br />

Lucio Febo – e anni trascorsi ad<br />

affinare un suono in perenne mu-<br />

tazione. Fino alla pubblicazione ad<br />

aprile di quest’anno di A State Of<br />

Form, opera che sembra riconfer-<br />

mare gran parte delle buone cose<br />

mostrate in passato dalla band<br />

grazie ad una conturbante mistura<br />

fatta di affluenti noise, impalcature<br />

blues e attente melodie mascherate<br />

da sotterfugi rumoristi. Un po’ alla<br />

maniera di One Dimensional Man,<br />

se ci passate il paragone, pur nei<br />

limiti di un sentire che privilegia il<br />

dialogo tra gli strumenti più che il<br />

ritmo scapicollante, i tempi sinco-<br />

pati più che gli emboli da urlatore.<br />

Dal lavoro di pulizia e di sintesi<br />

messo in opera dalla band – e da<br />

David Lenci, illustre produttore no-<br />

strano con alle spalle collaborazio-<br />

ni con artisti del calibro di Shellac,<br />

Uzeda, Rob Ellis – nascono le die-<br />

ci tracce in scaletta, frutto di una<br />

scrittura che cede al fascino dei<br />

bassi martellanti (A State Of Form<br />

e People Love Money), simpatizza<br />

per la dislessia formale della Blues<br />

Explosion di Jon Spencer (When<br />

You Dance (You Don’t Speak), di-<br />

sarticola la chitarra di John Fru-<br />

sciante tra orgasmi di coretti ce-<br />

lesti (Get Triggered) e in generale<br />

vive di spigoli e rimbalzi di riff, pur<br />

mantenendo il marchio d.o.c. di<br />

prodotto autoctono “da cantina”.<br />

Un’ onoreficenza di cui i Laundrette<br />

possono fregiarsi senza vergogna,<br />

considerati i dieci anni di attività<br />

passati sulla cresta dell’onda del-<br />

l’underground nostrano senza nem-<br />

meno una ruga o un capello bianco.<br />

(6.9/10)<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

L e s b i a n s O n E c s t a s y – We<br />

K n o w Yo u K n o w ( A l i e n 8 / W i d e ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e c t r o c l a s h<br />

A dispetto della freakeria quasi<br />

<strong>neo</strong>platonica della copertina, que-<br />

sto We Know You Know, secondo<br />

disco delle Lesbian On Ecstasy,<br />

è electroclash bello e buono, con<br />

tanto di beat, coretti e, soprattutto,<br />

hand-clap a palla. Le Lezzies, come<br />

si suole chiamare queste ragazze<br />

in estasi, cercano per l’occaisone<br />

di perfezionare (sbilanciandosi più<br />

verso il danzereccio, rispetto alla<br />

prima uscita) il loro tramite femmi-<br />

nista tra !!! e Chemical Brothers<br />

(The Cold Touch Of Leather).<br />

A volersi spingere un po’ in là, ci<br />

può stare una lettura come ver-<br />

sione esplicitamente applicabile<br />

ai dancefloor di Supersystem de-<br />

gli El Guapo. C’è infatti un gioco<br />

con strutture meno pop, tanto che<br />

Victoria’s Secret sembra un adat-<br />

tamento da ballo dell’invenzione<br />

“parlata” di The Book Is On The<br />

Table dei Pere Ubu. Ma qui non si<br />

parla di avanguardie; la maggiore<br />

fonte di scarto dalla massa del ge-<br />

nere sono semmai i suoni industria-<br />

li; quelli che rendono ancora più<br />

efficace il sussurro mefistofelico di<br />

Sediction, che salvano appena Is<br />

This The Way (dove un riff da ele-<br />

fante spinge verso l’heavy-metal),<br />

che lasciano per abbandono Sister<br />

In The Struggle in balia della so-<br />

miglianza con le Hole. Seppure ai<br />

punti, questo disco vince quando si<br />

percepisce lo sforzo di rifuggire la<br />

banalità - il che è un punto di par-<br />

tenza che quantomeno risolleva,<br />

in tempi di conati da indigestione<br />

electroclash. Ma volere non sempre<br />

è potere. (6.5/10)<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

M a n i c S t r e e t P r e a c h e r s – S e n d<br />

Aw a y T h e Ti g e r s ( C o l u m b i a /<br />

S o n y, 7 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : h a r d - p o p<br />

I Manic Street Preachers - o sem-<br />

plicemente Manics - hanno fatto<br />

la storia. O almeno, hanno fatto la<br />

loro storia. Quasi vent’anni di al-<br />

terne vicende, condite da passaggi<br />

a volte difficili, come la sparizione<br />

nel 1995 del chitarrista e autore Ri-<br />

chie James Edwards. Oltre a forni-<br />

re alla mitologia rock d’oltremanica<br />

un nuovo martire, i gallesi si sono<br />

costruiti sin dagli esordi una soli-<br />

da reputazione da combat rockers,<br />

mantenendo sempre lealtà nei con-<br />

fronti del loro fedelissimo seguito,<br />

rimasto al loro fianco anche quando<br />

le concessioni al pop si sono fat-<br />

te palesi (This Is My Truth, Tell<br />

Me Yours, 1998). Non hanno mai<br />

realmente attecchito dalle nostre<br />

parti, ma in patria sono più amati<br />

dei Radiohead, a certi livelli: il loro<br />

The Holy Bible (1994), testamento<br />

grunge-wave di Edwards, ha sca-<br />

valcato Ok Computer in una clas-<br />

sifica di Newsnight della BBC.<br />

Tutto questo per dire che Send<br />

Away The Tigers è l’ennesimo ban-<br />

co di prova che vede un act storico<br />

sottoposto al severo giudizio della<br />

contemporaneità e dei fans. I qua-<br />

li, dopo aver mal digerito l’interlo-<br />

cutorio e poppy Lifeblood (2004),<br />

si trovano blanditi con un ruffiano<br />

sbandieramento delle radici prole-<br />

tarie – con tanto di cover nascosta<br />

della lennoniana Working Class<br />

Hero in chiusura - e dello spirito<br />

combattente dei bei tempi, in una<br />

veste sonora adeguatamente aspra<br />

e old style (per i Manics, chiara-<br />

mente: la formula va indietro fino<br />

all’esordio Generation Terrorists;<br />

alla faccia della contemporaneità).<br />

I tre se la giocano facile dunque,<br />

ma se i testi di Nicky Wire non van-<br />

no oltre una scontata retorica an-<br />

timperialista (Imperial Body Bags,<br />

Rendition), le canzoni restano al<br />

palo, con James Dean Bradfield<br />

che, quando non parodizza se stes-<br />

so (la title track), si sente autoriz-<br />

zato a mettere in mostra tutta la sua<br />

latente (?) tamarraggine hard rock<br />

’80 in cose come I Am Just A Patsy,


oba che manco i migliori - si fa per<br />

dire - Europe. Imbarazzante, come<br />

il brit-pop bolso di Winterlovers e<br />

Autumn Song, ballatone che potreb-<br />

bero fare il paio con le ultime pro-<br />

dezze di Brett Anderson. Se non<br />

ne avete abbastanza, c’è anche un<br />

irritante singolo con Nina Persson<br />

dei Cardigans, Your Love Alone Is<br />

Not Enough, a cercare di riconqui-<br />

stare le classifiche riecheggiando<br />

la vecchia hit You Stole The Sun<br />

From My Heart. Con questo disco,<br />

i Manics vincono il nostro persona-<br />

lissimo Grammy 2007 per il pessi-<br />

mo gusto. (4.5/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

M a r i p o s a - B e s t C o m p a n y<br />

( Tr o v a r o b a t o / A u d i o g l o b e ,<br />

m a r z o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : a v a n t p o p<br />

È il caso di dire: la cover scopre.<br />

Rivela il gioco dei Mariposa forse<br />

meglio di quanto non facciano le<br />

loro garrule opere autografe. Al-<br />

l’uopo, ecco questo dischetto che<br />

raccoglie le cover disseminate dai<br />

sette pseudo-bolognesi nel corso<br />

degli anni. Il confronto con gli ori-<br />

ginali è un meccanismo automatico,<br />

che però ti lascia spiazzato quando<br />

le cose prendono una piega impre-<br />

vista. Ebbene, qui l’imprevisto è<br />

praticamente una garanzia: pren-<br />

dete gli spasmi funk-psych-prog-<br />

glam di Sex Sleep Eat Drink Dream,<br />

dove i Crimson finiscono per somi-<br />

gliare ai Contortions che rifanno i<br />

Parliament con la supervisione di<br />

Stan Ridgway, oppure quella Male<br />

di miele che riduce gli Afterhours<br />

ad una robotica, sconcertante inno-<br />

cenza (perduta), o ancora l’arguta<br />

desolazione di Jannacci spedita<br />

tra electro-visioni Terry Riley in Si<br />

vede.<br />

Sono ovviamente audaci, i Maripo-<br />

sa. Forzano le strutture e i confi-<br />

ni stilistici con la noncuranza di<br />

un fall-out al neutrino, generando<br />

splendide mutazioni, “mostruosi-<br />

tà” illuminanti. Senza mai perdere<br />

il rispetto e la tenerezza, l’amore<br />

per la traccia di partenza. Amore<br />

inevitabile nel caso della magnifi-<br />

ca Monti di Mola di De André, che<br />

mantiene vivo e profondo il respi-<br />

ro folk malgrado gli strapazzi free<br />

e gli spaesamenti seriali Tortoise.<br />

Amore meno scontato ma evidente<br />

anche per una Ob-la-di Ob-la-da<br />

tutta guizzi clowneschi e devolu-<br />

zione wave, salvo quel middle eight<br />

sospeso in un trepido acquario Wil-<br />

co. Ma il pezzo forte della scaletta<br />

è, a parer mio, quella Il mostro e<br />

l’aerosol che spedisce il composi-<br />

tore russo Dmitrij Kabalevskij tra<br />

bucoliche alienazioni un po’ The<br />

Books e un po’ Marco Parente.<br />

Tanti indizi fanno una prova: i Mari-<br />

posa sono dei geni. (7.2/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

M a t s G u s t a f s s o n & Yo s h i m i -<br />

Wo r d s O n T h e F l o o r ( S m a l l t o w n<br />

S u p e r j a z z z / W i d e , 1 6 a p r i l e<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f r e e i m p r o v<br />

L’etichetta norvegese Smalltown<br />

Superjazzz, è di quelle che si muo-<br />

vono lentamente, per piccoli passi,<br />

ma lo fanno in maniera eccellente e<br />

senza sbavature. L’approccio stret-<br />

tamente collaborativo dell’etichetta,<br />

che tende a mettere insieme i più<br />

grandi artisti dell’avanguardia free-<br />

jazz-improv, lo avevamo già notato<br />

nel caso del Diskaholic Anony-<br />

mous Trio di Mats Gustafsson,<br />

Thurston Moore e Jim O’Rourke:<br />

un approccio aperto a tutto, che fa<br />

della diversità di vedute e di espe-<br />

rienze il suo tratto caratteristico.<br />

Di questa sorta di new wave of free<br />

improvisation, il sassofonista Mats<br />

Gustafsson è senz’altro la punta di<br />

diamante, l’emblema stesso della<br />

contaminazione a 360 gradi. Il suo<br />

curriculum parla chiaro: Zu, David<br />

Grubbs e Sonic Youth sono solo<br />

alcuni dei compagni di viaggio con<br />

cui Mats ha scelto di dare vita alle<br />

sue idee musicali. Mancava un ele-<br />

mento principale, però, nelle sue<br />

esperienze: il rapporto con la voce<br />

umana.<br />

Detto fatto: nel 2005 Gustafsson in-<br />

vita in Svezia, per una performan-<br />

ce in duo, la voce femminile dei<br />

Boredoms (nonchè fondatrice di<br />

OOIOO) Yoshimi, della quale aveva<br />

già dichiarato di essere un sincero<br />

fan. Ne viene fuori un’improvvisa-<br />

zione straordinaria, un’esperienza<br />

ipnotica e totalmente “aperta”, il cui<br />

risultato viene sintetizzato, esat-<br />

tamente due anni dopo, in questo<br />

Words On The Floor. Composto<br />

di sole due tracce, l’album si apre<br />

con un’introduzione (Soundless<br />

Cries With Their Arms In The Air,<br />

una sorta di lamento a due voci) di<br />

appena tre minuti, che lascia subito<br />

il posto alla mastodontica And The<br />

Children Play Quietly With Words<br />

On The Floor, un’improvvisazione<br />

che supera i quaranta minuti, un<br />

viaggio musicale che attraversa<br />

tutte le trasformazioni del dialo-<br />

go tra sax e voce, a cui fanno da<br />

sfondo i live electronics, strumento<br />

imprescindibile quando si tratta di<br />

allargare gli spazi della sperimen-<br />

tazione sonora.<br />

La voce di Yoshimi, nella sua ver-<br />

satile ed estenuante ricerca vocale<br />

ricorda il Demetrio Stratos della<br />

maturazione cageiana e in alcuni<br />

casi sfiora i virtuosismi di un Phil<br />

Minton, senza mai abbandonare,<br />

però, quella dolcezza del timbro<br />

femminile che viene fuori anche<br />

nelle parti più urlate e riesce a spa-<br />

ziare tra il puro canto meditativo al<br />

jazz e persino al noise, seguendo<br />

un’ispirazione trasbordante. Gu-<br />

stafsson, che utilizza diversi “ta-<br />

gli” del suo strumento (tra i quali<br />

il raro slide sax), a volte puntella<br />

la voce, limitandosi a tesserne il<br />

contrappunto o a “creare lo sfondo”<br />

con tecniche rumoriste o percus-<br />

sive; altre si immerge in dialoghi<br />

intimi, metafisici, dall’atmosfera<br />

quasi zen, che si trasformano gra-<br />

datamente in esplosioni, picchi di<br />

tensione che i filtri e i suoni elet-<br />

tronici contribuiscono ad amplifi-<br />

care, inserendosi con la plasticità<br />

che gli è propria, tra le trame dei<br />

due strumenti. Dopo venti minuti,<br />

la performance ha già raggiunto un<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


tale livello di coinvolgente potenza<br />

ipnotica, che non può che suscita-<br />

re in noi ascoltatori passivi di un<br />

freddo elettrodomestico, sentimenti<br />

di invidia per quei pochi che quella<br />

sera di aprile di due anni fa han-<br />

no avuto la possibilità di assistere<br />

a questa delizia al Malmo Kunzer-<br />

thus. Ci dobbiamo accontentare di<br />

un disco. Ma in ogni caso, non è<br />

poco. (8.0/10)<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

D a n i e l e F o l l e r o<br />

M i c h a e l A n d r e w s – H a n d O n<br />

S t r i n g ( P i a s / S e l f , 4 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k , i n d i e , p o p<br />

Come altri autori di colonne sono-<br />

re prima di lui, Michael Andrews<br />

corre il rischio di essere ricordato<br />

come “quello di Mad World”, l’eva-<br />

nescente cover dei Tears For Fears<br />

che realizzò insieme all’amico Gary<br />

Jules per la chiusura del cult movie<br />

Donnie Darko. Non proprio un male,<br />

in fondo: a quel bel colpo sono se-<br />

guiti i servigi in veste di produttore<br />

per Brendan Benson e Inara George<br />

(The Bird And The Bee), che han-<br />

no assicurato al musicista losange-<br />

lino il dovuto rispetto nell’ambien-<br />

te, consolidato dalla soundtrack<br />

di Me And You And Everyone We<br />

Know (2005); Hand On String, già<br />

rilasciato l’anno scorso negli Sta-<br />

tes, ha così il compito di mettere<br />

alla prova per la prima volta le sue<br />

doti di autore ed interprete, oltre a<br />

quelle già affermate di arrangiatore<br />

e compositore.<br />

Come da copione, Andrews si mo-<br />

stra raffinato tratteggiatore di pae-<br />

saggi sonori, affidandosi ad una<br />

produzione ariosa dal forte sapore<br />

seventies, con acustiche delicate<br />

e squillanti, bassi gonfi, drumming<br />

secco e sparuti synth d’epoca, per<br />

occasionali effetti space rock e<br />

Canterbury. E’ infatti al songwri-<br />

ting e alla sensibilità eterea di quei<br />

tempi e quei luoghi che Mike ren-<br />

de omaggio, riecheggiando a più<br />

riprese i primi Pink Floyd (Just A<br />

Thought), Nick Drake (quello jaz-<br />

zato in Orange Meet Lemon, quello<br />

della luna rosa in Through The Fog)<br />

e Wyatt (Love Is Tired), conceden-<br />

dosi talvolta a una soffice folktroni-<br />

ca (Sweeping Cleaning and Orga-<br />

nizing) e a nebbioline memori delle<br />

vergini suicide degli Air (Tracings).<br />

Un senso della melodia fra XTC<br />

(Hello Lemon) ed Elliott Smith (Be-<br />

fore The Echo) è l’ulteriore indizio<br />

di un talento indubbio, ma ancora<br />

tutto da scoprire. (7.0/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

N a s t a s i a N i n a & J i m W h i t e - Yo u<br />

F o l l o w M e ( F a t C a t / A u d i o g l o b e ,<br />

2 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : s o n g w r i t i n g<br />

Nina così agguerrita non c’era mai<br />

capitato di sentirla. Già, perché la<br />

sensazione che al primo ascolto dà<br />

questo You Follow Me, in coppia<br />

con Jim White, è proprio questa:<br />

furia scalpitante, grinta, un grida-<br />

re la propria presenza che sa quasi<br />

di catarsi. Certo, i due li avevamo<br />

già visti collaborare sia per Run To<br />

Ruin che per On Leaving, ma que-<br />

sta volta lo spessore del batterista<br />

dei Dirty Three si fa notare e molto.<br />

È come se le pelli percosse da Jim<br />

infondessero di una forza inusuale<br />

la fragilità della splendida voce di<br />

Nina. I sentieri percorsi sono sem-<br />

pre gli stessi oscuri anfratti folk<br />

noir della cantautrice newyorkese,<br />

apprezzati già in abbondanza, ma<br />

con quanta passione e veemenza<br />

vengano interpretati è cosa nuova.<br />

È il caso di I’ve Been Out Walking,<br />

in cui il drumming inizia ad incre-<br />

sparsi verso la metà sorreggendo<br />

una voce solo all’apparenza flebile<br />

e che in Late Night si fa potente urlo<br />

liberatorio, terminando in un’altret-<br />

tanto trascinante I Come After You.<br />

Piace molto questa espressività in-<br />

tensa che rifulge ancor di più sotto<br />

i lampi delle bacchette martoriate<br />

di White, il problema però, se pro-<br />

prio ne vogliamo trovare uno, è che<br />

You Follow Me suona più come un<br />

disco di quest’ultimo che non della<br />

Nastasia. Poco male, dall’ascolto<br />

c’è sempre di che godere. (6.8/10)<br />

V a l e n t i n a C a s s a n o<br />

N e u r o s i s - G i v e n To T h e R i s i n g<br />

( N e u r o t / W i d e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : a p o c a l y p t i c r o c k<br />

Prodotto da Steve Albini, Given To<br />

The Rising è il titolo dell’attesis-<br />

simo ritorno dei Neurosis, uno dei<br />

nomi cardine del panorama della<br />

musica estrema. Una band, parti-<br />

ta a metà degli anni ‘80 dall’har-<br />

dcore radicale, ha subito continue<br />

mutazioni incamerando influenze<br />

molteplici, dal metal al folk apoca-<br />

littico, dall’industrial al post-rock, e<br />

aumentando il numero dei compo-<br />

nenti fino a diventare un ensemble<br />

multimediale. Il disco si apre con<br />

un riff sabbathiano che non è proprio<br />

il massimo dell’originalità per<br />

una band abituata in passato a stupire<br />

dai primi secondi l’ascoltatore.<br />

Fortunatamente Given To The Rising<br />

si evolve poi sprofondando<br />

l’ascoltatore nelle classiche atmosfere<br />

da incubo per poi esplodere<br />

in ciclopici crescendo chitarristici.<br />

Fear and Sickness sfodera colossi<br />

granitici frantumati da un finale<br />

noise dissonante e corrosivo.<br />

Il resto dell’album mostrale armi<br />

migliori dell’arsenale neurotico, To<br />

The Wind ci trasporta in un’odissea<br />

siderale di stampo Constellation<br />

per poi catapultarci nell’occhio di<br />

un ciclone di riff taglienti e percussioni<br />

traumatiche, la quiete che<br />

segue è illusoria perché il brutale<br />

growl di Scott Kelly fa da rampa<br />

per una nuova discesa agli inferi.<br />

Shadow e Nine sono intermezzi in<br />

puro stile Godflesh, in Hidden Faces<br />

il consueto crescendo trova<br />

sbocco in un’eruzione di bordate<br />

chitarristiche e cori infernali. La<br />

quiete di Origin si riallaccia alle atmosfere<br />

eteree degli progetti solisti<br />

di Steve Von Till e pare che il gruppo<br />

si congedi in punta di piedi, se<br />

non fosse per l’epilogo distruttivo.<br />

L’impressione è che i Neurosis si<br />

stiano evolvendo in maniera asintotica,<br />

avvicinandosi sempre più<br />

alla perfezione, ma diminuendo<br />

progressivamente lo scarto e l’ef-


L a r r i k i n L o v e - T h e F r e e d o m S p a r k ( I n f e c t i o u s , 2 0 0 6 ; R y k o /<br />

A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o p<br />

Nel marasma delle recenti uscite albioniche, fra un grande ritorno, un kla-<br />

xon di qua e un horror di là, quasi ci sfuggiva da sotto il naso il debutto<br />

dei Larrikin Love, sbarbatelli di Twickenham che NME non ha esitato a<br />

etichettare come capiscuola di una fantomatica scena Thamesbeat. Cosa<br />

poi volessero dire i colleghi d’oltremanica non è molto chiaro probabilmen-<br />

te neanche a loro; fatto sta che, grazie a un accordo tra la Transgressive<br />

– small label particolarmente acuta - e la Warner, i quattro londinesi si<br />

trovano già in una posizione invidiabile per degli esordienti. Ok, il copione<br />

è il solito, e chi si chiede cosa mai avrà di speciale l’ennesimo parto del-<br />

l’ondata post-Libertines fa bene ad avvalersi del beneficio del dubbio.<br />

Fa bene sì, perché si godrà di più la sorpresa, ascoltando The Freedom<br />

turn it on<br />

Spark. Dite quel che volete, ma innestare in un canovaccio di marca Doherty (ovvero, Clash + Smiths) sonorità<br />

klezmer e tzigane non è cosa che riesce spesso, tantomeno in modo così naturale ed efficace. Six Queens e<br />

Edwould, ovviamente due singoli, stanno lì a dimostrarlo, mentre Happy As Annie fa ancora meglio: un bluegrass<br />

che scivola in reggae e punk come nulla fosse, con tanto di ritornello killer. E ancora: Meet Me By The Getaway<br />

Car, che da brit ballad romantica vira ragamuffin, o On Sussex Down, bossa che si trasforma in power pop à la<br />

Police. E così via, in un mix di arroganza da enfants prodiges (fra gli ospiti c’è un certo Patrick Wolf, guarda<br />

caso) e ricerca stilistica intellettuale e popolare – inteso come pop ma anche folk, se fra le altre cose in At The<br />

Feet Of Re si rievoca lo spirito dei Pogues più classici.<br />

Non bastasse, a capo dell’avventuroso combo c’è uno che vorrebbe “fare un falò a Westminster con la porta di<br />

Downing Street”, a cui “l’Inghilterra non ha più niente da offrire”, dal momento che “ogni cosa che adora è venuta<br />

prima del 1984” (Downing Street Kindling). Viste le assonanze col Morrissey di Meat Is Murder / The Queen Is<br />

Dead - anche nella deliziosa Well, Love Does Furnish a Life –, allungheremmo la soglia di un paio d’anni, a voler<br />

esser precisi.<br />

Eppure questo è il suono della generazione dell’’86, di quelli che in quell’anno ci sono nati, non dei vecchiacci<br />

che se lo ricordano. O meglio, di quella parte di essa che non si riconosce nelle intricate e logorroiche rime<br />

urbane di Alex Turner o nei plastificati weekend in città dei Bloc Party. Che vuole essere diversa. Come Edward<br />

Larrikin e i suoi, un po’ art rockers un po’ bohemiens, un po’ orchestrina un po’ punk band. (7.2/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 7


fetto sorpresa tra un album e l’altro.<br />

Siamo di fronte a una catastrofe<br />

sempre più devastante ma sempre<br />

più prevedibile. (6.5/10)<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

P a o l o G r a v a<br />

N i n e I n c h N a i l s – Ye a r Z e r o<br />

( U n i v e r s a l , 1 6 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d u s t r i a l p o p<br />

In epoca di surriscaldamento globa-<br />

le termo-religioso, prossima inver-<br />

sione dei poli magnetici e probabile<br />

invasione dei Visitors (o degli alie-<br />

ni di Essi Vivono che per la crona-<br />

ca sono già among the living dagli<br />

anni ‘80), Trent non può che cap-<br />

tare nuovi segnali e angosce cyber<br />

contemporanee immergendosi in un<br />

altro dei suoi concept futuristici.<br />

Anticipato da una strategia di comu-<br />

nicazione in grande spolvero culmi-<br />

nata persino (ma ci stupiamo solo<br />

per protocollo) con un trailer stile<br />

La guerra dei Mondi di Spielberg,<br />

è, ancora una volta, un film d’azio-<br />

ne e fantascienza all’americana,<br />

tra cibernetica e survivalism (ap-<br />

punto), l’immaginario a cui il signor<br />

Nine Inch Nails fa riferimento. Un<br />

braccio armato pronto a catturare<br />

l’audience di petto a suon di tripodi<br />

(…tripudi) fritture bio-meccaniche,<br />

latte Alien 10, buon vecchio rock<br />

rivestito Mad Max (anzi facciamo<br />

Blade), appeal techno-punk (vedi<br />

anche Young Gods) e orgasmi ste-<br />

reofonici multipli. A reggere la sce-<br />

nografia, al solito, la scuola cata-<br />

strofica del dopo Thobbing Gristle<br />

aggiornata ai Novanta (e fermatasi<br />

lì), teorie del complotto nella (e per<br />

la) tv generation comprese, un plot<br />

che Reznor canta oggi come allora<br />

ma in maniera più diretta e spesso,<br />

deludentemente, qualunquista, sfi-<br />

gatamente giovanilista. Una voce<br />

accessibile alle masse, che sa come<br />

no di essere rétro, fronte di un pal-<br />

co di led e effetti speciali. E sono<br />

loro di fatti, più che in With Teeh,<br />

a aggiornare il perimetro con sfavil-<br />

lanti electro-strusci laptop, gli unici<br />

spunti innovativi di marchio di fab-<br />

brica che imbarca l’obsolescenza<br />

da molti pori ma non vuole proprio<br />

saperne di apparire vecchio. Una<br />

firma, quella di NIN, che non cer-<br />

ca più l’apoteosi (The Downward<br />

Spiral) né la catarsi (The Fragile),<br />

piuttosto, come nel caso dei recenti<br />

Young Gods porta a sé un revival<br />

possibile mostrano l’immagine più<br />

fruibile e incisiva di sé.<br />

Nel proiettile very punk Survivalism<br />

fanno bella mostra folate radioatti-<br />

ve e effettismo post-rave. Efficace.<br />

Ma è un terreno che crollerà in ba-<br />

nalità melodiche Ottanta come The<br />

Good Soldier, o in ritornello inde-<br />

centi come Vessel. Brano quest’ul-<br />

timo emblematico perché carico di<br />

grandi effettismi cyber-funk che<br />

mostrano bellamente la forbice del<br />

disco: alcuni (pochi) brani dall’ar-<br />

rangiamento impressionante conditi<br />

in una scrittura da allocchi. Le can-<br />

tasse Mike Patton queste canzoni<br />

farebbero faville. Le canta Reznor<br />

e sono roba, nel migliore dei casi,<br />

per fighetti. Magari a quelli che<br />

dopo l’indesiderata ondata Ottanta,<br />

vedono coincidere l’anno zero con<br />

un’auspicata rinascita dei Novanta,<br />

gli anni dell’apocalisse cyber-tech-<br />

no-rock. Sarà. Si vedrà. Ma per un<br />

non più giovane Trent Reznor, che<br />

pare ormai aver vinto la battaglia<br />

contro l’alcol, è il tempo delle can-<br />

zonette in abiti asciutti – pensa lui<br />

– ultra ganzi. Qualche bel comple-<br />

to firmato c’è, l’abbiamo detto, ma<br />

sono pur sempre canzonette e sono<br />

tutte su My Space. Ascoltate e de-<br />

cidete. (5.5/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

Organ Eye – Self Titled (Staubgold<br />

/ Wide, 17 aprile 2007)<br />

G e n e r e : d r o n e m u s i c<br />

La sigla è nuova ma la musica e i<br />

personaggi no. Gli Organ Eye na-<br />

scono infatti dalla fusione di due<br />

delle più interessanti drone ban-<br />

ds in circolazione: i portoghesi<br />

Osso Exòtico (David Maranha e<br />

Patricia Machas) e gli australiani<br />

Minit (Jasmine Guffond e Torben<br />

Tilly). L’album di debutto, omoni-<br />

mo, rappresenta la perfetta fusio-<br />

ne tra l’approccio dei primi e lo<br />

stile dei secondi, tra la plasticità<br />

dei portoghesi e la ripetitività de-<br />

gli australiani. Le due tracce di cui<br />

si compone il disco, intitolate pro-<br />

grammaticamente Tema #1 e Tema<br />

#2, riassumono l’estetica di una<br />

drone music classica, che lavora in<br />

crescendo, passando dal minimali-<br />

smo della prima parte al rumorismo<br />

della seconda. L’introduzione len-<br />

tissima e statica che pigramente si<br />

sostanzia in un drone. Il crescendo<br />

sinistro delle interferenze. Lo scia-<br />

mare elettronico che, alla maniera<br />

dei Growing, si incastra in blocchi<br />

di frequenze interrotte. Un habitat<br />

di microsuoni mandati in loop e<br />

messi in circolo dal suono reiterato<br />

di uno psichedelico organo ham-<br />

mond. Il marziale panorama noisy<br />

alla Fullerton Whitman, in cui si<br />

sfocia nell’ultima parte di Tema #2<br />

prima di annichilirsi nell’apocalitti-<br />

co finale. Per essere drone music,<br />

quella degli Organ Eye si mantiene<br />

meritoriamente lontana dai classi-<br />

ci momenti di noia che affliggono il<br />

genere. Un nome da segnarsi per<br />

gli estimatori di queste sonorità<br />

(6.8/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

Pan Sonic – Katodivaihe /<br />

Cathodephase (Blast First Petite,<br />

aprile 2007)<br />

G e n e r e : p a n s o n i c<br />

Potremmo intervistare Mika e Ilpo<br />

anche fra dieci anni e avremmo<br />

sempre le medesime risposte: “we<br />

just play music”, dove quel “just”<br />

equivale a dire che i due suone-<br />

ranno sempre - e unicamente – per<br />

mezzo di apparecchiature analogi-<br />

che assemblate da un amico di “fa-<br />

miglia”; non utilizzeranno synth o<br />

sample digitali salvo in rari casi (e<br />

se fosse per Mika, mai); infine non<br />

cambieranno mai l’oscillatore video<br />

(anch’esso analogico), tanto meno<br />

registreranno diversamente se non<br />

dal vivo su DAT (senza overdubs<br />

chiaramente). Punto.<br />

Dunque potrebbero queste teste bi-<br />

narie (che odiano i bit) trovarsi bene<br />

in un contesto anche lontanamente


contingente? Certamente no, infat-<br />

ti dopo essersi autoesiliati (!) dalla<br />

Blast First gestita dalla Mute (pas-<br />

sata sotto il controllo EMI), i due si<br />

sono trasferiti nella più agile Bla-<br />

stfirst (Petite) con la quale usciran-<br />

no anche le prossime (due) uscite a<br />

firma Pan Sonic. Stoicismo e immo-<br />

bilità? Sì (come no), Katodivaihe<br />

è un lavoro che affronta in maniera<br />

maggiormente diretta il dub, poi il<br />

funk e persino l’(hard) rock, e se<br />

questo già non è poco (per loro),<br />

troviamo pure l’ospite: la giovane<br />

islandese Hildur Gudnadottir al vio-<br />

loncello (già nel duo Angel a firma<br />

Schneider Tm e Ilpo Vaisanen) ad<br />

aggiungere al sound un tocco ca-<br />

meristico (e gothic) in brani come<br />

Virta (immaginate un incrocio 4AD<br />

e Autechre), oppure una mimesi tra<br />

pittura astratta e digitale (pardon,<br />

analogica) in Hyonteisista, oppure<br />

semplicemente un sibilo cosmico<br />

(molto Karlheinz Stockhausen e<br />

Sun Ra) in Suhteellinen. Conoscen-<br />

doli, dove c’è addizione c’è pure va-<br />

lenza opposta, dunque piece avan-<br />

guardiste - solitamente lasciate<br />

alla sterminata geografia dei titoli<br />

solisti - come Kertsilogia (suoni nel<br />

vuoto, echi, piccoli glitch e silenzi<br />

direttamente dal catalogo Vainio),<br />

oppure lancinanti improvvisazioni<br />

da motosega (la citata Suhteellinen<br />

dalla discografia Angel-Vaisanen).<br />

Naturalmente non possono mancare<br />

le track figlie tanto di Kesto quanto<br />

di Kulma (Laptevinmeri, Kuumuu-<br />

dessa Muodostuva), con almeno<br />

due momenti d’alta classe: il riff<br />

sotto forma di esplosione acquatica<br />

di Lahetys (alzare il volume please)<br />

e le basi Throbbing Gristle / Suici-<br />

de di Virta 2. Giusto sotto, i giochi<br />

di quest’ultime nel bitume subato-<br />

mico del basso (e attitudine metal)<br />

di Koneistaja, o nei glitch insettoidi<br />

di Hyonteisista (tra pause e effetti).<br />

Che dire, un album variegato e di-<br />

spersivo, dove è senz’altro la parte<br />

industrial a far da caparra (anche<br />

i micro suoni glitch insettoidi sono<br />

interessanti) e nel quale non man-<br />

cano neanche i difetti: la Gudna-<br />

dottir non sempre perfettamente<br />

inserita, e soprattutto alcuni aspri<br />

momenti impro che odorano di au-<br />

toreferenzialità, anzi di prevedibile<br />

impermeabilità (ascoltate anche il<br />

recentissimo lavoro di Mika Vainio,<br />

Revitty, Wavetrap, aprile 2007 per<br />

farvene un’idea).<br />

Un monolite in transito. Quello di<br />

Odissea Nello Spazio però. Mica<br />

ma… (7.0/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

P a n k o w – G r e a t M i n d s A g a i n s t<br />

T h e m s e l v e s C o n s p i r e ( W h e e s h t<br />

/ A u d i o g l o b e , m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e b m / i n d u s t r i a l<br />

Non c’è niente da fare: i Pankow<br />

rimangono fortunatamente uguali<br />

a loro stessi, dietro a qualche pic-<br />

cola differenza. Si specchiano nel<br />

loro passato (allo stesso modo del<br />

precedente Life Is Offensive And<br />

Refuses To Apologise, del 2002),<br />

come l’ascoltatore si specchia nel-<br />

l’interno riflettente del digipack<br />

di questo Great Minds Against<br />

Themselves Conspire (stampato<br />

per l’etichetta Wheesht, nata ad<br />

hoc per il disco). Ovvio, rispetto<br />

all’esordio (Freiheit Fur Die Skla-<br />

ven) il suono è meno secco e ta-<br />

gliente, più corposo ed esplicita-<br />

mente rumorista, meno industriale<br />

e più bruitista. Si è insomma persa<br />

da tempo la personalità invaden-<br />

te (e produttiva) dell’Adrian She-<br />

rwood di allora (anche se qui an-<br />

cora fa eco in Yagan), che in quel<br />

disco “esuberava”, ma che già in<br />

Gisela (dove i Pankow legiferavano<br />

sull’ebm) più non si avvertiva.<br />

La produzione, qui sta il punto, è<br />

la tavolozza che permette a Mau-<br />

rizio Fasolo e Alex Spalck (que-<br />

st’ultimo figliol prodigo tornato già<br />

per lo scorso album) di reputare<br />

questo Great Minds… come il loro<br />

migliore lavoro. Ed è una produzio-<br />

ne sensibilmente computerizzata<br />

(nel senso che si sente, pur non<br />

usando suoni laptop), confezionata<br />

nella casa australiana del vocalist<br />

multilingue. Si parte col botto, cioè<br />

con un disco-inferno come Deny<br />

Everithing. Si va avanti con una<br />

discreta violenza, fino alla melodia<br />

vocale classicamente Pankow – ma<br />

cucita su una canzone che sembra<br />

uscita da The Fat Of The Land<br />

dei Prodigy – di Estreme. Heroi-<br />

na (Für Tobias Gruben) ricorda poi<br />

gli Einstürzende Neubauten degli<br />

anni Novanta. Ma è persa l’anar-<br />

co-aggressività degli inizi, che era<br />

sovversiva ma, sostanzialmente,<br />

divertita – come dimostra l’estro e<br />

l’ironia nella scelta delle innume-<br />

revoli cover registrate dal gruppo<br />

fiorentino. Ormai ai Pankow sem-<br />

brano venir meglio le serpentine<br />

da incubo lento in coda all’album,<br />

da Each Man Has A Way To Betray<br />

The Revolution a The End is Nigh,<br />

finale struggente, trascinato sopra<br />

un fruscio di sottofondo che decolla<br />

e poi atterra, e un beat lentissimo<br />

di cui ci si scorda puntualmente<br />

finché non si ripresenta, come un<br />

singhiozzo paranoico. Una chiusa<br />

che fa cambiare idea chi pensava,<br />

fino a quel punto, di stare sotto al<br />

(7.0/10)<br />

G a s p a r e C a l i r i<br />

Parts & Labor – Mapmaker<br />

(Jagjaguwar – Brah / Audioglobe,<br />

22 maggio 2007)<br />

G e n e r e : p o s t n o i s e - r o c k<br />

Lievemente più melodico dei pre-<br />

cedenti, Mapmaker segna la com-<br />

pleta maturazione del terzetto<br />

americano. Non che il grado di<br />

maturità di una band si colga dal-<br />

la percentuale di melodie inserite<br />

in un album, ma al terzo album in<br />

proprio (escluso Rise Rise Rise,<br />

diviso con Tyondai Braxton) i Par-<br />

ts & Labor ottengono la proverbiale<br />

quadratura del cerchio; infatti alle<br />

coordinate prettamente noise-rock<br />

dei dischi precedenti, i tre hanno<br />

aggiunto una particolare attenzione<br />

alla forma canzone (specialmente<br />

nelle linee melodiche vocali) che<br />

rende il suono orecchiabile senza<br />

perdere in aggressività e compat-<br />

tezza. L’opener Fractured Skies è<br />

una vera e propria bomba: batte-<br />

ria ipercinetica, rumori di fondo da<br />

chincaglieria elettronica da due sol-<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9


di, una melodia vocale ascendente<br />

da sballo e infine una esplosione<br />

di chitarra distorta da smuovere il<br />

cervello dentro la scatola cranica.<br />

Come dire, la convergenza in quat-<br />

tro minuti del noise chitarristico più<br />

brutale e astratto, delle tastierine<br />

giocattolo care alla now wave e di<br />

un invidiabile senso della melodia.<br />

La seguente Brighter Days non è da<br />

meno, rischiando di divenire un an-<br />

them del post-noise-rock, per quel<br />

suo appiccicarsi in testa. Due su<br />

due è già una partenza da brividi,<br />

come non se ne sentiva da tem-<br />

po, ma quando attacca Vision Of<br />

Repair, beh…tre indizi fanno una<br />

prova. Una batteria invasata che si<br />

srotola lungo l’autostrada del rock<br />

americano travolgendo tutto, come<br />

solo un altro gruppo ha saputo fare<br />

negli ultimi anni e che evito di cita-<br />

re solo perché sta dietro l’etichetta<br />

che pubblica il tutto. Se a questo<br />

trittico iniziale aggiungete deflagra-<br />

zioni quasi punk-rock straight-in-<br />

your-face (Camera Shy), una cover<br />

dei Minutemen a ribadire lontane<br />

parentele (King Of The Hill), una<br />

coda sperimental-melodica a far<br />

da chiosa (Knives And Pencils),<br />

converrete con me che Mapmaker<br />

rappresenta l’apice delle potenzia-<br />

lità espressive del trio. Resta solo<br />

da vedere se seguirà una esplo-<br />

sione anche a livello commerciale.<br />

(7.2/10)<br />

0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

S t e f a n o P i f f e r i<br />

P e r t u r b a z i o n e - P i a n i s s i m o<br />

f o r t i s s i m o ( C a p i t o l / E M I , 1 6<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

g e n e r e : a d u l t p o p<br />

Con inflessibile leggerezza da cac-<br />

ciatori di farfalle, riecco i Pertur-<br />

bazione sulle tracce del pop-rock<br />

perfetto. Una ricerca senza posa<br />

che non fa pose (non ancora).<br />

Malgrado, en passant, i ragazzi di<br />

Rivoli siano saltati - oplà - sul tor-<br />

pedone di una major. E che major.<br />

Meritatamente, se ciò vi sembra un<br />

merito. Ad ogni modo, Pianissimo<br />

fortissimo significa dieci canzoni<br />

che si aggiungono al repertorio ir-<br />

robustendolo non poco, perché tra<br />

esse non c’è ombra di stanchezza:<br />

non nei testi, non nelle musiche, gli<br />

uni e le altre sempre ben a fuoco.<br />

Un incendio di quieta inquietudine<br />

che cova nel quotidiano, ad altez-<br />

za d’uomo. Palpiti semplici e banali<br />

sì, ma dall’inestimabile pregnanza,<br />

sospesi tra vibrazioni psichedeli-<br />

che (i reverse e i coretti angosciosi<br />

di Qualcuno si dimentica), distilla-<br />

ti jingle-wave (On/Off), post-soul<br />

dinoccolati (Leggere parole) e<br />

struggimenti da camera (Casa mia,<br />

Giugno, dov’eri?). I potenti mez-<br />

zi a disposizione consentono loro<br />

d’ingaggiare un Manuel Agnelli ma<br />

solo per mimetizzarlo tra i tremori<br />

di Nel mio scrigno, senza osten-<br />

tazione, al modo d’un ingrediente<br />

ben stemperato. Così come gli ar-<br />

chi di Davide Rossi - già al lavoro<br />

per i Goldfrapp - sposano la cau-<br />

sa con organica empatia (sentitelo<br />

tra i riverberi foschi di Brautigan).<br />

Così come il fonico Maurice Andi-<br />

loro regala la fragranza pungente e<br />

caramellosa già profusa nei lavori<br />

con Pecksniff e Baustelle. Insom-<br />

ma, forse potevano stupirci con<br />

mirabolanti effetti speciali, inve-<br />

ce Cerasuolo e compagni puntano<br />

sulla “consueta” effettistica targata<br />

Perturbazione: parafrasi dolceagre<br />

(“produco, consumo... credo”), sen-<br />

timentalismo fatalista (“c’è un lam-<br />

pione che si accende proprio sotto<br />

casa tua/quando passo nella notte<br />

forse è un caso forse no/sembra<br />

tutto fatto apposta per scommet-<br />

tere su te”), meditazioni socioesi-<br />

stenziali tra rigurgiti Bacharach<br />

(Controfigurine), quella impagabile<br />

cospirazione di trovate e delicatez-<br />

za (riff di violoncello, fisarmonica e<br />

tromba nella bossa belleandseba-<br />

stiana di Battiti per un minuto - che<br />

a Sanremo avrebbe fatto un figuro-<br />

ne, non l’avessero scartata).<br />

Ma ce la fanno, alla fine, a mettere<br />

nel retino il pop-rock definitivo? No,<br />

naturalmente. Però ci si avvicinano<br />

come a pochi è capitato, almeno da<br />

queste parti. (7.0/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

P i a n o M a g i c – P a r t M o n s t e r<br />

( H o m e s l e e p , 2 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

F u t u r e C o n d i t i o n a l – We<br />

D o n ’ t J u s t D i s a p p e a r ( LT M<br />

R e c o r d i n g s , 2 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

K l i m a - S e l f Ti t l e d ( P e a c e f r o g ,<br />

1 6 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e w a v e r o c k<br />

E pensare che con The Troubled<br />

Sleep… del 2004 sembrava che do-<br />

vessero sciogliersi. I Piano Magic<br />

di Glen Johnson hanno invece tro-<br />

vato nuova linfa vitale rinascendo<br />

letteralmente a nuova vita e oggi<br />

siamo qui a discutere di un disco<br />

che completa una trilogia sugli anni<br />

’80 iniziata proprio con quel lavoro.<br />

Se si è disposti a riconoscere che<br />

il genio estroso di Glen Johnson<br />

non ha una sola faccia e che le sue<br />

costruzioni di elettronica barocca e<br />

surrealista sono state ormai dele-<br />

gate alla sigla Textile Ranch, con<br />

Part Monster abbiamo una prova<br />

ulteriore che per il gruppo madre<br />

vengono conservati i brani più pro-<br />

priamente rock. Brani sempre pen-<br />

sati per parlare un idioma emotivo<br />

recepito immediatamente dall’angst<br />

adolescenziale. Forse si spiega an-<br />

che così, e con quell’aria di elegan-<br />

za 4AD, con il faro di un’Inghilterra<br />

mai troppo oscura, che il gruppo<br />

ha trovato terreno fertile proprio<br />

in Italia, al punto che il nuovo di-<br />

sco viene licenziato per il mercato<br />

italiano dalla nostra Homesleep. Il<br />

canovaccio è lo stesso da quando<br />

i Nostri approdarono proprio su<br />

4AD con il tanto bistrattato Writers<br />

Without Home. Un rock scuro e<br />

teso che odora di wave britannica


S h a n n o n Wr i g h t – L e t I n T h e L i g h t ( To u c h & G o / W i d e , 8 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e r o c k , s o n g w r i t i n g<br />

Lasciandosi alle spalle il suono piuttosto pieno che aveva caratterizza-<br />

to finora gran parte della sua carriera, collaborazione con Yann Tiersen<br />

compresa (2005), con l’ultimo Let In The Light Shannon Wright arriva alla<br />

semplificazione degli elementi sonori, mettendo al centro delle sue can-<br />

zoni il piano, da cui deriva ritmo e geometria sonora. Il risultato si perce-<br />

pisce sin da subito con l’incipit di Defy This Love, marziale e spettrale al<br />

contempo, il cui incedere cabarettistico di chiara matrice Brecht/Weill fa,<br />

di contrasto, penetrare nell’universo lirico della Nostra che declama tutto<br />

il dolore di cui è capace, mettendosi così completamente a nudo. Con la<br />

tensione emotiva, viene da pensare, che è mancata negli ultimi anni a una<br />

come Lisa Germano.<br />

turn it on<br />

Altrove è l’indie rock teso tra le corde di un’elettrica, mentre ci si arrende all’ineluttabilità di una storia ormai<br />

alla fine (‘Cause you won’t be coming home to me and there’s no fight left in me); o ci si interroga su amicizia e<br />

amore nella sussurrata When The Light Shone Down dove la voce viene tenuta sapientemente a freno. Seguono<br />

dark ballad (In The Morning), song minimali per piano dove l’impeto vocale viene liberato pienamente (Steadfast<br />

And True) scaricandone l’elettricità palpabile, echi pavementiani (St. Pete) e song che potrebbero appartenere<br />

alla prima Cat Power (Don’t You Doubt Me).<br />

E sul finale l’impressionistica Louise nella quale al pianoforte fa eco la voce che, tra malinconie e memorie re-<br />

mote, rende perfettamente lo stato di sospensione tra realtà e sogno, di cui buona parte del disco è impregnato.<br />

Album della maturità, conferma la Wright sensuale e intensa interprete di una canzone d’autore che fa dell’au-<br />

tenticità la sua matrice, emozionalmente tesa a rivelarne la natura più nascosta. (7.4/10)<br />

Te r e s a G r e c o<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e


al punto che Johnson e soci fanno<br />

citazioni con l’occhiolino, ma sen-<br />

za che gli ammiccamenti inficino di<br />

un grammo la solidità delle canzo-<br />

ni. In questo senso il gioco critico<br />

si può esercitare già solo sul pia-<br />

no delle parentele. Tastiere e ritmi<br />

alla Cure in The Last Engineer e<br />

Incurable (versione analogico-velo-<br />

cizzata rispetto alla magnifica ver-<br />

sione dell’Ep), i bassi rotondi dei<br />

Joy Division in The King Cannot<br />

Be Found, le chitarre celestiali alla<br />

Felt di Great Escapes, la languidis-<br />

sima steel-guitar di Cities & Facto-<br />

ries che strizza l’occhio alla Whish<br />

You Were Here dei Pink Floyd.<br />

Part Monster è un disco dalla scrit-<br />

tura sicura, con quel tocco di post<br />

modernismo che non guasta e con<br />

il dono di avere un prezioso filo<br />

diretto con il suo pubblico. Ma la<br />

sorprendente primavera dei Piano<br />

Magic non si ferma certo al gruppo<br />

madre. Nell’attesa di ascoltare nuo-<br />

vamente un disco intero dei Textile<br />

Ranch, Johnson in compagnia del<br />

compagno di band, Cedric Pin, si<br />

nasconde dietro la sigla Future<br />

Conditional e dà libero sfogo al<br />

suo amore per il synth-pop. Quin-<br />

di riferimenti a piene mani a New<br />

Order e Kraftwerk e alla stagio-<br />

ne d’oro degli anni ’80. Qualunque<br />

cosa faccia, la mano di Johnson si<br />

sente immediatamente. I suoi svo-<br />

lazzi barocchi e gli inconfondibili<br />

arabeschi elettronici che fanno da<br />

tappeto per le parti vocali, sono la<br />

cosa più vicina ai primissimi singoli<br />

dei Piano Magic che abbia fatto di<br />

recente. Non potevano mancare un<br />

po’ di ospiti per il party rétro: Me-<br />

lanie Pain (Nouvelle Vague) Bob-<br />

by Wratten (Field Mice/Trembling<br />

Blue Stars), Carolyn Allen (The<br />

Wake), Dan Matz (Windsor for the<br />

Derby) e la solita Angele David-<br />

Guillou (Klima). Quest’ultima poi<br />

si cimenta in proprio con un disco<br />

intero dei Klima che mostra tutte<br />

le qualità di questa giovane donna,<br />

voluta espressamente da Johnson<br />

alla voce di alcuni brani degli ulti-<br />

mi Piano Magic e di fatto diventa-<br />

ta un membro aggiunto. Un lavoro<br />

composto interamente da sola e<br />

prodotto, come lo stesso Part Mon-<br />

ster, da Guy Fixsen dei Laika. Una<br />

musica molto femminile che anche<br />

2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

con l’inserto strumentale di amici<br />

come Jerome Tcherneyan dei Pia-<br />

no Magic e Gwen Cheeseman degli<br />

Psapp si avvicina molto a quella<br />

del gruppo madre. Il disco di Klima<br />

non può non ricordare un incrocio<br />

tra i Piano Magic e la Bjork meno<br />

enfatica quando gioca la carta del-<br />

l’elettronica, mentre le cose migliori<br />

le ottiene proprio lontano dai cam-<br />

pionamenti quando gira intorno a<br />

teneri bozzetti bucolici con gli archi<br />

in gran spolvero di You Make Me<br />

Laugh e The Lady Of The Lake. Per<br />

il futuro dovrà giocare soprattutto<br />

queste carte per avere un suono<br />

ancora più personale. La primavera<br />

2007 è insomma quanto mai nel se-<br />

gno dei Piano Magic. (7.2/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

P o l l y P a u l u s m a – F i n g e r s A n d<br />

T h u m b s ( O n e L i t t l e I n d i a n /<br />

G o o d f e l l a s , 2 1 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o p - r o c k<br />

Al secondo disco dopo l’interessan-<br />

te e fortunato debutto risalente al<br />

2004 (Scissors In My Pocket) la<br />

londinese Paulusma, cantautrice di<br />

impostazione classica fattasi cono-<br />

scere con un folk-pop acustico inti-<br />

mo ed essenziale, debitore in egual<br />

maniera di Joni Mitchell, Carole<br />

King e Laura Nyro, svolta ora verso<br />

un pop elettrico, complice la produ-<br />

zione di Ken Nelson - già con Col-<br />

dplay, Gomez e Badly Drawn Boy<br />

- . Le atmosfere dilatate e soffuse<br />

cedono il passo ad un pop-rock per<br />

la maggior parte abbastanza di ma-<br />

niera che la allineano decisamen-<br />

te al mainstream, ed è un peccato,<br />

perché la stoffa dimostrata con le<br />

consuete ballad umorali (l’inquieta<br />

title track, il singolo Woods, l’inten-<br />

sa Matilda, jazz per piano di ascen-<br />

denza Rickie Lee Jones) avrebbero<br />

promesso ben di più. Ma non ba-<br />

stano i testi profondi, l’attitudine<br />

inquieta e qualche guizzo sporadi-<br />

co qua e là. (5.5/10)<br />

Te r e s a G r e c o<br />

P o r t R o y a l - A f r a i d To D a n c e<br />

( R e s o n a n t , 2 8 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

Avvistati in rotta verso il blu dai<br />

torrioni del post-rock e dell’indie-<br />

tronica post-shoegaze europea, a<br />

distanza di due anni dall’acclama-<br />

to Flares, i genovesi Port Royal<br />

tornano a attraccare a Reykjavík e<br />

Glasgow con Afraid To Dance. Già<br />

dalla copertina, una clip in super8<br />

che ritrae alcuni ragazzi in azione<br />

di gioco, si può già intuire un imma-<br />

ginario Boards Of Canada di spazi<br />

e tempi della pre-adolescenza tra<br />

speranza, memoria e malinconia.<br />

E così è (se vi pare) con laptop,<br />

tastiere e chitarre a muoversi tra<br />

le coordinate tracciate da Mogwai,<br />

Slowdive, Pan American Sigur Ros,<br />

Mum. Si va dalla cosmica all’ac-<br />

quatica, dalla psyco ambient della<br />

casa, a scenari più scuri tipo 4AD<br />

e qualche incursione a mo’ di bale-<br />

na sott’acqua nell’ambient House<br />

e nella drum’n’bass, il tutto per-<br />

formato con gusto e una caparbia<br />

ricerca di classicità. L’esordio non<br />

era differente ma possedeva pizzi-<br />

chi di grande classe che lo distin-<br />

guevano dal luogo comune, aspetti<br />

che in Afraid To Dance, paiono<br />

dissipati o convertiti alla “descri-<br />

zione dell’attimo”. Forse qualcosa<br />

s’è perso. Un passo a lato più che<br />

uno avanti. Soltanto un buon di-<br />

sco. (6.5/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

P t e r o d a c t y l – S e l f Ti t l e d ( B r a h /<br />

A u d i o g l o b e , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e - r o c k<br />

Siparietti da asilo nido (Blue Jay),<br />

code strumentali in pieno trip slu-<br />

dge/Oneida (Astros), reiterazioni<br />

noise come un imberbe Branca in<br />

totale delirio adolescenziale (Chx<br />

Bx), dreamy pop songs stuprate da<br />

un approccio incoscientemente fol-<br />

le (Safe Like A Train), assalti strai-<br />

ght-in-your-face e urgenza comuni-<br />

cativa (Ask Me Nicely). Questo, ma<br />

anche molto di più, ritroverete nel-<br />

l’omonimo debutto bomba di questo


trio newyorchese d’adozione.<br />

L’ormai scomparso pterodattile, di<br />

cui si può sentir il verso nel fram-<br />

mento untitled che dà inizio all’al-<br />

bum, è volato in quel di NY dopo<br />

aver visto la luce sulle infinite diste-<br />

se di grano dell’Ohio; nella grande<br />

mela è finito sotto contratto per la<br />

lungimirante etichetta degli Oneida<br />

grazie al proprio post-punk di nuo-<br />

va generazione, tribale e asimme-<br />

trico, melodicamente destrutturato<br />

e iconoclasta.<br />

Gli ingredienti non sono nuovi ma<br />

ben amalgamati: armonie vocali<br />

spastiche e intrecciate come nella<br />

migliore tradizione dei padroni di<br />

casa, un tappeto ritmico furibondo<br />

e versatile, una chitarra agile suo-<br />

nata con la grazia di un cavernico-<br />

lo. Se aggiungete frammenti sparsi<br />

del miglior rock cittadino (da Parts<br />

& Labor a Ex Models, passando<br />

per Lightning Bolt) come spezie<br />

che impreziosiscono il sapore e mi-<br />

schiate tutto in un frullatore ad al-<br />

tissime velocità otterrete quel con-<br />

centrato di totale incoscienza che è<br />

Pterodactyl: musica sensualmente<br />

infantile, arty e aggressiva, bislac-<br />

ca e naif.<br />

Al momento non ce n’è bisogno, ma<br />

un domani, quando si dovrà cer-<br />

care gli eredi degli Oneida, beh, i<br />

più accorti sapranno dove cercarli.<br />

(7.0/10)<br />

S t e f a n o P i f f e r i<br />

R a f a e l To r a l – S p a c e S o l o 1<br />

( Q u e c k s i l b e r / S t a u b g o l d /<br />

W i d e , a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e x p e r i m e n t a l<br />

Abbandonati temporaneamente gli<br />

esperimenti alla chitarra - quegli<br />

esperimenti che hanno funzionato<br />

per anni come una sorta di proces-<br />

so di sublimazione consistito nel-<br />

l’approcciarsi allo strumento amato<br />

come a semplice cosa tra le cose,<br />

in grado, esattamente alla stregua<br />

di tutte gli oggetti, di emettere suo-<br />

ni -, il portoghese Rafael Toral ha<br />

inaugurato un nuovo programma<br />

di ricerca che lo terrà impegna-<br />

to almeno fino al 2012. Lo Space<br />

Program consisterà in una serie di<br />

sperimentazioni (strutturate in tre<br />

differenti capitoli: gli Space Stu-<br />

dies, gli Space Elements e gli Spa-<br />

ce Solos, ed inaugurata da quella<br />

specie di manifesto programmatico<br />

che è stato, qualche mese fa, Spa-<br />

ce) che reperteranno su supporto<br />

frammenti infinitesimali delle mi-<br />

gliaia di ore di musica realizzate<br />

nello studio di Lisbona dove l’arti-<br />

sta lavora da anni - nella migliore<br />

tradizione del tecnico del suono - a<br />

dispositivi e generatori di onde so-<br />

nore personalmente brevettati.<br />

Spazio è qui parola da accogliere<br />

nel pieno della sua valenza poli-<br />

semica - e ovviamente, il pensie-<br />

ro non può che tornare a Sun Ra.<br />

Spazio è l’estensione illimitata en-<br />

tro cui il suono si propaga. Spazio il<br />

luogo privato in cui sentirsi a casa<br />

propria - lo studio in cui l’artista<br />

sperimenta senza remora. Spazio<br />

l’avamposto ideale di infinite possi-<br />

bili civiltà aliene – lo Spazio su cui<br />

ancora timidamente fantasticavano<br />

i primi film di fantascienza.<br />

Space Solo 1, il primo lavoro della<br />

serie Space Solo pare concentrarsi<br />

proprio su quest’ultima accezione<br />

del termine. Così, in Portable Ampi-<br />

flier e Portable Amplifier 3, l’ampli-<br />

ficatore portatile elaborato da Toral<br />

sembra quasi voler mimare le con-<br />

versazioni impossibili degli alieni<br />

protagonisti di uno z-movie fanta-<br />

erotico di Mario Gariazzo; il circuito<br />

generatore di feedback in Echo-Feed<br />

simula i rumori di un ecosistema,<br />

con tanto di fauna, appartenente a<br />

una galassia sconosciuta (riuscite<br />

a figurarvi cosa sarebbe successo<br />

se Olivier Messiaen avesse com-<br />

pilato il Catalogue d’Oiseaux su un<br />

altro pianeta?); l’oscillatore porta-<br />

tile di Electrode Oscillator produce<br />

frequenze al limite dell’udibile per<br />

l’orecchio già culturalmente forgia-<br />

to dell’ascoltatore medio - che, è<br />

facile ipotizzarlo, le riterrà scanda-<br />

losamente in-ascoltabili. Ormai to-<br />

talmente affrancata dai concetti di<br />

scrittura o notazione - non a caso<br />

l’influsso più duraturo sull’operato<br />

del portoghese è stato quello eser-<br />

citato dall’opera di John Cage -, la<br />

musica di Rafael Toral vive di azio-<br />

ni, nel senso che a questo termine<br />

dava il Gruppo di Improvvisazio-<br />

ne Nuova Consonanza. Spesso<br />

del tutto subordinati alle dinamiche<br />

corporee di chi li maneggia (si dia<br />

un’occhiata ai video presenti nella<br />

pagina web del musicista), gli ap-<br />

parecchi di Toral diventano quasi<br />

protesi di un corpo umano che non<br />

ha più parola, interfacce fisiche tra<br />

la propria cassa di risonanza inte-<br />

riore e il rumore dello spazio ester-<br />

no - qualunque cosa qui la parola<br />

voglia significare. (7.3/10)<br />

V i n c e n z o S a n t a r c a n g e l o<br />

R i g h e i r a – M o n d o v i s i o n e ( T h e<br />

S a i f a m G r o u p / S e l f , 2 f e b b r a i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e c t r o d i s c o p o p<br />

Dopo più di vent’anni. Azzardare il<br />

ritorno sul pianeta terra. Ritornare<br />

con un bagaglio old school che non<br />

è più nostalgia. È storia. Il nuovo<br />

Righeira è un simbolo di quello che<br />

solo Bologna è stata. Pazienza, gli<br />

Stupid Set, il punk demenziale de-<br />

gli Skiantos, Radio Alice. Gli anni<br />

‘80 eran tanto tempo fa? Non tanto.<br />

Qui si scopre che la cicatrice è an-<br />

cora fresca. Anche se le avvisaglie<br />

si erano già sentite, di prepotenza,<br />

da tempo, qui si spara un colpo di<br />

cannone. Un disco che si rifà a Guy<br />

Debord in maniera sfacciata. La te-<br />

levisione, l’apparire, la verità è solo<br />

tutto falso. E come i Sex Pistols<br />

avevano dichiarato e rivoluzionato<br />

il rock, con il disvelamento della<br />

grande truffa, anche qui si costrui-<br />

sce un mondo fittizio, un grado zero<br />

dell’electro pop. Per ripartire.<br />

Un concept sulla società post-rea-<br />

lity, dove lo stato/chiesa non esiste<br />

se non passa sullo schermo (vedi<br />

il pop-kitch di Il destino di una na-<br />

zione), dove l’individuo vive solo<br />

per i famosi 15 minuti warholiani (il<br />

ricordo post-house à la Subsonica<br />

di Tu sei sul video), dove il mez-<br />

zo pervade tutto (vedi la citazione<br />

dei Kraftwerk nei primi secondi di<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e


apertura di Accendi la televisione).<br />

Ma non solo critica naïf: c’è anche il<br />

ricordo delle serate in cui si andava<br />

‘a la playa’ che riemerge dal sin-<br />

golo uber-italo-ispanico (anticipa-<br />

to su My Space qualche tempo fa)<br />

La Musica Electronica, il pastiche<br />

nonsense con i backing che devo-<br />

no tanto alla lezione ottantiana di<br />

Battiato in Futurista e in Il numero<br />

che non c’è, l’urban electro-soul di<br />

Invisibile con la bella voce di Lub-<br />

na che potrebbe stare nel prossimo<br />

Casino Royale, il post-punk di La<br />

Mujer Que Tu Qieres e il funketto-<br />

ne di China Disco. Un riassunto di<br />

quello che è stato e di quello che<br />

sarà. Gli alieni son tornati e noi<br />

siamo pronti a ballare tutti i loro<br />

singoli. Un incontro ravvicinato del<br />

terzo tipo che osa sorpassare il cli-<br />

ché, che prevede una nuova inva-<br />

sione barbarica di paillettes, spalli-<br />

ne e cerchietti. L’electro(ttanta)pop<br />

(non) è (ancora) morto. Viva i(l) re.<br />

(7.0/10)<br />

4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

M a r c o B r a g g i o n<br />

R u f u s Wa i n w r i g h t - R e l e a s e T h e<br />

S t a r s ( U n i v e r s a l , 1 5 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i p e r p o p<br />

Rufus Wainwright capitolo cinque.<br />

Con quella voce da cugino tenebro-<br />

so di Thom Yorke, da zio saputello<br />

di Patrick Wolf. Con l’ipertrofico<br />

armamentario orchestrale e i cori<br />

gospel. Con quel vaporizzare folk,<br />

errebì, soul, vaudeville e glam as-<br />

sieme a sfavillanti miraggi operisti-<br />

ci e languori da camera, ottenendo<br />

una congettura pop che sa d’alluci-<br />

nazione indomita, del capriccio più<br />

solenne in circolazione. Una propo-<br />

sta che continua a sembrare credi-<br />

bile solo perché in qualche modo<br />

lo stesso Rufus ti fa intendere di<br />

crederci sì intensamente ma non<br />

fino in fondo, lasciando aperto uno<br />

spiraglio in modo che s’intravedano<br />

le quinte, che s’avverta l’odore di<br />

messinscena, di ossessione realiz-<br />

zata. Lui ed il piano al centro del-<br />

la scena, nel cono di luce, col buio<br />

abitato dagli archi trepidi (Tulsa,<br />

Nobody’s Off The Hook), i fondali<br />

screziati da improvvisi esotismi (il<br />

palpitante bolero di Do I Disappoint<br />

You), l’amarezza irrorata da vampe<br />

soul (Going To A Town) e cartilagi-<br />

nosa delicatezza (Leaving For Pa-<br />

ris n° 2). Con quel distacco parte-<br />

cipe, filmico, un carosello di pose<br />

sonore che gli permettono di allun-<br />

gare cordoni ombelicali da Marc<br />

Bolan a Morrissey passando per<br />

Belle And Sebastian (Rules And<br />

Regulations), di sembrare un Neil<br />

Young con la parrucca incipria-<br />

ta sulla famosa spiaggia solitaria<br />

(I’m Not Ready To Love), gli Abba<br />

prodotti dal Brian Eno dei jet cal-<br />

di (Between My Legs) o uno Scott<br />

Walker ipnotizzato Steely Dan<br />

(Slideshow). Naturalmente, inevita-<br />

bilmente, continui ad accettarne le<br />

avances, sostieni il flirt senza te-<br />

mere conseguenze spiacevoli. Per-<br />

ché sai che, una volta consumato<br />

lo spettacolo d’arte varia, si accen-<br />

dono le luci, scompaiono le stelle.<br />

Liberate, finalmente, al loro destino<br />

di polvere. (6.8/10)<br />

Stefano Solventi<br />

S h y C h i l d – N o i s e Wo n ’ t S t o p<br />

( Wa l l O f S o u n d / S e l f , 2 5<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e k e y t a r p o p , w a v e<br />

…e noi che sentite quelle sirene<br />

da ballosballo – Pressure To Come<br />

– stavamo giocando a chi era usci-<br />

to prima se il primo singolo a firma<br />

Shy Child, Noise Won’t Stop (no-<br />

vembre 2005) o quello dei Klaxons<br />

(Gravity’s Rainbow, aprile 2005). Il<br />

nu-rave dei secondi che aveva pre-<br />

ceduto il synth rock dei primi e caz-<br />

zate del genere. Il duo composto<br />

da Pete Cafarella (voce e tastiera<br />

a braccio) e Nate Smith (batteria)<br />

è nato in verità molto prima, nel-<br />

l’estate del 2000, all’epoca degli<br />

esperimenti del cantante/tastierista<br />

con gli Abcs e la realizzazione del<br />

live The Geopraphy of Dissolu-<br />

tion, giusto prima della lavorazione<br />

del capolavoro Super/System (un<br />

lavoro che tra synth, dance e avan-<br />

guardie wave assortite che avrebbe<br />

da dir la sua ancor ’oggi). Protago-<br />

nista d’ogni incrocio possibile che<br />

ha visto un synth protagonista, Ca-<br />

farella, uno che è passato da Terry<br />

Riley con gli Abcs ai Duran Duran<br />

dei Supersysyem senza colpo feri-<br />

re; niente super progetti da queste<br />

parti, piuttosto un side project ri-<br />

stretto a due fatto di teso wave-pop<br />

e kitchume anni Ottanta/Novanta,<br />

la wild side del synth a braccio (la<br />

keytar) in una formula White Stri-<br />

pes convertita ai rave con qualche<br />

song tra indie e synth lo-fi.<br />

Rispetto a Please Consider Our<br />

Time, 2002, il seguito del 2004 One<br />

With The Sun, e tre singoli da allo-<br />

ra a oggi in rapida sintonizzazione<br />

post-rave, gli Shy Child sembrano<br />

fare più sul serio con Noise Won’t<br />

Stop montando sul carrozzone del-<br />

la hard dance al passo del nu-rave<br />

reso famoso dai Klaxons e della<br />

wave danzereccia dei The Faint<br />

(oltre alle stesse esperienze del<br />

Caffarella). Drop The Phone, singo-<br />

lo uscito a febbraio accompagnato<br />

da un video sembra avere i numeri<br />

giusti: strofe à la El Guapo, ten-<br />

sione ritmica per tut del telefono,<br />

batteria e gorgheggi simil Roland<br />

303, poi esplosione sottoforma di<br />

bordoni synth doppiata dalle pel-<br />

li. Pressure To Come è ancora più<br />

tesa ma con meno mordente, idem<br />

per Kick Drum che gioca in sinco-<br />

pe, rapping e vocals Supersystem<br />

e così via, per quasi tutto il platter,<br />

tranne quando i due si cimentano<br />

in indie-pop come Summer (proiet-<br />

tile di gomma carino, volutamente<br />

sfrontato Ottanta/ingenuo Sessan-<br />

ta), oppure nell’attacco synth punk<br />

alla CSS arcigne del singolo Noi-<br />

se Don’t Stop. Estempora<strong>neo</strong>, non<br />

proprio freschissimo ma un passo<br />

nei dancefloor indie non glielo leva<br />

nessuno (p.s. in What it Feels Like<br />

compare dal nulla un reading de-<br />

dicato a De Andrè in italiano. Non<br />

c’entra nulla. Non serve a nulla. Ma<br />

ve lo dovevo dire…). (6.5/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a


T h r o b b i n g G r i s t l e – P a r t Tw o - T h e E n d l e s s N o t ( I n d u s t r i a l R e c o r d s<br />

/ M u t e , 1 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d u s t r i a l<br />

Il virus che muta l’organismo e lo replica in altro. La metastasi che si<br />

allarga a vista d’occhio come un mare di cellule maligne. Uno sguardo<br />

compiaciuto sul disastro in atto. Questo erano i Throbbing Gristle quando,<br />

dalla grigia Inghilterra di fine anni ’70, documentavano a suon di “Rap-<br />

porti Annuali” la catastrofe nel suo farsi e inventavano di sana pianta<br />

l’Industrial. I Throbbing Gristle nel 2007 invece non hanno più bisogno di<br />

catalogare traumi, né di erigere architetture storte e radicali, ma si gusta-<br />

no morbosamente il panorama di un mondo che è già stato contaminato,<br />

infettato, condannato a morte. Se l’anno scorso Scott Walker saliva in<br />

cattedra, muovendo come una marionetta il cadavere di un Elvis decompo-<br />

sto e mettendo in scena il dramma della storia che ripete insensatamente<br />

turn it on<br />

i suoi orrori, quest’anno i quattro si pongono volutamente fuori dal corso degli eventi, fuori dal contesto, fuori da<br />

tutto, vagheggiando già dalla copertina una Montagna Sacra e un’eternità non da conquistare, ma già raggiunta.<br />

Il discorso musicale allora non può che lavorare di sintesi. Psychic Tv, Carter&Cosey e soprattutto Coil, con<br />

lo spirito di John Balance a benedire dall’aldilà. La tromba di Cosey Fanni Tutti quasi sembra invocarlo nel jazz<br />

catacombale di Rabbit Snare, mentre danzando con nani e giganti tra pesanti tendaggi rossi, Genesis P. Orridge<br />

assicura che non c’è da aver paura: “Why are you scared?”. L’ombra lunga dei Coil, quelli più enigmatici e sotto-<br />

pelle, si allunga su gran parte del disco. Christopherson ha gioco facile con l’invocazione affettiva di Orridge in<br />

Almost A Kiss, ma anche Chris Carter e Cosey Fanni Tutti punzecchiano con la loro minimal-techno imbrattata di<br />

ombre in Endless Not. Ma è nei gorghi più neri, nelle disamine più astratte e radicali, negli affreschi ambientali<br />

più liquidi ed esoterici che i quattro eccellono come sempre. Il funk gorgogliante e allucinato di Vow Of Silence<br />

spegne sadicamente le luci in sala; Separated si allunga mantrica e silenziosa su un tappeto di suoni translucidi;<br />

Greasy Spoon si incastra melmosa tra orecchio e orecchio, divorando per nove minuti cervelli e crani annebbiati<br />

dal vuoto quotidiano delle cose. C’è una certa differenza tra il buttarsi dal ciglio del precipizio e l’essere spinti<br />

con un urlo che ti risuona fino a toccare il fondo. I Throbbing Gristle nemmeno se lo pongono il problema. Loro<br />

l’urlo lo hanno lanciato già anni fa. Ora per parafrasare le ultime tracce di questo disco si tratta solo di aspettare<br />

che la caduta termini e di vedere quando toccherà ai vermi. (7.5/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e


S o u l s a v e r s ( f e a t . M a r k L a n e g a n )<br />

- I t ’s N o t H o w F a r Yo u F a l l , I t ’s<br />

T h e Wa y Yo u L a n d ( V 2 , 2 a p r i l e<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k , g o s p e l , t r i p h o p<br />

Da quando ha smesso di essere artista<br />

di culto (leggi: dai Queens Of<br />

The Stone Age in poi), Mark Lanegan<br />

è diventato l’ingrediente buono<br />

per ogni ricetta, la spezia miracolosa<br />

in grado di insaporire anche il<br />

piatto più insipido. Un gioco cui l’ex<br />

Screaming Trees si presta volentieri,<br />

al punto di ritrovarselo in posti<br />

apparentemente inaspettati come<br />

un disco di Isobel Campbell (il<br />

fortunato Ballads Of The Broken<br />

Seas) o, in questo caso, il secondo<br />

album di un duo inglese approdato<br />

al trip hop fuori tempo massimo.<br />

A Rich Machin e Ian Glover, in arte<br />

Soulsavers, non sarà neanche<br />

sembrato vero di avere a disposizione<br />

il vocione più ambito degli ultimi<br />

anni, attorno al quale hanno cucito<br />

atmosfere su misura partendo da<br />

canovacci gospel, blues e spiritual<br />

trattati secondo i dettami del Bristol<br />

sound, con più di una concessione<br />

all’ambient. In una scaletta<br />

che ripartisce originali, strumentali<br />

e cover - non senza ambizioni: No<br />

Expectations degli Stones e Through<br />

My Sails di Neil Young, in duetto<br />

con Bonnie ‘Prince’ Billy), il risultato<br />

arriva senza sforzo. Se a sentire<br />

la rilettura di Kingdoms Of Rain<br />

(dal lontano Whiskey For The Holy<br />

Ghost) giunge puntuale un brivido,<br />

il resto è un ibrido fra I’ll Take<br />

Care Of You e Bubblegum, rivisitato<br />

da Moby e Portishead, con<br />

Lanegan che dispiega gratuitamente<br />

tutto il suo inevitabile carisma<br />

un brano dopo l’altro. Un giochino<br />

d’effetto suggestivo, ma tutto sommato<br />

facile facile. Più che in quelle<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

di crooner di extralusso, piacerebbe<br />

– finalmente! - rivedere il buon<br />

vecchio Mark nelle vesti di autore<br />

ispirato. (5.8/10)<br />

A n t o n i o P u g l i a<br />

Ta k e s h i N i s h i m o t o – M o n o l o g u e<br />

( B ü r o / W i d e , 2 4 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : s o l a c h i t a r r a<br />

Se nel disco con John Tejada (a<br />

nome I’m Not A Gun) si confermavano<br />

le previsioni sulla carta, non si<br />

può dire diversamente di questo lavoro<br />

solista di Takeshi Nishimoto,<br />

chitarrista giapponese. Nel precedente<br />

il musicista sosteneva di “pensare<br />

come uno strumento”; in questo<br />

Monologue – dodici pezzi per<br />

chitarra classica solista, registrato<br />

in un giorno solo a Berlino, in chiesa<br />

(cosa che ultimamente dà ottimi<br />

frutti, se pensiamo a David Thomas<br />

Broughton) - si lascia andare a un<br />

soliloquio, parlato nella lingua della<br />

sua sei corde, più che a un monologo<br />

dedicato a un pubblico. Desta<br />

interesse un giapponese che decide<br />

non di confrontarsi con le armonie e<br />

la musica occidentale, ma di suonarle<br />

come se fosse occidentale, adoperando<br />

un mimetismo; non traspaiono<br />

infatti una tensione oriente-occidente,<br />

o le tracce di un’escursione in<br />

una tradizione diversa dalla propria.<br />

Chi non si sente appassionato o predisposto<br />

alla chitarra solista farà un<br />

po’ di fatica ad arrivare fino in fondo.<br />

Che però salti qualche traccia per<br />

ascoltarsi la penultima, la splendida<br />

Coming Soon, tormentata con delicatezza<br />

dall’ossessione di un tema trascinato<br />

per sette minuti, in un modo<br />

che ricorda le schiume dei cavalloni<br />

a rallentatore dei Dirty Three. È in<br />

questo brano che assume, forse più<br />

di ogni altro, un senso definitivo la<br />

scelta della chitarra classica, anziché<br />

acustica, specie nella seconda<br />

parte del brano.<br />

La buona notizia è che comunque<br />

non si scade mai sull’ostentazione di<br />

tecnicismi segoviani, né sull’accordatura<br />

blue più mielosa. A pensarci<br />

bene, in questo può aver influito la<br />

provenienza di Nishimoto. Rimane<br />

una constatazione: parte del disco,<br />

forse, avrebbe avuto miglior vita<br />

nelle confidenze tra Takeshi e il suo<br />

strumento. (6.3/10)<br />

Gaspare Caliri<br />

Ta n g e r i n e D r e a m - M a d c a p ’s<br />

F l a m i n g D u t y ( Vo i c e p r i n t , 2<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o p<br />

Ammesso che si riesca ad ascoltare<br />

interamente quest’album, viene<br />

da chiedersi che senso abbia festeggiare<br />

i quarant’anni di carriera<br />

(trentasette dall’uscita dello storico<br />

Electronic Meditation) provando<br />

ad infangare sempre di più il proprio<br />

nome, invece di collimare una<br />

storia cominciata dignitosamente.<br />

Per i Tangerine Dream, come per<br />

i Pooh, fare musica è diventata<br />

ormai da molto tempo una routine<br />

insensata. I padri dei cosmic couriers<br />

non sono neanche più la cattiva<br />

copia di se stessi, impelagati<br />

da decenni in un sound che non<br />

ricorda neanche lontanamente gli<br />

esperimenti elettronici (tra)passati.<br />

Se non avessero quel nome, che<br />

comunque desta curiosità, non sarebbe<br />

neanche il caso di scrivere<br />

qualche riga su un disco in cui,<br />

pur sforzandosi a cercare qualcosa<br />

di interessante, non si trova<br />

nulla che valga la pena ascoltare.<br />

Un noiosissimo synth pop di bassa<br />

lega (a metà tra Vangelis e il lato<br />

più doom di Biagio Antonacci),<br />

ricordo sbiadito della già pessima<br />

svolta degli anni ‘80, che ha la pretesa<br />

di accompagnare testi basati<br />

sulla poesia anglo-americana del<br />

XVII e XVIII secolo. Il tutto dedicato<br />

al povero Syd Barrett. Possibile<br />

che a Edgar Froese, musicista<br />

d’esperienza, uno che ha toccato<br />

gli apici dell’avanguardia rock, non<br />

provi neanche un po’ di vergogna?<br />

(3.0/10)<br />

D a n i e l e F o l l e r o<br />

Te l e f o n Te l Av i v – R e m i x e s<br />

C o m p i l e d ( H e f t y / A u d i o g l o b e ,<br />

3 0 a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : e l e c t r o g l i t c h<br />

Che i Telefon Tel Aviv avessero i<br />

numeri per sfondare lo si era capito<br />

già con il precedente Map Of<br />

What Is Effortless (Hefty, 2004):<br />

un piccolo manualetto su come mescolare<br />

Morr e glitch, sentimento<br />

e freddezza, soul e ghiaccio elettrico.<br />

Nel nuovo lavoro rischiano<br />

la carta remix: territorio minato e<br />

mostruosamente abusato, tour de<br />

force che spreme le meningi, dove


solo i migliori hanno detto qualcosa<br />

di nuovo. Il gioco, signori, vale la<br />

candela.<br />

Non il solito disco promozionale pri-<br />

ma del nuovo album. Dai Nine Inch<br />

Nails a Bebel Gilberto, da Nitrada<br />

a Apparat: un’eterogeneità incon-<br />

sueta e all’apparenza difficilmente<br />

manipolabile; il duo si rimastica tut-<br />

to ben bene e in poco più di 50 mi-<br />

nuti ci conduce ai limiti dell’electro-<br />

shoegazing: il ricordo robotico dei<br />

Kraftwerk in Green Green Grass<br />

(American Analog Set) che esplo-<br />

de in una bomba armonica di cori<br />

post-wave, il richiamo alla scuola<br />

Autechre in Time Is Running Out<br />

(Phil Ranelin), lo slancio inevita-<br />

bilmente chilly à la Thievery Cor-<br />

poration in All Around (Bebel Gi-<br />

lberto), la sensibilità di un Howie<br />

B infarcito di archi in Genuine Di-<br />

splay (Midwest Product).<br />

Se per caso ve li foste persi (di vi-<br />

sta), la ricomparsa di Joshua Eu-<br />

stis e Charlie Cooper ribadisce il<br />

loro posto di eccellenza nell’olimpo<br />

emo-electro. Un disco che è un ice-<br />

berg con un cuore melò, uno di quei<br />

sogni che solo gli Air ultimamente<br />

hanno raccontato, il nu-balearic del<br />

2007. La nuova Thievery Corp., o i<br />

nuovi K&D? Si accettano scommes-<br />

se. (7.1/10)<br />

M a r c o B r a g g i o n<br />

T h e D e t r o i t C o b r a s – Ti e d<br />

A n d Tr u e ( R o u g h Tr a d e / S e l f ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : g a r a g e / r ’ n ’ r<br />

I Detroit Cobras sono una cover<br />

band. Una cover band con una mis-<br />

sione da compiere, quella cioè di<br />

riportare alla luce e re-interpreta-<br />

re con fare garage/rock una serie<br />

di successi minori presi in prestito<br />

dalla sterminata produzione (nor-<br />

thern) soul/r ’n’b degli anni Cin-<br />

quanta/Sessanta. Un’operazione a<br />

tratti meritevole, portata avanti con<br />

grande dedizione e diventata, gra-<br />

zie all’aiuto di alcuni famosissimi<br />

spot pubblicitari, una sorta di pic-<br />

colo fenomeno mainstream nei pae-<br />

si anglosassoni, più avvezzi di noi<br />

a trattare con certi tipi di sonorità.<br />

Il gioco, però, è bello (talvolta bel-<br />

lissimo) quando dura poco e per i<br />

Detroit Cobras sembra veramente<br />

arrivato il momento del capolinea,<br />

già peraltro ampiamente preven-<br />

tivato dopo la pubblicazione del<br />

precedente Baby. Una caduta non<br />

certo imputabile alla scelta delle<br />

canzoni, ancora una volta di altissi-<br />

mo spessore (nel lotto anche brani<br />

di James Brown ed un “tradiziona-<br />

le” pre-war folk) né alla splendida<br />

voce della cantante Rachel Nagy<br />

da sempre vero propulsore della<br />

band americana. A latitare è inve-<br />

ce quell’irruenza (s)composta e<br />

quell’attitudine volutamente ed in-<br />

genuamente precaria che ne ave-<br />

va contraddistinto gli esordi, oggi<br />

schiacciata da una produzione tal-<br />

mente fredda e calcolata da rende-<br />

re persino insopportabile l’ascolto<br />

di alcune parti dell’album. Il mes-<br />

saggio è chiaro, dunque: meglio<br />

puntare a chiusi sui primi due lavori<br />

della band (il sottoscritto propende<br />

per Life, Love And Leaving) e get-<br />

tare alle ortiche questo inutile, ma<br />

veramente inutile, Tied And True.<br />

(4.0/10)<br />

S t e f a n o R e n z i<br />

T h e S e a A n d C a k e - E v e r y b o d y<br />

( T h r i l l J o c k e y / W i d e , 8 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : j a z z f u n k y p o p<br />

Più di dieci anni di carriera e non<br />

sentirli. Che i Sea And Cake siano<br />

affetti dalla sindrome di Peter Pan?<br />

No, semplicemente quello che suo-<br />

nano li rende degli imperterriti ra-<br />

gazzini. E, cosa più importante, fa<br />

sentire ragazzini tutti. Potere della<br />

melodia, di cui il quartetto chica-<br />

goano è indubbiamente il detento-<br />

re. Quattro anni per vedere quali<br />

direzioni avrebbero preso dopo le<br />

complesse electromanie del pre-<br />

cedente One Bedroom, ed eccoli<br />

tuffarsi in una bottiglia di coca cola<br />

agitata. Frizzante, infatti, è l’agget-<br />

tivo più immediato e calzante per<br />

descrivere Everybody, settimo cro-<br />

nologicamente ma primo album con<br />

McEntire seduto esclusivamente<br />

dietro la batteria. Pare strano, ma<br />

i quattro questa volta hanno deciso<br />

di dedicarsi solo ai propri strumen-<br />

ti, chiamando Brian Paulson alla<br />

produzione (Slint e Wilco possono<br />

bastare come curriculum?). E an-<br />

cora più strano è sentire suonare<br />

il gruppo come un gruppo. Coesi,<br />

affiatati, in perfetta sintonia, i No-<br />

stri non lesinano sottigliezze jazzy<br />

(i Tortoise scaraventati sull’euro-<br />

star della quasi strumentale Left<br />

On), turgore funky (Introducting),<br />

scorribande afro-tropicaliste (il<br />

mid-tempo scoppiettante di Exact<br />

To Me) mescolate sapientemente<br />

ad un’astuta scrittura pop (i per-<br />

fetti tre minuti di Coconut), che li<br />

rendono diversi, ma pur sempre<br />

fedeli al loro credo. E non abbia-<br />

mo neanche accennato alla voce<br />

incomparabile e inconfondibile di<br />

Prekop, vero trademark della band.<br />

Ma con un brano d’apertura come<br />

Up On Crutches le parole non ser-<br />

vono. Spazi aperti e aria pungen-<br />

te che solletica il viso, per sentirsi<br />

ancora degli adolescenti spensie-<br />

rati. Se la primavera non ha ancora<br />

risvegliato in voi questo desiderio,<br />

ci penserà Everybody, statene pur<br />

certi. (7.2/10)<br />

V a l e n t i n a C a s s a n o<br />

Tw o L o n e S w o r d s m e n - Wr o n g<br />

M e e t i n g ( R o t t e r s G o l f C l u b , 1 5<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : r o c k a b i l l y,<br />

s w a m p r o c k<br />

“Influences are deep in the bones<br />

of the music”, hanno dichiarato alla<br />

press britannica, una frase che suo-<br />

na spocchiosa e arrogante al primo<br />

ascolto di Wrong Meeting, il nuovo<br />

album della ditta Weatherall e Ten-<br />

niswood. Nove canzoni in bilico tra<br />

una produzione vintage e vecchi<br />

spettri anni ’80, pistole Gun Club e<br />

Cramps, Cave e persino rock’n’roll,<br />

fanno del lavoro una soundtrack di<br />

quelle Strade Perdute a cui il pro-<br />

duttore di screamadelia è legato a<br />

doppia e più mandate. Il punk inna-<br />

morato dei Cinquanta del resto, è<br />

un’ossessione che qui si consuma<br />

senza compromessi e chi s’aspet-<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


tava le arcigne miscele rockabilly,<br />

dub e elettronica Warp syle, del<br />

piccolo capolavoro From The Dou-<br />

ble Gone Chaple, rimarrà probabil-<br />

mente deluso.<br />

Salvo un effetto qua (Puritan Fist) e<br />

uno là (Nevermore (Than Just Enou-<br />

gh)), questo è un disco per nulla<br />

figlio dell’elettronica, con pochissi-<br />

me tastiere e persino con l’accento<br />

posto nelle parti vocali, dunque un<br />

puzzle incompleto alla luce del per-<br />

corso degli spadaccini, soprattutto<br />

se s’apprende che Wrong Meeting<br />

è il nome del party mensile dove gli<br />

East Londoneers s’incontrano al-<br />

l’insegna di una serata fatta di so-<br />

norità tra le più disparate: da Elvis<br />

fino alla techno. Lì si suonano – e<br />

Weatherall ci suona chiaramente<br />

– le influenze dei Two Lone Sword-<br />

smen, mistone che manca a queste<br />

dieci canzoni. Sembrano sottotono<br />

i Two Lone Swordsmen, umilmente<br />

acustici, garage, indie lo-fi, eppure<br />

da queste parti si nascondo dei se-<br />

greti, polveri da sparo che, ascolto<br />

dopo ascolto, ribaltano e incendia-<br />

no la tiepida prima impressione. Ci<br />

si scorge del tintinnio di un there-<br />

min molto Ubu in No Girl In My Plan,<br />

il ritmo e l’arrangiamento dei Gun<br />

Club, un testo à la Cave prima ma-<br />

niera. È una polpa autentica, come<br />

una Fire Of Love (ma non di cover<br />

si tratta). Nell’ottica della canzone<br />

(non ci sono strumentali), c’è del-<br />

l’indietronica in Rattlesnake Daddy<br />

tra tastiere e drum machine à la<br />

Morr che sale pian piano. Si pone<br />

con il giusto mezzo. Non sempre il<br />

Weatherall della svolta “rock” az-<br />

zecca una scrittura convincente (il<br />

ritornello di Wrong Meeting, le stro-<br />

fe à la Michael Gira di Work At Ni-<br />

ght), eppure il produttore è un mae-<br />

stro nel sintetizzare la passione per<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

la musica con la quale è cresciuto.<br />

Prendete per dire il punk’n’roll di<br />

Evangeline, suonato con tensione e<br />

ironia, oppure la bella, conclusiva,<br />

Get Out Of My Kindom, tra piccoli<br />

rimaneggi ritmici Stones, country<br />

bonario à la Hazlewood, e un pizzi-<br />

co di soul. Avevano ragione loro: le<br />

influenze dei Two Lone Swordsmen<br />

sono dentro alle ossa della loro mu-<br />

sica. (7.0/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

Vo n S p a r – S e l t Ti t l e d ( To m l a b /<br />

W i d e , 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p o s t - k r a u t<br />

I Von Spar debuttano nel 2004 con<br />

un lavoro, Die Uneingeschränkte<br />

Freiheit Der Privaten Iniziative,<br />

(L’Age D’Or, 2004), assolutamen-<br />

te in tema – sono passati appena<br />

tra anni ma sembrano eoni – con<br />

l’allora febbrile mania punk-funk.<br />

A tre anni quindi da quel debutto,<br />

un intervallo in cui il gruppo da trio<br />

si è evoluto in quintetto, la musica<br />

svolta altrove.<br />

Vengono da Colonia, patria dei Can,<br />

epicentro acculturato del krautrock<br />

che si manifesta nella prima metà<br />

di Von Spar: Xaxapoya apre con un<br />

drone vagamente sinistro che ac-<br />

compagna una batteria tribale. Si<br />

leva un synth vacillante, il drum-<br />

ming si fa sempre più maniacale<br />

e una voce, un guaito opprimente<br />

si insinua. Siamo al dodicesimo<br />

minuto e potrebbe già essere ab-<br />

bastanza; ma inaspettatamente si<br />

innalza un sequencer, il preludio: il<br />

ritmo prende forma, la batteria si fa<br />

quadrata e parte un motorik krau-<br />

twave. Si ritorna, nelle intenzioni,<br />

al debutto, ma il serrate è seve-<br />

ro e la voce nevrotica, come se i<br />

Polyrock volessero fare i Devo. Si<br />

termina stremati. In Dead Voices In<br />

The Temple Of Error l’argomento si<br />

fa più pastoso e pesante. La voce<br />

passa attraverso un filtro e la batte-<br />

ria scandisce accenti doom. Persi-<br />

no la chitarra, ora più solenne, vira<br />

in certi lidi a là Goodspeed You!<br />

Black Emperor; anche qui, però,<br />

si deraglia, questa volta dalla parti<br />

dello sludge più slabbrato, in una<br />

terra di nessuno tra Black Sabbath<br />

e Godflesh. Se prima ne si è usciti<br />

stremati, ora si è in trappola. Due<br />

canzoni per quaranta minuti di mu-<br />

sica. Raramente, oggi, si ascolta<br />

un disco come quello dei Von Spar,<br />

quasi mai si è dinanzi ad un lavoro<br />

cosi compiuto. Caustici! (8.0/10)<br />

G i a n n i A v e l l a<br />

Vo x t r o t – S e l f Ti t l e d ( B e g g a r s<br />

G r o u p / P l a y l o u d e r, 2 2 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : i n d i e - p o p<br />

Dopo una manciata di EP che han-<br />

no scaldato gli animi di molti blog di<br />

tutto il mondo, annunciando i texani<br />

Voxtrot come il nuovo caso nell’uni-<br />

verso indierock, ecco arrivare il<br />

loro omonimo album d’esordio non<br />

senza molta entusiastica attesa.<br />

Entusiasmo che però, lo diciamo<br />

subito, risulta fin dal primo ascolto<br />

sterile e pericoloso.<br />

Se gli EP erano incentrati su un<br />

vivace indie-pop scarno e allegro<br />

impregnato di una certa attitudi-<br />

ne lo-fi che strizzava l’occhio tan-<br />

to alle classiche sonorità pop anni<br />

sessanta, quanto agli Smiths, Vox-<br />

trot invece risulta sì sempre muo-<br />

versi su quella scia di vitalità pop,<br />

ma senza più quella bassa fedeltà<br />

di fondo e soprattutto senza più ri-<br />

chiamare la band di Morrissey. Ci<br />

troviamo dinnanzi a canzoni allegre<br />

che non superano i quattro minuti<br />

di lunghezza, che debbano molto<br />

all’immediatezza dei Beach Boys<br />

ma anche a quella leggerezza indie<br />

tipica di band come i primi Promis<br />

Ring, non senza marcate influenze<br />

brit-pop. Infatti una delle somiglian-<br />

ze più marcate è proprio quella con<br />

gli inglesi The Thrills, sia per il<br />

contesto musicale, ma soprattutto<br />

per l’evidente somiglianza vocale.<br />

Una produzione più attenta e cura-<br />

ta ha sicuramente tolto ai Voxtrot<br />

quell’urgenza adolescenziale che<br />

aveva fatto la fortuna sulla breve<br />

distanza, facendogli però guada-<br />

gnare in qualità sonora e stilistica.<br />

È un disco come se ne sento-<br />

no molti in giro. Dunque niente di<br />

nuovo. Però dobbiamo ammettere<br />

che almeno una buona parte del-<br />

le canzoni è di buona fattura pop<br />

a presa diretta. Non sorprendetevi<br />

dunque se quest’estate vi troverete<br />

a ballare Kid Gloves o Firecracker<br />

sparate a tutto volume dal DJ del<br />

momento. Il divertimento è assicu-<br />

rato. Ma quell’alone di venerazione


Vo n S u d e n f e d - Tr o m a t i c R e f l e x x i o n s ( D o m i n o / S e l f , 1 8 m a g g i o<br />

2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : t e c h n o p u n k + i n t e r m i s s i o n s<br />

L’idea del duo elettronico che chiama a sé il mito post-punk pare la stessa<br />

che infiammò gli animi dei Pan Sonic. In quell’album, dove l’ospite era<br />

Alan Vega e in questo, che vede protagonisti i Mouse On Mars e Mark E.<br />

Smith (The Fall), il platter si sviluppa attorno a ruvide texture e sincopi ra-<br />

dioattive, declami riverberati e putridume a picco in una chirurgia elettrica,<br />

disumanizzante e sacrilega. Un’alienazione e un’angoscia da sballo, pri-<br />

mitiva e post-industriale. Cartoonesca ma senza ammetterlo frontalmente.<br />

L’heaven per le coalizioni post-punk e l’orgasmo per quelle techno-noise<br />

cresciute con il culto dei Throbbing Gristle, 23 Skidoo e Clock DVA.<br />

Eppure in Tromatic Reflexxions, fin dalle prime note, c’è qualcosa di<br />

diverso. Rispetto al fortunato Endless, l’ingrediente allora mancante pare<br />

turn it on<br />

qui venir somministrato. Qual è? Il gusto provato da New York Dolls e Stooges nel riformarsi. La stessa sublima-<br />

zione del marcio che qui si pone come un ponte tra cultura rave e post-punk. La fede, il rito se volete, che Von<br />

Sudenfed ha praticato fondendo l’erbaccia sindacalista di manchesteriana memoria con lo streaming delle radio<br />

pirata anni ’90.<br />

Fin dal – formidabile – robo-James Brown Fledermaus Can’t Get Enough (video warholiano con trans che cantano<br />

al posto di Smith compreso), dove è quasi ovvia la dialettica a distanza con James Murphy, il corpo sacrificato<br />

all’altare della tana delle tigri finnica è torturato con spade funk-dance e arpioni electro-noise, compiacimento<br />

e ironia. Immaginate un Tarantino che mette mano alle scenografie LCD Soundsystem libero dai citazionismi,<br />

quegli allacci di cui Smith non ha bisogno tranne che per questi fatidici Novanta allora bramati e mai conquistati<br />

e ora pasto nudo divorato con religiosa cupidigia. Novanta nei quali i re elettronici Andi Toma e Jan Werner<br />

ritornano a padroneggiare iniettando della sana (e apparente) monotonia punk su tracce (apparentemente)<br />

techno. Un boomerang lanciato ancora (e con successo) in The Rhinohead (con il conseguente target sfottò Nine<br />

Inch Nails) in un sovrapporsi di Kling Klang chitarra/batteria e rasoiate elettro a favore di un ritornello – persino<br />

– commerciale. Sempre in tensione, c’è inoltre Flooded dove Mark parla dall’altoparlante della fabbrica-discote-<br />

ca. “I’m Am The Dj Tonight!” esclama, e i tedeschi a rispondergli con briscole KLF e basso ignorante.<br />

Il resto è spugnoso quanto l’idea stessa del dirt: Family Feud gioca sui bleep e i break, Serious Brainskin rincara<br />

con una confusione di autechrismi hip-hop, The Young The Faceless And The Codes gigiona con la Roland acid-<br />

house in scazzo indie-90. Noia da troppa ortodossia? Ecco servito il remissaggio del singolo Wipe That Sound<br />

(dei marsiani) in una versione da Madchester malata (That Sound Wiped), un country-blues simil Matmos chia-<br />

mato Chicken Yiamas, e un folk con slide guitar che prende il nome di Dearest Friends. Smith la canta sognan-<br />

te e rilassato da non credere (…). Che ne dite, a questo punto, di un Iggy Pop con dei riformati Atari Teenage<br />

Riot? Difficile pensare di meglio della partnership Mouse On Mars e Mark E. Smith. Nati per suonare assieme.<br />

(7.5/10)<br />

E d o a r d o B r i d d a<br />

s e n t i r e aa s c o l t a r e 9


che si è creato intorno ai Voxtrot<br />

speriamo svanisca in fretta perché<br />

per prima cosa, non c’è veramen-<br />

te niente di così speciale nella loro<br />

formula musicale per farli innalzare<br />

sull’altare del pop; secondo, tutto<br />

ciò potrebbe far montare la testa a<br />

questi giovani musicisti rischiando<br />

così di non fargli mai più scrivere<br />

una canzone come Every Night:<br />

esempio perfetto di come costruire<br />

una semplice ma immediata canzo-<br />

ne pop. Sufficiente, ma rimandati al<br />

secondo disco.(6.0/10)<br />

7 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

A n d r e a P r o v i n c i a l i<br />

W i l c o - S k y B l u e S k y ( N o n e s u c h<br />

R e c o r d s , 1 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k r o c k<br />

La spinta propulsiva dei Wilco se-<br />

gna il passo. Non è più tempo di<br />

sperimentazione, di ricerca. E’ tem-<br />

po di raccolta, di harvest, di storie<br />

narrate sotto al front porch cogli<br />

occhi pieni di cielo. Il cielo dolce<br />

e meraviglioso di casa coi margi-<br />

ni perturbati da truppe di nubi mi-<br />

nacciose. Che forse sono solo un<br />

temporale. Forse. Stavolta O’Rou-<br />

rke non c’è ma la sua impronta è<br />

ormai metabolizzata, è una vibra-<br />

zione sotto la pelle, uno spasmo in<br />

agguato. E’ la possibilità/capacità<br />

di rivangare reminiscenze soniche<br />

disparate e applicarle ad un tessu-<br />

to stranamente coeso, stranamente<br />

placido. La cui trama è pur sempre,<br />

mai come oggi, folk rock.<br />

Un folk rock inevitabile: i Wilco<br />

sembrano infatti procedere come<br />

se ciò che si lasciano alle spalle<br />

iniziasse a pesare più del futuro.<br />

Lasciando loro in dote un presente<br />

fatto perlopiù di apprensione, ap-<br />

pena confortato da una brezza di<br />

speranza. Così, questo Sky Blue<br />

Sky somiglia un po’ ad una preghie-<br />

ra, al tentativo di tenersi in piedi,<br />

alla sensazione cordiale del ritor-<br />

no a casa. Un disco che smussa gli<br />

spigoli, elegge a numi tutelari The<br />

Band più che Dylan (l’iniziale Ei-<br />

ther Way), George Harrison prima<br />

che Lennon (Leave Me Like You<br />

Found Me), corroborando la ma-<br />

linconia Big Star con sbrigliatezze<br />

soul di stampo Steely Dan (Impos-<br />

sible Germany) e la crepuscolarità<br />

folk younghiana con certe palpita-<br />

zioni jazzy Matt Ward (la stupenda<br />

title track).<br />

Eppure, nella generale sensazione<br />

di inquietudine pacificata, accado-<br />

no cambi di scena sconcertanti, ap-<br />

parizioni improvvise come rigurgiti<br />

incontenibili dal di dentro, tipo il<br />

glam repentino nel chorus di I Hate<br />

It There, gli spasmi vaudeville che<br />

incendiano lo stomp sghembo di<br />

Shake It Off, quella Walken che fa<br />

boogie acidulo come potrebbe un<br />

Ry Cooder illuminato sulle strisce<br />

di Abbey Road, oppure l’excursus<br />

wave-prog da qualche parte tra Su-<br />

pertramp e Television di You Are<br />

My Face.<br />

Una quiete apparente, insomma.<br />

Chi è rimasto folgorato dalle evo-<br />

luzioni di Yankee Hotel Foxtrot e<br />

A Ghost Is Born, sappia che qui<br />

tutto si svolge ad un livello più pro-<br />

fondo, perciò sembra meno visibile.<br />

E perciò la scrittura torna in primo<br />

piano. Una signora scrittura. Che<br />

ha il coraggio di spendere assolo<br />

incredibilmente opportuni, archi<br />

voltaici tra seventies e post-post-<br />

rock. Come quello in Please Be Pa-<br />

tient With Me, caldo come un amico<br />

che porta da bere. Non meno che<br />

emblematico il doppio finale: prima<br />

una What Light che chiede indica-<br />

zioni a papà Dylan, ma sono indub-<br />

biamente i Wilco a guidare il pick<br />

up sulla strada polverosa d’un folk<br />

sbrigliato. Poi l’angoscia strisciante<br />

di On And On And On, trama dram-<br />

matica di piano e chitarra, l’organo<br />

che sbava irrequieto, una sterzata<br />

teatrale col drumming impetuoso,<br />

l’assolo affilato e gli archi che chiu-<br />

dono il cerchio. Una band cui voler<br />

bene, senza riserve. (7.2/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

W i l d B i l l y C h i l d i s h & M u s i c i a n s<br />

O f T h e B r i t i s h E m p i r e - P u n k<br />

R o c k A t T h e B r i t i s h L e g i o n H a l l<br />

( D a m a g e d G o o d s / A u d i o g l o b e ,<br />

m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : p u n k - r o c k<br />

C’è un solo motivo per cui trovo<br />

raccomandabile l’ascolto di questo<br />

Punk Rock At The British Legion<br />

Hall, ed è: la verità. Un motivo im-<br />

portante, ne converrete. Perché<br />

questa energia veemente e sgra-<br />

ziata - fatta di vibrazioni scabre<br />

e splendide impurità, d’invettive<br />

aspre, beffarde e un po’ disperate<br />

- è la testa d’ariete di chi conside-<br />

ra chitarre, pelli, pianoforte e voce<br />

strumenti necessari a tenersi dritti<br />

sul mondo. Mestando nel torbido<br />

con spasmodica arguzia, con gene-<br />

rosa mancanza di riguardo. Suona-<br />

re con ferino istinto di autoconser-<br />

vazione e resistenza esistenziale è<br />

lo stesso che bere, mangiare, respi-<br />

rare. Quanto alle canzoni, si tratta<br />

perlopiù di camminare sul filo teso<br />

tra gli spasmi errebì dei Sixties in-<br />

glesi ed i relativi rimbombi garage,<br />

usando come bilanciere una indo-<br />

mita punk attitude.<br />

Nello specifico, è tutto un ricicla-<br />

re i benemeriti riff delle You Real-<br />

ly Got Me e delle Psycho, Kinks e<br />

Troggs, Sonics e Small Faces, la<br />

flagranza selvatica da corpo scos-<br />

so (Joe Strummer ’s Grave), i brividi<br />

pericolosi (Date With Doug), quella<br />

roba lì. Salvo poi giocare al nonno<br />

di Jon Spencer in guisa Fleetwod<br />

Mac (Bugger The Buffs), rigurgitan-<br />

do stilettate mod (We 4 Beatles Of<br />

Liverpool Are) ed eruzioni Stooges<br />

(A Few Smart Men, Snack Crack),<br />

per poi chiudere con una title track<br />

che stringe in un abbraccio solo<br />

Beatles, Clash e Cash. Dimentica-


vo: lui è Wild Billy Childhish, clas-<br />

se 60, misconosciuta leggenda del<br />

punk rock britannico, un repertorio<br />

sterminato di album a suo nome e<br />

in almeno sei formazioni diverse.<br />

Inoltre è pittore, poeta, romanziere.<br />

Un tipo pervicacemente fuori dal<br />

coro, per quanto platealmente ado-<br />

rato da calibri come Beck, Kurt Co-<br />

bain, Graham Coxon e Brian Eno.<br />

Ogni tanto su di lui si accendono<br />

i riflettori, giusto per quel quarto<br />

d’ora. (6.6/10)<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

Wo o d e n Wa n d – J a m e s A n d<br />

T h e Q u i e t ( E c s t a t i c P e a c e /<br />

U n i v e r s a l , 1 5 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : c o u n t r y f o l k<br />

“I want it to be an un-weird record”.<br />

Parola di James Thot. Noi lo si di-<br />

ceva da tempo che Wooden Wand<br />

And The Vanishing Voice non era<br />

un ensemble weird-free come gli<br />

altri. L’ancoraggio alle radici folk<br />

troppo pronunciato e la scrittura<br />

troppo evoluta. James Thot, del re-<br />

sto, anche con il suo primo disco<br />

solista aveva fatto capire chiara-<br />

mente dove voleva andare a parare<br />

e il Second Attention di appena un<br />

anno fa, con quella stupenda co-<br />

pertina a fare il verso a Stormbrin-<br />

ger di John e Beverly Martyn era<br />

stato ancora più chiaro. Con James<br />

And The Quiet, Thot tenta ora un<br />

vero e proprio turning-point nella<br />

sua carriera e ha già fatto sapere<br />

che sarà l’ultimo disco dove userà<br />

il moniker Wooden Wand, forse per<br />

l’eccessiva confusione generata in<br />

giornalisti e fan di passaggio, che<br />

lo ha portato a scrivere una lette-<br />

ra infuriata sul suo myspace chia-<br />

rendo tutti i punti oscuri delle sue<br />

diverse attività musicali. E’ assai<br />

probabile che questo sia il disco<br />

dove Wooden Wand smette defini-<br />

tivamente di essere un culto under-<br />

ground e si affaccia in superficie,<br />

supportato in questo dalla longa<br />

mano dei Sonic Youth: Thurston<br />

Moore che distribuisce il disco con<br />

la sua Estatic Peace, Lee Ranaldo<br />

che produce e suona alcune parti di<br />

chitarra e Steve Shelley che met-<br />

te mano alle spartane percussioni.<br />

La musica non potrebbe essere più<br />

distante dai vortici psichedelici dei<br />

Vanishing Voice. Molto più acco-<br />

modante e piacevole, con Thot che<br />

vi riversa un songwriting grasso e<br />

sicuro, colto (anche troppo) e old<br />

fashioned. Jeans sdruciti, stivali e<br />

cappello da cowboy, camicia di fla-<br />

nella e barba incolta, James incarna<br />

sempre più il modello del crooner<br />

country arso dalla caligine deserti-<br />

ca e perso nelle infinite strade blu<br />

americane. Del resto è il primo ad<br />

ammettere come modelli ispiratori<br />

per questo disco, due stelle della<br />

tradizione country americana, come<br />

Kris Kristofferson e Waylon Jen-<br />

nings (quello della mitica Good Old<br />

Boys del telefilm Hazzard!).<br />

Ma sulle canzoni di questo disco si<br />

affacciano anche altri giganti, come<br />

Leonard Cohen (i cori di Jessica<br />

‘Satya Sai’ Thot nell’omaggiante<br />

Delia) e Bob Dylan (il piglio sem-<br />

pre più nasale con cui Thot canta<br />

il trittico Invisibile Children/Blood/<br />

Blessed Damnation). Detto che in<br />

un disco del genere non sentirci<br />

anche Neil Young, Johnny Cash e<br />

Willie Nelson è impossibile (Future<br />

Dream e James & The Quiet da ma-<br />

nuale country, Wired to the Sky a<br />

due passi da una jam tra Neil Young<br />

e Low), James And The Quiet fa<br />

il suo lavoro in maniera egreggia.<br />

Personalmente, avrei preferito che<br />

l’accento southern del singolo The<br />

Pushers fosse sviscerato maggior-<br />

mente, ma forse sarà per la pros-<br />

sima volta. Tanto si è capito che<br />

Wooden Wand vuole essere l’ulti-<br />

mo dei cowboy, che con la chitar-<br />

ra in spalla rivisita la old countries<br />

d’America. (7.0/10)<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


Backyard<br />

A n n e B r i g g s – T h e Ti m e H a s<br />

C o m e ( C B S , 1 9 7 1 - Wa t e r, 2<br />

a p r i l e 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : f o l k<br />

The Time Has Come. Il tempo per<br />

riascoltare Anne Briggs è giunto.<br />

Mancava ancora un classico come<br />

questo nella lista delle ristampe di<br />

british folk anni ’70. Se da un lato<br />

il fascino del vinile impolverato e<br />

scricchiolante è irraggiungibile,<br />

dall’altro il remastering di suoni da-<br />

tati come questi offre nuove possi-<br />

bilità di ascolto a tutta una nuova<br />

generazione, che ha come unica<br />

colpa quella di essere nata dopo<br />

il 1971. Questa la data di pubbli-<br />

cazione del disco in questione. Il<br />

secondo a firma Anne Briggs, ma<br />

a tutti gli effetti il suo primo come<br />

autrice della propria musica, con-<br />

siderato che il primo era compo-<br />

sto per lo più da riarrangiamenti di<br />

traditional. La musica di The Time<br />

Has Come arriva vicinissima, con<br />

umiltà e sentimento, al cuore primi-<br />

genio della passione. Null’altro che<br />

lei, la sua chitarra e un cuore colmo<br />

di nostalgia e bellezza. Una voce<br />

che letteralmente coccola le note<br />

e ti accarezza con dolcezza. E poi<br />

certi dettagli meravigliosi e irripe-<br />

tibili, come quando su Sandman’s<br />

Song, per due secondi sembra al-<br />

lontanarsi dal microfono con la<br />

7 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

voce che quasi vuole scomparire,<br />

o ancora il leggerissimo e straor-<br />

dinario eco che si poggia su Ride,<br />

Ride. Anne rimase volutamente una<br />

figura defilata nella scena musica-<br />

le dell’epoca. Dopo questo disco si<br />

trasferì in Scozia, registrò un altro<br />

lavoro mentre era incinta, ma non<br />

ne fu mai personalmente soddisfat-<br />

ta. Eppure l’eco della suo voce è<br />

stato vasto ed è arrivato fino ad<br />

oggi, e te ne accorgi quando la vedi<br />

citata di continuo dei nuovi eroi del<br />

folk moderno e la risenti nelle pie-<br />

ghe della loro musica. Le note del<br />

booklet di questa ristampa, siglate<br />

da una penna fine come Andy Beta,<br />

iniziano programmaticamente così:<br />

“Quando stringi tra le mani questo<br />

booklet, sappi che nel 21° seco-<br />

lo, stai impugnando il più tenace,<br />

umano e concreto documento della<br />

legenda British folk anni ’60, Anne<br />

Briggs. E quando senti il suo can-<br />

to del cigno datato 1971, The Time<br />

Has Come, ascolta la sua voce nuda<br />

come vento poggiarsi sulle tredici<br />

canzoni, il documento registrato di<br />

una carriera irregolare, allora le tue<br />

mani saranno vuote, e stringeran-<br />

no nient’altro che aria. Anne sarà<br />

fuggita alla cattura ancora una vol-<br />

ta”. Ma il ritratto migliore di Anne lo<br />

diede un anno prima un’altra donna<br />

bellissima che si chiamava Sandy<br />

Denny, nell’unico disco firmato dai<br />

Fotheringay. Così cantava Sandy<br />

in The Pond and the Stream : “An-<br />

nie wanders on the land / She loves<br />

the freedom of the air…”.<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

Durutti Column - Sporadic Three<br />

(Kooky Disc / Goodfellas, 2 aprile<br />

2007)<br />

Genere: new wave<br />

Sporadic Three è, come titolo sug-<br />

gerisce, il terzo volume di una serie<br />

di inediti, outakes e versioni alter-<br />

native che Vini Reilly ha raccolto<br />

nella sua ormai ventennale car-<br />

riera. I primi due della serie sono<br />

da tempo fuori catalogo (come del<br />

resto buona parte della produzione<br />

dei Column: a quando qualche ri-<br />

stampa, cari interessati?!) e per chi<br />

si fosse perso le prercedenti punta-<br />

te - rivolgendoci soprattutto ai fans<br />

appassionati, visto che l’operazio-<br />

ne è su di loro che va a parare -<br />

consigliamo nel frattempo di ripie-<br />

gare su queste “nuove” canzoni.<br />

L’interesse è suscitato dalle note<br />

affisse nel booklet, scoprendo cosi<br />

che il drumming hip-hop di Mama<br />

And Papa nasce anche per un uso<br />

“importante” di ganja, che Birthday<br />

Present è dedicata ad una amica di<br />

famiglia Really, che Loretta è per<br />

la sorella di Vini e New Order Tri-<br />

bute riverisce - indovinate un po’<br />

- la banda di Sumner, Hook e tutta<br />

l’epopea Madchester.<br />

Lo dicemmo in sede di articolo e lo<br />

ribadiamo ora: i Durutti Column che<br />

contano si riducono ai primi tre di-<br />

schi; tutto quello venuto dopo - fat-<br />

ta qualche particolare eccezione - è<br />

pertinenza dei seguaci. Comunque:<br />

rispetto. (7.0/10) P.s. però com’è<br />

bella I B Yours…<br />

Gianni Avella


Elliott Smith - New Moon (Domino<br />

/ Self, 8 maggio 2007)<br />

Genere: indie-pop<br />

Dopo che se n’è andato tragicamen-<br />

te quattro anni fa ogni nuova usci-<br />

ta di Elliott Smith suscita emozioni<br />

contrastanti. C’è senz’altro il rim-<br />

pianto di aver perso un musicista<br />

così talentuoso troppo presto, ma<br />

anche il sollievo di poter riascoltare<br />

la sua voce, sentire le sue canzo-<br />

ni, fosse pure postume o in versioni<br />

più o meno alternative come in que-<br />

sto caso. Perché, al di là di qua-<br />

lunque operazione-nostalgia, resta<br />

la qualità palpabile del songwriting,<br />

di quella voce che arrivava da den-<br />

tro un corpo che sembrava sempre<br />

altrove. Questi due cd raccolgono<br />

materiale registrato a cavallo degli<br />

anni 90 e che era già circolato in<br />

rete fra i fan più accaniti grazie a<br />

un bootleg - Basement II -, anche<br />

se gli archivi a cui sta ancora met-<br />

tendo mano Larry Crane potrebbero<br />

regalare qualche sorpresa in futu-<br />

ro. Queste canzoni pertanto posso-<br />

no considerarsi inedite ma non del<br />

tutto, e appartengono al periodo di<br />

transizione di Smith da folk-singer<br />

in punta di pennaalle prime ambi-<br />

zioni pop che sfoceranno compiu-<br />

tamente quando si accaserà alla<br />

DreamWorks e che erano già affio-<br />

rate in Either/Or. Variazioni mini-<br />

me, b-sides, outtakes che non di-<br />

cono più di quanto già espresso dal<br />

cantautore americano negli album<br />

in studio, ma che appunto ci aprono<br />

uno spiraglio verso il suo mondo,<br />

anche attraverso piccoli dettagli<br />

come i respiri della presa diretta,<br />

delle dita che scorrono precise sul-<br />

le corde. Fra le curiosità possiamo<br />

annoverare una cover di Thirteen<br />

dei Big Star, una paio di rifacimen-<br />

ti di pezzi degli Heatmiser (prece-<br />

dente gruppo di Smith) e una prima<br />

versione di Miss Misery. Ma la rico-<br />

struzione filologica è stata già fatta<br />

a monte da Larry Crane, a noi non<br />

resta altro che perderci nelle melo-<br />

die e nei sussurri di New Disaster,<br />

Angel In The Snow, Going Nowhere<br />

o Seen How Things Are Hard. Elliott<br />

Smith è stato uno dei più grandi per<br />

come ha saputo rielaborare in ver-<br />

sione pop la lezione di Nick Drake,<br />

tenendosi a distanza non solo dalle<br />

urla disperate di Kurt Cobain ma<br />

soprattutto da tanti crooner emuli<br />

di Will Oldham che solo raramen-<br />

te hanno raggiunto questi risulta-<br />

ti. Quando un disco di questo tipo<br />

suona meglio di tanti altri, inediti,<br />

che ci vengono propinati ogni setti-<br />

mana, vuol dire semplicemente che<br />

prima viene la musica e solo dopo<br />

la leggenda. La leggenda da sola<br />

non tiene in piedi se non sé stessa,<br />

a volte neanche, viene tramandata<br />

ma ognuno può aggiungerci qual-<br />

cosa di suo. Coi classici è diverso:<br />

ognuno può vederci qualcosa di dif-<br />

ferente ma la radice da cui nasce<br />

resta ben conficcata nel terreno.<br />

(7.0/10)<br />

R o b e r t o C a n e l l a<br />

Screaming Trees - Clairvoyance<br />

(Hall Of Records / Goodfellas,<br />

maggio 2007)<br />

Genere: psychedelic-rock<br />

Quando gli Alberi Urlanti esordiro-<br />

no nel 1985 con l’ep Other Worlds,<br />

Kurt Cobain - per dirla come dei<br />

nostri conterranei - nemmeno si fa-<br />

ceva le pippe. Seattle era la città di<br />

Sonics e Jimi Hendrix, la Sub Pop<br />

ancora una fanzine e le camicie di<br />

flanella una necessità. Avevano un<br />

cantante gli Screaming Trees (nome<br />

di un famoso distorsore per chitar-<br />

ra), Mark Lanegan, che bramava a<br />

là Iggy Pop e/o Jim Morisson e due<br />

fratelli, Van e Gary Lee Conner,<br />

cresciuti tra garage e psichedelia,<br />

nei solchi di Byrds e Soft Boys.<br />

Allorché pubblicarono, nel 1986, il<br />

full lenght Clairvoyance il mondo<br />

accoglieva Psychocandy dei Jesus<br />

And Mary Chain e Sound Of Con-<br />

fusion dei Spaceman 3. Pochi si<br />

accorsero di quelle dieci canzoni<br />

che suonavano punk e pop insieme<br />

(Clairvoyance), hendrixiane (Oran-<br />

ge Airplane, quasi un apologia<br />

punk di Fire), doorsiane (in Strange<br />

Out Here Lanegan sembra proprio<br />

Morrison), epiche (Seeing And Be-<br />

lieving) e psycho (vedi l’organetto<br />

The Turning).<br />

Tra quei pochi un chitarrista, Greg<br />

Ginn, propose loro di unirsi al ro-<br />

ster Sst, tra un Dinosaur Jr., qual-<br />

che Minutemen e dei Black Flag.<br />

Ci rimasero per tre dischi. Il resto,<br />

come suole dirsi, è storia: i Nirvana,<br />

il Seattle sound, Cameron Crowe<br />

e Singles, film generazionale la<br />

cui soundtrack ospitò il massimo<br />

successo dei nostri, ovvero quella<br />

Nearly Lost You per molti eccitante<br />

quanto Smells Like Teen Spirit. Al-<br />

lora erano su major gli Screaming<br />

Trees, e furono i primi del poi det-<br />

to grunge a firmare per una multi-<br />

nazionale… Una ristampa dovuta.<br />

(7.5/10)<br />

G i a n n i A v e l l a<br />

S e e f e e l – Q u i q u e ( To o P u r e ,<br />

1 9 9 3 / R e d u x E d i t i o n - To o P u r e ,<br />

1 4 m a g g i o 2 0 0 7 )<br />

G e n e r e : a m b i e n t , I D M<br />

Reynolds cita proprio i Seefeel, nel<br />

suo ormai celeberrimo articolo sul<br />

post-rock. “Come chiamare questo<br />

territorio? – riflette – alcuni dei<br />

suoi occupanti, I Seefeel per esem-<br />

pio, potrebbero essere etichettati<br />

come ambient dubbato; altri, Bark<br />

Psychosis e Papa Sprain, potreb-<br />

bero essere chiamati ‘art rock’.<br />

‘Avant rock’ potrebbe bastare, ma<br />

è troppo indicativo di nomi che si<br />

comportano in maniera altalenan-<br />

te e di una penuria di amore per<br />

la melodia, che non è necessaria-<br />

mente il caso. Forse l’unico termi-<br />

ni spendibile e abbastanza preciso<br />

da comprendere tutta la scena è<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


‘post-rock’”. I Seefeel come ante-<br />

signani del post-rock. E in effetti<br />

ci sta se si è disposti a ragionare<br />

sull’eredità lasciata dai londinesi.<br />

Lo scenario di riferimento è quello<br />

della Too Pure dei primi ’90. Eti-<br />

chetta che distribuiva anche Pram,<br />

Moonshake, Stereolab. Sempre a<br />

cavallo tra rock ed elettronica. Tra<br />

tangibile ed evocazione del tangi-<br />

bile. Come i fantasmi di Kairo. Fi-<br />

gure che si poggiano su una parete<br />

e quando le osservi da vicino sono<br />

solo ombre. I Seefeel esordivano<br />

con questo Quique nel 1993 dan-<br />

do a Reynolds il perfetto esempio<br />

di gruppo rock che non vuole più<br />

suonare il rock, ma solo l’ombra<br />

del rock. La chitarra che scioglie<br />

il riff in mille celestiali riverberi,<br />

le ritmiche che si mimetizzano in<br />

una giocosa dance robotica o in<br />

un mantrico tic toc da metronomo<br />

dub. Le voci sempre più come de-<br />

gli ectoplasmi prima di scomparire<br />

del tutto. Lo riascolti Quique e ti<br />

accorgi di come faccia palesemen-<br />

te da ponte tra la wave britanni-<br />

ca degli ’80 e il post-rock dei ’90.<br />

Di come conservi l’idioma alterato<br />

delle chitarre trattate stile Kevin<br />

Shields e Robin Guthrie e di come<br />

anticipi i suoni che arriveranno di<br />

lì a poco. Too Pure ristampa ora<br />

in doppio CD, rimasterizzando il<br />

disco originale e aggiungendo ra-<br />

rità, inediti e versioni remix nel se-<br />

condo disco. Un’ottima occasione<br />

per ritrovare un lavoro abbastanza<br />

fondamentale.<br />

7 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

A n t o n e l l o C o m u n a l e<br />

Sly & The Family Stone - There’s<br />

A Riot Goin’ On (Epic, 1971,<br />

ristampa Sony, 24 aprile 2007)<br />

Genere: funk<br />

1969, il palco è quello di Woo-<br />

dstock: Janis Joplin lascia la<br />

scena sudata come suo solito.<br />

Il torrenziale blues della bianca<br />

più nera d’America ha scaldato<br />

l’ambiente. I roadie preparano il<br />

palcoscenico al prossimo set. La<br />

tenebra cala e Sly & The Fami-<br />

ly Stone attaccano lo show. Lui,<br />

Sly, sembra un alieno: collare<br />

color oro e mise sgargiante. L’oc-<br />

chiale roseo nasconde appena lo<br />

sguardo. D ance To The Music c’è,<br />

Stand - title track del disco prima-<br />

verile - pure. Un’estate trionfale.<br />

Nel Natale dello stesso anno, a<br />

ridosso della sesta stagione del<br />

conflitto vietnamita, Sly e famiglia<br />

pubblicano Thank You (Falettinme<br />

Be Mice Elf Agin). È un singolo<br />

di cinque-minuti-cinque la cui li-<br />

nea di basso, dal pollice di Larry<br />

Graham, è un sisma ritmico che<br />

apre al nuovo ciclo della musica<br />

nera. L’antefatto dei nuovi Stone<br />

nello slapping che - anche secon-<br />

do gli studiosi del genere - cam-<br />

bierà il corso del funk.<br />

Da San Francisco si muove verso<br />

Los Angeles, nella città degli an-<br />

geli. Siamo nel 1970 e Sly cambia<br />

pelle: lo sguardo diviene severo e<br />

ragiona da despota. Si rinchiude<br />

in uno studio di Bel Air, all’interno<br />

di una villa affittata ad una cifra<br />

smisurata, e decide che d’ora in<br />

avanti si ragiona come vuole lui.<br />

Quando vuole lui. È viziato dalla<br />

droga, cocaina e pcp (un alluci-<br />

nogeno noto anche come polvere<br />

d’angelo), e le mura della nuova<br />

residenza sono spettatrici di un<br />

andirivieni tra sconosciuti e ami-<br />

ci, pusher e musicisti. Una casa<br />

aperta che ospiterà anche - cosi<br />

narrano le varie leggende - un<br />

certo Miles Davis…<br />

C’è ressa e agitazione, le regi-<br />

strazioni ne risentono e durano<br />

un anno. Sly sovraincide sessione<br />

su sessione e il suono si sporca,<br />

ma si annusa il capolavoro. Anche<br />

i guest Billy Preston e Ike Tur-<br />

ner non hanno voce in capitolo,<br />

limitandosi ad eseguire gli ordi-<br />

ni. Finalmente si termina: la front<br />

cover, raffigurante una bandiera<br />

americana con dei fiori anziché le<br />

solite stelle, non ha alcuna sigla,<br />

neanche quella del gruppo; ed il<br />

titolo, dopo i provvisori The In-<br />

credibile And The Unpredictable<br />

Sly & The Family Stone e Africa<br />

Talks To You, risolve in There’s<br />

A Riot Goin’ On, imperativo rivol-<br />

to al What’s Going On di Marvin<br />

Gaye.<br />

Corre il decennio dei Seventies<br />

ed il funk allestisce la sua furente<br />

stagione: nei soli mesi del 1971<br />

si ascoltano Maggot Brain dei<br />

Funkadelic, Shaft di Isaac Hayes<br />

e l’anzidetto lavoro di Gaye. Sly<br />

& The Family Stone pubblicano<br />

There’s A Riot Goin’ On quando<br />

tutto sembra stato scritto. Sem-<br />

bra. Il disco è scuro, intimo nei<br />

contenuti (il rapporto con la droga<br />

in Luv N’ Haight, i problemi fami-<br />

liari di Family Affair) e avveniri-<br />

stico negli arrangiamenti (la drum<br />

machine della stessa Family Af-<br />

fair, la lounge di Runnin’ Away),<br />

indolente nei soul ( Time) e dopato<br />

nei funk (Brave And Strong). Ci si<br />

riaggancia al passato (la ripresa,<br />

narcotizzata per quasi otto minuti,<br />

di Thank You Falettinme Be M ice<br />

Elf Agin rieditata come Thank You<br />

For Talkin’ To Me Africa) e si av-<br />

verte la fine di un era (eloquenti<br />

le parole di Africa Talks To You<br />

“The Asphalt Jungle” che salutano<br />

le buone vibrazioni dei 60). Ora<br />

si, tutto è stato scritto.<br />

Billboard lo accoglie al primo po-<br />

sto, ma la famiglia si sfalda: dopo<br />

la fuoriuscita del batterista Greg<br />

D’Errico, avvenuta durante le<br />

session di There’s A Riot Goin’<br />

On, anche Larry Graham (uno che<br />

stava a Sly Stone come Bootsy<br />

Collins stava a James Brown)<br />

abbandona la cricca. La nuova<br />

sezione ritmica produce l’ottimo<br />

Fresh (Epic, giugno 1973) ma<br />

d’ora in avanti sarà più cronaca<br />

nera - vedi il clamoroso arresto<br />

per droga del 1981 in compagnia<br />

di George Clinton - che ottima<br />

musica. Più cocaina che funk.<br />

Ok, There’s A Riot Goin’ On è di<br />

nuovo nei negozi, in edizione li-<br />

mitata e allungato con quattro bo-<br />

nus, tre inediti strumentali - rare<br />

groove che faranno la gioia di Dj<br />

Shadow e Madlib - e una versio-<br />

ne mono di Runnin’ Away. Fos-<br />

si in voi non aspetterei domani.<br />

( 8.0/10)<br />

Gianni Avella


Tim Buckley - My Fleeting House<br />

DVD (Manifesto, aprile 2007)<br />

My Fleeting House rende final-<br />

mente accessibili, al di fuori della<br />

ristrettissima cerchia di appassio-<br />

nati collezionisti, rare testimonian-<br />

ze video di Tim Buckley, protagoni-<br />

sta dal 1967 al 1974 di sporadiche<br />

apparizioni TV promozionali; alcu-<br />

ni dei filmati si potevano finora ve-<br />

dere in streaming sul sito ufficiale<br />

timbuckley.com., mentre non si co-<br />

nosce l’esistenza di riprese video<br />

integrali di suoi concerti.<br />

Il DVD è frutto del lavoro del pro-<br />

duttore Rick Fuller, il quale ha<br />

messo insieme ogni spezzone a di-<br />

sposizione, accompagnandolo con<br />

il prezioso e filologico commento<br />

del chitarrista Lee Underwood,<br />

dell’amico e collaboratore Larry<br />

Beckett e del biografo ufficiale<br />

David Browne, autore del libro<br />

Dream Brother, bio incrociata dei<br />

Buckley padre e figlio.<br />

Intervallati da illuminanti estratti di<br />

interviste inedite dell’epoca (Steve<br />

Allen Show del ’69 e WIFT’s The<br />

Show del ‘70), in cui Buckley si<br />

esprime su temi allora caldissimi,<br />

come la guerra in Vietnam, ecco<br />

le testimonianze tv, come l’ormai<br />

celebre apparizione al Monkees<br />

Tv Show del ’67 in cui Tim cantò<br />

una primitiva versione di Song To<br />

The Siren, le splendide performan-<br />

ces alla tv europea del 1968 in trio<br />

con Lee Underwood e Carter CC<br />

Collins (periodo Happy Sad), gli<br />

estratti della fase jazz insieme alla<br />

Starsailor Band, fino alla Dolphins<br />

di Fred Neil all’Old Grey Whistle<br />

Test del 1974, nel tardo periodo<br />

“normalizzato” della sua straordi-<br />

naria quanto sfortunata carriera.<br />

Finalmente dopo anni si vede Tim<br />

muoversi, parlare, cantare ed esi-<br />

birsi live, tutte cose su cui si è<br />

sempre favoleggiato, ma che in<br />

pochissimi avevano avuto modo di<br />

vedere. Un percorso fulminante il<br />

suo - che come si sa non ha avu-<br />

to riscontri in un vasto pubblico -,<br />

durante il quale ha abbracciato di-<br />

versi stili, dal folk-rock degli inizi<br />

alla fase avant-jazz fino ai dischi<br />

“rock” con cui cercava di avere<br />

maggior fortuna commerciale. E<br />

che le testimonianze del DVD aiu-<br />

tano a decifrare meglio, chiudendo<br />

il cerchio su una parabola breve<br />

ma fondamentale, che sotterranea-<br />

mente avrebbe avuto un culto de-<br />

voto negli anni, poi ratificato con il<br />

successo del figlio Jeff, che aiutò<br />

anche la riscoperta del padre.<br />

Concepito come un documenta-<br />

rio crono-biografico, My Fleeting<br />

House segue, scandita dalle varie<br />

performance, la carriera di Buckley,<br />

con l’aiuto dei preziosi commen-<br />

ti, da Underwood, il più tecnico, a<br />

Beckett, che fornisce le testimo-<br />

nianze più toccanti, fino al biogra-<br />

fo Browne, il più puntuale. Unica<br />

pecca la mancanza di sottotitoli,<br />

che ne avrebbe reso più agevole<br />

la fruizione. Di immenso valore le<br />

testimonianze risalenti al periodo<br />

1970 di Starsailor, ispirato dal ge-<br />

nio di Miles Davis, con I Woke Up,<br />

Come Here Woman in una versione<br />

alternativa e l’inedita Venice Bea-<br />

ch (Music Boats By The Bay), epi-<br />

sodi rivelatori su quanto si fosse<br />

ormai spinto al di là abbracciando<br />

l’improvvisazione del jazz e del-<br />

la musica contemporanea, anche<br />

vocalmente. Scelte artistiche che<br />

poi avrebbe duramente pagato, ma<br />

questa è un’altra storia.<br />

Teresa Greco<br />

Xela - For Frosty Mornings And<br />

Summer Nights (Type / Wide, 2<br />

marzo 2007)<br />

Genere: indietronica<br />

Sette anni fa, un giovane e squat-<br />

trinato John Twells si divideva tra<br />

i corsi d’arte all’Università e l’atti-<br />

vità di venditore d’auto, trovando<br />

anche il tempo di concepire picco-<br />

li congegni di musica elettronica,<br />

secondo il gusto dell’epoca. Quindi<br />

omaggi a piene mani tanto all’osan-<br />

nata Warp, quanto alla nascente<br />

elettronica in odor di shoegaze che<br />

tramava intorno alla Morr Music. È<br />

in questo contesto che nasceva-<br />

no le composizioni di For Frosty<br />

Mornings And Summer Nights, il<br />

primo disco di Xela, che ora ci vie-<br />

ne presentato in versione riveduta<br />

e corretta, con una masterizzazio-<br />

ne nuova di zecca, fatta presso i<br />

prestigiosi Dubplates & Mastering<br />

Studios di Berlino.<br />

Da allora all’ultimo The Dead Sea,<br />

molte cose sono cambiate. Twells<br />

è passato prima per gli Yasume,<br />

ha poi inserito parti sempre più in-<br />

sistite di chitarra nel successivo<br />

Tangled Wool ed è infine approda-<br />

to alla complessa tessitura elettro<br />

folk del suo ultimo lavoro. Ma qui,<br />

agli esordi, ci muoviamo ancora<br />

nel più classico e manierato regi-<br />

stro da IDM bagnata di ambient.<br />

Le ombre di Boards Of Canada e<br />

Aphex Twin si poggiano evidenti<br />

su brani come Afraid Of Monsters,<br />

Japanese Whispers e Impulsive<br />

Behaviour. Non mancano timidi ac-<br />

centi di elettro shoegaze secondo i<br />

dettami che la Morr Music avrebbe<br />

divulgato di lì a breve con il disco<br />

tributo agli Slowdive e con gente<br />

dallo spirito affine come Styro-<br />

foam e Ulrich Snauss. Due belle<br />

bonus track incluse nella ristam-<br />

pa, A Glance e Danse Macabre.<br />

In conclusione, un buon amarcord<br />

dei bei tempi che furono, acerbi ed<br />

ingenui, ma pieni di una passione<br />

evidente. (6.8/10)<br />

Antonello Comunale<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7


Strangles<br />

Dal vivo<br />

John Foxx - Milano, Transilvania<br />

(14 aprile 2007)<br />

Un balzo spazio-temporale mica da<br />

poco. In un apparentemente tran-<br />

quillo sabato sera milanese ci si<br />

ritrova - nel non pienissimo Tran-<br />

silvania - catapultati in una terra di<br />

mezzo, i cui confini risultano labili.<br />

Circondati in maggioranza da una<br />

fauna di replicanti new wave più o<br />

meno giovani assistiamo all’appari-<br />

zione di John Foxx, non quello am-<br />

bient e riflessivo degli ultimi tempi,<br />

ma decisamente quello tra post-<br />

punk e synth-pop degli Ultravox!<br />

e della prima parte della carriera<br />

solista. Un excursus che dalle ori-<br />

gini procede per i classici di Meta-<br />

matic (a discapito di The Garden,<br />

ed è un peccato…), inframezzati<br />

dal presente e dal passato prossi-<br />

mo dell’artista. Accompagnato dal<br />

fido Louis Gordon - che offre uno<br />

show personale agitandosi come un<br />

folletto -, con il quale ha realizzato<br />

negli ultimi anni quattro dischi tra<br />

elettro-rock e synth pop, il Nostro<br />

appare in gran forma, anche vocal-<br />

mente e offre più di un’ora e mezza<br />

di concerto serratissimo. Entrambi<br />

7 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

alle tastiere ed effetti elettronici,<br />

vengono circondati da nuvole di<br />

fumo che creano un’atmosfera di al-<br />

gida impenetrabilità, sortendo uno<br />

strano effetto nel contrasto con il<br />

calore delle melodie e i racconti di<br />

quotidiana alienazione metropolita-<br />

na. Il battito metallico-metamatico<br />

si manifesta sin da quasi subito, e<br />

come resistere a una scaletta che<br />

presenta, in successiva sequenza,<br />

classici quali He’s A Liquid, Metal<br />

Beat, Plaza, Underpass? Per non<br />

parlare di reminescenze ultravoxia-<br />

ne (The Man Who Dies Everyday,<br />

Slow Motion, Hiroshima Mon Amour,<br />

My Sex), a cui assistiamo incredu-<br />

li di cotanto amarcord. E fortunati<br />

di aver potuto esserci. In mezzo,<br />

i pezzi più o meno recenti (Crash<br />

And Burn, From Trash) anche in<br />

versione allungata, che pur non sfi-<br />

gurando appaiono per forza di cose<br />

più sfumati dei classici di Foxx. Il<br />

quale sembra godere parecchio per<br />

averci offerto più di uno sguardo al<br />

suo passato. Assisteremo, magari<br />

in un futuro non lontano, a un’altra<br />

reunion eccellente? Chissà.<br />

Teresa Greco<br />

Maxïmo Park + Settlefish –<br />

Rolling Stone, Milano (16 aprile<br />

2007)<br />

“Questo è il Rolling Stone, no? È<br />

qui che abbiamo suonato l’ultima<br />

volta in Italia. Chi c’era di voi?”.<br />

Dal folto pubblico si alzano sol-<br />

tanto poche mani, per lo più tra le<br />

prime file. Sorride Paul Smith, si<br />

rivolge al chitarrista e fa: “Beh, se<br />

non altro vuol dire che stavolta ab-<br />

biamo portato un sacco di nuova<br />

gente!”, per poi buttarsi a capofit-<br />

to in Apply Some Pressure. Giusto<br />

sotto il palco, la security non ha<br />

vita facile: il crowd surfing è sel-<br />

vaggio, ed è tutto un saliscendi di<br />

ragazzi e ragazze tirati via dalla<br />

calca. Neanche fossimo nei primi<br />

90, mannaggia. Pare proprio che<br />

con Our Earthly Pleasures i Ma-<br />

xïmo Park abbiano fatto l’atteso<br />

botto pure da noi, proprio come<br />

i Klaxons e gli Arctic Monkeys,<br />

che nelle scorse settimane hanno<br />

calcato lo stesso palco milanese,<br />

con lo stesso effetto. Il disco non è<br />

uscito da molto, eppure sono tanti<br />

a conoscere già i testi a memoria<br />

e a cantarli insieme allo stiloso<br />

frontman, bombetta ben calcata<br />

sulla fronte, camicia attillata (da


metà set in poi incollata dal sudo-<br />

re) e lucidissime scarpe nere.<br />

Che sia hype o vera gloria, sta suc-<br />

cedendo qui e adesso, e se la gen-<br />

te accorsa è tanta non può essere<br />

soltanto perché stasera si entra<br />

gratis (è la seconda delle Brand<br />

New Nights di MTV); di sicuro,<br />

una simile esposizione ha giovato<br />

ai “nostri” Settlefish, autori di un<br />

set d’apertura grintoso ed efficace<br />

all’insegna del loro indie pop-rock<br />

anglofono. Anche se molte delle<br />

canzoni non sono note neanche<br />

agli aficionados - faranno parte<br />

del secondo album, in uscita pre-<br />

sumibilmente in ottobre -, il feeling<br />

è quello giusto, e la sensazione<br />

che Jonathan Clancy e compagni<br />

ci lasciano è che quel sano spiri-<br />

to che fu dei Pavement è tutt’altro<br />

che scomparso, e che dei Novanta<br />

non avremo mai abbastanza. Tor-<br />

nando agli headliners, va detto che<br />

se l’impatto (emotivo e sonoro) sul<br />

pubblico è indubbio, spiace un po’<br />

constatare che i diversi umori di<br />

cui si nutrono le nuove canzoni sul<br />

palco vengano omologati in un co-<br />

stante assalto wave punk a base<br />

di chitarra, con meno tastiera e<br />

meno propensione al romanticismo<br />

(problemi dovuti all’impostazione<br />

dello show, ma anche a un’acusti-<br />

ca non ottimale). Due elementi ben<br />

in evidenza in Our Earthly Plea-<br />

sures (qui solo accennati con By<br />

The Monument e Nose Bleeding,<br />

purtroppo prive d’atmosfera), che<br />

viene tuttavia saccheggiato in lun-<br />

go e in largo, da Girls Who Play<br />

Guitars a Parisian Skies passando<br />

per Karaoke Plays, Russian Lite-<br />

rature e l’ovvia Our Velocity; il de-<br />

butto non è da meno, con All Over<br />

The Shop, Graffiti e soprattutto<br />

Going Missing, che dà a Paul Smi-<br />

th l’opportunità di chiudere il con-<br />

certo col verso: “I sleep with my<br />

arms around my chest and I dream<br />

of you with someone else”. Ecco-<br />

lo qui, l’emo-Morrissey dei nostri<br />

tempi.<br />

Antonio Puglia<br />

Stranglers - Colle di Val d’Elsa<br />

(SI) (16 marzo 2007)<br />

Sull’onda della nuova onda della<br />

Nuova Onda, nonché di un rinnova-<br />

to interesse generale nei loro con-<br />

fronti, gli Stranglers tornano a farsi<br />

vedere in Italia dopo un po’. Il pub-<br />

blico è composto da giovani <strong>neo</strong>-<br />

fan curiosi della leggenda, ma an-<br />

che di persone che probabilmente<br />

in Italia li hanno visti già nel 1980.<br />

Sul palco la situazione è la stessa:<br />

accanto ai veterani cinquantenni<br />

Burnell e Greenfield troviamo Baz<br />

Warne, omone della working class<br />

che non possiede il look da genti-<br />

luomo trucido che aveva Cornwell<br />

ma la cui voce segue bene le finez-<br />

ze e i cambiamenti di registro del<br />

predecessore, e alla batteria “not<br />

a big man as usual”, come spie-<br />

ga Burnell. Il sessantottenne Jet<br />

Black, infatti, è in convalescenza<br />

da un’infezione polmonare che ha<br />

interessato anche il cuore, ed è<br />

temporaneamente rimpiazzato dal<br />

suo tecnico di palco Ian Barnard,<br />

23 anni, che non sbaglia uno stac-<br />

co e pesta come un dannato.<br />

Già perché gli Stranglers che ve-<br />

diamo questa sera sono quelli più<br />

pestoni e aggressivi, “prima manie-<br />

ra” ancor più che negli ultimi due<br />

album. La scaletta attinge princi-<br />

palmente ai primi tre album (perfi-<br />

no Burning Up Time, per dire) e al-<br />

l’ultimo, e anche quando va su The<br />

Raven ne sceglie i brani più vicini<br />

a questo filone. Eccettuati i reggae<br />

bastardi di Nice’n’Sleazy e Pea-<br />

ches, le finezze di Golden Brown,<br />

il pop di Always The Sun, gli assoli<br />

di Walk On By e il country di I Hate<br />

You (dedicata, dicono loro, a “the<br />

real Man in Black” Johnny Cash:<br />

musicalmente è vero, ma si fan-<br />

no ipotesi sul destinatario di ver-<br />

si “gentili” quali “I hate you now, I<br />

always will, and when you’re dead<br />

I’ll hate you still”...), siamo intorno<br />

al ’78, pur fresco e grintoso.<br />

E se si parla di Stranglers “vecchi”,<br />

la serata non poteva andare liscia,<br />

qualcosa doveva succedere. Infatti:<br />

Burnell a inizio concerto sembrava<br />

un ex-irrequieto, felice di suonare<br />

e sorpreso, quasi imbarazzato da<br />

tanto pubblico e da tanto affetto:<br />

poi a un certo punto riesce fuori<br />

il fantasma del turbolento, quando<br />

durante Summat Outanowt vede un<br />

ragazzo che filma il concerto ap-<br />

poggiato a una spia. Prima tenta di<br />

colpirlo con un calcio (tra l’altro, è<br />

cintura nera di karate) poi, mentre<br />

i roadies prima apostrofano il ra-<br />

gazzo (che evitato il calcio aveva<br />

ricominciato a filmare) con svariati<br />

“fuck off” poi gli si assembrano in-<br />

torno e lo allontanano, JJ salta giù<br />

dal palco senza nemmeno sfilarsi<br />

il basso e si unisce al crocchio, col<br />

suo amplificatore che ci restitui-<br />

sce una precisa mappa sonora dei<br />

suoi movimenti e della schiena del<br />

roadie, prima che il cavo si stacchi<br />

e il resto del gruppo si accorga di<br />

quanto successo e smetta di suo-<br />

nare. Poi vedo uno dei roadies con<br />

in mano la videocamera mentre<br />

cerca di togliere la cassetta (spero<br />

che almeno la camera gliel’abbia-<br />

no restituita), e il gruppo si scusa,<br />

ma dicendo “Don’t do it anymo-<br />

re”. Più tardi, colpito dalla luce di<br />

un flash, Burnell ha una reazione<br />

più normale ma non meno decisa:<br />

guarda negli occhi lo spettatore<br />

e scuote la testa a dire “No, per<br />

favore”. Evidentemente gli dà pro-<br />

prio fastidio...<br />

Insomma, a parte l’episodio (ma<br />

è una rarità, ormai i loro concerti<br />

sono tranquilli da decenni) la pre-<br />

miata ditta Stranglers va avanti,<br />

con rinnovata vitalità e nuove leve<br />

pronte a raccogliere il testimone. E<br />

se un futuro i gruppi fossero come<br />

le compagnie teatrali, col nome<br />

che resta e le generazioni che si<br />

succedono?<br />

Giulio Pasquali<br />

Faust - Teatro Galleria Toledo,<br />

Napoli (5 aprile 2007), Centro<br />

Stabile di Cultura, San Vito di<br />

Leguzzano (VI) (8 aprile 2007)<br />

Il contesto performativo, soprat-<br />

tutto quando si tratta di band ver-<br />

satili e letteralmente “totali” come<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7 7


Faust. Fot di Taxi so far<br />

i Faust, può davvero fare la diffe-<br />

renza. E così è stato. Le date di Vi-<br />

cenza e Napoli, seppure a distan-<br />

za di soli tre giorni l’una dall’altra,<br />

hanno rappresentato due diversi<br />

volti della band krauta, alle pre-<br />

se con spazi e pubblico quasi agli<br />

antipodi e si sono rivelate un’oc-<br />

casione imperdibile per scrutare il<br />

trio franco-tedesco da più punti di<br />

vista, nessuno dei quali trascura-<br />

bile.<br />

A Vicenza, l’impianto faustiano si<br />

impone, occupando tutto lo spazio<br />

sul palco: una batteria da gigante<br />

- quale Zappi è - e oggetti da robi-<br />

vecchi disseminati ovunque, dalla<br />

trombetta da stadio all’aspirapol-<br />

vere; non si capisce dove possano<br />

inserirsi, fisicamente, le autorità<br />

kraute.<br />

Aprono la serata i Casa, che, per<br />

non perturbare la preparazione, si<br />

posizionano nel mezzo della sala<br />

(mentre il pubblico retrocede in<br />

zona bar) e riescono a far ottima-<br />

mente ventilare l’aura di perfor-<br />

mance del concerto che li seguirà.<br />

Quando è il momento dei Faust, il<br />

tappeto violinistico di Outside The<br />

Dream Syndicate è forse l’unico<br />

evento del concerto che richiama<br />

la maestosità del krautrock; la se-<br />

riosità è interrotta e mai più ripresa<br />

dall’ingresso di Peron e Diermaier<br />

con Cambuzat, che ironizzano sul-<br />

la propria identità, si presentano<br />

al pubblico come un gruppo tede-<br />

sco che, beh, fa krautrock, e non<br />

possono che iniziare a suonare<br />

7 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

con Krautrock, nonché finire con<br />

It’s A Rainy Day (Sunshine Girl).<br />

Nel mezzo, la potenza ritmica del<br />

gruppo battaglia con l’anima da<br />

vaudeville della formazione; Peron,<br />

anima teatrante, stira (con tanto di<br />

asse) la t-shirt di un astante, in-<br />

sistendo sulla seriosità dell’opera-<br />

zione domestica, mentre sottolinea<br />

che la musica, a quanto gli risulta,<br />

non è seria.<br />

Ai punti, però, vincono le struttu-<br />

re ritmiche; gli strumenti possono<br />

commutare (Peron, a un certo pun-<br />

to, non funzionando una chitarra<br />

per un riff motoristico dei suoi, de-<br />

cide di ripiegare sul basso senza<br />

che la cosa causi problemi di pro-<br />

grammazione), ma è il gentle giant<br />

Diermaier il protagonista musicale.<br />

Gli oggetti vengono raccolti, suo-<br />

nati, rigettati nella mischia. L’uni-<br />

ca fissità concessa è batteristica.<br />

Non che i Faust siano pura strut-<br />

turazione ritmica, certo, ma forse<br />

è questo che oggi li rende ancora<br />

environment, qui al Centro Stabile<br />

di Cultura.<br />

Persa la dimensione intima sul pal-<br />

co, seppur piccolo, del Teatro Gal-<br />

leria Toledo, i Faust non sembrano<br />

però abbandonare, neanche a Na-<br />

poli, l’attitudine teatrale che li ca-<br />

ratterizza, semmai esaltandone la<br />

vena brechtiana nel contesto che<br />

più gli è proprio.<br />

Qualcuno, dal pubblico, rigorosa-<br />

mente seduto, non può evitare di<br />

muoversi un po’ battendo il ritmo<br />

dei classici krauti, ma è la dimen-<br />

sione psichedelica a pervadere<br />

l’aria con maggior forza. Il reper-<br />

torio è lo stesso di Vicenza (non la<br />

scaletta, che a Napoli prevedeva<br />

Krautrock e altri brani di Faust IV<br />

come bis conclusivi), ma è la per-<br />

cezione della musica che cambia.<br />

Il teatro è come ipnotizzato sia dai<br />

suoni che dagli sketch teatrali di<br />

Peron, anche in questo caso alla<br />

prese con il ferro da stiro e l’afori-<br />

sma “there’s nothing serious about<br />

music”.<br />

Certo, non tutto ciò che fanno i<br />

Faust dimostra di adattarsi perfet-<br />

tamente al teatro: si diffonde un po’<br />

di panico tra le prime file quando<br />

Peron, sventolando una sega elet-<br />

trica come fosse una bandiera, de-<br />

cide di fare un giretto davanti alla<br />

platea. Ma la paura passa presto.<br />

Nonostante il piacere di trovarsi di<br />

fronte il mito-Faust, sorge spon-<br />

ta<strong>neo</strong>, quasi come una necessi-<br />

tà, all’uscita, chiedersi che sen-<br />

so abbia un concerto della band<br />

franco-tedesca a quarant’anni da-<br />

gli esordi e cosa riesce ancora a<br />

stupire di loro. La risposta? Umil-<br />

tà, ironia, una visione totalmente<br />

“aperta” della musica (intesa sia<br />

come ricerca che come spettacolo)<br />

e l’energia e l’entusiasmo di una<br />

band giovane giovane. Se vi sem-<br />

bra poco...<br />

Daniele Folero e Gaspare Caliri


(Gi)Ant Steps#6<br />

Come giocare con ritmo e improv-<br />

visazione uscendone puliti: Dave<br />

Brubeck e il suo Time Out, ideale<br />

punto di incontro tra musica afroa-<br />

mericana e tradizione colta occi-<br />

dentale.<br />

The Dave Brubeck Quartet - Time<br />

Out (Columbia,1959)<br />

Genere: jazz<br />

Av r ò a v u t o o p i ù o m e n o o t t o a n n i .<br />

P r o b a b i l m e n t e q u a l c u n o i n p i ù .<br />

A l l a r a d i o , s u u n o d e i c a n a l i n a -<br />

z i o n a l i , p a s s a v a u n a t r a s m i s s i o -<br />

n e d i c u i n o n r i c o r d o n é t i t o l o n e<br />

c o n t e n u t i , m a c h e a v e v a l a c a p a -<br />

c i t à d i c a t a l i z z a r e l ’ a t t e n z i o n e d i<br />

u n b a m b i n o a n c o r a a l l ’ o s c u r o d i<br />

t u t t o , g r a z i e a l l a s i g l a d i a p e r t u -<br />

r a . Tu t t o p a r t i v a c o n d u e a c c o r d i<br />

d i p i a n o f o r t e r i p e t u t i a o l t r a n z a<br />

s u u n t e m p o z o p p i c a n t e , i n t r o -<br />

d u z i o n e e a c c o m p a g n a m e n t o p e r<br />

l ’ a v a n z a t a d i u n s a x d a l s u o n o<br />

t a n t o i n t e n s o d a m u o v e r e a l p i a n -<br />

t o . U n r i ff s o t t i l e , n o t t u r n o , e r o -<br />

t i c o , a p p e n a s u s s u r r a t o m a d a l l a<br />

p o t e n z a i n a u d i t a .<br />

D o v e v a n o p a s s a r e q u a s i v e n t ’ a n -<br />

n i p r i m a c h e s c o p r i s s i c h e q u e l -<br />

l a s u c c e s s i o n e d i n o t e - c h i s s à<br />

c o m e , a n c o r a l ì d o v e l ’ a v e v o l a -<br />

s c i a t a - a l t r o n o n e r a c h e l a Ta k e<br />

F i v e d i D a v e B r u b e c k , m u s i c i s t a<br />

a m e r i c a n o d a l l ’ a s p e t t o o r d i n a r i o<br />

e , p e r g i u n t a , b i a n c o . U n o c h e<br />

q u e l p e z z o - b o n t à s u a - l o a v e v a<br />

t r a d o t t o i n u n s e m p l i c e e s e r c i z i o<br />

d i s t i l e , u n m o d o c o m e u n a l t r o<br />

p e r a p p l i c a r e a l j a z z i l f a s c i n o<br />

o b l i q u o d e l l e r i t m i c h e d i s p a r i e<br />

r i c a v a r n e m o t i v o d i i m p r o v v i s a -<br />

z i o n e . A d i r e i l v e r o t u t t o Ti m e<br />

O u t - o p e r a i n c u i r i e n t r a a n c h e<br />

i l b r a n o d i c u i s i d i c e v a - m u o -<br />

v e i n q u e s t o s e n s o , a p a r t i r e d a l<br />

t i t o l o f i n o a d a r r i v a r e a i s e t t e<br />

b r a n i c h e c o m p o n g o n o l a s c a -<br />

l e t t a : u n a s u c c e s s i o n e d i r o n d ò ,<br />

v a l z e r, p a s s a c a g l i a , i m p r e s s i n e i<br />

f r a s e g g i s w i n g a n t i d e i m u s i c i s t i e<br />

t r a s f i g u r a t i i n u n i d e a l e p u n t o d i<br />

i n c o n t r o t r a m u s i c a a f r o a m e r i c a -<br />

n a e t r a d i z i o n e c o l t a o c c i d e n t a l e .<br />

F i n d a l b r a n o d i a p e r t u r a , i n c u i<br />

l o s c a p i c o l l a r e r i t m i c o d e l p i a n o -<br />

f o r t e d i B r u b e c k t o g l i e i l f i a t o p e r<br />

d u e m i n u t i p e r p o i l a s c i a r s p a z i o<br />

a l l a q u i e t e d e l l ’ i m p r o v v i s a z i o n e ,<br />

i n u n ’ a l t e r n a n z a d i s a l i s c e n d i c h e<br />

n e l s u c c e s s i v o S t r a n g e M e a d o w<br />

L a r k d i v e n t a e l e g a n z a f o r m a l e ,<br />

g u s t o p e r l a s f u m a t u r a , p a c a t e z -<br />

z a d i c h i s a c h e i l j a z z è a n c h e<br />

m a t e r i a d a c l a s s e m e d i o - a l t a .<br />

P e r a s c o l t a r e Ta k e F i v e è n e c e s -<br />

s a r i o a s p e t t a r e l a t e r z a t r a c c i a ,<br />

m a è u n ’ a t t e s a r i p a g a t a a m p i a -<br />

m e n t e d a l l a m u s i c a : s p a z z o l e ,<br />

p i a n o f o r t e , c o n t r a b b a s s o e s a x<br />

e n t r a n o u n o d o p o l ’ a l t r o , m o d e l -<br />

l a n d o m i n u t i c h e s a n n o d i n o t t i<br />

p i o v o s e p a s s a t e a b e r e i n q u a l c h e<br />

b a r e d i v e n t a n o u n t a p p e t o p r e -<br />

z i o s o p e r l e i m p r o v v i s a z i o n i d e l l a<br />

b a t t e r i a d i J o e M o r e l l o . T h r e e To<br />

G e t R e a d y e K a t h y ’s Wa l t z r a p -<br />

p r e s e n t a n o i p a s s a g g i i n t e r m e d i<br />

d e l d i s c o , i l p r i m o o r g a n i z z a t o s u<br />

u n t e m a l e g g e r o d i s a x e l e g i t t i m o<br />

p r o p r i e t a r i o d i u n o d e g l i a s s o l i<br />

p i ù s i g n i f i c a t i v i d e l l o s t e s s o B r u -<br />

b e c k , i l s e c o n d o g i o c a t o s u u n a<br />

r i t m i c a s l o w t e m p o “ c o n v e n z i o n a -<br />

l e ” c h e m u t a i m p r o v v i s a m e n t e i n<br />

u n v a l z e r i n p i e n a r e g o l a .<br />

E p i s o d i c h e c o n i l l o r o i n c e d e r e<br />

s c o p p i e t t a n t e p o r t a n o d r i t t i d r i t -<br />

t i a l l a c h i u s u r a d e l l ’ o p e r a , s u l l e<br />

n o t e d i u n a E v e r y b o d y ’s J u m -<br />

p i n g s o l c a t a d a s c a m b i c o n t i n u i<br />

t r a p e r c u s s i o n i e p i a n o e d i u n a<br />

P i c k U p T h e S t i c k s i n c u i a f a r l a<br />

d a p a d r o n e s o n o i l 6 / 4 d e l b a s -<br />

s o d i E u g e n e Wr i g h t e u n l a v o r o<br />

c o r a l e s u l p r o s c e n i o d e l l ’ i m p r o v -<br />

v i s a z i o n e .<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 7 9<br />

( G i ) A n t S t e p s u n a r u b r i c a j a z z a c u r a d i S t e f a n o S o l v e n t i e F a b r i z i o Z a m p i g h i


a c u r a d i S t e f a n o S o l v e n t i e F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

W E A R E D E M O<br />

WE ARE DEMO#16<br />

S i d e A<br />

I due Bancali In Pietra, Psico e<br />

Mone, provengono rispettivamente<br />

da Scacciano e Sogliano che signi-<br />

fica profondo e selvaggio entroter-<br />

ra romagnolo ed hanno sviluppato<br />

una preoccupante ossessione per<br />

tutto ciò che è magico: chitarre di<br />

legno magiche, boschi magici, ra-<br />

dio magiche (datevi una letta alla<br />

tracklist). La musica che propon-<br />

gono non può perciò che essere...<br />

magica. Trattasi di improvvisazioni<br />

strutturate, remixate e rimiscelate<br />

in seguito. Suonano un po’ di tut-<br />

to: chitarracce, tastierine ed orga-<br />

ni d’ogni sorta, drum machine e un<br />

mare d’effetti. Quel che ne esce è<br />

un unico fluire di composizioni aee-<br />

re, ambient a bassa fedeltà, grap-<br />

poli di note snocciolati senza sosta<br />

e nessun rispetto per le regole ar-<br />

moniche, spazialità craute ed echi<br />

boredoms, sovrapposizioni di tap-<br />

peti ritmici, suoni digitali e quan-<br />

t’altro. Nonostante quel che può<br />

apparire da una tale descrizione,<br />

l’amalgama funziona proprio bene<br />

e produce un effetto ipnotico, stor-<br />

dente ed infine rilassante. Munitevi<br />

di una scatola di Moment (non si sa<br />

mai) ed abbandonatevi senza paura<br />

alla liquida follia di questo magico<br />

duo, non ve ne pentirete, o forse<br />

sì. (7.0/10) Zagor e Ruben, i due<br />

Camillas, sono di Pesaro o forse<br />

8 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

di Pordenone, non si capisce bene,<br />

potrebbero essere fratelli o anche<br />

no. Per ora hanno registrato solo<br />

questo ep di cinque pezzi ma i loro<br />

concerti sono già un piccolo culto<br />

che conta numerosi adepti: teatrini<br />

situazionisti sempre sopra le righe<br />

in cui ha largo spazio l’improvvi-<br />

sazione, il cabaret ed il coinvolgi-<br />

mento del pubblico. Le loro canzoni<br />

sono minimali (un synth, una chi-<br />

tarra elettrica, qualche base elet-<br />

tronica) inni discodance, deliranti<br />

temporeggiamenti krauti, eccitati<br />

garage-punk, imbarazzanti melodie<br />

di quel pop italiano che in molti si<br />

vergognano ad ammettere di tro-<br />

varsi spesso a canticchiare, soul<br />

all’amatriciana, ciccia, risa, sudo-<br />

re, sangue, vino, vita. I Camillas<br />

sono teneri e surreali punk avan-<br />

guardisti, genuinamente intelligen-<br />

ti, di quell’intelligenza che in quan-<br />

to tale non ha paura di travestirsi<br />

di ridicolo e follia, restando comun-<br />

que tagliente e lasciando il giusto<br />

spazio ad una moderna, sincera ed<br />

inevitabile amarezza esistenziale di<br />

fondo. Nell’ep in questione c’è solo<br />

una piccola parte di tutto questo<br />

“Mondo Camillas” ma è già qualco-<br />

sa. Cercatelo (è prevista un’uscita<br />

ufficiale a fine maggio su etichetta I<br />

Dischi Di Plastica), cercateli e non<br />

mancate per nulla al mondo ai loro<br />

concerti. W I Camillas! (7.5/10)<br />

Si diventa grandi, cambiano i gu-<br />

sti, si viene influenzati da quel che<br />

c’è al momento, anche, e mi ero<br />

dimenticato. Mi ero dimenticato di<br />

quel periodo d’oro del rock italia-<br />

no. La fine degli Ottanta e i pri-<br />

mi Novanta: i Litfiba, il Consorzio<br />

Produttori Indipendenti, i Marlene<br />

Kuntz, gli Afterhours, la seconda<br />

o terza giovinezza di Battiato. Al-<br />

lora mi sembrava dovesse cambia-<br />

re chissà che, che ce la si potesse<br />

fare, si respirava aria nuova. Ci si<br />

sorprendeva orgogliosi e capaci di<br />

fare un qualche cosa che appariva,<br />

ed era, nuovo anche attraverso la<br />

riscoperta delle nostre radici, di<br />

cantautori in penombra e certo prog<br />

Settanta che all’estero ci è sempre<br />

stato invidiato. L’ascolto di Semio-<br />

tique delle Visioni di Cody mi ha<br />

riacceso una certa nostalgia per<br />

quel periodo: inizia con l’ennesi-<br />

ma cover de La canzone dell’amor<br />

perduto di De Andrè (e ci vuole del<br />

coraggio!) che è pure bella col suo<br />

andamento evocativo e lirico, tutto<br />

un trattenersi e rilasciarsi continuo<br />

e prosegue con quattro canzoni di<br />

pregevole rock italiano dall’ampio<br />

respiro, più o meno melodico, in<br />

equilibrio tra languido e ruvido. Un<br />

demo suonato e registrato molto<br />

bene che lascia presagire interes-<br />

santi ed emozionanti sviluppi. For-<br />

za così. (6.5/10)<br />

S i d e B<br />

D a v i d e B r a c e<br />

Gli Arbdesastr sono due verone-<br />

si dediti ad una electro-ambient-<br />

soul madreperlacea e palpitante a<br />

base di laptop e synth corroborati<br />

da tocchi leggeri di chitarra e gloc-<br />

kenspiel. Più la voce, s’intende, di<br />

quelle che cantano ninne nanne<br />

dall’esoterica tenerezza Wyatt/Si


gur Rós (come è palese nella ghost<br />

track). Tra accartocciamenti glitch e<br />

sibili cosmici (Sleep On The Grass),<br />

poliritmie sfarfallanti e found voices<br />

(Endless Run), vibrazioni lunari e<br />

corrucciati struggimenti (Underwa-<br />

ter Bedroom), mettono in piedi un<br />

teatrino olografico convincente, il<br />

calore dell’angoscia, certe allibite<br />

meraviglie, quel prostrarsi genero-<br />

so e luccicante che rimanda a dei<br />

Notwist sospesi su una nuvola d’elio<br />

(Fallen Trees). Facciamo che sono<br />

un po’ derivativi, che tutto sappia di<br />

già udito non troppo tempo fa. Cer-<br />

to è che nella fibra (traslucida) dei<br />

brani s’intravede l’embrione d’una<br />

personalità intensa. Per il momen-<br />

to, buona gestazione. (6.9/10)<br />

Quintetto attivo nel senese con tan-<br />

ta voglia di post-punk ed evidenti<br />

fregole psych a guarnire, i Dorothi<br />

Vulgar Questions debuttano nel<br />

magnifico mondo dei demo con<br />

un omonimo sei tracce non meno<br />

che promettente. Non bellissimo, a<br />

tratti anche risaputo, eppure quel<br />

loro procedere ostinato e ondiva-<br />

go in un solco scavato tra garage<br />

e wave non manca di stuzzicare il<br />

nervolino dell’aspettativa. Sentite-<br />

vi quei tremori acidi tra foschie Joy<br />

Division di Red Flower, ballatone<br />

cupo e marziale con tanto di wah<br />

wah ed effetti sibilanti. Oppure la<br />

veemenza robotica e sferzante di<br />

Senza scuse (che nel pianeta del-<br />

le cose impossibili sarebbe una<br />

jam tra Ultimate Spinach e CCCP).<br />

Eppoi ancora l’invettiva infervorata<br />

nel punk-boogie di Le occasioni, o<br />

quella specie di flemma Garbo tra<br />

bruciori frippiani ne La macchia.<br />

Un caracollare tra il beffardo e il<br />

lugubre che scomoda un po’ della<br />

(tras)lucida follia Barrett, il ghigno<br />

cupo di Ian Curtis, il Giolindo Fer-<br />

retti più sordidello. Insomma è uno<br />

stare a cavallo tra due idee rock<br />

come se fossero una, e forse è dav-<br />

vero così. (6.8/10)<br />

I Taboo di Exotic Sessions sono in-<br />

vece un trio mantovano dalla curio-<br />

sa propensione etno/exotic/avant.<br />

Nulla ci è dato sapere circa i titoli<br />

dei quattro pezzi, d’altronde sono<br />

o sarebbero “sessions”, appunto,<br />

quindi che fluiscano libere col loro<br />

straniante afflato post-qualcosa. A<br />

vederle in prospettiva, sembrano<br />

un soffice groviglio di percussioni<br />

echoizzate, chincaglierie liquide,<br />

brume lattescenti, cinguettii digitali<br />

e flauto stentoreo. Pseudo-ambient<br />

accattivante e sordida, ipnotica e<br />

insidiosa. Un po’ come addentrar-<br />

si nel fitto di una foresta di piume<br />

e gommapiuma. Trame seriali e<br />

astratte avvolte in un bozzolo ci-<br />

nematico, tipo gli Starfuckers scrit-<br />

turati per una danza del ventre al<br />

ralenti, o David Lynch che immer-<br />

ge Sun Ra in un liquido amniotico<br />

erotizzante. Eppoi quelle voci come<br />

una folata di ectoplasmi a pettina-<br />

re rigurgiti dub su griglie di loop<br />

alieni/minimali. Tutto ciò somiglia<br />

molto alla soundtrack dei miei so-<br />

gni più mollicci e angosciosi. Ok, il<br />

concept non è facile, anzi nel tirare<br />

la corda finisce spesso con tutti e<br />

due i piedi nel lato scostante del-<br />

la questione. Tuttavia, intuizione<br />

e realizzazione hanno i crismi del-<br />

l’originalità e dell’efficacia. Mi sa<br />

che ne riparleremo. (7.0/10)<br />

B o n u s Tr a c k<br />

S t e f a n o S o l v e n t i<br />

I Qeta partono dal metal e arrivano<br />

ad altro. Nello specifico, a una mu-<br />

sica che mantiene il gusto per il riff<br />

pur affondando le radici in ritmiche<br />

rallentate e quasi marziali, mostra<br />

scorci di melodia pur sottostando<br />

a un basso solido e martellante.<br />

Audioslave e Alice in Chains in<br />

pinzimonio (Sei), in bilico tra con-<br />

cessioni al binomio cuore-amore<br />

(Cosa siamo noi) e plettri in fibril-<br />

lazione (voto: 6.5/10 web: http://<br />

www.myspace.com/qeta). Discorso<br />

diverso per gli Eterno 21, fautori<br />

di un rock “all’italiana” che dalle<br />

parti di Pordenone - terra d’origine<br />

della band - si tinge di melodie li-<br />

neari e aperture vagamente espan-<br />

sive (Profumo di niente), ruvidezze<br />

di chitarra e volteggi progressivi di<br />

tastiere (Sottopressione), morbi-<br />

dezze all’Hammond e slanci vocali<br />

à la Bono Vox (Come l’aria). Non<br />

tutto gira a dovere, lo ammettiamo<br />

- alcune soluzioni melodiche odo-<br />

rano di stantio -, ma frequentare<br />

certi territori senza restare invi-<br />

schiati in qualche luogo comune<br />

non è impresa facile (voto: 6.2/10<br />

web: http://www.eterno21.com/).<br />

Suoni dallo spazio e rumori assorti-<br />

ti - emessi da chissà quali creature<br />

aliene -, sono invece il pane quo-<br />

tidiano dei BedEx. Sotto l’ala pro-<br />

tettiva di un lo-fi “obbligato” quan-<br />

to attraente, la band racimola un<br />

pugno di buone idee e i mezzi ne-<br />

cessari per metterle in opera, dan-<br />

do vita a un quadretto onirico che<br />

vorrebbe solleticare l’appetito de-<br />

gli orfani dello shoegaze. Lo scopo<br />

viene infine raggiunto, grazie a un<br />

connubio riuscito tra melodie tra-<br />

sparenti, elettronica artigianale, e<br />

cornici strumentali gradevoli (voto:<br />

6.5/10 mail: d.rissone@libero.it).<br />

F a b r i z i o Z a m p i g h i<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />

W E A R E D E M O


C l a s s i c<br />

Dinosaur Jr.<br />

21ST CENTURY FREAK SCENE<br />

d i A n t o n i o P u g l i a<br />

Sinistra del palco: chitarrista indici-<br />

bilmente sciatto, jeans lisi e t-shirt<br />

sbiadita. Una tenda lercia di capelli<br />

ormai grigi gli incornicia il volto pa-<br />

cioso, mentre un accenno di pan-<br />

zetta fa capolino poco sopra la sua<br />

fida Fender Jazzmaster. Canta con<br />

aria quasi indifferente, come fosse<br />

lì per caso; non di rado, lo si può<br />

sorprendere in un sorrisino beffardo<br />

e sfuggente. Sul lato opposto: bas-<br />

sista dall’aria vagamente incazzata.<br />

Riccioli scuri, montatura spessa, un<br />

Rickenbacker imbracciato e suonato<br />

a mo’ di chitarra. Picchia su quelle<br />

quattro corde come se ogni accordo<br />

fosse l’ultimo, e quando si avvicina<br />

al microfono, il più delle volte non<br />

è per cantare. Nel mezzo: batterista<br />

completamente calvo. Occhialini da<br />

intellettuale, bermuda stile turista<br />

tedesco, pesta come un dannato,<br />

mentre i tre pezzi del drumkit sem-<br />

brano cedere da un momento all’al-<br />

tro. No, non è il 1987, e si vede. Ma<br />

quello che esce dalle pile di amplifi-<br />

8 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

catori - le Marshall stacks cantate dai<br />

Sonic Youth in Teenage Riot, avete<br />

presente? - è lo stesso frastuono di<br />

allora (se non ancora più potente),<br />

la stessa tempesta sonora che si<br />

abbatte sugli spettatori, esaltati e<br />

assieme assordati dai decibel. Chi<br />

ha assistito ad uno dei concerti del-<br />

la reunion più desiderata dell’indie<br />

rock può ben testimoniare sulla sce-<br />

na appena descritta. La scena freak<br />

del 21° secolo. Un sogno ad occhi<br />

aperti o un incubo incredibilmente<br />

realistico, dipende dai punti di vista.<br />

In realtà, fino all’altro ieri nessuno ci<br />

avrebbe scommesso un cent, alme-<br />

no finché non è successo per davve-<br />

ro: ci sono voluti quindici anni prima<br />

che J Mascis, Lou Barlow e Mur-<br />

ph si convincessero a ricostituire la<br />

formazione storica dei Dinosaur Jr.<br />

Quella dei primi tre dischi, per ca-<br />

pirci, quella del retro-copertina del-<br />

l’omonimo del 1985 (mai visti ceffi<br />

più improbabili dietro un pezzo di<br />

vinile), quella di Freak Scene e della<br />

cover di Just Like Heaven. L’unica<br />

che conta, per certi versi. Oggi, che<br />

a scorrere il calendario dei prossi-<br />

mi concerti ci si imbatte nei nomi<br />

di Police, Who, Slint e Sonic Youth<br />

quanto mai dinosaurizzati (a portare<br />

in giro la magnum opus Daydream<br />

Nation), questa reunion sembra per-<br />

fettamente naturale, come se Mascis<br />

e Barlow non si fossero cordialmen-<br />

te ignorati per ere (non che tuttora<br />

parlino granché tra loro, a quanto si<br />

sa). In una stagione musicale in cui<br />

l’orologio si è magicamente ferma-<br />

to e tutto è nuovamente a portata di<br />

mano, niente ormai fa più stupore;<br />

e così, accanto al quarto album de-<br />

gli Stooges, troviamo sugli scaffa-<br />

li Beyond (recensione su SA #30),<br />

il fatidico ritorno dei Dinosaur Jr.,<br />

cui tocca il compito di riallacciare<br />

i fili di un discorso troncato quasi<br />

due lustri fa. In mezzo c’è stato di<br />

tutto: il grunge, il lo fi, lo sdogana-<br />

mento dell’indie, le massicce ondate<br />

di epigoni; cose di cui i tre signori


in questione sono fra i maggiori re-<br />

sponsabili. E intanto rieccoli qua im-<br />

perturbabili (date un occhio alle foto<br />

promozionali), a raccogliere i frutti<br />

del passato, a celebrare se stessi<br />

e un’intera era, o semplicemente a<br />

fare baccano su un palco come se<br />

niente fosse successo. A Lou Barlow<br />

la cosa è piaciuta tanto da rimette-<br />

re insieme i Sebadoh originari, con<br />

Eric Gaffney e Jason Loewenstein.<br />

Anche questo è indie rock, in fondo:<br />

d’altronde i Sonic Youth, che sono<br />

sempre stati lì, sono la dimostrazio-<br />

ne vivente che anche quello che nei<br />

90 veniva chiamato alternative può<br />

attraversare una terza età, proprio<br />

come il caro vecchio rock. Una fac-<br />

cenda di cocciutaggine, di compia-<br />

cimento e auto-celebrazione, a dosi<br />

uguali e ben miscelate. Sia come<br />

sia, i Dinosaur Jr. sono nuovamente<br />

una realtà con cui fare i conti, vuoi<br />

per quello che hanno significato,<br />

vuoi per quello che ancora possono<br />

- vogliono - significare. Superfluo ri-<br />

cordare nel dettaglio ciò che è stato<br />

seminato e ciò che è stato raccolto<br />

(e da chi); meglio, a questo punto,<br />

provare a ricostruire ciò che è stato<br />

ieri, per capire ciò che è (o potrebbe<br />

essere) oggi. Domani, chissà.<br />

“È cominciato nel 1983, quando ho<br />

iniziato a vedere le cose in maniera<br />

diversa / l’hardcore non faceva più<br />

per me”. È lo stesso Lou Barlow che<br />

ci racconta la genesi dei Dinosaur<br />

(e, consapevolmente, di un intero<br />

movimento/sottocultura) nei versi<br />

iniziali della sua Gimme Indie Rock<br />

(Sebadoh, 1991). Come tanti altri<br />

adolescenti della provincia ameri-<br />

cana dei primi 80, anche lui e Jo-<br />

seph Mascis, studentello di origini<br />

medio borghesi, avevano trovato<br />

nell’hardcore la principale valvo-<br />

la di sfogo per tutte le frustrazioni<br />

di quell’età: un modo di esprimersi<br />

diretto, furioso e soprattutto il più<br />

veloce possibile, tanto che oggi c’è<br />

chi pensa che i Deep Wound - que-<br />

sto il nome della band, che vedeva<br />

J seduto dietro la batteria e Lou alla<br />

chitarra - siano stati tra i precursori<br />

del grindcore. Giusto il tempo di un<br />

demotape, un 7’’, due brani in una<br />

compilation (Bands That Could Be<br />

God, per la Conflict di Gerard Co-<br />

sloy) e una manciata di concerti<br />

prevalentemente nel New England,<br />

che i due mollano i compagni Scott<br />

Helland e Charlie Nakajima per<br />

iniziare un progetto tutto loro, con<br />

l’intenzione di partire da altre basi.<br />

Già R.E.M., Hüsker Dü, Replace-<br />

ments e i gruppi del Paisley Under-<br />

ground stavano dimostrando che da<br />

punk, new wave e hardcore i confini<br />

potevano allargarsi fino riscoprire i<br />

60. Poi c’erano quei geni sciroccati<br />

dei Meat Puppets, per non parlare<br />

di ciò che di lì a poco sarebbero stati<br />

capaci di fare i cervelli mandati in<br />

pappa dall’acido dei Flaming Lips.<br />

Perché mai dei maledettissimi nerd<br />

di Amherst, Massachussets, non po-<br />

tevano fare semplicemente la loro<br />

cosa? Che poi questa cosa si sareb-<br />

be chiamata indie rock era ancora<br />

tutto da vedere, come dimostra il de-<br />

butto della nuova band, ovvero Jay<br />

al timone con chitarra e voce, Lou<br />

virato al basso e il drummer Emmett<br />

Patrick Murphy (più semplicemente,<br />

Murph) a completare il leggendario<br />

trio. L’eponimo Dinosaur (ancora<br />

senza il Jr.) esce nel luglio 1985 per<br />

la Homestead, la label di Cosloy che<br />

ospita gente come Big Black e So-<br />

nic Youth, già gruppi con una pro-<br />

pria identità; la musica che contiene<br />

però non è altrettanto etichettabile,<br />

nemmeno oggi. C’è dentro un po’ di<br />

tutto: hardcore, Neil Young, Meat<br />

Puppets, hard rock, new wave ingle-<br />

se, in una sorta di versione andata<br />

a male della psichedelia west coast.<br />

Qui i tre sembrano per lo più i cugi-<br />

ni straccioni e casinisti dei R.E.M.,<br />

ma a ben guardare, dietro uno stile<br />

e un suono non ancora definiti (ol-<br />

tre che pessimamente amalgamati),<br />

si nasconde una creatività a briglia<br />

sciolta, tanto che nello stesso bra-<br />

no convivono diverse anime e idee<br />

(Forget The Swan, Does It Float e<br />

Pointless sono i migliori esempi in<br />

tal senso); altrove sbuca fuori una<br />

sensibilità melodica che diventerà<br />

trademark (Severed Lips), mentre<br />

non c’è ancora traccia del suono<br />

possente ed elefantiaco e del chi-<br />

tarrismo sguaiato di Mascis. In com-<br />

penso, in Repulsion c’è già il Cobain<br />

più introverso, Quest sfoggia tutte le<br />

ascendenze younghiane del leader<br />

e Cats In A Bowl odora di Sebadoh<br />

(in questo stadio Barlow ha ancora<br />

uguale peso, dietro al microfono e<br />

in fase compositiva). Come suggeri-<br />

sce il bianco e nero dell’improbabile<br />

copertina, questo esordio è la carto-<br />

lina di un’America indie che non c’è<br />

più: quella della sperduta provincia<br />

di metà 80, con tutte le sue con-<br />

traddizioni ed ingenuità, destinate<br />

comunque a sbocciare di lì a poco<br />

in forma compiuta. (6.5/10) È infatti<br />

con la cascata di fuzz e wah di Little<br />

Fury Things, il singolo del 1987 che<br />

apre You’re Living All Over Me,<br />

che la musica cambia per davvero.<br />

Nel frattempo i tre, su pressione de-<br />

gli amici e fan Sonic Youth, erano<br />

passati alla SST (casa di leggende<br />

hardcore del calibro di Minutemen e<br />

Black Flag) ed erano stati costretti<br />

ad allungare la ragione sociale con<br />

un “Jr” per distinguersi da omoni-<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />

C l a s s i c


C l a s s i c<br />

mi colleghi (ex membri di Jefferson<br />

Airplane e Country Joe & The Fish,<br />

dinosauri di fatto). Nuovo nome,<br />

nuova identità, ed è quella giusta:<br />

in Kracked arrivano le schitarrate e<br />

gli assoloni trash di Mascis, in un<br />

muro di suono rafforzato dagli ac-<br />

cordi distorti di Lou e dai possenti<br />

fills di Murph; l’alchimia perfetta, la<br />

formula sonora che serviva. Rispet-<br />

to all’esordio, tutto qui è più com-<br />

patto, compresso e a fuoco, dai riff<br />

sabbathiani di Sludgefeast alla bal-<br />

latona pre-grunge Tarpit (l’antenata<br />

di Get Me, futura hit del 1993), dal<br />

power pop roccioso di Raisans alla<br />

bislacca struttura di The Lung - pra-<br />

ticamente un canovaccio per l’indie-<br />

post-rock a venire, dai primi Polvo<br />

ai Built To Spill e Modest Mouse.<br />

Allo stesso tempo però, emergono<br />

le prime fratture: con Jay a perfe-<br />

zionare il suo songwriting annoiato,<br />

Barlow viene relegato in chiusura<br />

con l’emo-core ante litteram di Lose<br />

e i cinque minuti del collage folk lo-fi<br />

Poledo; due soli brani che racchiu-<br />

dono una personalità artistica auto-<br />

noma, seppur in nuce. Nondimeno,<br />

al centro della scaletta c’è la prima<br />

vera perla del repertorio, In A Jar:<br />

melodia vocale pigra doppiata da un<br />

basso in primo piano, poi un susse-<br />

guirsi di riff, cambi di tempo, chiave<br />

e registro in struttura circolare, per<br />

3:30 da manuale. Un classico istan-<br />

ta<strong>neo</strong>, così come l’intero album, ad<br />

oggi considerato da molti uno dei<br />

migliori della band (8.0/10).<br />

C’è tuttavia qualcosa che manca an-<br />

cora ai Dinosaur, ed è la canzone<br />

definitiva, quella che marchia a fuo-<br />

co una carriera (e, in questo caso,<br />

8 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

un’epoca). Eccola qua, all’inizio<br />

di Bug (SST, 1988), terzo capitolo<br />

pubblicato proprio quando insieme<br />

alla crescente popolarità - specie<br />

in Europa - i contrasti nell’organico<br />

montano sempre più. A riascoltarla<br />

oggi e a rivederne lo sgangherato<br />

e artigianale video, Freak Scene è<br />

semplicemente la perfetta indie rock<br />

song, l’inno per una generazione<br />

futura ancora senza nome; il brano<br />

simbolo, insieme alla coeva Teena-<br />

ge Riot (che, guarda caso, è ispira-<br />

ta dalla figura di J), di un altro rock<br />

a stelle e strisce, innocente e fie-<br />

ramente indipendente, non ancora<br />

moda, non ancora contaminato dal<br />

business che presto sorgerà intorno<br />

all’alternative.<br />

Con il suo testo scioglilingua, la me-<br />

lodia Cure ricoperta da strati di chi-<br />

tarre distorte, i caratteristici break e<br />

gli assoli da guitar hero è la quintes-<br />

senza dello stile pop di Mascis, una<br />

formula fortunata a cui tantissimi - lui<br />

per primo - attingeranno; ma il resto<br />

del programma non è da meno, nel<br />

concentrare la scrittura in direzio-<br />

ne della forma-canzone (la stessa<br />

intrapresa, tanto per cambiare, da<br />

Thurston Moore & Co.: le affinità sti-<br />

listiche coi sonici in questo disco si<br />

sprecano, vedi They Always Come).<br />

Non a caso il modello Neil Young<br />

qui si fa sempre più forte, dai riffo-<br />

ni psych di No Bones alla cavalcata<br />

Yeah We Know fino a Pond Song,<br />

prototipo della ballad acustica Ma-<br />

scis-iana, laddove Let It Ride, Bud-<br />

ge e The Post fanno ampio sfoggio<br />

di decibel e adrenalina punk. Ormai<br />

c’è sempre meno spazio per Barlow,<br />

relegato anche stavolta in chiusura<br />

a urlare tutta la sua insoddisfazione<br />

nella cacofonia psicotica di Don’t;<br />

non passerà troppo e Jay lo metterà<br />

definitivamente alla porta, segnan-<br />

do la fine di un menage-à-trois che<br />

proprio in Bug si era espresso al<br />

meglio delle potenzialità (8.5/10).<br />

Da qui sarà l’inizio di una nuova era,<br />

per i Dinosaur Jr e non solo. Nel-<br />

l’agosto del 1991, mentre Seattle è<br />

lì lì per esplodere, la SST pubblica<br />

la compilation Fossils, ideale ap-<br />

pendice alla band (così come era<br />

conosciuta); accanto ad alcune b-si-<br />

des ci sono Little Fury Things, Freak<br />

Scene, In A Jar e soprattutto Just<br />

Like Heaven (pubblicata come sin-<br />

golo a inizio 1989), trasfigurazione<br />

indie rock del pop-wave romantico<br />

di Robert Smith, con Lou Barlow a<br />

fornire l’ultimo colpo di genio alla<br />

causa del Dinosauro: un ritornello<br />

in stile thrash metal. Quel tragico-<br />

mico “YOOOOUUU!!!!!” urlato dalle<br />

viscere è così l’epitaffio ideale per<br />

una formazione tra le più mitizzate<br />

degli ultimi vent’anni, al punto che<br />

neanche gli stessi protagonisti han-<br />

no poi saputo resistere all’odierno<br />

richiamo della gloria.<br />

E i 90? Volendo usare una frase ad<br />

effetto, verrebbe da dire che i Di-<br />

nosaur Jr. i Novanta non li hanno<br />

vissuti, li hanno creati. Del resto,<br />

quanto fatto da Mascis in quel de-<br />

cennio (e poi a inizio 2000 a nome<br />

The Fog) andrebbe meglio consi-<br />

derato come produzione solista,<br />

laddove la vicenda dei Sebadoh<br />

meriterebbe - che ve lo diciamo a<br />

fare - un intero capitolo a parte, e<br />

neppure breve, con tanto di appen-<br />

dice dedicata ai Folk Implosion.<br />

Non che Green Mind (1991), Where<br />

You Been (1993), Without A Sound<br />

(1994) e Hand It Over (1997) non<br />

siano all’altezza del nome Dinosaur<br />

Jr. (ok, almeno i primi due), ma la<br />

formula JayLouMurph era semplice-<br />

mente un’altra cosa. D’altronde, il<br />

rock da sempre vive dei suoi miti, si<br />

alimenta e si rigenera attraverso di<br />

essi; l’indie rock, da par suo, non fa<br />

certo eccezione. Che la celebrazio-<br />

ne continui.


s e n t i r e a s c o l t a r e 8<br />

C l a s s i c


C l a s s i c<br />

Faust<br />

NULLA DI SERIO<br />

d i G a s p a r e C a l i r i<br />

T h e W ü m m e Ye a r s<br />

I . M e s s a a f u o c o<br />

Storia di una cacofonia elettronica:<br />

nasce, si ingrossa, diventa uno dei<br />

rumori più molesti della musica po-<br />

polare, prima di morire fagocita in un<br />

boccone qualche nota di Satisfac-<br />

tion dei Rolling Stones e di All We<br />

Need Is Love dei Beatles, digerendo<br />

all’istante tutto il pop e il rock.<br />

Oppure: una cacofonia che cresce,<br />

si stabilizza come in un ingranaggio,<br />

e una coda che le scodinzola dietro,<br />

che si nutre dei prodotti del lampo<br />

iniziale, che continua a figliare per-<br />

sonaggi krauti.<br />

L’intro di Why Don’t You Eat Car-<br />

rots - primo brano del primo disco<br />

dei Faust -, parabola di rumore elet-<br />

tronico, potrebbe essere utilizzata<br />

come metafora e chiave di lettura<br />

di tutta la carriera dei suoi autori.<br />

Dopo un esordio che fa consuma-<br />

re le penne per descriverlo, i Faust<br />

continuarono la propria produzione<br />

normalizzandola, in un certo senso,<br />

o declinandola in modo diverso da<br />

quel leggendario esordio.<br />

Se vogliamo cedere all’approssima-<br />

zione, possiamo segmentare ciò che<br />

uscì sotto il nome Faust in tre tron-<br />

coni: uno immediatamente successi-<br />

vo al capolavoro iniziale, ancorato<br />

allo studio di Wümme, uno legato<br />

alla disgregazione di quell’ambien-<br />

te, uno scaturito dallo scossone di<br />

inizio Novanta, che li fece tornare<br />

nell’auge alternativa. Ma andiamo<br />

con ordine.<br />

Nel 1970 il giornalista musicale Uwe<br />

Nettelbeck (scomparso di recente),<br />

in combutta con il funzionario della<br />

Polydor Kurt Enders, ebbe un antici-<br />

po dalla casa discografica per met-<br />

tere in piedi un gruppo rock tedesco.<br />

8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

Con parte di quei soldi, costruì uno<br />

studio tra Amburgo e Brema, nel<br />

villaggio di Wümme, e vi fece tra-<br />

sferire sei musicisti, che presero il<br />

nome di Faust - “pugno”, in tedesco.<br />

L’anno dopo uscì il loro primo album<br />

(omonimo), prodotto da Nettelbeck,<br />

che come recita la minimal coperti-<br />

na contemplava ben otto musicisti, i<br />

primi sei seminali al progetto: Wer-<br />

ner Diermaier (detto Zappi) alla<br />

batteria insieme ad Arnulf Meifert,<br />

Hans-Joachim Irmler all’organo,<br />

Jean-Hervé Péron al basso, Rudolf<br />

Sosna alla chitarra e alle tastiere,<br />

Gunter Wuesthoff al sax e al synth,<br />

Kurt Graupner come ingegnere del<br />

suono, Andy Hertel come percus-<br />

sionista aggiuntivo.<br />

Il disco vendette pochissimo in pa-<br />

tria - dove i Faust vennero accolti<br />

con attonita incomprensione -, ma<br />

la Polydor decise di stamparlo an-<br />

che in Inghilterra, nazione già allo-<br />

ra aperta alle novità di provenien-<br />

za tedesca. La versione inglese di<br />

Faust (9.2/10) (detta anche Clear),<br />

fu stampata su un vinile trasparente,<br />

contenuto in una copertina (altret-<br />

tanto trasparente) sulla quale com-<br />

pariva un pugno radiografato. Dopo<br />

la cacofonia di cui sopra, si snoda-<br />

vano tre lunghe tracce (per un totale<br />

di mezz’ora circa) costruite su col-<br />

lage superkraut-avantprog, concate-<br />

nati tra loro da elettronica e musique<br />

concrète; una moltitudine di forme,<br />

annoiat, dall’ostentazione dell’intel-<br />

ligenza e della tecnica, con le quali<br />

i Faust ci restituirono un sarcasmo<br />

poliedrico e sublime, fastidioso e<br />

disinteressato ad essere percepi-<br />

to come colto e basta. In quelle tre<br />

composizioni i nostri amici procedet-<br />

tero con un’arte dell’argomentazio-<br />

ne illeggibile, patafisica, ma palpa-<br />

bile, mai eterea. Faust è infatti una<br />

sequenza di sillogismi che sbandano<br />

in continuazione, sbronzi ed elettro-<br />

nici; non si sa dove vogliano arriva-<br />

re. A chiunque ne parli, quel disco fa<br />

diventare dislessico, contraddittorio,<br />

gli fa vagabondare il ragionamento,<br />

esercitare la contraddizione.<br />

Ora, non ha senso dire “patafisica”<br />

senza spiegarsi, se non si voglio-<br />

no mandare a dire delle parole a<br />

caso. L’idea è che attraverso quella<br />

“scienza delle soluzioni immagina-<br />

rie” si riesca ad avere una lettura<br />

lungimirante, che non ci faccia in-<br />

dugiare e che ci permetta di passa-<br />

re ai dischi successivi. La buttiamo<br />

lì: può essere che in Clear i Faust<br />

abbiano trasposto in musica il mec-<br />

canismo del “discorso indiretto libe-<br />

ro”. In che modo? Appropriandosi,<br />

nel loro cut-up, non solo di linguag-<br />

gi diversi - cosa che faceva anche<br />

Frank Zappa - ma delle voci che li<br />

parlano, prese in blocco, utilizzate<br />

senza appiattirle in un unico punto<br />

di vista. Un meccanismo che deriva<br />

direttamente dalla musica concre-<br />

ta, almeno concettualmente, che<br />

non parafrasa il quotidiano, ma ne<br />

sfrutta indirettamente il discorso ri-<br />

portato, si adegua al suo respiro.<br />

Questa è patafisica, è compresenza<br />

argomentativa di mondi diversi (e ir-<br />

riducibili al compromesso) basata su<br />

una coesione impossibile. È impos-<br />

sibilità dialettica di scegliere tra due<br />

opzioni, tra due opposti, ma neces-<br />

sità di farli parlare insieme. I Faust<br />

si presero la libertà di parlare con la<br />

lingua d’altri, e di fare in modo che<br />

la propria non fosse individuabile e<br />

descrivibile.


T h e W ü m m e Ye a r s<br />

I I . A n g o l a t u r e<br />

Quest’arte, però, per sopravvivere<br />

dovette cambiare. Detto fatto, con<br />

il secondo disco di Wümme (che<br />

non raggiunse quei livelli di sopraf-<br />

fazione dell’ascoltatore), vennero<br />

fuori gli stilemi faustiani. Faust So<br />

Far (7.7/10), uscito nel 1972 pri-<br />

ma in Inghilterra che in Germania,<br />

sempre per la Polydor, crebbe così<br />

con due anime ben differenziate, se-<br />

condo una segmentazione netta che<br />

era del tutto assente solo un anno<br />

prima: quella “pastorale”, più vicina<br />

all’allora tradizione dilagante del-<br />

la psichedelia progressiva; ma so-<br />

prattutto quella percussiva, di “pura<br />

struttura”, fatta di trame che, auto-<br />

nome, possono essere affrontate<br />

solo una alla volta.<br />

Molte cose cambiarono, dicevamo,<br />

ma alcune diventarono l’opposto. La<br />

copertina, per esempio, era nera con<br />

i caratteri in rilievo. It’s A Rainy Day<br />

(Sunshine Girl) (la prima traccia, il<br />

nuovo manifesto) è ancora oggi uno<br />

spassosissimo mantra percussivo,<br />

destinato a rimanere la canzone<br />

forse più nota dei Faust, basata su<br />

un martellare di tamburo (che non<br />

lascia troppo all’immaginazione la<br />

mole di Diermaier) ossessivamente<br />

perpetrato per sette minuti e mezzo,<br />

dentro cui si incastona lo scherzetto<br />

melodico che dà il titolo al brano, un<br />

refrain che basta a se stesso. È una<br />

struttura ipnotica, meccanica ed eu-<br />

forica al tempo stesso, che si fa can-<br />

ticchiare. Ha un inizio e una fine.<br />

Segue il disimpegno arioso che in-<br />

troduce No Harm, sornione quanto il<br />

lento sfocare finale di On The Wat<br />

To Abamae. Ma nel frattempo accade<br />

un altro evento: Mamie Is Blue ci fa<br />

passare qualche brutto (bellissimo)<br />

minuto di musica industriale ante lit-<br />

teram, musica che ingrana una cate-<br />

na di montaggio e la mostra mentre<br />

si muove ciclicamente. Tecnologica<br />

la musica dei Faust, lo si è detto<br />

spesso. Ma cosa è più tecnologico?<br />

La perdita estetizzata di certezze, o<br />

la nuova certezza estetizzante, ov-<br />

vero la cultura paranoica dell’ingra-<br />

naggio? In So Far i Faust hanno vira-<br />

to status, da descrizione sfaccettata<br />

dello scompenso macchinino, visto<br />

nell’isolamento di Wümme, a prove<br />

di emulazione mimetica della tecno-<br />

logia, tramite strutture sonore.<br />

Il punto è che potrebbe essere di<br />

non ritorno. L’unica salvezza, in certi<br />

casi, è la leggerezza, diceva anche<br />

Calvino. I Faust ne avevano dato pro-<br />

va con il primo album. L’unico modo<br />

per destreggiarsi tra tante angolatu-<br />

re dell’orripilante poliedro umano è<br />

lasciare che esse si parlino, ma non<br />

integrandosi, bensì mantenendo la<br />

propria identità nella condizione di<br />

non essere vista, in stato di sorvolo.<br />

Una “messa a distanza” che permise<br />

il dispiegamento dell’ironia.<br />

Un altro modo, sembrano però dirci<br />

i Faust, può essere l’estrema fram-<br />

mentazione: essa permette l’utilizzo<br />

degli spezzoni “concreti” del primo<br />

disco accanto alle messe in moto<br />

di ingranaggi puri introdotti nel se-<br />

condo. È la tecnica con cui venne<br />

suonato e prodotto The Faust Ta-<br />

pes (8.0/10), uscito per la Virgin nel<br />

1973. Nettelbeck cercò di dare al<br />

disco la parvenza di taglia e cuci ca-<br />

suale del materiale provato a Wüm-<br />

me. Non fu così, ma è l’effetto che<br />

conta: ventisei tracce, tra cui “eser-<br />

cizi”, “canzoni” (Flashback Caruso),<br />

le (già) solite strutture matematiche<br />

(J’Ai Mal Aux Dents) e industriali.<br />

C’è anche la sega elettrica. Più di<br />

metà dei brani non ha titolo.<br />

I “nastri” dei Faust ebbero un suc-<br />

cesso di vendita clamoroso. La Virgin<br />

riuscì a mettere in scaffale il disco<br />

a 49 cents, una miseria anche per<br />

allora, e risultò un peccato non com-<br />

prare un disco con così alte pretese<br />

a così basso prezzo. I brani erano<br />

stati registrati tra il 1971 e il 1973,<br />

e la loro pubblicazione fu un’ottima<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 8 7<br />

C l a s s i c


C l a s s i c<br />

Jean e Zappi<br />

conclusione all’esperienza di Wüm-<br />

me. Dopo The Faust Tapes, infatti,<br />

Péron, Sosna e soci se ne andarono<br />

dalla loro oasi per produrre il quarto<br />

disco in uno studio dello Oxfordshi-<br />

re. Ma in contemporanea al terzo al-<br />

bum dei Faust non si può non men-<br />

zionare un capitolo importante della<br />

loro esperienza tedesca: il contatto<br />

con l’avanguardia americana.<br />

Il “Dream Syndicate” era il quartier<br />

generale newyorkese di LaMonte<br />

Young, vi parteciparono anche John<br />

Cale, in periodo Factory, e vi stava<br />

diventando molto noto un composi-<br />

tore di nome Tony Conrad. L’incon-<br />

tro di quest’ultimo con Nettelbeck<br />

significò l’uscita di Outside The<br />

Dream Syndicate, collaborazione<br />

tra Conrad e alcuni dei Faust (tranne<br />

Wüsthoff al sax, per esempio). Ecco,<br />

questa è musica del tutto minimali-<br />

sta. Un tono di basso e un tempo ri-<br />

petuti all’infinito (From The Side Of<br />

Man And Womankind), con la viola<br />

di Tony ad accrescere la ripetizione<br />

e il cambiamento infinitesimo. Fu<br />

un evento. I Faust fecero dell’avan-<br />

guardia bell’e buona, invece che la-<br />

sciare che essa fosse una secrezio-<br />

ne della loro arte argomentativa. E,<br />

in definitiva, fu anche un campanello<br />

d’allarme.<br />

I l d o p o - W ü m m e e l a<br />

d i s g r e g a z i o n e<br />

Faust IV (Virgin, 1974) (8.2/10) fu<br />

dunque registrato a Manor, nel-<br />

l’Oxfordshire, nel 1973. Non ebbe il<br />

successo di pubblico del preceden-<br />

8 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

te e compromise di fatto il mito dei<br />

Faust. Ma in un modo abbagliante,<br />

si può dire. Giocando con l’etichet-<br />

ta data ai gruppi tedeschi di allora,<br />

la prima traccia (Krautrock) è pura<br />

ortodossia tedesca, certo al modo<br />

dei Faust. È minimalista, ancora<br />

una volta, distorta e sballona come<br />

le migliori cavalcate Kosmische. Ma<br />

poi finisce. E iniziano le canzoni.<br />

Una in levare (Sad Skinhead), una<br />

quasi ballabile (Giggy Smile), una<br />

rassegnata e trasognata a un tempo<br />

(Jennifer). Praticamente, tutti incubi<br />

narrabili.<br />

Faust IV espresse l’unica e vera al-<br />

ternativa nata internamente al suono<br />

Faust per evitare la ripetizione con-<br />

tinua degli stili individuati dagli altri<br />

dischi. E in questo è l’album la cui<br />

riuscita risultava più difficile rispetto<br />

a ogni altro (esordio a parte). Ma an-<br />

cor più difficile era farne seguire un<br />

nuovo capitolo.<br />

Risultò più che difficile, impossibile:<br />

Faust V rimase allo stato di casset-<br />

ta, perché la Virgin non si convinse<br />

a mandarlo in stampa e distribuirlo<br />

(forse anche perché la verve mana-<br />

geriale di Nettelbeck - che subito<br />

dopo abbandonò il gruppo - era sce-<br />

mata insieme al suo interesse per la<br />

faccenda. Vi si può fare un breve ac-<br />

cenno, come stimolatore di tenden-<br />

ze, a proposito di una delle sue trac-<br />

ce, la versione di Flashback Caruso<br />

(uno dei cavalli di battaglia dei tede-<br />

schi, tratto da Tapes) qui intitolata<br />

Groceries Caruso. Essa inaugura<br />

un processo di auto-archeologia nel<br />

modo che forse ha più fornito una<br />

forte peculiarità ai Faust del post-<br />

Wumme: il recupero, il trattamento e<br />

l’autocoverizzazione dei propri bra-<br />

ni, secondo un crocevia di versioni<br />

tutte simili e tutte diverse e un cro-<br />

cevia di nomi e titoli che si richiama-<br />

no l’un l’altro. Se una versione viene<br />

ripresa in continuazione, si dichiara<br />

pertinente la struttura soggiacente<br />

oppure l’effettistica che permette a<br />

quella struttura di ricevere nuovi sol-<br />

chi di vinile di cui appropriarsi?<br />

Non è una domanda a cui possiamo<br />

qui rispondere, ma i Faust danno<br />

materiale a non finire per architet-<br />

tare una risposta. Faust V, come le<br />

uscite immediatamente successive a<br />

esso (a parte i Party Extracts, che<br />

uscirono nel 1979 e raccolsero ul-<br />

teriori alternative version di alcuni<br />

brani di Wümme), ruotano attorno<br />

al materiale registrato nel 1975 ad<br />

Annarella, Monaco di Baviera. Munic<br />

è lo spezzone macchinico che fa da<br />

perno per 71 Minutes Of… (Recom-<br />

mended, 1979) (6.8/10) e per Return<br />

Of A Legend: Munic And Elsewhe-<br />

re (Recommended, 1986) (6.5/10),<br />

mentre alcuni resti della prima metà<br />

dei Settanta di Wümme compongono<br />

The Last LP (Recommended, 1989)<br />

(5.8/10). Nel frattempo se ne sono<br />

andati Irmler e Sosna e, come si<br />

sarà notato, i Faust hanno avviato,<br />

prima di sciogliersi provvisoriamen-<br />

te, una collaborazione con la Re-<br />

commended Records di Chris Cutler<br />

degli Henry Cow. In questo periodo<br />

il culto del frammento reso prolisso<br />

non ha uguali; neanche dopo la reu-<br />

nion le strutture industrial-cosmiche<br />

che comporranno i nuovi brani sa-<br />

ranno tanto condizionate dall’indagi-<br />

ne (o dalla mancata indagine) sul-<br />

la forza espressiva di una struttura<br />

mandata a morire per paranoia. Vol-<br />

gendo lo sguardo a tutto quello che<br />

si è detto, non è forse un caso che<br />

nel primo disco ci siano tre lunghe<br />

composizioni di frammenti infram-<br />

mentabili (seppure chirurgicamente<br />

frazionabili, a discrezione dell’ana-<br />

lista), e che invece il frammento sia<br />

autonomizzato nei dischi successivi.<br />

È un problema, ancora una volta, di


prospettive e, aggiungiamo, di chiu-<br />

sura di un testo. La focalizzazione è<br />

ormai unicamente concentrata sulla<br />

struttura industriale, sul frammento,<br />

proprio perché i Faust hanno deciso<br />

di isolarlo e di buttarcisi a pesce. Ma<br />

sono anche gli anni in cui, a Shef-<br />

field, nasce un qualcosa di molto<br />

teutonico, che sarà poi battezzata<br />

(senza un accordo di paternità defi-<br />

nitivo) musica industriale…<br />

L a r i c o m p o s i z i o n e<br />

Non resterà nulla, degli anni Ottan-<br />

ta faustiani. Il decennio successivo<br />

invece venne inaugurato da una ri-<br />

presa dei lavori, siglata da una se-<br />

rie di concerti degni del potenziale<br />

abrasivo dei Faust - uno, ad Ambur-<br />

go, finì su The Faust Concerts 1<br />

(Table Of The Elements, 1990), un<br />

altro, al Marquee di Londra, diven-<br />

ne The Faust Concerts 2 (Table Of<br />

The Elements, 1990) -, ma anche<br />

dalla morte di Sosna. I Faust rima-<br />

sti erano Irmler, Zappi e Péron. Per<br />

avvisare che non si trattava di can-<br />

to del cigno, pubblicarono il singolo<br />

Chemical Imbalance (Chemical Im-<br />

balance, 1990). Subito arrivò Jim<br />

O’Rourke, a segnare il territorio,<br />

e a produrre il disco successivo, il<br />

primo con materiale originale dopo<br />

vent’anni. Il titolo, particolarmen-<br />

te riuscito, fu Rien (Table Of The<br />

Elements, 1994) (6.8/10), stando a<br />

significare sei ostiche tracce senza<br />

canto. L’eccezione è Fin, una rima<br />

interna alla carriera dei Faust, visto<br />

che riverbera il finale (semplicemen-<br />

te perfetto) di Miss Fortune, brano<br />

conclusivo di Clear. Ma anche, coe-<br />

rente con la “francesità” dilagante<br />

nell’album, quel brano ci rimanda a<br />

Le Mepris di Godard, dove, in piena<br />

Nouvelle Vague, una voce introduce-<br />

va il simulacro della visione, facen-<br />

do le veci dei titoli di testa.<br />

La title track è come un tema à la<br />

Krautrock montato su un finale alla<br />

Gastr Del Sol: è il prezzo da pagare<br />

per l’interessamento del prezzemo-<br />

lo O’Rourke, che è evidentemente<br />

la cartina di tornasole del tempismo<br />

che hanno avuto i Faust negli anni<br />

Novanta (ciò è dimostrato anche<br />

dalla presenza, a una delle chitar-<br />

re, di Keiji Haino), quel tempismo<br />

che è mancato loro per IV. L’effetto<br />

è più classicamente “cosmico”, mol-<br />

to più che nel pieno splendore della<br />

Kosmsiche Musik. E sarà così da lì a<br />

un’altra decina d’anni abbondante.<br />

N u l l a d i s e r i o<br />

È brutto dirlo, ma il risultato più<br />

evidente della rinascita del pugno<br />

radiografato è stata una logorrea<br />

di pubblicazioni antitetica al tempe-<br />

ramento faustiano. A testimonianza<br />

del tempismo di cui sopra, da Rien<br />

a oggi abbiamo assistito a una ven-<br />

tina di uscite, di cui solo due - tre,<br />

se aggiungiamo una collaborazione<br />

- sono album veri e propri. Il primo<br />

è anche meglio di Rien, si intitola<br />

You Know Faust (Klangbad, 1997)<br />

(7.0/10) e sperimenta una sofistica-<br />

zione del rumore abbastanza inedita.<br />

Il secondo è Ravvivando (Klangbad,<br />

1997), ma scopre l’acqua calda e si<br />

scotta. La collaborazione - con Dä-<br />

lek, ma senza Péron - è Derbe Re-<br />

spect, Alder (Staubgold / Klangbad<br />

/ Indigo, 2004). Riguardo a quest’ul-<br />

tima, la commistione con l’hip-hop<br />

non giova granché: tale tentativo lu-<br />

gubre e oscuro urla la sua schiavitù<br />

nei confronti degli anni 90. Si salva<br />

Collected Twighlight, proprio perché<br />

valorizza il lavoro batteristico, oltre<br />

che un ululato elettronico strozzato.<br />

Ma già da You Know (e ancor prima<br />

da Rien) lo stile ha del tutto perso<br />

quella eccellente combinazione di<br />

artificiale e sanguigno che, a pen-<br />

sarci bene, per tutti gli anni 70 era<br />

stata una costante - probabilmente<br />

grazie alla batteria di Zappi. Tut-<br />

to sommato è allora meglio vedere<br />

queste menti straordinarie dal vivo,<br />

anche se le menti oggi sono solo due<br />

(ha abbandonato anche Irmler), coa-<br />

diuvate a turno dai due Ulan Bator<br />

Audrey Cambuzat e Olivier Man-<br />

chion. Sembra che qualcuno l’abbia<br />

capito: è appena uscito l’ennesimo<br />

cofanetto (In Autumn) in DVD.<br />

Qui però urge una conclusione un<br />

po’ mistica. Probabilmente Julian<br />

Cope (autore di Krautrocksampler,<br />

bigino indispensabile per iniziarsi al<br />

rock tedesco), dubiterebbe delle ul-<br />

time cose dette. E ci sta, perché ci<br />

sono molti modi di fruire del krau-<br />

trock, tra i quali ne isoliamo due e<br />

li mettiamo in risonanza reciproca,<br />

perché, come ci insegna la patafi-<br />

sica, le contrapposizioni pure non<br />

esistono. Da un lato si può guardare<br />

criticamente alle costruzioni kraute,<br />

calcolarle nel loro spazio e nel loro<br />

tempo, come abbiamo cercato di<br />

fare, dall’altro si può cedere, sguin-<br />

zagliare i propri neuroni perché as-<br />

secondino il trip, come spesso fa<br />

Cope, e lasciare che le strutture dei<br />

Faust, anche quelle meno riuscite,<br />

quelle più derivative, alimentino la<br />

Grande Musica Caos-mica, che è<br />

vorace e ha bisogno di cibo, anche<br />

non originale. Ma sarebbe forse una<br />

cosa troppo seria.<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 8 9<br />

C l a s s i c


C l a s s i c<br />

Che lo si consideri il canto del cigno di una band che aveva esaurito la sua<br />

carica espressiva, o semplicemente il cambio di pelle di una creatura in<br />

continua mutazione, sta di fatto che Western Culture rappresenta l’ultimo<br />

capitolo del “collettivo” Henry Cow, termine che meglio si addice ad un<br />

progetto “aperto” che ha fatto della trasformazione la sua più importante<br />

caratteristica. Un solo capitolo, comunque, di un libro che di lì a poco sa-<br />

rebbe continuato con altri nomi (Art Bears, Cassiber e via dicendo), senza<br />

tuttavia tralasciare l’approccio avanguardista e “di opposizione”, già punto<br />

di partenza del nucleo originario.<br />

Abbandonata momentaneamente la voce di Dagmar Krause (che si sa-<br />

rebbe presto riunita a Frith e Cutler per formare gli Art Bears) e conclusa<br />

l’esperienza di fusione con gli Slapp Happy, il quartetto (con Lyndsay<br />

Cooper ai fiati, Chris Cutler alla batteria, Hodgkinson arrangiatore e poli-<br />

strumentista e Fred Frith alla chitarra) chiude in bellezza i suoi quasi dieci<br />

anni di attività con un disco che è la logica conclusione di un percorso artistico partito dal jazz-rock e approdato<br />

ad una musica sempre più concettuale e sempre meno legata ad un genere ben preciso.<br />

Western Culture è senz’altro l’album più difficile, la scommessa più azzardata della band di Cambridge, il più<br />

vicino ai metodi compositivi della musica “colta”, dichiarazione esplicita e critica allo stesso tempo, di apparte-<br />

nenza alla cultura occidentale, profonda analisi sonora della società industriale, nell’epoca più decadente del<br />

capitalismo mondiale, che proprio alla fine degli anni 70 viveva il suo momento più difficile. Lasciata la Virgin per<br />

motivi strettamente ideologici, nel momento in cui la label, dopo il suo periodo di grande disponibilità e interesse<br />

verso il progressive, muoveva i primi passi verso il suo futuro da grande major iper-commerciale e in attesa di<br />

dare vita alla Recommended Records (ReR), divenuta poi la casa comune della comunità di Rock In Opposition e<br />

più in generale degli artisti coerentemente indipendenti, Western Culture esce per la Broadcast, piccola etichet-<br />

ta fondata da loro stessi con l’intento di svincolarsi il più presto possibile dalle ridicolaggini della ormai celebre<br />

etichetta inglese.<br />

La totale libertà compositiva del quartetto si esprime qui nella sua essenza, intervenendo sulla forma e sui conte-<br />

nuti, estremizzandoli. Due lunghe suite, che sintetizzano in maniera eccellente le due anime della band: History<br />

& Prospects porta la firma di Hodgkinson e già dai titoli presuppone il lato più “marxista” (oddio, non credo che<br />

accetterebbe questo aggettivo, bastian contrario com’è) di questa sorta di analisi sociologia in musica. Industry,<br />

The Decay Of The Cities, richiamano esplicitamente alla decadenza delle grandi città, culla del capitalismo e ve-<br />

trina del mondo moderno e la partitura (tipica dello stile dell’autore) ben si addice, nel suo incedere frastagliato<br />

e scomposto, alla schizofrenia del mondo occidentale. Le industrie e i grattacieli crollano metaforicamente sotto i<br />

colpi della chitarra-percussione di Frith e le punteggiature dei fiati e della batteria, quasi fossero proiettili sparati<br />

a cadenza irregolare.<br />

Di più ampio respiro la seconda suite, Day By Day (scritta dalla Cooper), che, nei quattro episodi che la costitui-<br />

scono, lascia più spazio ai fiati e alle trame contrappuntistiche. Ne deriva un’atmosfera più compatta, meno fra-<br />

stagliata della precedente e più legata ad un sound tipicamente rock progressive, almeno per quello che riguarda<br />

le parti tematiche. Per il resto anche in questo caso, i cambi rimangono bruschi e alla fine si scopre di trovarsi<br />

di fronte ad una successione di quadri sovrapposti che si intersecano melodicamente gli uni con gli altri, come<br />

in una sorta di sinfonia mahleriana (massì, azzardiamo!) in cui tutto è legato ma non secondo la semplice logica<br />

compositiva dello sviluppo tematico.<br />

Cala il sipario, dopo poco più di una trentina di minuti, su una delle realtà musicali più interessanti degli anni Set-<br />

tanta. Senza rancori, né rimpianti, così come si era aperto. Anche perché il sipario, in realtà, in quanto simbolo<br />

di divisione tra realtà e spettacolo, questi geniali ex-studenti di Cambridge, non lo avevano mai neanche imma-<br />

ginato, provando a smontare pezzo per pezzo il teatro dello show business, senza la speranza né l’intenzione di<br />

riuscirci. Semplicemente rimanendo se stessi e custodendo gelosamente le proprie idee, di cui oggi, per nostra<br />

fortuna (e grazie ad una mai sopita loro ispirazione) possiamo ancora godere appieno.<br />

9 0 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

Classic album<br />

Henry Cow - Western Culture<br />

Daniele Follero


Lost Grunge Heroes<br />

Gobblehoof - Confessions Of Mr. Sadist<br />

Nell’anno del ritorno sulle scene di J. Mascis e proprio quando, con Al-<br />

most Complete (Baked Goods, 2007, opera omnia della band hc), i Deep<br />

Wound (J. Mascis, Lou Barlow, Charles Nakajima, Scott Helland) paiono<br />

retrospettivamente tornare all’onore delle cronache musicali nostrane, non<br />

è forse fuor di luogo riesumare il cadavere, non del tutto decompostosi<br />

nella memoria dei cultori grunge della prima ondata, dei Gobblehoof. Ad<br />

Amherst, infatti, non furono attive solo stelle di primissima grandezza quale<br />

il Dinosauro Giovinetto. Altro smosse le acque rock, fra i tardi anni 80 ed il<br />

principio della decade successiva, in USA. Perlomeno in Massachussetts.<br />

Charles Nakajima, cantante dei Deep Wound, fu il fautore primo della mi-<br />

steriosa creatura grunge chiamata Gobblehoof. Così come emerse il capo<br />

dal marasma musicale “di genere” dell’epoca, altrettanto repentinamente lo<br />

reimmerse per mai più riaffiorar sulle acque rock da allora a noi. L’esordio<br />

del combo è un extended-play omonimo: Gobblehoof (New Alliance, 1990).<br />

J. Macis - c’è anche lui - si diletta a menar giù di batteria con la grazia di un bulldozer in questo disco. Canta invece<br />

Nakajima. E lo fa con passionalità somma, personalità versatile, a volte parlando e scandendo le parole più che<br />

cantarle, sempre ben conscio dei suoi psicodrammi interiori. Teso, quando serve, a consumarsi/immolarsi sul palco<br />

della canzoncina grunge da pochi minuti come istrione ben navigato. Uno spreco di mezzi espressivi il suo, non di<br />

quelli tecnici. Non osa nemmeno accreditarsi come vocalist nella backsleeve del vinile. Piuttosto come “narrator”.<br />

Gran uso, ed abuso, di quella gracchiante voce che Madre Natura gli ha donato, insomma. Ma qui il gioco funziona<br />

eccome. Soffocato da strette al collo del blues più primitivo, il sound dei <strong>neo</strong>nati Gobblehoof non si nutre solamen-<br />

te del latte poppato dalla mammella di Mamma J. Mascis. Tutt’altro! Charles Nakajima e Tim Aaron gestiscono il<br />

gruppo dalle fondamenta. Compongono l’uno i testi, l’altro le musiche. Ed è sul loro talento che la baracca si regge,<br />

se vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare. Sono loro, infatti, con concreta fantasia musicale, a dettare le<br />

direttive sonore in questo corto LP. Il registro, dicevamo, potrebbe essere quello del blues primitivo dei Birthday<br />

Party. Ma con più raziocinio rivisitato, meno barbaro e forse non meno efferato. Torch, Fried, Upside Down, Mad<br />

Dog, Sacrifice, Menacing Realm (su CD anche What’s A Head? e Age Of Darkness) sono tutti titoli genericamente<br />

ascrivibili al grunge. Ad esso furono accomunati a posteriori, a cose fatte. All’epoca, il loro disturbante melange<br />

di heavy metal sound e psichedelia pesante accelerata, era grunge per appartenenza anagrafica. Il suono grunge<br />

come protesi evolutiva di certo post-hc. Tutto qui. Anche i sommi dell’hard rock storico vengono tirati per le ma-<br />

niche a ballare queste armonie prepotenti. Led Zeppelin su tutti forse. Anche se ben mascherati. Camuffati sino<br />

a rendersi spesso solo vaga ascendenza sul suono complessivo dei Gobblehoof. Che già è, e sempre più sarà,<br />

psichedelico e maniacale. Non da ultimo nei testi, come vedremo. Uno iato di ben tre anni separa però l’esordio dal<br />

successivo capolavoro. Freezer Burn (New Alliance, 1992) - al nucleo storico Nakajima/Aaron si aggiungono ben<br />

due innesti: Kurt Fedora e George Berz - vola alto, libra addirittura, in una terra di nessuno fatta di psichedelia,<br />

hard rock, grunge ed un qualcosa di non ben classificabile, in termini di influenze sulla musica della band, dovuta<br />

forse alla dipartita di Mascis (qui solo produttore) e al prepotente emergere delle liriche di Nakajima. Questo ele-<br />

mento disturbante è la psicosi. Cantata in Sadist, di cui vale riassumere in breve la storia narrata. Quella di uno<br />

psicopatico che attende le sue innocenti giovani vittime sul retro di uno schoolbus. L’intero pezzo, in un crescendo<br />

traumatico ed orrorifico che ha pochi pari nella storia non sempre gloriosa del grunge, narra la vicenda dal punto di<br />

vista di questo oscuro figuro: Mr. Ernie. Si apre come una fantasia macabra rievocata, nel nome del Marchese de<br />

Sade, dal protagonista stesso come in un flusso di coscienza tutto suo. Poi, a poco a poco, l’invito (“louder plea-<br />

se!”) che il cantante/Mr. Ernie fa a se stesso riconduce la narrazione musicale nel campo della confessione “aperta<br />

al pubblico”. Adesso il cantante, quindi Mr. Ernie, parla di se stesso in terza persona. Le musiche sono sempre più<br />

cupe. L’imprinting vocale è quello di Nick Cave. Il vissuto drammatizzato prima, diviene poi epico ed infine catartico<br />

lamento lisergico. Sino alle urla finali, sampling di donne gementi sullo sfondo del tappeto sonoro, accompagnate<br />

dalle chitarre che sempre più si amalgamo in un unico riflusso di suoni distorti e cadenzati. Bellissimo. Il resto<br />

dell’album non è certo fatto di riempitivi. Tutt’altro. Dai Minutemen in versione funky grunge della successiva Sin<br />

Tax alla cingolata opener Nomad Lust, dall’incrocio Saccharine Trust/Black Sabbath in Embryo sino al singolo<br />

Headbanger (a voce distorta). Ciliegine sulla torta la ballata Seed e la messa nera a ritmo hard rock di Shotgun.<br />

M a s s i m o P a d a l i n o<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />

C l a s s i c


l a s e r a d e l l a p r i m a a c u r a d i Te r e s a G r e c o<br />

VISIONI<br />

9 2 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

3 0 0 ( d i Z a c k S n y d e r – U s a , 2 0 0 7 )<br />

300 è uno dei film più spettacolari della stagione, è cinema uscito fuori<br />

dalla graphic novel di Frank Miller. 300 è il numero dei soldati spartani<br />

che, per giorni, con Re Leonida in testa, inchiodarono alle Termopili la<br />

più grande macchina da guerra dell’antichità, l’esercito persiano. 300 è il<br />

resoconto di un massacro. 300 è il prezzo pagato per la libertà. 300 non<br />

è solo un film, ma epica allo stato puro, una forma narrativa con i muscoli<br />

in evidenza e le spade sguainate, il cielo nero di frecce e la terra rossa di<br />

sangue. 300 è un film americano, e lo si capisce da molte cose, specie da<br />

come dispiega l’epica – del resto, Saviano, su L’Espresso, scrive: “Gli Usa<br />

sono gli ultimi in grado di fare epica. L’epica si sedimenta e si crea quando<br />

è forte il senso di appartenenza a una civiltà e ancor più quando essa si<br />

sente minacciata. L’epica la fonda e la difende. In contrapposizione agli<br />

altri, ma non può essere che così.”<br />

Eppure c’è qualcosa che il giovane regista Zack Snyder, con questo suo<br />

film, aggiunge a secoli e secoli di racconto epico. Il rallenti. Chiaramente<br />

non lo inventa Snyder, né è la prima volta in cui compare tra le pieghe<br />

dell’epica cinematografica – per crederci, guardate i più recenti Alexan-<br />

der, Troy, Il gladiatore. Ma in 300 l’uso è sistematico. Non c’è scena di<br />

battaglia che non dia prova di un rallenti. E’ così chiara e lampante la<br />

scelta, che la struttura, l’estetica del film, potrebbe benissimo reggersi su questa piccola figura del linguaggio<br />

cinematografico.<br />

Il risultato è che il film è punteggiato dal rallenti. Proprio come le virgole in un testo letterario, imprime un effetto<br />

ritmico, crea una micro-sospensione temporale, insinua la suspense non solo in mezzo alla narrazione, ma per-<br />

fino tra i gesti ed i movimenti degli attori. Con il rallenti la battaglia diventa una danza macabra, un minuetto tra<br />

teste mozze e braccia recise. Ma in fondo, 300 azzarda che lo stesso racconto epico sia un grande esercizio di<br />

rallenti: perchè rallenta il corso degli eventi, e spinge il lettore/spettatore a sospendere la vita quotidiana, e farsi<br />

catturare dalla storia, ripercorrere la leggenda.<br />

Resta da aggiungere che un film come questo, al di là dei meriti e delle accuse, è molto interessante, perché in<br />

sole due ore spinge, condensa, riformula il nostro immaginario, il nostro modo di pensare, vedere, la storia, le<br />

storie, il cinema: non è difficile scorgere gli stilemi del pulp (gli schizzi di sangue), l’iconografia greca ripresa<br />

dai vasi, il bestiario fantastico alla Tolkien, le coreografie sanguinarie stile Matrix, un certo modo di raffigurare<br />

la virilità – che tra l’altro, nonostante sia un racconto di eroi, dove si consacra la famiglia e l’amore coniugale,<br />

sconfina sorprendentemente nel camp, parte della cultura gay. E tutto questo senza soluzione di continuità, come<br />

se il film fosse una centrifuga che rimescola i nostri tempi, restituendogli nuove forme, nuove luci – ma soprat-<br />

tutto, un’arcaica ferocia.<br />

G i u s e p p e Z u c c o


H o l l y w o o d l a n d ( d i A l l e n C o u l t e r - U S A , 2 0 0 6 )<br />

La storia di Hollywood è piena di starlet drogate e prostituite, morte in<br />

circostanze misteriose, di produttori poco sensibili e votati al dio denaro,<br />

gente che insegue il sogno e di cui nessuno si ricorderà più. La storia di<br />

questo film è una di queste. Tema interessante ma il suo problema è che<br />

è raccontata male e non riesce ad intrigare. E’ la sequenza degli avve-<br />

nimenti che non convince e la cosa, dopo un po’, comincia a scocciare<br />

perché sembra che Coulter, la vicenda, non abbia proprio voglia di raccon-<br />

tarcela. Così sceglie la strada del montaggio alternato fra differenti piani<br />

temporali, pretesto che nasconde forse il fatto che nessuno, nemmeno lo<br />

sceneggiatore, avesse ben capito cosa accadde quella fatidica notte. Il<br />

protagonista è George Reeves, divenuto celebre grazie alla serie tv Le<br />

avventure di Superman, tra il 1951 e il 1958. Ma Reeves nutriva ben<br />

altre aspirazioni. Il suo sogno finì con una morte violenta, ferito da arma<br />

da fuoco, in circostanze misteriose nella sua casa di Los Angeles. La so-<br />

luzione più probabile fu individuata nel suicidio. Le cose che si salvano<br />

del film sono due: l’ambientazione, al punto giusto del glamour degli anni<br />

‘50 quando fare film era già imporre mode, atteggiamenti, gesti, accessori.<br />

L’altra cosa sono gli interpreti: due, di carisma e di mestiere come Bob<br />

Hoskins e Diane Lane e due più giovani, Ben Affleck, che ha pure preso la<br />

coppa Volpi (mi permetto di dissentire) e Adrien Brody che convince di più, mentre commenta le vicende, dolente<br />

e ironico, beve e fuma costantemente come ogni detective che si rispetti e mastica chewing gum come i ragaz-<br />

zetti che sballano per il loro beniamino televisivo.<br />

Già negli anni ‘50 in USA l’eroe visto in una serie tv veniva considerato più raggiungibile, una specie di simpatico<br />

vicino di casa dell’intera nazione. Ma gli attori tv hanno sempre patito questa condizione, trovandola svilente in<br />

confronto a quella del collega cinematografico. Che questo film parli di quanto la tv abbia influenzato il cinema<br />

lo dimostra anche il fatto che sia il regista Coulter che lo sceneggiatore Bernbaum provengono dalle serie tv<br />

(Sopranos, Six Feet Under, Sex and the City, X-Files il primo, A-Team e Halloweentown il secondo). E lo si vede<br />

dagli accostamenti tra diverse formule espressive: un po’ di noir, una punta di malinconia drammatica e melensa<br />

e lo sfondo giallo del delitto da indagare, alla maniera del contenitore tv.<br />

Una curiosità: il titolo doveva essere Truth, Justice and the American Way ma la DC Comics non lo ha per-<br />

messo perché troppo simile alla frase-lancio della serie tv in America. Un tempo, la famosa scritta su Mount Lee<br />

era “Hollywoodland” (l’impresa immobiliare di Mack Sennett) poi venne ristrutturata nei ‘60 eliminando le ultime<br />

quattro lettere. In quegli stessi anni raccontati dal film una giovane attricetta, Peg Entwistle, dopo essersi arram-<br />

picata sull’ultima lettera, la tredicesima, la D finale, si buttò nel vuoto, nauseata dall’indifferenza delle majors.<br />

Fu seguita da parecchi altri. La faccia oscura del luccichio del cinema.<br />

C o s t a n z a S a l v i<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />

l a s e r a d e l l a p r i m a


l a s e r a d e l l a p r i m a<br />

VISIONI<br />

9 4 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

L’ombra del potere – The Good Shepherd (di Robert De Niro - Usa, 2006)<br />

Da sempre, la tentazione del cinema americano è quella di puntare i ri-<br />

flettori sulla storia del proprio paese per scandagliarne le ombre e portare<br />

allo scoperto gli scheletri. Ma se il cinema indipendente stringe il campo<br />

sul presente o sul passato prossimo con una massiccia produzione di<br />

documentari, il cinema hollywoodiano preferisce scardinare le storie del<br />

passato, quelle ormai ingessate nel mito e nella leggenda. Così a Gangs<br />

of New York di Scorsese, o al recente split-film su Iwo Jima di Clint Ea-<br />

stwood, ecco aggiungersi L’ombra del potere di Robert De Niro.<br />

Il film, allacciandosi alla fulminante carriera di Edward Wilson – un ottimo<br />

e gelido Matt Damon, come non si vedeva da Gerry di Van Sant – rac-<br />

conta come nacque il più celebre e potente servizio segreto del mondo: la<br />

CIA. Dalla società para-massonica degli Skulls and Bones (che annovera<br />

tra i suoi iscritti tutti i presidenti degli Usa); all’OSS, l’ufficio dei servizi<br />

strategici in attività durante la seconda guerra mondiale; alla CIA vera e<br />

propria, progettata per contrastare l’Urss in piena guerra fredda. Ma, no-<br />

nostante il grande lavoro di ricostruzione storica, la cura e la perfezione<br />

dei dettagli, il taglio piano e documentaristico, che eccelle soprattutto<br />

nella precisione delle scenografie, la sceneggiatura di Eric Roth media<br />

con abilità tra la coralità con cui si dispiega la Storia e la singolarità della<br />

vita del protagonista. Così, il motore della narrazione - che spinge il film all’indietro in lunghi flashback - sono gli<br />

eventi che fanno del promettente studente di Yale il capo indiscusso del controspionaggio: un uomo taciturno, la<br />

cui vita quotidiana si svuota mentre il potere si concentra nelle sue mani. Da notare – ed è una finezza da sce-<br />

neggiatori – che il grande amore della sua vita sarà una donna sorda: l’unica persona che, in un mondo di spie,<br />

non può carpirgli segreti. Ovviamente, come dice il titolo, la fotografia del film è intessuta di ombre e chiaroscu-<br />

ri. Le azioni si svolgono soprattutto di notte, e tra l’oscurità ognuno mette in atto doppi giochi. Ma non sono le<br />

azioni ciò che interessano De Niro. Anzi, per un film del genere, di azioni ce ne sono perfino poche e la violenza<br />

è concentrata in alcune scene, come se la riflessione e la descrizione minuta dei Servizi potessero lasciare in-<br />

tuire tutto il resto – tanto che L’ombra del potere appare come l’esatto opposto di Munich, sebbene condividano<br />

lo stesso sceneggiatore. Tra le poche, solo una scena esplora con estrema precisione la violenza del sistema e<br />

riannoda i fili con il presente: quella dell’interrogatorio che diventa tortura, dove la vittima ha la testa ficcata in<br />

un sacco nero, che subito ricorda i procedimenti utilizzati dall’esercito americano nelle carceri irachene di Abu<br />

Ghraib. Forse lo spaccato sulla burocrazia del potere contagia tutto il resto: un protagonista grigissimo, una<br />

regia controllata, un tono dimesso che non strappa emozioni. Il potere è banale, ma i film sarebbe meglio di no.<br />

G i u s e p p e Z u c c o


M o r t e d i u n p r e s i d e n t e ( d i G a b r i e l R a n g e – U K , 2 0 0 6 )<br />

La storia come avrebbe potuto essere e le sue implicazioni: questo il tema<br />

della fittizia ricostruzione documentaristica di Morte di un presidente<br />

dell’inglese Gabriel Range, che tante polemiche ha suscitato in America.<br />

Nell’ottobre del 2007, subito dopo aver parlato a un convegno a Chicago,<br />

George W. Bush viene assassinato e muore dopo poche ore, mentre il<br />

vicepresidente Cheney gli subentra. Alternando materiale d’archivio e ri-<br />

costruzioni con attori – alla maniera di un report tv, con interviste ad FBI,<br />

entourage, poliziotti e addetti alla sicurezza - si assiste da una parte agli<br />

eventi che precedono l’attentato – l’arrivo di Bush in mezzo ad imponenti<br />

manifestazioni di protesta contro la sua politica in Iraq – dall’altra alle<br />

indagini che ne seguono. Paradigmatico appare il senso di colpa degli<br />

agenti dell’FBI, deputati alla difesa del presidente, che disperatamente<br />

ammettono di aver lasciato falle nella sorveglianza.<br />

Appare subito chiaro che, così come per i film di Michael Moore, la pelli-<br />

cola è un forte atto d’accusa nei confronti dell’amministrazione americana<br />

in merito a limitazioni dei diritti civili e razzismo, post 11 settembre. Le<br />

indagini si rivolgono infatti prevedibilmente verso una pista araba, nono-<br />

stante alcune evidenze portino anche altrove. Al regista interessa mostra-<br />

re infatti, più che la prosecuzione dei fatti in direzione della successiva<br />

presidenza, il clima di sospetto sociale che si va man mano instaurando, mentre si ricostruisce l’attentato; il<br />

mescolare vero e finzione si sovrappone alla “costruzione” di prove ad hoc, elemento quest’ultimo che tanta parte<br />

ha avuto nei fatti recenti post-torri gemelle, e non solo.<br />

L’uomo di origine siriana che viene condannato infatti, anche forzando alcune prove, ne è l’evidente dimostrazio-<br />

ne. Niente che non si sapesse già, quindi e si potesse supporre, data la storia degli ultimissimi anni. E il film si<br />

spinge solo alla fine verso l’altra pista, mentre il sospettato rimane programmaticamente in carcere, e vi resterà<br />

anche dopo che il vero colpevole (un veterano nero americano) sarà rivelato.<br />

Il film risente della forma documentaristica, lenta in molti punti, nonostante un buon montaggio tra vero e rico-<br />

struito; si perde infatti nei molti rivoli delle interviste e delle ricostruzioni, risultando meno efficace proprio quan-<br />

do si vuole spiegare troppo. Le domande che si pone ruotano intorno al concetto di democrazia americana e sul<br />

senso insito di giustizia e libertà, così opportunamente esportati all’estero, che si trasformano in opportunismo<br />

politico e propaganda. L’espressione di un forte dissenso quindi, e la denuncia della ormai ineluttabile paranoia<br />

americana nei confronti del diverso, che sta alla base della sua iperdifesa socio-politica. Un altro docu-film che<br />

si aggiunge alla serie di testimonianze vere e ricostruite sul clima di caccia alle streghe di questi ultimi anni. Un<br />

what if ambientato in un futuro così drammaticamente già avveratosi.<br />

Te r e s a G r e c o<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9<br />

l a s e r a d e l l a p r i m a


l a s e r a d e l l a p r i m a<br />

CULT MOVIE<br />

To r o s c a t e n a t o ( d i M a r t i n S c o r s e s e - U s a , 1 9 8 0 )<br />

Tra cinema e boxe, l’attrazione è fatale. La pellicola sembra impressionarsi<br />

sul serio solo se davanti alla macchina da presa piovono pugni assassini<br />

e i nasi si ammaccano, i sopraccigli si rompono, i pugili sputano<br />

sangue. Nella boxe c’è tutta una grammatica della violenza che il cinema<br />

non ha mai smesso di mettere in scena. I combattimenti possono avvenire<br />

nei luoghi più strani, tra i personaggi più differenti, con durate temporali<br />

ora fulminanti ora più estese, ma è sempre la stessa logica che accomuna<br />

la scazzottata tra commilitoni in Barry Lyndon, la mattanza seriale di<br />

Rocky, i pestaggi deliranti di Fight Club, la lotta progressista di Million<br />

Dollar Baby. La boxe radicalizza il conflitto, e questo piace al cinema.<br />

Né intreccio, né trama, neppure l’ombra di complicazioni psicologiche o<br />

di ideologie di massa: solo due corpi, nel deserto bianchissimo del ring,<br />

a darsele di santa ragione – il Bene contro il Male, l’eroe contro l’aggressore,<br />

il prevalere della Vita contro la stasi della Morte. Ed è questa<br />

la magia della boxe rappresentata sul grande schermo: caricare i pugili<br />

di significato, farli diventare simboli spietati di qualcosa che resisterà<br />

nella memoria. Ovviamente c’è di più. La boxe è un intreccio fortissimo di<br />

passato e di futuro. Le sue radici non affondano solo nella preistoria del<br />

conflitto - l’uno contro l’altro, unico fine: la sopravvivenza – ma soprattutto<br />

nello spettacolo del conflitto. La boxe è violenza per gli occhi, battaglia<br />

organizzata per lo sguardo, guerra stilizzata per la visione. La boxe è tale solo quando le luci sono puntate sui<br />

pugili e il pubblico pagante circonda il ring. Per questo è sopravvissuta così a lungo: perché fin dall’inizio concilia<br />

l’arcaico con il moderno, l’arena con il cinema, il sangue e i pugni con la pellicola e i pixel. In fondo - per<br />

il dramma, la suspense e l’inevitabile catarsi finale - è già un’opera teatrale divisa in quindici atti. Ma è con il<br />

cinema il legame formidabile.<br />

Guardate meglio: il ring immacolato, su cui si staglia nettamente il rosso del sangue e il movimento dei pugili, è<br />

uno schermo cinematografico disposto orizzontalmente. Su di esso, i pugili scorrono e agiscono come attori tridimensionali.<br />

La boxe, così, consegna alla visione ciò che il cinema insegue da sempre: il volume dell’immagine. Ma<br />

non basta. Per guardare ancora più in profondità, infilate i guantoni, salite sul ring, e mollate un uppercut, prima<br />

che l’avversario ve lo rifili. Ovviamente, è la prima volta che siete sul ring. E per quanto schiviate, e vi muoviate<br />

bene, i pugni vi raggiungono e vi stordiscono. Così imparate che fanno male, che i colpi più feroci puntano al viso<br />

- e se non è la mascella a saltare, di sicuro il guantone vi si è stampato molto vicino agli occhi, tanto che ormai un<br />

sopracciglio è andato, e sanguina, sanguina a tal punto che alla fine del round vi devono ricucire. Cominciate a capire<br />

come andrà avanti la lotta: con gli occhi gonfi, che quasi non ci vedete più. Un paio di nuovi colpi ben piazzati,<br />

e nei prossimi round vi batterete ciechi, senza più controllo. Allora, fisicamente provati, capite: il cinema, quando<br />

filma la boxe, racconta della crisi dello sguardo, della perdita di controllo dello sguardo, della cecità imminente, del<br />

nero che arriva senza dissolversi in nuove immagini. Sigmund Freud direbbe: una sorta di castrazione.<br />

I registi, lungo la loro carriera, avvertono spesso questa sensazione da pugile. Basta poco: un flop in sala, le<br />

incomprensioni con i produttori, le difficoltà della messa in scena, i soldi che non girano, le tristezze personali,<br />

e subito sembra che le storie non quadrino più e lo sguardo sia tanto confuso quanto poco incisivo. Martin Scorsese<br />

provò una cosa del genere tra il 1976 e il 1978. New York, New York era appena uscito, ma non piacque a<br />

nessuno, tantomeno al regista – sebbene oggi venga apprezzato come rivisitazione evocativa del classico musical<br />

in stile Hollywood. All’insuccesso si aggiunsero depressione, asma e problemi personali. Così, per evadere<br />

dal perimetro dello sconforto, si aggrappò con forza al progetto di Toro scatenato. L’idea arrivò con Robert De<br />

Niro. Fu lui a consigliargli di ricavare un film da Raging Bull, la biografia di un pugile italo-americano, Jack La<br />

Motta. La stesura della sceneggiatura fu parecchio complicata. Passò dalle mani di Paul Schrader e Mardik<br />

Martin prima che Scorsese e De Niro volassero su un isola per completare l’opera tranquilli. Un paio di settimane<br />

più tardi il copione fu pronto e il film diventò realtà. Quello che venne fuori fu pellicola a cinque stelle: roba da<br />

Storia del Cinema, e uno tra i migliori film di Scorsese – benché ci sia da sgranare gli occhi per qualsiasi suo<br />

lavoro – tanto che incassò due Oscar e ancora oggi scintilla di bellezza e disperazione. Il film, seppure con molti<br />

cambiamenti, girato nel bianco e nero dei reportage fotografici degli anni ’40, cavalca la parabola esistenziale di<br />

Jack La Motta: dalla palestra nel Bronx dove si allena, al ring su cui conquista il titolo di campione del mondo,<br />

9 s e n t i r e a s c o l t a r e


ai locali di infimo ordine dove si guadagna da vivere recitando monologhi. La particolarità di Jack La Motta era<br />

quella di trascinarsi dietro il ring, dovunque andasse. La vita, per lui, non era poi così diversa dai quindici round,<br />

se le sberle erano la norma della vita quotidiana, e l’unico modo per difendersi era quello di attaccare per primo<br />

e fare male senza riserve. Gli insegnamenti della boxe erano per La Motta guida e metafora - una strategia esistenziale<br />

violenta e primitiva. Per non andare giù al tappeto, mise alle corde praticamente tutta la sua famiglia:<br />

non solo la prima moglie, ma perfino Vickie, il suo unico amore, e Joey, fratello e manager. Per questo, vinse<br />

e perse senza soluzione di continuità. Perchè in tutti vedeva, e cercava, l’avversario da battere, il nemico da<br />

stendere. Ma la resa dei conti arriva nell’ultima scena del film. In un camerino vuoto, davanti ad uno specchio. Lì<br />

rintraccia il profilo del suo più grande rivale: un se stesso fuori forma, strizzato nel vestito elegante, ormai fuori<br />

da qualsiasi giro, senza più nessuno a puntare sulla sua furia.<br />

Scorsese scovò se stesso in quella figura tragica e autodistruttiva. Pensò che quello fosse l’ultimo film che<br />

avrebbe girato. Così trasse da Jack la Motta la storia di un uomo che insegue la redenzione senza trovarla<br />

davvero, e operò perchè il film fosse qualcosa da rivedere e ricordare, tecnicamente completo – insomma, un<br />

testamento. Girò tutto con grande maestria, trovando un equilibrio perfetto tra movimento (i carrelli e i sinuosi<br />

movimenti di macchina sono il brand di Scorsese) e fissità della macchina presa. Adottò tecniche diverse per<br />

filmare i combattimenti e renderli emotivamente unici: il primo con la macchina a mano, il secondo con grandi<br />

focali, il terzo con una carrellata, il quarto in falsa prospettiva. Montò il film, insieme a Thelma Schoonmaker,<br />

come una partitura musicale. Usò la sua conoscenza della storia del cinema e delle opere di Shakespeare, soprattutto<br />

l’Otello. E, infine, meravigliò tutti per la forza e il rigore, anticipando temi e ossessioni che appariranno<br />

poi nei film futuri : la violenza di Quei bravi ragazzi, Casinò, Gangs of New York, la difficoltà nei rapporti personali<br />

di Fuori orario, il martirio de L’ultima tentazione di Cristo, l’isolamento di The Aviator. Qui, il legame<br />

tra Scorsese e De Niro raggiunse la vetta. De Niro scivolò nei panni di Jack La Motta con tale precisione che,<br />

per rendere il personaggio davvero credibile, ingrassò di 30 chili. Le ultime scene furono girate in tutta fretta: il<br />

peso gli causò problemi cardio-respiratori. E tutto questo arriva a noi con la potenza di un Simbolo da aprire e<br />

guardarci dentro. Il cinema, direbbero allora Scorsese e De Niro, non è mai neutro: ma ci cambia, ci ingrassa, ci<br />

deforma, ci trasforma. Spinge più in là la nostra identità, dilata la nostra coscienza, convoglia idee e soluzioni,<br />

muove il futuro. Ovviamente, solo se siamo disponibili.<br />

G i u s e p p e Z u c c o<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9 7<br />

l a s e r a d e l l a p r i m a


i c o s i d d e t t i c o n t e m p o r a n e i a c u r a d i D a n i e l e F o l l e r o<br />

Henry Cowell<br />

IL PROFETA DELLA WORLD MUSIC<br />

d i D a n i e l e F o l l e r o<br />

“Voglio vivere nell’intero mondo<br />

della musica” (Henry Cowell)<br />

A volte, come si dice, l’allievo supera<br />

il maestro. Ma può anche capitare<br />

che la storia sia ingrata (spesso<br />

lo è) e i maestri vengano addirittura<br />

dimenticati o rimangano semisconosciuti.<br />

Henry Cowell è un caso<br />

emblematico di questa “dimenticanza”,<br />

complice il fatto di essere stato<br />

insegnante di una delle più grandi<br />

menti pensanti della musica del Novecento,<br />

John Cage, un compositore<br />

così all’avanguardia da sembrare<br />

venuto dal nulla.<br />

E invece no. Dietro le scelte più coraggiose<br />

del musicista e pensatore<br />

statunitense, risiedono gli insegnamenti<br />

di questo strano personaggio,<br />

tanto anticipatore da cadere<br />

nell’oblio, nonostante i numerosi<br />

riconoscimenti istituzionali di cui,<br />

ancora in vita, ha potuto godere.<br />

Troppo “avanti”, Cowell, anche per<br />

un secolo sperimentale come quello<br />

appena trascorso, che già ai suoi albori<br />

aveva avviato la distruzione dei<br />

linguaggi tradizionali. Così avanti<br />

che persino un grande e importante<br />

compositore come Bela Bartòk,<br />

affascinato dalla tecnica dei cluster,<br />

di sua invenzione, arrivò a chiedergli<br />

il permesso di utilizzarla.<br />

Già, i cluster, quelli che in termini<br />

strettamente musicali vengono definiti<br />

aggregati di seconde maggiori<br />

e minori e che nella pratica si ottengono<br />

premendo mani, braccia o<br />

quant’altro sulla tastiera del pianoforte.<br />

Una tecnica che è diventata<br />

presto uno dei simboli del modernismo<br />

musicale, un gesto dissacrante<br />

nei riguardi della classicità, estrema<br />

sintesi dell’apoteosi del cromatismo.<br />

Ebbene, ne è stato proprio lui l’inventore,<br />

con quel suo tipico estro di<br />

chi intende la musica in una dimensione<br />

“totale”, in quanto insieme di<br />

scienza, umanismo e tecnica strumentale.<br />

9 8 s e n t i r e a s c o l t a r e<br />

La cultura “alternativa” di Henry<br />

a metà tra l’ultra-moderno e il<br />

post-moderno<br />

Henry Cowell può essere, a ben<br />

dire, collocato in quella corrente,<br />

definita modernista, che all’inizio<br />

del secolo scorso si contrappose,<br />

con una rottura decisa, agli ormai<br />

decadenti linguaggi del Romanticismo.<br />

Ma a differenza di molti suoi<br />

colleghi, Cowell aveva una cultura<br />

che andava ben al di là degli ambienti<br />

accademici. Non a caso il<br />

suo più grande maestro in gioventù<br />

fu un famoso etnomusicologo,<br />

Charles Seeger. Con lui imparò a<br />

capire ed apprezzare le musiche<br />

del mondo, dai monti Appalachi al<br />

Giappone, subendone il fascino<br />

della varietà di linguaggi musicali,<br />

sia dal punto di vista compositivo<br />

che antropologico. Questo doppio<br />

aspetto di ricercatore-compositore,<br />

non lo abbandonerà mai: nella<br />

vita del musicista, lo studio e in seguito<br />

l’insegnamento del gamelan<br />

giavanese, la collaborazione con<br />

la scuola berlinese di musicologia<br />

comparata (disciplina genitrice dell’etnomusicologia<br />

e dell’antropologia<br />

musicale) e in particolare con<br />

Eric Von Horbonstel, sono andati<br />

di pari passo agli esperimenti pianistici<br />

e alla carriera di esecutore.<br />

Complici della sua formazione fuori<br />

dal comune, anche i genitori che,<br />

filosoficamente anarchici e poco<br />

convinti dei sistemi educativi, non<br />

hanno esitato a occuparsi loro<br />

stessi dell’educazione del figlio.<br />

E, in effetti, le origini irlandesi del<br />

padre, contribuirono non poco ad<br />

influenzare l’interesse del giovane<br />

Henry per le culture “altre”, che<br />

presto divenne una delle più importanti<br />

caratteristiche del suo essere<br />

musicista. Una sorta di post-moderno<br />

ante litteram, in definitiva. Ultramodernista<br />

(aggettivo usato dalla<br />

critica anche per musicisti come<br />

Varèse e Antheil) e già con un piede<br />

nel nuovo millennio, quello della<br />

globalizzazione, ai suoi tempi ancora<br />

troppo lontano. Si aggiunga a<br />

questo una vita borderline che in<br />

epoca di maccartismo imperante gli<br />

procurò anche la galera (essere dichiaratamente<br />

bisessuali era ancora<br />

un reato nella “libera America”).<br />

Il profilo del perfetto “outsider” a<br />

questo punto è completo.<br />

Cage lo definì “l’’apriti sesamo’ per<br />

la nuova musica americana”, Charles<br />

Ives fu il suo più grande amico<br />

e perfino un conservatore come<br />

Schoenberg lo invitò a Berlino per<br />

tenere delle lezioni ai suoi corsi di<br />

composizione. Nessuno riuscì a resistere<br />

al fascino di quest’ometto<br />

con la faccia da comico che profetizzava<br />

la World Music quando la<br />

musica era per molti ancora una<br />

faccenda tutta interna al mondo occidentale.<br />

Oltre c’era la musica di<br />

tradizione orale, quella della plebaglia.<br />

Dal pianoforte al mondo.<br />

L’evoluzione stilistica di Cowell<br />

dallo sperimentalismo alle musiche<br />

“altre”<br />

Come già accennato, è il pianoforte,<br />

inteso nella sua totalità fisica,<br />

lo strumento principe di Cowell, il<br />

fulcro della sperimentazione musicale.<br />

Le esplorazioni all’interno<br />

della cassa armonica, pizzicando o<br />

sfregando le corde, giocando contemporaneamente<br />

sui pedali per<br />

variare il timbro e l’intensità del<br />

suono, hanno rappresentato un ampliamento<br />

delle tecniche pianistiche<br />

così importante da diffondersi<br />

presto non solo in ambienti colti ma<br />

anche e soprattutto, in ambito jazzistico<br />

e, più in generale, improvvisativo.<br />

Molte delle opere che,<br />

praticamente, sanciranno l’al ba del<br />

pianismo d’avanguardia sono quasi<br />

datati nel periodo che va dagli


anni 20 ai 30: Tiger (1928) prevede<br />

l’uso di cluster suonati con pugni,<br />

avambracci e mano piatta, a seconda<br />

dell’ampiezza dell’intervallocornice;<br />

Aeolian Harp (1923), che<br />

rese nota la tecnica del cosiddetto<br />

“string piano”, sfrutta la manipolazione<br />

diretta delle corde con una<br />

mano, mentre l’altra preme i tasti<br />

senza suonarli; una tecnica simile<br />

è suggerita in The Banshee (1925)<br />

la cui esecuzione si avvale, però, di<br />

due musicisti, uno dei quali gioca<br />

con i pedali del piano mentre l’altro<br />

è intento a manipolare le corde;<br />

di natura più percussiva è invece<br />

Sinister Resonance (1930), in cui<br />

una mano percuote i tasti mentre<br />

l’altra altera il timbro mediante le<br />

corde.<br />

Non è difficile immaginare, a questo<br />

punto, da dove provengano<br />

le intuizioni di Cage riguardo al<br />

pianoforte preparato, logica prosecuzione<br />

delle idee cowelliane.<br />

Sebbene il suo pianismo avrebbe<br />

condizionato in maniera indelebile<br />

la sua carriera di musicista, il compositore<br />

di Menlo Park non si fermò<br />

certo allo strumento solista. Molte<br />

furono anche le partiture a sua firma,<br />

sia per ensemble da camera<br />

che per formazioni orchestrali più<br />

grandi, già dagli esordi. Tra il 1915<br />

e il 1919, infatti, Cowell scrive due<br />

quartetti, Quartet Romantic (1915-<br />

17) e Quartet Euphometric (1916-<br />

19) che già anticipano i presupposti<br />

della sua celebre teoria compositiva<br />

definita Rythm-Harmony, che<br />

consiste, in parole povere, nell’attribuzione,<br />

in un brano polifonico,<br />

di un differente ritmo per ciascuna<br />

linea melodica.<br />

Pochi lo sanno, ma fu proprio questa<br />

teoria ad ispirare Lev Theremin<br />

(inventore qualche anno più tardi<br />

dello strumento che prende il suo<br />

nome) a progettare il Rhythmicon,<br />

uno strumento capace di produrre<br />

simultaneamente una serie di pattern<br />

ritmici. Praticamente l’antenato<br />

della drum machine, la prima rythm<br />

machine del mondo! Naturalmente<br />

Henry Cowell scrisse molto per<br />

questo strumento che, però, cadde<br />

presto in disuso per poi essere rivalutato<br />

negli anni 60 dal produttore<br />

pop Joe Meek, noto soprattutto<br />

per aver lavorato con The Tornados<br />

(numero uno negli U.S.A. nel<br />

‘62) in epoca pre-beatelsiana.<br />

A partire dagli anni 30, il Nostro<br />

si avvicinò sempre più al concetto<br />

di musica aleatoria (altro concetto<br />

che attirerà molto John Cage), conferendo<br />

sempre maggiori responsabilità<br />

di scelta agli esecutori. Uno<br />

tra i suoi migliori brani da camera,<br />

il Mosaic Quartet (String Quartet<br />

N. 3), del 1935, costituito da cinque<br />

movimenti intercambiabili in base<br />

alle scelte degli esecutori, rimane<br />

l’esempio più chiaro della sua<br />

crescente attenzione verso questi<br />

nuovissimi e alquanto avanguardisti<br />

approcci compositivi.<br />

Da non sottovalutare anche l’apporto<br />

e il sostegno che Cowell nella<br />

sua vita diede alla diffusione della<br />

musica contemporanea, soprattutto<br />

grazie alla casa editrice e discografica<br />

New Music, fondata da lui<br />

stesso negli anni 30. Furono molti i<br />

musicisti, da Varese a Ives, a beneficiare<br />

delle sue pubblicazioni per<br />

la diffusione delle proprie opere.<br />

Gli ultimi vent’anni di carriera del<br />

musicista californiano saranno caratterizzati<br />

da un sempre crescente<br />

interesse per le musiche del mondo,<br />

che lo portò a sperimentare le<br />

più svariate tecniche compositive<br />

e ad avvicinarsi con maggiore concretezza<br />

alla musica popolare sia<br />

orientale (Ongaku, del 1957; Homage<br />

To Iran del 1959, Symphony<br />

n. 13 “Madras”, eseguita per la<br />

prima volta nel ‘58 nella città di cui<br />

porta il nome) che occidentale, incluso<br />

il folklore americano e i canti<br />

puritani, che in questo periodo<br />

divenne di moda rivisitare (Hymn<br />

And Fuguing Tunes, composti a<br />

partire dal 1942).<br />

Henry Cow(ell)<br />

Quando Henry Cowell morì nel<br />

1965, dall’altra parte dell’oceano,<br />

un gruppo di poco più che ventenni<br />

si preparava a dar vita a un<br />

collettivo musicale radicale, avanguardista<br />

e comunista che avrebbe<br />

dato uno scossone alla musica<br />

indipendente, radicalizzandone<br />

il linguaggio e avvicinando forme<br />

espressive così lontane come il<br />

jazz, il rock e la musica d’arte del<br />

Novecento. Qualcuno sostiene che<br />

lo strano nome che quei ragazzi<br />

scelsero non stesse ad indicare<br />

qualche fantomatico Enrico Mucca,<br />

ma fosse derivato direttamente<br />

dall’elisione del cognome del compositore<br />

californiano. Qualcun’altro<br />

nega, mentre tra le fonti di ispirazione<br />

dei fondatori della band,<br />

Fred Frith e Tim Hodgkinson, troviamo<br />

scritto il nome di Cowell a<br />

caratteri cubitali, segno che, filologica<br />

o meno, la relazione tra gli<br />

Henry Cow ed Henry Cowell non è<br />

casuale né si esaurisce nel gioco<br />

di parole.<br />

Certo è che uno sperimentatore<br />

come lui avrebbe pienamente approvato<br />

l’approccio rivoluzionario<br />

di quei ragazzi di Cambridge,<br />

intellettuali e fricchettoni che già<br />

alla fine degli anni 60 preparavano<br />

la nascita del loro rock in opposition.<br />

s e n t i r e a s c o l t a r e 9 9<br />

i c o s i d d e t t i c o n t e m p o r a n e i


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