I due volti della Serbia - Europuglia

REGIONE PUGLIA
Assessorato al Mediterraneo, Cooperazione Economica, Sociale e Culturale
con le Regioni del Bacino del Mediterraneo, Attività Culturali, Pace
Assessore
Silvia Godelli
Dirigente Settore Mediterraneo
Bernardo Notarangelo
Funzionario Ufficio Cooperazione con i Paesi del Mediterraneo
Piacentino Ciccarese
e-mail: p.ciccarese@interreg.puglia.it
Soggetto attuatore
Cantieri Teatrali Koreja di Lecce
e-mail: info@teatrokoreja.com
Project Manager
Franco Ungaro
REGIONE ABRUZZO
Assessorato alle Politiche Regionali per i Beni e le Attività Culturali
Assessore
Elisabetta (Betti) Mura
Dirigente Servizio Politiche Culturali, Editoriali e dello Spettacolo
Giuseppina Camilli
Funzionario Ufficio Cultura
Gabriella Manni
AR.CO Artistic Connections
Per una rete adriatica dei teatri
Il progetto AR.CO promosso nell’ambito del programma Interreg IIIA
Transfrontaliero Adriatico si propone di costruire una rete culturale europea in area
adriatica fra amministrazioni, istituzioni culturali e imprese che operano nell’ambito
della produzione e promozione dello spettacolo dal vivo attraverso lo scambio
di esperienze, competenze e pratiche innovative di lavoro teatrale ed artistico.
Si propone di creare uno spazio culturale artistico comune, rafforzando le relazioni
tra il mondo della formazione e il mercato del lavoro nel settore dello spettacolo
dal vivo per migliorare la qualità dei servizi nell’ambito della promozione di attività
culturali e artistiche.
AR.CO è un progetto in rete che vede la Regione Puglia in qualità di lead partner
con il coinvolgimento come partner di Regione Abruzzo, Municipal Assembly of
Smederevo (Serbia), Centar Za Kulturu di Smederevo (Serbia), Mostar Youth
Theatre (Bosnia), Comuni di Nardò, Gallipoli e Novoli, Accademia delle arti di
Tirana (Albania), Drugo More Association di Rijeka (Croazia), National Theatre of
Opera and Ballet-Tirana (Albania), National Theatre for Children-Tirana (Albania),
Ministero della Cultura del Montenegro.
Questo reportage fa parte dell’attività di studio e ricerca del progetto AR.CO finalizzata
alla conoscenza del paesaggio culturale e dei territori partner del progetto.
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I nuovi volti della Serbia
di Nico Garrone

Andrò a Belgrado e Smederevo
Allora è deciso, andrò a Belgrado e a Smederevo dove ha sede il Centar Za
Kulturu partner del progetto AR.CO promosso dalla Regione Puglia.
Frugo nei miei ricordi e mi tornano in mente le immagini di un lontano festival
del Bitef verso la metà degli anni '80 in compagnia di Memè Perlini invitato
con il suo Risveglio di primavera. Era ancora il periodo d'oro del festival diretto
da Mira Trailovich e Jovan Cirilov considerato l'unico ponte tra l'Est e l'Ovest, tra
i paesi comunisti, l'Europa e l'America. Una posizione di cerniera strategica, di
confine aperto agli scambi che aveva consentito al Bitef di diventare un osservatorio
privilegiato e spesso in anticipo su quanto si conosceva in Italia. Quell'anno,
ad esempio, scoprii Peter Stein che aveva messo in scena una interessantissima
pièce di Botho Strauss, La trilogia dell' arrivederci, ambientata in una galleria d'arte
e centrata sulle discussioni, i bisticci, gli interrogativi spinti sull'orlo del grottesco
e dell'assurdo per l'allestimento di una mostra sul Nuovo Realismo. Altra scoperta,
Heiner Müller, assolutamente ignoto da noi, in programma al Bitef con ben tre
dei suoi testi teatrali. Lo incontravo ogni giorno nella sala colazioni dell'Hotel Sava,
un grattacielo di vetro e ferro al centro di Belgrado non lontano dalla chiesa di San
Sava, dove ero alloggiato con altri giornalisti. Era accompagnato dalla moglie
Ghinka, una donna più giovane di lui, molto alta, di una bellezza ombrosa, figlia,
mi dissero, del fondatore del Partito Comunista in Bulgaria, espulsa dal suo paese
per aver simpatizzato nel '68 con l'estrema sinistra tedesca.
Prima di partire mi feci coraggio e chiesi a Heiner Müller se potevo intervistarlo,
naturalmente “al buio”, senza sapere nulla del suo lavoro e di quanto avveniva nel
mondo teatrale di Berlino Est. Non fece problemi, non mostrò particolari cautele o
riserve nel raccontarmi la sua biografia a cavallo tra nazismo e stalinismo e i suoi
difficili rapporti con la censura: “Scrivo pensando che prima o poi anche i testi tenuti
nel cassetto usciranno”. Aveva un modo di parlare dei nodi, delle contraddizioni,
dei conflitti della Storia che aveva vissuto e viveva sulla sua pelle, caustico e luci-
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do, distaccato e profondamente coinvolto al tempo stesso. Simile, pensai, a un
Bertold Brecht redivivo. Quella che scrissi per “Repubblica” fu la sua prima intervista
pubblicata in Italia.
A Belgrado tornai poi una seconda volta nel maggio del '98, di passaggio per prendere
l'aereo che mi avrebbe riportato a Roma dopo alcuni giorni trascorsi a
Podgorica con Gianfranco Capitta, Enrico Fiore e Igina Di Napoli che, al locale
Festival Internazionale di Alternative Teatrali (FIAT, in caratteri latini e cirillici) diretto
da Slobodan Milatovic, aveva portato due spettacoli di Pippo Del Bono e Pepe
Robledo, Il tempo degli assassini e Barboni, prodotti dal Nuovo Teatro Nuovo di
Napoli. Atterrando nel piccolo aeroporto della capitale del Montenegro simile a una
stazioncina di campagna dove i bagagli venivano portati col trattore su un rullo
scalcinato, e fuori dalla finestra si vedevano le mucche pascolare, fummo subito
colpiti da una formazione per nulla bucolica di elicotteri militari parcheggiata sul
prato non lontano dall'unica pista riservata a pochi voli civili, due o tre al giorno.
Come ci dissero con umorismo che suonava decisamente nero (visto quello che
era successo nei dintorni della Bosnia e della Croazia, da Sarajevo a Spalato)
mostrandoci il Teatro Nazionale appena riaperto e interamente ricostruito, “a
distruggerlo otto anni fa sono state le fiamme di un incendio, e non le bombe”. Ma
lo stuolo di elicotteri posati come gigantesche cavallette nei campi non era l'unico
segnale minaccioso di una situazione che ricordava i Teatri di guerra di Mario
Martone appena uscito nelle sale italiane: quel gruppetto di attori che prova i Sette
contro Tebe da portare a Sarajevo come invito a una resistenza civile contro la
bestialità della guerra mentre intorno alla sala del Nuovo Teatro Nuovo, nei
Quartieri Spagnoli, divampano le lotte criminali della camorra. Quando veniva la
sera e l'aria afosa della giornata si rinfrescava, il cigolio dei blindati si mescolava
al rumore delle rare macchine per le vie polverose di Podgorica costellate di luci di
bar e friggitorie e con i tavolini all'aperto affollati di giovani. Una festosa gioia di
vivere, nonostante la povertà e lo stato di pericolo, che nelle poche ore passate a
Belgrado, giusto il tempo di una visita alla fortezza di Kalemagdan e di un breve
incontro con Cirilov restato solo, senza Myra scomparsa da non molto, a dirigere
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il Bitef, si ribaltò, nel silenzio e nel vuoto di un'apparente tranquillità sotto la cappa
di un'angoscia diffusa, appena palpabile. Dove, invece, la cappa d'angoscia si
manifestava pienamente era nel sontuoso aeroporto da grande città, così diverso
dal minuscolo scalo strapaesano di Podgorica, che con la sua aria spettrale, la
completa mancanza di passeggeri in transito, fotografava in maniera drammatica
l'isolamento di Belgrado dal resto dell'ex-Jugoslavia e del mondo.
Un isolamento, una sorta di embargo civile che neanche la caduta di Milosevic e
la fine della guerra hanno completamente interrotto. Me ne rendo conto quando,
prima di partire, vado da Feltrinelli a cercare una guida di Belgrado e della Serbia
e scopro che non hanno più nulla, né lì né in altre librerie specializzate. Dopo lo
smembramento della ex-Jugoslavia sono state pubblicate nuove guide della
Slovenia, della Bosnia, della Croazia o del Montenegro, ma della Serbia e di
Belgrado che resta comunque una delle grandi città europee non esiste più nulla.
Solo la mappa stradale. E le tracce lasciate nei libri di altri viaggiatori e scrittori.
Primo fra tutti (anche su consiglio di Franco Ungaro) Paolo Rumiz, con i suoi reportages
raccolti ne La linea dei mirtilli e nel più recente È oriente. Sandra Petrignani,
autrice per la collana di viaggi Neri Pozza de La scrittrice abita qui, mi suggerisce
due libretti di Peter Handke, In una notte tempestosa e Un viaggio d'inverno ovvero
giustizia per la Serbia, che all'epoca della pubblicazione, era il '96, suscitò molte
polemiche e accuse di faziosità “filoserba”. Vedremo, leggendolo al ritorno, perché
in libreria non c'è più, bisogna ordinarlo, come anche l'altro che risulterà poi definitivamente
scomparso, finito fuori catalogo. Abbastanza di fresca pubblicazione
(2003) e presente, invece, negli scaffali la raccolta di “racconti di Belgrado”,
Casablanca serba, mi accompagnerà nel viaggio. Ed è tutto, i libri non peseranno
troppo nella mia valigia.
Prima di partire devo risolvere un altro problema, quello della lingua, dal momento
che non parlo il serbo, e l'inglese - che, come mi avvertono, è l'unica lingua straniera
di corrente comunicazione a Belgrado - lo mastico poco. Mi aiuta un'amica
attrice nel gruppo dei Motus, Emanuela Villagrossi, mettendomi in contatto con
Damir e Vlada, due giovani attori originari di Belgrado che hanno lavorato con i
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Motus in Splendid's di Genet, e sulla spinta di quel primo contatto, adesso più o
meno stabilmente, vivono in Italia. Damir lo incontro in una vineria non lontano dal
Piccolo Teatro di Milano, dove abita, sposato con una modella. Gli spiego quello
che vorrei: non solo un interprete ma un compagno di viaggio, un giovane attore
che torna nel suo paese, rivede luoghi e persone della sua formazione teatrale. La
proposta lo interessa, dipende però dagli impegni di lavoro, è libero soltanto fino
alla fine di aprile, poi deve iniziare le prove per uno spettacolo teatrale. Vlada invece
mi chiama da Parigi per dirmi che dalla metà di maggio, quando dopo molti slittamenti
si fissa la data della partenza, sarebbe disponibile. Anche a lui (ne ha parlato
con Damir) piace l'idea di questo ritorno a Belgrado e , aggiunge, che si
potrebbe andare a Novi Sad dove insieme hanno fatto l'accademia di teatro. Nel
frattempo ci possiamo vedere a Roma perché parteciperà a un laboratorio di
Emma Dante al Palladium. C'incontriamo subito, il giorno del suo arrivo, per caso,
in un teatro di Trastevere dove è in corso una rassegna di nuovo teatro inglese
curata da Rodolfo Di Giammarco. “Vlada conosce tutti e tutto, dovunque”, mi
aveva detto Emanuela. In effetti, con quella sua aria tranquilla, quasi timida, un po'
da campagnolo naturalmente elegante, Vlada sembra orientato da una bussola
interna, si muove in qualsiasi posto come un pesce nell'acqua. A 27 anni, dopo
aver lasciato Belgrado sulla scia dei Motus incontrati, naturalmente per caso, in
una discoteca di Bologna tre anni fa, seguendo amici, amori e curiosità artistiche
ha girato l'Europa vivendo a Berlino, Bruxelles e Parigi.
Un nomadismo, un cosmopolitismo, una voracità culturale che è anche il segno
dell'apertura mentale di chi - come molte persone che incontrerò a Belgrado (o a
Smederevo dove tornerò in un secondo momento) nonostante l'attuale isolamento
e cancellazione dalle mappe della geopolitica e che hanno respirato i fermenti
di un mondo al crocevia fra i Balcani e l'Europa - conserva radici e capacità di radicarsi,
ovunque. Ci salutiamo, alla fine del laboratorio con la Dante, con la promessa
di risentirci presto per partire insieme…
P.S. Il nomadismo di Vlada, la sua capacità di orizzontarsi e adattarsi a qualsiasi
ambiente ha anche qualcosa di camaleontico, ricorda un po' Zelig. E ricorda la
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Belgrado dei narratori raccolti da Nicole Janigro nella sua antologia che la curatrice
descrive come una “patchwork city”, anfiteatro negli ultimi quindici anni dei fasti
e delle miserie del comunismo prima, e del nazionalismo poi. Una città che “nel
farsi e disfarsi della storia ha subito metamorfosi che incarnano contemporaneamente
mitiche fisionomie metropolitane: da Chicago degli anni Venti a Berlino degli
anni Trenta, da Casablanca degli intrighi spionistici degli anni Quaranta a Saigon
edonista e cataclismatica degli anni Sessanta…”.
In viaggio per Belgrado
Partiamo il 17 maggio da Mestre in macchina, ho fatto i calcoli: per Belgrado
saranno circa 700 chilometri. Con Vlada ci siamo dati appuntamento alla stazione,
lui arriva da Milano, io che vengo da Roma ho trascorso la notte in un
alberghetto dal nome altisonante, l'Hotel Giustizia, alle porte di Mestre, sulla Via
Miranese. Il primo posto di confine per entrare in Slovenia lo passiamo a Gorizia,
la piccola Berlino, la città dimezzata e divisa con due identità diverse dove, racconta
Rumiz in E' Oriente, di notte nella primavera del '99 era tutto un materializzarsi
di ombre attirate lì “come in un imbuto”, ombre che uscivano dal buio, che
venivano di lontano, curdi, persiani, forse iracheni, e nel tentativo di passare i fili
del reticolato perdevano, lasciavano brandelli delle loro vite precedenti: “In venti
metri trovo una ciocca di capelli, la scarpa di una bambina numero ventidue, un
lembo di camicia, calze di lana fradicie tra le foglie gialle, un soldatino di plastica…un
chilometro oltre, al piccolo confine rurale del Rafut, c'è persino un albero
trasformato in spogliatoio. Un noce robusto, con le radici ricoperte d'indumenti.
Ricorda Pinocchio, la sua notte di fuga, il grande imbroglio della vita…”
Ma quando passiamo noi splende il sole di mezzogiorno e quelle ombre notturne
con le loro storie sono svaporate nell'aria. Fuori dai finestrini scorre un paesaggio
che invoglia a fermarsi, o a prendere una di quelle strade laterali che salgono su
per le colline tra i boschi e i vigneti punteggiate come nel Friuli o nelle Langhe di
cartelli “Vinska cesta”, Via dei vini. Da queste parti, mi dice Vlada, venivano gli abi-
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tanti di Belgrado in villeggiatura. Dopo una serie di altopiani molto verdi con villaggi
e casette di gusto tirolese circondate da catene di monti ci fermiamo verso le tre
di pomeriggio in un posto di ristoro, lungo la strada non lontano dal confine della
Croazia, con dei tavoli di legno all'aperto e un menu ricchissimo, da gran ristorante.
C'è solo l'imbarazzo della scelta, e difficoltà di ordinare perché il cameriere con
uno strano pizzetto, una mosca sotto il labbro, nonostante ci siano solo altri due
tavoli da servire, sembra tarantolato dalla fretta, si avvicina per un attimo e scappa
via senza guardarci. O guardandoci di traverso, spocchioso, infastidito, con
l'aria di dirci “Sbrigatevi a decidere, non ho tempo da perdere”. Finalmente dopo
l'ennesimo balletto di toccate e fughe riesco a ordinare indicando col dito sul menu
(perché Vlada non lo capisce, né in serbo, né in inglese) una frittata con funghi.
Buonissima, di dimensioni colossali…
Riprendiamo il viaggio, l'autostrada è veloce, scorrevole, senza grande traffico,
solo ogni tanto delle catene di Tir che scendono dall'Europa verso Istanbul, e la
noia dei frequenti pedaggi da pagare. Lubiana la avvistiamo di lontano, così come
Zagabria dove fra i tanti cartelli nessuno nomina Belgrado, bisogna consultare la
carta altrimenti chissà in che posto si finisce. Ora la campagna che scivola fuori dai
finestrini è piuttosto piatta e monotona, tutta divisa in lotti numerati, e bisogna fare i
conti con i continui rallentamenti per i lavori in corso; sembra di stare sul tratto
Salerno-Reggio, ma qui almeno si vede qualcuno lavorare.
Quando poco dopo aver passato il cartello che indica la strada per Vukovar, letto da
Vlada con una smorfia dolorosa, e arriviamo al confine con la Serbia è quasi sera, e
i posti blocco sono avvolti da una sorta di nuvola scura in movimento: sono sciami
di zanzare. Il giornale radio sta trasmettendo un servizio sul processo dell'Aja: all'ordine
del giorno, mi traduce Vlada, Mladic e la strage di Srebrenica. Da noi del processo
dell'Aja ancora in corso non ne parla più nessuno, non fa più notizia. Dopo la
prima breve chiamata al cellulare con la madre che abita a Novi Sad, Vlada telefona
a un suo amico attore: si sta preparando, mi dice ridendo, per andare a una festa
in un albergo di Belgrado promossa da una ditta di cosmetici e prodotti di bellezza
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dove sarà premiato per il suo “look”, il suo modo stravagante e personale di vestire.
Anche un altro amico di Vlada, quello che lo ospiterà in questi giorni si occupa di
moda, dirige a trent'anni un'importante agenzia di indossatrici e organizza sfilate,
eventi spettacolari fra musica, moda e teatro. Gli chiedo come mai tutto questo interesse
tra i suoi amici e coetanei per le seduzioni da noi abbondantemente appassite
della moda. “Forse perché qui -mi risponde- come nei paesi dell'Est abituati per
decenni al grigiore dell'abbigliamento del periodo comunista, la moda ha ancora il
fascino dl frutto proibito dell'Occidente, è il segno di un cambiamento d'epoca, nel
bene e nel male…”
Mi balena per un attimo nella mente il ricordo di un'altra rivoluzione soffice, “soft”.
Quella della Nuova Spettacolarità e della Postavanguardia teorizzata dal critico
Giuseppe Bartolucci, quando all'inizio degli anni Ottanta, dopo la contemporanea
caduta dei muri ideologici e dei dogmi d'avanguardia, le nuove generazioni della
ricerca, da Falso Movimento di Mario Martone alla Gaia Scienza di Barberio Corsetti,
flirtavano ambiguamente, sulla scia di Andy Warhol e della Pop Art, con la triade di
superficie Rock-Moda-Sport. E Sandro Lombardi, ripreso al festival di Monaco dalle
telecamere di Fassbinder, ripeteva in Crollo nervoso dei Magazzini Criminali come
un disco incantato, o un surfista da carosello pubblicitario, lo slogan “Prendi l'onda”…
Arrivando in macchina il primo impatto con la “città bianca” (ma Belgrado, “Belo
Grado”, mi dice Vlada, può significare anche la “città più a ovest” della Bulgaria,
l'ultimo avamposto dell'Occidente verso l'Oriente) sono gli alveari del periodo
socialista che nel quartiere di Novi Grad si mescolano con i più recenti scatoloni di
vetro disegnando nella notte, prima di attraversare il grande ponte che porta aldilà
della Sava, verso il centro, una sorta di skyline newyorkese.
Lungo la strada che conduce in Piazza della Repubblica i resti di due edifici della
Polizia centrati con millimetrica precisione dalle bombe della Nato. Poco più sopra
Vlada mi indica la traversa dove il premier Djindjic è stato assassinato dalla mafia
vicino alla sede del suo partito. In poche centinaia di metri scorre avanti e indietro
il nastro della Storia. Ecco il Palazzo del Parlamento. Vlada ventenne era in piaz-
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za con Damir a festeggiare la caduta di Milosevic: “Siamo entrati nel Palazzo,
scale, saloni, corridoi deserti. Ognuno poteva prendere e portare via quello che
voleva, c'era chi dava fuoco agli arredi. Noi abbiamo preso dei libri per ricordo e li
abbiamo sventolati come trofei da una finestra del primo piano. Vista di lì, dall'alto,
con quella marea di folla, la piazza era impressionante…”
Ceniamo alla Taverna Serba vicino al 212, il teatro fondato da Myra Trailovic dove
si sta rappresentando un Lear interpretato dal più noto e anziano mattatore serbo.
Fa parte della lista di spettacoli da vedere che Vlada ha tirato giù da internet prima
di partire. Me la mostra mentre mi racconta delle gran bevute che si facevano
dopoteatro in questo locale molto alla moda una volta, ora un po' meno, nel mondo
dello spettacolo. Bottiglie di slivovitz con dentro frutti che invecchiando hanno
preso forme un po' mostruose, incastonate nelle nicchie come reliquie, decorano le
pareti di un colore rosso mattone insieme ad autografi e foto di attrici in cucina
occupate a preparare, secondo l'usanza, “zuppe scacciasbornia” per il Cenone di
Capodanno. Mi avvicino a guardarle meglio quelle foto che a giudicare dai vestiti e
dalle acconciature dei capelli appartengono al passato. Cerco di capire a quando
risalgono, quand'è stato l'ultimo capodanno festeggiato con le “zuppe scacciasbornia”,
e se la tradizione non si è interrotta durante gli anni della guerra. Certo quella
parata di bottiglie con i loro strani bulbi simili a feti più che evocare atmosfere di
festa o di cantina hanno qualcosa di lugubre, di ospedaliero.
Pioviggina quando ci fermiamo davanti all'ingresso dell'Hotel Tas, una lunga pensilina
in stile americano ma senza portieri gallonati, che conduce in un androne
deserto con un fascio di luce al neon che si accende con una cellula fotoelettrica
appena arriviamo davanti all'ascensore. “C'è un congresso internazionale di banchieri
che ha monopolizzato tutti gli alberghi migliori, anche quelli non troppo costosi”,
si scusa Vlada mentre saliamo al quarto piano dove la ragazza della reception
mi dice che sono stato fortunato, quella era l'ultima stanza e stavano per darla al
componente di una squadra di karate che partecipa a non so quale campionato. La
stanchezza è tale che mi sento fortunatissimo di aver trovato, comunque, un letto…
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Seduto ai tavolini del Kgb
La prima giornata a Belgrado comincia presto, con la ricerca di qualcosa per
fare colazione visto che in albergo non la servono. Alla reception mi fanno
cenno con la mano di scendere. Scendo la prima rampa di scale color blu
marino e al piano sotto vedo le luci accese di quello che potrebbe essere l'ingresso
di un bar o di un ristorante, ma dietro il bancone non c'è nessuno e i tavolini,
tutti tappezzati con un panno verde, sono deserti. Avanzo ed entro in una sala più
grande completamente vuota tolta una tavolata nel fondo dove una decina di persone,
donne e uomini in abiti scuri da sera stanno pranzando, o cenando. Certo
non hanno l'aria di persone che si sono appena svegliate e fanno colazione. Ci
guardiamo per un po' in silenzio con un punto interrogativo di sorpresa stampato
sul viso, poi in silenzio retrocedo con il dubbio di brancolare ancora nel dormiveglia.
Apro meglio gli occhi e leggo sulla porta l'insegna “Casino”, con l'orario di
apertura fino alle 6 del mattino. Scendo ancora un piano e mi specchio nella vetrata
chiusa del Caffè Body, sauna con palestra e piscina. Un'altra rampa circolare di
scale: con i secchi e la scopa in mano delle donne stanno uscendo da un ufficio;
mentre al piano di sotto gli impiegati dell'agenzia di viaggi Kon-Tiki iniziano la loro
giornata di lavoro dopo aver fatto colazione nella caffetteria accanto, un bar senza
insegne sulla strada con qualche tavolino nell'entrata non finita, un androne che
porta alle tribune di una bellissima piscina olimpionica. Benvenuto, mi dico, nel
labirintico microcosmo post-comunista dell'Hotel Tas…
Senza prendere la macchina che diventa difficile da posteggiare nel centro, e poi
i taxi costano davvero poco, andiamo al Kgb, un altro punto di ritrovo di gente dello
spettacolo alle spalle del 212 e della Taverna Serba, dove Vlada ha dato appuntamento
a Goran, il “dandy” premiato la sera prima. In Piazza della Repubblica sta
sfilando con striscioni e qualche fischietto un corteo di protesta sindacale molto
ordinato, indossano i camici bianchi del personale ospedaliero. “Democracia…”
brontola il tassista, e il tono non sembra affatto solidale. Molta acqua è passata
sotto i ponti, molte cose sono successe da quella notte del dicembre del '96 testi-
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moniata da Rumiz nella Linea dei mirtilli quando un concerto di trombette, campanelli,
tamburi di latta e “fischietti belgradesi” poco distante di lì, sulla Knez
Mihailova, accompagnò il discorso improvvisato stando in piedi sul davanzale di
una finestra, a rischio di vertigini, dal capo dell'opposizione, Zoran Djindjic, futuro
Primo Ministro dopo la caduta di Milosevic. “Quel clima di speranze in una svolta
democratica ora che Djindjic è stato assassinato dalla mafia legata ai politici e
molti ceffi del vecchio regime si stanno rintrufolando nelle stanze del Palazzo sembra
lontano”, commenta Vlada.
Ma seduti nel tepore primaverile ai tavolini all'aperto del Kgb, in tutto una decina
su una pedana che corre lungo lo stretto marciapiedi di fronte a un gigantesco
ciliegio piantato ai tempi del Giardino di Cechov, il cielo sembra sgombro di preoccupazioni.
E soprattutto privo di frontiere, aperto sull'Europa e sul mondo. Dal locale,
ricavato come una cave parigina in un seminterrato, arriva il sottofondo di una
musichetta caraibica, e accanto a noi un gruppo di giovani, quasi tutte ragazze con
vestiti e acconciature punkeggianti, creste di capelli e méches verdi o rosse, sorseggia
bibite e cappuccini. Sono, mi spiega Vlada che ne conosce un paio, scenografi
e studenti dell'Istituto di Belle Arti che stanno facendo un corso di “light's designer”
con un insegnante venuto dall'America, amico e collaboratore di Bob Wilson.
Da una borsa di tela spunta una pianta con tutti i tagli e cambi di luce colorata della
versione teatrale di Jesus Christ Superstar. “Ma qui a Belgrado non c'è nessun teatro
- dice indicandomela Vlada - attrezzato per allestire spettacoli di quel genere.
Evidentemente pensano di poter andare a lavorare anche altrove…”
Dal fondo della strada sta arrivando Goran che prima di sedersi con noi improvvisa
una narcisata sparandosi con la sua digitale decine di foto in tutte le pose con un
cagnolino rubato al tavolo di tre ragazze che, stranamente sedotto, non accenna
neanche a un guaito di protesta. Come Vlada, Goran Jevtic è nato nel '78, e appartiene
all'ultima generazione under 30 appena sfiorata dai traumi della guerra. E,
come Vlada, non è di Belgrado, viene da Mladanovac, un paese di campagna.
Ma con il suo codino, gli occhiali da sole, quel maglione a trecce e gli stivaletti col
tacco alto potrebbe camminare sotto qualsiasi cielo metropolitano, da New York,
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a Londra, a Berlino. O a Barcellona che, insieme ad Almodovar, sono la sua città
e il suo regista d'elezione, il luogo e i film nei quali gli piacerebbe abitare.
A fare l'attore, mi racconta, ha cominciato fin dall'asilo, quando fu scelto per partecipare
alle riprese del Quo vadis? che si girava da quelle parti. Poi ha avuto un
apprendistato di teatro amatoriale nel suo paese, e non ha più smesso di recitare.
Il suo, si capisce da come si muove, dalla scenetta che ha improvvisato, è un
talento naturale, un esibizionismo affinato da una particolare sensibilità. In questi
giorni (potrò vederlo) si divide fra le repliche di due spettacoli già rodati: uno per
adulti, Shopping & fucking di Mark Ravenhill allestito da una sua coetanea, Iva
Milosevic, l'altro in matinée per bambini, una versione de La bella e la bestia. E nei
ritagli di tempo prova un nuovo testo di Vladan Radenon, un autore serbo che vive
da trent'anni a Parigi: “Più o meno l'età del protagonista, un vietnamita adottato e
trapiantato in Francia che ha somatizzato il suo sradicamento, la sua diversità, con
la malattia, soffre di attacchi epilettici...” La commedia s'intitola Seleni svitac
(Lucciole di ghiaccio) e inaugurerà il Madlenianum, il primo grosso centro teatrale
di Belgrado a gestione privata. Per sintetizzare le tappe del suo processo di maturazione
artistica, non parla di esperienze di lavoro, usa un'immagine fiabesca:
“Pensa alla metamorfosi della lacrima che dentro l'ostrica, in fondo al mare, si trasforma
pian piano in una perla…”
Il mondo sottomarino della Sirenetta di Andersen nell'allestimento di Iva Milosevic
somiglia alla reggia di Oberon e Titania nel Sogno di una notte di mezza estate trasferita
in un acquario da cartone animato e popolata di cerimoniosi pesci-palla,
statue greche finite su quei fondali e languide meduse coreografate a tempo di
musical. “The Little Mermaid is in fact a rock-n-roll adventure, like Grease...”, dice
Iva che ha punteggiato di numeri musicali suonati dal vivo da un'orchestrina di
quattro elementi la storia d'amore fra la dolce Annabel e il Principe Edgar visto
all'inizio come un adolescente chiuso e malinconico, insofferente delle noiose etichette
e dei pranzi famigliari di una corte rigida e antiquata. Finché non esce dalla
sua apatia e, armato di chitarra elettrica, ancheggiando come Elvis, mette a soqquadro,
insieme alla sua amata Sirenetta, un mondo e l'altro, quello degli abissi
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marini e quello dei suoi parenti blasonati. All'insegna di una gaia rivoluzione, liberatoria
per entrambi…
Mala sirena - al Dusko Radovic, una sala con circa quattrocento posti e un palcoscenico
molto spazioso, ai bordi di un bel parco cittadino vicino al mio albergo e al
nuovo edificio della televisione incastrato con le sue vetrate fra i resti degli uffici
bombardati - è il primo spettacolo che vedo a Belgrado. Per la sera del debutto il
foyer è affollatissimo. Volteggiando fra un amico e l'altro, Vlada nel giro di pochi
minuti mi presenta attori, attrici, registi rampanti, direttori di altri teatri, scenografi e
costumisti. Non faccio a tempo ad annotare sul taccuino i loro nomi o a scambiare
qualche parola, come nei pranzi d'ambasciata. Ma annoto mentalmente il numero
di telecamere con intervistatori, sette od otto, che girano filmando per la sala. A
Roma neanche per una “prima” dell'Argentina si vede qualcosa di simile. Non parliamo
delle “prime” del teatro ragazzi ignorate anche dagli addetti ai lavori.
Evidentemente non esistono le stesse barriere, gli stessi muri di separazione, e c'è
uno scambio di ruoli e di percorsi più facile, o facilitato. Da noi, tolto qualche caso
come Marco Baliani, Vacis o la Curino, chi nasce con l'etichetta del teatro ragazzi
difficilmente riuscirà a saltare il fosso e passare nel teatro per adulti. O a unire le
due esperienze, come invece qui sembra sia prassi normale. Altra differenza capitale,
confermata da La bella e la bestia visto in matinée qualche giorno dopo con
un pubblico attentissimo di bambini e genitori, sono le dimensioni “faraoniche” dell'allestimento:
addirittura impensabili per chi ormai è abituato a vedere spettacoli
per i più giovani con due, tre, massimo quattro attori…
A colloquio con la Lost Generation
Il giorno dopo, lontano dai patemi e dalle mondanità della “prima”, Iva mi racconta
come è nata la sua vocazione teatrale: “Nel 1990 la guerra era nell'aria e la
propaganda nazionalista diventava ogni giorno più martellante, io che avevo tredici
anni (sono nata a Belgrado nel '77) appena potevo m'infilavo a seguire le
prove di un gruppo amatoriale, il Teatro Dadov, e lì scoprii un'atmosfera umana più
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respirabile, dei valori diversi dai modelli di comportamento del regime. In fondo ho
cominciato a innamorarmi del teatro perché mi offriva una via di salvezza, un'alternativa
esistenziale, ed era a suo modo un gesto di opposizione politica…” Piccola
di statura, un viso pulito, grazioso dai lineamenti delicati ma che lasciano intuire un
carattere forte, determinato, vestita come una qualsiasi studentessa, jeans e giacca
di cuoio nera, Iva mentre parla si accende una sigaretta dopo l'altra, ed è l'unica
traccia di tensione interna. Dopo aver frequentato i corsi di regia all'Accademia
di Belgrado, una tappa obbligata molto più che da noi per poter lavorare in un circuito
teatrale a gestione pubblica, ed essersi diplomata con l'allestimento di
Shopping & fucking di Mark Ravenhill (“Per diplomarmi e metterlo in scena ho
aspettato due anni l'autorizzazione degli insegnanti, ma mi ero intestardita, o quello
o niente…”), Iva ha firmato varie regie e insegna attualmente a Belgrado in un
laboratorio di recitazione privato come assistente di Mirjana Karanovic, la sua attrice
preferita protagonista di molti film di Kusturica, oltre ad avere un incarico per un
corso di regia all'Accademia di Novi Sad. Fra gli autori stranierei contemporanei
predilige gli inglesi, naturalmente Mark Ravenhill e Sarah Kane, ma ama molto
anche la drammaturgia tedesca: dopo Shopping & fucking il mio primo allestimento
è stato Pomeriggio magico di Wolfgang Bauer, una deriva giovanile di chiacchiere
a vuoto sull'onda di riflusso del '68. Ho messo in scena anche Kasimir e
Karolina di Von Horwath e il Risveglio di primavera di Wedekind: mi interessano le
anatomie dei periodi di crisi, i testi che mostrano la nascita e il propagarsi del Male,
o comunque di una patologia sociale…”
Come regista non si considera una sperimentatrice a tempo pieno: “Almeno per
ora non ho fatto degli allestimenti rivoluzionari, mi considero una regista tradizionale,
lavoro sugli attori, cerco di valorizzare e far passare il testo, senza rinunciare,
tuttavia, a dei tentativi di rinnovare la macchina teatrale dall'interno di quelle
che sono le regole della sua grammatica…” Ma non esclude di prendersi nel prossimo
futuro delle maggiori libertà: “Mi piacerebbe mescolare, contaminare l'alfabeto
del teatro con altri linguaggi e alfabeti presi in prestito dalle arti visive, in particolare
da Warhol e dalla Pop Art, dalla musica rock, dalla danza moderna o dai linguaggi
mediatici… Del resto, come hai potuto vedere, anche la Sirenetta è diven-
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tata una via di mezzo tra un cartoon e un musical, un'operetta rock. E le scene di
Shopping & fucking, che adesso si replica da due anni nei teatri normali, sono
scandite, intervallate da molti defilée, gli attori entrano ogni volta in scena come se
sfilassero in una passerella di moda trash…”
Le faccio a questo punto la domanda che ho fatto al suo coetaneo Goran: se non
vivesse a Belgrado in quale città le piacerebbe vivere. “Berlino -risponde senza
esitazione- perché è la Parigi del Duemila, perché come Belgrado, almeno quella
di una volta, è una città-ponte fra l'Est e l'Ovest, e molti dei traumi storici che ha
vissuto, in qualche modo, somigliano ai nostri…” A proposito di traumi, cosa pensa
della sua generazione, della generazione dei trentenni cresciuti durante la guerra
e il regime di Milosevic? Si tratta di una Lost Generation, una Generazione
Perduta? “Per molti di noi è stato così. Ricordo un leit-motiv che circolava di bocca
in bocca in quegli anni: non abbiamo più nessuna idea in testa e tutti ci vergogniamo…
È stato un periodo terribile per chi doveva cominciare a progettare la propria
vita. Poi c'è stata l'euforia della liberazione e della fine della guerra come da voi,
immagino, nel '45. Ora? Ora serpeggia la depressione, il disincanto, anche un
certo rancore nei confronti dei paesi europei, ci sentiamo abbandonati. Comunque
no, non siamo una Generazione Perduta...”
Per arrivare nel quartiere di Cerak alla periferia di Belgrado si passa vicino agli
studi cinematografici di Filmski Grad, la Cinecittà serba e all'isoletta di Ada dove ci
sono i campi dei nudisti e d'estate si fanno i bagni nel Danubio, o si va per ballare
nelle numerose discoteche. Una zona verde, alberata, di villette a uno o due
piani, con qualche palazzone socialista degli anni '60, campi da tennis e altri
impianti sportivi, abitata da professori universitari, funzionari di stato e militari in
pensione con figli e nipoti: “Sembra una zona tranquilla, quasi felice, eppure qui
durante gli anni della guerra e dopo la caduta di Milosevic si sono consumate
molte tragedie, soprattutto tra i ragazzi della mia generazione”, mi dice Marko
Zizic, un giovane attore e regista di cinema che avevo conosciuto a Roma prima
di partire, e che ogni tanto torna a Cerak, il quartiere della sua adolescenza per
trovare la madre, insegnante in una scuola per bambini con problemi psichici.
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Anche lui come Vlada, Goran e Iva appartiene alla generazione degli under 30, e
anche lui ha la sua storia, anzi le sue storie da raccontare: “Da Belgrado, dove
sono nato nel '78, manco più o meno dal '92: da quando mio padre, un architetto
e costruttore, nipote di Zoran Zizic, il primo Presidente della Serbia Montenegro
dopo Milosevic, vedendo la brutta aria che tirava ci mandò, me e mio fratello, a studiare
in Inghilterra, a Brighton. Dall'Inghilterra dove mio fratello è rimasto (ora lavora
a Londra come agente immobiliare) mi sono spostato per studiare cinema in
Italia, a Siena, Firenze e al Dams di Bologna…” A Roma è venuto ad abitare da
un paio d'anni, accampato ora qui ora lì, facendo un po' tutto quello che gli offrivano
per mantenersi e raggranellare i soldi che gli sono serviti per girare con attori
italiani (“C'è anche Elisabetta Rocchetti, la protagonista femminile
dell'Imbalsamatore di Matteo Garrone”) il cortometraggio di una trentina di minuti
che sta finendo di montare nella moviola di un amico che abita ai Castelli: “Ho fatto
su e giù per mesi come un pendolare, appena lui era libero dai suoi impegni di
lavoro e io avevo una nuova sequenza da aggiungere ci vedevamo, a qualsiasi
ora, anche di notte…” Il “corto” che ha già un titolo, Slavshine (Tramonto) racconta
tenendosi in bilico tra realtà e immaginazione, come in un dormiveglia comico e
angoscioso, le peripezie di un ragazzo (Federico Rosati), che nel '99 durante i
primi bombardamenti decide di scappare in Italia a nuoto con l'aiuto di un ombrello
per ripararsi dal sole e di una camera d'aria come salvagente e gommone
d'emergenza”. Naturalmente una volta arrivato in Italia, a Roma, si accorge di non
essere sbarcato nella Terra Promessa, ma le notizie che gli arrivano da Belgrado
sono ancora peggiori: “Quelle che gli raccontano per telefono sono le storie vere
degli amici che abitavano in questo quartiere. Ogni anno quando tornavo durante
le vacanze a trovare i miei genitori qualcuno mancava: Misha di cui si parla nel film
era il miglior amico di mio fratello, un giorno è andato nel parco e si è fatto esplodere
saltando su una bomba. Goran, un mio compagno di classe, un genietto della
matematica, a 16 anni l'ho perso di vista, era andato a vivere a Novi Beograd, tre
anni fa ho saputo che si è buttato dalla finestra del grattacielo dove viveva con la
sua ragazza. Petar, che era bellissimo suonava in una band, faceva il modello,
come molti che conosco, è diventato eroinomane. A Belgrado dopo i bombarda-
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menti, l'unica cosa che si trovava a buon prezzo, legalmente, erano le droghe…”
E l'elenco della Lost Generation dei coetanei di Marko potrebbe continuare. Ma
anche lui come Iva non è pessimista fino in fondo: “Chi ha resistito ha la pelle più
dura. Tornando a Belgrado, negli ultimi anni, mi sembra che ci sia meno confusione
d'idee e più voglia di fare qui che altrove…”
Di traumi generazionali non vuole sentire parlare Premil Petrovic che da anni vive
a Berlino dove da poco ha conseguito il diploma di Direttore d'Orchestra.
Chiacchieriamo sorseggiando un boccale di birra in un ristorante deserto del centro
sotto un terribile soffitto di ombrelli da studio fotografico rovesciati, in attesa di
andare a vedere la novità di un altro coetaneo amico di Vlada nel vicino Centro di
Drammaturgia Jugoslavo, lo Jugoslavensko Dramsko Pozoriste. Leggermente più
anziano di Vlada che ha conosciuto per via di uno scambio di partner, Premil non
si sente un esule costretto a girare il mondo: “Già a dieci anni sapevo che avrei
fatto il direttore d'orchestra e sarei andato a studiare a Berlino...” Cosa che ha provato
a fare subito, a diciotto anni, ma la sua domanda d'iscrizione non è stata
accettata, troppo giovane. Passano altri quattro anni e finalmente nel '97, con in
tasca la laurea in Storia e Teoria della Musica all'Accademia di Belgrado, parte per
Berlino: “C'era la guerra e l'inflazione in corso, ragioni di più per andare via, ma
sarei partito ugualmente. Non mi sento uno sradicato costretto dagli eventi a
lasciare il proprio paese, non mi piango addosso. La condizione dell'apolide, del
cittadino del mondo è quella che più mi corrisponde…” E ricorda un racconto di
Danilo Kis, il suo scrittore preferito, intitolato appunto Apatride. In particolare le
parole con cui il protagonista Egon Von Nemeth, ispirato allo scrittore Odon von
Horwath, l'autore di Kasimir e Karolina, manifesta il suo rigetto per qualsiasi teoria
delle origini razziali e sociali, anticamera (“ieri, ai tempi di von Nemeth-von
Horwath durante il nazismo, come oggi nell'ex-Grande Serbia”) di qualsiasi ipernazionalismo
di marca fascista: “Sono uno scrittore di lingua tedesca -dice Von
Nemeth- ma il mondo è la mia patria…”
Le urla minacciose di un ubriaco che si è affacciato all'ingresso interrompono il col-
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loquio. L'uomo, senza entrare, continua per un po' a inveire, poi si allontana barcollando
tra i tavolini. “Con chi ce l'aveva?” chiedo a Premil. “Con gli omosessuali,
così in generale... quello lì aveva bevuto ma, come il nazionalismo, anche l'omofobia
in Serbia è sempre presente, solo si è fatta più subdola, nascosta, meno
dichiarata ma più aggressiva. La solita storia dell'odio verso il diverso: in Germania
nel '68 c'era ancora che proponeva le camere a gas per i capelloni...”
Ma parliamo di musica, del suo lavoro: “Il futuro lo vedo comunque in Germania,
e possibilmente con un mio complesso. Anche se a Belgrado lavoro con un quartetto
d'archi, il St. George, e ho già avuto occasioni per dirigere un'orchestra”. Ad
esempio, al Teatro Bitef il debutto di un'opera da camera di Anja Djordjevic,
Narciso ed Eco, con tre cantanti più la stessa compositrice, una figurina da elfo un
po' come Bjork nel ruolo di Eco. “La partitura era un cocktail di musiche diverse
accostate come in un montaggio delle attrazioni un po' perverse: neoclassico e
neobarocco, jazz e minimalismo…” Anche musiche etniche, gitane, tipo
Bregovich? La chiusura scatta immediata, “No, no per carità, quella è musica
fascista…” Come se avessi messo il dito nella classica piaga.
Anche Huddersfield che andiamo a vedere al J.P.D. sulla Beogradaska mette il
dito (o il coltello) nelle piaghe della generazione dei trentenni. L'azione della commedia
scritta da Uglesa Sejtinac e messa in scena da una regista inglese, Aleks
Chealshom, si svolge, dopo la caduta del regime di Milosevic e i primi tentativi di
apertura a ovest, nella cittadina di Zrenjamin da poco gemellata con Huddersfield,
una piccola città industriale dello Yorkshire. “Quel gemellaggio rappresenta simbolica-mente
il desiderio di una svolta e di una ripresa economica di Zrenjamin dove
un tempo, prima della crisi degli anni '90, c'erano molte industrie costrette poi a
chiudere durante la guerra”, mi dice Vlada che è nato proprio lì, come l'autore del
copione che conosce dai tempi del liceo. Rasa, il protagonista trentenne interpretato
da Goran Susljik, a scuola era considerato uno studente molto brillante ma
non trova o non si decide a trovare lavoro. Passa le sue giornate senza mai uscire,
coltivando i suoi dubbi e le sue ribellioni verso lo stato delle cose in un monolocale
che sembra sia stato appena saccheggiato dai ladri, pochi mobili superstiti
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e l'orma lasciata sulle pareti dai quadri e dagli arredi scomparsi. A farli sparire, a
venderli ci ha pensato il padre (Josif Tatic) che va e viene perennemente in preda
ai fumi dell'alcol, e in mancanza d'altro ora tenta di trascinarsi via anche la porta.
Ogni tanto a trovarlo viene la sua ragazza (Tijana Mladenovic), una ninfetta ventenne
in minigonna che nella borsa ha i filmini trovati in un cassetto dei genitori che
fanno l'amore. Reduce dal soggiorno di dieci anni in una casa di cura per malattie
mentali (più o meno il tempo della guerra e del regime di Milosevic), arriva anche
un coetaneo di Rasa, Ivan (Nebojsa Glogovac) che tutti, meno lui, tengono alla
larga e deridono come lo scemo del villaggio. Alla razza dei trentenni che hanno
superato senza traumi il terremoto della guerra appartengono invece Igor e Dule:
uno è rimasto a Zrenjamin sfruttando i venti contrari, arrangiandosi con piccoli traffici,
e continua a farli; l'altro è partito, è andato a Huddersfield dove ha trovato un
impiego stabile e ora torna con l'aria soddisfatta di chi comunque si è sistemato.
Nel primo atto il malessere di Rasa cova sotto la patina della commedia per poi
esplodere con violenza nella seconda parte in un gioco di massacro collettivo, una
lite ferocissima senza esclusione di colpi chiusa dall'arrivo di Ivan con una sua
scultura, la testa di una donna che sembra un idolo africano con la bocca spalancata
in un urlo muto d'angoscia. E muta, completamente muta è rimasta la sala
prima del grande applauso liberatorio. Mi sono guardato intorno, ho visto molti
occhi arrossati. Risate e lacrime, quasi come in una sceneggiata napoletana. A
parte la bravura degli attori, la loro coltivata naturalezza, mi colpisce la sintonia con
la platea, i suoi pensieri, le sue emozioni, e la qualità di un testo che ricorda molto
il teatro dei “giovani arrabbiati” inglesi degli anni Cinquanta trapiantato in Serbia ai
giorni nostri. Il gemellaggio con Huddersfield, la cittadina d'Oltremanica che viene
solo nominata rappresenta anche un gemellaggio ideale, perfettamente riuscito,
con un certo tipo di recitazione e realismo sociale. In fondo, penso, il clima storico
dell'Inghilterra di John Osborne e di Ricorda con rabbia, con lo sfaldamento dell'impero
coloniale inglese sullo sfondo, corrisponde all'attuale clima di disorientamento
che si respira a Belgrado.
Vlada, che la sera fa le ore piccole con gli amici e tende a fissare gli appuntamen-
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ti sempre verso la tarda mattinata, verrà a prendermi a mezzogiorno per andare a
incontrare Borka Pavicevic nel suo ufficio al Centro di Decontaminazione
Culturale, caposaldo teatrale negli anni Novanta dell'opposizione al regime di
Milosevic. Tiro fuori dalla sacca le scarpe da ginnastica e la tuta, c'è il tempo di
andare a fare una corsa nel parco proprio qui accanto all'albergo, il Tasmajdan
che si riflette con i suoi alberi e i suoi prati ben curati nelle grandi vetrate scure
della piscina olimpionica. L'aria oggi è dolce, primaverile, ma non c'è molta gente
a passeggiare nei viali alberati o seduta sulle panchine. E l'unico a fare jogging
sono io, turista per caso. Correndo rubo qualche immagine. Davanti alla cattedrale
ortodossa di Sv Marka, in fondo al parco stanno arrivando le macchine di un corteo
nuziale. Non lontano dall'imponente mole dell'edificio color rosa e rosso mattone
con le sue cupole verdoline e i suoi campanili a forma di torre incastrati uno
nell'altro intorno alla cupola centrale come per difenderla, rivedo di giorno l'ingresso
del teatro per ragazzi Dusko Radovic e il palazzo di vetro della nuova televisione
che s'incunea come il rostro di una nave tra le macerie degli uffici sventrati dalle
bombe nel'99. Tutto in un'area di poche centinaia di metri. Su una collinetta circondata
da una siepe una lapide ricorda i nomi delle vittime, e chiede in caratteri cirillici
“Perché?”. Due donne hanno appena finito di sistemare dei mazzi di fiori freschi.
Più avanti i tavolini all'aperto di un caffè ristorante dall'aria molto viennese e,
nascosta dietro una cortina di alberi, la statua equestre più malinconica, meno
marziale che si possa concepire: un Don Chisciotte decollato a cavallo del suo ronzinante
con la lancia ancora in pugno, reduce da qualcuna delle sue disastrose
spedizioni; entrambi bucherellati, crivellati di colpi, spolpati vivi lungo il cammino da
un avvoltoio svolazzante piantato con i suoi artigli sulla groppa.
Due viaggiatori nella notte. In treno per Nis, tra il Danubio e la Morava, attraverso
campi di girasole oppressi da nubi pesanti come incudini, Paolo Rumiz in una corrispondenza
del '92, raccolta nella Linea dei mirtilli si chiedeva anche lui perché.
“Nel dormiveglia tutto sembra un sogno: Sarajevo, Vukovar, Knin. Perché è accaduto?…
Come mai la guerra si è scatenata in forma così sanguinosa proprio nel
paese comunista che maggiormente si era differenziato dall'Unione Sovietica, nell'isola
relativamente più ricca dell'arcipelago rosso d'Europa? ” E come mai “la guer-
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a ha assunto la sua forma più insensata proprio nelle città dove più forte era la tolleranza
e la convivenza fra etnie, cioè Sarajevo, Ragusa, Vukovar? ”
Sull'auto di “un gentile macedone” che l'ha raccolta mentre faceva l'autostop per
andare a Zagabria nel maggio del '99, il periodo dei bombardamenti Nato e dell'epilogo
della guerra, Biljana Srbljanovic, allora trentenne ma già conosciuta anche in
Italia per la Trilogia di Belgrado, annotava nel suo Diario inviato giornalmente a
“Repubblica”: “Viaggiando in territorio croato ho ricordato i tempi in cui due volte
all'anno facevo lo stesso tragitto verso il mare. Paesaggi meravigliosi, buone strade,
edifici in costruzione…sono sprofondata in un sentimento di nostalgia per il mio
paese di un tempo, la ex federazione jugoslava, grande, bella, variegata, pacifica,
e talmente tollerante che neanche il comunismo era stato totalitario…oggi a un
decennio dallo smembramento è come se fossimo diventati distanti, come se vivessimo
in continenti diversi ...vorrei dire, senza entrare in discorsi difficili, senza particolari
riflessioni, senza voler fare della filosofia: è terribile che sia finita così…”
La vecchia guardia
L’
appuntamento con Borka è rimandato al pomeriggio per un impegno di famiglia.
Vlada mi propone in alternativa una visita al Mausoleo di Tito sulla collina
di Dedinje dove abitavano i pezzi grossi della vecchia nomenklatura.
Anche la villa di Milosevic, deserta in attesa di nuovi locatari, è nascosta dietro gli
alberi e l'imponente facciata del Museo della Liberazione sulla collina che ora, noto
dal finestrino della macchina, si va riempiendo di ville in costruzione dall'aspetto
signorile, probabilmente destinate alla nuova classe dirigente. Un lusso visibile ma
discreto, non il kitsch balcanico del castelletto da luna park che il famigerato Arkan
iscritto da Amnesty nella lista dei “criminali di guerra” si era fatto costruire alle pendici
della collina, di fronte agli spalti dello stadio della Stella Rossa. Ora che Arkan,
nome di battaglia di Zeliko Raznjatovic, è stato assassinato in un salone dell'Hotel
Intercontinental (pare su mandato dello stesso Milosevic specialista nel liberarsi in
maniera più o meno cruenta di amici e complici diventati scomodi) nel pretenzioso
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aborto architettonico è rimasta la vedova Ceca, stella del rock-folk serbo, con i suoi
due figli che nelle frequenti interviste al quotidiano scandalistico “Kurir”, dove il suo
busto prosperoso imperversa quasi ogni giorno, chiama “le mie sinagoghe”. Me lo
racconta ironizzando Vlada che Ceca non la può sentire, anche se i suoi concerti
radunano platee da stadio a Belgrado, o a Lubiana dove (fotocronaca del “Kurir”
di oggi) si è presentata scendendo da una limousine di quindici metri. Siamo arrivati
alla rampa di scalini che porta all'ingresso del Mausoleo. Quando aveva setteotto
anni Vlada ricorda che li saliva accompagnato dalla maestra in gita scolastica:
“Tutti in fila cantando con il berrettino e il fazzoletto rosso al collo dei Pionieri
di Tito, e i fiori in mano. Per me resta l'immagine vista con gli occhi di un bambino
che sintetizza come in un sogno il mondo degli adulti destinato a sparire nel giro di
pochissimo tempo”. Oggi in visita c'è soltanto una piccola compagnia di cinquantenni
venuti dalla provincia che incrociamo entrando nell'edificio a un piano progettato
quasi come una casa-museo, senza nessuna pompa monumentale. L'esatto contrario
della piramide faraonica che Henver Hoxa si era fatto costruire sulla via principale
di Tirana prima della caduta del suo lungo regime. La tomba in marmo bianco è al
centro di una sala illuminata dalla luce del giorno che scende attraverso la vetrata del
soffitto. In una stanza laterale, incorniciata da un sipario di velluto rosso la sua scrivania,
un tavolo di legno scuro, massiccio, sotto un ritratto di Tito in abiti borghesi,
assorto nei suoi pensieri con la fronte poggiata sulla mano. Per vederlo in versione
militare, da uomo d'azione, bisogna uscire nel parco dove avanza su un prato con il
cappotto aperto sull'uniforme da generale della guerra partigiana circondato in ordine
sparso tra gli alberi e le siepi da altre statue di combattenti per la Resistenza contro
le truppe naziste…
Scrive Dubravka Ugresic nel suo libro Non c'è nessuno in casa, un saggio sugli scenari
del postcomunismo nei paesi balcanici, da poco nelle librerie di Belgrado, che in
Croazia dal 1990 al 2000 sono stati distrutti tremila monumenti antifascisti, tutta la
toponomastica che ricordava nomi ed episodi della guerra partigiana è stata cancellata
e corretta, e nel dicembre del 2004 a Kumrovac è stata distrutta, decapitata
un'opera dello scultore Augustincic che rappresentava Tito in uniforme partigiana..
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“Come si fa a essere antifascisti senza essere presi per dei nostalgici del comunismo?”,
chiede Borka Pavicevic nel suo studio-ufficio al primo piano del Centro di
Decontaminazione Culturale (logo: due maschere antigas in campo giallo e nero)
inaugurato nel '93 per reagire al lavaggio del cervello mediatico operato dalla
stampa e dalla televisione di stato.
“In quell'anno - ricorda - furono licenziati dalla televisione 1200 dipendenti. Il nostro
slogan era 'Non ascoltate nessuno, fatevi sentire'...” E per farsi sentire azionarono
nel '94, simulando un attacco aereo, delle sirene d'allarme che misero a soqquadro
il centro di Belgrado, come nella celebre trasmissione di Orson Welles
sullo sbarco dei marziani. “Ma quelle sirene purtroppo annunciavano uno scenario
reale prossimo venturo…” Altra azione teatrale di guerriglia “situazionista” contro
l'informazione narcotizzata da Milosevic e dal virus della propaganda nazionalista,
un collegamento in diretta corsara con una radio locale che trasmetteva da
Srebrenica: “Ogni sera 200 spettatori trasformati in attori potevano trovarsi e discutere
ascoltando le notizie drammatiche di quella radio”. Per rappresaglia la polizia
con la scusa di un'ispezione buttò all'aria cassetti e archivi dell'ufficio dove stiamo
parlando e dove sulla parete è ancora appesa una grande carta geografica dell'ex-
Jugoslavia. “Alla fine della seconda guerra mondiale la bandiera jugoslava sventolava
accanto a quella della Francia, della Russia e degli Stati Uniti. Per il nostro
impegno contro la guerra e Milosevic siamo stati bollati come 'mondisti', traditori.
Ma chi ha tradito: noi o i fautori del nazionalismo serbo? ”
A vederla questa pasionaria sui sessant'anni dal corpo appesantito che ha fondato
uno degli epicentri della vita artistica alternativa di Belgrado, questa parente serba
di Ellen Stewart del Cafè La Mama di New York o di Igina di Napoli del Nuovo
Teatro Nuovo, sembra con il suo ampio mantello di velluto dai riflessi dorati e il suo
filo di perle girocollo, appena uscita da un salotto borghese degli anni '50, senza la
permanente, con i capelli chiari tirati indietro un po' scarmigliati, elettrici. Eppure nel
Pavillon Velikovic, la sala teatrale simile a una disadorna sala prove senza palcoscenico
e platea fissa, e negli altri ambienti del CZKD ricavato in un vecchio cortile
interno della centrale via Bircaninova alle spalle del consolato tedesco, arredato
con rustici tavoli e panche di legno come una trattoria di campagna, sono passati
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nel decennio scorso i migliori talenti della nuova generazione. Compreso Vlada che
mi mostra la locandina ancora esposta di K, lo spettacolo tratto dal Processo di
Kafka che lo ha portato in tournée in Italia, e a conoscere i Motus. Cosa è cambiato
da allora, quali sono nella Belgrado di oggi i virus da combattere, chiedo a Borka.
Mi risponde aprendo una copia di “Politika”, il quotidiano più “autorevole”, con la
notizia degli scontri avvenuti alla Facoltà di Legge per una manifestazione all'interno
dell'Università contro il processo del Tribunale dell'Aja al “criminale di guerra”
Mladic (tuttora uccel di bosco) responsabile delle stragi di Srebrenica: “Una volta gli
studenti erano tutti contro la guerra e Milosevic, ora una parte di loro difende Mladic;
e l'attuale Presidente con la scusa della democrazia giustifica un comizio politico
fascista all'interno dell'Università. Prima c'era il bianco e il nero, ora la destra nazionalista
ha un volto meno decifrabile, sfrutta i risentimenti e le frustrazioni verso
l'Europa, è un lupo travestito da agnello democratico…”
Sta scendendo il buio della sera, dalla finestra che dà sul vasto spiazzo del cortile
pavimentato di pietre bianche arrivano suoni di voci e risate, inizia la festa che
andrà avanti per tutta la notte, il tema scritto sui biglietti d'ingresso è “Dolci e teneri
teppisti”. C'è il tempo per un'ultima domanda: qual è stato il debutto nella regia più
promettente della stagione? Borka ci pensa un attimo poi, con l'aria un po' malandrina
di chi ti consiglia il nome del cavallo su cui puntare, dice: “Quello di un giovanotto
di 75 anni, Jovan Cirilov, il Direttore del Bitef…”
Sul taxi che ci sta portando da Cirilov squilla il cellulare di Vlada che senza neanche
aver risposto dice: “Deve essere lui…” Infatti è lui, il giovanotto di 75 anni che
si vuole accertare se stiamo arrivando puntuali all'appuntamento fissato per le 15
negli uffici del Bitef al secondo piano di un vecchio palazzo del centralissimo boulevard
Terazije con l'ingresso ingombro di calcinacci e tubi Innocenti. Cirilov ci accoglie
sorridente e ci fa fare il giro delle stanze tappezzate di manifesti delle passate
edizioni del festival come se fosse la sua casa. Adorato, protetto da un piccolo stuolo
di impiegate e segretarie fedelissime che nella pausa si stanno scaldando l'acqua
per il thè sulla piastra di un fornello elettrico. “L'anno prossimo -annuncia- il
Bitef compie quarant'anni”. E da quarant'anni lui lo dirige, inizialmente in secondo
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piano rispetto a Myra Trailovic, fisico e carattere da Marescialla, poi dopo la sua
scomparsa, da oltre venti anni, a pieno titolo. Nel marasma di mutamenti e crolli che
lo circondava è il Direttore Artistico in carica più stabile e longevo che esista.
Per parlare ci siamo seduti intorno a un tavolo nella sala d'ingresso. Ricorda le
prime favolose edizioni con il Living Theatre, e l'Orlando Furioso di Ronconi suggerito
da Franco Quadri, e il Lorenzaccio praghese di Krejca..: “Era un Festival dei
Tre Mondi per la prima volta organizzato in un Paese dell'est comunista.” Problemi
con Tito? “Al contrario. Tito personalmente (l'ho conosciuto) non mi piaceva, era
un primitivo vanitoso, con la passione del lusso, delle automobili costose; ma
come uomo politico era grandioso, aveva un fiuto finissimo. Prima del '68 lui aveva
già capito che il mondo e la sinistra stavano cambiando, e che questo cambiamento
doveva passare attraverso un nuovo modo di concepire la cultura. No, Tito
anche se non condivideva certe scelte, o non le capiva, non ha mai posto divieti,
voleva dare l'immagine di un paese libero, aperto. Bastava non toccarlo…”
Anche se i successivi eventi storici hanno tolto al Bitef buona parte della sua unicità,
e gli anni dei gloriosi avvistamenti (da Robert Wilson a Heiner Müller) in anticipo
sui cartelloni dei più grossi festival europei si sono diradati lasciando spazio
alla passerella di Grandi Maestri già riveriti e collaudati, la rassegna non si è mai
interrotta neanche durante la guerra (I Polacchi ubueschi delle Albe ravennati
approdarono al Bitef nel '99), resta sempre un osservatorio “a trecentosessanta
gradi”, un porto franco della sperimentazione internazionale. E non c'è talento
emergente, giovane promessa che a Belgrado non abbia trovato in Cirilov (come
in Borka) un aiuto o un punto di riferimento. Qualche nome? Preferisce non farne,
ma dice che la ricerca di nuovi linguaggi, poco incoraggiata nelle Accademie, dà
risultati inferiori al teatro più tradizionale; e che fra attori e registi la palma del confronto
va agli attori, sono più bravi, più creativi. Per questo ha deciso di debuttare
nella regia? Annuisce ridendo sotto i suoi zigomi alti da mongolo: “Scherzi a parte,
è stata una scelta obbligata. Da anni volevo vedere rappresentato Nedzavaci di
Momcilo Nastasievic, riconosciuto come poeta ma quasi completamente dimenticato
come drammaturgo. Credo di aver proposto quel copione - che in italiano si
traduce più o meno Non allineato, ed è la storia di una Nora Helmer serba, putta-
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na, che invece di andare via di casa fa l'amore con chi le capita - ad almeno dieci
registi, ma tutti alla fine si sono tirati indietro”. Un ciclo di spettacoli sul “modernismo”
varato l'anno scorso da Borka al CZKD gli ha dato la spinta per decidersi: “Se
nessuno lo vuole allestire, ci penso io”. Magari con la collaborazione per le scene
e i costumi di una sua “scoperta”, la quarantenne Angelina Atlagic spesso lontana
dalla sua casa-studio di Via Krunska, immacolata, piena di gigli, non uno spillo o
un pastello fuori posto, per lavorare a Mosca come a Madrid, Parigi, Stoccolma,
Gibellina nel Woyzeck di Filippo Timi, o Skopje in tandem visionario con il regista
macedone Popowski.
In un angolo è già pronta anche la sua sacca da viaggio, lo aspetta un aereo per
Zurigo, e poi altri spostamenti per andare a vedere degli spettacoli da inserire nel
prossimo cartellone. Al momento del congedo, sulla porta, mi saluta dicendo: “Non
dobbiamo chiedere la cittadinanza europea, qui c'era l'Europa...”
Il nuovo volto della Serbia
E
uropa c'è. Le sue bandiere sventolano sulla facciata dell'Hotel Intercontinental
che ha soppiantato il vecchio Hotel Moskva, decantato per il suo fascino liberty
da tutti gli inviati speciali, in una foto a colori pubblicata in prima pagina da
“Politika” che titola l'articolo “Il nuovo volto della Serbia”. “Sono - mi spiega Vlada- le
bandiere dei 400 bancari e imprenditori venuti per concertare con il Ministro
dell'Economia un piano d'investimenti. A Belgrado si fanno dei buoni affari: l'Hotel
Serbia che valeva almeno 12 milioni di euro è stato comprato a 3 milioni, e la Fiat ha
acquistato per produrre la sua Punto la fabbrica bombardata e ricostruita della Jugo,
una scatoletta utilitaria che veniva sfornata uguale da venti anni…”. E si punta anche
sulla moda. Davanti all'ingresso del JDP, dove sono venuto a vedere Skup (riunione)
di Marin Drzic allestito da Jagos Markovic, gli operai stanno smontando il tendone e
la passerella del defilée organizzato per i congressisti che si è appena concluso.
A teatro, sul palcoscenico la moda cambia. Indossano uniformi militari fuori corso,
consunte marsine, abitucci popolari da quattro soldi, mantelli cardinalizi su tacchi a
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spillo, i personaggi d'ogni età e ceto sociale che Markovic ha imbottigliato in una
sorta di cul-de-sac, di discarica ingombra di cordami e del relitto di una barca, chiusa
da un alto muro a scivolo che ogni tanto qualcuno cerca di scalare senza riuscirci.
Mentre la vita continua sulla falsariga di una trama plautina, l'Aulularia, tra due
funerali (uno con un morto vero, l'altro finto) e un matrimonio, e grottesche processioni
da Classe morta kantoriana. Con uno spiraglio di speranza, il barlume di un
Lieto Fine per i giovani sposi (la “generazione innocente”) che ce la fanno ad arrampicarsi
in cima allo scivolo e partire. Molto curato nelle luci, nei movimenti e nelle
composizioni pittoriche dei gruppi, Skup mi lascia freddino per il suo deja-vu sperimentale.
Nonostante le molte critiche positive che ha avuto, conferma, mi sembra, il
parere di Cirilov a proposito di un teatro tradizionale (Huddersfield, per esempio)
migliore del teatro legato ai canoni dell'avanguardia.
Ne sto parlando con Vlada al Manjez, un piacevolissimo ristorante con specchi e cornici
di legno scuro un po' déco di gusto parigino in una traversa accanto al teatro,
quando mi fa notare con una strizzata d'occhio due donne anziane vestite in maniera
molto dignitosa sedute in un tavolo d'angolo: una mangia, l'altra aspetta che l'amica,
o la sorella, alzi la forchetta verso la bocca per sfilargli qualcosa dal piatto e farla
scivolare in un suo sacchettino da portare a casa. Avanti così tutta la cena, senza
scambiarsi mai una parola. “Ecco il nuovo volto della Serbia”, commenta.
Il nuovo volto della Serbia è anche Gorcin Stojanovic, il direttore artistico del
Jugoslavensko Dramsko Pozoriste, che mi aspetta il giorno dopo nel suo ufficio.
Usciere che ti fa salire previa telefonata al piano superiore, lucidi parquet, pareti e
porte di vetro, impiegati al lavoro in un'atmosfera di morbida efficienza aziendale.
Gestito sull'onda del Bitef, da Mira Trailovic e da Cirilov che l'ha diretto fino al '97
quando un incendio lo distrusse parzialmente bloccandone l'attività, il JDP ha riaperto
i battenti nel 2001 dopo due anni di lavori di ristrutturazione che hanno conservato
del vecchio teatro soltanto una gigantesca riproduzione fotografica della
facciata decorata con fregi e statue in stile neoclassico. Creando un curioso effetto
illusionistico di spaesamento nel passaggio d'epoca dall'esterno all'ingresso
interno, una struttura moderna a forma di cubo in vetro e tubi di ferro con al centro
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una vasca e una scultura astratta. Jeans e camicia griffata a righe bianche e azzurre,
barba e capelli piuttosto lunghi, fra l'artista bohemien e il giovane manager,
Gorcin Stojanovic è un ragazzone di 38 anni sopra il metro e novanta che non
perde tempo in preamboli. Dopo aver firmato le carte che gli ha portato la segretaria
e risposto a due telefoni che squillano in continuazione, senza aspettare le mie
domande passa subito a elencarmi le “quattro priorità” della sua linea di gestione
artistica: “Privilegiamo a) la scelta di “classici” stranieri allestiti in maniera moderna
o poco rappresentati; b) stesso criterio per quel che riguarda i “classici” serbi o dell'ex-Jugoslavia;
c) nel panorama della drammaturgia straniera contemporanea
diamo la preferenza agli autori più innovativi; d) per gli autori di lingua serba puntiamo
sulla qualità a qualsiasi tendenza appartengano, più o meno sperimentale,
per intenderci Skup o Huddersfield…” Con gli stessi criteri, quello della qualità e
della scoperta di nuovi talenti, il JDP era diretto da Cirilov. E fu proprio Cirilov, ricorda,
a tenere a battesimo, quando aveva 26 anni, le sue prime regie, un Amleto e il
fluviale Ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, messo in scena anche da Ronconi
al Lingotto. O successivamente, ma sempre con qualche anno d'anticipo sull'allestimento
di Valerio Binasco (Premio UBU 2004 come “miglior spettacolo straniero”)
Cara professoressa di Ljudmila Razumovskaja che “sembrava scritto sulla pelle
della nostra generazione al guado fra comunismo e liberismo economico”.
Un'attitudine a riflettere attraverso il teatro su se stessi e sullo stato presente delle
cose che in Italia sembra riservata al cinema più che al teatro, e che invece qui è
una delle molle fondamentali per chi scrive: “Nel caso, ad esempio, della trentenne
Milena Markovic, autrice di Binario, di Dejan Dukovski con Polveriera da cui è
stato tratto anche un bel film, o di Biljana Srbljanovic in scena nella sala grande
con il suo ultimo lavoro Skakavci (Cavallette) che, sempre grazie a Cirilov aveva
esordito nel '97 al JDP con la sua ormai famosa e plurirappresentata in tutto il
mondo Trilogia di Belgrado...”
Quanto agli spettacoli stranieri è in arrivo per il 2006 una piccola personale di Jan
Fabre invitato con due lavori e probabilmente (se si trova il regista adatto), il primo
Pirandello con Questa sera si recita a soggetto, mai rappresentato al JDP.
Altri autori italiani più recenti? Nessuno, perché non li conosce, al Bitef passano
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gruppi più sperimentali come i Motus e Fanny e Alexander, ma non sono nella
linea del Centro. E di Paravidino ha solo sentito parlare da Vlada che aveva messo
in scena e recitato con Damir Fratelli al festival di Santarcangelo. Ma, conclude
salutandomi, vorrebbe presentarlo anche a Belgrado, insieme ad altri giovani autori
italiani. Magari allestito da un regista serbo esordiente in una terza saletta riservata
ai debutti che aprirà nel 2007...
Non lascia spiragli per il futuro l'ultimo lavoro di Biljana Srbrijanovic in scena in
questi giorni al JDP dove ha debuttato il 26 aprile. Non ne lascia fin dal titolo,
Cavallette, che evoca una delle sette piaghe d'Egitto, uno scenario umano progressivamente
devastato, divorato dagli insetti. Ma a parte la cupa metafora apocalittica
di stampo kafkiano e il tanfo di morte che impregna l'intera commedia, nel
girotondo di storie che s'incastrano e si riflettono una nell'altra c'è, come nel
Giardino dei Ciliegi di Cechov o nella Trilogia di Belgrado, un andamento a tratti
irresistibilmente comico, un clima di amaro boulevard, una disperazione e un lucido
orrore temperati dalla pietà e dall'ironia.
Sulla pedana mobile, con l'aiuto di proiezioni video, il regista Dejan Mijac, considerato
- mi dice Vlada - il “Ronconi serbo”, fa ruotare cinque vicende che si svolgono
quasi parallelamente, e uno spaccato di varie generazioni. Vediamo l'ultracinquantenne
Maksim (Voja Brajnovic), giornalista di successo mediatico, un'icona
televisiva come Bruno Vespa, seduto al tavolo di un ristorante che maltratta la
sua amante di vent'anni più giovane, Nadezda. Poi li ritroviamo nel giardino di un
cottage di campagna da carosello pubblicitario del Mulino Bianco per un party
ospiti di Fredi e Dada,coppia sui quarant'anni di scalatori sociali spietati. Lei incinta
che cerca di sedurre davanti agli occhi del marito, velatamente gay, e di
Nadezda, il carismatico Maks, spingendolo a colpi di pancione in tutti gli angolini.
Della bella famigliola fanno parte anche una figlia, Alegra di 10 anni, che cammina
sempre in punta di scarpe da ballerina classica e parla come un'adulta addomesticata
dalla TV; e un nonno rincitrullito, che gioca al lotto tutti i soldi e che viene
lasciato dal genero sull'autostrada nella speranza che qualche macchina lo investa.
Del conflitto generazionale e famigliare fanno le spese anche Zana, 50 anni
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volati via e reclusa viva dalla madre, un'arpia ottantenne che si lamenta e la colpevolizza
in continuazione senza lasciarle un attimo di vita propria, solo il tempo
di telefonare a improbabili amici, che non rispondono. Dal canto suo, a 35 anni
Milan ha già rinunciato a qualsiasi progetto di lavoro e d'amore per accudire il
padre di 75 anni che visibilmente lo disprezza, trattandolo come un autista.
Paradossalmente, nel limbo a porte chiuse di Biljana, sono gli anziani a essere
ancora caparbiamente attaccati alla vita e alle proprie illusioni (a differenza dei più
giovani, una generazione fra i trenta e i quaranta, sfiduciata e priva di scopi che
non siano di basso profilo mondano e di benessere economico): sia che si tratti di
una vincita al lotto sia della nomina ad Accademico (nella quale continua a sperare
il padre di Milan professore in pensione ed emerito rompiballe che ci prova
anche con la sua vicina di casa, Nadezda). Ma in realtà non esiste una vecchia e
una nuova generazione. Tutti sono vecchi, tutti hanno perso qualcosa, tutti sono
stati spolpati internamente dalle Cavallette…
“Non esiste una Lost Generation, tutti a Belgrado hanno perso qualcosa…”, sostiene
anche Aleksandra Iovicevic che di Biljana è stata prima insegnante negli anni
dell'Accademia, poi amica strettissima e traduttrice della versione italiana della
Trilogia di Belgrado. Durante i bombardamenti del '99 ha tradotto anche le note del
Diario che giornalmente Biljana scriveva e inviava a “Repubblica”, un foglio dopo
l'altro, sempre con l'acqua alla gola e la paura di non fare in tempo. Stiamo parlando
seduti ai tavolini all'aperto di Ipanema, un ristorante alle pendici della collina di
Skardalija che serve anche orecchiette baresi alle cime di rapa, appena mangiabili.
Aleksandra ha parenti nel Sud dell'Italia, uno zio pugliese di Conversano, e un
lontano cugino a Napoli, lo scenografo Daghi Rondanini. “Nell'84 -ricorda- avevo
circa vent'anni, vivevo e studiavo teatro a New York con Richard Schechner; vidi
Tango glaciale di Mario Martone e del gruppo Falso Movimento in trasferta americana,
e ne rimasi affascinata tanto da sceglierlo come argomento della mia tesi di
laurea con Schechner ”. Perché aveva deciso di andare a New York? Per amore,
mi risponde senza troppi giri di frase. E sempre per amore, un nuovo amore, alle
soglie della bufera, mentre chi poteva cercava di organizzarsi per andare via, è tor-
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nata a Belgrado dove da dodici anni insegna all'Accademia, ed è stata, nel periodo
concluso tragicamente del governo Dijndic, Vice Ministro della Cultura. Una
“Lady di ferro” romantica dall'aria dolcissima e determinata, elegante nella sua
semplice giacca scura di taglio un po' maschile, un ovale perfetto, antico e moderno,
sotto la frangetta di capelli neri che ricorda molto, le dico, il viso di Biljana.
Sorride anche con gli occhi attenti e luminosi che ogni tanto si perdono in improvvise
malinconie: “Spesso quando ci vedono insieme ci scambiano per sorelle...”.
Ma del loro rapporto di amicizia, di aneddoti, storie private, non vuole parlare.
Taglia corto: “È stata una delle mie prime allieve, avevamo quasi la stessa età,
condividevamo le stesse idee, uscivamo con gli stessi ragazzi…” Preferisce raccontarmi
che il solito “Kurir” da quando Biljana vive a Parigi, da moglie dell'exambasciatore
a Belgrado, star internazionale tradotta e rappresentata in tutto il
mondo, non perde occasione per additare le sue moralità teatrali al pubblico
disprezzo chiamandola la “puttana francese”. Aggiunge: “Ai tempi del Diario e delle
sue note contro Milosevic inviate a “Repubblica” dal fronte interno, la stampa di
regime la definiva 'una prostituta al servizio degli italiani'. Come vedi le cose non
sono cambiate da allora…”
Anche lei, come Borka, è indignata per le manifestazioni all'Università contro il processo
a Mladic e per l'atteggiamento da Ponzio Pilato del Governo. Dopo i giorni
dell'euforia, le speranze di cambiamento stanno cadendo, l'aria si sta facendo di
nuovo pesante e soprattutto poco decifrabile; non si sa bene dove mettere i piedi,
da che parte sta l'avversario. Scuote la testa: “Qui non c'è futuro: chi ha idee e
voglia di esprimerle deve partire…” Si allontana per andare a fare lezione con il
suo passo leggero e coraggioso in un pulviscolo d'afa e di “manine” che piovono
volteggiando dagli alberi come in un Amarcord felliniano. Mi viene da pensare alla
Casa degli Atridi e a una moderna Antigone…
Vlada mi indica attraverso il finestrino una linea di casette con il tetto rosso disposte
in fila nella pianura come a segnare un argine, un muro di confine: “Lì, in quel
punto si è fermata per sempre l'avanzata dell'esercito turco verso il centro
dell'Europa”. Siamo a una cinquantina di chilometri da Belgrado lungo la E75, che,
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scavalcando con un lunghissimo ponte il corso del Danubio, porta in un'ora o poco
più a Novi Sad, la capitale della Vojvodina costruita ai margini degli ultimi rilievi della
catena montuosa della Fruska Gora. Devo incontrare Ivan Medenica considerato a
quarant'anni il critico e organizzatore di eventi teatrali più influente della sua generazione
che è venuto a Novi Sad per varare la quarta edizione del suo festival di
rilievo internazionale intitolato “Sterijmo Pozorje”. L'appuntamento è per le cinque
del pomeriggio al Teatro Nazionale. C'è tempo - mentre Vlada va a pranzare dai
genitori nella vicina Zremiatin - di vedere Nhandan che è (nonostante il nome preso
da quello del maggiore quotidiano di Saigon ai tempi della guerra degli americani in
Vietnam) una ragazza italiana di Milano. A Pontedera Nhandan ha incontrato il
compagno di vita e di lavoro, Branko Popovic, figlio dell'ex-Sindaco di Novi Sad con
il quale sta preparando uno “studio” finanziato dalla Comunità Europea che, mi
dicono, aprirà fuori festival la prossima edizione dell'Inteatro di Polverigi insieme ad
altri due partner del progetto in prova attualmente a Lubiana e Salisburgo. Di tutte
le persone e gli spettacoli che ho visto a Belgrado, Branko non sembra avere gran
considerazione, almeno a giudicare dal silenzio e dall'espressione leggermente
schifata con cui mi ascolta mentre ne parlo (davanti a un piatto di antipasti con del
buon prosciutto, in un grazioso localino tipo bistrot, il Kuca Mala, vicino alla grande
piazza centrale, di eleganza asburgica, mitteleuropea). Da quell'espressione che
conosco bene -fa parte del fondamentalismo della ricerca- capisco anche che loro
fanno “un altro teatro”. Ma di quel loro teatro, della performance “fra parola, musica
e danza” ispirata alle poesie e ai testi letterari di Beckett, che stanno provando nei
saloni della fortezza di Petrovaradin (una reggia semiabbandonata, specchi dorati,
mobili accatastati nelle stanze, una sorta di Marienbad della Jugoslavia di Tito) non
vedrò nulla, poichè è venuto il fotografo per scattare qualche immagine da mandare
a Polverigi. E una ragazza serba, una delle componenti di questo piccolo gruppo
di artisti -insieme a un bulgaro e a un italiano batterista -, non è ancora tornata
dall'ambasciata italiana di Belgrado con il suo sudatissimo visto. Pazienza… valeva
ugualmente la pena di arrivare su questa collina di fronte a Novi Sad. Un gruppo
di militari, turisti in tuta mimetica, sta fotografando, dai bastioni della fortezza, la
curva del Danubio e i due ponti ricostruiti dopo i bombardamenti. Il tempo corre
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veloce. Basta invertire sull'orologio della torre la lancetta corta delle ore con quella
lunga dei minuti, “un vezzo particolare di Novi Sad” mi fa notare Nhandan.
Ivan Medenica non ha tempo da perdere pressato dai mille impegni che ha il direttore
di un festival alla vigilia, o quasi, della sua inaugurazione. Ma si è ritagliato ugualmente
una mezz'ora per illustrarmi, sulla terrazza con tavolini del bar all'aperto del
Teatro Nazionale, le linee del suo Sterijmo Pozorije nato di recente, nel 2003. “Si tratta
di un festival dedicato agli autori contemporanei di lingua serba che ogni anno si
conclude con l'assegnazione di vari premi, dal testo, ovviamente, alla regia, al miglior
spettacolo, agli attori, alle scene e così via. Un po' come il vostro Ubu, ma più sul versante
di un teatro che bilancia tradizione e innovazione legato alla parola.”
E, come nel caso dell'Ubu, le targhe dello Sterijmo Pozorije sono diventate in poco
tempo ambitissime, un riconoscimento molto importante anche perché Medenica che
ha ancora l'aspetto di uno studente, magari un po' secchione, primo della classe, ha
avuto la brillante idea di accostare agli allestimenti di registi serbi quelli realizzati
all'estero. Con qualche contraccolpo traumatico: “Spesso, per non dire sempre, gli
allestimenti stranieri si sono rivelati migliori, vincenti rispetto ai nostri…” Anche lui,
come Cirilov, giudica inferiore la qualità dei registi rispetto a quella degli attori, ma
soprattutto degli autori, quattro in particolare: “Biljana Srbljanovic naturalmente, e poi
Ljubomir Simovic, Milena Markovic e Dusan Kovacevic…”.
Una commedia di Kovacevic, Le professionnel, allestita in lingua francese da un regista
e da un gruppo di attori svizzeri l'anno scorso, ha raccolto il maggior numero di
premi: “È la storia di una curiosa amicizia fra uno scrittore considerato sovversivo e
il poliziotto incaricato di pedinarlo. Dopo la caduta del regime l'ex-poliziotto gli porta
nella casa editrice, che lo scrittore ora dirige, il fascicolo del suo dossier personale,
una sorta di diario giornaliero della sua vita dicendogli: ecco il miglior romanzo che
hai scritto…”
A vincere la prima edizione con un allestimento ungherese era stato invece Storie di
famiglia, la seconda pièce scritta dalla Srbljanovic dopo la sua Trilogia, un testo molto
rappresentato anche in Germania e in vari paesi non solo europei. Un pronostico, chi
vincerà quest'anno? “Sempre Biljana, probabilmente. Ho visto l'allestimento del suo
Amerika parte seconda, una libera continuazione attuale del romanzo di Kafka, fatto
dal Burgtheater di Vienna con la regia di Karin Bayer, e mi è sembrato bellissimo…”
P.S. Infatti ha vinto.
Mentre parlo con il rampante Medenica, seduto a un altro tavolo, immerso nella lettura
di un libro, c'è un signore che mi sembra di riconoscere. “È Voja Brajovic che
hai visto ieri sera nella parte di Maks, il giornalista di successo che muore per infarto
alla fine delle Cavallette...”, mi aiuta Vlada. Miracoli del teatro e di una programmazione
statale che tiene gli spettacoli in repertorio anche diversi anni montandoli
e smontandoli, però, nel corso della stessa settimana: lo rivedrò stasera nei
panni del Duca di Mantova, il demiurgo occulto di Misura per Misura di
Shakespeare allestito sempre da Dejan Mijac che ne ha fatto uno spettacolo curiosamente
incline al grottesco, se non addirittura alla farsa. L'azione si svolge tutta
in un unico ambiente, una cripta sotterranea tra il carcere e il convento popolata di
ridicoli Torquemada inclini alle sbronze e ai vizietti da caserma. Il pubblico ride, si
diverte come a una commedia all'italiana per emozionarsi, parteggiare per Isabella
(un gigante tra i nani) nella scena delle avance di quel Tartufo di Angelo, e poi
quando Angelo viene smascherato e punito dal Duca. Giustizia è fatta? Macchè,
con un'invenzione a soggetto della regia, un vero colpo di teatro, il Grande
Moralizzatore, il Duca di Mantova che Brajovic interpreta come un despota mefistofelico
e macho fa spogliare completamente la castissima Isabella. Mai fidarsi
dei tiranni, soprattutto quando indossano il saio del moralista, lupi che si travestono
da agnelli.
Il guscio vuoto di un’epoca
L’
ultimo piatto di gulasch, gigantesco, lo mangio con Vlada che ha optato per
uno spiedino di carne di maiale altrettanto buono e un puniena paprika, un
peperone ripieno di riso e carne molto piccante, in un vecchio ristorante di
Belgrado arredato con tavoli bassi e cuscini alla turca non lontano dalla Knez
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Mihailova. La sera sta calando lentamente, preceduta da un luminoso crepuscolo
rosa. In fondo alla strada in discesa svolazzano tonache e mantelli neri di pope barbuti
che escono da un convento attiguo alla cattedrale greco-ortodossa. C'è un'atmosfera
serena, quasi oleografica da cartolina illustrata. Soltanto il nome del ristorante
solleva qualche inquietudine, si chiama Punto di Domanda e ha come insegna
un rotondo punto interrogativo. Di punti interrogativi sono costellate, un vero
fuoco d'artificio retorico, le ultime pagine del Viaggio d'inverno di Handke. Chiedo
a Vlada se l'ha letto e cosa pensa della sua difesa a spada tratta della Serbia contro
la Nato e, soprattutto della condanna dei giornali tedeschi e francesi rivolta
all'intero paese per la guerra e i massacri avvenuti durante il governo di Milosevic.
Mi risponde che conosce le sue tesi “scandalose” sul fariseismo di molta stampa
dei paesi occidentali, e condivide le parole espresse da Biljana in un'intervista: c'è
bisogno di giustizia, le responsabilità della guerra e dei massacri non sono tutte di
Milosevic e dei serbi; ma la difesa di Handke, il suo schierarsi provocatorio dalla
parte dei “cattivi” rischia, visto dall'interno, da chi ha cercato in tutti i modi di opporsi
al regime, di essere controproducente. “Un aiuto agli studenti che ora manifestano
contro il processo a Mladic”. L'arrivo di Alessandra Taliani che lavora all'Istituto
Italiano di Culura ci dirotta verso altri argomenti, meno d'attualità. Non è potuta arrivare
prima, dice, perché all'Istituto era in corso un interessante convegno sugli
scritti di Mazzini a proposito della Questione Serba nell'Ottocento…
Con Alessandra che è venuta a salutarmi e a dare il cambio a Vlada, impegnato
come al solito in giri notturni con gli amici, la serata prosegue su una piattaforma
circolare galleggiante ancorata sul fiume proprio di fronte al forte Kalemagdan nel
punto dove il Danubio e la Sava s'incontrano. Non ho il coraggio di dirle che quel
ristorante da itinerario romantico lo conosco già, ci sono venuto di giorno portato
dal mio Virgilio, e ho mangiato un ottimo pesce di fiume salmonato. Ma di notte il
Koliba, la taverna, così si chiama (prendete nota perché ne vale la pena), ha un
aspetto molto diverso. Si trasforma davvero in una taverna, con i tavoli a lume di
candela, le fiamme della griglia centrale, l'orchestrina che gira suonando tra i tavoli
vecchie canzoni slave intonate dagli avventori scaldati dalle numerose slibovit-
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ze. Parlano, mi dice Alessandra, figlia di un italiano che ha conosciuto la madre a
Spalato durante la guerra, di storie d'amore e dolorose separazioni. Lei, ripetendo
un po' il copione di famiglia, ha sposato un croato di Zagabria, incontrato su una
barca di amici durante una vacanza fra le isole dell'Adriatico. Nelle storie d'amore,
penso, come quelle della vita, spesso il cemento che unisce è la paura di perdersi,
di separarsi.
Per tornare verso il centro di Belgrado, prima di imboccare il ponte che attraversa
la Sava, passiamo accanto a un grattacielo di vetro con le stanze vuote, senza un
tavolo, una sedia, una presenza umana, interamente illuminato. Sembra un gigantesco
totem spettrale, una casa di morti. Era la sede del partito di Milosevic.
Danneggiato dalle bombe, è rimasto in piedi ed è stato restaurato come se fosse
nuovo. Ora se ne sta lì come un inutile faro nella notte, il guscio vuoto di un'epoca.
Smederevo non è distante da Belgrado
S
mederevo non è distante da Belgrado. Si prende l'autostrada nella direzione
opposta a Novi Sad e dopo una quarantina di chilometri pagati a caro prezzo,
circa 5 euro, si esce per entrare in una strada di campagna collinosa.
Vlada mi aveva detto che Smederevo era una cittadina industriale, un centro siderurgico
senza molte attrattive, e mi aspettavo di trovare il solito hinterland, la solita
terra desolata che da noi caratterizza le periferie o le città industriali, dal nordest
al sud dove per l'attrito con la cultura contadina lo scempio non solo ecologico risulta
ancora più evidente. E invece il paesaggio che scorre fuori dai finestrini, verdissimo,
punteggiato di casette a uno o due piani con orti, frutteti e filari di vigne evoca
un clima da scampagnata fuori porta nei castelli romani d'una volta, quelli delle
stampe di Pinelli. Anche la via che porta verso il centro sembra rimasta quella di
un villaggio con le sue botteghe artigianali, le architetture sghembe come nei quadri
di Chagall, l'insegna “Dolce vita” sulla vetrinetta di un negozio di pudibonda
biancheria intima. E delle raffinerie bombardate nel '99, con le fiamme che si vede-
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vano nella notte a 60 chilometri di distanza, ma ora ricostruite e acquistate da una
compagnia americana insieme a tutte le acciaierie dove lavorano diecimila operai
(la maggior parte della popolazione), non si sente neanche l'odore. Vladislav Nesic,
un ragazzone alto dall'aria dolce e svagata che dimostra assai meno dei suoi cinquant'anni
e si occupa da tredici anni, dopo aver fatto l'attore e regista in un gruppo
di teatro locale, delle pubbliche relazioni del Centro Culturale, mi spiega il mistero
di quel paradiso campestre: “Arrivando in macchina, gli impianti industriali non
si vedono, restano nascosti dalla collina, fuori dal centro abitato sulle rive del
Danubio. E poi alla gente di Smederevo la fabbrica non piace, ci lavorano, ma continuano
a coltivare il loro pezzo di terra. Da queste parti si fa del buon vino…”
Vino e acciaio, uno strano binomio. Eppure dall'accostamento di quelle due parole
una leggenda vuole che siano nati a causa di “un fantastico errore” gli impianti
di Smederevo. La racconta Paolo Rumiz nel suo È Oriente per averla sentita passando
davanti ai rottami delle acciaierie dal battelliere di nome Ljubo che l'accompagnava
in chiatta lungo il Danubio nella primavera del 2000 attraverso i territori
appena bombardati. Vera o falsa che sia vale la pena di riportarla: “Un giorno Tito
venne a visitare le colline della zona. Funzionari e politici gli magnificarono le
splendide vigne, parlarono di 'grodze' che in serbo vuol dire “uva”. Ma accadde che
Tito, che era già sordo come una campana, capisse 'guozce', che invece significa
'acciaio'. Così disse 'Splendido! Facciamo al più presto una grande immensa
acciaieria'. Nessuno, ovviamente, ebbe l'ardire do smentirlo. Sarebbe equivalso a
fargli notare la sua sordità. La macchina del partito si mise in moto e nel giro di soli
due anni sorse dal nulla la più grande acciaieria d'Europa…”
Stiamo andando nel posto dove mi hanno alloggiato, una stanza tipo residence
con mobile cucina e bagno all'interno di una stazione radio, un po' fuori dalla città.
Non ci sono molte disponibilità di camere, mi dice Vladislav: l'unico albergo che
c'era, l'Hotel Smederevo, dopo i bombardamenti e il fermo d'attività delle fabbriche
ha chiuso per fallimento. E quando gli impianti si sono riaperti, ed è ricominciato
un po' di flusso turistico, generalmente manager di passaggio della compagnia
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americana, c'è stato chi fiutando l'affare ha comprato stanze e appartamenti in
città da fittare. Come il proprietario di questa Radio Lux, un edificio nuovissimo a
tre piani con facciata vagamente neoclassica color crema e verde pistacchio sorto
come un miraggio su un pratone periferico ai confini della campagna tra hangar e
depositi cadenti, non lontano in linea d'aria dalle raffinerie: “I suoi uffici, gli uffici del
Lux Group, sono al secondo piano e la radio trasmette soltanto musica folk intermezzata
da annunci pubblicitari della sua ditta di distribuzione di bibite, Coca Cola
naturalmente e birre di varie marche. Nel giro di pochissimi anni, quattro o cinque,
è diventato molto ricco…” Se la radio del neocapitalista di Smederevo trasmette in
continuazione, 24 ore su 24, musica e pubblicità autoreferenziale ci sono due o tre
radio locali, che non fanno solo programmi d'intrattenimento: “Ad esempio Radio
Smederevo che prima era interamente di proprietà privata (adesso è per metà
pubblica e per metà privata) durante il governo di Milosevic è stata una delle
pochissime radio libere, sottratte a qualsiasi censura in genere limitata al controllo
dei grossi organi d'informazione, dalla televisione ai giornali”. Molte delle pietre
lanciate dalla fionda di Radio Smederevo contro lo “stato delle cose” partivano, e
partono ancora, da un programma intitolato Meteo Report: “Invece dei cambiamenti
di tempo meteorologico, attraverso le telefonate degli stessi ascoltatori,
Meteo Report è stato per anni il bollettino dei nostri sbalzi d'umore, dei nostri stati
d'animo e disagi climatici rispetto agli avvenimenti del giorno”.
Con qualche licenza di beffa satirica tipo “Male” o “Frigidaire”: come quando
annunciò la presenza dello stesso Milosevic nello studio di Radio Smederevo per
rispondere in diretta alle domande degli ascoltatori, e si creò davanti alla sede un
putiferio con arrivo della polizia e folle di curiosi e dimostranti improvvisati: “In realtà
Milosevic era un omonimo, autista di taxi, che per un po' riuscì anche a reggere
il gioco, a rispondere alle domande che arrivavano senza farsi scoprire…”
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“Sono esaurito...”
“S
ono esaurito…”, si lamenta appena mi vede Salvatore Tramacere che è qui a
Smederevo da tre settimane alle prese con i giovani allievi del laboratorio che
concluderà domani con un saggio-spettacolo una breve rassegna di video,
musica, danza e teatro. Ma poi non sembra così stressato mentre mangia chiacchierando
allegramente delle buone salsicce e patate fritte su un lungo divano al
piano superiore dell'ingresso del Centro con sottofondo di musica da discoteca a
tutto volume circondato dagli attori e collaboratori del suo corso, in parte italiani e
in parte di Smederevo o di altri paesi dell'ex-Jugoslavia.
Allineati lungo la stessa parete mangiano e bevono birra molto compostamente,
quasi con timidezza, i membri di quello che sembra un club sportivo, o di ex-allievi
di un college; tutti, uomini e donne, indossano la stessa maglietta rossa con lo
stemma accanto a due date, 1905 - 2005. “Sono - mi spiega il direttore del Centro,
Dragoljub Martic, un quarantenne gentilissimo, compositore e musicologo - gli attori
della compagnia filodrammatica di un paese vicino dove si organizza annualmente
il più importante festival di filodrammatiche della Serbia, e quelle magliette celebrano
il centenario della loro attività”. Non ho fatto a tempo a vedere il loro spettacolo,
un allestimento della Cantatrice calva di Ionesco, ma mi sarebbe piaciuto
conoscere in che salsa cucinavano le conversazioni di quel salotto borghese, e
come se la cavavano con i nonsense surreali di un testo chiave del Teatro
dell'Assurdo. Mi sorprende e m'intriga anche trovare lo spettacolo di un gruppo,
comunque amatoriale, nella vetrina di un festival come quello di Smederevo. Da
noi esiste uno spartiacque molto netto fra quel genere di teatro considerato di serie
B, o vernacolare, e il teatro professionale e di ricerca. Uno spartiacque, una linea
di separazione che proprio questa estate nel piccolo festival che da qualche anno
dirigo in un borgo medioevale della Toscana, a Radicondoli, ho cercato di abbattere
mettendo in cartellone accanto alle “novità” di autori toscani gli spettacoli in vernacolo
di due filo-drammatiche di Firenze e Livorno. Spesso da incontri (o scontri)
ravvicinati di questo tipo, soprattutto a Napoli e nell'area più sperimentale, sono
nati lavori molto belli, capaci di reinventare e rinverdire la tradizione del teatro
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popolare e d'avanguardia al tempo stesso. Vladislav mi chiede se voglio scambiare
due parole con il direttore del teatro dove la compagnia amatoriale prova e rappresenta
i suoi spettacoli. Per parlare con più tranquillità ci spostiamo nella platea
vuota della sala teatrale lì accanto. Miomir Jelic, questo è il suo nome d'origine probabilmente
turca, non indossa la maglietta rossa d'ordinanza, ma jeans e scarpe
da tennis che contrastano con il viso scavato e la barba folta da icona bizantina.
Qualche volta firma lui stesso la regia degli spettacoli. Che genere di spettacoli?
Anche classici italiani come testi del Ruzante o la Mandragola di Machiavelli. O
contemporanei serbi: “Bora Stankovic è uno dei nostri autori preferiti, abbiamo in
repertorio e lo portiamo spesso in giro nei villaggi vicini il suo Nostaka, una riscrittura
della Carmen ambientata in Serbia, e Ivkova slava, il paradosso di una situazione
bloccata, di un festino che non finisce più, continua anche dopo la morte dei
protagonisti. Vorremmo farne un film, sempre amatoriale...” E a proposito di teatro
amatoriale, aggiunge che in Serbia e nei paesi dell'ex-Jugoslavia le compagnie
amatoriali (“considerate da Tito un fiore all'occhiello del regime comunista”) si trovano
ancora un po' ovunque, perfino nei villaggi più piccoli e sperduti.
Quando torniamo, anche la nostra festa continua, ma si è spostata al piano di
sotto, nella sala d'ingresso trasformata con sedie e tavolini in sala da ballo. Mentre
tutti sgambettano, anche il piccolino italiano del gruppo di Salvatore che oggi
durante le prove è caduto male fratturandosi quasi l'osso sacro, mentalmente vado
in dissolvenza sulle serate del festival “Aradeo e i teatri” al Castello Tre Masserie
quando attori e spettatori dopo gli spettacoli si ritrovavano a ballare la “pizzica”
salentina intorno alla grande palma del cortile interno. Una consuetudine che i
Koreja non hanno perso neanche spostandosi nella nuova sede dei Cantieri
Teatrali, una ex-fabbrica di mattoni alla periferia di Lecce. Per Franco Ungaro che
ha radici sessantottine, ed è uno dei fondatori “storici” del gruppo che quest'anno
ha festeggiato il suo ventennale, il teatro deve sempre tracimare nella vita, diventare
il catalizzatore di linguaggi ed esperienze diverse, impastare creazione artistica
e motivazioni sociali in una sorta di dimensione comunitaria. Sono convinzioni
profonde, sentimenti duraturi. Quando ne parla, lui che non parla tanto, ed è uno
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di quei meridionali anomali che non amano manifestare le loro emozioni, si accalora,
senti che non cambierebbe idea neanche sotto tortura.
“C’è un punto favoloso sul Danubio”
Con Dragoljub Martic ci siamo dati appuntamento la mattina seguente davanti
al Centro Culturale che, visto da fuori, è una bella costruzione moderna a due
piani di sapore nordico con una grande tettoia di lamiera spiovente poggiata
su solide travi di legno e una facciata di vetrate scure molto mossa in cima a una
larga scalinata incorniciata da aiuole ben curate. Potrebbe essere la sede di una
banca o di un elegante centro commerciale. Non immagineresti che dentro riesca
a contenere un teatro di 700 posti, una sala per concerti di 200 posti, un cinema
di 250 posti, più camerini, sale prove per la danza, aule per lezioni e incontri seminariali,
un atelier attrezzato per lavori di grafica, e una biblioteca con sala di studio
e lettura sotto i lucernari del tetto ricca di 220000 volumi. “Tra spettacoli, mostre,
corsi di lingue straniere (per ora tre: inglese, italiano e giapponese), proiezioni,
convegni siamo riusciti a ospitare una volta in un solo giorno 33 eventi “dice, con
orgoglio da Guinness, Dragoljub che ha il compito di curare il palinsesto generale
e affidarne la realizzazione a esperti dei vari settori. Nel Centro inaugurato venticinque
anni fa e costruito, dopo un referendum, con i soldi della stessa cittadinanza
lavorano una trentina d'impiegati comunali con punte di stipendio, nel caso di
Vladislav impegnato davvero a tempo pieno, di 200 euro mensili. Bastano a vivere?
No, ma mediamente è quello che la gente guadagna. Mentre parliamo girando
per il Centro si è unita a noi una bella signora bionda sorridente dagli zigomi alti
e dall'aria materna e molto energica che si muove per il Centro come se fosse a
casa sua. Si chiama Vera Horvatz ed era, prima di Martic, la direttrice. Attualmente
si occupa in particolare di un festival internazionale di poesia che si svolge intorno
alla metà di ottobre, l'Autunno dei Poeti. Ogni anno viene pubblicato un libro con
versi dei poeti invitati tradotti da lei stessa in serbo. “Tradurre - mi racconta - è
diventato durante il governo di Milosevic la mia fonte di sopravvivenza economica.
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Quando ho deciso di tagliare ogni ponte con un impiego statale e smettere d'insegnare
nelle scuole Storia dell'Arte...” In quel periodo Vera ha anche scritto un libro
sulle proprietà mediche delle piante e dei fiori, come gli antichi monaci erboristi:
“Vedevo davanti alle farmacie lunghe file di gente in attesa di poter prendere medicinali
che scarseggiavano o non c'erano per l'embargo, e così cominciai a leggere
e tradurre libri su libri di medicina alternativa. Alla fine sapevo tutto, così ne
scrissi uno anche io che ebbe molto successo…”.
L'Autunno dei Poeti non è l'unica rassegna internazionale del Centro; verso metà
settembre, Smederevo mette in mostra le opere della sua Colonia di Grafici.
Un'arte, una tecnica, aggiunge Dragoljub, molto praticata nei paesi dell'ex-
Jugoslavia e che, vent'anni fa, prima ancora che la voga si diffondesse anche negli
atelier e nelle gallerie di Belgrado, trovò nel Centro di Smederevo il suo punto di
riferimento e dei laboratori attrezzati per gli artisti che vogliono venire qui a lavorare:
“Quest'anno l'intera esposizione della Colonia verrà riproposta in una galleria
di Parigi”. Riguarda invece soltanto i paesi dell'ex-Jugoslavia che, almeno a teatro
continua a restare unita, un festival di drammaturgia della durata di dieci giorni che
si svolge nel mese di aprile: “Il primo premio quest'anno è andato a un testo di
Dusan Kovacevic, l'autore della sceneggiatura di Underground, attualmente ambasciatore
serbo a Lisbona, allestito con una compagnia di Sarajevo dall'attore e
regista Zijah Sokolovic”. La commedia, intitolata Dr. Suster, era ambientata durante
il governo di Milosevic e raccontava con nero umorismo da black comedy le
smanie e i traffici di un medico di Belgrado in pensione che sogna di costruirsi una
nuova vita e una nuova giovinezza andando a fare il ciabattino a Vienna.
Nel suo Viaggio d'inverno Peter Handke racconta di essere venuto a Smederevo
in cerca di “un punto favoloso sul Danubio” dove il grande fiume sembra scorrere
in “assoluto silenzio, senza il minimo suono”. E di averlo trovato quel posto, andando
a piedi, “là dietro la fortezza medioevale in parte fatta saltare in aria dagli occupanti
tedeschi durante la seconda guerra mondiale”. In realtà quello che restava
del Castello fatto costruire dal Despota Giorgio e l'ampia cinta di mura della fortezza
non furono quasi minimamente scalfite dall'esplosione del deposito di munizio-
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ni che i tedeschi avevano concentrato al suo interno. “Mentre -racconta Vera- quel
5 giugno del '41 l'onda d'urto dell'esplosione fece volare per aria i vagoni di un
treno fermo nella vicina stazione e crollare delle case sulla collina di Smederevo”.
Il ricordo le viene dai racconti del padre e della madre, lui d'origine ungherese, lei
ucraina, che dopo molte peregrinazioni, in quell'Europa alle soglie della Seconda
Guerra Mondiale, da Vienna si erano trasferiti a Smederevo: “Mio padre aveva trovato
lavoro come operaio nella fonderia di metalli pesanti, e come lui molti altri
venuti da vari paesi. Anche durante la recente guerra serbo-croata a Smederevo
sono arrivati e si sono stabiliti una gran parte degli esuli in fuga dai paesi dell'ex-
Jugoslavia: attualmente vivono qui stabilmente più di una ventina di etnie diverse,
senza problemi…”
C'è ancora tempo nella mattinata per fare una passeggiata, e la fortezza non è
distante dal Centro Culturale, una ventina di minuti a piedi, dice Vera che ha già
aperto l'ombrello pronta a muoversi. Tira un vento fastidioso e dal cielo grigio uniforme
cade una pioggerella leggera di quelle che altrove inviterebbero a rifugiarsi
nella malinconia, ma con la vulcanica Vera anche la parola “malinconia” sembra
cancellata dal vocabolario. E poi, come la nebbia, quella pioggia sottile sottile
rende il mondo più ovattato, prossimo alla soglia di silenzio magico descritta da
Handke. Per entrare nella fortezza si attraversano i binari della ferrovia dove sono
fermi in sosta davanti alla stazioncina i vagoni di un treno merci con la scritta USS
(United States Steel), la compagnia americana di Mr. Kelly che ha acquistato gli
impianti industriali. Non c'è la luce abba-gliante, non ci sono le ombre lunghe dei
quadri metafisici di De Chirico, ma in quel piccolo scalo di campagna deserto, in
quei vagoni merci fermi con la loro scritta misteriosa, in quell'intreccio di binari
vuoti sotto la cinta di mura medioevali, in quell'accavallarsi muto di epoche, “c'è
un mistero” commenta Vera, come Ebdomero, il visionario protagonista dell'unico
romanzo scritto da De Chirico. Un gruppo di oche guardiane, anche loro stranamente
silenziose, sculettando ci indirizza lungo un sentiero che taglia il vasto
spiazzo erboso dove un tempo dovevano essere le case e le stalle del villaggio, in
minima parte ricostruito per i turisti un po' alla maniera del villaggio di Asterix,
verso la reggia del Despota Giorgio. “Despota -mi spiega Vera- era un titolo nobi-
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liare d'origine greca, come Rex o Dux in latino: voleva dire sovrano, non aveva il
senso peggiorativo che oggi ha per noi”. E mi indica la scritta che si legge ancora,
intagliata nel muro della facciata sotto una croce e la data 1430: “Io Georg ho fatto
questo con l'aiuto di Dio…” Con l'aiuto di Dio e dell'enorme ricchezza accumulata
dopo la scoperta e lo sfruttamento di miniere d'argento nella regione del Kosovo:
“Leggeri o pesanti i metalli sono sempre stati la fortuna di Smederevo…” Una fortuna
durata poco perché appena due decenni dopo i turchi riuscirono a espugnare
la fortezza rimasta una degli ultimi baluardi alla loro avanzata prima di arrivare
a Belgrado. Silenziosa, quasi impalpabile la pioggerellina cade nell'acqua verdastra
che ancora riempie il fossato intorno al castello. Accanto al ponte levatoio c'è
il botteghino che vende il biglietto per la visita. Della reggia che doveva essere
sontuosa, a tre piani (“Anche il Papa è venuto qui una volta in visita da Roma”),
non è rimasto che il guscio vuoto delle mura, le scale per salire sugli spalti merlati
e la fuga di finestre ad arco della Sala delle Udienze. Uno spazio ideale, quasi
un teatro a cielo aperto per concerti e spettacoli estivi. Saliamo una stretta rampa
di gradini mozzafiato e finalmente vedo quel “punto favoloso” del Danubio di cui
parla Handke rimasto lì rapito, estatico a guardare scorrere l'enorme massa d'acqua
: “Per tutta l'ora lì sulla riva, non il più lieve sciacquio, gorgoglio, chioccolio,
nessun suono e nessun fiatare”. Dall'alto delle mura costruite come la fortezza di
Kalemagden alla confluenza del Danubio con un fiume minore m'incanto anche io
a guardare le chiatte nere che portano il carbone dalla Russia scivolare senza
rumore, come battelli fantasma, verso le tre ciminiere delle fabbriche e la grande
curva disegnata in lontananza sullo sfondo brumoso delle colline.
Quasi mi risveglia da quella visione ipnotica la voce di Vera che indicandomi sulla
destra, dall'altra parte, le cisterne delle raffinerie ricostruite con i soldi degli stessi
americani dopo i bombardamenti, mi dice con una punta d'ironia: “Ora appartengono
a Mr. Kelly, il nuovo despota, il nuovo benefattore di Smederevo. Ha sposato
una ragazza di qui e sta facendo molto per i bambini e per migliorare l'ambiente
dal punto di vista dell'inquinamento ecologico…”
Nel pomeriggio ho sorseggiato una tazza di caffè turco con Salvatore Tramacere
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e i ragazzi del suo laboratorio. Eravamo tutti seduti per terra su un tappeto lungo i
bordi di una stanza intonacata di bianco, arredata solo con un tavolo, nella casa di
Demir Kurtesi. Una delle prime entrando nel quartiere alle porte della città dove
vive la comunità rom, un po' simile alle borgate dei Ragazzi di vita pasoliniani nella
Roma degli anni '50.
Demir è un rom originario del Kosovo ma non è arrivato a Smederevo con i numerosi
profughi dell'ultima guerra. “Sono qui -dice- da trenta anni, allora c'era lavoro
anche nelle fabbriche...” E ora? Ora si arrangiano raccogliendo ovunque li trovano
in giro per la città, negli scarichi e nei depositi di spazzatura, o abbandonati per
strada, pezzi e carcasse di macchinari usati che poi rivendono ai commercianti di
ferrivecchi o alle stesse acciaierie. L'ultimo gradino del metallo prima di ricominciare
il suo ciclo. Quella montagnola di tubi, vecchi elettrodomestici, ingranaggi arrugginiti
accatastati su un lato davanti al portico di cemento sorretto da colonnine che
abbiamo visto entrando, pronti a essere pesati su una grande bilancia vicino alla
porta, sono il suo raccolto quotidiano, la sua ricchezza: “Mediamente in un anno
raccogliamo e rivendiamo 500 tonnellate di ferro”. Piuttosto piccolo di statura, la
fronte spaziosa, il viso incorniciato da una barba corta e leggermente incolta,
Demir ha l'aria dell'intellettuale autodidatta mite e giusto. Nella comunità che, dice,
è la più grande della Serbia dopo quella di Nis e di Belgrado, con circa 5000 rom
di 30 etnie diverse, è stato eletto leader del partito che ha fondato, il Partito
Democratico dei Rom di Smederevo, con 3000 voti di preferenza. Mi mostra con
orgoglio, come si mostra un attestato di laurea meritato, il foglio con il timbro dell'ufficio
governativo che riconosce al suo partito gli stessi diritti degli altri partiti
serbi. Accanto a lui c'è un ragazzo silenzioso, non ho capito se il figlio o il nipote,
fa parte del corpo di danze folcloristiche che con un orchestrina di fiati e tamburi
spesso si è esibita anche al Centro Culturale. Conservano del loro spettacolo delle
foto a colori e un manifesto in bianco e nero. Salvatore, con Dragoljub e Vera che
ci hanno accompagnato nella visita, è venuto anche per lanciare la proposta di un
possibile coinvolgimento della comunità nel laboratorio dell'anno prossimo. Tutto è
ancora da decidere, ma la proposta, comunque, è stata accettata con entusiasmo.
Prima di andare via Demir ci fa da guida per le strade e i viottoli di terra del villag-
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gio resi fangosi dalla pioggia che finalmente ha smesso di cadere. Da qualche
parte arriva un sottofondo intermittente di musica gitana, forse è la banda che sta
provando, o un grammofono aperto a tutto volume. Tra le pozzanghere avanza
una vecchia Cinquecento gialla circondata da stormi di pischelletti. Le case tutte a
un piano o, massimo, a due piani, spesso con i muri di mattoni rossi a vista senza
intonaco, sono diverse una dall'altra. Fatevele da voi. Magari riciclando, dipinto
d'azzurro e verde chiaro, con le ruote nascoste sottoterra, un gigantesco vagone
ferroviario per trasporti eccezionali trasformato in Circolo Ricreativo, al capolinea
vicino a un argine d'erba e pioppi. Non manca in una traversa della via principale
la solita Biancaneve disneyana appiccicata come una decalcomania sull'intera facciata
di una casupola che sembra quella dei Sette Nani. Una giovanissima
mamma in jeans cammina su e giù con il pupo in braccio cercando di farlo addormentare
sulla terrazza ancora senza parapetto di una casa non finita, tra sipari di
panni stesi come su un palcoscenico. Davanti alle finestre con tendine ricamate di
gusto più nordico c'è qualche accenno di giardino, vasetti di fiori sul davanzale,
rampicanti e delle bellissime rose. Per terra, vicino alla tenda dell'ingresso, scarpe
d'ogni fattura, dalla babbuccia orientale, allo zatterone, alle scarpe da tennis. Se
penso agli accampamenti di roulottes e agli insediamenti precari, spesso nei luoghi
più degradati, meno sani e abitabili, dove vivono gli zingari a Roma, questo
borghetto è un quartiere residenziale, un mo-dello d'integrazione civile. Dei ragazzi
appollaiati come vedette indiane o sentinelle di un fortino su un muro di mattoni
in costruzione ci indicano la direzione per arrivare al campo di calcio, un prato
verde ben curato, di dimensioni mi sembra quasi regolamentari, con tribunette di
cemento e panchine sul bordo per gli allenatori. Non lontano la scuola elementare
in funzione da qualche anno, anche - ci dice Demir - grazie ad aiuti economici
che vengono dall'estero, dall'Olanda e, sì, anche dall'Italia. Sulla tendina della
porta un volo di farfalle colorate simili a fiori e il cartello “Beli leptir, Parno leptir”…
Entriamo in una stanza tinteggiata di verde e di blu, evidentemente i loro colori preferiti,
dei colori marinari, mediterranei, con i disegni dei bambini appesi alle pareti
e due file di banchi quasi nuovi, in tutto una decina. È l'unica aula della più piccola
scuola di Smederevo. Ma se la scuola è piccola, le speranze di Demir sono
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grandi: “Imparando a leggere e scrivere, i nostri figli, volendo, potendo, saranno in
grado di proseguire gli studi e, magari, trovare un buon lavoro…”
Com’è grande il piccolo mondo di Smederevo
“A
s dear Salvatore said: 'After 20 days of work and exercise you are ready for
real work in theatre'…”, così - con questa frase di Salvatore che le si è stampata
nella mente, come se fosse scritta in stampatello, con questa promessa
che appena tre settimane prima le sembrava evidentemente impossibile, e che
ora, dopo la fine del saggio-spettacolo, andato in scena con successo la sera del
2 luglio nella sala teatrale del Centro, si è avverata - Alma Randic, la più giovane
del gruppo, una sedicenne di Mostar, ricorda l'inizio del laboratorio. Dei quindici
partecipanti allo stage, quattro italiani scelti prima della partenza dal Florian di
Pescara e da Koreja, e undici selezionati dal Centro di Smederevo fra le richieste
provenienti anche da altri paesi dell'ex-Jugoslavia, pochi, quasi nessuno aveva
avuto esperienze di palcoscenico. “Solo Fabio Tinella - dice Salvatore - un pugliese
di Fasano in provincia di Brindisi trapiantato a Roma, e attualmente arruolato
nelle file di Koreja, aveva fatto l'attore di strada come clown Bubbeo, giocoliere,
equilibrista su trampoli e suonatore autodidatta di organetto. Tutti gli altri avevano
avuto con il teatro rapporti saltuari, amatoriali…” L'incredulità di Alma non era poi
così infondata. “A darmi una mano come tutor degli allievi e assistente alla regia -
aggiunge - avevo portato dalla Puglia Annika...”
Basta vederla Annika Strohm, una graziosa biondina norvegese con l'aria del sergente
di ferro, arrivata chissà per quali vie in un paese del foggiano, Sannicandro,
dove lavora in una compagnia di teatro ragazzi, la Compagnia delle Formiche, per
capire che gli ha dato più di una mano per ottenere l'ordine e la disciplina necessaria
a far crescere il gruppo. A farlo diventare con il training di esercizi iniziale un
ensemble compatto, capace di relazionarsi e d'intendersi al volo, nonostante tante
lingue e provenienze diverse.
“Con i suoi esercizi, in particolare uno chiamato 'Maratona' dove tutti camminava-
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no sulla scena senza una precisa direzione, incontrandoci e incrociandoci, ho
imparato ad avere un partner sulla scena, a stabilire un rapporto…and to fill the
space…a sentire lo spazio..”, testimonia Alma. E Marko Stojanovic, protagonista
di una delle scene più riuscite e applaudite del saggio finale, quella del soldato
morto che torna con la sua valigia dal fronte ed è accompagnato nel suo funeralino
da figure che portano tutte sul volto le maschere di Milosevic: “Il workshop mi
ha dato la possibilità di scoprire le differenti parti della mia personalità… and also
help me find the way to connect with other in stage and universe.. e a trovare la
strada per comunicare con gli altri sulla scena e nel mondo...” “Ho avuto la conferma
del mio amore per la fatica, il passo aldilà della soglia della stanchezza -scrive
Fabio nelle sue note di diario- il training condotto da Annika e Salvatore mi ha
concesso una maggiore consapevolezza nell'atto di ascoltare, che è uno dei fondamenti
del teatro. Dall'ascolto di se stessi e degli altri nasce la verità scenica che
è qualcosa di sottile, ha a che fare con la leggerezza, e in questo si cela la difficoltà
dell'equilibrio…”
Ha fatto bene Salvatore a non cancellare dallo spettacolo quel training, quell'esercizio
di corpi che imparano a cercarsi nella folla solitaria. A usarlo quasi come un
Prologo, un modo degli attori per presentarsi al pubblico e tra loro: conoscersi e
farsi riconoscere. Li vediamo camminare ora lentamente, ora con un ritmo sempre
più accelerato, quasi correndo, disegnando percorsi circolari che ogni tanto s'incontrano,
si fissano nello scambio di un gesto d'intesa, di una muta parola d'ordine, di
un segnale di riconoscimento. Da quel carosello iniziale prende forma l'ensemble
schierato su due file di sedie ai bordi della scena vuota come una pagina bianca da
riempire. Avanti a chi tocca…
Il primo a lanciarsi, trasformando la sua sedia in un cavallo, e a galoppare al suono
di una marcetta felliniana (un leit-motiv ricorrente) sul palcoscenico come se fosse
la pista di un circo è il clown Bubbeo, Fabio che indossa una bianca casacca serba.
Un'improvvisazione tira l'altra: la sedia si trasforma in un podio da comizio e Fabio
con un cappello militare arringa la folla con il grammelot isterico e martellante del
Dittatore di Chaplin. “Ogni scena -dice Salvatore- è nata dalle loro proposte: io davo
un tema, mettiamo 'il mio paese' o 'il vestito della domenica', e loro lo sviluppava-
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no, lo riempivano con la loro immaginazione. Io poi li aiutavo a dargli una forma teatrale
fissando dei gesti, mettendo una musica, usando in maniera sempre diversa
gli stessi oggetti; ero un po' come una levatrice che assiste al parto teatrale…”
Una ragazza, Francesca Montanaro, dorme su un divanetto sotto un grappolo di
palloncini blu, le mille bolle blu dei suoi sogni adolescenziali, e arriva puntuale il
Principe Azzurro che dopo qualche passo di ballo le dichiara in ginocchio il suo
amore come un fidanzatino Peynet. Sempre sul filo del sogno, Martina Di Genova
cammina come una sonnambula sospesa a mezz'aria su due file di sedie parallele
che i suoi cavalieri le mettono via via sotto i piedi per attraversare l'intero palcoscenico.
È la scena, di tutto lo spettacolo, che Francesca preferisce. Perché?
“Perché riesce a esprimere la mia idea della levità e del volo…”
Le improvvisazioni corali, o di coppia, si alternano a prove singole: in primo piano
sullo sfondo di un gruppo di ragazze che accerchiano con i loro palloncini blu, in
una sorta di corteggiamento amoroso, un giovanotto evidentemente molto ambito,
Enrico Di Giambattista, il piccolino con gli occhiali spessi che si era fatto male
cadendo durante le prove, laureando in Scienze Politiche e appassionato della storia
della Repubblica Socialista Federativa della Jugoslavia, canticchia “Carissimo
Pinocchio...”, come un elogio della “diversità” del burattino; e accenna in un breve
commovente monologo che recita piegato, guardando in alto a collo torto, alle
pene di chi si sente escluso dalle attenzioni delle ragazze, dal mondo degli altri
bambini in carne e ossa.
Non c'è un filo narrativo preciso, ma il montaggio finale delle improvvisazioni crea
come una catena di libere associazioni. Così dopo il sogno di una gravidanza
mimata da Mateja Mayerle, una giovane croata di Opazia, con il solito palloncino
sotto la maglia, entra in scena e avanza in cerca del predestinato di turno la Morte
con la sua falce da Settimo Sigillo, interpretata da Marko che tornerà di lì a poco
nei panni del reduce, del fantasma del soldato morto. Ma non si lavora soltanto su
temi e proposte personali. Qualche volta a fornire lo spunto dell'improvvisazione
collettiva o di una prova attoriale sono le liriche d'amore del maggior poeta turco,
Nazim Hikmet, lette da Francesca, o un classico come il Sogno di una notte di
mezza estate di Shakespeare che conclude, capovolgendo la scena, con gli atto-
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ri in platea e il pubblico sul palcoscenico, la catena di reveries. Alma la ricorda
come un modo di leggere e rappresentare il testo “molto insolita e interessante”.
Per Fabio quell'apparire e sparire tra le poltrone della platea come tra gli alberi
della foresta di Oberon e Titania trasformata dalla pozione afrodisiaca di Puck
nella saletta di un cinema a luci rosse adatto alla promiscuità occasionali, ai rapidi
approcci e alle fughe nei gabinetti, quelle poche frasi-chiave ripetute nello scambio
della coppia come un ritornello ossessivo e ipnotico, lo hanno aiutato “a catturare,
con un atto più istintivo che intellettuale, le dinamiche dei desideri tra i personaggi
da rivivere in luoghi differenti”. E aggiunge, sempre nelle sue note di bordo:
“Il segreto, ora mi rendo conto, era nel 'to play' (una delle poche parole inglesi che
conosco)… nell'aprire il testo teatrale come un giocattolo e svelarne la sua traducibilità
in un'intima azione che da un lato rispetta l'opera, ne svela l'essenza intima,
dall'altro la libera dalla visione preconcetta e ormai logora che ne abbiamo”.
C'è un gran fracasso musicale, un'atmosfera da film di Kusturica, nel foyer del centro
dopo lo spettacolo. I suonatori dell'orchestrina dei rom gli danno dentro con i
loro tamburi e i loro strumenti a fiato. Sono venuti con Demir Kurtesi a vedere il
lavoro del laboratorio e a festeggiare con i ragazzi e gli spettatori la serata conclusiva
del festival. Ora che anche le tensioni del debutto si sono sciolte in un bagno
di adrenalina la fatica non si sente più, potrebbero ballare fino all'alba. Tutti in pista
con Salvatore, Annika, e i magnifici quindici, Martina, Enrico, Miljan Nenad, Alma,
Aldin, Mateja, Gojko, Francesca, Milenko, David, Fabio, Ajdin, Ivana e Marko. Mi
unisco al loro trenino che mi strappa dalle retrovie dei tavoli con Vladislav,
Dragoljub e Vera accompagnata dal marito, un uomo alto, imponente, con un viso
da attore, sembra uscito da un film di Bergman. Invece è uno scienziato, un fisico
del plasma, la frontiera più avanzata, mi hanno detto intuendo la mia profonda
ignoranza sull'argomento, della fisica nucleare che studia i passaggi, le mutazioni
della materia da uno stato gassoso a un altro stato intermedio. E per farmi capire
con un esempio semplice, come si fa con i bambini, qualcuno ha tirato fuori dalla
tasca l'accendino e mi ha messo la fiamma sotto il naso. Mentre saltello con gli altri
nella baraonda e nell'euforia generale rivedo quella fiamma, penso che anche se
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non si tratta di un esperimento di fisica del plasma, qualche mutazione il teatro l'ha
operata: anche qui è avvenuto il passaggio da uno stato all'altro, si è creato un
“plasma” umano, sociale.
Nella stanza prima di dormire ho finito di leggere le ultime pagine del Pinocchio
nero, il diario dell'esperienza teatrale di Marco Baliani con gli ex-ragazzi di strada
di Nairobi. Da quell'esperienza laboratoriale durata tre anni e ideata, promossa
dall'Amref con il Teatro delle Briciole di Parma nel quadro di un progetto di recupero
dalla deriva della droga di centinaia di bambini e ragazzi che vivono soli,
abbandonati, sniffando un micidiale effluvio di colla, nelle strade e nelle discariche
a cielo aperto della città, è nato un bellissimo spettacolo, la prima versione africana
del Pinocchio di Collodi che ha girato l'Italia con un enorme successo, e l'anno
prossimo verrà rappresentato anche in altri paesi dell'Europa. Per il giorno di chiusura
del laboratorio, racconta Marco nel suo diario, i ragazzi hanno organizzato
una festa nella casa-teatro del centro Amref a Dagoretti, una delle sconfinate
baraccopoli di Nairobi. Ognuno dei ragazzi partecipanti aveva il compito d'invitare
dieci amici. L'invito, il contagio teatrale ha funzionato, ha creato una nuova ragnatela
comunitaria. E Marco commenta ricordando una canzone di Lou Reed scritta
in occasione della morte di Andy Warhol: “Il vecchio rockettaro canta con quella
sua voce inconfondibile, piena di echi, il rapporto tra Andy e sua madre, emigrata
dalla Cecoslovacchia. La madre insegna al figlio a creare amicizie e relazioni: “The
way to make friends Andy is invite them up for tea, open house, open house...”
Così sono scivolato da una festa all'altra, da Nairobi a Smederevo, o in Puglia, nel
Castello Tre Masserie. Com'è grande, vasto il piccolo mondo di Smederevo. O
com'è piccolo il mondo…
La mattina partendo mi volto a guardare la facciata della palazzina del Lux Group,
e mi accorgo che su un lato, non lontano dalle finestre della stanza dove ho dormito,
c'è un palo della luce e che qualcosa si muove lassù in alto: una cicogna mi
saluta aprendo le ali e prendendo il volo dal suo nido…
56
Nico Garrone, giornalista, nato sotto il duplice segno dei Gemelli ama l'acqua, sia
calda che fredda.
Inizia a scrivere su “Tempo presente”, “Quindici” e “il Caffè” di Giambattista Vicari.
Collabora per due anni a “Paese Sera”. Critico teatrale di “Repubblica”, sin dai
numeri zero, nel 1976. Parallelamente lavora in televisione come programmistaregista
firmando, nella RAI diretta da Angelo Guglielmi, numerosi programmi culturali.
Dirige da cinque edizioni il festival “Estate a Radicondoli”.
57

PUGLIA REGION
Department of Mediterranean Area Politics, economic, social and cultural
cooperation with Mediterranean Regions, Cultural Activities, Peace
Responsible councillor
Silvia Godelli
Manager of the Mediterranean Area Section
Bernardo Notarangelo
Responsible of the Office for Cooperation with Mediterranean Countries
Piacentino Ciccarese
e-mail: p.ciccarese@interreg.puglia.it
Institution which realizes the Project
Cantieri Teatrali Koreja of Lecce
e-mail: info@teatrokoreja.com
Project Manager
Franco Ungaro
ABRUZZO REGION
Department of Regional Politicies for Cultural Heritage and Activities
Responsible Councillor
Elisabetta (Betti) Mura
Manager of the Culture, Printing and Show Politicies
Giuseppina Camilli
Responsible of the Culture Office
Gabriella Manni
AR.CO, Artistic Connections
For an adriatic network of performing arts
Main aim of AR.CO project, launched by Interreg IIIA Adriatic Crossborder
Programme is:
a) building a European cultural network in the adriatic area among public administrations,
cultural associations and Enterprises working for the promotion and prodution
of performing arts.
b) creating a common cultural artistic space through the exchange of experiences,
competences and innovative practices of theatrical and artistic job, reinforcing the
link between the world of vocational education and training and the labour market in
the sector of live show.
c) improving the quality of services about the promotion of artistic and cultural activties.
Puglia Region is lead partner with involment as partners of Abruzzo Region, City of
Smederevo (Serbia), Centar Za Kulturu of Smederevo (Serbia), Mostar Youth Theatre
(Bosnia), Cities of Nardò, Gallipoli and Novoli, Academy of Arts-Tirana (Albania), Drugo
More Association of Rijeka (Croatia), National Theatre of Opera and Ballet-Tirana
(Albania), National Theatre for Children-Tirana (Albania), Ministry of Culture
(Montenegro). This reportage is the result of research activities aimed to the knowledge
of cultural landscape and partners’ countries.
59

The new faces of Serbia
by Nico Garrone

I’m going to Belgrade and Smederevo
Idecided to go to Belgrade and Smederevo where the cultural centre that supports
the AR.CO project (promoted by Puglia Region) has its offices. Walking
down memory lane I recall that time, in the middle of the 80's at the Bitef festival,
with my friend Memè Perlini who was invited to stage his Risveglio di
Primavera. The festival was directed by Myra Trailovich and Jovan Cirilov. That
was still the golden age of the festival. The event was a unique opportunity to bridge
the gap between the East and the West: the Communist bloc, Europe and
America. The strategic position in which the Bitef festival was held allowed cultural
exchanges, making it possible for the event to become renowned for being on
the cutting edge of what was still unknown in Italy at that time. In fact, that year I
had the opportunity of meeting Peter Stein who put on a very interesting play by
Botho Strauss called The Trilogy of Goodbye, set in an art gallery. In the play the
actors have grotesque and absurd quarrels, remarks and doubts about the setting
up of an exhibition on Neo-realism. Another great discovery, completely unknown
to the Italian audience, was Heiner Muller who presented three of his plays.
I used to meet him every day in the lunch room of the Sava Hotel where I was staying
with some other journalists. The hotel was a skyscraper of glass and iron in
the centre of Belgrade not far from San Sava's Church. His wife Ghinka was with
him. She was younger than him, very tall and of a shadowy beauty. Daughter of
the Bulgarian Communist Party founder, she was expelled for supporting the
German left wing. Before leaving, I plucked up the courage to invite Heiner Muller
for an interview even though I was totally unaware of his work and of the East
Berlin theatrical scene. He did not mind and he was quite frank about his life between
Nazism and Stalinism and his difficult relations with the censorship: “I write
thinking that even the works kept secret will come out sooner or later”. The way he
talked about the contradiction and the conflicts of the History he went through was
caustic and straightforward, detached and deeply involved at the same time. Like
another Bertold Brecht, I thought. That interview I wrote for the newspaper
“Repubblica” was the first interview given by Heiner Muller and published in Italy.
63

The second time I went to Belgrade was in May 1998, to take a flight back to Rome
after a few days spent in Podgorica with Gianfranco Capitta, Enrico Fiore and Igina
Di Napoli. At the local International Festival of Alternative Theatre ( FIAT in Cyrillic
and Latin characters) directed by Slobodan Milatovic, Igina Di Napoli presented a
play by Pippo Del Bono called Il tempo degli assassini and another play by Pepe
Robledo called Barboni, both produced by the 'Nuovo Teatro Nuovo' of Naples.
The airport of the capital of Montenegro, where we landed, was like a small railway
station in the countryside. The luggage was taken on a farm tractor and placed
on a shabby conveyor belt. Looking out of the window we could see the cows
grazing but suddenly our attention was caught by a formation of military helicopters,
quite a different view from the bucolic one seen before. The helicopters were
parked on a meadow close to the airstrip used only for civilian flights. No more than
two or three flights per day. As some people said with black humour, showing us
the National Theatre, newly reopened and completely rebuilt, “Eight years ago a
fire broke out and destroyed it, not the bombs”.
The grasshopper-like helicopters were not the only threatening sign of a situation
that calls to mind Mario Martone's film Teatri di Guerra in which a group of actors
rehearse the Sette contro Tebe play, to be performed in Sarajevo as an inducement
to civilian resistance against the cruelty of war, meanwhile, around the
'Nuovo Teatro Nuovo' in the 'Quartieri Spagnoli' district of Naples, where the actors
are playing, the criminal riots of the Camorra break out. When night fell and the stifling
air became cooler, the creaking of the tanks mingled with the noise of the few
cars on the dusty roads of Podgorica. The streets were illuminated by the lights of
bars and fried-food shops with a lot of young people sitting outside. In spite of the
poverty and the danger, there was a feeling of general pleasure and excitement
that turned into silence and an outward calm after a few hours spent in Belgrade
for a flying visit to the Kalemagden stronghold and to Cirilov. He was now alone in
charge of the Bitef Festival since Myra passed away. A sense of anguish was
barely perceivable. On the contrary, this sense of anguish was extremely evident
in the sumptuous airport of a big city, completely different from that little, ghastly
airport in Pogdorica with no passengers ever in transit. A picture of a sorrowful
64
sight of Belgrade's isolation from ex-Yugoslavia and the rest of the world.
A sort of civil embargo that is still not totally over, not even after the fall of
Milosevic and the ending of the war. I realize that, when I look for a guidebook of
Serbia or Belgrade just before my journey, finding out that no guides are available;
neither at Feltrinelli nor other specialist bookshops. After the dismemberment
of ex-Yugoslavia, new guidebooks of Slovenia, Bosnia, Croatia and Montenegro
have been published, whereas, even though Belgrade remains one of the biggest
cities in Europe, there is nothing about it and Serbia, except for a street map and
some traces left in works published by writers and travellers. Works like La linea
dei mirtilli (The Blueberry Line) and the recently published E' Oriente by Paolo
Rumiz, collections of reportages recommended to me by Franco Ungaro; Peter
Handke's On a Dark Night I Left my Silent House and A Winter Journey to the
Danube, Sava, Morava and Drina Rivers, or Justice for Serbia published in 1996,
which sparked off a storm of controversy for being pro-Serbian, and recommended
to me by Sandra Petrignani, authoress of the La Scrittrice Abita Qui for Neri Pozza
publisher. In the light of what Handke writes, it is possible to understand why this
book is no longer displayed in the book shops (it has to be ordered) and why the
other one has completely disappeared from the catalogues. On the other hand, it
is easy to find the recently published Casablanca Serba. Racconti da Belgrado
(2003) which I am going to take with me during the journey. In spite of the books
my suitcase will not be heavy. Before leaving I have another problem to solve: I do
not speak Serbian nor English, which is the only foreign language spoken in
Belgrade. With the help of my friend, Emanuela Villagrossi, an actress of the Motus
company, I get in touch with two actors from Belgrade, Damir and Vlada, who acted
with the Motus in Genet's Splendid's and now live in Italy.
I meet Damir in Milan, where he now lives with his wife, a model, in a wine bar not
far from the 'Piccolo Teatro' of Milan. I tell him what I need: not only an interpreter,
but a travelling companion too, a young actor who goes back to the places of his
country and meets the people he used to work with in the theatre. He is interested
in the offer, but he is free only until the end of April because he has to rehearse for
65

a play. Once the date of departure is fixed, Vlada calls me from Paris to tell me that
he will be available from the middle of May. He is excited by the idea of going
back to Belgrade. He talked to Damir and he thought that it would be nice to visit
Novi Sad where they both attended the drama school. In the meantime we can
meet in Rome as he will attend a course run by Emma Dante at the Palladium. I
happen to see Vlada the day of his arrival in a theatre in Trastevere where a review
of the new English theatre, supervised by Rodolfo Di Giammarco, is taking place.
“Vlada knows everyone and everything, everywhere”, Emanuela told me.
It looks like he has an internal compass that guides him everywhere. With his
almost shy, pleasant manner, a bit rustic but still elegant, Vlada never feels like a
fish out of water. At the age of 27, after having met the Motus, three years ago, by
chance, in a club in Bologna, Vlada left Belgrade travelling all over Europe. He
lived in Berlin, Bruxelles and Paris, following friends, loves and artistic interests.
A nomadic attitude, a cosmopolitism, an open-mindedness and a voracious appetite
for knowledge that are distinguishing characteristics of many people I will meet
in Belgrade (as well as in Smederevo, where I am going to go back later). People
who have lived in a place ideally situated at the crossroads between the Balkans
and Europe, maintain traditions and are able to put down roots anywhere in spite
of the current isolation and the absence from geopolitical maps. Once the course
run by Ms Dante, who gave Vlada a part in her play in Autumn, was over, I said
goodbye to him and we promised to keep in touch for our trip…
P.S. Vlada is like a chameleon. His nomadic attitude and his ability to fit into any
situation reminds me of Zelig and of that Belgrade described in stories collected
together in the anthology edited by Nicole Janigro. She describes Belgrade as a
“patchwork city” in which the last fifteen years of magnificence and poverty of
Communism before and Nationalism after are mingled. A city that “after its constant
metamorphoses, recalls several urban cities: from the Chicago of the '20s
and the Berlin of the '30s, to the Casablanca of spying intrigues of the '40s and the
hedonist and cataclysmic Saigon of the '60s…”.
66
Journey to Belgrade
On May 17th we start our journey from Mestre, by car; I made a calculation: to
Belgrade it's about 700 kilometres. I meet Vlada at Mestre train station. He is
coming from Milan. I arrive the night before from Rome and spend the night
in a small hotel with a high-sounding name: “Hotel Giustizia”, Justice Hotel, located
in Via Miranese, at the city entrance. In order to cross the border between Italy
and Slovenia we have to pass through Gorizia, the small Berlin. A city split into two
different identities where in the spring of 1999 - tells Rumiz in his E' Oriente- figures
of people materialized in the shadow of the city as they were funnelling through
the bottle neck of a gateway. They were Persians, Kurdish, and Iraqi people who
left scraps of their lives as they passed through the wire-netting of the fence.
“Within 20 meters I find a lock of hair, a little girl shoe size 5, a shirt tail, soaked
woollen socks in the yellow leaves, a toy soldier…a kilometre away, at the small
rural Rafut border, there is even a tree used as a changing room. A strong walnut
tree with its roots covered with clothes. It recalls Pinocchio, his night of escape and
the tricks that life plays on us..”.
When we pass through the city the midday sun is shining and those figures of people
with their stories have melted away. The beautiful landscape makes us want to
get off the car and take one of those little streets that go up on the hills where there
are woods and vineyards. Like in Friuli and on the Italian Langhe hills there are lots
of signs with “vinska cesta”(wine road) written on them. Vlada tells me that the
Belgrade inhabitants used to go there on holiday. Around three o'clock in the afternoon,
after having driven through green tablelands with villages and little Tyrolean
houses surrounded by mountains, we decide to take a rest. We stop at a refreshment
bar with tables outside and a great menu, not far from the Croatian border. We were
spoilt for choice with the menu but we also had difficulties in ordering something
because the waiter, a man with a strange goatee, seemed very busy even tough
there were only two more tables to serve. He comes to our table and rushes away
(without even looking at us) with a haughty look on his face. It looks like he does not
67

have time and he is annoyed by us. After all his escaping attempts I finally manage
to order something by pointing at the menu (not even Vlada was able to understand
it, not in Serbian nor in English). I get a huge mushroom omelette, delicious…
We start our journey again, the motorway is fast, there is a smooth-flowing traffic,
few series of lorries that go from Europe to Istanbul and many annoying motorway
tolls to pay. We see Ljubljana and Zagreb from afar but there are no signs for
Belgrade and we need to look on the map otherwise we might get lost. There is a
flat and dull countryside divided into lots and we often have to slow down because
of the work in progress; it is like being on the Italian Salerno-Reggio motorway,
but here, at least, there is someone who works.
As we go past the road sign to Vukovar, which Vlada reads grimacing with pain,
we see the Serbian border with its roadblocks surrounded by swarm of mosquitoes.
The radio news broadcast is talking about the Aja trial. On the agenda, translates
Vlada: Mladic and the Srebrenica massacre. In Italy nobody talks about the Aja
trial anymore, even if it is still going on.
Vlada makes a short phone call to his mother who lives in Novi Sad and then calls
one of his friends. He is an actor and he is going to a party sponsored by a cosmetic
company in a hotel of Belgrade-Vlada tells me laughing-to be awarded for his
“look”, his peculiar way of dressing. Vlada has another friend who also works in the
fashion business and who is going to have Vlada as a guest during these days; he
is thirty years old and he is in charge of an important female model agency, he
organizes fashion shows together with musical and theatrical events. I ask Vlada
how come that so many of his friends and people of the same age as him are so
interested in the fashion biz; in fact, nowadays for us, in Italy, it does not represent
something unconventional as it was in the past few decades. “Perhaps here- he
says- as in the Eastern countries, people, bored by the greyish fashion style of the
Communist era, see fashion as the fascinating forbidden fruit of the West. It is
somehow a change of scenery..”.
This reminds me of another “soft” revolution. That of Giuseppe Bartolucci's “New
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Spectacularity” and “Post avant-garde”, when at the beginning of the '80s, after the
fall of the ideological walls and of the avant-garde dogmas, new generations of
researchers such as Mario Martone's “Falso Movimento” or Barberio Corsetti's
“Gaia scienza” in the wake of Andy Warhol and the Pop art, followed the Rock-
Fashion-Sport triad. It also reminds me of Sandro Lombardi, filmed by Fassbinder
at the Munich Festival, constantly repeating the slogan “catch the wave” in the
Magazzini Criminali's play Crollo Nervoso (Nervous Breakdown).
The first thing we notice when we get to the “white city” (Belgrade, Belo Grado -
says Vlada- also means “the city located at the furthest west” of Bulgaria, it is “the
gate” of the Balkans, and “the door” to Central Europe) are the hives of the
Socialist period together with the more recent glass boxes that during the night, in
the Novi Grad district, before crossing the big bridge of the Sava river towards the
city centre, draw a sort of New York skyline.
On the way to Republic square there are the ruins of two police buildings bombedout
by the NATO. A little bit further Vlada shows me the street were the Prime
Minister Djindjic was killed by the Mafia, just next to the premise of his party. It is
like travelling through History. There it is: The House of Parliament. Vlada was
twenty years old when was here with Damir to celebrate Milosevic's fall: “We went
into the House. Stairs, rooms and corridors were desert. Anyone could take whatever
they wanted. There were people burning the furniture. We took some books
and waved them has trophies from a window of the first floor. From up there, that
huge crowd in the square was shocking...”.
We have dinner at the Serbian Tavern. It is close to the 212, the theatre founded
by Myra Trailovic where there is now a play on stage: a King Lear performed by
the most popular and elder Serbian show-stealer. Before leaving Italy, Vlada has
made a list of the plays to see and this is one of them. He shows it to me as he
tells me about the time spent here after the shows drinking with his friends. In
those days the Serbian Tavern used to be a fashionable place in the show biz.
There are old bottles of slivovitz set into niches as relics and the pieces of fruit insi-
69

de have turned into ugly shapes. Those dark red bottles decorate the wall together
with autographs and pictures of actresses in the kitchen making “hangover blast
soups” for new-year's eve dinner as tradition requires. A closer look at the pictures,
the actresses' hairstyles and dresses, make me realize that they belonged to
the past. I try to imagine when was the last time they cooked those “hangover blast
soups” and if the tradition had been interrupted by the war. In fact, that rows of bottles
with their strange bulbs looking like embryos evoked all but parties or a wine
bar; they evoked hospitals and gloomy places…
It is drizzling when we arrive at the Tas Hotel entrance. There is a long shelter in
American style but there are not any braided porters, there is an empty lobby with
neon lights that turn on like a photoelectric cell as we go in front of the lift.
“There is an international bankers conference and they have booked all the best
hotels, even the cheaper once” says Vlada while we go up to the fourth floor. There
is one last room and the receptionist tells me that I have been very lucky because
she was going to give it to a member of a Karate team who was there for some
championship. I am so exhausted by the journey that I feel extremely lucky to have
found a bed…
Seatting at Kgb’s tables
The first day in Belgrade starts very early, with a research for something to eat
for breakfast since they don't serve it in the hotel. The receptionist waving her
hand signals to me to go down. I go down the first flight of navy blue stairs and
I see the lights of a restaurant or maybe a bar but there is not a bar tender and
there are no people around the tables covered with baize. I go in a bigger room;
there are only about ten people, men and women, who are having lunch or probably
dinner. They do not look like they just woke up to have breakfast. We look at
each other in silence with surprised faces. I step back thinking that I am probably
drowsing. I shut my eyes and I read CASINO, OPENED UNTILL 6 O'CLOCK, writ-
70
ten on the door. I go down to the next floor and I see myself reflected on the closed
glass door of the Body Café where there is a sauna, a gym and a swimming
pool. On the next floor down there are some women with brooms and buckets
going out of an office and downstairs in the meantime there are employees of Kon-
Tiki travel agency starting their working day after having had breakfast at the Café
next door. A place without neon sign, with tables outside, an unfinished entrance
and a lobby that brings to a beautiful swimming pool. Welcome-I say to myself- to
the post-communist labyrinthine microcosm of Tas Hotel…
We decide to leave our car there, it is difficult to find a parking space in the city centre.
We take a taxi-they are very cheap-to go to KGB another meeting place for
people of the show biz just off 212 and the Serbian Tavern. Vlada has to meet
Goran at the KGB, the “dandy” awarded the night before. Meanwhile in Republic
Square there are people wearing hospital gowns parading quietly with banners and
some whistles. “Democracia… mutters the taxi driver. A lot of water has gone
under the bridge since that night of December 1996- as Paolo Rumiz tells in his La
linea dei mirtilli - when in Knez Mihailova the sound of small trumpets, bells, cans
used as drums and “Belgrade's whistles” accompanied the extempore speech of
the opposition leader Zoran Djindjic standing on a windowsill. The next Prime
Minister after Milosevic's fall. “After the assassination of Djindjic by the mafia linked
to politicians and now that many sinister politicians of the old regime are taking
back the power, hope for Democracy has been destroyed”, says Vlada.
The cares of life seem far away while sitting outside, around the tables of KGB with
the pleasant weather of spring in front of a huge cherry tree planted at the time
when The Cherries Garden by Chekhov was written. The sky looks free of frontiers,
without boundaries between Europe and the world. KGB looks like a French cave
in a basement. There is some Caribbean music coming out the club and next to us
are some people drinking long drinks and cappuccinos, most of them are girls wearing
punk dresses with punk hair styles, punk crests and red and green died hair.
They are- says Vlada who knows a couple of them- set designers and students
from the Fine Art School and are taking a course in light designing with an
71

American teacher who is Bob Wilson's friend and collaborator.
In a cloth bag I see a plant painted with a rich mixture of colours and changes of
coloured light used for the set of Jesus Christ Superstar. “Here-says Vlada pointing
at the plant- there are no theatres able to host those kind of shows. Probably they
are thinking to work in some other places …”.
We see Goran coming from the end of the street, but before he joins us takes a little
dog from the table of three girls and, driven by narcissism, starts making pictures,
using his digital camera, of himself with the dog that does not show disapproval.
Goran Jevtic was born in 1978 as well as Vlada. They both come from Mladanovac
a village in the countryside and belong to the last generation under 30 touched by
the war trauma. With his short tail, his sunglasses, that cabled jumper and his high
hilled boots he would fit into any metropolis, from New York to London or Berlin. In
fact, he loves Barcelona and his favourite director is Almodovar, this is the city where
he would like to live.
He tells me that he started acting since he was a child when he was chosen to play
in one of the mini series of Quo Vadis?” shot around there. Then he attended an
amateur theatre training class in his village and never stopped acting. You can tell
by the way he moves and even by his previous extemporization that he has a natural
talent, an exhibitionism sharpened by his unique sensibility. In this days I will have
the opportunity to see him performing in two well-oiled play: Shopping & fucking, a
play for adults by Mark Ravenhill staged by a woman of the same age as Goran, Iva
Milosevic, and a revised version of The Beauty and the Beast, a matinée for children.
In the spare time, Goran rehearses a new script, written by Vladan Radenon a
Serbian author who has been living in Paris for thirty years, in which the main character
is a thirty year-old Vietnamese man who was adopted and transplanted in
France. He suffers from epilepsy and rejects the idea of his uprooting. The play's title
is Seleni Svitac (Frozen firefly) and it will be preformed at the Madlenianum, the first
important private theatrical centre of Belgrade, for its official opening. In order to
summarize the stages of his artistic growth Goran does not talk about his work experience,
he uses a metaphor: “think of a tear in a oyster in the deep blue see that slowly
turns into a pearl…”.
72
In Iva Milosevic's scenery the submarine world of The Little Mermaid by
H.C.Andersen looks like Oberon and Titania's palace of A Midsummer Night's Dream
put into a cartoon aquarium with puffers, Greek statues and also languid jellyfishes
that move to the beat of the music. “The Little Mermaid is in fact a rock 'n' roll adventure,
like Grease..” says Iva. A small orchestra (4 players) accompanies the performance
of the love story between Annabel and Prince Edgar. He is initially seen as
an introverted, melancholic teenager who hates the etiquettes of his aristocratic family
and is later performed as an extroverted boy, who playing his electric guitar and
dancing like Elvis, brings total chaos, to both the submarine and his parents world,
together with his beloved Little Mermaid. It is a cheerful, relieving revolution…
Mala Sirena is the first play I see in Belgrade. It is performed at the Dusko Radovic,
a theatre with 400 seats and a spacious stage located between the ruins of the
bombed buildings, next to a park close to my hotel and to the new television broadcasting
building. The night of the debut the foyer is completely full. In a few minutes
Vlada introduces me to actors, actresses, young directors, art directors from
other theatres, set designers and costume designers. As in an embassy lunch I do
not even have the time to take notes of their names or talk to them but I do memorize
the number of cameras and interviewers; about seven or eight filming around
the room. In Rome not even for the Argentina premiere there are so many people
and cameras, and the theatre for children is ignored even by the insiders. Here
there are no barriers, there is more exchange of roles and experiences. In Italy it is
very difficult for someone who started his/her carrier in the theatre for children to
make the big leap forward the adult theatre or to perform for both of them. Only few
people such as Marco Baliani, Vacis and Ms Curino succeeded in this attempt.
Another huge difference between the Italian and Serbian theatre for children is the
“colossal” stage design which includes more then simply two, three or four actors…
73

Conversation with the Lost Generation
T
he day after, Iva tells me about her passion for the theatre: “in 1990 you could
feel the war was going to start, there was a very strong nationalist propaganda.
I was thirteen years old -I was born in Belgrade in 1977- and I used to go
and see an amateur group of actors, called the Dadov theatre, rehearsing. There I
found a relaxed atmosphere and values that were completely different from the
rules imposed by the regime. I fell in love with the theatre because it represented a
means of escape, an existential alternative and a kind of political opposition..”. She
is a short girl with a pretty face and a strong personality wearing jeans and a black
leather jacket as any other student. As she speaks she smokes a cigarette after
another and that is the only sign of her interior tension. She successfully finished
her studies as a director at the Belgrade Academy which here is fundamental if you
want to be part of the theatre people. Iva got her diploma for directing Mark
Ravenhill's Shopping & Fucking (“I waited two years to get the teachers permission
and to get my diploma, but I really wanted to direct that play..”). She has directed
many plays and now teaches in Belgrade as Mirjiana Karanovic's assistant-her
favourite actress and main character of many Kusturica's movies-in an acting workshop.
She also teaches direction at the Novi Sad Academy. She has a preference
for the present-day English authors, Mark Ravenhill and Sarah Kane of course, but
she also likes German dramaturgy: “After Shopping & Fucking I directed Wolfang
Bauer's Magic Afternoon, a play about young idle talk about 1968 cultural reaction.
I also put on stage Von Horwath's Kasimir and Karoline and The Awakening of
Spring by Wedekind. I am interested in periods of social crises and therefore in
scripts that show the birth and the growth of the Evil or of social pathologies..”.
She does not think of herself as a revolutionary director: “Up to now I did not
design revolutionary sets, I consider myself a traditional director, I work on the
actors, I like the text to be appreciated for its real value and meaning without giving
up the attempt of renewing the theatre mechanism although there are rules to be
followed..”-but she also adds-“I would like to blend the language of theatre with the
language of visual arts, especially with that of Handy Warhol and Pop Art, rock
74
music, modern dance or with the media language…in fact, as you might have noticed
The Little Mermaid is halfway through a cartoon and a musical, it is a rock operetta.
In the scenes of Shopping & Fucking- that has now had a run of two years
in normal theatres-there are also many fashion parades. The actors come on stage
as they are modelling for a trash fashion show..”. I ask her the same question a
asked Goran : where would she live if she did not live in Belgrade. “Berlin.-she
immediately answers- It is the Paris of the year 2000. It is-like the Belgrade of the
past-the bridge between the East and the West, it experienced the same historical
traumas as our city…”. Talking about traumas, what do you think about your generation?
The thirty year-old generation who grown up with the war and Milosevic's
regime. Is it a Lost Generation? “For many of us was not like that. I remember a
very popular leitmotiv in those years: we do not have anymore ideas in mind and
we all feel ashamed for this…It was a terrible period for those who wanted to start
planning their future. Immediately after the liberation of the country and the end of
the war we all were in a state of euphoria, like you I guess in 1945”.- What about
now?- “Now there is depression, disenchantment and hard feelings towards the
European countries, we feel abandoned. But we are not a Lost Generation...”.
Cerak district is in the outskirts of Belgrade. Along the road to get there there are
the Filmski Grad film studios, that is to say the Serbian Cinecittà, and Ada island,
with its nudist camps, where in the summer you can take a swim in the Danube or
dance in the several discos. Ada island is a green area with many trees, houses,
some socialist big buildings of the 60s, tennis courts and other sports facilities. It
is inhabited by university professors, state officials, people in the armed forces with
children and grandchildren: “it looks like a quiet area, but during the war and after
Milosevic's fall this area was affected by many tragedies, particularly among the
young people of my generation” says Marko Zizic, a young actor and cinema director
I had met in Rome before leaving. From time to time he comes back to Cerak,
the district of his adolescence, to visit his mother who teaches in a school for children
with mental disorders. Like Vlada, Goran and Iva he also belongs to the
under-30 generation and he also has a story to tell: “I was born in Belgrade in 1978
75

and I left it in 1992, when my father realised that things were getting worse and
worse around here and so decided to send me and my brother to England and
study in Brighton. He is an architect and the nephew of Zoran Zizic, the first
President of Serbia Montenegro after Milosevic. My brother is still in England
where he works as an estate agent. I decided to move to Italy to study cinema in
Siena, Florence and at the DAMS in Bologna”. My brother has been living in Rome
for a couple of years, staying in different places and doing almost everything he
was offered to do in order to make both ends meet and get the money that allowed
him to hire Italian actors. (“among them there is also Elisabetta Rocchetti, the leading
actress in the Imbalsamatore by Matteo Garrone”) and to produce the 30minute
short film that he is currently cutting with the moviola of a friend of his who
lives in the Castelli district in Rome. “I have been commuting for months. When he
was available and I had a new sequence to add we met, at any time, even at night”.
The short, whose title is Slavshine (Sunset) tells a story that is halfway through
reality and imagination, as in a comical drowse. The main character is a young
man (Federico Rosati) who decides to swim to Italy with an umbrella to protect
himself against the sun and a bladder as a life belt” during the first bombings in
1999. Once in Italy, in Rome, he realises he had not land on the Promised Land,
however the news he gets from Belgrade were even worse than his pseudo-promised
land. On the phone he is told the true story of his friends that lived in his
district in Belgrade: “ Every year when I came back on holiday to visit my parents
there was always someone missing: Misha, who is mentioned in the film, was my
brother's best friend. One day he went to the park and killed himself jumping on a
bomb. Goran, one of my schoolmates, very good at maths, went to live in Novi
Beograd when he was 16. Three years ago he threw himself out of the window of
the building where he was staying with his girlfriend. Petar was very handsome
and played in a band, he also worked as a model, but like many people I know he
has become a heroin addict. In Belgrade, after the bombings, the only cheap thing
you could find were drugs..”. The list of the Lost Generation could go on. But like
Iva he is not entirely pessimistic: “the people who made it through are stronger.
Here in Belgrade, in the last few years I have noticed that people are less confu-
76
sed and more willing to do than anywhere else”.
Premil Petrovic does not agree with the idea of generational trauma. He has been
living in Berlin for years and has recently graduated as a conductor. We sit in a desert
restaurant and talk drinking a beer. The ceiling of the restaurant is really awful: it is
made of photographer studio umbrellas hanging upside down. We are waiting to
meet another of Vlada's friends at the Yugoslavian Drama Centre, the
Jugoslavensko Dramsko Pozoriste. Premil is a bit older than Vlada and he doesn't
consider himself as an exile obliged to go round the world: “when I was 10 I already
knew I would become a conductor and study in Berlin”. Indeed he tried to enrol when
he was 18 but he was not accepted because he was too young. After 4 years- in
1997- he graduated in Music History and Theory and he left to Berlin: “there was the
war and the runaway inflation, two more reasons to leave but I would have left anyway.
I do not consider myself as a rootless person obliged to leave my country by
the events. The stateless condition really suits me”. He tells me about a novel,
Apatride (With no country of his own), by Danilo Kis, his favourite writer. The main
character Egon Von Nemeth is inspired by the writer Odon von Horvath, the author
of Kasimir and Karolina. Egon rejects the theories on the racial and social origins that
caused any kind of fascist hyper-nationalism (either at the time of von Nemeth-von
Horvath during the Nazism or today in the ex-great Serbia) and he says: “I'm a
German writer but the world is my country”.
The threatening shouts of a drunk man breaks in the conversation. The man stays
at the entrance and keeps on shouting for a while then leaves staggering among the
tables. “What did he say?” I ask. “Something against gays. In Serbia homophobia, is
as present as nationalism. And now it is even more insidious and aggressive. The
same story of hatred towards what or who is different: in Germany in 1968 there was
still someone who proposed gas chambers for the hippies”- he answeres.
“Let's talk about music, about your job”- I say- “My future is with no doubts in
Germany, hopefully with a band of my own even though here in Belgrade I work
with a string quartet, the St. George, and I have had more than one opportunity to
77

conduct an orchestra”- he says. He conducted the debut of a chamber opera by
Anja Djordjevic Narcissus and Echo at the Bitef theatre with three singers plus the
composer herself playing Echo (she resembled an elf very similar to Bjork). “The
score was a cocktail of different music genres that had been put together like perverse
attractions: neoclassical and neo-baroque, jazz and minimalism”- he continues.
“There were also some ethnic and gipsy music. Something like Bregovic” - I
say. He immediately replies: “no, no, you must be joking, that is fascist music” as
if I had put the knife in the typical wound.
Even Huddersfield (that we saw at the J.P.D. on Beogradaska road) twists the
knife in the wound of the thirty-year-old generation. The play was written by Uglesa
Sejtinac and staged by an English director, Aleks Chealshom. It is set in the aftermath
of Milosevic's regime, when the first attempts of openings towards the West
were being made, in the small industrial Yorkshire town of Zrenjamin, recently
twinned with Huddersfield. “That twinning symbolically represents the desire to
reach something of a turning point and an economic recovery. Before the 90s crisis
occurred, there were many factories in Zrenjamin. However, they had to close
down during the war” says Vlada, who was born there like the script's author,
whom he had known since he was at school. Rasa (played by Goran Susljik) is the
main character. He is a brilliant student but he can't find or doesn't want to find a
job. He usually spends his days at home feeding his doubts and uneasiness about
the state of things in a one-bedroom flat that looks like a place where thieves have
just broken into: very few pieces of furniture and marks left by disappeared paintings
and furniture on the walls. His father (Josif Tatic), “an alcoholic”, sold them
and now is trying to take the door away since nothing else is left. Sometimes
Rasa's girlfriend (Tijana Mladenovic) comes to see him. She is twenty, she wears
a miniskirt and she carries some film strips of her parents making love in her bags.
She found them in a drawer. One of Rasa's friends, Ivan, (Nebojsa Glogovac) also
comes on the scene. He has spent ten years in a nursing home for mental disorders
(more or less during the Milosevic's regime and the war). Ivan is considered
as the village idiot and he is shunned by everybody except from Ivan. Conversely,
78
Igor and Dule belong to that thirty-year-old generation who has been able to go
through the war without traumas: one of them remained in Zrenjamin, trying to
manage with some sort of trafficking which he is still involved in; the other one left
for Huddersfield where he found a permanent job and now looks satisfied and successful.
In the first act, Rasa's uneasiness is half hidden beneath the comedy, but
in the second part it violently bursts out. It looks like a collective slaughter, a furious
row ended off by Ivan's arrival with his sculpture, a woman's head with a wide open
mouth in the act of shouting, resembling an African idol. The audience remained
silent for a moment before bursting into applause. I looked around and saw many
eyes red with tears. Laughter and tears as in a typical Neapolitan comedy. What
stroke me most apart from the actor's performances and their natural way of acting
was their ability to establish a rapport with the audience, with people's thoughts
and emotions and the quality of the script that reminds me of the theatre of the
English “angry young men” of the 50s that is now settling in Serbia. The twinning
with Huddersfield, this small British town that is only mentioned in the play, represents
an ideal twinning with a certain kind of acting and social realism. Indeed,
here in Belgrade you can breath the same atmosphere you could breath in the
England of John Osborne and Look back in Anger against the background of the
English colonialism.
Vlada usually comes back home in the wee small hours and for this reason he
makes his appointments late in the morning. He comes to pick me up at midday to
go and meet Borka Pavicevic in her office at the Cultural Decontamination Centre,
that is to say a theatre cornerstone in the 90s during the opposition to Milosevic's
regime. I put on sneakers and a tracksuit. There is time to go jogging in the park
close to the hotel, the Tasmajdan. The trees and the grass are reflected in the big
glass walls of the Olympic-size swimming pool. It is mild, it looks like a spring day,
but there are only few people walking along the paths or sitting on the benches. I'm
the only one jogging.
I look around. A bridal procession slowly appears in front of the orthodox Sv Marka
cathedral at the end of the park. It is a huge pink and red building with pale green
79

cupolas. Its bell towers look like stuck one into the other around the main cupola as
if they were there to defend it. I see the entrance of Dusko Radovic youth theatre
but this time during daylight hours. I also see the new television broadcasting glass
building which stands like a ship run aground the rubble of the buildings bombed in
'99. Everything is in an area of about a hundred metres. On a small hill surrounded
by a fence there is a memorial tablet with the names of the victims and a question
written in Cyrillic “Why”?. Two women have just put some flowers next to it. Further
on, there is a Viennese looking café restaurant with some tables. Behind some
trees stands an equestrian monument: it is the gloomiest and the least martial statue
I have ever seen. A beheaded Don Quixote on his nag with a spear still in his
hand looking as if back from one of his disastrous expeditions. They are both riddled
with holes and a vulture on the horse's back is stripping their flesh off of them.
Two travellers during the night. On a train to Nis, between the Danube and the
Morava, across the sunflower fields covered by heavy clouds. Also Paolo Rumiz
asked “why” in a letter of the 1992, collected in La linea dei mirtilli: “When you are
half-asleep everything looks like a dream: Sarajevo, Vukovar, Knin. Why did it happen?..
Why did the war break out so violently in this communist country that had
become so different from the Soviet Union, why in the richest island of the red
European archipelago? Why “did the war become so foolish in cities such as
Sarajevo, Ragusa, Vukovar where the different ethnic groups had always lived
successfully together?”.
In May 1999, during the NATO bombings and the end of the war Biljana
Srbljanovic, a thirty-year old writer, already known in Italy for the Belgrade Trilogy,
was hitchhiking on the road to Zagabria. In her Diary that was daily published on
the “Repubblica” newspaper she wrote about that trip to Zagabria on the car of a
Macedonian gentleman who kindly gave her a lift: “this trip across Croatia reminds
me of when, twice a year, I used to drive on the same road to get to the sea.
Breathtaking views, good roads, new buildings under construction. A wave of
nostalgia swept over me as I thought how beautiful, big, variegated, my country
was before everything happened. Peaceful and so tolerant that even the
80
Communism was not totalitarian. Today ten years have passed since the dismemberment
and it looks like we are so distant from each other, as if we lived in different
continents. I simply want to say, without philosophical reflections: it is terrible
that everything ended up like that”.
Old Masters
My meeting with Borka has been put off for some family reasons. Vlada suggests
a visit to the mausoleum of Tito on Dedinje hill where the people in
power used to live. Milosevic's villa - momentarily unoccupied - is hidden
behind the trees. On the same hill there is also the Liberation Museum with its
imposing facade and some new villas under construction, that will be probably
inhabited by the new ruling class. It is a visible but discreet luxury that has nothing
to do with the kitsch funfair castle on the slopes of a hill opposite the Red Star stadium
built by the famous Zeliko Raznjatovic - also known as Arkan - reported as a
“war criminal” by Amnesty. He was killed in a hall of the Intercontinental Hotel
(Milosevic is said to be responsible for is murder. He was an expert in getting rid
of friends and tough accomplices) and his Czech widow, a star of the Serbian rockfolk,
still lives in the architectural abortion. She lives with her two sons who she
loves to define “my two synagogues” in her frequent interviews in the scandal
paper “Kurir”, where her voluptuous bosom appears almost every day. I am told
this by Vlada who really dislikes the Czech woman, although her concerts attract
a wide audience in Belgrade or in Lubjiana, where (as reported in today's issue of
Kurir) she arrived with a 15 metre-long Limousine. We get to the stairs that lead to
the entrance of the Mausoleum. Vlada tells me that when he was 7 or 8 he came
here with his class “all lined up with a red cap, the Tito Pioneers handkerchief
around the neck and flowers in the hands. What remains is the memory of a child
that looks at the dream of the adult's world, a world that was about to disappear
soon”. We meet only a group of fifty year-old people coming from the province as
we enter the building. It looks like a museum house without any pomp. It is the
81

opposite of the sumptuous pyramid that Hever Hoxa had built on the main road in
Tirana before the fall of his regime. The white marble tomb is in the middle of a
room illuminated by daylight coming through the glass roof. In another room in
front of a red velvet curtain, there is his a desk, a dark wooden table under a portrait
of Tito wearing civilian clothes in the act of thinking with his forehead on his
hand. In the park there is a statue of him. He looks a man of action walking on the
grass with his coat opened on his uniform of the partisan war. It is surrounded by
other statues of soldiers represented in the action of fighting against the Nazi troops
among the trees…
In her book Nikog nema doma (Nobody's home), on post communist Balkans,
recently available in Belgrade bookshops, Dubravka Ugresic writes that in Croatia
3,000 fascist monuments have been destroyed between 1990 and 2000, The toponymy
that reminds of names and episodes of the partisan war has been eliminated
and modified, and a work by the sculptor Augustincic representing Tito in uniform
was seriously damaged in December 2004 in Kumrovac...
“How can we be antifascist without being considered nostalgic for communism?”
asks Borka Pavicevic in her office on the first floor of the Centar zu Kulturnu
Dekontaminaciju, the Centre for Cultural Decontamination (logo: two gas masks on
a yellow and black background) established in 1993 to react to the press and TV
brain wash. “In that year 1,200 TV employees were dismissed. Our slogan was
“don't listen to anybody, make yourselves heard”. In order to be heard they simulated
an air raid by activating the sirens creating a great confusion in Belgrade city
centre.It was like in the famous show by Orson Welles about the landing of the
Aliens. “Unfortunately those sirens anticipated a future scenario …” Another theatrical
action against the media being narcotized by Milosevic and the virus of the
nationalist propaganda was a live broadcast with a local radio station that broadcasted
from Srebrenica: “every evening 200 people transformed into actors met
and talked about the dramatic news of that radio”. As an act of retaliation but on
the pretext of an inspection the police threw everything out, drawers, archives right
82
in this office where we are talking and where on the wall a map of the former
Yugoslavia is still hanging. “At the end of the second world war the Yugoslavian
flag waved next to the French, Russian and American flag. Our commitment
against the war caused us to be considered as traitors. But who betrayed: we or
the supporters of the Serbian nationalism?”
Dubravka Ugrsic is a woman of passion in her sixties and a little overweight. She
established one of the centres of alternative artistic life in Belgrade and reminds
me of Ellen Stewart of the Cafè La Mama of New York or of Igina di Napoli of the
Nuovo Teatro Nuovo. She wears a velvet cloak with golden highlights and a necklace
of pearls and she looks like she has just coming out of a middle-class salon
of the 50s. She doesn't have the perm and her hair is a little bit ruffled. In the
Pavillon Velikovic and in the rooms of the CZKd have perfomed the best talented
people of the new generation. The theatre looks like a bare rehearsal room without
stage and stable stalls. The CZKd rooms are in an old indoor yard, on the central
Bircaninova road behind the German consulate. It is furnished with wooden tables
and benches like those of a country small restaurant. Vlada himself acted in that
theatre. He shows me the playbill of K a play made out of the Trial by Kafka. He
toured Italy with this play and he met the Motus. I ask Borka if something has changed
since then, which viruses they have to fight against now. he opens an issue of
“Politika”, the most influential newspaper, where he shows me the news of turmoil
at the faculty of Law during a demonstration against the International Criminal
Tribunal for the trial of the “war criminal” Mladic (still on the run) who is responsible
for the slaughters in Srebrenica: “once all the students were against the war
and Milosevic, now some of them defend Mladic. The present President justifies a
fascist political speech at the university with the word democracy. Once everything
was either black or white, now the nationalist right wing has blurred contours, uses
the resentments and the frustrations towards Europe. They are like a wolf behind
the mask of a democratic lamb ..”
It is getting dark, from the windows which open onto a wide white-stoned yard I can
hear voices and laughter, the party is beginning and will last all the night. The
theme of the party is written on the entrance ticket: “Sweet, tender hooligans”.
83

There is time for a last question: who is this season's most promising debut in
direction? Borka thinks about that for a while and then with the look of who is giving
you the name of the horse you should bet on, she says: “the debut of a 75 yearold
young man, Jovan Cirilov, the BITEF director…”.
On the taxi wich takes us to meet Cirilov, Vlada's mobile rings. Before picking up
the phone he says: “it must be him...”. Actually it's him, the young 75 years boy
who wants to be sure that we arrive on time for the appointment fixed at 3 pm in
the offices of Bitef at the second floor of a hold building, right in the centre of
Belgrade, boulevard Terazije, an entrance full of rubble and tubes. Cirilov receives
us smiling and takes us on a tour in the rooms, which walls are completely covered
by posters of the previous editions of the festival; it seems to be his home. Loved,
protected by a littlke crowd of very faithful employees and secretaries taking a pause
for a tea break, warming some water on a electric stove. “Next year - he states - Bitef
will celebrate his fortieth anniversary”. And it's forty years that he is director of Bitef.
He started as second, just under Myra Trailovic, body and character of a marshal;
from the moment of her death, more than twenty years ago, he's fully considered
Bitef's head. Considering the several changes and falls that surrounded him, he's the
steadiest and most aged artistic director existing.
We seat around a table in the hall at the entrance to talk a little. He remembers the
earliest fantastic editions with Living Theatre, and the Orlando Furioso by Ronconi
suggested by Franco Quadri, and the Lorenzaccio from Prague by Krejca..: “It was
a Festival of the Three Worlds organized for the first time in a country of the communist
East”. Any problem with Tito? “Not at all. Personally, I didn't like Tito (I met him),
he was a vain primitive who had a passion for luxury, for expensive cars; but he was
a great politician, he had a subtle smell. Before the '68 he had already understood
that the world and the Left where changing, that this change should pass by a new
way to conceive the culture. Even though he didn't agree with some choices or didn't
understand them, he has never put any prohibitions, he wanted to produce the
image of a free, open country. It was enough not to touch him...”
Even though the historical events stole Bitef of its oneness, and the years of glo-
84
rious presences (such as Robert Wilson and Heiner Müller), in advance to the programmes
of the biggest European festivals, decreased giving space to display Big
Masters already revered and confirmed, the review has never stopped, during the
war either (Ubu's i Polacchi by Teatro delle Albe of Ravenna landed to Bitef in '99),
it is still a wide observatory, a free space for the international experimentation.
There is no emerging talent who has not find an help, a reference point in Cirilov
(as in Borka). Any names? He prefers not to say names, but he says that research
about new languages, not promoted so much by the Academies, gives small
results compared to the traditional theatre; in the comparison between actors and
directors, the award is for actors, they are more creative. Is this the reason why he
decided to make his debut in theatre direction? He nods laughing with his
Mongolian cheekbones: “I'm not joking, making this choice has been an obligation
for me. It was a long time I desired to see a representation of Nedzavaci by
Momcilo Nastasievic, fully recognized as a poet but almost completely forgotten as
a dramatist. I think I proposed to at least 10 directors that script, which title could
be translated in Italian more or less “Non allineato” (Not lined up), it's the story of
a Serbian Nora Helmer, a bitch, who makes love with anyone she meets; but finally
all of them gave up. A review of performances about “modernism” promoted last
year by Borka at CZKD, contributed to his decision to do that: “If nobody wants, I
will make this perfomance”. Better with the collaboration, for scenes and customs,
of Angelina Atlagic, forty years old, often faraway from her home- laboratory in
Krunska Street, immaculate, full of lilys , not a pin or a crayon out of its place, working
in Moskow or Madrid, Paris, Stockholm, Gibellina in Filippo Timi's Woyzeck ,
or Skopje, in a visionary tandem with the Macedonian director Poposwki.
Cirilov’s luggage is in a corner, already done, he's going to catch a plane to Zurich,
and then other trips to go and see performances to be programmed in the next edition.
At the moment of my departure, at the door he tells me good bye and says:
“We don't need to ask for European citizenship, here there was Europe...”
85

The new face of Serbia
Europe is there. Its flags wave on the façade of Hotel Intercontinental, which took
the place of Hotel Moskva, appriciated for its liberty fascination by all special correspondents,
in a color picture published in the first page of “Politika”, in an article
titled “Serbia's new face”. “These are the flags of the 400 bankers and entrepreneurs,
came to negotiate an investment plan with the Ministry of Economy. In
Belgrade good business is possible: Hotel Serbia, which was valuated at least 12
milion euros, has been bought for 3 milions, and Fiat, to produce its Punto, bought
the factory of Jugo (a compact car produced in the same version for 20 years),
destroied by the bombs and reconstructed. They also count on fashion. In front of
the entrance of JDP, where I came to assist to Skup (meeting) by Marin Drzic set by
Jagos Markovic, the workers are disassembling the awning and the gangway of the
defilée just concluded, organized for the congress participants.
In the theatre, on the stage the fashion changes. They wear militar uniforms out of
order, popular dresses of low quality, cardinal mantles on high heels, the characters
of all ages that Markovic has bottled in a kind of cul-de-sac, dump, closed by a high
slide wall (time to time somebody try to climb it without success); it's a place encumbered
of cordages and wreckages of a ship. While life goes on similar to a plot by
Plauto, Aulularia, between two funerals (one is true, the other fake) and a wedding,
and grotesque processions as in Kantor's Dead Class. With a thin hope, the glint of
a Happy End for the young bridegrooms (the “innocent generation”) who succeed to
climb the slide and leave that place. Well done light design, movements and paint
composition of the groups, Skup leave me a little cold because of its experimental
deja-vu. Despite the several positive critics this performance has received, it seems
to confirm Cirilov's mind according to which traditional theatre (Huddersfield, for
example) is better than the theatre referring to the avant-garde canons.
I'm talking about that with Vlada at Manjez, a very plaeasant restaurant with mirrors
and dark wooden frames, a little déco of Paris taste, in a small road close to the theatre,
when he makes me note, squeezing his eye, a couple of old women very well
dressed, seatting in a corner table: one of them is eating, the other one waits that her
86
friend or sister lifts the fork to the mouth to steal something from her dish and make
it slide into a small bag to bring it at home. They go on like this all along the dinner,
without exchanging any word. “Here's the new face of Serbia”, this is his comment.
The new face of Serbia is also Gorcin Stojanovic, artistic director of Jugoslavensko
Dramsko Pozoriste, who was waiting for me in his office the day after. The usher
lets you go upstairs only making a previous call to the upper stage, shiny parquet,
glass walls and doors, employees working in a soft business efficiency atmosphere.
Managed on the wave of Bitef, by Mira Trailovic and Crilov who has been director
until '97, when a fire destroyed part of it, stopping the activities, JDP reopened
in 2001 after a two years restoration, preserving of the old theatre only a huge photograf
of the façade decorated with friezes and statues in neoclassic style. This
creates a strange illusionistic effect of disorientation in the passage of style from
the exterior to the internal entrance, a modern structure with the shape of a cube
in glass and iron tubes, with a tub and an abstract sculpture in the centre. Jeans
and designer shirt striped in white and blue, quite long bear and long hair, a crossover
between a bohemien artist and a young manager, Gorcin Stojanovic is a big
boy, 38 years old, taller than one metre and ninety who doesn't loose time in premises.
After signing the papers brought by the secretary and answering a couple
of phones, continuously ringing, without waiting my questions he immediately
starts to list the “four priorities” of his artistic management guidelines: “We privilege:
a) the choice of foreign “classics” set in a modern way or not much performed;
b) the same criteria for “classics” from Serbia or former Yugoslavia in general; c)
in the landscape of contemporary foreign drama we give our preference to the
most innovative authors; d) concerning Serbian language authors, we focus on the
quality, no matters which orientation they have, more or less experimental, for
example Skup or Huddersfield…”. With the same criteria, that of quality and that of
descovering new talents, it was directed by Cirilov. And it was exactly Cirilov, he
remembers, to assist to the baptism his first theatre plays as a director, a Hamlet
and the incredibly long The Last Days of Mankind by Karl Kraus, also set by
Ronconi at Lingotto. And afterward, a fiew years before Valerio Binasco's perfor-
87

mance (UBU Prize 2004 as “the best foreign performance”), Cara professoressa
(Dear professor) by Ljudmila Razumovskaja, which “seemed to be written on the skin
of our generation just in the passage between communism and economic liberism”.
In Italy, the attitude to make reflections on oneself and on the present seems to be
more typical of the cinema than theatre, while in Serbia it is one of the most important
inputs for those who write: “In the case, for example, of the thirty years old
Milena Markovic, author of The Tracks, of Dejan Dukovski with his Bure Baruta
(Cabaret Balkan), from which also a nice movie has been drawn, or Biljana
Srbljanovic, in the big hall with her last work Skakavci (Locusts) who, thanks to Cirilov
again, had her debut in '97 at JDP with her famous Belgrade Trilogy, represented a
lot all over the world”.
Concerning the foreign performances, a small personal review on Jan Fabre is foreseen,
with two works, and probably the first Pirandello ever performed in JDP, if they
will find the right director. I ask him whether he knows any other Italian author, more
recent. None, because only experimental groups pass by Bitef, such as Motus and
Fanny e Alexander, but they are not in the line of the Centre. And Paravidino, he just
heard Vlada talking about him, because he prepared and performed Fratelli (brothers)
together with Damir at Santarcangelo Festival. But he would like to present it
in Belgrade too, together with other Italian young authors. Perhaps put on by an
emerging Serbian director in a third small hall reserved to debuts, which will open in
2007...
In Biljana Srbrijanovic's last work, on stage in these days at JDP where it made its
debut in April the 26th, there is not any hint of hope for the future. It is clear since the
title Skakavci, Locusts, which evokes one of the seven plagues of Egypt, a human
scenery which is gradually devastated, devoured by the insects. Apart from the gloomy
and apocalyptic metaphor, the same as in Kafka, and the smell of death that pervaded
the whole comedy, characterised by interlocked and reflecting stories, as in
Cecov's Cherry Garden or in Belgrade Trilogy, there is an overwhelmingly comic course,
an atmosphere of bitter boulevard, a desolation and a conscious horror, all temperated
by pity and irony. The director Dejan Mijac, considered-Vlada said-the
88
“Serbian Ronconi, uses a moving footboard and video projections, to turn five stories,
which take place simultaneously, trying to show various generations. There is, for
example, the over fifty Maksim (Voja Brajnovic), a famous journalist, a television icon
as Bruno Vespa, in a restaurant ill-treating his twenty years younger wife, Nezda.
Then the couple is in the garden of a country's cottage, the same as in Mulino Bianco
advertising, for a party. They are hosts of Fredi and Dada, a couple of unmerciful
social climber aged almost forty. She is pregnant and tries to seduce, seen by his
homosexual husband and Nadezda, the charismatic Maks pushing him with her big
belly in every corner. Alegra and the cuckoo grandfather are part of the family. She is
ten years old and always tiptoeing with her ballet shoes, speaking as an adult tamed
by television. He is always playing lotto, and a terrible end is waiting for him, leaved
by his son in law on the high way hoping that same car runs him down.
One of the victim of this generational gap and familiar conflict is Zana, fifty years old
badly lived, confined by her eighty greedy mother, who is always compelling and
making her fell guilty; she has only the time to telephone some improbable friends
who don't answer or if someone answers is only to says that the number is wrong.
Speaking about Milan, at the age of thirty- five, he has given up any job and love project
to take care of his father, seventy-five years old, who evidently despises and treats
him as a driver. In Bilijana's private limbo referring to the younger characters, and
to a generation among the thirty and forty, disheartened and with lower upper-class
and economic purpose, are the greys the only one to be obstinately attached to life
and their illusions. Nor it is a lotto's win, or an Academic nomination, in which Milan's
father, a retired professor and a very shit-stirrer who play up with his neighbour
Nedezda, hopes. It doesn't really exist a new generation. All are old , all lost something
and devoured by locusts...
“It doesn't' exist a Lost Generation, everyone in Belgrade has lost something...” said
Aleksandra Iovicevic, close friend and translator for the Italian version of Belgrade
Trilogy. During the 1999 bombing she translated her daily diary notes, always with time
running out. We are speaking setting outside at Ipenama, a restaurant at Skardalija's
hill slope, that serves typical pasta from Puglia region, which is almost eatable.
89

Aleksandra has relatives from south Italy, an uncle from Conversano, Puglia, and a
cousin, who is a scene designer, from Naples. “ In 1984-I remembers-was twenty, I
lived and studied theatre in New York with Richard Schechner. I saw Tango Glaciale
(glacial tango) by Mario Martone and the group Falso Movimento during their
American tour, and I was so enchanted that I chose Schechner as argument of my
degree thesis. “ Why did she choose to go to New York? For love, she answered me
without circumlocution. And for love too, a new one , with the storm starting, while
people trying to escape, she came back to Belgrade where she has been teaching
at the Academy for twelve years, and was Vice Minister of Culture during the tragically
ended period of Dijndic's governor. She is a iron and romantic lady, with a sweet
and resolute countenance, very smart in her simple dark male jacket. A perfect oval
face under her black fringe that remember, I said her, Biljana's face. She smiles with
her watchful and bright eyes that sometimes are lost in sudden melancholy: “ very
often when we are together we are mistaken for sisters...”. But she doesn't want to
speak about their friendship, anecdotes and private stories. She comes to the point:
“ she is one of my first student, we were peer, shared the same ideas and went out
with the same male friends...”. She prefers to speak me about “Kurir” since Biljana
lives in Paris, wife of Belgrade's former ambassador , and has become an international
star translated and represented all around the world, without losing any opportunity
to point at her theatrical morality to the public contempt as a “French bitch”.
She adds: “During the diary's period when she sent her home front notes against
Milosevic to Repubblica, the regime press defined her a “prostitute at the service of
Italians”. Things are not changed since than...”.
She is enquired as Borka for the university demonstrations against Mladic's trial and
the governor that was acting as Ponzio Pilato. After the euphoria's days the hopes
of changing are falling down, the atmosphere is heavy and above all not really decipherable;
it is difficult to understand where you can walk, where is the rival. She shakes
her head: “There is any future here: who has ideas and wants to express them,
have to go away...”. She moves away to teach with her light and brave step in a dusty
atmosphere of heat and “little hands” that fall down wheeling from the trees as in
Fellini's movie Amarcord. I think about Artridi's House and a modern Antigone...
90
Vlada shows me through the window a line of red roofed houses put on the plain
to mark a bank, a borderline wall: “ there, in that point stopped the coming of the
Turkish towards the centre of Europe. We are at fifty kilometres from Belgrade
along the E75, which overcomes with a very long bridge, the Danube's flow arriving
to about an hour to Novi Sad, Vojodina's capital built at the last range's relief
border of the Fruska Gora chain mountain. I have a meeting with Ivan Medenica,
considered at forty as the main theatrical events's critic and organizing of his generation.
He has come to Novi Sad to start up the forth edition of his international
festival titled “Sterijmo Pozorje”. The date is at five p.m. at the National Theatre.
There is time, while Vlada has lunch with his relatives at the near Zremiatin, to
meet Ndan Ndan who is, despite her name remembers that of the main Saigon
newspaper during the American war's time in Vietnam, an Italian girl, from Milan.
Franco Ungaro, who met her in a workshop organised by Koreja in Lecce gave me
her mobile number. In Toscana region, in another workshop, she meet her work
and life partner, Branko Popovic, son of the former Novi Sad's mayor, with whom
she is preparing a “study” financed by the European Union which will open the next
edition of the “Inteatro” of Polverigi with other two project partners on rehearsal
now in Lubiana and Saksburg. Branko doesn't take under great consideration the
persons and the performances that I saw in Belgrad;it is clear from his sneering
expression and silence while he listens at me and I eat some good hum in a very
nice place, the Petit Maison, near the central square of a Hasburg and mid-
European elegance. From that expression, that I know very well -this is part of the
fundamentalism of the research- I understand that they do “another kind of theatre”.
But I will never see anything about their theatre, the performance “among
words, music and dance” inspired to the poems and lateral text by Beckett, that are
on rehearsal in the rooms of the Petrovaradin's fortress; an abandoned court, golden
glass, piled furniture, a kind of Tito's Yugoslav Marienbad. The photographer
came to shot some pictures to send to Polverigi; one of the component of the small
group made up by another Italian drummer a Bulgarian boy and a Serbian girl,
doesn't come back from the Italian Ambassador of Belgrade with his hard-got visa.
It was not a pity come to this hill in front of Novi Sad. A military group, tourists dres-
91

sed with a mimetic suit, is taking a picture of the fortress's bastions, with the bar's
tables and big umbrella closed for the wind, the Danube's bend and the two bridges
reconstructed after the bombing. Time runs speedy. You have only to invert
the short hour hand of the tower's clock with that of the minutes, “a bizarre habit of
Novi Sad” noticed Nhandan.
Ivan Medenica has not time to waste, hurried as he is with the hundreds engagements
of the director of a festival at its eve or at its inauguration. But despite this, he
finds half an hour to rough out, on a terrace with tables of the National Theatre's outdoor
bar, the lines his Sterijmo Pozorije, which was born recently, in 2003. “It is a
festival dedicated to the contemporaneous authors of Serbian mother tongue, that
every year ends awarding the best text, direction, performance and actor, scenes
and so on. Something like your Ubu, but connected with a theatre that balanced traditions
and innovations linked to the word”.
As in the case of Ubu, the Sterijie Pozorije 's plates have become shortly very longed-for,
an important recognition also thanks to Medenica who, despite his appearance
of a student, a swotter one, the first of the classroom, has had the brilliant idea
to match Serbian director's productions to foreign ones. With some traumatic repercussions:
“Very often, don't to say always, the foreign production have been considered
better and successful then ours...”As Cirilov, he considers the director's quality
lower than the actor's quality, but above all than the that of the authors. Four in
particular: “Bilijana Srbljanovic of course, and than Ljubomir Simovic, Milena
Markovic and Dusan Kovacevic...” A Kovacevic's comedy, Le professionnel, produced
in french by a director and a group of Swiss actors was awarded by the rates
number of prices the last year: “It is the story of a bizarre friendship between a subversive
writer and the designed policeman to shadow him. After the regime's fall, the
ex-policeman brings to his publishing firm the file of his dossier, a kind of every-day
diary of the writer's life and says him: that is the best novel you have ever written...”
The winner of the first edition was an Hungarian production, Family's stories, the
second pièce written by Srbljanovic after her Trilogy. It is a text often enacted in
German too and in several European countries. A forecast, who is going o win this
year? “ Biljan again, probably. I saw the production of her Amerika, second part, a
free and present follow-up of Kafka's novel, made by the Burgtheater from Vienna
with Karin Bayer's direction, and it seemed to me beautiful...”
P.S.: actually, it won!
While I was speaking with the yuppie Milenica, there is another man at a table,
engrossed in the reading of a book and I think to know him. “ He is Voja Brajovic,
who you saw yesterday evening in the role of Maks, the famous journalist who die
for heart attack at the end of The Locusts...”, suggest me Vlada. These are the
miracles of a public planning, that is able to re-run the same productions for years
installing and taking them down in the same week. I will see him against this evening
in the role of the Montova's Duke, the hidden demiurge of Measure for
Measure by Shakespeare produced by Dejan Mijac as a play inclined to the grotesque
if not to the farce. The action takes place in only one place, an underground
crypt between the jail and the friary, crowded by ridiculous Torquemada inclined to
drunks and little military camp's failings. The audience laughs, has fun as in a
Italian comedy to get thrill, supporting Isabella (a giant among dwarfs) in the avance
scene of Angelo, who behaves as Tartufo, and when he is unmasked and punished.
Has justice been done? Of course not, with a direction's invention, a real
theatrical hit, The Great Moralizing, the Duke of Brajovic plays as a metaphysic
despot a macho and strips off the pure Isabella. Never trust an oppressor, above
all when they dress the moral zing's cowl, wolves dressed by lambs.
The empty shell of an age
Ieat the last huge dish of gulasch with Vlada, who choses a pork skewer, very
good too, and a puniena paprika, a pepper filled with rise and very spicy meat,
in an old restaurant of Belgrade furnished with low tables and pillows (turkish
way) not so far from Knez Mihailova. The night is coming slowly, preceded by a
bright pink twilight. At the end of the descent street, black cowls and mantles of
92 93

earded papas flutter, leaving a convent close to the greek-ortodox cathedral.
There is a quite atmosphere, like in an illustrated postcard. Only the name of the
restaurant raise some restlessness, its name is “Question Mark” and its sign is a
round question mark. Last pages of Handke's Justice for Serbia are dotted of question
marks, a real rethoric firework. I ask Vlada if he red it and what he thinks
about his strenuous defense of Serbia against Nato and especially of the sentence
of French and German newspapers against the whole country because of the
war and massacres that took place during Milosevic's government. Vlada answers
that he knows his scandalous thesis about Pharisaism of the press from many
Western countries, and he agrees with the words Biljana used in an interview: justice
is needed, responsibilities of the war and massacres belong not only to
Milosevic and to Serbians; but Handke's defense, his provocative taking sides for
the “bed” risks to produce the opposite effect, if you look at it from the inside, from
the point of view of those who tried to fight against the regime in any possible way.
“A help to to the students who make manifestations against the process to Mladic”.
The arrival of Alessandra Taliani, who works in the Italian Cultural Institue, make
us change the direction of our conversation, different from current topics. She says
she couldn't come before, because there was a really interesting conference at the
Institute, about Mazzini's works about Serbian Question in '800...
Alessandra has come to say hello to me and to give a change to Vlada, as usually
engaged in night tours with his friends. The night goes on with her on a round
floating platform, anchored at the shore of the river just in front of the Kalemagdan
fort, in the point where Danube and Sava meets. I don't have the courage to tell
her that I already know this restaurant, typical of a romantic itinerary, because I've
been taken here by my Virgilio and I ate a delicious salmon river fish. But at night
Koliba, the tavern, this is the name of the place (take note because it's worth to go
there), looks very different. It really becomes a tavern, with tables under candle
light, flames in the central grill, the small orchestra that tours between the tables
playing old Slav songs that the customers sing, eccited by the several slibovitze.
They talk about love stories and painful separations, explains Alessandra, dau-
94
ghter of an Italian man that knew her mother in Split during the war. She got married
with a Croatian from Zagreb, repeating the same family script; she met him on
the ship of some friends of her, during a trip in the Adriatic islands. In love stories,
I think, as in life stories, the fear of loose each other, the fear of separation is the
cement that unite.
To go back towards the centre of Belgrade, bifore gettino into the bridge that cross
the Sava, we pass close to a glass skyscraper with empty rooms, without any table,
any chair, any human presence, completely lighted. It seems a huge ghostly totem,
a deaths' house. It was the headquarters of Milosevic's party. Damaged by the
bombs, it finally stood and it has been restored and it's like a brand new building.
Now it stands there as a useless lighthouse in the night, the empty shell of an age.
Smederevo is not far from Belgrade
Smederevo is not far from Belgrade. Once you leave, after 40 Km expensively
charged (about 5 euros), the motorway in the opposite direction to Novi Sad,
you have to take a hilly country road. Vlada had talked about Smederevo as
an industrial country town, an iron and steel area with no attractions. I was expecting
to find the usual, desolate hinterland, typical of our outskirts and industrial
cities from the north-east to the south of Italy, where the ecological and non-ecological
eyesore caused by the friction between industry and the rural culture is
even more evident. Here, on the contrary, the landscape, that evokes trips of the
past to the Castelli Romani, as in Pinelli's prints, is surrounded by vegetation and
dotted with one- or two-storey little houses with gardens, orchards and vineyards.
The way to the city centre with its handicraft shops, crooked architecture that
recalls Chagall's paintings, and the neon sign “Dolce Vita” of a modest lingerie
shop, also looks like that of an old village. There is nothing left of the refineries
bombed in 1999 when you could see them burning from sixty kilometres away.
They have been rebuilt and bought, together with the steel mills by an American
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firm. The majority of the population currently works in these industries.
Vladislav Nesic is a tall fifty year-old man with a gentle, dreamy appearance who
looks younger than he really is. After an experience as director and actor in a theatrical
company he has, for thirteen years, been responsible for the public relations
of the Cultural Centre. He tells me about the mystery of that rural heaven: “getting
here by car, it is impossible to see the industries because they are hidden behind
the hill, outside the built-up area on the bank of the Danube. The inhabitants do not
like the industry, they work in it, but they continue to farm their own piece of land,
their vineyard. We make a very good wine here…”
Wine and steel, a curious combination, yet according to legend it is that combination
that gave birth to the Smederevo industries. It turned out to be a “fantastic
error”! The legend is mentioned in E' Oriente by Paolo Rumiz, who heard about it
from a boatman called Ljubo, on a barge, passing by the scrap iron during a journey
across the Danube through the recently bombed areas, in the spring of 2000.
True or false, it is worth mentioning it here: “One day, Tito came to visit the hills of
this area. Officials and politicians boasted about the vineyards. They talked about
“grozde” which, in Serbian, means “grapes”. Tito, who was as deaf as a post, heard
“guozce” instead, which means “steel”, and he said: “Marvellous! Let's build a huge
steel mill then”. “Of course, nobody had the courage to contradict him. That would
have meant telling him that he was deaf. The Party immediately started working
on the project and in a couple of years the biggest steel mill of Europe was built..”.
We are going to my accommodation, a room with a kitchenette and toilet in a radio
station, not far from the city. Vladislav tells me that there are not many rooms available
. The Smederevo Hotel, the only one in town, closed down after the bombing
and after the industries went out of business. When the industries reopened and
the stream of visitors started again, some people who saw the chance of making a
profit began buying rooms and flats to let, especially managers from the American
Firm. An example is the owner of this radio station, Radio Lux, a brand-new threestorey
building with a green and cream-coloured, vaguely neoclassical front. Like
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a mirage, it stands between hangars and decaying warehouses in a big meadow
near the countryside not far from the refineries. “His offices, the Lux group offices,
are on the second floor. The radio station broadcasts only folk music and commercials
of his drink suppliers (Coca Cola of course, and beer of several different
makes). He made a fortune in no more than five years..”. Besides the neo-capitalist
one of Smederevo there are two or three other local radio stations. They do not
only broadcast entertainment programmes: “Radio Smederevo, for instance, was
privately owned during the Milosevic Government ( it is now half public and half private)
and it was one of the few independent radio stations that did not have to face
the censorship, which used to control television and the press. Today, as well as in
the past, reports of the “state of affairs” made by Radio Smederevo are given by
the programme called Meteo Report, with the help of phone calls made by the listeners:
“the programme is all but a weather forecast. It is not about sudden climate
changes but about our state of mind and our change of mood due to the daily
events.” The programme is often satirical. Like that time when the presence of
Milosevic in the studios of Radio Smederevo, to answer the listener's questions,
was announced. Suddenly, the police, a crowd of onlookers and improvised
demonstrators gathered in front of the premises. “Milosevic was actually a taxi driver,
with the same name as the President, who was able to play the game for a
while answering the questions of the listeners without giving himself away”.
“ I am exhausted...”
“I
am exhausted...” complains Salvatore Tramacere when I meet him. He has
already spent three weeks in Smederevo dealing with the students of his course
that will end tomorrow with a show that includes videos, music, theatrical
plays and dancing. He actually does not look as exhausted as he says he is. He
eats some tasty sausages and chips, chatting cheerfully with actors and collaborators
from Italy, Smederevo and other ex-Yugoslavian countries, sitting on a sofa
on the upper floor of the Centre with a noisy disco music background.
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They are all lined up on the same wall eating and drinking beer behaving properly
as if they were shy. They look like members of a sports club or former College students.
All of them, men and women, wear the same red t-shirt with a logo next to
two dates, 1905-2005. As the director of the Centre, Dragoljub Martic, a very kind
forty-year old composer and musicologist, tells me: “They are the actors of an
amateur company from a town nearby, where the most important festival of
Serbian amateur theatricals takes place annually. They wear those t-shirts to celebrate
the centenary of the festival.” I did not have time to enjoy their show, a staging
of Ionesco's The Bald Soprano. I would have liked to see how they dealt with
the meaningless conversations of a middle-class English home and with the surrealist
nonsense of this key work of the Theatre of the Absurd. It is surprising and
intriguing to find a performance of an amateur company in an important festival
such as the Smederevo one. In Italy, there is a big difference between amateur
dramatics, professional and experimental theatre. A difference that I tried to demolish
last summer during the small festival that I run in a medieval suburb,
Radicondoli, in Tuscany, bringing together new works by Tuscan playwrights and
works in the vernacular by two amateur companies from Florence and Leghorn.
These close range encounters, especially in Naples and in the experimental circuit,
gave birth to beautiful works capable of reinventing and reviving both the vernacular
and avant-garde theatre. Vladislav asks me if I would like to have a chat
with the managing director of the theatre where the amateur company rehearses
and acts. In order to talk leisurely we take a seat in the empty stalls. Miomir Jelic,
probably a name of Turkish origin, does not wear the red t-shirt, but jeans and trainers
that clash with his hollow cheeks and his thick beard that recalls a Byzantine
icon. Sometimes he also directs some plays. What kind of plays? Classical Italian
plays like Macchiavelli's Mandragola, and works by Ruzante or by contemporary
Serbian playwrights: “Bora Stankovic is one of our favourite authors, we have him
in our repertoire and we often act in the villages nearby his Nostaka, a rewrite of
Carmen set in Serbia, and Ivkova Slava, a paradoxical never-ending party that
goes on even after the death of the main characters. We would like to make an
amateur film out of it..”. He added that amateur companies ( “considered by Tito
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the pride of the communist regime”) in Serbia and in the ex-Yugoslavia are everywhere,
even in the smallest and most remote villages.
When we go back, the party is still going on. Tables and chairs have been placed
in a way that the lobby looks like a ballroom. Everybody is dancing, even the little
Italian chap of Salvatore's group who almost broke his back today during the rehearsal.
Suddenly the remembrance of “Aradeo e I Teatri” festival at the “Castello Tre
Masserie”, when actors and audience danced the “pizzica” (a folkloristic dance of
Salento) together around the big palm in the courtyard, came to my mind. A tradition
that the “Koreya” theatrical company carries on even after moving to the new
“Cantieri Teatrali” premises, a former bricks industry on the outskirts of Lecce.
Franco Ungaro, an activist in the 1968 protest movement, is one of the founding
fathers of the theatrical company that this year celebrates its 20th anniversary. He
thinks that the theatre must always be part of life, it must gather together different
experiences and ways of communicating, artistic creativity and social commitment.
When he expresses these deep convictions and lasting opinions he gets very excited,
he would not change his mind for any reason, even though he is a man who
usually hides his emotions.
“A marvellous place on the Danube”
T
he following morning I meet Dragoljub Martic in front of the cultural centre: a
nice, modern, Nordic looking two-storey building, with a sloping roof on solid
wooden beams, a front of dark windowpanes and a wide staircase embellished
with well-kept flower-beds. It looks like a bank or an elegant shopping centre.
You would never imagine to find a 700-seat theatre, a 200-seat concert hall, a
250-seat cinema, dressing rooms, dance rehearsal rooms, classrooms for lectures
and seminars, a graphics studio a 220,000-book library with reading and studying
room. “We have been able to host 33 events: plays, exhibitions, projections,
conferences and language courses (English, Italian and Japanese)”, Dragoljub
99

says proudly. He is in charge of the general programme schedule. In the Centre,
built with public money and opened 25 years ago after a referendum, there are
about 30 employees. Some of them, like Vladislav, who works full time, earn about
200 euros per month. Is this money enough to live on? No, it is not, but this is the
money people get on average. As we visit the Centre a pretty blonde, smiling lady
with wide cheekbones joins us. She looks maternal and dynamic. She is Vera
Horvatz, the previous managing director of the Centre. She now runs an international
festival of poetry, “Poet Autumn”, which takes place in the middle of October.
Every year a collection of verses by the poets who take part in the festival is published.
The poems are all translated by Vera Horvatz. “ Translating, for me, was the
main source of income when Milosevic was in power, especially when I stopped
teaching history of art in schools…”. Vera, like the herbalist monks of the past, also
wrote a book about the therapeutic effects of plants and flowers. “I used to see
people queuing outside the chemists' in order to buy medicines that most of the
time were unavailable because of the embargo. Hence I started reading and translating
a lot of books about alternative medicine. In the end, I knew everything
about the subject, therefore I, too, decided to write a book. It was a big success…”.
The “Poet Autumn” is not the only international event. In September the international
exhibition “Colony Graphics” takes place in the Centre. Dragoljub adds that
many people all over ex-Yugoslavia are interested in graphics. An art, a technique,
that twenty years ago found its home and workshops in Smederevo, even before
spreading to Belgrade. “This year, the 'Colony Graphics' exhibition will also take
place in Paris”. On the contrary, a ten-day festival of dramaturgy taking place in
April, will be shown only in ex-Yugoslavia which is united at least in the name of
the theatre. “This year, the first prize was awarded to the screenwriter of the movie
Underground, Dusan Kovacevic, who is now the Serbian ambassador in Lisbon.
The script was staged by a company from Sarajevo directed by the actor and director
Zijah Sokolovic. This black comedy , entitled Dr. Suster, is about a retired doctor
from Belgrade who dreams a new life and youth in Vienna as a shoe repairer”.
In his A Winter Journey Peter Handke writes that he came to Smederevo in order
to find “ a marvellous place on the Danube” where the great river flows in “absolu-
100
te silence”. And he says to have found it “behind the Medieval stronghold which
was half destroyed by the German soldiers during the Second World War”.
Actually, the ruins of the castle that was built by order of the Despot Georg and
the boundary wall of stronghold had not been touched by the explosion of the
ammunition dump that the German Soldiers had placed inside. “Whereas that 5th
June 1941, the explosion” says Vera “blew up the carriages of a train and caused
the collapse of some houses located on the hill of Smederevo”. Her parents told
her about it; her father was Hungarian and her mother was from Ukraine. In those
years, during the Second World War, they wandered over Europe and moved from
Vienna to Smederevo. “My father found a job as a worker in an iron foundry, like
many other men who came from different countries. Also during the recent Serb-
Croatian war many other exiles from ex-Yugoslavia, decided to move here.
Nowadays, in Smederevo, live people from more than twenty different ethnic
groups”. In the morning there is time to visit the stronghold, which is only twenty
minutes walk from the Cultural Centre. Vera opens her umbrella, there is an tiresome
wind and a rain that would make anyone “gloomy”, but words like this do
not match the dynamic personality of Vera. Actually, that fine rain reflects the
“absolute silence” described by Handke. To get to the stronghold the tracks of a
railway station have to be crossed. On the wagons of a goods train can be seen
the acronym of the American company ( USS, United States Steel), owned by Mr.
Kelly, that bought the industries of the area. This place does not have the dazzling
lights and the long shadows of De Chirico's metaphysical paintings. Instead, like
Ebdomero, the visionary protagonist of De Chirico's novel, that deserted train station,
that train standing at the platform with its mysterious acronym, those empty
tracks close to the Medieval boundary wall where different ages are interlaced,
“hide a mystery”, Vera says. Some unusually silent geese guide us to the palace
of the Despot Georg. In order to reach the palace we have to go through a meadow,
where once houses and stables of the village were located. Rebuilt for the
tourists, the village now looks like that of Asterix. “Despot”-says Vera- “was an aristocratic
title derived from Greek , like Dux or Rex in Latin, which meant 'King' and
it did not have the negative connotation that it has for us today”. She shows me
101

the inscription on the front of the palace under a cross and the date 1430: “ I,
Georg, built this with the help of God..”. With the help of God and of the fortune
he made after the discovery and the exploitation of the silver mines in Kosovo:
“heavy or base, metals have always been the fortune of Smederevo…”, but it was
a short-lived fortune. Two decades later, the Turks stormed the stronghold before
they invaded Belgrade. Soundless, the drizzling rain falls into the greenish water
of the moat. Next to the drawbridge there is the ticket office. Now there is only the
memory of what used to be a three-storey sumptuous palace. (“Even the Pope
came from Rome to visit it”). All that remains is the skeleton of the castle: the stairs
that lead to the battlemented terraces, the lancet windows of the Audience Room.
It is an ideal place for summer shows and concerts. A theatre under the open sky.
We go up a long, narrow flight of stairs and I can finally see Handke's “marvellous
place” on the Danube. He had been enraptured by that beautiful river “ that flows
soundlessly without even splashing or gurgling”. From the top of the boundary
wall of the Kalemagden stronghold, built where a minor river flows into the Danube,
I can see the entrancing black barges, freighting coal from Russia, moving noiselessly
towards the three factory chimneys, as if they were ghost boats.
Vera's voice suddenly distracts me from that hypnotic scenery. She shows me the
refinery tanks on the right, explaining with irony that they were rebuilt after the
bombings using American money: “They are now owned by Mr. Kelly, the new
despot, the new benefactor of Smederevo. He married a local girl, he did a lot for
the children and for the environmental pollution…”.
In the afternoon I had a cup of Turkish coffee with Salvatore Tramacere and the
young people who attended his course. We were in Demir Kurtesi's house, all sitting
on a rug in a room painted in white and furnished only with a table. Demir's
house is in the Rom suburb and it actually recalls the working - class suburb of the
Rome of the '50s described in Pasolini's Ragazzi di vita. Demir is a Rom from
Kosovo, but he did not come to Smederevo as one of the many exiles of the last
war. “I have been living here ”-he says- “for thirty years. Thirty years ago you could
find a job in the industries..”. Nowadays people have to manage selling the scrap
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metal, they find on the streets or in the rubbish dump, to the scrap-metal dealers
or to the steel mills. In front of the porch of Demir's house there is a mound of
pipes, old domestic appliances and rusty gears ready to be weighed on a big scale
near the door. That mound represents his daily “crop” , his wealth: “in one year we
collect and resell about 500 tons of iron”.
Demir is a short man, with a broad forehead and a short, unkept beard. There is
something of a mild and just, self-taught intellectual about him. The Community
which, after those of Nis and Belgrade, is the biggest Rom Community of Serbia
with its 5000 Rom from 30 different ethnic groups, has elected him, with 3000 votes
in favour, leader of the Rom Democratic Party of Smederevo that he has founded.
He proudly shows me, as if it were a degree, a certificate issued by the Government
that gives his party the same rights as the other Serbian parties. Salvatore decided
to come with us also to ask Demir if the community would be interested in joining
his theatrical workshop next year. There is nothing definite yet, but they look enthusiastic
about it.
There is a quiet guy next to him. I do not know if he is his son, nephew or grandson.
He plays in a folkdance company that, together with a small orchestra consisting
of wind and percussion instruments, often performs at the Centre. They have
some colour photos and a black &white playbill of their play.
Demir guides us along the paths of the village, which have been made muddy by
the rain that has stopped at last. We can hear gipsy music in the background. It
might be the band rehearsing or maybe a gramophone. An old FIAT 500, surrounded
by children, splashes through the puddles as it moves towards us. The oneand
two-storey red brick houses are all different, from each other. Using your imagination
you can build them yourself as the Rom did with a no longer used wagon,
transforming it into a social club painted blue and green. In a side street can be seen
a small house, like that of the seven dwarfs, with a drawing of Disney's Snow- White
painted on its front. A very young mother, in jeans, paces up and down between the
washing lines on a terrace of an unfinished house, with a baby in her arms. Outside
the windows adorned with embroidered Nordic style curtains, there are little gardens,
flowerpots on the windowsills, creepers and beautiful roses. Near the door
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there are shoes of every kind: trainers, oriental slippers and sandals. Compared to
the Rom camps located in the less salubrious areas near Rome, this camp looks
like a residential neighbourhood and it is a perfect example of integration. Some
kids, sitting on a wall like Indian lookouts or sentries of a fort, show us the way to
get to the football ground: a well-kept, almost regulation-sized pitch with concrete
terraces and benches for the coaches. Not far there is a primary school opened a
few years ago, thanks to financial aid from Holland and Italy. On the door curtain
there are butterflies that look like flowers and the writing “ Beli leptir, Parno leptir…”.
As we enter a room in the blue and green colours of the Mediterranean Sea, the
children's favourite colours I guess, we see their drawings on the wall and two lines
of almost new desks, ten in all. This is the only classroom of the smallest school
of Smederevo. Despite the small size of the school, Demir is full of hope for the
future: “ Our children will learn how to read and write and if they have the chance
and the possibility to continue their studies, they might find a good job..”.
The small world of Smederevo is so big
“A
s dear Salvatore said: After twenty days of work and exercise you are ready
for real work in the theatre..”. These words remind Alma Randic, a 16-year old
girl from Mostar, of the beginning of the course. The youngest of Salvatore's
group, she could not forget that promise made only three weeks earlier which had
come true after she acted in the successful show at the Centre on the second of
July. Salvatore's group consists of four Italian people chosen by the “Florian” of
Pescara and by the “Koreja” and eleven chosen between people from Smederevo
and other ex-Yugoslavian countries and just a few of them with previous experience
in the theatre.
“Only Fabio Tinella” - Salvatore says - “a chap from Puglia who was born in
Fasano, lives in Rome and has now joined the “Koreja” group, used to be a strolling
actor. He was “Bubbeo” a juggling, acrobatic and organ-grinder clown”.
Salvatore adds: “I brought Annika from Puglia to help me with the students and as
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assistant director ..”. Annika is a pretty, blonde, Norwegian girl with a strong personality.
She works in a theatre company for children “La compagnia delle
Formiche” in Sannicandro, a small town near Bari. Order and discipline helped her
improving the group's abilities, achieving very good results from Salvatore's students.
Thanks to the initial training, Annika created a solid group in which people
are able to understand each other at once in spite of the different cultures and the
different languages spoken.
“Thanks to her exercises”- Alma says - “especially the “Marathon” one, in which
everyone had to walk on the stage without a precise direction, I learnt to have a
partner on the stage, to establish a good relationship with the colleagues…and to
feel the space..”. Marko Stojanovic, protagonist of one of the most successful scenes
of the closing show, plays a dead soldier who comes back from the front and
sees his coffin followed by people who wear masks of Milosevic: “ This workshop
gave me the chance of discovering different aspects of my personality…it also helped
me to find a way of communicating with people on the stage and with people
from the rest of the world..”.
“My hard work has been appreciated” -writes Fabio in his diary- “Annika's and
Salvatore's workshop made me understand the importance of “listening”, which is one
of the basic principles of drama. Listening to ourselves and to the others is fundamental
for building up the theatrical truth, but the theatrical truth is also linked to thoughtless
actions and this is the reason why it is so difficult to find the right balance...”.
Salvatore made the right choice by including the 'Marathon' exercise in the show,
as a kind of prologue. It was a way of presenting the actors and also a way for the
actors to get to know each other. We can see them initially proceeding slowly and
gradually quickening their step as if they were running in interlaced circles. Their
eyes are fixed on each other to exchange meaningful glances, silent words and
signals. After the display they line up sitting on two rows of chairs around the empty
stage that looks like a blank page ready to be filled. Who is going to play first?
Fabio, alias Clown Bubbeo, who is wearing a white, Serbian loose shirt, starts to
improvise to the sound of a Fellinesque march, riding his chair as if it were a horse
as though he was in a circus. He then wears a military hat, transforms the chair
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into a speaker's rostrum and starts addressing the audience with a hysterical
sequence of meaningless words like Chaplin in his movie The Great Dictator. “I
used to suggest a particular theme to them like 'My Country' or 'The Sunday Best'”
-Salvatore explains- “so the actors could develop their ideas and fill the scenes
with their imagination. I only helped them with the gesture or suggesting a particular
music or telling them how to use the same objects for different purposes..”.
Francesca Montanaro is sleeping on a little sofa under a cluster of blue balloons
and Prince Charming comes dancing, to tell her, on his knees, that he has fallen
in love with her. Martina Di Genova plays a sleepwalker who walks on two parallel
lines of chairs that her escorts put under her feet as she crosses the stage as
though she were floating. Francesca loves this scene.
Why? “ because it expresses my idea of flying and lightness..”. There are choral,
individual or duo improvisations. In the background, there is a handsome chap surrounded
by a group of young girls holding blue balloons in a sort of courtship
ritual. At the same time, Enrico Di Giambattista, the small chap with thick glasses
who almost broke his back, a final-year student of political science, a Yugoslavia
Federal Republic History enthusiast, sings “Dear Pinocchio..” as praise for the
“diversity” of the wooden puppet and he gives a brief touching monologue bent on
his knees. He refers to the loneliness of all those left out from the real world. The
underlying theme of the play is not transparent but the final montage of the improvisations
stimulates free associations. After the dream of a pregnancy mimed by
Mateja Mayerle, a young Croatian girl from Opazia, Death appears on stage with
its Seventh Seal sickle looking for its predestined victim. Death is interpreted by
Marko, who will also play the phantom of the dead soldier. Sometimes the inspiration
for our plays and improvisations comes from the lyric poetry of Nazrim
Hikmet, the greatest poet in Turkey, read by Francesca, or from Shakespeare's A
Midsummer Night's Dream which reverses the roles of audience and actors with
the former on the stage and the latter in the stalls and puts an end to the “reveries”.
Alma considers that scene as an “original and interesting” way of reading
and representing the text. During the play, Fabio appears and disappears behind
the seats of the stalls as if he were in the forest of Oberon and Titania, transfor-
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med by Puck's aphrodisiac potion into a porn cinema where casual sexual encounters
take place. His performance together with the hypnotic and obsessive dialogue
between Oberon and Titania, helped him to understand the dynamics of the
characters. In his diary, Fabio writes: “the secret consists in gathering the real
essence of the play, A Midsummer Night's Dream for example, and then translating
it into a modern transposition”.
After the show, as in a Kusturica movie, a small gipsy band plays drums and wind
instruments in the foyer. The band came with Demir Kurtesi to see the show and
to celebrate the success of the Festival with actors and audience. There is a lot of
excitement. Nobody feels tired. Salvatore, Annika and the actors Martina, Enrico,
Miljan Nenad, Alma, Aldin, Mateja, Gojko, Francesca, Milenko, David, Fabio, Ajdin,
Ivana and Marko are all dancing. I join them with Dragoljub, Vladislav and Vera.
Vera is with her husband, a imposing tall man, a scientist who looks like an actor
from a Bergman film. He is a nuclear physicist who studies how substances change
from a gaseous to another state . I do not know anything about it and to make
me understand, someone puts a lighter under my nose. Later, while dancing with
the others, I think that here, as well as in the gasses process, something has changed,
people have become very close.
Before going to sleep I finished reading the diary of Marco Baliani Pinocchio nero,
(black Pinocchio) which talks about his theatrical experience with the “street
urchins” of Nairobi. That experience, promoted by the Amref and by the “Teatro
delle Briciole” of Parma, lasted three years. The aim of the project was to rehabilitate
young marginalized glue sniffers who lived in the streets and in the rubbish
dumps of Nairobi.
The project gave birth to a great show, the first African version of Collodi's
Pinocchio, which has enjoyed a lot of success in Italy and will be performed all over
Europe. Marco writes that the children threw a party at the Amref reception centre
of Dagoretti, a shantytown in Nairobi. Each of them had to bring ten friends. The
initiative was successful and created a new community. Marco, recalling a song
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dedicated by Lou Reed to Andy Warhol, writes: “The unique voice of the rocker
tells about the relationship between Andy and his mother who emigrated from
Czechoslovakia. She teaches her son how to make friends: 'the way to make
friends, Andy, is invite them up for tea, open house, open house...' ”. Suddenly all
the parties I had been to came to my mind, from the one in Smederevo to that in
Puglia at the Castello Tre Masserie. The small world of Smederevo is so big,
broad. Oh how small is the world...
Next morning I leave Smederevo, I turn looking at the Lux Group building, I notice
that there's a lamp-post not far from the window of my room and something is
moving on top of it. It is a stork. It says goodbye to me as it flaps its wings and flies
away.
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Nico Garrone is a journalist, born under the double sign of Gemini; he loves water,
warm as well as cold. He started to write on “Tempo presente”, “Quindici” and
“Caffè” directed by Giambattista Vicari. He had a two years collaboration with
“Paese sera”. He is theatre critic for “Repubblica”, since numbers zero, in '76. At
the same time he works in the television as programmer-director, being author of
several cultural programmes in RAI, during Angelo Guglielmi's direction. He has
been Estate a Radicondoli festival director for 5 years

SOMMARIO
AR.CO, Artistic Connections 3
I nuovi volti della Serbia 5
Andrò a Belgrado e Smederevo 7
In viaggio per Belgrado 11
Seduto ai tavolini del Kgb 15
A colloquio con la Lost Generation 18
La vecchia guardia 26
Il nuovo volto della Serbia 31
Il guscio vuoto di un’epoca 39
Smederevo non è distante da Belgrado 41
“Sono esaurito...” 44
“C’è un punto favoloso sul Danubio” 46
Com’è grande il piccolo mondo di Smederevo 52
SUMMARY
AR.CO, Artistic Connections 59
The new faces of Serbia 61
I’m going to Belgrade and Smederevo 63
Journey to Belgrade 67
Seatting at Kgb’s tables 70
Conversation with the Lost Generation 74
Old Masters 81
The new face of Serbia 86
The empty shell of an age 93
Smederevo is not far from Belgrade 95
“I am exhausted...” 97
“A marvellous place on the Danube” 99
The small world of Smederevo is so big 104

Coordinamento editoriale
Franco Ungaro
Supervisione
Gioacchino Salento
Progetto grafico e illustrazioni
Francesco Maggiore
Alessandro Colazzo
(Big Sur)
Finito di stampare
nel mese di luglio 2006
presso Movimedia srl, Lecce
DISTRIBUZIONE GRATUITA