AA.VV., I FORI IMPERIALI & IL COLOSSEO - Rome - The Imperial Fora
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QUINTERNI, 5<br />
ROMA<br />
TRE<br />
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI<br />
UNIVERSITÀ ROMA TRE<br />
DIPARTIMENTO DI STUDI<br />
STORICO-ARTISTICI,<br />
ARCHEOLOGICI E SULLA<br />
CONSERVAZIONE
Quinterni, 5<br />
DIPARTIMENTO DI STUDI STORICO-ARTISTICI, ARCHEOLOGICI E SULLA CONSERVAZIONE<br />
GIORNATA DELLA RICERCA 2011<br />
Roma, 7-8 giugno 2011<br />
a cura di Rita Dolce e Antonello Frongia<br />
LIBRO CO. ITALIA
Organizzazione della giornata: Rita Dolce, Antonello Frongia<br />
Progettazione e realizzazione grafica: Fabrizio Musetti<br />
Laboratorio Informatico – Dipartimento di Studi Storico-artistici, Archeologici e sulla Conservazione<br />
© 2012 LIBROCO. ITALIA<br />
via Borromeo, 48<br />
50026 San Casciano V.P. (FI) – Italia<br />
P.O. Box 23<br />
Tel. +39-55-8228461 – Fax +39-55-8228462<br />
E-mail: libroco@libroco.it – www.libroco.it<br />
ISBN: 978-88-97684-08-4
Premessa<br />
Da qualche anno, la “Giornata della Ricerca” è un appuntamento fisso nella vita del nostro<br />
dipartimento. Fin dall’inizio è stata voluta per mettere in contatto tra di loro i colleghi, da quelli<br />
più anziani ai nuovi arrivati: l’incremento del personale, tra ricercatori e professori delle due fasce,<br />
è stato notevole negli ultimi tempi, fino a contare nel 2012, mentre va in stampa questo numero<br />
di “Quinterni”, ventisei unità, distribuite in sei settori scientifico-disciplinari per gli archeologi e<br />
in quattro per gli storici dell’arte. Inoltre gli ultimi anni hanno visto l’uscita dai ruoli universitari<br />
di colleghi più anziani, spesso promotori di linee di ricerca che talvolta sono state raccolte dai più<br />
giovani, e di conseguenza un notevole ricambio di studiosi. Presentare alcune delle proprie ricerche è<br />
stato quindi per tutti noi un modo per informare, creare curiosità e collegamenti, mettere a confronto<br />
metodologie in un contesto significativamente trasformato anche solo a partire dal primo anno in cui<br />
si è deciso di dar vita a giornate come queste. Per lo stesso motivo le giornate sono sempre state aperte<br />
ai dottorandi, in modo che anch’essi potessero venire a conoscenza, al di là degli incontri programmati<br />
con i loro tutors e con il collegio dei docenti, delle possibili aperture che il confronto con tutti i<br />
membri del dipartimento mette a loro disposizione. La scelta di pubblicare, in forma estremamente<br />
sintetica, le relazioni in questi “Quinterni” è consequenziale: la collana, per la quale si è scelta fin<br />
dall’inizio una veste tipografica sobria e caratterizzata da un understatement oggi forse un po’ fuori<br />
moda ma che abbiamo consapevolmente deciso di conservare, vuole costituire una sorta di archivio<br />
della ricerca promossa o comunque portata avanti nell’ambito del dipartimento.<br />
Il taglio degli interventi che vi si possono leggere è assai diverso, come diverse, per temi e metodi,<br />
sono le ricerche. Alcuni tra di noi hanno preferito illustrare percorsi individuali, presentando in un<br />
vero e proprio contributo di taglio scientifico anche se necessariamente sintetico, i resoconti di ricerche<br />
che corrispondono ad approfondimenti di temi indagati da anni; altri hanno scelto di esporre, invece<br />
dei risultati, veri e propri progetti in fieri che coinvolgono non solo i colleghi del dipartimento ma<br />
quelli di altre università o i dottorandi e i dottori di ricerca (è il caso, ad esempio, dei progetti PRIN,<br />
ossia “Progetti di Rilevante Interesse Nazionale”, purtroppo sempre più difficili da ottenere e la cui<br />
assegnazione è ogni volta assai aleatoria, ma che il nostro dipartimento è sempre riuscito a veder<br />
finanziati anche se non nella loro totalità).<br />
Carattere qualificante del nostro dipartimento è la pluridisciplinarità, esplicitata a partire già dal<br />
titolo. La ricerca che vi si svolge riflette questo carattere composito, che include l’archeologia, la<br />
storia dell’arte e i temi della conservazione; una pluralità di voci e di metodologie che, lungi dal<br />
frammentarla, ne rendono più forte e più coesa la fisionomia. A partire dal prossimo anno, come<br />
molti altri dipartimenti anche il nostro dovrà comunque, per rispondere ai requisiti di legge, fondersi<br />
con altre realtà e trasformarsi, includendo tra l’altro tra le proprie competenze la gestione della<br />
didattica, non più demandata ai “Collegi” e alle Facoltà ma parte integrante e qualificante dell’attività<br />
dei dipartimenti. A questo appuntamento intendiamo presentarci con la massima disponibilità alla<br />
collaborazione e al dialogo, consapevoli della necessità di mettere in relazione sempre più fruttuosa<br />
le discipline dell’ambito umanistico e non solo. Ma siamo pienamente consapevoli che solo il<br />
rafforzamento della nostra specificità e delle nostre competenze consentirà l’esito positivo di questa<br />
impresa. Al nuovo dipartimento presentiamo il contributo della nostra ricerca, della quale “Quinterni”<br />
come questo offrono la concreta testimonianza.<br />
Ai colleghi Rita Dolce e Antonello Frongia, che hanno organizzato le giornate della ricerca 2011<br />
3
e hanno curato, con il fattivo e competente contributo di Fabrizio Musetti, la realizzazione di questo<br />
numero di “Quinterni” va la mia personale gratitudine e quella di tutti i colleghi.<br />
4<br />
Liliana Barroero
Nota dei curatori<br />
L’iniziativa della Giornata della Ricerca promossa dal Dipartimento di Studi Storico-artistici,<br />
Archeologici e sulla Conservazione – nata alcuni anni fa, prima che chi scrive vi approdasse – si realizza<br />
in un incontro dedicato alla reciproca conoscenza degli ambiti scientifici di ricerca dei Colleghi<br />
e dei giovani studiosi in formazione. Si tratta di un’occasione per confrontare metodologie e tematiche<br />
anche lontane tra loro, di una opportunità per misurare collettivamente le latitudini temporali e<br />
spaziali che il nostro Dipartimento accoglie al suo interno e di apprezzare le potenzialità e le risorse.<br />
L’incarico di organizzare l’incontro e i relativi atti, che ci è stato proposto per l’anno 2011, è stato<br />
assunto tenendo in conto questi tre aspetti nel corso di tutte le fasi di lavoro, nell’intento di favorire<br />
partecipazione e scambi di opinioni al di là delle linee di ricerca e dei profili metodologici di ognuno di<br />
noi. Il tentativo è stato quello di stimolare curiosità e interessi immediati per campi di conoscenza cronologicamente,<br />
geograficamente e culturalmente vari, eppure contestualmente presenti in questa occasione.<br />
La risposta di partecipazione attiva sia ai lavori, che di necessità hanno occupato quasi due giornate,<br />
sia alla ricca discussione, che ha accompagnato buona parte delle sedute, sia infine agli atti, ci<br />
pare un segnale significativo.<br />
La presentazione dei contributi nell’edizione a stampa segue il criterio cronologico delle ricerche<br />
presentate nei singoli interventi delle Giornate, per rendere chiaramente tangibile, fin dalla composizione<br />
dell’indice, l’ampia diacronia che connota la ricerca scientifica del Dipartimento, come anche<br />
la varietà di campi archeologici e storico-artistici che ciascuno di noi sta indagando.<br />
I contributi raccolti nei Quinterni restano dunque a testimoniare uno degli esiti di questo incontro, il<br />
quarto di una preziosa iniziativa, non frequente in molte sedi universitarie italiane: un’occasione che richiama<br />
discretamente la centralità della ricerca nel lavoro e nell’impegno della comunità scientifica, nonché il<br />
suo valore nella trasmissione di conoscenza e di coscienza critica alle generazioni in formazione.<br />
Rita Dolce e Antonello Frongia<br />
5
Gli arredi lignei da Ebla: una questione aperta<br />
I. LA DOCUMENTAZIONE<br />
Gli intagli lignei dal Palazzo Reale G di Ebla costituiscono una testimonianza unica nel panorama<br />
delle culture della Siria e della Mesopotamia del III millennio a. C. e ancora di recente citati come<br />
la più antica attestazione di opere del genere; opere pur<br />
rare, poiché realizzate in legno e nel caso di Ebla ritenute<br />
parti decorative di oggetti mobili, più precisamente<br />
arredi mobili di lusso.<br />
Si tratta di più di 500 reperti, a soggetti umani,<br />
animali e mitici, ridotti in maggior parte in frammenti<br />
minimi, dai 14 cm. ca. dell’unica figura pressoché completa<br />
fino ai 6 mm. di resti di un piede (fig. 1), originariamente<br />
parte di rilievi piani, a mezzo e a tutto tondo, di<br />
alto livello tecnico e qualitativo, ove al legno si associa la<br />
madreperla per inserzioni decorative fissate con bitume.<br />
Del corpus sono attualmente allo studio i resti a<br />
soggetto umano maschile e femminile individuati con<br />
certezza, circa il 27% dell’intera documentazione recu-<br />
perata, ai quali seguirà l’analisi e, laddove possibile,<br />
l’ipotesi ricostruttiva dei frammenti di abbigliamento,<br />
circa il 21%; tali dati ci forniscono già una indicazione<br />
significativa sulla entità di soggetti umani nel complesso di frammenti superstiti.<br />
Un aspetto nel metodo d’indagine in corso riguarda la ricostruzione delle dimensioni originarie di singole<br />
opere, a partire dai resti più ampi: se ne trae per il momento qualche indicazione per una scala dimensionale<br />
non omogenea, ove per soggetti di stesso genere si rilevano misure differenziate. Casi evidenti sono quelli di<br />
personaggi ove le altezze certe dei busti maschili (2,5 cm., 2,2 cm.) e della testa femminile (2,7 cm.) (fig. 2)<br />
mostrano scarti apprezzabili nelle originarie dimensioni<br />
per le figure intere rispetto a quelle dei pochi<br />
intagli più largamente conservati, tra i 14 e i 15 cm.,<br />
come su fig. 1 (TM.74.G.1000).<br />
Il prosieguo del lavoro su un ampio numero<br />
di frammenti significativi da tutti i soggetti del<br />
corpus potrebbe condurre a individuare serie di<br />
Fig. 2 – Tell Mardikh-Ebla. Palazzo Reale G, locus 2601<br />
a) Resti di eroi incedenti verso destra<br />
b) Testa e parte di busto di guerriero con elmo a lunghi guanciali<br />
c) Figura femminile con elaborata acconciatura a ciocche e<br />
mantello frangiato<br />
6<br />
Fig. 1 – Tell Mardikh-Ebla. Palazzo Reale G, locus 2601<br />
a) Personaggio maschile con insegne e copricapo regale<br />
b) Piede destro, con indicazione di quattro dita<br />
figure di diverse scale, ed estendere il campo dei<br />
tipi di “arredi” ai quali le opere appartenevano.<br />
La paziente ricostruzione realizzata da tempo di<br />
alcuni resti lignei (della specie pomoideae, circoscrivibile<br />
al pero e al melo, ancora d’uso nell’ar-<br />
tigianato attuale) riconduce ad un tavolo, del quale restano tre assi del piano originariamente tenute<br />
insieme da un sistema di forcelle in osso, e alle parti laterali di un seggio, in entrambi i casi con i rilievi<br />
figurativi intagliati “a giorno” fissati ai listelli da chiodini o piccoli tenoni lungo le parti inferiori delle<br />
fiancate degli arredi.
II. CONDIZIONI E CONTESTO DI RITROVAMENTO<br />
La produzione ad intaglio e l’ebanisteria in genere trova riscontro nei dati dei testi degli Archivi di Ebla,<br />
ove si registra un numero rilevante di artigiani preposti alla lavorazione del legno (insieme a quelli dediti<br />
ai metalli) da un minimo di 140 a un massimo di 260 tra falegnami e carpentieri lavoranti per il Palazzo.<br />
Ciò che appare una delle questioni aperte e sulla quale si focalizza la ricerca in corso riguarda la tipologia<br />
e la funzione dei manufatti di lusso ai quali gli intagli appartenevano, forse non solo relative ad arredi<br />
di ambienti palatini, come finora si è ritenuto. La combinazione di dati, pregressi e più recenti, d’ordine<br />
archeologico e testuale ci permette infatti di riconsiderare l’interpretazione dei manufatti originari<br />
partendo dalle relazioni spaziali ormai evidenti dell’Ala<br />
Nord e degli adiacenti settori settentrionale e occidentale<br />
del Palazzo G (fig. 3). Nel corso delle campagne di scavo<br />
dal 2000 al 2007, anno conclusivo dell’esplorazione di questo<br />
settore palatino, si raggiunse in primo luogo l’esposizione<br />
di due vani all’estremità Nord (L.8606 e L.8605) ove sui<br />
pavimenti giacevano ancora preziosi resti della produzione<br />
artistica di Ebla protosiriana (2400-2300 a. C. ca.), scampati<br />
al saccheggio dopo la conquista della città, che qualificano<br />
questo Quartiere non già come “periferico” ma a carattere<br />
centrale nel sistema palatino; in secondo luogo, l’esposizio-<br />
ne della comunicazione certa fra due vani maggiori, L.2601, sul pavimento del quale giacevano tutti i<br />
frammenti lignei, e L.2586 ove fu recuperato un lotto di tavolette iscritte databili all’ultima fase del regno<br />
di Ebla, prima della sua distruzione intorno al 2300 a. C., che indica una relazione non casuale tra i due<br />
ambienti, supportata dal contenuto dei documenti scritti; in terzo luogo, nelle due campagne più recenti<br />
in quell’area, l’esposizione di due vani (L.9583, L.9330) che rappresentano l’estremo lembo ancora conservato<br />
sul versante Ovest, di certo organici al Quartiere, e che hanno restituito dai pavimenti sculture<br />
miniaturistiche a tutto tondo dal cuore ligneo e con rivestimento in oro e argento, di pregio intrinseco e<br />
di alto valore simbolico nella concezione della regalità eblaita. È dunque questo un Quartiere ove confluivano<br />
manufatti di lusso di particolare eccellenza, tra i quali gli intagli lignei e forse immagini di personaggi<br />
femminili illustri della dinastia regnante, nel caso della microsculture.<br />
III. QUALE FUNZIONE DEL QUARTIERE NORD E QUALE DEI MANUFATTI LIGNEI?<br />
Fig. 3 – Tell Mardikh-Ebla. Il Palazzo Reale G,<br />
veduta assonometrica<br />
Appare evidente dal complesso dei dati, dei quali qui solo alcuni richiamati e sommariamente, che<br />
il Quartiere Nord/Nord-Ovest non prevedeva comunicazioni con la platea della Grande Corte a Sud<br />
né con l’area residenziale privata e dei servizi, ad Est (fig. 3) ma verosimilmente a mio avviso un accesso<br />
indipendente, ormai perduto, proprio sul versante Nord/Nord-Ovest; e che al di là del carattere regale<br />
resta ancora aperta la definizione della sua funzione nell’economia del Palazzo G.<br />
Su tale quesito e in relazione alle opere lignee oggetto della ricerca soccorrono i testi di registrazione<br />
di beni per manufatti pregiati rinvenuti proprio nel vano sopraccitato (L.2586) attiguo a quello di<br />
giacitura degli intagli (L.2601): si tratta infatti di un “archivio speciale”, redatto secondo i filologi da<br />
scribi diversi da quelli operanti nella cancelleria centrale e datato su base prosopografica poco prima<br />
della rovina del regno di Ebla. Attiene per lo più testi di registrazione di consegne di oggetti preziosi in<br />
oro e argento a re stranieri e ad alti funzionari dell’amministrazione palatina, riguardanti manufatti in<br />
argento ed oro identificati dai termini come bardature e briglie di equidi, o connessi con gli apparati<br />
7
esornativi di carri da parata, produzione ben nota dai testi dell’Archivio maggiore palatino (L.2769) e<br />
destinata a membri eminenti maschili e femminili della corte. Il destinatario più ricorrente è il primo<br />
ministro dell’ultimo periodo del regno di Ebla, Ibbi-Zikir, noto dai documenti provenienti dall’Archivio<br />
centrale suddetto come massimo funzionario dell’apparato amministrativo, militare e politico<br />
prima dell’epilogo di Ebla, in una rapida ascesa al suo potere personale. La relazione spaziale tra i due<br />
vani e la presenza unitaria degli intagli lignei in uno di essi (L.2601) ha già indotto i filologi a correlare<br />
il contenuto dei testi ai manufatti e a considerare quello spazio adibito alla conservazione di elementi<br />
pregiati e di distinzione sociale di equipaggiamento per animali e carri; e trova ora conferme da ulteriori<br />
evidenze, archeologiche e testuali, che gettano una luce diversa sul carattere funzionale dell’intero<br />
Quartiere. Si citano al riguardo in questa sede le attestazioni degli Archivi di preziosi carri da parata istoriati<br />
appannaggio dei massimi funzionari del regno e della regina madre; un anello in bronzo rinvenuto<br />
nello stesso vano (L.9583) delle sculture miniaturistiche in oro e argento che richiama per tipologia,<br />
dimensioni e fattura i passabriglie dei carri del Cimitero Reale di Ur e in specie delle tombe di Kish<br />
della Mesopotamia coeva. Evidenze, queste, ed altre concorrenti da Ebla stessa e da centri maggiori<br />
della Siria nella valle del Khabur per il commercio e la circolazione di equidi, che inducono a ipotizzare<br />
che il settore Nord e Nord-Ovest dell’Ala Nord del Palazzo G fosse adibito a funzioni connesse a tale<br />
ambito del patrimonio palatino e a ritenere il vano ove giacevano gli intagli lignei luogo deputato ad<br />
accogliere temporaneamente manufatti di lusso appartenenti a diverse tipologie ma di certo comprese<br />
quelle registrate nell’Archivio adiacente (L.2586).<br />
8<br />
Rita Dolce<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
Le bibliografie qui indicate attengono solo parzialmente il supporto della ricerca in corso che ha esposizione<br />
esaustiva e apparato bibliografico esauriente nel contributo all’edizione degli Atti della Rencontre Assyriologique<br />
Internationale, Roma “La Sapienza”, 4-8 luglio 2011, in corso di stampa.<br />
A. ARCHI, Gli Archivi di Ebla (ca. 2400-2350 a. C.): Archivi dell’Oriente antico, in «Archivi e Cultura» 29 N.S.<br />
(1996), pp. 57-86.<br />
A. ARCHI, <strong>The</strong> Regional State of Nagar According to the Texts of Ebla, in «Subartu» IV/2 (1998), pp. 1-15.<br />
M.G. BIGA, Archive L.2586, in Eblaite Personal Names and Semitic Name-Giving (ARES 1), a cura di A. Archi,<br />
Roma 1988, pp. 285-287.<br />
M.G. BIGA, La struttura ed il funzionamento dei magazzini nei sistemi centralizzati in Mesopotamia ed in Siria:<br />
alcuni dati dei testi del terzo millennio, in «Origini» 14 (1988-1989), pp. 585-594.<br />
M.G. BIGA, Buried among the Living at Ebla? Funerary Practices and Rites in a XXIV Cent. B.C. Syrian Kingdom,<br />
in Atti del Convegno Internazionale “Sepolti tra i vivi-Buried among the Living”, Roma, 26-29 Aprile 2006<br />
(Scienze dell’Antichità 14), a cura di G. Bartoloni, M.G. Benedettini, Roma 2007-2008, pp. 249-275.<br />
Dictionnaire de la Civilisation Mésopotamienne, a cura di C. Castel et al., Paris 2002, pp. 135-138, 537-539.<br />
G. CONTI, Carri ed equipaggi nei testi di Ebla, in «Miscellanea Eblaitica» 4 (1997), pp. 23-71.<br />
H. CRAWFORD, <strong>The</strong> Earliest Evidence from Mesopotamia, in <strong>The</strong> Furniture of Western Asia Ancient and Traditional,<br />
a cura di G. Hermann, Mainz 1996, pp. 33-39.<br />
P. MATTHIAE, Syrische Kunst, in Der Alte Orient (PKG XIV), a cura di W. Orthmann, Berlin 1975, pp. 466-473,<br />
487-488.<br />
P. MATTHIAE, Ebla à l’époque d’Akkad: Archéologie et Histoire, in «CRAIBL» (1976), pp. 190-215.<br />
P. MATTHIAE, Le Palais Royal et les Archives d’Etat d’Ebla protosyrienne, «Akkadica» 2 (1977), pp. 2-19.<br />
P. MATTHIAE, Ebla in the Period of the Amorite Dynasties and the Dynasty of Akkad: Recent Archaeological<br />
Discoveries at Tell Mardikh (1975) (MANE I), Malibu 1979.<br />
P. MATTHIAE, Ebla. Un impero ritrovato, II ed., Torino 1989.<br />
P. MATTHIAE, Gli Archivi Reali di Ebla, Roma 2008.<br />
P. MATTHIAE, <strong>The</strong> Standard of the maliktum of Ebla in the Royal Archives Period, in «ZA» 99 (2009), pp. 270-311.
D. OATES, J. OATES, Ebla and Nagar, in Ina kibrāt erbetti. Studi di Archeologia orientale dedicati a Paolo<br />
Matthiae, a cura di F. Baffi et al., Roma 2006, pp. 399-423 (401-404: pertinenti).<br />
L.C. WATELIN, S. LANGDON, Excavations at Kish, IV, Paris 1934.<br />
C.L. WOOLLEY, Ur Excavations II. <strong>The</strong> Royal Cemetery, London/Philadelphia 1934.<br />
Attività di ricerca della cattedra di Paletnologia nel 2010<br />
Nel 2010, le attività afferenti all’insegnamento di Paletnologia da me tenuto sono state essenzialmente tre:<br />
1) la prosecuzione del survey nell’ambito del seminario sull’Appia Antica (coordinato assieme a<br />
Daniele Manacorda, Maura Medri e Riccardo Santangeli);<br />
2) la partecipazione degli studenti alla campagna di scavo di Fossa, in Abruzzo (v. Pennacchioni,<br />
infra);<br />
3) lo scavo nel sito di Colle Rotondo (Anzio), cui dedico questo breve intervento (sulle ricerche del<br />
2009, qui presentate nel 2010, v. ora Guidi, Jaia, Cifani 2011).<br />
Tra il 21.06.2010 e il 16.07.2010 è stata effettuata la prima campagna di scavo in località Colle<br />
Rotondo, nel comune di Anzio.<br />
Ai lavori sul campo, coordinati da me, da Alessandro Maria Jaia (Università di Roma La Sapienza)<br />
e Gabriele Cifani (Università di Roma Tor Vergata) hanno preso parte circa 20 studenti dell’Università<br />
di Roma Tre, affiancati dal dott. Fabrizio Felici, archeologo della società Parsifal.<br />
I materiali raccolti sono stati depositati presso il Museo di Anzio, in accordo con la Soprintendenza<br />
per i Beni Archeologici del Lazio e la direzione del Museo (dott.ssa Giusy Canzoneri) e grazie al coordinamento<br />
della dott.ssa Emanuela Fulceri, borsista dell’Università di Roma Tor Vergata.<br />
Le indagini si sono concentrate su tre aree di scavo<br />
(per la posizione vedi fig. 1).<br />
AREA 1<br />
Presso i resti dell’aggere maggiore dell’abitato, sul<br />
limite; l’attività è consistita nella ripulitura di una sezione<br />
dell’aggere e nella realizzazione di due ampi sondaggi.<br />
La struttura difensiva, che si presentava ancora intatta<br />
Fig. 1 – Colle Rotondo (Anzio), aree di scavo<br />
fino a circa dieci anni, è stata in larga parte sbancata negli<br />
ultimi anni e ne sopravvive solo una ridotta porzione<br />
dell’angolo settentrionale.<br />
In questa area sono stati realizzati due ampi sondaggi tra la sezione e i bordi orientale ed occidentale<br />
che hanno individuato un ampio battuto di colore rosso con buche che conservano copiosi resti<br />
di palo con pareti in graticcio ed argilla.<br />
Alcuni resti di carboni riferibili ai pali della struttura sono stati campionati; minuti frammenti di<br />
impasto non diagnostici, raccolti per lo più fuori contesto stratigrafico, sembrano comunque suggerire<br />
una cronologia ad epoca protostorica della struttura lignea che sarebbe stata in un secondo momento<br />
obliterata dalla costruzione dell’aggere difensivo, costruito secondo i canoni ben documentati in altri<br />
abitati di età protostorica.<br />
Lo studio delle quote ha permesso inoltre di notare che il piano di calpestio si trova a circa 50 cm<br />
al di sopra dell’attuale strato di arativo della parte centrale del pianoro e questo aspetto, insieme ad<br />
9
ulteriori dati dalla Area 2 lascia intuire un accentuato fenomeno di erosione del paleosuolo e dei<br />
depositi antropici, almeno nella parte centrale ed orientale del pianoro.<br />
Le datazioni al C14 effettuate su due resti di pali carbonizzati presso il CEDAD (Università di<br />
Lecce), hanno offerto i seguenti risultati:<br />
10<br />
CODICE CEDAD CAMPIONE<br />
DATAZIONE CALIBRATA<br />
(LIVELLO DI CONFIDENZA 2s)<br />
LTL6039A US108 1020BC (95.4%) 810BC<br />
LTL6040A US106 930BC (95.4%) 790BC<br />
Si può forse ipotizzare che il battuto, i pali e altri elementi lignei orizzontali facessero parte di<br />
un grande apprestamento difensivo precedente gli aggeres tradizionali dell’età del ferro e del periodo<br />
arcaico. Alla verifica di tale ipotesi sarà dedicata la prossima campagna di scavo.<br />
AREA 2<br />
Sondaggio di scavo effettuato nel settore centrale dell’abitato. Ha restituito una situazione stratigrafica<br />
compromessa.<br />
Sono state individuati i resti di alcune fosse scavate nel banco di tufo con frammisto un riempimento<br />
contenente materiale ceramico di impasto, minuti frammenti di bucchero nero e tegole.<br />
L’ipotesi di lavoro è che si tratti dei resti di possibili cisterne o fosse di scarico, scavate nel banco<br />
di tufo ed originariamente a quote più basse rispetto al piano di calpestio e di cui sono rimaste solo<br />
parte delle estremità inferiori a causa dell’erosione del pianoro che ha interessato anche parte del<br />
banco di tufo.<br />
AREA 3<br />
Vi è stato rinvenuto un ampio e compatto strato di frammenti tegole chiaro sabbiose, ceramica<br />
comune acroma, dolia e ceramica a vernice nera da riferire ai resti di strutture di epoca medio<br />
repubblicana.<br />
Un approfondimento sul lato settentrionale del quadrato ha rivelato la seguente sequenza stratigrafica:<br />
circa m. 0,6 di strato di terreno arativo che coprono circa m. 1,1 di strati antropici (con<br />
ceramica prevalentemente di epoca romana medio repubblicana) e che coprono a loro volta il banco<br />
naturale formato da un deposito piroclastico di tufo rosso litoide.<br />
Appare indubbio pertanto che in questa area l’erosione del suolo manifesta caratteri meno accentuati<br />
che nel resto dell’unità orografica.<br />
Interessante il rinvenimento, in giacitura secondaria, di una punta di freccia in selce.<br />
Parallela all’attività di scavo è proceduta quella del rilevamento dell’intero pianoro dell’abitato<br />
antico, mediante stazione totale eseguito da Federico Nomi, Giulia Peresso e Gabriele Cifani.<br />
Complessivamente sono stati battuti circa 1.300 punti comprensivi di quote la cui elaborazione<br />
consentirà un’accurata planimetria dell’area, cui agganciare anche le coordinate dei saggi di scavo,<br />
nonché di delineare un modello tridimensionale della sommità del pianoro.<br />
Per quanto concerne i saggi di scavo, questi sono stati documentati mediante rilievi di dettaglio
di ogni singola unità stratigrafica e mediante ortofotopiani eseguiti da Federico Nomi.<br />
Alessandro Guidi<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
A. GUIDI, A. JAIA, G. CIFANI, Nuove ricerche nel territorio di Colle Rotondo ad Anzio (Roma), in «Lazio e Sabina», n. 7<br />
(Atti del Convegno, Roma, 9-11 marzo 2010), Roma 2011, pp. 371-380.<br />
Attività di ricerca degli studenti dell’Università Roma Tre nella necropoli di Fossa (AQ)<br />
Nell’estate 2010, il tirocinio formativo rivolto agli studenti, coordinato dalla cattedra di<br />
Paletnologia (prof. Guidi, dott. Pennacchioni) in sintonia ed in collaborazione con la Soprintendenza<br />
Archeologica d’Abruzzo (dott. D’Ercole), è stato effettuato nella necropoli vestina di Fossa (AQ). Vi<br />
hanno preso parte 19 studenti organizzati in due turni, dal 19 luglio al 6 agosto.<br />
La Necropoli, scoperta casualmente nel 1992 durante i lavori di scavo per la realizzazione di un’area<br />
industriale, è stata oggetto di scavi regolari negli anni successivi (COSENTINO, D’ERCOLE, MIELI 2001) ed<br />
ha restituito centinaia di tombe databili tra la fine del IX sec. a.C. ed il I secolo d.C.<br />
La fase più antica (IX-VIII sec. a.C.) presenta generalmente grandi tumuli delimitati da circoli di<br />
pietre, con una unica sepoltura centrale, ed una fila di monoliti di dimensioni decrescenti a partire<br />
dal tumulo. Le tombe a fossa profonda sono rare.<br />
Al VII sec. a.C. sono attribuibili tumuli di minori dimensioni privi di stele e spesso anche di margini,<br />
con una o più sepolture all’interno mentre aumentano le tombe a fossa che saranno le sepolture più comuni<br />
dal VI sec a.C.: si tratta per lo più di fosse rettangolari con margine delimitato da file di sassi, più raramente<br />
rivestite ed in qualche caso con piano di deposizione realizzato con elementi litici (D’ERCOLE, BENELLI 2004).<br />
Le ultime fasi di utilizzo della necropoli ricadono nell’età ellenistico-romana e presentano una<br />
varietà di tombe a fossa (le ultime datate alla metà del I sec. a.C.) e a camera, queste ultime anche<br />
monumentali, per le quali sono state utilizzate grandi lastre litiche; alcune di queste tombe sono<br />
molto ricche ed alcune (al momento sono sei) hanno rivelato la presenza di letti rivestiti con osso<br />
lavorato (D’ERCOLE, COPERSINO 2003).<br />
Due tombe isolate ad incinerazione chiudono, nel I secolo d.C., l’uso della necropoli. Dalla foto<br />
aerea dell’area di scavo della necropoli sono evidenti le strutture delle tombe a circolo della prima<br />
età del ferro, in particolare la tomba 300 con un<br />
diametro di crepidine di 18 m.; sulla sommità del<br />
tumulo è impostata la tomba a camera 63 con sepolti<br />
tre individui e cronologia desunta dagli elementi del<br />
corredo tra la fine del II sec. a.C. e gli inizi del I sec.<br />
d.C. (fig. 1).<br />
L’attività di scavo in questo importante sito, ferma<br />
da nove anni per mancanza di fondi, ha beneficiato nel<br />
2010 di un contributo per il restauro delle strutture<br />
danneggiate dal sisma del 6 aprile 2009.<br />
È stato in questo modo possibile programmare una<br />
campagna di scavi che si è avvalsa della collaborazione di Fig. 1 – Necropoli di Fossa, foto aerea<br />
11
numerosi studenti e laureandi di Roma Tre coordinati da chi scrive, con l’intento preciso di esplorare<br />
una larga porzione di necropoli che potesse dare indicazioni sulla reale estensione dell’area adibita a<br />
sepoltura e sulla presenza di settori, strade, delimitazioni.<br />
L’area indagata, posizionata a sud-est del nucleo principale della necropoli su una porzione di terreno<br />
leggermente sopraelevata rispetto al piano di deposizione dei tumuli più antichi, è di circa 200 mq. Qui sono<br />
state rinvenute sette sepolture databili dalla prima età del ferro all’età arcaica ed un ampia area lastricata.<br />
Una prima sepoltura, a ridosso della vecchia area di scavi, era segnalata da un grande masso avente<br />
funzione di segnacolo e da una fila di pietre che delimitavano i bordi di una profonda fossa appena<br />
disturbata su un lato lungo da una sepoltura infantile di età arcaica. Una sorta di sacello rivestito<br />
e coperto da pietre conteneva una grande olla di impasto rosso con dipinti motivi geometrici in<br />
bianco, sormontata da un coperchio dello stesso impasto rosso dipinto e con all’interno un attingitoio<br />
anch’esso in impasto rosso con superficie brillante e motivi<br />
bianchi. Il ricco corredo, in parte posizionato su una banchina<br />
laterale, si compone di elementi metallici che denotano l’importanza<br />
del defunto. Tra questi, le armi in ferro (una spada corta<br />
con fodero ed un coltello), un attingitoio in lamina bronzea, un<br />
bacile in bronzo e numerose fibule in ferro (fig. 2).<br />
Sulla base delle caratteristiche la cronologia si attesta alla<br />
fase 1B della necropoli di Fossa (metà VIII sec. a.C).<br />
Un primo elemento di interesse è dato dal “servizio”<br />
composto da dolio, attingitoio e coperchio (per la prima<br />
volta attestato a Fossa in questa età). Un secondo dato è la<br />
conferma della inumazione in fossa durante la prima età del<br />
ferro. Alla mancanza dei resti dell’inumato non è ancora stata<br />
Fig. 2 – Tomba a fossa in fase di scavo<br />
12<br />
data una interpretazione, in attesa delle analisi del terreno. Il<br />
restauro del materiale è ancora in corso e la documentazione<br />
porterà sicuramente nuovi e significativi elementi. Una tomba a circolo ed altri due tumuli, inquadrabili<br />
cronologicamente intorno al VII sec. a.C. hanno restituito scarsi elementi di corredo mentre<br />
altre sepolture, troppo superficiali, erano gravemente danneggiate da lavori agricoli e quasi prive di<br />
reperti (solo frammentini ceramici e metallici molto erosi).<br />
Il proseguimento della pulizia nell’angolo nord-est del saggio ha portato a scoprire un ampio lastricato<br />
formato da pietrame e ciottoli di piccole dimensioni. Infine, sul lato est è venuto in luce un allineamento di<br />
pietre già notato in precedenti scavi, di incerta pertinenza<br />
e cronologia (fig. 3).<br />
Il materiale recuperato è stato sottoposto a pulizia<br />
e restauro presso il laboratorio di Capestrano. Gli<br />
studenti sono stati impegnati, a rotazione, sia nello<br />
scavo che nella documentazione, sul campo ed in laboratorio,<br />
che nel restauro. L’opportunità di intervenire<br />
in un sito di grande rilievo sia per estensione che per<br />
importanza delle testimonianze rinvenute, ampiamen-<br />
te illustrate nei tre volumi editi a cura di Vincenzo<br />
d’Ercole e collaboratori, ha fornito stimoli notevoli ai<br />
Fig. 3 – La tomba a circolo, i due tumuli orientalizzanti e,<br />
sullo sfondo, l'allineamento di pietre
partecipanti ed arricchito il loro bagaglio culturale e professionale.<br />
Hanno partecipato: Alessio Agostini, Martina Bernardi, Eugenia Cesare, Daniele Ciangola,<br />
Cristina Cumbo, Davide De Giovanni, Stefano De Luca, Agnese Fiore, Federico Floridi, Ilaria<br />
Frumenti, Cecilia Galleano, Cinzia Mereu, Flavia Piciarelli, Camilla Pintus, Michele Romano,<br />
Francesco Silvestri, Andrea Simeoni, Michela Stefani, Mariele Valci.<br />
Massimo Pennacchioni<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
S. COSENTINO, V. D’ERCOLE, G. MIELI, La necropoli di Fossa, vol. I, Ascoli Piceno 2001.<br />
V. D’ERCOLE, E. BENELLI, La necropoli di Fossa, vol. II, Sambuceto di S. Giovanni Teatino 2004.<br />
V. D’ERCOLE, M. R. COPERSINO, La necropoli di Fossa, vol. IV, Sambuceto di S. Giovanni Teatino 2003.<br />
Verso una storia della conservazione del Patrimonio Culturale in Cina<br />
In Cina, fin da epoche assai remote il restauro è stato concepito come azione volta a mantenere costantemente<br />
integra l’immagine originale del manufatto nel corso del suo trasferimento al futuro, anche a costo di<br />
sostituirne progressivamente ogni parte fino all’estremo limite della perdita della materia originale.<br />
Salvatore Settis, riferendosi allo storico dell’arte cinese Wu Hong, ha recentemente affermato che<br />
«nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle;<br />
le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza<br />
delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell’arte e nella letteratura». In Cina è certamente<br />
mancata la vocazione pedagogica della rovina e ciò ha impedito lo svilupparsi del dibattito sull’autenticità<br />
dell’opera d’arte che invece in occidente trova un antico precedente nel noto paradosso di Teseo,<br />
derivante dalle vicende riferite da Plutarco nella vita dell’eroe ateniese. La bibliografia cinese sulle fonti<br />
della storia dell’arte e dell’archeologia è assai scarsa. Dopo gli studi pionieristici di Raphaël Petrucci nei<br />
primi venti anni del Novecento, Mario Bussagli, a metà degli anni ’60, ha indagato le fonti e la letteratura<br />
artistica cinese, seguito più tardi dallo studioso sino-francese François Cheng con il memorabile saggio<br />
Vuoto e pieno: il linguaggio della pittura cinese. La storia del restauro del Novecento è stata ricostruita da<br />
Jocelyne Fresnais nel volume La protezione del patrimonio nella Repubblica Popolare di Cina: 1949-1999.<br />
Altro contributo fondamentale è il volume pubblicato nel 2003 dallo studioso sino-francese Zhang Liang<br />
La nascita del concetto di patrimonio in Cina tra i secoli XIX e XX. Mancava tuttavia uno studio completo<br />
delle fonti antiche relative alla storia delle tecniche artistiche e alla storia del restauro. Interessanti<br />
spunti metodologici per una ricerca di questo tipo sono offerti dalla monumentale opera Scienza e<br />
civiltà della Cina di Joseph Needham.<br />
Terminata la Rivoluzione Culturale, e a seguito delle aperture verso l’Occidente, in Cina si diffondeva<br />
una concezione pseudo-scientifica del restauro e soltanto negli ultimi dieci anni si registrava<br />
la nascita di un vero e proprio pensiero storico-critico, anche grazie alla recente traduzione in lingua<br />
cinese della Teoria del Restauro di Brandi, sperimentata nell’ambito delle attività didattiche presso il<br />
Sino-Italian Conservation Training Center diretto da chi scrive.<br />
La fase iniziale della ricerca, di cui in questa sede vengono riferiti i primi risultati, è consistita<br />
in uno spoglio delle fonti relativo ad un ampio arco temporale che va dal periodo delle Primavere e<br />
Autunni (VIII sec. a. C.) fino alla prima metà del Novecento.<br />
13
Fin dalle epoche più remote (Dinastie Xia, Shang e Zhou), a partire dal secondo millennio, è<br />
attestato un elevato grado di apprezzamento estetico del vasellame in bronzo e delle giade risalenti ad<br />
epoche più antiche; minore attenzione era riservata ai manufatti in ceramica che non erano ritenuti<br />
di pari valore ideologico e simbolico. Tali differenze tra diverse categorie di manufatti hanno condizionato<br />
fortemente le attenzioni e le cure per la loro conservazione e, in conseguenza, le metodologie<br />
del restauro tradizionale che successivamente sono state messe a punto in Cina.<br />
Lo studioso Ruan Yuan (1764-1849) riferisce delle diverse forme di considerazione che caratterizzano<br />
la storia del vasellame in bronzo in Cina: prima della Dinastia Han il manufatto in bronzo<br />
era considerato un emblema del potere; dalla Dinastia Han alla Dinastia Song i ritrovamenti di vasi<br />
arcaici erano considerati fatti eccezionali e portentosi.<br />
Durante il Periodo delle Primavere e Autunni (770-256 a. C.) erano attive centinaia di scuole<br />
dedicate alla produzione di manufatti. Il Kao Gong Ji (Manuale di tecniche metallurgiche) è il testo<br />
più importante di quel periodo e riassume esperienze sulle diverse tecniche produttive dei manufatti<br />
e riporta informazioni sui metodi di cura e di conservazione in relazione alle raccolte di antichità, con<br />
particolare riferimento agli oggetti di metallo (bronzo, oro e argento). Già in quell’epoca erano praticate<br />
la manutenzione e il restauro.<br />
Altre attestazioni specifiche collegate alle pratiche di restauro si riscontrano nell’opera Lushi<br />
Chunqiu (Annali del periodo delle Primavere e Autunni di Lu), compilata attorno al 239 a.C. in cui si<br />
menzionano trattamenti specifici per i manufatti in bronzo.<br />
Il primo trattato di estetica è il Gu Hua Pin Lu (Repertorio e classificazione degli antichi pittori),<br />
opera attribuita a Xie He, pittore di ritratti attivo a Nanchino intorno al 500 d. C.<br />
Nel trattato di Xie He sono riportate le 6 Leggi della pittura (Huìhuà Liùfǎ) da alcuni studiosi<br />
accostate ai Sei Rami della teoria indiana dell’arte. Vi è un accordo unanime circa il fatto che le Sei<br />
Leggi di Xie He costituiscano il primo tentativo di teorizzazione dell’arte visiva cinese attraverso la<br />
definizione del percorso che l’artista deve seguire per raggiungere produrre una vera opera d’arte:<br />
1) lo spirito vitale del pittore deve essere trasferito dall’artista all’opera;<br />
2) il pennello deve essere usato in modo essenziale;<br />
3) nel ritrarre si deve essere fedeli alle forme a cui ci si ispira o che si copiano;<br />
4) i colori devono essere conformi ai modelli;<br />
5) ogni elemento della composizione deve avere un’idonea collocazione;<br />
6) si deve favorire l’esercizio e l’esperienza attraverso la realizzazione di copie dei dipinti classici<br />
(affinché in questa fase possa verificarsi nell’allievo lo stesso fluire del Qi che avviene nel<br />
Maestro e che crea movimento di vita e pertanto la vera creatività artistica).<br />
Quando l’allievo avrà compreso il processo creativo che il Maestro vive in sé, solo allora potrà produrre<br />
un’opera d’arte, ma non si tratterà, anche in quel caso, di un’opera completamente originale poiché in<br />
essa sarà presente una parte derivante dal Maestro e così si perpetuerà la “trasmissione dello spirito degli<br />
antichi”. Pertanto la copia non è affatto di secondaria importanza rispetto all’originale, poiché l’atto del<br />
copiare è inevitabile ed è parte del processo di trasmissione del fenomeno di produzione dell’arte.<br />
Nel testo Qimin Yaoshu (Principali tecniche per il raggiungimento del benessere per la gente), redatto<br />
durante la Dinastia Wei Occidentali (535-557 d. C.), alcuni capitoli sono dedicati alla conservazione<br />
antiquariale.<br />
A partire dalla Dinastia Song (960-1279) si sviluppa l’interesse dei collezionisti, degli antiquari<br />
e dei filologi per i vasi arcaici in perfetta continuità con le tradizioni precedenti. Nell’anno 1092 Lu<br />
14
Dalin (1046-1092) pubblica la monumentale opera Kao Gu Tu (Figure per lo studio delle cose antiche)<br />
nella quale vengono illustrati e catalogati con criteri tipologici rigorosi ben 211 opere della collezione<br />
imperiale e 37 manufatti provenienti da collezioni private.<br />
Nell’antica letteratura cinese sono rari i testi dedicati in modo specifico alla tutela del patrimonio<br />
culturale. Precisi riferimenti ai metodi di restauro e di manutenzione degli antichi edifici sono contenuti<br />
in opere come il Mengxi Bitan (Memorie di scambi epistolari), opera di Shen Guo(1031-1095)<br />
ricca di notazioni scientifiche e tecnologiche o come il Duonengbishi(Manuale per la realizzazione di<br />
ogni sorta di oggetto), scritto da Liu Ji(1311-1375) durante l’epoca Ming, nel quale sono descritte le<br />
tecniche della colorazione della seta con estratti del tè verde.<br />
Durante la Dinastia Song venne redatto il testo Huangshi (Storia della pittura), opera del poeta Mi<br />
Fu, nel quale sono descritte in modo specifico le tecniche di impermeabilizzazione e di essiccazione<br />
utilizzate sui dipinti su rotolo. Durante l’epoca Song erano diffuse le copie di manufatti in bronzo,<br />
realizzate sul modello degli originali risalenti alle Dinastie Shang e Zhou.<br />
In quel periodo inoltre era praticato lo studio epigrafico che stimolerà in maniera determinante<br />
lo sviluppo dei procedimenti di restauro.<br />
Durante la Dinastia Yuan (1271-1368 d. C.) la pratica della duplicazione dei manufatti antichi<br />
perse importanza a causa delle lunghe guerre e la qualità dei risultati peggiorava rispetto alle repliche<br />
che erano state prodotte durante la Dinastia Song.<br />
Durante l’epoca Ming molte sculture subirono numerosi restauri integrativi. Uno dei casi più emblematici<br />
è quello riscontrato nelle straordinarie sculture del sito rupestre di Dazu nel quale sono conservate<br />
ben 50.000 sculture e iscrizioni, localizzato nella Cina Centrale, presso la megalopoli di Chongqing.<br />
Nel corso di un recente restauro della statua della divinità Guanyin detta “delle 1000 mani” sono<br />
state scoperte numerose applicazioni parziali della doratura, certamente di restauro.<br />
Il testo Zhuanghuangzhi(Trattato sui metodi di decorazione), redatto da Zhou Jiazhou(1522-1620)<br />
durante la Dinastia Ming, descrive i processi di alterazione dei pigmenti bianchi.<br />
Le tecniche operative del restauro per la porcellana, il bronzo, le antiche calligrafie e i dipinti<br />
registrano un miglioramento progressivo fino alle Dinastie Ming e Qing.<br />
Il periodo Qing costituì la fase di maggior ricchezza per il restauro delle antichità in Cina e ciò è<br />
dovuto al forte interesse degli imperatori per le antichità. Il testo Regolamentazione per la tutela dei<br />
beni culturali e dei siti storici, che costituisce il più antico documento normativo cinese in materia<br />
di conservazione delle antichità, venne redatto durante il regno dell’Imperatore Xuantong (1909).<br />
Nella prima metà del Novecento i contributi di Zhu Qiqian e Liang Sicheng (nell’ambito della<br />
Società per lo Studio delle Costruzioni Cinesi) sono stati determinanti per lo sviluppo del concetto<br />
cinese moderno di patrimonio storico costruito.<br />
Di grande rilievo per quanto riguarda la storia delle tecniche costruttive dell’architettura fu la scoperta<br />
del manuale Yingzao fashi (Trattato dei metodi dell’architettura) scritto attorno al 1103, durante<br />
la Dinastia Song da Li Jie (1065-1110), ritrovato nel 1919 da Zhu Qiqian nella Biblioteca Jiangnan<br />
a Nanchino e successivamente studiato da Liang Sicheng.<br />
Infine assume un ruolo centrale, per le prospettive di questa ricerca che sarà portata avanti da<br />
altri, la “scoperta” compiuta qualche anno dei manoscritti di Wang Xu (1930-1997), studioso di<br />
formazione autodidatta che nel 1984 divenne direttore della sezione di Conservazione dell’Istituto<br />
di Archeologia dell’Accademia Sinica delle Scienze Sociali. Wang Xu dedicò tutta la vita alla ricerca<br />
sulla storia dei tessuti in Cina, allo studio delle tecniche tradizionali ancora preservate e alla ricerca<br />
15
sulle problematiche di conservazione e restauro in questo delicatissimo ed importante settore. Fu<br />
responsabile del recupero e del restauro nel caso di importanti ritrovamenti archeologici, quali la<br />
tomba Chu a Mashan, Jiangling, le tombe Han a Mawangdui, Mancheng e Guangzhou e nel caso<br />
del ritrovamento delle importantissime opere Tang nel Tempio di Famen.<br />
La costituzione di una Fondazione in memoria di questo grande protagonista del Novecento<br />
contribuirà a rafforzare in Cina la disciplina della storia del restauro.<br />
16<br />
Mario Micheli<br />
Zhan Chang Fa (Chinese Academy of Cultural Heritage, Beijing, China)<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
R. CIARLA, M. MICHELI, Il Centro di formazione per la conservazione ed il restauro del patrimonio storico-culturale<br />
della Cina nord-occidentale a Xi’an – Repubblica Popolare Cinese. Oriente-Occidente: filosofie del restauro a confronto,<br />
in «Faenza», I-III (1997), pp. 19-27.<br />
ZHAO FENG (a cura di), Wang Xu and Textile Archaeology in China, Hong Kong 2001.<br />
J. FRESNAIS, La protection du patrimoine en République populaire de Chine, 1949-1999, Paris 2001.<br />
ZHANG LIANG, La naissance du concept de patrimoine en Chine. XIX-XXe siècles, Dijon-Quetigny 2003.<br />
G. PASQUALOTTO, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Venezia 2004.<br />
M. MICHELI e ZHAN CHANG FA (a cura di), La conservazione del Patrimonio Culturale in Cina. Storia di un<br />
progetto di cooperazione, Roma 2006.<br />
B. PEH T’I WEI, Yuan Ruan, 1764-1849. <strong>The</strong> Life And Work of a Major Scholar-Official in Nineteenth-Century<br />
China Before the Opium War, Hong Kong 2006.<br />
Mortalità materna nei rilievi funerari attici: un’ipotesi di lettura<br />
La questione della donna nell’antichità classica è un argomento che ha affascinato generazioni di<br />
studiosi, e la cui complessità risiede in parte nel fatto che le testimonianze, comunque sporadiche,<br />
sono filtrate da autori maschili che scrivevano per un pubblico maschile. Che la donna avesse un<br />
ruolo marginale nella società greca non è controvertibile, anche se è stato ridimensionato quel pessimismo<br />
che aleggiava sulla condizione femminile. Il suo ruolo sociale si risolveva nella legittimità della<br />
filiazione; la sua sfera di competenza concerneva unicamente il privato della vita quotidiana, essendo<br />
riservata la gestione del bene pubblico, della polis, all’uomo.<br />
Le arti visive e soprattutto la pittura vascolare, con maggiore intensità a partire dall’inizio del V<br />
secolo, certificano di fatto la dimensione privata della donna che, quando è rappresentata, appare più<br />
frequentemente nel contesto domestico. I pittori scandiscono il ritmo della vita femminile secondo<br />
immagini stereotipate, che mostrano la donna dedita all’igiene quotidiana o a imbellettarsi. Più rare<br />
le raffigurazioni che la vedono occupata nelle sue mansioni specifiche o nella cura dei figli, o fuori<br />
delle mura domestiche. Se associata a un uomo, le occasioni riguardano il rito delle nozze, il commiato<br />
del guerriero o l’intimità all’interno del gineceo, a rimarcare il benessere sociale della famiglia.<br />
Al destino di morte riportano le scene in cui prende parte come membro dell’oikos. Nonostante la<br />
letteratura misogina catalizzata su alcuni topoi, è ormai certo che la donna, legittimamente coniugata,<br />
almeno all’interno della casa, godesse di maggiore libertà. A riprova, le scene domestiche decorano, nella<br />
maggioranza dei casi, forme destinate all’uso femminile, lasciando i soggetti più lascivi, forse pertinenti<br />
a etere, prostitute o schiave, a campire crateri e kylikes, destinati invece al pubblico virile dei simposi o<br />
all’esportazione, e rivelando che anche i destinatari non erano sempre maschili.
Con la ripresa della produzione di semata funerari negli ultimi<br />
decenni del V secolo, provocata forse dagli eventi della guerra del<br />
Peloponneso e dalla necessità di riqualificare la manodopera artigianale,<br />
affluita ad Atene per i lavori dell’Acropoli, una più netta e diffusa affermazione<br />
dell’immagine della donna è percepibile anche nella selezione<br />
dei soggetti che fregiano ora lekythoi, loutrophoroi, stele e naiskoi. I temi<br />
non si discostano da quelli proposti dalla pittura vascolare, anche se la<br />
destinazione del monumento determina la maggiore compostezza negli<br />
schemata e la rarefazione dell’atmosfera dello sfondo, in genere privo di<br />
quei riferimenti al contesto del gineceo, tangibili invece nella ceramica.<br />
Limitandoci ai soggetti che vedono protagonista la donna sposata, ella<br />
è più spesso seduta e in compagnia di una o più figure che precisano la<br />
natura del momento e il suo valore simbolico: la funzione di despoina<br />
della casa o quello di sposa. Tuttavia nel raffronto con la ceramica coeva,<br />
a fronte della pur omogenea gamma tematica, emerge, con forte eviden-<br />
za, il carattere rilevante qui consegnato al tema della maternità; nei monumenti funerari si nota, cioè,<br />
una più spiccata e ripetuta insistenza sulla dimensione materna che, come si è accennato, rimane invece<br />
un motivo secondario nel repertorio vascolare al quale comunque queste scene rimandano.<br />
La tematizzazione di donne perite per cause o per conseguenze concomitanti il parto compare già<br />
nell’ultimo venticinquennio del V secolo. Lo schema con l’iconografia più diffusa prevede una figura<br />
stante, in genere femminile, congiunta o ancella, con un infante in braccio. Accanto, assisa e in posizione<br />
rilevante, fa la sua comparsa un altro personaggio femminile, la madre. Talora le si affiancano<br />
il figlio maggiore o la figlia. Esistono poi numerosi rilievi che oltre alla madre e al figlio mostrano<br />
un più nutrito gruppo di personaggi complementari, familiari o domestici, in prevalenza femminili,<br />
generalmente stanti, uno dei quali sorregge il neonato. In altri appare il marito. Tra il 400 e il 375 si<br />
palesa un altro schema, assimilabile semanticamente ai precedenti, numericamente meno cospicuo,<br />
nel quale si profila la madre seduta che abbraccia il neonato, tenuto in grembo. Meno frequente è la<br />
raffigurazione della madre stante. Al quadro sinteticamente delineato nel quale concorrono ulteriori<br />
variazioni sul tema, vanno aggiunti alcuni monumenti di piccolo formato,<br />
circoscrivibili agli anni 370-360, che drammatizzano la morte<br />
per parto, mediante la raffigurazione della donna in preda alle doglie.<br />
Chiedersi se tra i fattori che determinarono questo nuovo vigore<br />
tributato alla figura femminile possa essere compreso l’accresciuto peso<br />
sociale, acquisito dalla donna in un momento in cui la popolazione<br />
maschile aveva subito una drastica riduzione a causa dalla guerra del<br />
Peloponneso è una domanda lecita. Indagini demografiche hanno<br />
dimostrato la forte incidenza di queste vicende nella diminuzione della<br />
popolazione maschile ateniese e in generale di quella dell’intera Grecia<br />
alla fine del V secolo con ripercussioni nel secolo successivo. Non<br />
va inoltre trascurato l’effetto delle leggi periclee secondo le quali un<br />
Ateniese poteva ritenersi cittadino solo se figlio di padre e di madre ate-<br />
niesi: il che, in un certo senso, equivaleva a un timido riconoscimento<br />
del ruolo sociale della donna.<br />
Fig. 1 – Naiskos funerario, Brauron,<br />
Museo Archeologico<br />
Fig. 2 – Stele funeraria, Lyme Park,<br />
Stockport, Cheshire<br />
17
A un primo livello di lettura, la persistente presenza del bambino, o in taluni casi di più bambini, è<br />
manifestamente funzionale a sottolineare la dignità di madre della defunta nei semata funerari, come nella<br />
ceramica. Tuttavia la circostanza che spesso il bambino si identifichi con un neonato esige un’accentuazione<br />
di contenuto semantico, di fatto affidata alla riconoscibilità immediata dell’infante. Che in questi<br />
casi si tratti di un neonato è infatti esplicitamente dichiarato dalle fasce, spargana, nelle quali, secondo<br />
le fonti, il piccolo veniva avvolto al momento della nascita. Un’altra nota di autenticità è il berretto di<br />
lana, non sempre rappresentato, che secondo la tradizione letteraria serviva a proteggere la piccola testa,<br />
subito dopo il parto. La nascita comportava, a causa della scarse norme igieniche e della giovane età delle<br />
madri, un elevato rischio sia per la partoriente sia per il nascituro e veniva posta sotto la tutela divina. La<br />
non conoscenza delle regole dell’asepsi nell’ostetricia, idonee a ridurre i rischi batterici, e la mancanza di<br />
antibiotici e di strumenti di diagnosi clinica comportavano un’altissima mortalità materna: circa il 14%. A<br />
ciò si aggiunge che le immunodeficienze, originate anche dalla malnutrizione cui le donne erano soggette,<br />
aumentavano il rischio di contrarre malattie endemiche, quali la malaria, e l’insorgenza di complicazioni.<br />
I dati in nostro possesso confermano che l’aspettativa di vita femminile era inferiore a quella maschile.<br />
Secondo le fonti, il parto si svolgeva probabilmente all’interno del gineceo, assistito dall’ostetrica: il medico<br />
era sollecitato solo in caso di gravi complicazioni per la madre o il bambino. Il taglio cesareo era noto,<br />
come conferma l’immaginario mitico, ma praticato solo dopo la morte della madre per estrarre il<br />
feto. Si ricorreva dunque all’embriotomia per salvaguardare la vita della partoriente, qualora il feto<br />
fosse già morto. Si esercitavano invece alcune operazioni ostetriche quali l’interruzione artificiale della<br />
gravidanza a scopo terapeutico, o il riposizionamento cefalico del feto, se questo aveva conservato una<br />
posizione non corretta, ma non completamente podalica. Il feto poteva essere estratto con strumenti<br />
in grado di agevolarne l’uscita, ma anche di procurare lesioni al bambino e alla madre. Un elevato<br />
tasso di complicanze contraddistingueva i parti gemellari e plurigemellari. A rischio era la vita della<br />
madre per la febbre puerperale.<br />
Riveste pertanto un particolare significato che l’indugiare sul tema della mortalità materna nei monumenti<br />
funerari si verifichi col profilarsi della difficile congiuntura della guerra del Peloponneso. Il dato è<br />
importante non solo perché conferma che la donna era divenuta di necessità un riferimento obbligato per<br />
una società ormai scollata nella quale la popolazione maschile era stata seriamente compromessa dalle perdite<br />
umane, prodotte dagli eventi bellici, ma soprattutto perché rileva che in questo drammatico frangente,<br />
denso di conseguenze per la città di Atene, l’urgenza di sottolineare la peculiarità dell’individuo/cittadino<br />
nella memoria della collettività e nella sua interazione con la comunità dei concittadini diventava più<br />
pressante anche per il genere femminile. Sulla superficie dei monumenti funerari la tematizzazione della<br />
morte per parto si reiterava caricandosi di valenze intrinseche che non erano riferibili tanto alla prospettiva<br />
privata dell’esistenza femminile, ma che ambivano suggerirne la dimensione sociale, ribadirne il ruolo<br />
“politico”. Nonostante le critiche sollevate sul binomio morte/guerra, l’intima connessione tra la donna e<br />
la maternità veniva così a stigmatizzare il carattere civile del procreare. La polarità tra procreazione, qualità<br />
distintiva femminile, e guerra, prerogativa maschile, tra oikos e polis, antinomia che sintetizzava il rapporto<br />
uomo-donna, era stata ribadita da Euripide (Med. 248-251). Entrambi gli eventi erano avvertiti come un<br />
aspetto dell’areté, poiché ambedue offrivano l’opportunità di completare la natura dell’attore, rispettivamente<br />
donna e uomo. È per questo che sui rilievi sono evocate solo le cause del decesso occorse in guerra<br />
o per parto, inquadrando l’evento, in entrambe le evenienze, in un contesto atemporale.<br />
18<br />
Alexia Latini
BIBLIOGRAFIA<br />
J. BERGEMANN, Demos und Thanatos. Untersuchungen zum Wertsystem der Polis im Spiegel der attisch en Grabreliefs<br />
des 4. Jahrhunderts v. Chr. und zur Funktion der gleichzeitigen Grabbauten, München 1997.<br />
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Athenische Abteilung», Beiheft 10).<br />
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Deutschen Archäologischen Instituts. Athenische Abteilung», 103 (1988), pp. 161-191.<br />
C. WELLS, Ancient Obstetric Hazards and Female Mortality, in «Bulletin of the New York Academy of Medicine»,<br />
51 (1975), pp. 1235-1249.<br />
Le tombe rupestri “a tempio” in Etruria e in altre zone del Mediterraneo orientale<br />
Le cosiddette tombe a tempio rappresentano indubbiamente il tipo più nobile ed elaborato fra le<br />
tombe rupestri. Nella mia breve relazione tratterò comunque non solo tombe rupestri a tempio ma<br />
anche altre tombe con facciate a tempio sia costruite<br />
sia scavate in varie zone del Mediterraneo centrale<br />
e orientale. Punto di partenza del mio intervento<br />
sono necessariamente le tombe a tempio, a portico<br />
e ad edicola dell’Etruria meridionale interna come le<br />
Tombe doriche e la Tomba Lattanzi a Norchia, le<br />
Tombe Ildebranda, Pola, della Sirena (fig. 1) e del<br />
Tifone a Sovana – tutte databili in età ellenistica – e<br />
alcune tombe di Sutri databili già in età romana<br />
come la Tomba 64 della necropoli urbana.<br />
Il fenomeno di dare alla facciata della tomba o<br />
al monumento funerario l’aspetto di un tempio o –<br />
in formato minore – di una edicola era ben diffuso<br />
soprattutto nei decenni del primo ellenismo come<br />
Fig. 1 – Sovana, Tomba della Sirena<br />
mostrano vari esempi nell’Etruria meridionale, nella Daunia, in Macedonia, Arcadia e sulle isole di<br />
Rhodos e <strong>The</strong>ra, in Asia Minore (Licia, Caria, Paphlagonia), ad Alessandria e nella Cirenaica. Può<br />
essere considerata una caratteristica soprattutto di alcune zone periferiche della cultura greca dove l’architettura<br />
funeraria aveva assunto una particolare tendenza verso una monumentalizzazione, eroizzazione<br />
e autorappresentazione del defunto. In alcune regioni come nella Licia le facciate rupestri potevano<br />
assumere già in epoca preellenistica un’aspetto templare per caratterizzare in questa maniera la tomba<br />
come sito sacrale cioè come “tempio funerario” di personaggi di spicco sociale ed eroizzare i defunti.<br />
19
20<br />
ETRURIA<br />
Norchia: Tombe doriche, Tomba Lattanzi<br />
Sovana: Tomba Ildebranda, Tomba Pola; Tombe a edicola: della Sirena, del Tifone, dei Demoni<br />
alati, Siena, Poggio Stanziale<br />
Sutri: alcune tombe rupestri della necropoli urbana di epoca romana (Tomba 64)<br />
Norchia: tombe doriche<br />
Le facciate contigue delle cosiddette tombe doriche nella Valle dell’Acqualta – disegnate nell’Ottocento<br />
già dall’Ainsley e da Canina – si presentano in forma di tempietti gemelli, di ordine tuscanico,<br />
distili in antis su un podio. La trabeazione accoglie un fregio dorico a metope con protomi di teste<br />
femminili e geison a dentelli, mentre il geison obliquo è scolpito con una cyma recta su toro. In luogo dei<br />
mutuli laterali si trovano acroteri a disco con gorgoneion e protomi leonine, incornicianti le complesse<br />
e movimentate raffigurazioni di lotte e combattimento – variamente interpretate soprattutto in senso<br />
mitologico (lotta davanti a Troia, uccisione dei Niobidi ecc.) – scolpite a forte rilievo e originalmente<br />
colorate nei frontoni. Soprattutto nel portico sinistro si vedono resti di un fregio a rilievo stuccato<br />
dipinto: processione con dignitari e demoni alati (confronto: T. del Tifone a Tarquinia) – fregio d’armi<br />
con scudi, spade ed elmi appesi (confronti: T. Giglioli a Tarquinia e T. dei Rilievi a Cerveteri; tombe<br />
a Paestum, Egnazia, in Macedonia e Tracia). La datazione di queste tombe gemelle oscillava una volta<br />
fra il tardo quarto e la prima metà del II sec. Oggi prevale chiaramente – almeno per la prima fase<br />
(frontoni) – una datazione fra la fine del IV e i primi decenni del III sec., mentre la seconda fase (fregio)<br />
dovrebbe risalire al medio ellenismo. Del resto possiamo costatare qui una delle prime apparizioni del<br />
fregio dorico a metope in Etruria (adottato probabilmente dalla Magna Grecia, forse tramite Roma).<br />
Norchia: Tomba Lattanzi<br />
La T. Lattanzi nella Valle del Biedano – in gran parte distrutta e attribuibile alla gens Churcle – può<br />
essere classificata a doppio portico su alto podio, sul quale si sale per mezzo di una scala laterale, e mostra<br />
un singolare prospetto a due piani, l’inferiore a colonne tuscaniche fra ante (una delle quali poggiante<br />
sul dorso di una statua di leone o sfinge) e porta finta a rilievo sul fondo, il superiore a terrazzo col lato<br />
di fondo movimentato da un finto portico a colonne con capitelli corinzio-italici. La ricca decorazione<br />
del fregio consisteva soprattutto in animali fantastici (grifi) ed elementi floreali. Esistono confronti con<br />
l’Archokrateion di Lindos (J.P. Oleson) e una tomba tardoarcaica a doppio portico a Barca in Cirenaica.<br />
Fig. 2 – Sovana, Modello della Tomba Ildebranda<br />
Sovana: Tomba Ildebranda e Tomba Pola<br />
Queste due tombe monumentali di Sovana – databili<br />
con grande probabilità alla prima metà del III sec.<br />
– riprendono la tipologia a tempio con facciate su alto<br />
podio rispettivamente a 6 e 8 colonne scanalate e stuccate<br />
su basi a doppio toro, fornite di capitelli a protomi<br />
tra volute e soffitti a cassettoni.<br />
Tomba Ildebranda. La Tomba Ildebranda (fig. 2) è<br />
caratterizza ta dalla sua posizione panoramica con vista<br />
sul colle della città, dal cubo a forma di T, dalla pianta<br />
di tipo “peripteros sine postico”, dall’alto podio modanato<br />
con due scale laterali, da tre frontoni (anche sulla<br />
fronte secondo la ricostruzione più recente), da colonne
con capitelli figurati, soffitto a lacunari, due fregi con ricca decorazione scultorea con animali fantastici<br />
(grifi) ed elementi vegetali, dentelli e rosette e da una ricca policromia originale. Concetto ed ideologia<br />
generale esprimono influssi dall’Asia Minore (cioè dai grandi Heroa e Mausolea come quello di Belevi). La<br />
decorazione (cioè i fregi a tralci o “peopled scrolls” e i capitelli figurati) mostrano invece prevalentemente<br />
influssi apulo-magnogreci.<br />
Le tombe a edicola – studiate da A. Maggiani – di formato minore risalgono al primo e medio ellenismo<br />
cioè prevalentemente al III sec. coprendo un’arco cronologico dalla seconda metà del IV fino al primo<br />
quarto del II sec. Le tombe del Tifone, della Sirena, dei Demoni Alati, Siena e sul Poggio Stanziale sono<br />
in parte caratterizzate da un ricco apparato decorativo parzialmente figurato (Scilla, demoni alati, testa<br />
femminile) – soprattutto nei frontoni – ma anche da decorazioni vegetali e da fregi dorici.<br />
TOMBE A TEMPIO IN ALTRE ZONE DELL’ITALIA E DEL MEDITERRANEO ORIENTALE<br />
APULIA-DAUNIA<br />
Arpi: Tomba della Medusa (Tomba delle Anfore)<br />
Canosa: Ipogeo Lagrasta II (Ipogei Lagrasta, Boccaforno, degli Ori, del Cerbero, Sant’Aloia)<br />
Salapia: Tomba a camera con facciata<br />
TARANTO<br />
Naiskoi: Taranto<br />
Confronti a Ceglie Messapica, Crotone, Grottaglie, Herakleia-Policoro, Lavello, Metaponto,<br />
Palagiano, Rocavecchia (Canosa, Salapia. Lecce, Rudiae, Cirò, Locri?)<br />
Tomba di Via Polibio a Taranto<br />
CAMPANIA<br />
Napoli: Ipogeo Cristallini, Ipogeo di Vico Traetta<br />
ROMA<br />
T. degli Scipioni<br />
MACEDONIA<br />
Lefkadia: Tomba Petsas<br />
Verghina, Aghios Athanasios<br />
TRACIA<br />
Ingressi di tomba ad edicola (come a Canosa)<br />
<strong>IL</strong>LIRIA/ALBANIA<br />
A Basse-Selce tombe a portico, ad esedra con scale e ad edicola con frontone: tardo IV-prima<br />
metà III sec.<br />
ARCADIA<br />
Alipheira: Tomba con facciata monumentale a frontone con acroteri<br />
RHODOS, THERA E ISOLE GRECHE<br />
Archokrateion a Lindos: a portico con due piani, ultimo quarto del III sec.<br />
21
22<br />
Rhodini: “Ptolemaion” con base, semicolonne doriche e forse piramide sopra, fine III-inizio II sec.<br />
Kastellorizo: cosidetta tomba licia ad edicola: fine IV sec.<br />
<strong>The</strong>ra: tomba ad edicola<br />
LICIA<br />
Xanthos, Myra, Telmessos (“Tomba di Amyntas”: fine IV sec.), Pinara<br />
Tombe semplici a tempio non prima del IV sec., normalmente con due colonne in antis o a peripteros<br />
con influssi greco-ionici, anche con rilievi nel frontone (leone attacca toro), iscrizioni<br />
CARIA<br />
Kaunos<br />
Tombe a tempio con facciata fino a 4 colonne e a edicola, frontoni con rilievi e acroteri, non<br />
prima della metà del IV sec.<br />
PAPHLAGONIA<br />
Tombe a tempio, a portico e a edicola, frontoni con rilievi e sculture, influssi persiani e frigi,<br />
dell’architettura lignea e dell’architettura greca templare<br />
FRIGIA<br />
Tombe e monumenti a tempio o con frontone già fra VIII e VI sec.<br />
CAPPADOCIA<br />
Tombe a tempio (dorico), a portico e ad edicola in periodo ellenistico<br />
PERSIA<br />
Tombe cruciformi a portico già in età tardoarcaica (dopo il 520)<br />
PALESTINA/GERUSALEMME<br />
Gerusalemme, Amman: periodo tardoellenistico e imperiale<br />
CIRENAICA: Cirene, Barca<br />
Tombe rupestri più antiche: seconda metà VI sec.<br />
Tipi a tempio, a portico e a peristilio con colonne o pilastri dorici e capitelli dorici, ionici e eolici.<br />
Rappresentano le tombe a tempio greco più antiche del Mediterraneo.<br />
Nel periodo ellenistico tombe a tempio e a portico (reale o finto) con elementi dorici e ionici,<br />
acroteri e scale esterne.<br />
ALEXANDRIA: Necropoli Suk El Wardin<br />
Grandi complessi tombali: scavati ma non di tipo rupestre diritte verso l’esterno<br />
ZONA NABATEA-PETRA<br />
Il culmine dello sviluppo delle tombe a tempio è rappresentato indubbiamente da quelle di Petra nella<br />
Giordania nabatea scavate ed elaborate nell’arenaria rossastra e databili fra la metà del I sec. a. C. e la<br />
prima metà del II sec. d.C. Fra le più di 600 tombe rupestri a Petra 18 appartengono a questa tipologia.<br />
Di particolare importanza è il criterio della visibilità e funzione rappresentativa delle facciate tombali
a tempio. Questi criteri si verificano per esempio nei casi degli ipogei napoletani e naturalmente delle<br />
tombe rupestri in Etruria meridionale interna, nella Licia e Caria, nella Cirenaica e a Petra. Assai<br />
diversa è la situazione in Apulia e in Macedonia dove il dromos e almeno buona parte della facciata<br />
tombale sono stati sotterrrati dopo il funerale o fra i vari funerali. Secondo M. Mazzei nel caso<br />
dell’Ipogeo della Medusa ad Arpi probabilmente solo il frontone con l’acroterio rimaneva visibile<br />
come sema. La distinzione tecnica fra “costruito” e “scavato”, dal punto di vista del messaggio della<br />
tomba, non è determinante. Queste tombe erano caratteristiche soprattutto di società monarchiche e<br />
oligarchiche e dovevano glorificare e fino ad un certo punto eroizzare il defunto. Conta soprattutto<br />
l’aspetto esterno cioè il monumento e non tanto la tomba o deposizione propria. La forma di tempio<br />
implica una assimilazione agli dei ed eroi e rimane visibile – specialmente in caso delle tombe rupestri<br />
– anche alle future generazioni. Questo fenomeno fu particolarmente diffuso in età ellenistica –<br />
con alcuni precedenti nei periodi arcaico e classico – e si trova prevalentemente in regioni grecizzate<br />
oppure non greche periferiche come in varie zone dell’Asia Minore, mentre manca quasi completamente<br />
nella Grecia propria. In vari casi iscrizioni indicano il nome del defunto e motivi decorativi<br />
esprimono valori simbolici, ad esempio raffigurazioni di armi dovevano sottolineare l’importanza<br />
della componente militare nella vita del defunto. Inoltre queste tombe sono spesso situate lungo le<br />
strade principali d’ingresso rispettivamente d’uscita dalla città, in parte in contatto visivo con la città<br />
e dominanti la zona circostante. È un fatto ben noto che durante il IV sec. e l’età ellenistica cresceva<br />
la tendenza di eroizzare particolari individui o gruppi gentilizi e questa tendenza si manifesta in una<br />
serie di Heroa soprattutto in Asia Minore come a Gölbasi-Trysa, Limyra, Mileto e Didyma ma anche<br />
per esempio a Kos, Kalydon, Cirene e fino ad Ai Khanum in Afghanistan.<br />
Stephan Steingraeber<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
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<strong>Imperial</strong> Era, Toronto 1990.<br />
D.C. KURTZ, J. BOARDMAN, Tod und Jenseits bei den Griechen, Mainz 1985.<br />
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della Giornata di studio (Viterbo 1990), a cura di M. Martelli, Roma 1994, pp. 119-159.<br />
M. MAZZEI, Arpi. L’Ipogeo della Medusa, Bari 1995.<br />
J.P. OLESON, <strong>The</strong> Sources of Innovation in Later Etruscan Tomb Design, Roma 1982.<br />
S. STEINGRAEBER, New Discoveries and Research in the Field of Southern Etruscan Rock Tombs, in «Etruscan Studies»,<br />
3 (1996), pp. 75-104.<br />
S. STEINGRAEBER, Arpi – Apulien – Makedonien. Studien zum unteritalischen Grabwesen in hellenistischer Zeit, Mainz 2000.<br />
La “Basilica Argentaria”: alcuni spunti di ricerca<br />
I. LA “BAS<strong>IL</strong>ICA ARGENTARIA”: TEMI GENERALI<br />
Quella che qui si presenta è una ricerca appena iniziata, sorta nel più ampio ambito di una<br />
Convenzione tra l’Università Roma Tre e la Sovraintendenza ai Beni Archeologici di Roma Capitale e,<br />
in particolare, come proficua e amichevole collaborazione con il collega Roberto Meneghini. L’edificio<br />
che oggi conosciamo con il nome di “Basilica Argentaria” ha avuto nel corso degli anni una curiosa sorte<br />
ancillare, come parte del Foro di Cesare poiché è effettivamente unito a esso e visibile solo nel settore<br />
23
isparmiato per questo foro durante gli scavi degli anni Trenta del secolo scorso. In realtà, come si vedrà<br />
poco oltre, esso è parte integrante del progetto del Foro di Traiano. Gli studi fondamentali di Carla<br />
Maria Amici (AMICI 1991) sul Foro di Cesare hanno riguardato anche la “Basilica Argentaria”, ponendo<br />
però la massima attenzione sul complesso forense e riservando alla “Basilica” una prima raccolta di dati<br />
essenziali, uno studio strutturale relativo al piano terra e uno studio dello sviluppo degli elevati molto<br />
suggestivo che, però, lascia in ombra le relazioni spaziali con gli altri edifici circostanti. In precedenza,<br />
si possono citare le magistrali osservazioni di Matteo Della Corte (DELLA CORTE 1933) sui graffiti che<br />
erano (purtroppo lo stato attuale non è dei migliori) presenti in gran numero sugli intonaci interni<br />
dell’edificio; studio poi ripreso dalla collega Rita Volpe, che si spera di prossima edizione.<br />
Il nome “Basilica Argentaria” è menzionato solo nei Cataloghi Regionari, nell’elenco degli edifici<br />
pubblici della Regio VIII; si tratta, quindi di una fonte tarda rispetto alla costruzione che è da collocarsi<br />
all’inizio del II secolo d. C., nell’ambito dei<br />
lavori fatti per la costruzione del Foro di<br />
Traiano. Il collegamento tra nome e resti<br />
archeologici risale all’epoca degli sterri di<br />
Via dei Fori <strong>Imperial</strong>i, ma l’identificazione<br />
dell’edificio risulta essere ancora una questione<br />
aperta. Già nella ricostruzione planimetrica<br />
di Italo Gismondi e ora nell’ultima aggiornata<br />
del complesso dei Fori <strong>Imperial</strong>i (fig. 1)<br />
si osserva nettamente lo stretto rapporto esi-<br />
Fig. 1 – La “Basilica Argentaria” nel contesto dei Fori <strong>Imperial</strong>i, secondo<br />
l’ipotesi ricostruttiva proposta a seguito dei recenti scavi da R. Meneghini<br />
24<br />
stente tra l’emiciclo occidentale della piazza<br />
del Foro di Traiano e la “Basilica” nel tratto<br />
in cui questa doveva definire lo spazio ester-<br />
no all’emiciclo stesso, contraffortando la pendice collinare del Campidoglio. La “Basilica” non è altro<br />
che un portico a due navate che piega con due angoli netti per assecondare l’andamento dell’esedra e,<br />
probabilmente, continuava a nord, bordando anche l’emiciclo della Basilica Ulpia, per poi raggiungere<br />
la piazza antistante l’ingresso del Foro di Traiano. Ciò che non si percepisce dalla sola visione planimetrica<br />
è la vera natura dell’edificio che, sviluppandosi su due piani, in realtà raccordava mediante<br />
scale interne tre distinti livelli di percorrenza: la quota della piazza del Foro di Cesare (posta a 14 m.<br />
s.l.m. ca., quindi più bassa di 3 m.), quella del clivus Argentarius, la strada di mezza costa che collegava<br />
la zona del vecchio Foro con il colle capitolino (posta a quota 25,40 m. s.l.m. ca., quindi più alta di<br />
8,5 m.) con quella interna della stessa “Basilica” che risulta essere uguale alla quota dei pavimenti<br />
interni del Foro di Traiano (posti entrambi a 17 m. s.l.m. ca.).<br />
In definitiva, quindi, la “Basilica” ci appare oggi come un ritaglio urbano, limitatamente comprensibile<br />
e coinvolto in interventi di scavo, con relative susseguenti sistemazioni di restauro e fruizione,<br />
finalizzati a tutt’altri punti di interesse. Una prima rassegna di temi ai fini di una nuova indagine<br />
scientifica pone a monte dello studio complessivo l’analisi delle fasi costruttive di cui l’edificio reca<br />
traccia: un primo blocco di lavoro che è stato già realizzato ed è qui di seguito sintetizzato da Claudio<br />
Taffetani. Da questo primo passo ne discendono altri due: l’analisi tridimensionale del complesso e<br />
le sue relazioni con gli elementi urbanistico-architettonici. Per quanto riguarda quest’ultimo punto,<br />
risulterà fondamentale la collaborazione con altre équipes che già da molti anni lavorano nello stesso<br />
gruppo di ricerca diretto da Roberto Meneghini, e in particolare con i colleghi Alessandro Delfino
e Valeria Di Cola che stanno studiando il Foro di Cesare, cui la “Basilica” è architettonicamente<br />
legata (per gli studi già pubblicati si vedano: DELFINO et al. c.d.s., DELFINO 2008 e 2009); ma per<br />
comprendere questo che è un tassello di un più vasto progetto sarà anche necessario aprire lo sguardo<br />
sul contesto del Foro di Traiano e, anzi, su ciò che era all’esterno del foro stesso, dal lato dell’ingresso<br />
principale verso la Via Flaminia, zona in cui i recenti scavi condotti davanti alla chiesa di S. Maria<br />
di Loreto e quelli di Palazzo Valentini hanno portato nuovissimi dati (si vedano BALDASSARRI 2008-<br />
2009, LA ROCCA 2008-2009 e i contributi dei colleghi Roberto Egidi, Mirella Serlorenzi e Giovanni<br />
Ricci nel recente Convegno: “L’Athenaeum di Adriano. Storia di un edificio dalla fondazione al XVII<br />
secolo”, tenutosi a Roma il 22 settembre 2011).<br />
Maura Medri<br />
II. “BAS<strong>IL</strong>ICA ARGENTARIA”: AGGIORNAMENTI PLANIMETRICI, FASI DI COSTRUZIONE E INQUADRAMENTO<br />
URBANISTICO<br />
Il lavoro qui presentato è nato principalmente dalla necessità di realizzare una nuova documentazione<br />
grafica della “Basilica Argentaria” (MORSELLI 1993: 169-170). Partendo dall’osservazione<br />
diretta delle strutture, si è deciso di progettare e di creare una nuova planimetria generale dell’edificio<br />
attraverso un rilievo topografico dell’area. Il prodotto di queste diverse operazioni si configura<br />
come una serie di piante e di sezioni, suddivise per fasi costruttive, che documentano graficamente<br />
le trasformazioni dell’edificio nel corso dei secoli, da prima della sua costruzione all’età medievale.<br />
La prima fase illustra lo stato dell’area alla fine dell’epoca cesariana. Il limite settentrionale del Foro<br />
di Cesare è rappresentato dalle propaggini tufacee del Campidoglio (FIORANI 1968: 101; AMICI 1991:<br />
31 sgg.; MORSELLI 1995: 304), poiché in realtà le due absidi che chiudono la piazza a Nord e il retro<br />
del podio del tempio di Venere Genitrice si addossano alle pendici del colle capitolino. In seguito,<br />
durante l’impero di Domiziano, iniziano le prime operazioni di sbancamento del terreno retrostante<br />
il foro cesariano e i lavori per il taglio della sella che all’epoca ancora univa i colli del Campidoglio<br />
e del Quirinale (Aur. Vict. Caes. 29). A questo periodo corrisponde anche l’abbassamento generale<br />
del piano di calpestio dell’area, che tuttavia sarà sempre ad una quota maggiore rispetto alla piazza<br />
del foro cesariano. Una volta liberata la zona dal terreno della collina sovrastante, si costruisce un<br />
possente muro in opera laterizia, sul prolungamento della parete di fondo del portico occidentale con<br />
taberne, in modo tale da contenere la spinta delle terre della collina resecata. Ma è solo in epoca traianea<br />
che inizia la costruzione dell’edificio che oggi chiamiamo “Basilica Argentaria”, posto nella zona<br />
nord-ovest del complesso cesariano e addossato al muro di sostruzione di fase precedente. La nuova<br />
costruzione è a due piani ed è formata da due ambulacri che corrono parallelamente intorno al podio<br />
del tempio di Venere Genitrice per poi proseguire verso Nord e quindi verso la piazza su cui si apriva<br />
l’ingresso del Foro di Traiano. Gli ambulacri sono composti da due file di pilastri, la più interna in<br />
opera laterizia, l’altra esterna verso il Tempio in blocchi di peperino, raccordati da una sequenza di<br />
volte a crociera che poggiano sia su i pilastri stessi che sul muro di fondo. Anche i pavimenti sono<br />
diversi: in opus spicatum all’interno e in lastroni quadrangolari in travertino nella parte esterna. La<br />
differenza di livello esistente tra gli ambulacri e la piazza del Foro di Cesare viene risolta con due<br />
gradinate che salgono dal livello di questo sino al piano della “Basilica Argentaria”. In un momento<br />
successivo alla costruzione, e probabilmente in epoca Severiana (LANCASTER 2009: 29-32), si può far<br />
risalire l’intervento di ristrutturazione dell’ambulacro più interno che viene rafforzato con una serie<br />
25
di pilastri di piccole dimensioni, appoggiati sia al muro di sostruzione contro il colle capitolino che<br />
contro i pilastri in opera laterizia più grandi già esistenti. Anche questi nuovi pilastri sono costruiti<br />
per sostenere una serie di volte a crociera che vanno così a creare un piano intermedio. L’incendio<br />
che colpisce Roma nel 283 d. C. (CODICE TOPOGRAFICO 1940: 279), investe anche le strutture del<br />
Foro di Cesare. A giudicare dalle zone interessate dai restauri, sembra che il complesso forense fosse<br />
stato danneggiato gravemente. Gli interventi interessano la Curia, il portico occidentale e meridionale<br />
(MORSELLI-TORTORICI 1989: 138-148, 253), il Tempio di Venere Genitrice, alcuni ambienti<br />
sul clivus Argentarius e anche parte della “Basilica Argentaria” (AMICI 1991: 145), dove l’intervento è<br />
piuttosto articolato e sembra essere stato realizzato per volere dell’imperatore Massenzio. Viene ricostruito<br />
l’ambulacro esterno e si rinforza la struttura con una serie di contro pilastri in opera laterizia<br />
collegati tra loro da arcate; nel contempo, si erige un possente muro in opera laterizia in corrispondenza<br />
della fronte del tempio di Venere Genitrice, inglobandone in parte le colonne del pronao, ed<br />
unendo quest’ultimo ai due bracci del portico del Foro e quindi alla “Basilica Argentaria”. In epoca<br />
tardo antica troviamo le prime testimonianze del cambio di funzione dell’edificio, un fenomeno<br />
diffuso anche nel resto dei Fori <strong>Imperial</strong>i. Gli interventi di restauro della fine III-inizio IV secolo<br />
all’interno del Foro di Cesare, se da un lato modificano in modo notevole l’aspetto delle costruzioni<br />
delle fasi precedenti dall’altro ne garantiscono la conservazione (AMICI 1991: 13). All’interno dei due<br />
ambulacri si costruiscono delle murature in opus vittatum che suddividono gli spazi in ambienti più<br />
piccoli e allo stesso tempo impediscono il passaggio all’interno del portico. Nella porzione meridionale<br />
dell’ambulacro esterno si realizza una nuova pavimentazione in opus sectile composta di lastre di<br />
marmi policromi più o meno regolari. Nei secoli successivi le architetture dell’intero complesso vivono<br />
un periodo di degrado e abbandono fino ad arrivare alla grande fase di spoliazione del IX secolo<br />
che investe tutti i Fori <strong>Imperial</strong>i (MENEGHINI-SANTANGELI VALENZANI 2007: 125-126). A quest’ultima<br />
fase appartengono le murature in opera laterizia ascrivibili all’epoca altomedievale che sono addossate<br />
al retro del podio del Tempio di Venere Genitrice e che formano degli ambienti di tipo abitativo più<br />
o meno regolari. Tali ambienti sono la testimonianza della completa trasformazione del complesso<br />
antico, come si vede anche in altre parti dello stesso Foro di Cesare.<br />
La “Basilica Argentaria”, nonostante la denominazione, quindi, è in realtà un portico di epoca<br />
traianea attraverso il quale si estende verso nord-est il porticato cesariano-augusteo del Foro di<br />
Cesare (AMICI 1991: 101). Il progetto dell’edificio, sebbene sembri un normale ampliamento di<br />
un complesso monumentale più antico, nasconde al suo interno un disegno ben più articolato che<br />
diviene maggiormente significativo se posto in relazione con l’intero contesto del settore nord dei<br />
Fori <strong>Imperial</strong>i. La posizione appare defilata rispetto al resto del Foro di Cesare, poiché occupa la<br />
parte retrostante il Tempio di Venere Genetrice, e marginale se si mette a confronto con il resto dei<br />
complessi imperiali. A dispetto di questa circostanza, però, la “Basilica” occupa uno spazio strategico<br />
tra l’impianto cesariano e quello traianeo. Infatti, il porticato garantisce la continuità dei percorsi<br />
esterni. Una volta costruito, assicura il passaggio verso la parte retrostante dell’esedra sudoccidentale<br />
della piazza del Foro di Traiano. Ciò è possibile dal momento che la “Basilica” si trova praticamente<br />
alla medesima quota del complesso traianeo. Questa soluzione architettonica, quindi, rientrerebbe<br />
nel disegno più esteso di una viabilità esterna del Foro di Traiano, compresa e prevista nel progetto<br />
di Apollodoro di Damasco per la sistemazione dei percorsi di tutta la zona a ridosso del complesso,<br />
cosa che risulterebbe confermata anche dai recenti ritrovamenti degli scavi di fronte alla chiesa di S.<br />
Maria di Loreto, di cui si è fatto cenno poco sopra. Un ulteriore fattore da considerare è quello della<br />
26
elazione con il clivus Argentarius, che corre a mezza<br />
costa sul pendio del colle capitolino, sopra la “Basilica<br />
Argentaria”. Osservando la planimetria dell’area si può<br />
vedere come la strada e l’edificio facciano sistema tra<br />
loro, correndo in parallelo e adeguandosi al profilo del<br />
colle retrostante. La “Basilica”, pertanto, viene a trovarsi<br />
tra due vie di comunicazione: sopra il clivo e sotto la<br />
via lastricata intorno al podio del Tempio, almeno fino<br />
all’esedra sud-occidentale del Foro di Traiano. Una<br />
soluzione architettonica assai simile a quella utilizzata<br />
sul versante opposto in corrispondenza dei Mercati di<br />
Traiano. A questo punto risulta totalmente evidente la<br />
specularità dell’intervento progettuale traianeo messo in<br />
atto dopo il taglio della sella tra i due colli, per il quale<br />
le pendici vengono entrambe ridisegnate in un sistema<br />
“a gradoni”, con strade di mezzacosta, via Biberatica e<br />
clivus Argentarius, e percorrenze di fondo valle, sui lati<br />
est e ovest della piazza forense (fig. 2).<br />
Claudio Taffetani<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
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in corso di stampa.<br />
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Romana di Archeologia», 81 (2008-2009), pp. 385-398.<br />
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R. MENEGHINI, R. SANTANGELI VALENZANI, I Fori <strong>Imperial</strong>i. Gli scavi del Comune di Roma (1991-2007), Roma 2007.<br />
C. MORSELLI, Basilica Argentaria, in «LTUR», I (1993), pp. 169-170.<br />
C. MORSELLI, Forum Iulium, in «LTUR», II (1995), pp. 299-306.<br />
C. MORSELLI, E. TORTORICI, Curia. Forum Iulium. Forum transitorium, Roma 1989.<br />
A proposito delle Tre Grazie<br />
Fig. 2 – Planimetria schematica ricostruttiva dei Fori<br />
<strong>Imperial</strong>i, particolare della zona nord verso la Via<br />
Flaminia, con montaggio provvisorio dei resti archeologici<br />
rinvenuti negli scavi di fronte alla chiesa di S. Maria<br />
di Loreto e nell’area di Palazzo Valentini. Sono evidenziate<br />
le percorrenze esistenti alla quota della piazza del<br />
Foro di Traiano e quelle a mezza costa lungo le pendici<br />
del Quirinale e del Campidoglio<br />
Tra i gruppi statuari più celebri dell’antichità un posto di primo piano spetta alle Tre Grazie, raffigurate<br />
nella forma di tre donne nude, che ballano l’una allacciata all’altra, le due laterali di fronte la centrale di tergo<br />
(fig. 1). Nel gruppo di queste tre sorelle si riconosce la remota personificazione della forza generativa della<br />
natura e insieme la bellezza che si produce nelle opere dell’uomo, associata all’amabilità e alla generosità.<br />
27
Secondo il grammatico Servio la nudità delle Grazie è giustificata dal<br />
fatto che le tre sorelle devono essere senza macchia. Il loro schema iconografico<br />
incarna la loro stessa natura, secondo la quale il beneficio che ciascun<br />
individuo è in grado di offrire gli sarà restituito in misura doppia, in virtù<br />
del legame che unisce il favore alla riconoscenza.<br />
Le Tre Grazie furono uno dei soggetti più popolari del repertorio artistico<br />
d’età romana. La loro immagine ornava gli spazi pubblici di templi,<br />
terme e teatri; ma la grande maggioranza delle raffigurazioni si collocava in<br />
ambiente privato, sulle pareti domestiche o nelle tombe.<br />
Dopo un oblìo millenario le Tre Grazie entrarono nel repertorio<br />
artistico rinascimentale dalla metà del Quattrocento (grazie alla scoperta<br />
del celebre gruppo Colonna, ora a Siena) per quella loro caratteristica di<br />
Fig. 1 – Le Tre Grazie (Parigi, Louvre)<br />
coniugare gli aspetti religiosi e mitologici del soggetto con quelli filosofici<br />
ed anche con quelli più prosaici del mondo femminile e della gioia di vivere.<br />
Ma questi aspetti non esauriscono la complessità del significato delle Grazie, le Cariti dei Greci.<br />
Aglaia, Euphrosyne e Thalia esprimono già in età arcaica una triade concettuale che le accosta a<br />
tre virtù umane: la bellezza, la saggezza e lo splendore. Le diverse varianti dei loro nomi ci svelano gli<br />
aspetti lunari del gruppo, connessi con le fasi crescente e calante per le due laterali e con la fase della<br />
luna piena, e al tempo stesso nuova, per la Grazia centrale: una luna dunque che c’è e non c’è, che<br />
ora splende ed ora non si vede.<br />
Il corso della luna descrive il cammino dell’uomo: il buio uterino, la venuta alla luce, la crescita, la<br />
maturità, la consunzione, la morte e il ritorno al buio ctonio. L’unità e insieme l’articolazione del terzetto<br />
rappresentano insomma il concetto di una condizione lunare ed umana scandita nel ciclo della danza da<br />
una nascita e da un tramonto e da una pienezza dell’esistenza cui fa riscontro il vuoto dell’assenza.<br />
Salvo rare eccezioni, la Grazia centrale è rivolta di spalle, ma volge la testa all’indietro. La prima<br />
Grazia e la terza hanno spesso nelle mani qualcosa che viene offerto in dono: sappiamo da Pausania<br />
che le Cariti esposte nell’agora di Elide recavano in mano rispettivamente una rosa, un astragalo e<br />
un ramo di mirto. Rosa e mirto indicano il mondo di Afrodite nelle sue due facce legate alla vita (la<br />
luna crescente, la rosa) e alla morte (la luna calante, il mirto). L’astragalo, cioè il dado della sorte,<br />
caratterizza invece Aglaia nel ruolo di Fortuna.<br />
Troviamo una conferma a questo approccio se intendiamo le Grazie, che appaiono connesse<br />
anche ad Hekate, come l’altra faccia delle Parche. Ai due lati Klothò, la luna crescente, e Atropos, la<br />
luna calante, filano e recidono la vita. Al centro è Lachesi, cioè la Fortuna che non può opporsi alla<br />
ineluttabilità del fato, ma che può incidere sulla vita dei mortali.<br />
Come Tyche (cioè Aglaia) è la Fortuna che dà in sorte e può essere colta, così Lachesi, che gli antichi<br />
chiamavano anche sors (la sorte), è la Fortuna, che presiede a ciò che può accadere. La Fortuna,<br />
non il Fato, cui attengono invece le due Parche laterali: l’inizio, cioè la nascita, e la fine, cioè la morte,<br />
sono infatti in mano al fato; tutto quello che sta in mezzo, cioè la vita, sta in mano alla fortuna. La<br />
vita è dunque il transito tra questi due momenti del fato, attraverso il regno di Fortuna.<br />
Di questa Grazia/Fortuna che non ha nulla in mano vediamo il corpo nudo di spalle, ma la sua testa<br />
è girata in direzione di chi guarda, in genere verso destra, quindi con atteggiamento benigno. Grazia/<br />
Fortuna non è bendata: il suo occhio ti può guardare, ma il suo sguardo è repentino e fugace. Ti può<br />
cogliere, magari per un attimo, nel vortice della danza, e può incrociarsi con il tuo. Ma come la luna piena<br />
28
e nuova anche la Fortuna c’è e non c’è; e ti darà qualcosa solo se scatterà una scintilla nell’incrocio dei due<br />
sguardi. È una condizione che non puoi governare, ma che, se si verifica, ti fa metaforicamente baciare<br />
dalla Fortuna. Lei non ti dà qualcosa gratuitamente, come fanno le due sorelle, ma solo fortuitamente, se in<br />
quel momento, e solo in quel momento, stabilisce con te un rapporto che non è di scambio, ma unidirezionale,<br />
fortuito. Tu non lo governi: puoi solo metterti in condizione che possa avvenire. La Fortuna è di<br />
spalle. È il suo volto che guarda dietro di sé per incontrare te, o chi è al posto tuo. In quell’attimo fugace,<br />
in cui lo sguardo e il gesto benigno della Fortuna sono inseparabili dalla sua luce, che è lo splendore di<br />
Aglaia, lei ti mostra la sua schiena nuda e i suoi glutei.<br />
La Grazia centrale incarna dunque, con le due sorelle, il senso del beneficio e della sua restituzione, ma<br />
nella sua posizione, di schiena, e nel suo atteggiamento, maliziosamente rivolta all’indietro, esprime anche<br />
la sua incerta relazione con l’individuo, oscillante tra ciò che si scambia in virtù di un patto e ciò che si<br />
ottiene in virtù dell’imponderabilità della sorte.<br />
L’impatto visivo del gruppo faceva perno sul fascino del triplice nudo femminile. È indubbio, tuttavia,<br />
che il centro della scena sia occupato dalla pacifica ostentazione delle natiche della Grazia centrale, che<br />
fanno da fulcro all’intera composizione. Se nella maggioranza dei casi aulici la raffigurazione dei glutei<br />
non è oggetto di enfasi particolare, in alcune raffigurazioni l’ostentazione si fa invece evidente, quasi sfacciata,<br />
come in un rilievo del Museo Nazionale di Napoli.<br />
Potrebbe trattarsi di un caso isolato, dal momento che qui<br />
lo schema iconografico del gruppo è quello canonico delle<br />
Ninfe piuttosto che delle Grazie. Ma la scena sulla fronte<br />
di un sarcofago strigliato, oggi a Withington Hall (Gran<br />
Bretagna) ci dice che non è così (fig. 2). Anche in questo<br />
caso le Tre Grazie indossano un semplice mantello che<br />
copre le gambe, ma ciò che balza agli occhi è piuttosto il<br />
fatto che il panneggio nelle due Grazie laterali è allacciato<br />
sul davanti in modo da lasciare scoperta la pancia; nella<br />
Fig. 2 – Le Tre Grazie sulla fronte di un sarcofago<br />
(Withington Hall, GB)<br />
Grazia centrale, al contrario, lo schema inverso produce una voluta ostentazione dei glutei, che vengono<br />
sottolineati dalla stoffa che, coprendo le gambe, li incornicia lasciandoli in vista. Che non si tratti di un<br />
caso ce lo dimostra un altro rilievo funerario, dove il vestito della Grazia centrale si apre lungo la schiena<br />
con l’evidente intenzione di porre in vista i glutei della dea.<br />
Questa enfasi sembra ancora maldestramente riversata anche in un mosaico di Cherchel (Algeria), riferibile<br />
al IV secolo. Lo schema canonico appare ormai alterato. Colpisce però, nella modestia dell’esecuzione,<br />
la cura nella raffigurazione dei glutei, che anche di tre quarti occupano il centro della scena. Si direbbe<br />
che ormai si sia perso il senso stesso della charis che ha caratterizzato per secoli il gruppo delle Grazie, ma<br />
non il valore simbolico della Grazia centrale, cioè di Fortuna.<br />
In questa esaltazione degli attributi di Aglaia/Fortuna, che “ci volta” e al tempo stesso “ci mostra le<br />
spalle”, possiamo scorgere l’origine di un’espressione così diffusa nel parlare quotidiano italiano da essere<br />
usata ormai senza volgarità: “avere culo”. L’attuale libertà linguistica ce la fa utilizzare con leggera ironia,<br />
ignari forse di quanto siano antiche le origini di questa espressione. “Avere culo”, significa dunque avere<br />
con sé la Fortuna, la luna che ti mostra le spalle ma ti guarda diritto negli occhi (non è una luna storta),<br />
significa avere in sorte qualcosa di inatteso e di insperato, a volte la stessa chance della tua vita.<br />
Daniele Manacorda<br />
29
BIBLIOGRAFIA<br />
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Firenze 1979, pp. 126-134.<br />
S. DE ANGELI, Moirai, in «LIMC», VI (1992), pp. 636-648.<br />
W. DEONNA, Le groupe des trois Grâces nues et sa descendance, in «Rev. Arch.», 31 (1930), pp. 274-332.<br />
E. B. HARRISON, Charis, Charites, in «LIMC», III/1 (1986), pp. 191-203.<br />
D. MANACORDA, Per un’interpretazione del monumento antico, in D. Manacorda e E. Zanini, Il tempio di Via<br />
delle Botteghe oscure: tra stratigrafia, topografia e storia, in «Ostraka», VI/2 (1997), pp. 249-293.<br />
P. MORENO, Scultura ellenistica, II, Roma 1994.<br />
R. PFEIFFER, <strong>The</strong> Image of the Delian Apollo and Apolline Ethics, in «Journal of the Warburg and Courtauld<br />
Institutes», 15 (1952), pp. 20-32.<br />
G. RODENWALDT, <strong>The</strong> Three Graces on a Fluted Sarcophagus, in «JRS», XXVIII (1938), pp. 60-64.<br />
E. SCHWARZENBERG, Die Grazien, Bonn 1966.<br />
H. SICHTERMANN, Gratiae, in «LIMC», III/1 (1986), pp. 203-210.<br />
W. TR<strong>IL</strong>LMICH, Die Charitengruppe als Grabrelief und Kneipenschild, in «JbI», 98 (1983), pp. 311-349.<br />
Pompeiopolis di Paflagonia. Un progetto di cooperazione tra la Ludwig-Maximilians-<br />
Universität di Monaco e l’Università Roma Tre<br />
<strong>IL</strong> PROGETTO DI RICERCA<br />
Nel 2006 ha preso avvio un progetto internazionale di ricerca facente capo all’Institut für Klassische<br />
Archäologie della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, diretto da Lâtife Summerer e sostenuto<br />
dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, incentrato sulla città di Pompeiopolis, nel territorio di<br />
Tasköprü, distretto di Kastamonu.<br />
La regione interna della Paflagonia, chiusa a sud da alte montagne, già in antico rappresentava un’area<br />
isolata, occupata da estese foreste (fig. 1). Pompeiopolis venne fondata nel 65/64 a. C. da Cn. Pompeo<br />
Magno, a suggello della fine degli scontri con Mitridate VI, nella vallata del fiume Amnias, un affluente<br />
dell’Halys, in un punto<br />
strategico lungo la strada<br />
che attraversava da ovest a<br />
est la provincia di Ponto e<br />
Bitinia; la sua importanza<br />
economica doveva in gran<br />
parte risiedere nello sfruttamento<br />
delle vicine miniere<br />
di solfuro di arsenico. Già<br />
Fig. 1 – Carta geografica della regione pontica (Ch. Marek, Pontus et Bithynia: die römischen<br />
Provinzen im Norden Kleinasien, Mainz 2003)<br />
30<br />
nel 6/5 a. C. la Paflagonia<br />
venne annessa alla neo-istituita<br />
provincia di Galazia.<br />
Dopo le distruzioni ascritte agli attacchi dei Goti, il tardo-antico sembra corrispondere a un periodo<br />
tutt’altro che di stagnazione. Con la riorganizzazione amministrativa di Diocleziano la Paflagonia fu verosimilmente<br />
istituita a eparchia e compresa nella diocesi pontica. Nel Concilio di Nicea (325 d. C.) la città<br />
è ricordata come sede vescovile. Sembra che a partire dagli inizi del VII sec. d. C. gli attacchi sasanidi, cui<br />
fecero seguito le incursioni delle tribù arabe, abbiano condotto a un progressivo abbandono del sito.
Analisi geomagnetiche, sondaggi e scavi finalizzati alla conoscenza dell’estensione del nucleo<br />
urbano, della originaria griglia urbanistica e delle emergenze monumentali, accompagnati dalla ricognizione<br />
del territorio, stanno portando alla ribalta un insediamento rimasto fino ad oggi oscuro,<br />
circostanza questa solo in parte imputabile alla profonda manomissione degli edifici (l’utilizzo del sito<br />
come cava si è protratto fino agli inizi del XX secolo). Alla penuria di informazioni ricavabili delle<br />
fonti letterarie ha supplito la documentazione epigrafica, estesa dalla prima età imperiale al periodo<br />
protobizantino (MAREK 1993). L’obiettivo primario della missione è quello di indagare la struttura<br />
urbana di una città di fondazione romana, in una regione – l’Anatolia settentrionale –, di cui i processi<br />
di urbanizzazione e le relazioni con le grandi città di tradizione ellenistica di area microasiatica<br />
occidentale risultano ancora scarsamente conosciuti.<br />
LA PARTECIPAZIONE DI ROMA TRE AL PROGETTO<br />
L’Università Roma Tre ha avuto in carico l’indagine dell’area alle pendici sud-orientali dello Zimbıllı<br />
Tepe su cui si sviluppò la città. L’attività si è incentrata nello scavo dell’edificio costruito al limite dell’insediamento<br />
urbano, in un’area di verosimile destinazione residenziale sorta non lontano dal corso dell’Amnias.<br />
Lo scavo estensivo del complesso sta consentendo di indagare in maniera sistematica un esempio di<br />
residenza privata in contesto regionale, venendo a colmare una lacuna delle nostre conoscenze sull’evoluzione<br />
della tipologia abitativa di tradizione greco-ellenistica. La ricerca nell’area del Ponto/Paflagonia non<br />
risulta finora impostata: nella pressoché totalità dei contributi<br />
editi sono stati privilegiati gli apparati decorativi, laddove<br />
le dimore risultano per di più solo parzialmente indagate.<br />
LO SCAVO DELL’IMPIANTO ABITATIVO (1984; 2008-2010)<br />
Nel 1984 scavi di emergenza condotti dalla Direzione<br />
del Museo di Kastamonu portarono alla luce un grande<br />
ambiente rettangolare (A) pavimentato a mosaico, oggi<br />
in gran parte crollato a causa del dilavamento del lato<br />
della collina, affiancato a sud da un secondo ambiente<br />
(B) rinvenuto privo di pavimentazione, e, parzialmente,<br />
una corte (C). Nell’impossibilità di assicurarne la conservazione<br />
in situ della pavimentazione musiva del vano A,<br />
si procedette a sezionare l’ordito e a deporlo su pannelli<br />
di cemento armato, depositati nel magazzino del Museo<br />
di Kastamonu. Chi varcava la soglia del vano dal corridoio<br />
D, veniva accolto da un’iscrizione beneaugurante<br />
(«Entra, per il tuo bene») racchiusa all’interno di una<br />
tabula ansata; sull’altro lato si colloca il vasto ambiente<br />
quadrangolare E.<br />
Le tre recenti campagne archeologiche hanno scoperto<br />
un’area dell’edificio corrispondente a 570 mq. (SUMMERER<br />
2011) (figg. 2-3). Lo scavo ha preso avvio dalla corte (C),<br />
già in precedenza parzialmente indagata, che rappresenta<br />
l’elemento qualificante del complesso avente funzione distri-<br />
Fig. 2 – Pompeiopolis, complesso abitativo. L’area<br />
scavata a chiusura della campagna 2010 (DFG-<br />
Projekt Pompeiopolis, foto B. Maerzke, München)<br />
Fig. 3 – Pianta generale del complesso abitativo<br />
(elaborazione M. Brizzi)<br />
31
utiva. In origine era circondata da portici con pavimentazione a piastrelle quadrate di terracotta; l’area<br />
centrale era lasciata a giardino. Nel 2010 lo scavo è stato considerevolmente esteso in direzione della<br />
collina: lungo il lato nord-occidentale del peristilio è stato messo in luce un vano di rappresentanza<br />
(L) contiguo all’ambiente E, dotato, nella fase successiva a quella originaria, di un impianto di riscaldamento<br />
a ipocausto e verosimilmente pavimentato in opus sectile. A un determinato momento il<br />
complesso venne organizzato su differenti quote tramite la costruzione, nel giardino del peristilio, di<br />
due muri paralleli con funzione di terrazzamento.<br />
Il tipo di casa a peristilio si presenta conforme al modello di abitazione, di tradizione greco-ellenistica,<br />
diffuso in tutta l’Asia Minore, tramandatosi nei secoli pressoché invariato e mantenutosi fino a<br />
tutta l’epoca tardoantica, in cui spaziose corti, spesso circondate da bracci porticati e non raramente<br />
dotate di nymphaea, potevano rappresentare lo snodo dell’organizzazione dell’abitazione. In un contesto<br />
come quello in questione l’assunzione del modello della casa a peristilio non manca di imporsi<br />
quale marcatore del processo di ellenizzazione. A causa dell’incompletezza della planimetria, poco si<br />
può dire dell’articolazione dell’abitazione, partitamente se essa fosse di tipo assiale o radiale, e anche<br />
sulla funzionalità di molte delle strutture (finora sono noti tre grandi ambienti di rappresentanza).<br />
Le sequenze stratigrafiche consentono di ricostruire le trasformazioni che hanno interessato l’organizzazione<br />
dell’impianto, il suo sviluppo planimetrico, la funzionalità degli spazi. Interventi di ristrutturazione,<br />
sostanziali rimaneggiamenti degli ambianti e modifiche dei percorsi, con conseguenti<br />
trasformazioni d’uso che stravolgono l’assetto dell’impianto e la funzione degli spazi, denunciano<br />
cambiamenti di destinazione rispetto al primitivo impianto, in linea con un trend evolutivo ben<br />
documentato nell’edilizia privata tardoantica, sostanzialmente basato sulla frammentazione degli<br />
spazi originari. Nell’area sistemata a giardino lo spazio viene frantumato attraverso la costruzione di un<br />
corpo di fabbrica (I); successivamente la creazione di un sistema di canalizzazioni di smaltimento delle<br />
acque provenienti da altre aree delle pendici del sito, collegato alle sistematiche spoliazioni dei muri del<br />
primitivo impianto e a altre parziali demolizioni, appare da mettere in relazione con il radicale cambiamento<br />
delle modalità di occupazione dell’area prima del definitivo abbandono dell’edificio. La ceramica<br />
più recente è stata datata al VI secolo d. C.<br />
Fig. 4 – Il pannello figurato al centro della<br />
pavimentazione musiva dell’ambiente E a restauro<br />
ultimato (2010) (DFG-Projekt Pompeiopolis,<br />
foto B. Maerzke, München)<br />
32<br />
<strong>IL</strong> MOSAICO DEL VANO E<br />
Il vano E ha restituito un mosaico pavimentale policromo<br />
(6,90×5,80 m.), formato da quattro distinti tappeti<br />
a decoro geometrico e impaginato centripeto (i mosaici<br />
dell’abitazione sono stati presentati all’XI Colloquio<br />
Internazionale sul mosaico antico, organizzato nell’ottobre<br />
2009 a Bursa dall’Uludağ University Mosaic Research<br />
Center, sotto l’egida dell’AIEMA). Nel riquadro figurato<br />
centrale, tangente sugli angoli a quattro triangoli racchiudenti<br />
le personificazioni delle Stagioni, è compreso un<br />
busto femminile raffigurato frontalmente, con testa diademata<br />
e circondata da un nimbo (fig. 4). Veste tunica ornata<br />
da un clavus, e mantello. Due dita sorreggono un frutto; un<br />
ramo poggia sulla spalla destra. Nella figura va riconosciuta<br />
una personificazione karpophoros, come anche indicano
i busti delle Stagioni ad essa collegati. La connessione con le personificazioni stagionali rimanda alla<br />
personificazione di Ananeosis (reparatio/renovatio) legata al rinnovamento ciclico dell’anno. Una moneta<br />
di Arcadio emessa dalla zecca di Costantinopoli (388-392 d. C.) è stata rinvenuta a contatto dell’ordito<br />
musivo. Consone con quanto conosciamo della produzione figurativa tra la fine del IV e la prima metà<br />
del V secolo, in particolare di quella riferibile agli anni di Teodosio II, l’accentuata stereometria della<br />
testa, l’idealizzazione del volto, l’astrazione e la fissità dei tratti, la plasticità dei capelli a matassa. Al di<br />
là di alcune cadute nel disegno, trapela l’elevata qualità formale del modello.<br />
Dalla metà del III secolo si moltiplicano in contesti profani – prevalentemente domestici – raffigurazioni<br />
musive di personificazioni relative a concetti filosofici e a idee astratte; il picco è nel V secolo.<br />
L’elenco di queste personificazioni è nutrito. Si tratta di figure – in forma di busto e non – genericamente<br />
connotate, con minimi cambiamenti adattabili alle più svariate astrazioni, che neppure sempre<br />
necessitavano di venire “etichettate”. Nelle conversazioni tenute durante ricevimenti e simposi queste<br />
immagini, oltre a potere costituire argomento di intrattenimento tra erudizione e piacere del gioco<br />
intellettuale, dovevano fungere da richiamo, augurio, celebrazione del padrone di casa, in quanto collegabili<br />
a ideali attinenti alla sfera dell’individuo, sublimati in concetti astratti: temi quali la costruzione/<br />
donazione, il benessere, la fecondità, il rinnovamento, ma anche il piacere e il lusso, dovevano essere<br />
nelle corde dei committenti.<br />
I significativi interventi di ristrutturazione e decorazione che hanno interessato alcuni degli<br />
ambienti del complesso residenziale gettano nuova luce sulla percezione dello spazio domestico in<br />
epoca tardoantica, contribuendo a confermare la qualità della vita cittadina nella parte orientale<br />
dell’impero agli inizi del V secolo, caratterizzata da una ricchezza che non molto tempo prima il<br />
vescovo di Cappadocia Basilio di Cesarea aveva stigmatizzato: dimore impreziosite da marmi pregiati,<br />
da mosaici pavimentali e da decorazioni dorate nei soffitti, da affreschi su quelle pareti che restavano<br />
prive di rivestimenti. Non diversamente da quanto gli scavi ci hanno restituito dei contesti abitativi<br />
di Efeso e Afrodisia, di Antiochia come di Apamea, la fioritura dell’edilizia privata e le correlate<br />
espressioni del lusso e del prestigio domestico si configurano come fenomeni caratterizzanti il quadro<br />
urbano della Paflagonia di V secolo.<br />
Luisa Musso<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
CH. MAREK, Stadt, Ära und Territorium in Pontus-Bithynia und Nord-Galatia, Tübingen 1993.<br />
Ludwig-Maximilians-Universität München, Institut für Klassische Archäologie, Pompeiopolis in Paphlagonien.<br />
Erforschung einer antiken Metropole im türkischen Schwarzmeerbereich, <br />
Pompeiopolis I. Eine Zwischenbilanz aus der Metropole Paphlagoniens nach fünf Kampagnen (2006-2010), a cura<br />
di L. Summerer, Langenweißbach 2011.<br />
Osservazioni sulle iscrizioni cristiane di tridentum anteriori al VII secolo<br />
La ricerca che si presenta è finalizzata all’edizione di un volume delle Inscriptiones Christianae<br />
Italiae septimo saeculo antiquiores, dedicato a Tridentum e al suo territorio, che è stato affidato a<br />
chi scrive, il quale una decina di anni fa aveva già pubblicato le epigrafi (per lo più inedite) trovate<br />
nell’area della primitiva basilica di S. Vigilio (MAZZOLENI 2002). Attualmente sono stati raccolti ed<br />
33
elaborati molti dati, pur se non definitivi e ammontano a una quarantina le epigrafi note, per lo<br />
più di Trento; fino a una ventina di anni fa, invece, i testi paleocristiani conosciuti in questo stesso<br />
ambito territoriale erano molti di meno e indubbiamente essi hanno avuto un incremento notevole<br />
in seguito alle indagini archeologiche condotte sotto la Cattedrale di S. Vigilio.<br />
Le campagne di scavi svoltesi fra il 1964 e il 1977 portarono alla scoperta dell’aula primitiva di<br />
culto, databile alla metà del VI secolo, che ebbe carattere martiriale e funerario e sorse al di sopra<br />
della tomba del terzo vescovo trentino, Vigilio († 400) (ROGGER 1975, 1982, 1996). Si individuarono<br />
almeno ottanta sepolture sotto il pavimento, tanto è vero che si parlò di una sorta di retrosanctos.<br />
L’aula, che aveva tre ingressi ed era preceduta da un quadriportico, era rettangolare e mononave<br />
(misurava 50 x 14 m.), con un presbiterio separato da cancelli, poi guastato dalla cripta eretta nell’XI<br />
secolo. Le trentuno iscrizioni rinvenute (trenta latine e una greca) sono state musealizzate ed affisse<br />
alle pareti, salvo quella del v(ir) s(pectabilis) Censorius, che è rimasta in situ. La nuova Cattedrale fu<br />
costruita nel XIII secolo 2,50 m. sopra il livello dell’edificio paleocristiano.<br />
L’iscrizione più nota del territorio trentino è probabilmente quella del pavimento a mosaico<br />
frammentario del cosiddetto “sacello” del Doss Trento, oggi staccato e conservato al Castello del<br />
Buonconsiglio: risalente alla prima metà – o alla metà – del VI secolo; si tratta di un testo di tipo<br />
dedicatorio, che ricorda l’intitolazione dell’edificio ai santi medici Cosma e Damiano, fatta da<br />
Laurentius, che si definisce cantor, ai tempi del vescovo Eugippio, altrimenti ignoto (CA<strong>IL</strong>LET 1993).<br />
In ambito urbano, invece, a S. Maria Maggiore si sono individuati resti di un’ecclesia urbana sotto<br />
la chiesa del XVI secolo. Vi si riconobbero due fasi: la prima (con lacerti di pavimento musivo e un<br />
resto di epigrafe) fu attribuita agli inizi del VI secolo con interventi spintisi fino a metà circa del VI.<br />
Una seconda aula, triabsidata, sorse 1 m. sopra quella paleocristiana con il reimpiego di pezzi scultorei<br />
di VIII-IX secolo. Accanto al complesso si sviluppò un cimitero con tombe a cassa (MAZZOLENI<br />
1993, CIURLETTI 2003, GOIO-ZOTTA s.d.).<br />
Le altre testimonianze epigrafiche del territorio trentino sono<br />
essenzialmente attestazioni di fedeli facenti parte di comunità<br />
rurali. Ad esempio, dall’area limitrofa alla chiesa di S. Valentino<br />
(vescovo e missionario della Rezia della metà del V secolo) a<br />
Tenna, ora a Mezzocorona (Trento), proviene un frammento di<br />
coperchio di sarcofago con un’iscrizione che si riferisce al diacono<br />
Mauro (CAVADA 1994). Altri coperchi più o meno mutili di<br />
sarcofagi con grandi croci a rilievo, cristogrammi con o senza lettere<br />
apocalittiche e resti di iscrizioni sono conservati a Trento e a<br />
Caldonazzo. In quest’ultima località una lastra mutila si riferisce<br />
a due coniugi, Flamininu[s] e Iusta (CIURLETTI 2008) (fig. 1).<br />
Fig. 1 – Ricostruzione grafica dell'iscrizione<br />
funeraria di Flamininus e Iusta,<br />
Caldonazzo (Trento), Chiesa di S. Sisto<br />
34<br />
Per quanto attiene alla tipologia, le epigrafi sono per lo più funerarie<br />
e in minor percentuale musive votive o dedicatorie. La grafia<br />
usata è, come accade generalmente, la capitale attuaria rustica, men-<br />
tre il materiale adoperato (soprattutto a Trento) consiste in grandi lastre di calcare locale, non levigato, ma<br />
sommariamente lavorato a martellina, per cui la superficie è spesso scabra e di non agevole lettura, anche<br />
per la presenza di sensibili segni di consunzione (forse una parte delle lastre chiudeva tombe poste nel<br />
pavimento della Cattedrale trentina). I formulari sono quelli consueti, specie in epitaffi abbastanza tardi:<br />
l’esordio è spesso hic requiescit, e per indicare il dies natalis, ossia il giorno della morte (e della sepoltura)
si usa preferibilmente depositus (più raramente obire<br />
e transire).<br />
Riguardo alla lingua, come sempre si nota la<br />
presenza di diversi volgarismi (soprattutto monottongazioni<br />
e caduta di aspirazioni e nasali, oltre<br />
allo scambio fra le vocali i-e). L’onomastica presenta<br />
la maggior parte dei nomi di origine latina,<br />
mentre due sono quelli greci e uno solo – Amaros<br />
– è stato ricondotto, sia pure ipoteticamente, ad<br />
una matrice siriana. Solo due sono i mestieri indicati:<br />
un custus basilice (!) (il presbitero Metronius)<br />
(fig. 2) e un intendente siriano della regione di<br />
Antiochia, , nella sola dedica in greco<br />
finora nota.<br />
Diversi risultano, invece, gli esponenti del Fig. 2 – Iscrizione del presbitero Metronius, Trento, Cripta<br />
clero: otto a Trento (un vescovo, sei presbiteri, un del Duomo<br />
diacono), due al Doss Trento (un vescovo e un cantore), un diacono a Tenna. In un caso ricorre la<br />
data indizionale a Trento (questo solo elemento, come è noto, non consente di risalire a una cronologia<br />
precisa) (MAZZOLENI 2002), mentre in un altro essa è unita a una data consolare, in un’epigrafe di<br />
Riva del Garda dell’anno 539 (GARZETTI 1986). In ogni modo, in genere le iscrizioni possono riferirsi<br />
a un ambito cronologico compreso per lo più fra il V e il VI secolo.<br />
Danilo Mazzoleni<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
Archeologia a Mezzocorona. Documenti per la storia del popolamento rustico di età romana nell’area atesina, a cura<br />
di E. Cavada, Trento 1994.<br />
A. BUONOPANE, Regio X. Venetia et Histria. Tridentum, in «Supplementa Italica», (n.s.) 6 (1990), pp. 111-182.<br />
A. BUONOPANE, Regio X. Venetia et Histria. Anauni, in «Supplementa Italica», (n.s.) 6 (1990), pp. 183-228.<br />
J.P. CA<strong>IL</strong>LET, L’évergétisme monumental chrétien en Italie et à ses marges, <strong>Rome</strong> 1993.<br />
P. CHISTÉ, Epigrafi trentine di età romana, Rovereto 1971.<br />
G. CIURLETTI, Antiche chiese del Trentino, dalla prima affermazione del Cristianesimo al X secolo, in Frühe Kirchen<br />
im östlichen Alpengebiet, a cura di H. R. Sennhauser, München 2003, pp. 357-401.<br />
G. CIURLETTI, L’antica iscrizione funeraria cristiana dal colle di Brenta nella sua nuova collocazione nella chiesa di<br />
s. Sisto a Caldonazzo, Trento 2008.<br />
L. CRISCUOLO, Un nuovo documento epigrafico tridentino, in «Epigraphica», 43 (1981), pp. 261-264.<br />
L. DAL RI, Gli antichi sarcofagi cristiani di Mezzocorona: la necropoli di via IV novembre, in Archeologia a<br />
Mezzocorona (Patrimonio storico e artistico del Trentino, 15), a cura di E. Cavada, Trento 1994, pp. 278-281.<br />
A. GARZETTI (a cura di), Inscriptiones Italiae, X, V/3, Brixia, Roma 1986.<br />
A. GOIO, G. ZOTTA, Santa Maria Maggiore. Il restauro e lo scavo, Trento s.d.<br />
D. MAZZOLENI, Mosaici pavimentali paleocristiani in territorio trentino, in Archeoalp. Archeologia delle Alpi, a cura<br />
di E. Cavada, vol. 2, Trento 1993, pp. 159-173.<br />
D. MAZZOLENI, Reperti epigrafici dalla Basilica vigiliana di Trento, in L’antica basilica di San Vigilio in Trento.<br />
Storia, archeologia, reperti, a cura di I. Rogger, E. Cavada, Trento 2002, pp. 379-412.<br />
I. ROGGER, Scavi e scoperte sotto la Cattedrale di Trento, in «Studi Trentini di Scienze Storiche», 54 (1975), pp. 3-40.<br />
I. ROGGER, Il Duomo di Trento, Trento 1982.<br />
I. ROGGER, La basilica paleocristiana di S. Vigilio, in Il museo diocesano tridentino, a cura di D. Primerano, Trento<br />
1996, pp. 137-141.<br />
35
L’altare di Giovanni VII (706) e l’apertura della Porta Santa nell’antico San Pietro<br />
Fig. 1 – Proposta di restituzione in 3D dell'Oratorio<br />
di Giovanni VII, a cura dell’Arch. Marco<br />
Carpiceci (da Ballardini 2011)<br />
36<br />
È nell’esperienza di tutti come la distruzione di un monumento<br />
comprometta in modo irrimediabile non solo la nostra<br />
capacità di figurarci in concreto la sua forma e le sue dimensioni,<br />
ma perdutane per sempre l’immagine e il significato in<br />
un peculiare contesto venga meno anche la sua riconoscibilità<br />
come modello di lunga durata e, in prospettiva, un decisivo<br />
livello di lettura dei monumenti che lo hanno seguito.<br />
Ho proposto di recente un’ipotesi ricostruttiva dell’Oratorio<br />
dedicato alla <strong>The</strong>otokos che nel 706 papa Giovanni VII,<br />
natione graecus, fece edificare all’interno dell’antico San Pietro<br />
prescrivendo di esservi sepolto. Del sacello, notissimo per i<br />
cicli musivi che lo decoravano, non era mai stata indagata<br />
la forma architettonica. La mia restituzione si è basata sui<br />
frammenti della decorazione scultorea, comprensivi di spolia<br />
di eccezionale pregio, come alcune lastre di età severiana e<br />
una coppia di colonne vitinee; su alcune iscrizioni superstiti o<br />
note dalle fonti; e sul testo dell’epitaffio del pontefice tramandato<br />
dalla silloge Cantabrigense. Mi è stata di guida inoltre<br />
l’accurata descrizione dell’oratorio, redatta in scriptura e in<br />
pictura da Giacomo Grimaldi nei primi anni del Seicento, alla vigilia della demolizione dell’ultimo<br />
tratto dell’antico San Pietro (BAV, Barb. lat 2732; Barb. lat 2733; Cap. di San Pietro H3; Biblioteca<br />
Ambrosiana, ms. A 168 inf.; BNCF ms. II-III 173).<br />
L’esito della ricerca ha premesso di restituire in 3D l’immagine dell’oratorio, stimolando delle<br />
considerazioni sulla durata quasi millenaria del sacello e sul progressivo mutamento di funzione di<br />
quel settore dell’antico San Pietro.<br />
In effetti, proprio quel tratto iniziale della navata Nord della basilica aveva accumulato una formidabile<br />
memoria cultuale ospitando a partire dalla metà del X secolo la reliquia della Veronica e<br />
divenendo dalla metà del XV il luogo di apertura del Giubileo e della sua Porta Santa.<br />
Descrivo in breve l’oratorio secondo la mia ipotesi ricostruttiva, rinviando ogni argomentazione<br />
allo studio da poco pubblicato (BALLARDINI 2011).<br />
Il sacello di Giovanni VII era ricavato nell’angolo settentrionale di San Pietro, tamponando a sud<br />
i primi tre intercolunni della navata con muri alti almeno 3,20 m. A Occidente un muro analogo era<br />
interrotto da una porta architravata con il titulus all’antica del pontefice.<br />
All’interno le pareti erano rivestite di crustae marmoree alternate a lesene con tralcio abitato di età<br />
severiana, prese a modello da lastre scolpite ad hoc nelle officine di Giovanni VII.<br />
L’altare, dedicato alla <strong>The</strong>otokos, era addossato alla parete di fondo e cioè alla controfacciata della<br />
basilica. Ne ho individuato un frammento, oggi nelle Grotte, che ai suoi tempi Grimaldi descrive e<br />
disegna affisso all’interno dell’oratorio.<br />
Il frammento di marmo frigio, su due lati finemente modanato, reca un’iscrizione dell’anno<br />
783, aggiunta secondo la mia ipotesi, a lato della fenestella confessionis di un più antico altare a cassa.<br />
Scolpita dunque in occasione di una ricognizione delle reliquie della Vergine, l’epigrafe nomina
Maria secondo un epiteto veterotestamentario che, nell’innografia bizantina, definisce la <strong>The</strong>otokos<br />
«Tempio di Dio» e «Santo dei Santi».<br />
Al di sopra dell’altare, un archivolto era retto da una coppia di colonne vitinee che Giovanni,<br />
figlio di Platone, l’ultimo curator Palatii a noi noto, era riuscito a procurarsi per assicurare alla<br />
Vergine il fasto imperiale riservato in basilica solo all’altare dell’Apostolo.<br />
Sopra l’edicola monumentale e fino alle capriate del tetto, si estendeva su tre registri la decorazione<br />
musiva che ripercorreva la storia della salvezza dall’Annuciazione fino alla morte e resurrezione del Cristo.<br />
Fuoco del ciclo figurativo era una nicchia – tra colonne di marmo nero – che accoglieva l’icona<br />
musiva della <strong>The</strong>otokos accompagnata dal papa donatore. L’icona della Vergine, una Blachernitissa in<br />
abiti regali, priva del bambino ma con il grembo arrotondato, veniva ritualmente nascosta da cortine<br />
appese all’asta infissa ai capitelli delle colonne.<br />
Infine, nel pavimento, in asse con l’icona e con l’altare della <strong>The</strong>otokos, Giovanni VII aveva prescritto<br />
di essere inumato. A mio avviso, proprio sotto la lastra dell’epitaffio, che in distici elegiaci<br />
traduceva la devozione greca del pontefice in una lingua intessuta di occorrenze virgiliane, ma anche<br />
di rinvii all’Akathistos, il più celebre inno bizantino dedicato alla Madre di Dio.<br />
L’ubicazione della tomba è del resto allusa anche nel testo epigrafico, che cito nei primi quattro versi:<br />
«Qui il presule Giovanni stabilì di essere sepolto e prescrisse di essere deposto sotto i piedi della<br />
domina, affidando l’anima alla protezione della santa madre (sub tegmine matris) che vergine, non<br />
sposata, ha partorito generando Dio».<br />
È proprio il ruolo tutelare di Maria evocato nell’epitaffio di Giovanni con l’espressione «sub tegmine<br />
matris» a spiegare la scelta del pontefice di farsi tumulare ai piedi dell’altare.<br />
Interpreterei infatti l’espressione sub tegmine matris, così suggestivamente virgiliana, come il riferimento<br />
a una reliquia della Vergine conservata nell’altare dell’oratorio, una reliquia del Presepe, ma<br />
forse anche del veneratissimo maphorion.<br />
La sua presenza giustificherebbe anche l’iscrizione (nota dai disegni seicenteschi) posta sopra<br />
l’archivolto dell’altare Domus Sanctae Dei Genitricis Mariae, che già Carlo Bertelli mise in relazione<br />
con l’oikos costantinopolitano eretto da Leone I alle Blacherne per custodire il velo.<br />
Se con l’apertura della porta santa e la distruzione dell’altare di Giovanni VII ci si premurò di<br />
mettere in salvo e murare in una parete dell’antico sacello l’iscrizione incisa a lato della fenestella<br />
confessionis dell’altare, una cura maggiore doveva essere stata riservata al suo prestigioso deposito di<br />
reliquie.<br />
Ora, come ci ricorda l’Alfarano, alla fine del XVI secolo di reliquie del<br />
velo della Vergine nella basilica di San Pietro ne era consevata più d’una: la<br />
più interessante mi sembra quella deposta nel 1479 nell’altare della cappella<br />
fatta edificare da Sisto IV della Rovere.<br />
Riservata al coro dei canonici della basilica, la cappella di Sisto IV dove<br />
il papa prescrisse di essere inumato si apriva sulla navata esterna meridionale<br />
della basilica ed era dotata di spolia di eccezionale pregio come la coppia di<br />
colonne porfiretiche con i tetrarchi sulle quali si impostava l’arco absidale.<br />
Proveniente dall’Ordine francescano, Sisto della Rovere – eponimo di papa<br />
Sisto III (432-440), che a Roma eresse la prima basilica mariana della città – si<br />
distinse per una speciale devozione alla Vergine.<br />
Fu lui a introdurre a Roma la festa della Concezione e all’Immacolata<br />
Fig. 2 – BAV, Barb. lat.<br />
2733, f. 130r, l'abside della<br />
cappella di Sisto IV in San<br />
Pietro (da Galli 2009)<br />
37
consacrò anche la cappella dove si fece seppellire: ai piedi dell’altare e in vista dell’abside, dominata<br />
dall’immagine della Vergine «in corona angelorum» affrescata dal Perugino.<br />
A tale proposito ha certo un significato che, contrariamente all’uso degli ecclesiastici, Sisto IV si sia<br />
fatto inumare con i piedi verso l’altare e cioè idealmente con il volto all’immagine della Vergine.<br />
È stato osservato come questa sepoltura, isolata su tutti i lati al centro del sacello, «segnasse una<br />
vistosa anomalia rispetto alla consuetudine quattrocentesca dei sepolcri papali» (Galli 2009).<br />
Se il celeberrimo monumento del Pollaiolo, commissionato da Giuliano della Rovere, fu portato a termine<br />
dieci anni dopo la scomparsa di Sisto (1494), nei fatti esso conferiva una forma – umanisticamente<br />
sovraconnotata e per così dire “tridimensionale” – a un’idea che già Sisto IV aveva della propria sepoltura.<br />
Johannes Burchardus, il maestro di cerimonie che, nella turbolenza dell’evento, si occupò delle<br />
esequie del pontefice, ricorda nel dettaglio le disposizioni del papa.<br />
Sisto volle essere inumato «nella sua cappella nuova, circa nel mezzo, piuttosto vicino all’altare»<br />
asserendo i cardinali «ipsum defunctum locum huiusmodi in sepolturam suam sibi elegisse». E, prima<br />
della messa in opera del monumento bronzeo, il tumulo doveva essere segnalato nel pavimento da<br />
un semplice ed elegante epitaffio.<br />
Forse una coincidenza o solo l’ultima volontà di un papa, ambizioso e potente, che morendo riprendeva<br />
il saio francescano, eleggendo la terra nuda come ultima dimora. E tuttavia un “programma” che ha<br />
davvero molte analogie con le diposizioni di Giovanni VII, deposto «sub pedibus Domine».<br />
Riterrei dunque plausibile che, alla vigilia del Giubileo 1475, Sisto IV, facendo rimuovere l’altare<br />
di Giovanni VII per aprire la nuova Porta Santa, abbia prelevato per sé la reliquia del velo della<br />
Vergine, destinandola all’altare della propria cappella funeraria.<br />
Come osserva Jacques Le Goff «il sacro è tenace» e il lungo prestigio della basilica Vaticana, eletta<br />
per secoli a mausoleo dei pontefici romani, si conferma nella vitalità di un codice antico e di una<br />
tradizione di modelli ineludibile, anche alle soglie del Rinascimento.<br />
38<br />
Antonella Ballardini<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
A. BALLARDINI, <strong>The</strong> Oratory of John VII in Old St. Peter’s: Architectural Decoration and Furnishings, in A.<br />
Ballardini, P. Pogliani, A Reconstruction of the Oratory of John VII (705-707), in Old St. Peter’s Conference (British<br />
School at <strong>Rome</strong>, 22-25 marzo 2010), in corso di stampa.<br />
A. BALLARDINI, Un oratorio per la <strong>The</strong>otokos: Giovanni VII (705-707) committente a San Pietro, in Medioevo: i<br />
committenti, Atti del XIII convegno internazionale di studi di Parma (21-26 settembre 2010), Parma-Milano<br />
2011, pp. 94-116.<br />
A. GALLI, Monumento di Sisto IV. L’opera di Antonio del Pollaiolo 1484-1493, in Archivum Sancti Petri. Bollettino<br />
d'archivio 6-7 (2009), p. 12.<br />
Dalla Curia Senatus alla chiesa di Sant’Adriano. La riscoperta di un palinsesto architettonico<br />
e pittorico perduto<br />
La demolizione della chiesa di S. Adriano e dell’annesso convento dei Mercedari, finalizzata al ripristino<br />
dell’antica Curia Senatus, fu consumata tra il 1932 e il 1937. Sotto i colpi dei “picconi del regime” che<br />
in poco tempo abbatterono un intero quartiere post-rinascimentale, insediato tra i Fori, fu abbattuto in<br />
poco tempo a vantaggio della Via dell’Impero e del recupero archeologico della Roma imperiale. I lavori<br />
di smantellamento della chiesa barocca, diretti da Alfonso Bartoli, fecero riemergere, per poi annientarlo,
un sorprendente palinsesto architettonico, riportando alla luce, a<br />
quote diverse, tre basiliche precedenti: una della seconda metà del<br />
XVI secolo, un’altra degli inizi del XII secolo e infine, al livello del<br />
pavimento dioclezianeo, a più di sei metri dal piano barocco, i resti<br />
della chiesa altomedievale.<br />
La Curia Senatus-S. Adriano è uno dei nodi topografici più<br />
rilevanti dell’intero complesso dell’area archeologica centrale, nonché<br />
uno dei monumenti più frequentati del Foro romano, ospitando<br />
da qualche anno esposizioni temporanee promosse dalla<br />
Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma (SSBAR).<br />
Tuttavia, fino ad oggi, questo monumento non è stato oggetto di<br />
uno studio monografico volto a ripercorrere diacronicamente le sue<br />
complesse vicende architettoniche e decorative.<br />
Il progetto di ricerca “Dalla Curia Senatus alla Chiesa di S.<br />
Adriano al Foro romano. Progetto<br />
Fig. 2 – Roma. S. Adriano, planimetria<br />
della chiesa altomedievale<br />
di realtà virtuale per la ricostruzione di tredici secoli di storia del<br />
monumento” (responsabile scientifico Maria Luigia Fobelli), nasce<br />
con l’intenzione di iniziare a colmare questa lacuna e si pone i<br />
seguenti obiettivi: creazione di un ambiente virtuale per la fruizione<br />
dell’architettura, della decorazione pittorica e degli arredi scultorei<br />
dell’edificio in tutte le sue trasformazioni, dalla Curia Senatus dioclezianea<br />
allo smantellamento degli anni 1932-1939 della chiesa di<br />
S. Adriano; ricostruzione e ricontestualizzazione delle decorazioni<br />
pittoriche (IV-XVII secolo) attraverso l’uso e la sperimentazione di<br />
diverse tecnologie digitali di restituzione visiva.<br />
La prima fase del progetto, affrontata nel corso del 2011, si è concentrata<br />
sulla restituzione in 3D della fase altomedievale dell’edificio<br />
(VII-XI secolo) e sulla ricostruzione della sua decorazione pittorica e<br />
degli arredi liturgici.<br />
Bartoli, della chiesa altomedievale, rinvenne l’emiciclo absidale, il<br />
setto presbiteriale, il basso coro, una cappella esterna con dipinti murali<br />
e frammenti di pitture all’interno di<br />
quattro delle sei nicchie nelle pareti<br />
perimetrali e in controfacciata. Questi frammenti sono gli unici a essere<br />
sopravvissuti in situ perché aderenti alla muratura dioclezianea.<br />
La trasformazione della Curia Senatus in chiesa, dedicata a<br />
sant’Adriano, avvenne, secondo il Liber Pontificalis, nella prima<br />
metà del VII secolo, per volere di Onorio I (625-638), figlio<br />
dell’exconsul Petronio, ultimo senatore occidentale attestato dalle<br />
fonti. Alla fine dell’VIII secolo, la chiesa fu oggetto di particolari<br />
attenzioni da parte di Adriano I (772-795): fu dotata della cappella<br />
esterna, ricevette ingenti donazioni di suppellettili e arredi liturgici<br />
e fu trasformata in diaconia.<br />
Fig. 1 – Roma. Curia senatus, facciata<br />
Fig. 3 – Ricostruzione 3D della sezione<br />
trasversale nord-ovest della chiesa altomedievale<br />
di S. Adriano (realizzata da<br />
G. Di Benedetto, V. Valentini)<br />
39
La conversione in chiesa e gli interventi successivi non alterarono i livelli e la morfologia dell’edificio<br />
dioclezianeo, la decorazione pittorica si inserì in spazi circoscritti, come le nicchie e brevi tratti<br />
di parete, senza stravolgere il preesistente rivestimento in opus sectile.<br />
La restituzione 3D della chiesa e la visualizzazione delle sue pitture nella fase altomedievale è<br />
stata articolata in otto viste, messe a punto da chi scrive in collaborazione con Manuela Viscontini,<br />
Valeria Valentini e l’architetto Gianni Di Benedetto, seguendo la metodologia sperimentata, a partire<br />
dal 2006, per l’elaborazione dei volumi del progetto “Atlante. Percorsi visivi (La pittura medievale a<br />
Roma, 312-1431. Corpus e Atlante)”, diretto da Maria Andaloro.<br />
La decorazione dioclezianea in opus sectile delle pareti, che restò in opera fino alla metà del XVII<br />
secolo, è stata ricostruita grazie alla consulenza di Alessandro Viscogliosi e Paola Zampa, sulla base<br />
di un disegno (post 1515) attribuito ad Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546), scoperto da<br />
Rodolfo Lanciani in un codice berlinese, oggi conservato presso il Kupferstichkabinett. L’assetto altomedievale<br />
dell’aula è stato invece ricreato attraverso lo studio della documentazione grafica e fotografica<br />
dei lavori condotti da Bartoli negli anni 1932-1937, conservata presso gli archivi della SSBAR, e<br />
sulla base del lavoro imprescindibile di Adele Mancini, pubblicato nel 1968.<br />
Per quanto riguarda la decorazione pittorica dell’edificio, va evidenziato che l’interno della chiesa<br />
altomedievale non accolse un programma iconografico unitario, ma degli interventi pittorici isolati,<br />
indipendenti gli uni dagli altri e caratterizzati dalla presenza di figure di committenti e donatori,<br />
ritratti o ricordati in iscrizioni pictae. Queste pitture, pressoché ignorate dalla storiografia e databili<br />
tra VIII e X secolo, sono oggi in uno stato frammentario, con una superficie pittorica depauperata<br />
che ne rende ardua la lettura. Obiettivo primario della ricerca è quello di rendere leggibile ciò che<br />
ineluttabilmente sta scomparendo sulle pareti della Curia, di registrare ogni minima traccia, di riconoscerla<br />
e arrivare a ricostituire il tessuto figurativo di cui era parte integrante, attraverso un lavoro<br />
di decodifica attento a non varcare mai la soglia dell’invenzione.<br />
Particolare attenzione è stata dedicata alle iscrizioni pictae conservate all’interno dei diversi contesti<br />
pittorici, che si sono rivelate documenti utili alla definizione del panorama socio politico di Roma<br />
tra VIII e IX secolo. In questa sede vorrei portare l’attenzione su due dei dipinti murali analizzati.<br />
Il primo, datato da Bartoli agli anni di Adriano I (772-795), è conservato alla base della seconda<br />
nicchia della parete nord-ovest. Nel riquadro si legge la figura di Cristo affiancata da un santo e da<br />
una santa, nei quali ho proposto di riconoscere i santi Adriano e la moglie Natalia. Ai piedi delle tre<br />
figure stanti sono ritratti quattro piccoli personaggi inginocchiati, dalle sembianze due maschili e<br />
due femminili. Accanto alla figura a sinistra dei piedi di Cristo è rimasta un’iscrizione letta da Bartoli<br />
come: Gaiferius consul et dux. Un’attenta analisi di quanto resta del titulus ha indotto a proporre una<br />
nuova trascrizione: Constan/t[inu]s con/s[u]l. La parola dux è oggi scomparsa. Constantinus, donatore<br />
del pannello iconico, si è fatto qui ritrarre in compagnia della moglie e dei figli, emulando probabilmente<br />
il più famoso primicerius Teodoto, committente della cappella dei Santi Quirico e Giulitta<br />
nella vicina Santa Maria Antiqua.<br />
Bartoli ed altri hanno riconosciuto nel consul e dux Gaiferius, ora Costantinus, un personaggio di rango<br />
senatorio, la cui presenza avvalorerebbe l’ipotesi che, nell’VIII secolo, l’aula fosse usata come chiesa e ancora<br />
come sede del Senato. In base agli studi più recenti di Brown, Arnaldi e Bulgarella, tuttavia, è assodato<br />
che il Senato romano, in quanto istituzione, fosse entrato in crisi negli anni della guerra goto-bizantina<br />
(535-553), per uscire di scena durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604). Nella seconda metà<br />
dell’VIII secolo il termine senatus riappare nelle epistole diplomatiche papali, ma con un’altra identità<br />
40
ispetto al passato. Con la caduta di Ravenna nel 751, per mano longobarda, che segnò il definitivo crollo<br />
dell’egemonia bizantina in Italia, cominciava di fatto il dominio temporale dei papi, i quali subentravano<br />
al governo imperiale nell’amministrazione del ducato di Roma. I consul et duces che si incontrano con<br />
crescente frequenza nelle fonti dall’VIII al X secolo sono ora espressione di un nuovo ordo senatorius,<br />
composto dai più alti funzionari del palatium apostolico appartenenti alla nuova aristocrazia clericale. In<br />
Constantinus consul et dux si è proposto di riconoscere uno di questi nuovi funzionari lateranensi,<br />
probabilmente anche coinvolto nel patronato della diaconia di S. Adriano.<br />
Il secondo dipinto analizzato è conservato nella prima nicchia della parete sud, in parte leggibile<br />
attraverso il disegno preparatorio. Il tema raffigurato è quello dell’Ascensione, scandita in due registri: nel<br />
superiore è rappresentato Cristo all’interno di una mandorla retta da quattro angeli, nell’inferiore restano<br />
tracce dei dodici apostoli posti ai lati della Vergine. Chiude la scena in basso un’iscrizione dedicatoria a<br />
lettere capitali: † De donis D(e)i et salbatori n(ost)r(i)s Ih(s)u Xr(ist)i et s(an)c(t)e D(e)i genetr(ic)is et beatorum<br />
apos / tolorum atque et s(an)c(t)or(um) martyrum Petri, Iacopi, Chrysogoni et Anastasie. / [E]go Sergius peccator<br />
consol et tabellio quem a nobiter feci, ame(n) (foglia). Mense martio, ind(ictione) X, die XX. Sulla paretina<br />
laterale sinistra della nicchia si leggono, inoltre, tre santi stanti, posti su due registri. In quello inferiore<br />
sono dipinte due figure accompagnate in alto dall’iscrizione che le identifica. I due tituli furono trascritti<br />
da Augusto Campana nel seguente modo: [---]tissimus / [---]cleo[--]vato / [Sanctus Ch]romatius // † S(anctus)<br />
Chryso / gonus. Del primo titulus si è proposta una lettura alternativa, che getta nuova luce sull’intera decorazione:<br />
[Sanc]tissimus / [dominus] Leo quar[tus] / [papa] romanus. La lettura trova riscontro nella figura di<br />
pontefice dipinta al di sotto dell’iscrizione, immagine conforme a quella di Leone IV (847-855), dipinta<br />
sulla parete d’ingresso della basilica inferiore di S. Clemente. L’identificazione di Leone IV ha consentito<br />
finalmente di sciogliere l’indizione e decifrare la data di dedicazione della nicchia: 20 marzo 847, datando<br />
ad annum, mensem e diem la decorazione soprastante.<br />
Nel consul et tabellio Sergius, non altrimenti noto nelle fonti, va riconosciuto, invece, un esponente<br />
del notariato romano, espressione della nuova e mutante realtà amministrativa della città alla metà<br />
del IX secolo. I tabelliones Urbis Romae, eredi del collegio tabellionale romano-bizantino riorganizzato<br />
da Giustiniano, erano funzionari che rogavano contratti tra privati, di contro agli scrinarii Sanctae<br />
Romanae Ecclesiae, scrittori ecclesiastici che redigevano atti pubblici alle dipendenze della cancelleria<br />
pontificia. Personaggi con questa doppia qualifica sono attestati nel Regesto Sublacense a partire<br />
proprio dal IX secolo, ma la loro massima concentrazione si registra nel X secolo. Per il IX secolo<br />
è infatti attestato, in un documento dell’837, il caso isolato di un Johannes in Dei nomine consul et<br />
tabellio urbis Romae. Sergius, stando all’intervento promosso in S. Adriano, sembrerebbe confermare<br />
l’ipotesi avanzata da Toubert che il doppio epiteto consul et tabellio fosse usato per designare i priori<br />
della corporazione dei tabellioni. Il nostro è qui committente della decorazione di un’intera nicchia<br />
dove accanto alla sua sottoscrizione appare anche l’immagine del pontefice in carica Leone IV, elementi<br />
che inducono a pensare che si trattasse, anche in questo caso, di un alto funzionario con una<br />
posizione sociale prestigiosa ed anche un certo agio economico.<br />
Constantinus e Sergius, personaggi finora ignorati dalla storiografia, testimoniano due importanti<br />
tappe dell’ascesa e della programmatica affermazione delle nuove classi dirigenti laiche romane tra<br />
VIII e IX secolo e sono attestati proprio in S. Adriano al Foro romano, in origine la Curia senatus,<br />
luogo che per secoli ha accolto la vita politica della città di Roma.<br />
Giulia Bordi<br />
41
BIBLIOGRAFIA<br />
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Romana di Archeologia», XL (1967-1968), pp. 191-245.<br />
G. ARNALDI, Rinascita, fine, reincarnazione e successive metamorfosi del senato romano (secoli V-XII), in «Archivio<br />
della Società Romana di Storia Patria», 105 (1982), pp. 5-56 (in part. pp. 29-36).<br />
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554-800, Hertford 1984, pp. 21-37.<br />
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Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale, Roma 1983, pp. 197-224.<br />
G. BORDI, S. Adriano al Foro Romano e gli affreschi altomedievali, in Roma dall’antichità al medioevo. Archeologia<br />
e storia nel Museo Nazionale Romano Crypta Balbi a cura di M. S. Arena et al., Roma 2001, pp. 478-486.<br />
F. BURGARELLA, Il Senato, in Roma nell’Alto medioevo, Settimane di studio del centro italiano di studi sull’Alto<br />
medioevo, 48, 2000, Spoleto 2001, pp. 121-175.<br />
P. TOUBERT, Scrinium et Palatium: la formation de la bureaucratie romano-pontificale aux VIII e -IX e siècles, in Roma<br />
nell’Alto medioevo, Settimane di studio del centro italiano di studi sull’Alto medioevo, 48, 2000, Spoleto 2001,<br />
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R. MENEGHINI, Il Foro romano, in R. Meneghini-R. Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo. Topografia e<br />
urbanistica della città dal V al X secolo, Roma 2004, pp. 157-175.<br />
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G. BORDI, Committenza laica nella chiesa di Sant’Adriano al foro romano nell’Altomedioevo, in Medioevo: i<br />
committenti, Atti del XIII Convegno Internazionale di Studi (Parma, 21-26 settembre 2010), a cura di A.C.<br />
Quintavalle, Bologna 2011, pp. 63-75.<br />
Anfiteatro Flavio: lo scavo di due ambienti del primo ordine<br />
Il progetto nasce da una proposta fatta da una collega archeologa, Rossella Rea, che è il funzionario<br />
della Soprintendenza Archeologica di Roma che ha l’onore, e il pesante onere, di occuparsi<br />
del Colosseo, e che sta avviando le complesse pratiche legate ai lavori di restauro finanziati dalla<br />
sponsorizzazione di Della Valle. All’inizio la proposta era quella di riprendere un lavoro avviato<br />
negli anni ’70 ma lasciato incompiuto e mai oggetto di pubblicazione, neppure preliminare, cioè<br />
lo svuotamento dei grandi collettori che provvedevano allo smaltimento delle acque dall’enorme<br />
invaso dell’Anfiteatro, e che con la fine della manutenzione del monumento si erano completamente<br />
ostruiti. Il collettore settentrionale, sul quale si sarebbe dovuto concentrare il lavoro, è alto più di<br />
un metro e ottanta e largo un metro e venti. Le poche notizie disponibili relative agli scavi degli<br />
anni ’70 indicavano come l’interro fosse ricchissimo di materiali relativi alle fasi tardo antiche e<br />
altomedievali di utilizzo del monumento. La proposta mi aveva interessato molto, poiché avrebbe<br />
permesso di indagare proprio quella fase storica di passaggio dall’antichità all’alto medioevo che da<br />
tempo costituisce il principale oggetto delle mie ricerche, e inoltre avrebbe consentito di approfondire<br />
i temi dei modi di formazione dei contesti archeologici e dell’interpretazione degli assemblaggi<br />
ceramici all’interno di un contesto stratigrafico chiuso, che è pure un tema metodologico del quale<br />
ho avuto modo di occuparmi. D’altra parte da tempo, nell’ambito degli insegnamenti del settore di<br />
metodologie della ricerca archeologica, sentivamo l’esigenza di affiancare a quello di Populonia anche<br />
un altro scavo con valenza didattica, indispensabile per dare a un maggior numero dei nostri studenti<br />
quell’esperienza che, nel nostro lavoro, si può ottenere solo sul campo. L’avvio dei lavori di scavo era<br />
42
però condizionato dal preventivo svuotamento del condotto, da parte della ditta che sta impostando<br />
il cantiere di restauro, dell’acqua che ne riempie il fondo per un’altezza di quasi cinquanta cm. Questo<br />
svuotamento non si è riusciti a realizzarlo, probabilmente a causa di un rialzamento della falda, che fa sì che<br />
l’acqua ritorni man mano che si svuota. Questo contrattempo ha costretto a rivedere il progetto, essendo<br />
comunque intenzione della Soprintendenza di Roma di mantenere questa collaborazione con il nostro<br />
Dipartimento, anche in previsione di future iniziative, e presentando un grandissimo cantiere di restauro<br />
come quello che si sta allestendo al Colosseo molte altre esigenze di indagini preliminari.<br />
Di comune accordo con la collega Rea abbiamo quindi deciso di indirizzare lo scavo all’indagine di due<br />
ambienti delle sostruzioni della cavea dell’anfiteatro, al primo ordine (cioè il piano terra del monumento)<br />
e in particolare un sottoscala del cuneo III sul terzo anello e l’intero cuneo X (sottoscala, antistante corridoio<br />
radiale e parte del terzo anello). Questa scelta è derivata dall’incontro di opportunità scientifiche e<br />
didattiche, da parte nostra, e di esigenze logistiche e conservative da parte della Soprintendenza. È infatti<br />
nei progetti della Soprintendenza arrivare a rimettere in luce i piani antichi almeno in alcuni settori del<br />
primo ordine del monumento, per ripropone la percorribilità originaria; la posizione degli ambienti selezionati,<br />
all’interno di un’area chiusa al pubblico, costituiva poi un elemento essenziale per l’installazione<br />
del cantiere di scavo. Obiettivo scientifico dell’intervento era quello di ottenere dati sulle fasi medievali<br />
di utilizzo del Colosseo, fasi i cui resti sono stati<br />
quasi completamente cancellati nella “liberazione”<br />
ottocentesca del monumento. I due ambienti<br />
scelti per le indagini appartengono a tipologie<br />
diverse e dovevano rispondere a domande storiche<br />
diverse. L’ambiente del cuneo X è uno di quelli<br />
utilizzati come stalla o fienile, come mostra anche<br />
la presenza di una vasca e gli incassi per solai sulle<br />
pareti. L’obiettivo dello scavo in questo caso era<br />
quello di individuare gli strati in fase con questo<br />
momento di utilizzo, in modo da precisarne<br />
natura e funzione, datarlo su base archeologica<br />
e seguirne le trasformazioni; il piccolo sottoscala<br />
Fig. 1 – Anfiteatro Flavio. L’ambiente del cuneo X in corso<br />
di scavo<br />
del cuneo III invece appartiene a una tipologia di ambienti che non mostrano tracce di riutilizzo ma<br />
che, si sperava, potesse fornire elementi per datare con precisione il momento della spoliazione della<br />
pavimentazione del monumento.<br />
Per quanto riguarda l’aspetto didattico, questo cambiamento di progetto presentava poi notevoli<br />
vantaggi: innanzitutto la maggior ampiezza dell’area di scavo ha consentito di aumentare sensibilmente<br />
il numero degli studenti che hanno potuto partecipare, dai 18 previsti originariamente, a 35<br />
che hanno partecipato, divisi nei due turni di tre settimane ciascuno in cui si è articolato lo scavo<br />
(purtroppo molte altre richieste non hanno comunque potuto essere accolte, ma questo dimostra<br />
il grande desiderio che c’è tra i nostri studenti di affiancare alla tradizionale attività didattica anche<br />
esperienze pratiche e sul campo); inoltre, trattandosi di uno scavo metodologicamente molto più<br />
“tradizionale”, è stato senz’altro più adatto a fornire una esperienza di base per studenti con poca o<br />
nessuna pratica di scavo, consentendo loro di familiarizzarsi con attività quali il riconoscimento e il<br />
rilevamento degli strati, l’esecuzioni di sezioni volanti e cumulative, la schedatura di strutture etc.,<br />
che nelle condizioni particolari dello scavo nel collettore non avrebbero potuto essere svolte.<br />
43
Formalmente lo scavo è stato una codirezione tra la Soprintendenza di Roma e il Dipartimento,<br />
e direttori siamo Rossella Rea ed io; per coordinare il lavoro degli studenti è stato inoltre formato<br />
un piccolo gruppo di lavoro composto da collaboratori con vasta esperienza di scavo e di studio dei<br />
materiali: Monica Ceci, Giulia Facchin e Ilaria De Luca.<br />
Lo scavo si è svolto dal 13 giugno al 23 luglio, con una “coda” a settembre per completare della<br />
documentazione lasciata in sospeso; tutte le operazioni di documentazione, scavo, trasporto delle<br />
terre all’interno del cantiere, lavaggio e inventariazione dei materiali, sono state eseguite dagli studenti<br />
di Roma Tre, mentre per le operazioni cantieristiche, la fornitura degli attrezzi e il trasporto<br />
delle terre a discarica, grazie all’accordo con La Soprintendenza, ci siamo potuti appoggiare alla ditta<br />
che cura la manutenzione del monumento. Questo aiuto è stato fondamentale, in quanto i costi di<br />
queste operazioni, anche su uno scavo limitato come questo, superano ampiamente le disponibilità<br />
dei fondi di ricerca annuali a disposizione del Dipartimento.<br />
I risultati raggiunti sono andati al di là delle nostre aspettative, consentendoci di rispondere alle<br />
domande storiche che ci eravamo posti.<br />
Espongo ora brevemente una sintesi dei risultati raggiunti.<br />
Nel cuneo III lo strato che riempie la spoliazione del pavimento antico, benché tagliato e disturbato<br />
da interventi posteriori, ha consentito di fissare la cronologia di questa spoliazione alla seconda<br />
metà del XII secolo, in sincronia con quanto documentato anche nella parte più interna del cuneo<br />
X, ambulacro e corridoio radiale. Più complessa la situazione nel sottoscala del cuneo X (fig. 1). Qui<br />
lo scavo ha messo in luce diverse fasi di utilizzo dell’ambiente successive alla spoliazione della pavimentazione.<br />
Nel corso del XII secolo, subito dopo l’asportazione delle lastre pavimentali e quasi al<br />
livello della fondazione flavia, l’ambiente venne chiuso sul lato aperto verso l’ambulacro con un muro<br />
(di cui rimane solo una labile traccia) e pavimentato con un irregolare battuto. Sul lato di fondo,<br />
a ridosso del muro antico che lo chiude, venne edificata una struttura, forse un bancone, costruita<br />
con pietre irregolari e malta di calce, di cui rimane la parte più bassa. Un focolare, costituito da un<br />
cerchio regolare di pietre, indica una possibile funzione abitativa per questo ambiente, testimonianza<br />
dell’esistenza, ancora in pieno bassomedievo, di tipologie di edilizia residenziale precarie, sulle quali<br />
la nostra documentazione, sia archeologica che scritta, è labilissima. Successivamente, nel corso della<br />
prima metà del XIII secolo, l’ambiente subì una profonda modificazione: il livello di calpestio venne<br />
rialzato fino a 30 cm. con un riporto di terra e sassi e con la creazione di un nuovo, irregolare, piano<br />
di calpestio. La struttura a ridosso del muro di fondo e il muro di chiusura verso l’esterno vennero<br />
rasati, mentre addossata alla parete Est venne costruita una nuova struttura, costituita da un muro<br />
alto circa 1,20 m. e lungo circa 5 m., su cui poggia una vasca costituita da uno spesso strato di cocciopesto.<br />
È probabile che questa trasformazione abbia segnato un cambio di utilizzo dell’ambiente,<br />
utilizzato ora come deposito, stalla, o per attività produttive ancora da chiarire. L’asportazione di gran<br />
parte dei muri in blocchi della costruzione flavia che delimitavano l’ambiente, di cui lo scavo ha evidenziato<br />
le ampie fosse di spoliazione, segnò, nella seconda metà del XIII secolo, la fine dell’utilizzo<br />
dell’ambiente, che venne ad essere coperto da depositi di limo, tagliati dagli sterri ottocenteschi. La<br />
parte più alta della stratificazione era infine costituita dagli strati relativi al cantiere di restauro della<br />
prima metà del XIX secolo.<br />
Nell’ottobre 2011 ha preso avvio un seminario, su base volontaria, ma al quale partecipano tutti<br />
gli studenti che hanno preso parte allo scavo, dove, con incontri periodici, si elaborano i diagrammi<br />
stratigrafici e le piante di fase, si analizzano e schedano i materiali, si approfondiscono temi specifici,<br />
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in modo da giungere in tempi brevi alla pubblicazione dei risultati dello scavo, e di consentire a tutti<br />
gli studenti e neolaureati di parteciparvi e di veder riconosciuto il loro impegno.<br />
Nelle intenzioni della Soprintendenza c’è la prosecuzione di questa collaborazione anche negli anni<br />
prossimi, e la speranza, se la disponibilità dei finanziamenti lo consentirà, è di trasformare questo scavo<br />
in un cantiere scuola stabile per gli studenti di Roma Tre.<br />
L’incisione a Roma fra Cinquecento e Seicento. Paesaggio e veduta<br />
Riccardo Santangeli Valenzani<br />
La ricerca prende in esame alcune raccolte di incisioni raffiguranti paesaggi e vedute di Roma<br />
antica e moderna di importanti incisori, da Hieronymus Cock a Giovanni Maggi, per cercare di<br />
chiarire alcuni aspetti dello sviluppo e della diffusione dei modi di rappresentazione del paesaggio<br />
fino a Paul Bril, l’uomo di punta del paesaggio cinquecentesco italiano di matrice nordica che, direttamente<br />
o no ed anche “in opposizione”, stimola i cambiamenti e che in ogni caso ci fa misurare la<br />
distanza delle innovazioni di Annibale Carracci e Adam Elsheimer. Considerando alcuni problemi,<br />
alcuni incroci di questioni, lacune e zone d’ombra negli studi sulla pittura di paesaggio a Roma nel<br />
pieno Cinquecento ed anche la vitalità dei luoghi comuni e dei fraintendimenti che hanno per alcuni<br />
versi strutturato la visione di uno sviluppo della rappresentazione del paesaggio sostanzialmente<br />
sulla linea veneta e su quella nord-europea, può essere utile riesaminare alcuni gruppi di incisioni<br />
realizzate fra il 1540 e il 1570, cioè fino all’arrivo a Roma di Matthijs Bril, fratello maggiore di Paul.<br />
Proprio intorno agli anni Quaranta il paesaggio compare, come genere autonomo, nella decorazione<br />
dei palazzi, soprattutto all’interno dei fregi (Palazzo dei Conservatori, Villa Giulia, Appartamento di<br />
Giulio III nei Palazzi Vaticani). Vi sono rappresentati in forma più o meno fedele monumenti antichi<br />
e vedute di Roma, paesaggi d’invenzione in uno stile che possiamo definire schiettamente romano<br />
e “raffaellesco” per mettere in risalto la presenza di un’altra direzione di sviluppo, che certamente si<br />
incrocia anche con quella veneta e quella nord-europea, ma che cresce soprattutto sugli esempi di<br />
Giulio, Polidoro e Perino (Sapori, in c.d.s.). La sua componente antiquaria trae molti motivi anche<br />
da incisioni pubblicate da Antonio Salamanca e riflette, a mio parere, l’ambiente di Salamanca,<br />
Francisco de Hollanda, dell’Accademia della Virtù, di Serlio e Ligorio. In questo contesto acquista<br />
speciale rilievo la raccolta Prospettive et antichità di Roma, dedicate al cardinale Guido Ascanio Sforza di<br />
Santafiora (1554-1557) di Michele Grechi o Michele Lucchese, allievo e collaboratore di Perino del<br />
Vaga, in particolare studiata da Paola Picardi. Essa comprende incisioni di monumenti antichi sia allo<br />
stato di rovina che idealmente ricostruiti, rappresentati anche in prospettiche scenografie, e motivi<br />
decorativi dall’antico in gran parte copiate, con qualche aggiunta d’ambientazione o di staffage, da<br />
rami di Nicolas Beatrizet, Agostino Veneziano, Androuet du Cercau e di altri incisori, alcuni ancora<br />
anonimi. A queste si aggiungono alcune vedute romane di impostazione un po’ incerta, come l’Arco<br />
dei Pantani e Castel S. Angelo, probabilmente opere originali di Grechi. Questi è sicuramente l’autore<br />
delle incisioni rappresentati sistemi decorativi raffaelleschi.<br />
Nella circolazione europea di invenzioni, incisioni, artisti ed in particolare fra coloro che lavorarono<br />
a Roma Etienne Dupérac, pittore, architetto, imprenditore e incisore francese, ha un posto<br />
importante per le incisioni di paesaggio e di I Vestigi dell’antichità di Roma. È ancora problematico<br />
cercare di precisare la cronologia dei disegni e delle incisioni di paesaggio sicuramente di sua mano<br />
45
così come di precisare le componenti della sua cultura. Oberhuber per primo individuò gli effetti di<br />
un probabile soggiorno a Venezia, prima dell’arrivo a Roma verso il 1560; più di recente Lurin vi ha<br />
visto i riflessi di Hans Bol e di Hans Sebald Lautensack. Qui voglio richiamare l’attenzione su alcune<br />
incisioni della scuola di Fontainebleau, delle quali è nota la immediata diffusione anche in Italia, e<br />
in particolare di Antonio Fantuzzi, datate o databili nei primi anni Quaranta, di Etienne Delaune e<br />
di Jean Cousin il vecchio, databili intorno alla metà del secolo, che rappresentano dei paesaggi entro<br />
ricche inquadrature ornamentali, derivanti dagli stucchi della Grande Galerie di Francesco I ed altri<br />
ambienti del castello di Fontainebleau. Alcuni di questi paesaggi hanno caratteri italianizzanti, altri<br />
decisamente nord-europei fra Germania e Paesi Bassi, ma, come ha osservato Zerner, non corrispondono<br />
in ogni caso a opere dipinte presenti nel castello. L’ipotesi che nel percorso di Dupérac avessero<br />
un ruolo le incisioni della scuola di Fontainebleau e di quella di Parigi e in particolare le incisioni di<br />
paesaggio sembra trovare dei riscontri nel confronto tra un Paesaggio incorniciato da satiri di Antonio<br />
Fantuzzi e il Paesaggio con cavalieri di Dupérac, tra la Caccia agli uccelli di Etienne Delaune e il<br />
Paesaggio con il cacciatore di anatre di Dupérac. Questi doveva aver visto opere di Campagnola e di<br />
Tiziano a Venezia ma ne assimilò qualche carattere anche tramite Hieronymus Cock, come indica il<br />
confronto fra il Paesaggio con Apollo e Dafne di Dupérac e il Il Settizodio e i ruderi severiani sul Palatino<br />
di Cock, una delle 25 tavole dei Precipua Aliquot Romanae Antiquitatis Ruinarum Monimenta , eseguite<br />
almeno a partire dal 1546 e pubblicate ad Anversa nel 1551, modello per la rappresentazione<br />
delle rovine romane di Dupérac.<br />
Sia a Cock che a Dupérac, alla loro ricerca di una descrizione oggettiva degli edifici antichi, della<br />
resa del contesto – più d’invenzione nel primo e più fedele nel secondo –, alla loro sensibilità paesistica<br />
nei dinamici effetti pittorici della luce e della atmosfera si è fatto riferimento per spiegare alcuni<br />
aspetti della produzione grafica e pittorica di Girolamo Muziano divenuto famoso a Roma come il<br />
“giovan de’ paesi” (Baglione). Il grande lavoro, così ricco di materiali, compiuto da Tosini sull’artista<br />
pone molti stimolanti interrogativi sulla evoluzione del suo modo o meglio modi di rappresentazione<br />
del paesaggio e in particolare a Roma anche in rapporto alle incisioni. Innanzitutto sembra poco<br />
probabile che Muziano , arrivato da Padova nel ’49, riuscisse ad ottenere autonome commissioni solo<br />
un paio di anni dopo, quando era appena ventenne. Nei primi anni Cinquanta sono infatti collocati<br />
la Natività di S. Caterina della Rota e gli affreschi (gravemente deperiti) di Rocca Sinibalda. Qui<br />
i paesaggi dai panorami dolcemente ondulati, derivanti da Lambert Sustris, sembrano però poco<br />
connessi con il robusto impianto paesistico della Natività. Se i modelli veneti rimasero per Muziano<br />
quelli studiati negli anni Quaranta ci si può anche chiedere se egli condivida con Dupérac soltanto<br />
una comune esperienza formativa in Veneto o anche delle direzioni di ricerca, ma certamente non si<br />
possono anticipare gli effetti su Muziano del nuovo stile romano e “classico” che impronta i Vestigi<br />
dell’antichità di Roma (1575) di Dupérac. Sono ancora infatti da chiarire la cronologia delle opere<br />
tra il ’50 e il ’60 e le sostanziali differenze di costruzione. In primo luogo fra i disegni dalla metà del<br />
Cinquanta fino a quelli con gli eremiti, incisi da Cort, caratterizzati da un impianto compositivo<br />
monumentale in verticale e da una compressione verso il primo piano: orizzonte alto, repoussoirs<br />
rialzati e scansione a forti dislivelli con quegli effetti di montagne impervie, forre e precipizi, rocce<br />
aguzze, vegetazione folta ammirati anche dai fiamminghi, e le solari vedute panoramiche dipinte Villa<br />
d’Este a lui riferite.<br />
46<br />
Giovanna Sapori
I giardini di Giovanni Maggi<br />
Insieme a Giacomo Lauro uno degli incisori di<br />
vedute di Roma, di paesaggi e vedute di fantasia è<br />
Giovanni Maggi, una figura finora poco studiata.<br />
Incisore attivo sin dal 1595 per i maggiori stampatori,<br />
editori e commercianti di stampe del Seicento,<br />
tra le sue prime opere sono da ricordare la serie dei<br />
paesaggi (1595-1601) e quella più ricca dei giardini<br />
(1601). Entrambi questi generi sono stati un’occasione<br />
per riflettere sull’importanza delle incisioni per la<br />
diffusione di motivi e sul loro impiego nel lavoro pittorico<br />
anche in diverse combinazioni. È nota infatti<br />
Fig. 1 – G. Maggi, Veduta di un giardino, incisione, Roma,<br />
Biblioteca Nazionale Centrale<br />
la presenza nei cicli di motivi tratti dalle incisioni di Hieronymus Cock, Etienne Dupérac o i Sadeler. Per<br />
il periodo che più ci interessa è importante considerare il grande successo dei disegni di Mattheijs e Paul<br />
Bril e le incisioni che ne furono tratte prima di tutto da Antonio Tempesta. Questi collaborò come pittore<br />
con Paul Bril e successivamente svolse un’autonoma attività di paesaggista.<br />
Le incisioni di Giovanni Maggi che compongono la serie dei giardini, furono da lui disegnate ed incise<br />
a bulino nel 1601. Tuttavia, non compaiono nei noti repertori di Nagler, Le Blanc né di Ehrle del 1915.<br />
L’unico esemplare completo da me ritrovato a Roma è quello della Biblioteca Nazionale Centrale. Sia<br />
questa serie che quella di collezione privata esaminata da Giorgetta sono privi di frontespizio e si compongono<br />
di dieci pezzi. Si tratta di un documento figurativo significativo nella storia del giardino poiché<br />
fissa all’inizio del Seicento la prima rappresentazione a stampa di giardini in Italia, al contrario diffusa in<br />
Europa già nel secolo precedente. Giovanni Maggi incide vedute di giardini, piazze e viali, ritratti dal vero<br />
e/o d’invenzione, nelle quali il ruolo più importante viene dato alla rappresentazione del giardino (fig. 1).<br />
Archi di verzura, vasche d’acqua o forse peschiere, e aiuole dalla partitura geometrica sono resi con un’attenzione<br />
al dettaglio che possiamo riscontrare solo nelle incisioni di paesaggio dello stesso Maggi. Meno<br />
attenzione viene data invece alle ville, rappresentate solo in parte o usate come punto di fuga prospettico, e<br />
ai personaggi, questi ultimi delineati attraverso l’utilizzo di poche linee di contorno e intenti a passeggiare<br />
all’interno del giardino o a rilassarsi all’ombra di un gazebo “ante litteram”.<br />
La mia ricerca è rivolta ad individuare e studiare i rapporti fra i giardini di Maggi e lo sviluppo dei modi<br />
di rappresentazione dei giardini in pittura a Roma come ad esempio dagli affreschi di Villa d’Este a Tivoli<br />
a quelli di Villa Mills al Palatino (derivanti da Tempesta). Più in generale mi propongo di precisarne i<br />
modelli sia in ambito nord-europeo, ad esempio con l’opera di Vredeman de Vries edita nel 1583, sia in<br />
ambito veneto, ma sempre di origine nordica, come quelle di Bordon e di Pozzoserrato.<br />
È da sottolineare che solo una delle incisioni della serie reca in basso al centro il nome dell’editore<br />
e commerciante di stampe Giovanni Orlandi, seguita dall’anno di edizione 1602, mentre le altre<br />
presentano solo l’iscrizione con il nome di Giovanni Maggi e l’anno di esecuzione. A mio avviso, la<br />
committenza della serie si potrebbe far risalire alla collaborazione, già a partire dal 1599-1600, tra<br />
il Maggi e la famiglia Vaccari cioè i maggiori editori in quegli anni a Roma. È certo, infatti, che la<br />
serie era in vendita almeno fino al 1614 nella bottega in Banchi alla Zecca vecchia poiché il catalogo<br />
Vaccari (Indice e nota particolare di tutte le stampe di rame che si ritrovano al presente nella Stamperia<br />
di Andrea e Michel’Angelo Vaccari in Roma…), registra “Vn libro di diece pezzi di Giardini diuersi,<br />
47
itagliati da Gio: Maggio”. Probabilmente l’Orlandi, che collaborò con il Maggi almeno fino al 1609,<br />
ebbe occasione di stampare una sola tavola dei giardini, nello stesso anno in cui pubblicò anche il<br />
Paesaggio con la cena in Emmaus di Maggi.<br />
48<br />
Ludovica Tiberti<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
F. EHRLE, Roma al tempo di Urbano VIII: la pianta di Roma Maggi Maupin Losi del 1625 riprodotta da uno dei<br />
due esemplari completi finora conosciuti, Roma 1915.<br />
K. OBERHUBER, Hieronymus Cock, Battista Pittoni und Paolo Veronese in Maser, in Munuscula Discipulorum:<br />
Festschrift fur Hans Kaufmann zum 70. Geburtstag, Berlin 1968, pp. 207-224.<br />
J. BURGERS, In de Vier Winden. De prentuitgeverij van Hieronymus Cock 1507/10-1570, catalogo della mostra,<br />
Rotterdam 1988.<br />
H. ZERNER, L’art de la Renaissance en France. L’invention du classicisme, Paris 1996.<br />
Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai temi di Bellini, Dürer, Tiziano, a cura di B. Aikema e B. L.<br />
Brown, catalogo della mostra Venezia, Milano 1999.<br />
P. PICARDI, Gli affreschi del palazzo di Paolo III al Campidoglio: un salvataggio anomalo, in «Paragone», 55<br />
(2004), pp. 3-26.<br />
F. CAPPELLETTI, Paul Bril e la pittura di paesaggio a Roma, 1580-1630, Roma 2006.<br />
S. BALLESI, Una famiglia di stampatori a Roma fra Cinque e Seicento: i Vaccari, in Il mercato delle stampe a Roma<br />
(XVI-XIX secolo), a cura di G. Sapori, con la collaborazione di S. Amadio, Foligno 2008, pp. 57-85.<br />
P. TOSINI, Girolamo Muziano 1532-1592. Dalla maniera alla natura, Roma 2008.<br />
E. LURIN, Un homme entre deux mondes: Etienne Dupérac, peintres, graveur, architecte en Italie et en France<br />
(c.1535?-1604)in Renaissance en France. Renaissance française?, a cura di H. Zerner e M. Bayard, Paris 2009,<br />
pp. 37-59.<br />
F. GIORGETTA, Hortus librorum liber hortorum: l’idea del giardino dal XV al XX secolo attraverso le fonti a stampa,<br />
Milano 2010, vol. I, pp.173-177.<br />
G. SAPORI, Paesaggio e cuir découpé nel fregio attorno alla metà de Cinquecento, in Il fregio dipinto nelle decorazioni<br />
romane del Cinquecento, atti del convegno, Roma, in c.d.s.<br />
Una famiglia di scultori, fonditori e mercanti di antichità: i Rondoni-Spagna<br />
Non è certo ignota agli studiosi l’esistenza di nuclei familiari allargati che svolgono lo stesso mestiere.<br />
Non solo sono da ricordare le reti parentali, certamente più celebri, dei pittori napoletani, ma certamente<br />
le estese parentele di architetti, scultori e scalpellini lombardi, sulla cui galassia la bibliografia è nutrita,<br />
soprattutto grazie agli studi recenti di Margherita Fratarcangeli di cui abbiamo tenuto il debito conto, sono<br />
state osservate piuttosto come un fenomeno sociale e nella loro globalità, eccezion fatta per i più noti come<br />
ad esempio i Della Porta.<br />
Ricordava S. Pressouyre, nel suo scritto su François Duquesnoy dell’ormai lontano 1984, che<br />
mancava, e a quanto pare ancora oggi manca, uno studio complessivo sulla famiglia allargata di fonditori<br />
Torrigiani-Censore a cui si debbono molte importanti opere bronzee della capitale tra la fine<br />
del Cinquecento ed il pieno Seicento.<br />
J. Montague, ne La scultura barocca romana (MONTAGUE 1991: 77), illustra le ragioni della scarsa attenzione<br />
data dagli studi ai numerosissimi scultori di secondo piano del XVII secolo, e di conseguenza anche ai<br />
molti gruppi familiari di scultori che quasi mai accedono all’eccellenza stilistica e formale: «Secondo la teoria<br />
artistica tradizionale Pittura, Scultura e Architettura sono tre sorelle nate dal Disegno, inteso sia in senso<br />
tecnico sia come invenzione. Questo in teoria, ma nella pratica solo pochi scultori erano in grado di tracciare<br />
sulla carta le proprie idee; questa incapacità non impediva loro di dar forma alle proprie invenzioni con la
terracotta, o perfino, con disegni decisamente brutti: più spesso però, questo equivaleva all’accontentarsi di<br />
realizzare disegni dati da altri artisti, pittori, architetti o […] da scultori dotati di maggiore inventiva. Non<br />
è sorprendente che tale rapporto di dipendenza provochi un senso di scoraggiamento in chi voglia studiare<br />
monograficamente un artista non di primo piano, poiché tali scultori non possono né debbono essere<br />
considerati individualmente, ma vanno inquadrati come membri di un contesto artistico più ampio e in<br />
rapporto a coloro che in ultima analisi erano i responsabili del progetto che essi si impegnano ad eseguire».<br />
Non mi sono scoraggiata però di fronte a questa affermazione. È indubbio che l’analisi della produzione<br />
di scultori meno dotati e dipendenti dalla altrui progettazione, rende il problema attributivo molto<br />
arduo da dipanare, ma non si può ignorare, né trascurare, che a loro si deve buona parte della realizzazione<br />
dell’aspetto della decorazione pubblica e privata di Roma. La dipendenza dal progetto altrui è reale, sarebbe<br />
ingenuo ignorarla, lo stesso vale per la non sempre ineccepibile qualità di esecuzione, ma per quale ragione<br />
lasciarli in un limbo di indeterminatezza il cui massimo di acribia è la citazione del nome? Credo che a<br />
questa parte di abile manualità si debba dare il contributo che merita.<br />
Se dalla mancanza di autonomia inventiva dobbiamo inferire una assenza di commissioni di primaria<br />
importanza, questa asserzione viene smentita, almeno nel caso della famiglia di cui abbiamo deciso di<br />
occuparci e di cui abbiamo già dato un’iniziale informazione in due brevi saggi.<br />
Occorre premettere che il capostipite della famiglia Rondoni è Alessandro, dapprima indicato nei<br />
documenti come scalpellino e dopo brevissimo tempo, e per sempre come scultore, proviene da Como<br />
dove nacque con ogni probabilità nel 1562 da Tommaso anch’egli scultore. È dunque parte di quell’onda<br />
migratoria di lavoratori del marmo che dalle rive del Lario, dalle valli intorno a Lugano, dalla Val d’Intelvi<br />
– sulle orme dei medievali Maestri Comacini – calavano nel centro Italia, dopo aver fatto tappa a Genova.<br />
Roma era naturalmente la meta più ambita, soprattutto al finire del XVI secolo quando grandi imprese<br />
urbanistiche e di arredo urbano erano in essere grazie ai pontificati di Sisto V e di Clemente VIII.<br />
Allo scultore Alessandro Rondoni, morto a Roma nel 1634, si possono riferire solo due contributi<br />
bibliografici specifici precedenti i nostri studi, oltre alle voci in alcuni repertori (Thieme Becker, Riccoboni,<br />
Bacchi). Nel 2002 quello di C. M. Clifford Brown (CLIFFORD BROWN 2002) che rende noti i rapporti<br />
intercorsi tra il Duca di Mantova Ferdinando Gonzaga e A. R. in qualità di mercante di antichità nonché<br />
di suo figlio Francesco Rondoni che risiedette, in giovanissima età, presso la corte come restauratore. Il<br />
saggio si basa sulla corrispondenza, in parte già resa nota da Antonino Bertolotti sul finire dell’Ottocento<br />
(BERTOLOTTI 1885), tra il Granduca e il Rondoni Sr.<br />
Il secondo contributo scientifico, più recente, di Loredana Lorizzo del 2009, indaga l’attività di<br />
Alessandro Rondoni come mercante e restauratore del cardinale Ippolito Aldobrandini Jr. sulla base di<br />
un documento notarile di vendita di statue antiche che anche noi pubblicavamo contemporaneamente.<br />
Nel 1989, invece, Gino Corti (CORTI 1989), analizzava la committenza fiorentina a Roma tra 1610 e<br />
1620 rendendo note le carte dell’ambasciatore Piero Guicciardini nelle quali compare più volte il nome di<br />
Alessandro Rondoni in qualità di mercante e di restauratore.<br />
Siamo partiti da questa scarna bibliografia e dai repertori, nonché dalle sempre utilissime schede di<br />
Friedrich Noack, per affrontare l’arduo compito. Arduo anche perché regnava, e regna in parte ancora, una<br />
relativa confusione fra la produzione ed il ruolo artistico di Alessandro sr. e quello dell’omonimo nipote<br />
Alessandro jr. Del tutto trascurata è la figura di Francesco Rondoni così come quella di Giacomo e Carlo<br />
Spagna come vedremo tra poco.<br />
Considerata la totale inesistenza di riferimenti bibliografici nei saggi citati, si è affrontato il problema<br />
con il metodo più agevole: una ricerca in rete, dalla quale sono scaturite le prime indicazioni interessanti<br />
49
cui sono seguite ricerche bibliografiche più approfondite che hanno dato come risultato primario oltre<br />
una sessantina di riferimenti bibliografici sui vari componenti della famiglia. È da sottolineare che è<br />
una bibliografia di seconda battuta, poiché si riferisce immediatamente al collezionismo di antichità.<br />
Parallelamente si conduceva da parte nostra, oltre allo spoglio di vari documenti notarili presso<br />
l’Archivio di Stato, una approfondita ricerca nell’Archivio Storico del Vicariato di Roma che ci ha<br />
consentito di ricostruire per intero – ma la ricerca non è definitivamente conclusa – l’albero genealogico<br />
della famiglia Rondoni – Spagna, nonché di precisare date di nascita, di matrimoni e di morte<br />
del tutto ignote dei componenti della famiglia, seguendone anche lo sviluppo economico e sociale.<br />
La bibliografia, che ribadiamo nasconde il nome dei Rondoni e degli Spagna nelle note al testo, ci ha<br />
permesso di redigere un rudimentale ma utile repertorio dei lavori cui presero parte o che effettuarono in<br />
prima persona, cioè come autori presumibilmente del “progetto”.<br />
ALBERO GENEALOGICO<br />
Dall’albero genealogico che abbiamo ricostruito possiamo dedurre che, da un punto di vista esclusivamente<br />
sociale, il mestiere veniva tramandato di padre in figlio. Alessandro senior, il capostipite<br />
di una famiglia mescidata tra lombardi e umbri per risolversi in un nucleo perfettamente assimilato<br />
al tessuto romano, proveniva da Como; figlio di padre scultore (Tommaso, di cui non è noto nulla,<br />
almeno dalle nostre ricerche) dapprima si imparenta con uno scalpellino di Narni, Giacomo Spagna,<br />
a cui dà in moglie la propria primogenita Lucrezia, poi insegna il mestiere all’ultimogenito, unico<br />
figlio maschio, Francesco.<br />
Dall’unione di Lucrezia e Giacomo Spagna, ricca di figlie femmine, il terzogenito Carlo, anch’egli<br />
unico maschio, viene avviato alla professione probabilmente per un breve tempo dal padre, che<br />
muore nel 1626, quando il figlio era solo tredicenne, e poi dallo zio Francesco e forse anche dal<br />
nonno Alessandro.<br />
Francesco, anch’egli unico figlio maschio di una progenie femminile di Alessandro, viene rapidamente<br />
inserito nella “azienda di famiglia”. Dal matrimonio tardivo di Francesco nasce Alessandro Jr.,<br />
anch’egli avviato alla professione di scultore.<br />
L’accorta primogenita di Alessandro, Lucrezia, rimasta prematuramente vedova e con molti figli a<br />
carico, non solo continua la proficua attività di mercante d’antichità in cui si erano distinti sia il padre<br />
sia il marito, ma procura che una delle figlie, Maddalena, sposi lo scultore Lorenese Claudio Adam<br />
Brefort, così che la impresa di famiglia prosegua nella sua attività fondendosi con quella del proprio<br />
figlio maschio Carlo Spagna, sulla cui imprecisa data di morte sto indagando.<br />
Se la carriera dei maschi di famiglia segue consolidate prassi, meno usuale è la figura di Lucrezia<br />
Rondoni che, con piglio manageriale, continua l’attività del marito defunto, come mercante di antichità<br />
e alla quale intendiamo riservare un’attenzione particolare. Non siamo in grado di determinare<br />
se sia un’eccezione nel panorama dell’attività femminile, ma certo non è donna usuale.<br />
L’articolato nucleo familiare ha un mercato imponente sia di vendita sia di restauro di antichità e<br />
di realizzazioni scultoree in proprio.<br />
Rapidamente scorrendo le commissioni di cui furono incaricati i vari componenti della famiglia<br />
e che coprono un arco temporale che va dal 1590 c. al primo decennio del XVIII secolo, si nota<br />
che svolsero un ruolo tutt’altro che secondario sia nel collezionismo di antichità e del loro restauro<br />
sia nella realizzazione di opere autonome per le più importanti famiglie e imprese pubbliche e<br />
private di Roma.<br />
50
A costo di essere pedanti citiamo:<br />
ALESSANDRO SR.:<br />
Alessandro Peretti Montalto<br />
Altemps<br />
Scipione Borghese<br />
Ludovico Ludovisi<br />
Asdrubale Mattei<br />
Rodolfo Pio da Carpi<br />
Ippolito Aldobrandini jr.<br />
Ferdinando Gonzaga<br />
Granduca di Toscana (Ferdinando de’ Medici)<br />
Maurizio di Savoia<br />
Lancellotti<br />
FRANCESCO RONDONI<br />
Famiglia Aldobrandini<br />
Odoardo Farnese<br />
Famiglia Barberini<br />
Bernardino Spada<br />
Certosa di S. Martino (conclude il lavoro iniziato da Cosimo Fanzago da attribuirsi probabilmente<br />
al figlio)<br />
Michele Peretti<br />
Camera Pontificia<br />
Familia Massimo<br />
Giulio Mazzarino<br />
ALESSANDRO RONDONI JR.<br />
S. Maria in Traspontina<br />
Cappella Altieri in S. Maria in Campitelli<br />
Famiglia Ginetti<br />
Busti di Raffaello e di Annibale Carracci al Pantheon<br />
Famiglia Altieri<br />
Don Livio Odescalchi<br />
Marchese del Carpio<br />
S. Maria in Montesanto<br />
Filippo V (o per il vicerè di Napoli Marchese del Carpio)<br />
Famiglia Corsini<br />
Giacomo Spagna<br />
Alessandro Peretti Montalto<br />
S. Agnese fuori le mura<br />
Palazzo Montalto a S. Lorenzo in Lucina<br />
Torre in Pietra<br />
Bernini<br />
Maurizio di Savoia (?)<br />
51
52<br />
Camera Apostolica<br />
Emanuele Pio di Savoia a Villa Rivaldi<br />
Cappella della Vergine nella Chiesa dell’Annunziata a Sulmona (la famiglia Ginetti probabilmente<br />
viene da Sulmona)<br />
CARLO SPAGNA<br />
Marino, collegiata di S. Barnaba<br />
Bologna, altare per la chiesa di S. Barnaba, progetto di Bernini<br />
Cappella Spada, S. Girolamo della carità, progetto di Borromini<br />
Palazzo Carpegna<br />
Altare maggiore di S. Andrea della Valle<br />
Cappelle di S. Pietro e di S. Paolo in S. Agostino<br />
Altare maggiore della chiesa dell’Umiltà, datato dalla critica al 1620, in tal caso andrà assegnato<br />
ad Alessandro Rondoni (?) o converrà rivedere i documenti, qualora esistano.<br />
Busti dei cardinali Cornaro, de Vives, Savenier, Antonio Barberini, Galamini e Roberto Bellarmino<br />
nella chiesa dei re Magi di propaganda fide.<br />
Su questo artista insiste un equivoco, o almeno a noi sembra. Non fa parte della celebre famiglia di<br />
argentieri “Spagna” a cui si debbono riferire alcuni tra i migliori pezzi del XVII secolo. È però spesso menzionato<br />
nella bibliografia un “Carlo Spagna argentiere” che riteniamo semplicemente omonimo del nostro.<br />
Particolare interesse riveste la figura di Francesco Rondoni che, a differenza del padre cui fu rifiutata<br />
la associazione alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon per essere «persona tanto licentiosa»,<br />
nonostante la presentazione da parte del pittore Giovanni Guerra artifex della propaganda sistina<br />
e amico dello scultore dai tempi della comune partecipazione alle imprese di Alessandro Peretti<br />
Montalto, appartenne dal 1624 almeno fino al 1633 all’Accademia di San Luca nella quale riveste per<br />
un paio di volte il ruolo di “festarolo” (abbiamo visto, al momento, soltanto i documenti reperibili<br />
on line sul sito dell’Archivio dello Stato di Roma).<br />
Fornite queste generali informazioni sulla famiglia occorre affrontare l’argomento più arduo: la<br />
collazione delle opere a ciascuno pertinenti. Non è impresa facile soprattutto per quanto riguarda i<br />
lavori di restauro. Ci vengono però in aiuto gli studi sulle collezioni di antichità.<br />
Si tratta di lavorare su una estesa mole di bibliografia, nella quale i nomi degli autori di nostro<br />
interesse sono per la maggior parte delle volte nascosti nelle note. Da questa prima rassegna si dovrà<br />
poi passare a vagliare i fondi archivistici, spesso già studiati ma con un punto di vista diverso dal<br />
nostro, volto sulla collezione e sul suo proprietario.<br />
Occorrerà poi cercare di rintracciare le poche opere autonome citate dai documenti, qualora ciò<br />
sia ancora possibile, e capire se, sulla base delle caratteristiche stilistiche evidenziate, se ne possano<br />
aggiungere altre che sono disperse fra le anonime.<br />
La questione finale è se valga la pena di affrontare questo impegnativo compito. Ritengo personalmente<br />
che ogni frammento che serva a ricomporre il quadro della cultura di un particolare<br />
momento sia degno della massima considerazione, a maggior ragione quando, come nel nostro caso,<br />
l’anonimato in cui sono caduti i membri delle due famiglie cela invece una fitta rete di importanti<br />
rapporti con raffinati collezionisti.<br />
Fiorenza Rangoni
BIBLIOGRAFIA<br />
A. BERTOLOTTI, Artisti in relazione coi Gonzaga Signori di Mantova, Modena 1885.<br />
C.M. CLIFFORD BROWN, Alessandro Rondone scultore al servizio del Cardinale Duca Ferdinando Gonzaga, in<br />
«Civiltà Mantovana», XXXVII/144 (2002), pp. 64-78.<br />
G. CORTI, Il “Registro de’ mandati” dell’ambasciatore Granducale Piero Guicciardini e la committenza artistica<br />
fiorentina a Roma nel secondo decennio del Seicento, in «Paragone», XL/473 (1989), pp. 109-146.<br />
J. MONTAGUE, La scultura barocca romana, Torino 1991.<br />
Conseguenze di un viaggio di Annibale Carracci nel 1602<br />
Nel catalogo delle opere eseguite da Annibale Carracci durante il lungo soggiorno romano spicca<br />
un gruppo di dipinti contraddistinti da una tavolozza vivace, un colorito intenso, una condotta<br />
pittorica libera e fluida che non si riscontrano solitamente in questa fase della maturità dall’artista.<br />
Si tratta di opere riconducibili tutte al 1602-1603: l’Assunta per la cappella Cerasi di Santa Maria<br />
del Popolo, la Venere dormiente di Chantilly, il perduto San Gregorio per la chiesa di San Gregorio<br />
al Celio, la Fuga in Egitto per la cappella del palazzo di Pietro Aldobrandini, il Ritratto di Giovanni<br />
Battista Agucchi della City Art Gallery di York. Così distante dalla reazione al soggiorno a Venezia<br />
che Annibale aveva avuto nella seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento, questo improvviso<br />
irrompere di accenti veneti e lombardi nel cuore di una stagione dominata dalla risposta alle opere<br />
viste a Roma, a Michelangelo, a Raffaello, alla statuaria antica, resta apparentemente inspiegata:<br />
tanto più che ancora oggi ci si ostina a definire quella fase della maturità con la denominazione di<br />
“ideale classico”, intendendola appunto come una definitiva presa di distanza dai modelli del colorito<br />
veneto e lombardo di Tiziano, Veronese, Correggio in nome di un’adesione indiscriminata al disegno<br />
romano e a Raffaello.<br />
Viceversa, come indicano i dati dello stile e le voci delle fonti più prossime, a partire dal trattato<br />
dell’amico e sostenitore Giovanni Battista Agucchi, il percorso dell’Annibale maturo fu dominato<br />
dall’obiettivo di «congiugnere insieme Disegno romano e Colorito lombardo»: dall’intento cioè di<br />
coniugare tradizioni pittoriche diverse, e percepite ormai alla seconda metà del Cinquecento come<br />
contrapposte, in piena coerenza con le ricerche parallele del fratello Agostino e del cugino Ludovico.<br />
A partire dagli anni Ottanta la creazione dell’Accademia degli Incamminati aveva incarnato il progetto<br />
carraccesco di rispondere alla decadenza del tardo-manierismo coniando un linguaggio pittorico<br />
fondato sul ritorno allo studio dal vero e appunto sulla combinazione di accenti regionali diversi,<br />
ovvero sull’unione della componente veneziana, toscana, lombarda, romana, secondo quanto registrato,<br />
oltre che dai numerosi passi della Felsina Pittrice di Malvasia, anche da un testo precocissimo<br />
come l’orazione funebre di Agostino pronunciata da Lucio Faberio nel 1603. È un programma che<br />
anche negli anni successivi si svolge secondo tappe per nulla teoriche, ma rispondenti ogni volta a<br />
concrete occasioni di studio: ed è appunto ad una di queste che oggi possiamo ricondurre anche il<br />
repentino accendersi di note neovenete nel citato gruppo di opere databili al 1602-1603, nel corso<br />
delle riflessioni su Michelangelo, su Raffaello, sulle statue antiche svolte da Annibale a Roma.<br />
Databile con certezza alla primavera del 1602 è riemerso infatti, dalle pieghe del ricchissimo testo<br />
di Malvasia, un viaggio a Venezia compiuto da Annibale con Ludovico nel corso dei mesi trascorsi<br />
via da Roma all’indomani della morte del fratello, come indicato dalle fonti: ed è appunto a questa<br />
occasione che si devono ricondurre l’emergere di accenti neotizianeschi che Bellori coglieva nel<br />
53
San Gregorio e la critica più avvertita segnalava, pur senza poterli spiegare, negli studi grafici per la<br />
parte bassa della pala Cerasi, le riprese dai paesaggi di Giorgione e Campagnola nei numerosi studi<br />
a penna eseguiti da Annibale in questi anni tardi e i debiti nei confronti di quella tradizione che già<br />
nel Seicento i conoscitori individuavano nei suoi paesaggi a partire dalle lunette Aldobrandini.<br />
Agostino Carracci era morto a Parma nel febbraio del 1602: e a Parma Annibale si recò subito<br />
dopo, rientrando a Roma solo alla fine di maggio con Ludovico, che lo aveva accompagnato poco<br />
prima nel viaggio a Venezia. Anche questo nuovo passaggio parmense mostra di aver lasciato un<br />
segno: le opere riviste in questa occasione si leggono in controluce nei dipinti eseguiti al ritorno a<br />
Roma, che anche su questa base si possono scalare in una probabile sequenza.<br />
In particolare la serie delle Pietà, composta dalle cosiddette Tre Marie della National Gallery di<br />
Londra, dalla Pietà di Capodimonte, dalla Pietà di San Francesco a Ripa e dal piccolo rame di Vienna<br />
con lo stesso soggetto – opere di cui non conosciamo una datazione certa – può essere ordinata a<br />
partire dalle Tre Marie della National Gallery, che sono un dipinto ancora intimamente debitore del<br />
modello della Pietà di Correggio, rivista da Annibale nella cappella Del Bono della chiesa parmense<br />
di San Giovanni Evangelista, e dunque plausibilmente da collocarsi nel 1603. Subito dopo Annibale<br />
deve avere messo a punto le prime idee per la Pietà di Capodimonte, che sappiamo proveniente<br />
da palazzo Farnese ma di cui non si conosce l’originaria collocazione: i disegni di Windsor che<br />
registrano questa prima fase mostrano infatti ancora un rapporto stretto con il modello della Pietà<br />
Del Bono, laddove il quadro finito, lasciatosi ormai del tutto alle spalle la suggestione correggesca,<br />
appare senz’altro da datarsi dopo il 1602 per l’intensità cromatica e la fluidità dell’esecuzione, e per<br />
il rapporto strettissimo con la Deposizione di Caravaggio per la Vallicella, un dipinto di cui non si<br />
conosce la datazione precisa ma che deve collocarsi tra il gennaio 1602, quando sono in atto lavori<br />
sull’altare, e il settembre 1604, quando al nipote del committente viene restituito il quadro che la<br />
pala di Caravaggio aveva sostituito. Con una probabile datazione nel 1603, il quadro di Caravaggio<br />
costituisce un ante quem della pala di Annibale, che potrebbe essere stata eseguita tra il 1603 e il<br />
1604, come già si suggeriva Denis Mahon.<br />
Scarsamente considerato dalla critica e invece essenziale per ricostruire gli scambi di questi anni<br />
tra Annibale e Caravaggio, il nesso tra la Deposizione Vittrice e la pala di Capodimonte va infatti<br />
inteso senza dubbio nel senso di una risposta del primo alle invenzioni tanto più audaci del secondo,<br />
che in questo caso devono aver spinto Annibale a confrontarsi sul terreno della sfida aperta con la<br />
scultura e in particolare con la Pietà di Michelangelo.<br />
54<br />
Silvia Ginzburg<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
M. CINOTTI, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Bergamo 1983, pp. 493-496, n. 46.<br />
K. GANZ, in <strong>The</strong> Drawings of Annibale Carracci, a cura di D. Benati e D. De Grazia, catalogo della mostra,<br />
Washington 1999, n. 73.<br />
S. GINZBURG, in Annibale Carracci, a cura di D. Benati e E. Riccomini, catalogo della mostra, Milano 2006,<br />
nn. VIII.7, 8 e 17.<br />
C. C. MALVASIA, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi (Bologna 1678), edizione a cura di G. Zanotti, 2 voll.,<br />
Bologna 1841.<br />
Mostra dei Carracci: disegni, catalogo critico, a cura di D. Mahon, catalogo della mostra, Bologna 1956, p. 94, n. 123.<br />
R. WITTKOWER, Drawings of the Carracci in the Collections of Her Majesty the Queen at Windsor Castle, London<br />
1952, p. 147, n. 357 e tav. 75.
Pittori e Virtuosi attraverso i disegni di Ottavio Leoni<br />
Ottavio Leoni, detto il Padovano, va certamente annoverato tra<br />
i grandi disegnatori italiani del XVII secolo. Figlio d’arte, poiché il<br />
padre Ludovico fu medaglista e ceroplasta di grido, prima a Padova e<br />
poi nella Roma di Gregorio XIII e Clemente VIII, nacque nel 1578<br />
e fin da giovanissimo fu educato alla pratica del disegno, divenendone<br />
maestro nella Roma dei primi decenni del XVII secolo, e specializzandosi<br />
nel genere del Ritratto, tanto che, secondo Giovanni<br />
Baglione, fonte di prima mano poiché ebbe modo di conoscere<br />
personalmente l’artista: «ritrasse non solo li sommi Pontefici dei suoi<br />
tempi, ma li Principi cardinali, e Signori titolati, e d’ogn’altra qualità<br />
pur che famosi fussero, sì religiosi come secolari, in diversi tempi».<br />
Questa abbondante produzione ha singolari tangenze con le gallerie<br />
dei Ritratti cinquecenteschi, di cui il padre fu protagonista, come sta<br />
emergendo da altri nostri studi in corso di pubblicazione, ma più ancora<br />
Fig. 1 – Ottavio Leoni, Autoritratto<br />
(Firenze Biblioteca Marucelliana)<br />
con i moderni database di agenzie fotografiche, dal momento che l’artista, da un certo momento in poi,<br />
scelse di numerare i propri Ritratti, datandoli ad mensem.<br />
Si è scelto di concentrare l’attenzione su uno dei vertici della ritrattistica del Leoni: il codice H<br />
conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze. Su questo importante volume, tra i più noti<br />
nella storia del disegno italiano, esiste un solo contributo monografico di Kruft, che risale al 1969 e<br />
un affondo nel volume di Bernardina Sani. In entrambi i casi si è cercato di collocare stilisticamente<br />
i singoli disegni all’interno del percorso di Ottavio, di ricostruire la biografia dei protagonisti del<br />
volume, ma non ci si è occupati della committenza dell’album, del suo assemblaggio e della sua destinazione.<br />
Anzi, a questo proposito la critica ha sempre genericamente supposto che i disegni siano stati<br />
montati insieme dopo la morte di Ottavio da un ignoto collezionista, probabilmente nella seconda<br />
metà del XVII secolo. Molti interrogativi rimanevano dunque aperti anche su un pezzo centrale della<br />
storia del disegno italiano e spero con questo lavoro di aver dato un piccolo contributo a sciogliere<br />
alcuni di questi quesiti.<br />
«Ottavio Leoni Romano detto il Padovanino della cui mano sono questi ritratti de virtuosi illustri<br />
del suo tempo»: recita così la rubrica che correda ad indicem l’Autoritratto di spalle, a suggello della<br />
serie di ventisette meravigliosi ritratti à trois crayons tutti di mano del Padovanino, che, rilegati insieme,<br />
costituiscono come si diceva un volume di straordinario interesse.<br />
Di spalle, ammiccante, l’artista si raffigura in una posa inconsueta: mentre si volta verso lo spettatore,<br />
distogliendo gli occhi da un foglio che tiene in mano, forse un lavoro in fieri.<br />
Molto diversa è questa immagine familiare, allusiva, quasi colloquiale, da quella ufficiale dell’Autoritratto<br />
che apre il medesimo volume, e che intende annoverare il Leoni tra i Pittori virtuosi del<br />
suo tempo. Nell’Autoritratto di spalle invece non c’è retorica, sembra piuttosto di essere in presenza<br />
di una firma, una vera e propria quarta di copertina con foto dell’autore, da far invidia ai best sellers<br />
americani del secondo millennio. In questo senso ci aspetteremmo un fuori testo, invece il disegno si<br />
pone a chiusura della serie di ritratti dei Poeti, come se Ottavio ne facesse parte.<br />
Va innanzitutto detto che l’intero album sembra nascere da un progetto unitario e si presenta come<br />
un’operazione editoriale in grande stile, come chiaramente suggerisce l’indice posto a chiusura del<br />
55
volume, dove sono elencati i nomi dei protagonisti dei ritratti di per sé anonimi, suddivisi in quattro<br />
categorie: pittori, scultori, matematici e poeti, e denominati “Virtuosi illustri”, come si diceva poc’anzi.<br />
All’inizio di ciascuna arte inoltre la numerazione riparte dal principio. La grafia dell’indice, certamente<br />
seicentesca, appartiene con ogni evidenza ad un calligrafo, che trascrive da un elenco redatto<br />
da chi ha assemblato il volume, come testimoniano alcuni errori riscontrati nella trascrizione.<br />
Sembra inoltre significativo il fatto che i nomi degli effigiati vengano elencati in calce al volume, e<br />
non apposti ciascuno ai margini del ritratto, o sul retro, come sovente avviene nei fogli sciolti di Ottavio.<br />
Insomma, tutto sembra indicare che l’album è frutto di un preciso progetto. Già, ma quale? E di chi?<br />
Fortunatamente uno degli ultimi fogli del volume riporta una bellissima filigrana, che ci aiuta<br />
a far luce sulla data dell’album, consentendo di stabilire una cronologia molto alta per l’assemblaggio.<br />
Si tratta di un santo nimbato inginocchiato, recante una croce entro uno scudo. Ora, mi pare<br />
di grandissimo interesse notare come la filigrana che affiora sul foglio dell’album della Biblioteca<br />
Marucelliana compaia identica sulla carta dove è stampata un’incisione della prima edizione della<br />
Galleria Giustiniana. Ci troviamo dunque a Roma intorno al 1630-1631, e nel medesimo ambiente<br />
in cui visse e operò Ottavio Leoni, che scomparve proprio nel 1630.<br />
Intorno a quest’epoca dovrebbe risalire anche il montaggio dei fogli nel volume che raccoglie i<br />
disegni di Ottavio, che non può appartenere a un momento né troppo precedente né troppo successivo.<br />
L’assemblaggio dovrebbe essere avvenuto dunque quando l’artista era ancora in vita, o comunque<br />
nell’arco di circa quindici anni dalla sua scomparsa; un’indicazione di primaria importanza poiché,<br />
se anche non possiamo stabilire con certezza che l’album venne messo insieme dallo stesso Leoni, mi<br />
pare evidente che il progetto vada assegnato ad una persona profondamente legata ad Ottavio.<br />
Chi altri avrebbe avuto interesse a sottolineare così smaccatamente la paternità dei disegni da mettere<br />
ben due Autoritratti dell’artista ad apertura e chiusura del volume? La fama e il consenso riscosso dal<br />
Leoni nella Roma del tempo dovevano certamente essere internazionali, come testimoniano le ammirate<br />
parole del suo biografo Giovanni Baglione (1642), tuttavia è difficile credere che un qualsiasi collezionista<br />
avrebbe sottolineato il nome del Padovanino con tanta enfasi da mettere in rapporto i Virtuosi con la<br />
biografia del pittore, come sembra indicare la citata legenda dell’indice, non abbiamo infatti nessun dato<br />
che lasci ipotizzare che le opere di Ottavio, belle o brutte, si acquistassero all’epoca a gran prezzo per il<br />
solo fatto di essere da lui eseguite, come invece era accaduto, per lo meno ad apertura di secolo, per<br />
l’amico Caravaggio.<br />
Sembra invece più plausibile che il progetto dell’album risalisse allo<br />
stesso Padovanino, e che, se anche non fu lui a realizzarlo in prima persona,<br />
alla sua morte passasse nelle mani del figlio Ippolito al quale l’artista<br />
aveva lasciato i «rami intagliati dei Pittori e Poeti».<br />
Una volta chiarito l’ideatore del progetto, e cioè lo stesso Leoni, è<br />
bene tentare di comprendere la sua destinazione. Una verifica con le quaranta<br />
lastre incise da Ottavio, oggi conservate alla Calcografia Nazionale,<br />
può essere utile per capire se fosse prevista la pubblicazione a stampa del<br />
volume. Di fatto solo alcuni dei 27 personaggi raccolti nell’album cono-<br />
Fig. 2 – Ottavio Leoni, Ritratto<br />
di Michelangelo Merisi da<br />
Caravaggio (Firenze, Biblioteca<br />
Marucelliana)<br />
56<br />
scono una traduzione grafica e, peraltro, come ha giustamente rilevato la<br />
Sani, i disegni non possono considerarsi matrici esatte delle incisioni, dal<br />
momento che queste non risultano in controparte, stampe e disegni furono<br />
dunque realizzati autonomamente. Confrontando disegni e incisioni,
ci si rende conto che le assenze pesano tanto quanto le presenze. Si avverte ad esempio la mancanza<br />
della traduzione a stampa del Ritratto di Michelangelo Merisi da Caravaggio, che costituisce uno<br />
dei pezzi più belli dei disegni della Marucelliana. Allo stesso modo sembra inspiegabile l’assenza di<br />
Annibale e Agostino Carracci. Ma tra i pittori, Caravaggio e Annibale non sono gli unici a mancare<br />
l’appuntamento con la stampa: accanto all’omissione di questi grandi personaggi, si registra l’assenza<br />
dei ritratti dei pittori che, quantomeno ai nostri occhi, appaiono più strampalati nel contesto dei<br />
Virtuosi di primo Seicento: i malnoti Girolamo Nanni, Domenico Ambrosino. Alla stessa stregua<br />
anche tra i matematici si registra l’assenza di Cristoforo Scheiner, il cui astro tramontò velocemente.<br />
Stando a queste considerazioni, con il senno di poi, e la critica di Giovan Battista Bellori in testa, la<br />
scelta dei ritratti dei pittori destinati alla stampa, e dunque ad una maggior divulgazione, sembrerebbe<br />
criticamente più canonica di quanto non appaia l’album della Marucelliana, sicché ad oggi non mi sembra<br />
che si possa pacificamente affermare che si avesse in mente una pubblicazione del volume in quanto tale,<br />
a meno di non prendere alla lettera il Baglione che narra della prematura morte di Ottavio, intossicato dai<br />
materiali utilizzati per creare le lastre incise, e dunque immaginare il lavoro interrotto sul più bello.<br />
Dal punto di vista della storia della critica dell’arte, la scelta dei Virtuosi appare, come si è accennato,<br />
a dir poco singolare. Se Annibale e Agostino Carracci, seguiti da Caravaggio, dal Cavalier<br />
d’Arpino e da Giovanni Baglione, collegano immediatamente il pensiero di chi ha composto questi<br />
fogli a quello di Giovan Battista Agucchi, di Vincenzo Giustiniani e di Giulio Mancini, dunque a<br />
un’egemonia culturale e figurativa che godeva di un riconoscimento universale. Se Antonio Tempesta<br />
e Cristoforo Roncalli rappresentavano due dei pittori più prolifici dell’Urbe nei primi decenni del<br />
Seicento, ci si chiede cosa facciano i poco noti Gerolamo Nanni e il semisconosciuto Domenico<br />
Ambrosini tra cotanto senno. D’altra parte i Ritratti di Simon Vouet e di Guercino raccontano di<br />
un mondo che non è più lo stesso di quello di Caravaggio e dei suoi patroni, cui fanno invece riferimento<br />
i pittori elencati.<br />
Analizzando poi gli scultori – il padre di Ottavio, Ludovico Leoni, un giovanissimo Gian Lorenzo<br />
Bernini e Marcello Provenzale, intrinseco di Ottavio, tanto da essere nominato suo esecutore testamentario<br />
– è chiaro che siamo al cospetto di un album di famiglia. Questi fogli sembrano dunque<br />
raccontare il mondo di Ottavio, e le scelte culturali che dovevano governarlo.<br />
Spostando l’attenzione sulle date, questo testo viene a collocarsi agli esordi della critica romana del<br />
Seicento, e costituisce un punto di vista straordinariamente autonomo rispetto a quella che oggi ci<br />
aspetteremmo come la scena artistica romana dell’epoca di Ottavio. Invano<br />
si cerca infatti una posizione critica tra quelle della Roma seicentesca a cui il<br />
testo possa far riferimento.<br />
Va innanzitutto tenuto presente che, se si tiene per buono il 1615-1645<br />
come intervallo cronologico per l’assemblaggio dei disegni, i testi relativi alla<br />
storia delle arti figurative a Roma erano davvero limitati. A stampa era apparso<br />
soltanto la Pittura trionfante del Gigli, che comunque non uscì a Roma,<br />
ma a Venezia. Il Trattato dell’Agucchi non vide mai la luce, la Lettera sulla<br />
pittura di Vincenzo Giustiniani fu pubblicata per la prima volta nel 1675 e<br />
le Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, vennero date alle stampe<br />
soltanto a metà del Novecento. L’unico progetto critico in grande scala, dunque,<br />
era rappresentato dalle Vite del Baglione, composte intorno al 1635, che<br />
uscirono a Roma nel 1642. In ogni caso l’eclettismo delle biografie baglionesche<br />
Fig. 3 – Ottavio Leoni,<br />
Autoritratto di spalle (Firenze,<br />
Biblioteca Marucelliana)<br />
57
non sembra rispecchiare il carattere gerarchico rappresentato da questo fiore di Virtuosi, dietro il quale si<br />
cela un pensiero molto personale, maturato all’ombra di una cultura di marca strettamente accademica.<br />
L’album sembra comunque non poter rappresentare gli interessi di nessuna delle maggiori istituzioni<br />
culturali della Roma del tempo.<br />
Scandagliando il terreno, tuttavia, per cercare una possibile chiave di volta della vicenda, un<br />
personaggio è parso particolarmente enigmatico e insolito. Si tratta del gesuita tedesco Christoph<br />
Scheiner (1573-1650), matematico e astronomo legato al Collegio Romano, dove fu docente dal<br />
1624 al 1633. Sotto lo pseudonimo di “Apelles post tabulam”, scrisse tre lettere sulle macchie solari,<br />
che aveva osservato nel marzo del 1610. Nell’inverno del 1611 Scheiner fece giungere la prima delle<br />
tre lettere a Galileo chiedendo il parere dell’astronomo pisano. Il matematico toscano pubblicò le<br />
sue tre lettere sull’argomento a Roma nel 1613, a cura dell’Accademia dei Lincei, di cui nel 1611<br />
era entrato a fare parte. Fino a questo momento i rapporti tra i due matematici erano improntati a<br />
grande stima, soltanto nel 1623 Galileo ebbe a lamentarsi di chi si era appropriato della scoperta dei<br />
fenomeni celesti. Nonostante probabilmente lo scienziato pisano non alludesse a Scheiner, il gesuita,<br />
in quel momento a Roma, docente nel Collegio Romano, se ne ebbe a male, schierandosi contro<br />
l’astronomo nella Rosa Ursina del 1630. La vicenda non fu certamente di aiuto al Galilei, contro le<br />
cui dottrine iniziava tre anni dopo il processo del Santo Uffizio.<br />
Dal nostro punto di vista, la Rosa Ursina costituisce un documento interessantissimo per aprire<br />
uno spiraglio sulle frequentazioni di Ottavio Leoni. Il trattato scientifico, come recita il titolo stesso e<br />
dichiara apertamente la dedica, risulta una smaccata celebrazione di un personaggio eclettico e singolare,<br />
Paolo Giordano Orsini II duca di Bracciano (1591-1646). Amico di letterati, Giovan Battista Marino e<br />
Tommaso Stigliani gli dedicarono versi, egli stesso fu autore di liriche. Amatore d’arte, tra i suoi favoriti<br />
figura Simon Vouet, con il quale entrò anche in rapporto epistolare nel 1621, quando l’artista si trovava a<br />
Genova, il duca di Bracciano si dilettava egli stesso di pittura. Di grande interesse è notare come dall’Isola<br />
d’Elba il 2 luglio 1621, l’Orsini chieda a Roma di inviargli «carta turchina per disegnare e carta grossa<br />
bianca e del gesso […] un’ampolla di vernice et uno fiaschetto di olio di noce». Questi strumenti evocano<br />
immediatamente i ritratti di Ottavio Leoni, che in effetti ritrasse ripetutamente il duca di Bracciano.<br />
Fa parte del gruppo questo notevole foglio, conservato all’Accademia Colombaria, immagine<br />
provocatoria, bizzarra, al limite della caricatura, certamente nata da un pensiero preciso, per la quale<br />
la Sani ha ipotizzato addirittura un’ideazione comune tra Paolo Giordano e Ottavio.<br />
Sembra dunque quello dell’Orsini il mondo che maggiormente il volume vuole illustrare. La storia<br />
sin qui narrata – parte del più ampio saggio “Virtuosi illustri del suo tempo”: novità e precisazioni<br />
per Caravaggio, Ottavio Leoni e i volti della Roma caravaggesca, in Caravaggio. Mecenati e pittori, a<br />
cura di M.C. Terzaghi, catalogo della mostra, Cinisello Balsamo 2010, pp. 15-57 – apre così a nuove<br />
ricerche nella direzione della corte degli Orsini.<br />
58<br />
Maria Cristina Terzaghi<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
R. LONGHI, Volti della Roma caravaggesca, in «Paragone», 21, 1951, pp. 35-39.<br />
H.W. KRUFT, Ein Album mit Porträtzeichenungen Ottavio Leonis, in «Storia dell’Arte», 4, 1969, pp. 447-458.<br />
B. SANI, La fatica virtuosa di Ottavio Leoni, Torino 2005.<br />
M.C. TERZAGHI, “Virtuosi illustri del suo tempo”. Novità e precisazioni per Ottavio Leoni, Caravaggio e i volti della<br />
Roma Caravaggesca, in Caravaggio. Mecenati e Pittori, a cura di M.C. Terzaghi, catalogo della mostra, Cinisello<br />
Balsamo 2010, pp. 15-57.
Pittura del Seicento e del Settecento. Ricerche in Umbria: l’antica diocesi di Perugia<br />
Il programma di ricerca che sono stata incaricata di svolgere nel corso dell’anno accademico 2010-<br />
2011 è finalizzato alla prosecuzione degli studi sulla pittura in Umbria del Seicento e del Settecento,<br />
di cui sono stati pubblicati 4 volumi, rispettivamente nel 1976, nel 1980, nel 2000 e nel 2006, e il<br />
catalogo della mostra Pittura del Seicento. Ricerche in Umbria, nel 1989. In questi volumi sono confluiti<br />
i risultati delle ricerche condotte dal gruppo di studiosi composto da Bruno Toscano, Liliana<br />
Barroero, Vittorio Casale, Giorgio Falcidia, Fiorella Pansecchi, Giovanna Sapori, cui si sono aggiunte<br />
in un secondo momento Paola Caretta, Laura Carsillo e la sottoscritta.<br />
L’area geografica oggetto della mia ricerca comprende la città di Perugia e il territorio dell’antica<br />
diocesi. Considerate l’alta densità delle presenze storico-artistiche e la rilevante estensione del territorio,<br />
è stato necessario suddividere il lavoro in due parti: la prima, ancora in corso, interessa la città di<br />
Perugia; la seconda, solo in parte avviata, il resto del territorio dell’antica diocesi.<br />
Il Dipartimento al fine di agevolare le ricerche ha voluto avvalersi della collaborazione del Prof.<br />
Francesco Federico Mancini, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione<br />
dell’Università degli Studi di Perugia, il quale ha individuato in Francesco Piagnani, dottorando presso<br />
il medesimo istituto, il collaboratore al progetto. Il gruppo<br />
di lavoro quindi è formato da Barroero, Metelli, Sapori,<br />
Toscano dell’Università Roma Tre, da Mancini, Piagnani<br />
dell’Università di Perugia e dallo studioso Duccio Marignoli.<br />
Il primo obiettivo che mi sono posta è stato quello di procedere<br />
alla ricognizione sistematica di tutte le testimonianze<br />
pittoriche da ascrivere ai due secoli in esame, attraverso un’indagine<br />
topografica il più possibile capillare secondo il metodo<br />
già ampiamente definito fin dall’inizio e praticato nel corso delle<br />
ricerche precedenti. A tal fine, preso atto della composita realtà<br />
geografica e storico-amministrativa del territorio, è stato neces-<br />
sario effettuare una serie di verifiche preliminari alla ricerca sul<br />
campo.<br />
Questa fase si è tradotta innanzitutto nella consultazione<br />
Fig. 1 – Carta della diocesi di Perugia a<br />
partire dal 1600<br />
delle carte militari IGM (scala 1:25 000); quindi nel reperimento di carte del XVII e XVIII secolo<br />
relative all’intero territorio.<br />
Le carte sono state utilizzate come strumento di supporto nella fase di verifica dei confini<br />
dell’antica diocesi eseguita sia su base bibliografica e documentale sia con il parere di professori<br />
del Dipartimento di Storia dell’Università di Perugia. Dagli studi si evince un dato fondamentale<br />
ai fini della ricostruzione delle dinamiche legate ai confini diocesani, e cioè che nel 1600 con<br />
la creazione della diocesi di Città della Pieve, voluta da Clemente VIII, a Perugia sarà sottratta<br />
una significativa porzione di territorio sul versante occidentale, comprendente località come<br />
Castiglione del Lago (fig. 1).<br />
L’esame delle carte antiche, e degli studi relativi, ha consentito anche di stilare un elenco completo<br />
dei toponimi delle località del territorio oggetto della mia ricerca, il cui totale si approssima alle<br />
220 unità. Le località sono distribuite in un territorio suddiviso in 15 comuni (Perugia, Castiglione<br />
del Lago, Città di Castello, Corciano, Deruta, Lisciano Niccone, Magione, Marsciano, Panicale,<br />
59
Passignano, Piegaro, Torgiano, Tuoro, Umbertide, Valfabbrica).<br />
Contestualmente alla definizione dei confini, ho proceduto al reperimento della bibliografia e<br />
della documentazione esistente relativa alla storia del territorio (MANCINI 1993).<br />
Il progetto è stato presentato quindi alla direzione dell’Ufficio per i Beni culturali ecclesiastici<br />
dell’Arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve e alla direzione della Soprintendenza per i Beni storici,<br />
artistici ed etnoantropologici dell’Umbria, con lo scopo di assicurare al gruppo di ricerca la massima<br />
collaborazione e disponibilità da parte delle istituzioni responsabili della gestione, tutela e conservazione<br />
del patrimonio artistico del capoluogo e dei territori della provincia.<br />
I rapporti con queste istituzioni hanno consentito di acquisire una buona parte del materiale<br />
catalografico concernente i beni artistici di loro pertinenza.<br />
Partendo da questo materiale ho potuto redigere un elenco dei luoghi (chiese, palazzi, musei) e<br />
preparare una prima bozza di scheda corredata da fotografia delle opere documentate nei singoli edifici,<br />
in vista della fase successiva, quella della ricerca sul campo. Questo lavoro ha interessato anche<br />
il territorio della diocesi.<br />
Allo stato attuale delle ricerche (maggio 2011), considerando che l’opera di ricognizione è ancora<br />
in corso, il numero dei complessi ecclesiastici in città ammonta ad un totale di 40 unità. Circa<br />
300 sono i reperti ivi conservati (di cui è in corso la schedatura). Da una stima approssimativa, nel<br />
territorio risulta un totale di 82 edifici ecclesiastici recanti 300 reperti. Mentre il numero dei palazzi<br />
e dei musei perugini si aggira intorno alle 30 unità. Per il calcolo dei reperti, si tenga conto che la<br />
decorazione murale o su tela costituente un insieme è stata computata come unità.<br />
Dal materiale bibliografico consultato è emerso che seppur divenuta città di provincia dello<br />
Stato ecclesiastico, Perugia nel Seicento riuscirà a mantenere come centro culturale dello Stato della<br />
Chiesa un ruolo decisivo, dovuto alla presenza della Università e delle accademie. Questo fenomeno<br />
si protrarrà per tutto il XVIII secolo producendo conseguenze anche in ambito strettamente artistico<br />
(SAPORI 2001).<br />
Il caso di Perugia, infatti, è tra quelli in cui si registra la maggiore apertura verso l’esterno, rispetto<br />
al resto dell’Umbria, e una più spiccata inclinazione alla riflessione autonoma e vivace.<br />
In città arrivano opere o artisti dai centri maggiori – come Roma,<br />
Bologna, Urbino, Firenze, Siena – e gli artisti locali recepiscono queste<br />
importazioni o tali presenze anche come stimolo per compiere la propria<br />
formazione fuori dai confini provinciali (TOSCANO 1989).<br />
Sintetizzando, si possono individuare due temi conduttori validi sia<br />
per il XVII che per il XVIII secolo: quello relativo alla politica delle<br />
importazioni di opere d’arte e alla presenza di artisti forestieri in città;<br />
e quello concernente la formazione degli artisti perugini nei centri<br />
maggiori fuori regione.<br />
In merito al primo va registrato, per esempio, l’arrivo delle tele<br />
di Federico Barocci, la cui opera eserciterà un’influenza notevole su<br />
pittori perugini di fine XVI e inizio XVII secolo. Guarderanno l’opera<br />
dell’urbinate artisti come Felice Pellegrini, che nel 1593 lascia una<br />
Fig. 2 – Giulio Cesare Angeli, S.<br />
Filippo si congeda da S. Giacomo,<br />
Perugia, Oratorio di Sant’Agostino<br />
60<br />
copia della pala di Senigallia nell’Oratorio del Crocifisso, e Vincenzo<br />
Pellegrini, fratello di Felice.<br />
Circa la tematica relativa agli artisti forestieri in città si segnala la
presenza dei senesi Francesco Vanni e Ventura Salimbeni, che produrrà un forte impatto per esempio<br />
su pittori come Simeone Ciburri, Benedetto Bandiera e Matteuccio Salvucci.<br />
Più tardi va ricordato l’arrivo delle tele di Guido Reni nella Chiesa Nuova, di Lanfranco in San<br />
Domenico e di Pietro da Cortona in San Filippo. Tra i pittori di tendenza classicista inviano pale<br />
d’altare Giovan Francesco Romanelli e Andrea Sacchi a San Filippo e Giacinto Gimignani e François<br />
Perrier a San Pietro.<br />
Anche negli ultimi tre decenni del secolo si registrano apporti di artisti forestieri operosi in città.<br />
Tra questi spicca il nome del genovese Giovanni Andrea Carlone, dalla cui pittura trarrà ispirazione<br />
Giacinto Boccanera.<br />
Relativamente alla seconda tendenza, che concerne i soggiorni di studio di perugini nei centri<br />
maggiori, si segnalano i casi in cui si evidenzia un particolare interesse per i fiorentini residenti a<br />
Roma o attratti dalle novità romane. Il novero dei perugini è composto da Giulio Cesare Angeli, dal<br />
suo allievo Stefano Amadei, da Anton Maria Fabrizi e da Giovan Francesco Bassotti (fig. 2).<br />
In questo ambito rientrano anche i casi di pittori cortoneschi formatisi a Roma, tra cui compare<br />
il nome del perugino Paolo Gismondi, o di artisti operativi soprattutto fuori dai confini regionali,<br />
come Domenico Cerrini e Luigi Scaramuccia, figlio di Giovanni Antonio.<br />
Nel XVIII secolo, l’unico centro che in Umbria conserva ancora una qualche vitalità è Perugia,<br />
dove l’esistenza dell’Accademia del Disegno e di una personalità eclettica come quella di Baldassarre<br />
Orsini, pittore, architetto e scrittore, favoriscono un vivace dibattito culturale e una notevole fioritura<br />
artistica (CASALE 1990). La presenza dell’Accademia contribuisce inoltre a limitare il fenomeno<br />
delle importazioni: tra gli accademici-pittori molto attivi in città e nel territorio si contano Giacinto<br />
Boccanera, Mattia Batini e Giuseppe Laudati.<br />
Gli indiscussi protagonisti del panorama artistico fino oltre la metà del secolo sono i locali<br />
Pietro Carattoli (quadraturista) e Francesco Appiani, perugino il primo, anconetano, ma residente a<br />
Perugia, il secondo, impegnati in importanti progetti decorativi sia in edifici ecclesiastici che gentilizi.<br />
Sullo scorcio del secolo, anche gli interventi nel Duomo vedono all’opera soprattutto artisti locali.<br />
Tra questi figura Vincenzo Monotti, accademico e allievo di Appiani, e Marcello Leopardi, di origine<br />
marchigiana ma attivo principalmente a Perugia.<br />
Tra le importazioni si registrano le tele di Francesco Trevisani a San Filippo, di Stefano Pozzi<br />
e di Pierre Subleyras a Montemorcino Nuovo, e la pala di Gaetano Lapis nell’Oratorio dei Santi<br />
Bernardino e Andrea. Mentre tra gli artisti forestieri presenti in loco si annoverano i marchigiani<br />
Francesco Mancini e il suo allievo Sebastiano Ceccarini.<br />
Dai sopralluoghi risulta che alcuni ambienti versano in pessime condizioni di conservazione,<br />
come ad esempio la sagrestia dell’Oratorio di Sant’Agostino decorata da Appiani e Carattoli, le<br />
cui tele raffiguranti le storie di S. Agostino in monocromo sono oggi provvisoriamente sistemate<br />
sul pavimento.<br />
La ricerca sul campo ha inoltre consentito di recuperare dipinti sistemati in luoghi non idonei<br />
alla loro conservazione, per esempio in San Simone al Carmine, o di individuare opere dalla iconografia<br />
poco frequente come nel Convento di San Domenico, dove è conservata la tela raffigurante S.<br />
Giacinto in fuga da Kiev con la statua della Madonna.<br />
In conclusione, ricordo che l’obiettivo finale della ricerca è quello di precisare, attraverso i dovuti<br />
approfondimenti di carattere storico, sociale, economico e geomorfologico, le dinamiche legate alla<br />
distribuzione delle testimonianze d’arte in rapporto all’assetto geopolitico, dinamiche che una volta<br />
61
ultimate le indagini dovrebbero contribuire a restituire un quadro più composito di quanto oggi non<br />
risulti dagli studi delle diverse identità culturali della città e del suo territorio.<br />
62<br />
Cecilia Metelli<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
V. CASALE, La pittura del Settecento in Umbria, in La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di G. Briganti, vol.<br />
II, Milano 1990, pp. 351-370.<br />
Perugia, a cura di M. Montella, con testi di G. Chiuini, F.F. Mancini, S. Stopponi, Perugia 1993.<br />
G. SAPORI, Collezioni di centro, collezionisti di periferia, in Geografia del collezionismo. Italia e Francia tra il XVI<br />
e il XVIII secolo. Atti delle giornate di studio dedicate a Giuliano Briganti, a cura di O. Bonfait, M. Hochmann,<br />
L. Spezzaferro, B. Toscano, Roma 2001, pp. 41-59.<br />
B. TOSCANO, La pittura del Seicento in Umbria, in La pittura in Italia. Il Seicento, vol. I, Milano 1989, pp. 361-381.<br />
Per una storia del mercato dell’arte. Da Roma all’Europa e al Nuovo Mondo, tra la seconda<br />
metà del secolo XVIII e la fine del XIX<br />
Gli atti del convegno (giugno 2008) hanno rappresentato, come ho avuto modi di informare in<br />
precedenza (Quinterni 4), la conclusione della ricerca cofinanziata nell’ambito dei “Progetti di ricerca<br />
di rilevante interesse nazionale” (PRIN) dedicata alla pittura di storia nell’Italia preunitaria (Titolo del<br />
volume: La pittura di storia in Italia. 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli e C.<br />
Mazzarelli, Cinisello Balsamo, 2008; premessa di chi scrive alle pp. 9-11). Nella stessa sede comunicavo<br />
di aver concentrato le ulteriori risorse finanziarie ottenute (un secondo cofinanziamento PRIN i cui fondi<br />
sono stati resi disponibili nel febbraio 2010) all’approfondimento e al riordino degli studi sul Settecento<br />
e sul primo Ottocento iniziati tempo addietro con Stefano Susinno, coinvolgendo anche in questo caso<br />
nell’équipe studiosi che hanno condiviso quei percorsi e alcuni dottori di ricerca e ricercatori formatisi<br />
presso il Dipartimento e che nel nostro Dipartimento e/o nella scuola dottorale hanno trovato un costante<br />
punto di riferimento: Serenella Rolfi, Carla Mazzarelli, Stefano Grandesso, Alessandra Imbellone... La<br />
prima ricerca PRIN scaturiva infatti da uno dei temi affrontati nella mostra Maestà di Roma. Da Napoleone<br />
all’Unità (Roma 2003), dove la pittura di storia veniva individuata come uno degli ambiti che ancora<br />
necessitavano di approfondimenti. Anche la seconda ricerca, quella che qui si espone sinteticamente, ha<br />
origine da quell’esperienza (uno degli ultimi capitoli del catalogo, a cura di Giovanna Capitelli e Stefano<br />
Grandesso, porta il titolo adottato per il programma della ricerca, “Roma fuori di Roma”) e non a caso vi<br />
partecipano numerosi collaboratori già coinvolti nell’esposizione romana e nel relativo catalogo, e successivamente<br />
nella ricerca e nel volume dedicati alla pittura di storia. Come nel caso precedente, questo tema<br />
deve molto alle intuizioni di Stefano Susinno, la cui vicenda umana di docente e di studioso si è conclusa<br />
presso il nostro dipartimento, e del quale oggi si riconosce finalmente il contributo determinante per la<br />
riconsiderazione del ruolo di Roma dal Settecento all’Unità: come ha scritto Marc Fumaroli, la città, “intimidatrice<br />
depositaria dell’Antico e museo d’Europa” fu anche centro esportatore di un modello culturale<br />
“moderno” e non soltanto di reperti di scavo e di copie. Il ruolo di Roma nella cultura illuministica era<br />
già stato rivendicato da André Chastel, ma quella sua intuizione era rimasta praticamente senza seguito. A<br />
questo argomento ho dedicato un volume apparso di recente presso Einaudi, Le Arti e i Lumi (2011) alla<br />
cui elaborazione accennavo in chiusura di Quaderni 4. Va detto che ancor più misconosciuta restava – e<br />
resta tuttora – la funzione di conservazione della tradizione della Roma ottocentesca e della conseguente
esportazione di un suo specifico modello nell’ambito delle arti figurative; funzione messa in ombra dagli<br />
studi dedicati alle più innovative correnti che nel secolo XIX avevano investito l’Europa e toccato – seppur<br />
marginalmente – anche l’Italia.<br />
«Romae omnia venalia esse», a Roma ogni cosa è in vendita, è il motto giugurtino non privo di accenti<br />
moralistici con cui il noto archeologo tedesco Michaelis commenta il mercato artistico romano, nel 1882,<br />
in chiusura al suo formidabile repertorio di tutte le antichità approdate nel corso del secolo oltre Manica.<br />
Il fervore dei negozianti che spogliano degli antichi marmi palazzi e sale della città eterna provoca negli<br />
intellettuali ottocenteschi reazioni accesissime. Leopoldo Cicognara e Giovanni Gherardo de Rossi, che<br />
sono spettatori di tale fenomeno, non tarderanno a definire gli operatori di questo mercato “uccelli di rapina”<br />
(1826). Referti come quelli qui menzionati aprono uno spiraglio sul mondo del commercio artistico<br />
romano tra la metà del Settecento e l’Ottocento come particolarmente attivo e in fermento. Molte anime<br />
tuttavia animano questo mondo. Il mercato di opere antiche continua ad essere affiancato da quello di<br />
opere contemporanee, e l’attività dei suoi protagonisti – artisti, mercanti, periti, corrispondenti stranieri –<br />
costituisce un aspetto particolarmente rilevante del sistema delle arti della Roma ottocentesca che appare,<br />
specialmente nel suo complesso, ancora tutto da indagare.<br />
Se infatti quanto al commercio di arte antica, il processo di smembramento del patrimonio artistico<br />
della nobiltà romana è stato oggetto di numerose indagini particolari che hanno di volta in volta ricostruito<br />
le singole alienazioni delle collezioni, molto invece resta da fare per mettere in rete queste informazioni e<br />
sopratutto per collegarle con quanto è noto, o con quanto ancora oggi è solo parzialmente sondato, del<br />
mercato della produzione artistica contemporanea e della sua organizzazione. La ricerca da poco avviata<br />
interessa, nel suo complesso, i secoli XVIII e XIX, sottolineando le linee comuni e sviscerando i nodi<br />
cruciali di svolta che separano la settecentesca cultura del mercato dei Grand-tourist da quella dei nuovi<br />
acquirenti ottocenteschi giungendo così ad affrontare il campo di studi fino al 1870, anno che segna un<br />
profondo cambiamento nella condizione della città eterna, che diviene allora Capitale dello stato italiano.<br />
Fulcro della ricerca è la disamina dell’industria artistica (nei suoi momenti di produzione e di esportazione)<br />
non solo come motore di attività economiche che esercitano un’ effettiva incidenza sui mutamenti<br />
del gusto, bensì anche sulle alterne fortune e sfortune dei modelli accademici, sull’incidenza di tali modelli<br />
normativi nella creazione di collezioni private e nell’istituzione di musei pubblici, in Italia, in Europa e<br />
nelle nascenti realtà collezionistiche, pubbliche e private, del Nuovo Mondo. Come si è già detto, gli<br />
studiosi coinvolti sono da tempo impegnati in questo lavoro e hanno al loro attivo specifici contributi. La<br />
collaborazione ormai pluriennale che si è stabilita in questo campo tra di loro agevola la discussione e il<br />
confronto, a tutto vantaggio della concretezza dei risultati.<br />
Il mercato artistico, la produzione ad esso legata, le migrazioni di opere e di protagonisti, gli acquisti<br />
privati e le iniziative “per la pubblica utilità” sono esaminati con uno scavo approfondito, condotto<br />
secondo una prospettiva di maggior durata rispetto al taglio degli studi finora condotti. Si tratta infatti di<br />
raccogliere, analizzare e inserire in un contesto storicamente e metodologicamente fondato le tematiche<br />
indicate nel titolo del programma, senza partizioni regionali o nazionali.<br />
Ciò non comporta la pericolosa, e storicamente deviante, omologazione nel considerare le differenti<br />
aree politico-economiche dell’Italia pre-unitaria o dell’Europa delle grandi capitali. Il ruolo svolto da<br />
Roma (e dall’Italia in generale) nella “diffusione dei modelli” e l’influsso dello “stile romano” in rapporto,<br />
ad esempio, alla Francia, all’Inghilterra e alle nazioni tedesche; l’importanza di Venezia fino alla fine della<br />
Repubblica e oltre; il ruolo di centri quali Firenze, Napoli e Bologna e gli stati preunitari ecc.; i contatti<br />
(e i contrasti) tra le Accademie italiane e straniere sono elementi da tener presenti nella ricostruzione delle<br />
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dinamiche dei rapporti tra le capitali europee dell’arte.<br />
Di conseguenza, i passaggi individuati sono i seguenti, qui schematicamente indicati per esigenze di<br />
chiarezza e di brevità:<br />
- Anagrafe delle esportazioni di opere d’arte antiche e contemporanee per giungere ad un quadro<br />
quantitativo attraverso lo spoglio delle fonti a stampa, con particolare attenzione ai primi periodici<br />
specializzati, alla letteratura teorica, odeporica e periegetica<br />
- Anagrafe dei mercanti, degli agenti e dei periti d’arte attivi sul mercato<br />
- Regesto della produzione artistica contemporanea prodotta a Roma e nei centri italiani per il mercato<br />
straniero<br />
- Regesto delle specializzazioni, dagli scultori agli scalpellini, dai copisti ai “praticanti” del restauro<br />
d’integrazione, dai pittori ai miniatori e agli incisori<br />
- Analisi dei principali mercati e dei principali intermediari, tenendo sempre ben presente l’intero<br />
arco del collezionismo privato, nonché della costituzione dei pubblici musei stranieri.<br />
Si aspira così a mettere in luce tutti quegli elementi che, pur se scarsamente presenti a una certa<br />
storiografia artistica, risultano determinanti nel condizionare nel tempo – dai primi editti a tutela delle<br />
città, delle collezioni e delle singole opere ai decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia – la<br />
politica nei confronti del “Cultural Heritage” nell’Europa moderna.<br />
Va detto che anche per i ricercatori stranieri la produzione scientifica italiana su questi temi è imprescindibile<br />
punto di riferimento. Per questo motivo è stata avviata una stretta collaborazione tra studiosi<br />
italiani, inglesi, americani, tedeschi e francesi. Più episodica per ora quella con gli studiosi spagnoli e<br />
russi, comunque in aumento grazie anche al maggiore accesso alle collezioni e agli archivi, e anch’essa<br />
strettamente collegata con la ricerca italiana. Se un limite può essere individuato nello “stato dell’arte”,<br />
questo è dato infatti dalla settorialità e dalla frammentarietà che nonostante tutto ancora lo caratterizzano.<br />
Talvolta inoltre il carattere monotematico delle singole indagini fin qui compiute disegna una geografia<br />
del mercato d’arte ancora frammentaria, che necessità di essere precisata.<br />
Per quanto riguarda il gruppo da me coordinato, la scelta del campo d’azione è caduta sull’esame<br />
del fenomeno del mercato artistico nel secolo XVIII, anche a motivo degli approfondimenti condotti<br />
in questo ambito in occasione di recenti iniziative, mentre per l’età di Restaurazione questo preciso arco<br />
cronologico è affidato ad altri studiosi, coordinati da Giovanna Capitelli che studia ormai da diversi anni<br />
i decenni successivi alla prima restaurazione fino all’Unità d’Italia.<br />
Lo stato frammentario dell’arte impone che i dati ora disponibili in ordine sparso siano ricondotti<br />
all’interno di un sistema informatizzato che verrà completato con i risultati prodotti dalle singole unità.<br />
Si mira a una indicizzazione secondo più categorie e a un riordino secondo i parametri ormai concordemente<br />
accettati in campo nazionale e internazionale (Scuola Normale Superiore di Pisa, Getty Research<br />
Database, Art Past ecc.). Naturalmente resta irrinunciabile il momento dell’analisi e dell’interpretazione –<br />
tenendo conto comunque del fatto che qui si propone una prima tranche di una più ampia ricerca – e che<br />
si tradurrà in un convegno nei giorni 13-15 dicembre 2011 alla British School at <strong>Rome</strong>, seguito da atti la<br />
cui pubblicazione è prevista per l’estate 2012. Ulteriore passaggio sarà un progetto di raggio europeo che<br />
coinvolga organicamente le Università e le Istituzioni culturali presso i quali sono attivi alcuni tra gli interlocutori<br />
privilegiati già parzialmente coinvolti in questo progetto. Con molti di loro sono già avviate da<br />
tempo forme di collaborazione che sarà di grande utilità trasformare in un rapporto di ricerca formalizzato.<br />
Nel convegno del 13-15 dicembre, cui parteciperanno studiosi di circa venti istituzioni italiane e straniere,<br />
i temi individuati per questo primo rendiconto complessivo affrontano argomenti chiave quali La<br />
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circolazione delle opere: fonti, strumenti e casi di studio; Il mercato artistico: intermediari e acquirenti; La scultura:<br />
ricezione, fortuna e diffusione; Modelli di gusto: dall’architettura alle arti applicate; La tradizione aulica<br />
della pittura storica e sacra; La scuola di Roma per concludersi con l’esame delle diverse realtà collezionistiche<br />
e accademiche che anche nel nuovo mondo individuano nel modello romano il proprio riferimento.<br />
Liliana Barroero<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
Intellettuali ed eruditi tra Roma e Firenze alla fine del Settecento (Ricerche di storia dell’arte 84.2004), a cura di<br />
L. Barroero, O. Rossi Pinelli, Roma 2005.<br />
La Città degli artisti nell’età di Pio VI (Roma Moderna e Contemporanea, X, 1-2), a cura di L. Barroero, S.<br />
Susino, Roma 2002.<br />
La pittura di storia in Italia. 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli, C. Mazzarelli,<br />
Cinisello Balsamo 2008.<br />
Il dibattito romano sulla riforma dell’insegnamento accademico negli anni Ottanta del<br />
XVIII secolo e Le Accademie d’arte di Nikolaus Pevsner (1940)<br />
Frammenti intorno ad un modello di accademia mediato tra la storia dell’insegnamento accademico<br />
e gli artisti. Una voce critica in difesa del modello “romano”/“italiano”. Alessandro Verri lettera<br />
scritta da Roma il 26 gennaio 1780 al fratello Pietro a Milano:<br />
«Ti ho scritto il senso che mi fa il Winckelmann. Io non reggo a quella lettura. Nelle scienze esatte<br />
l’uomo può arditamente insegnare: la cosa è così; nelle belle arti non vi è dimostrazione, si tratta di<br />
probabilità e di sentimenti; può darsi un disparere fra due uomini colti e sensibili, le opinioni sono<br />
da annunziarsi con grazia, con dubitazione, e con modestia. I Tedeschi pretendono di conformare<br />
al sistema militare le belle arti; il sig.r Heyne che non ho l’onore di conoscere si pone a comandar<br />
l’esercito; io che non mi sento d’essere una recluta, e che pretendo di ragionare liberamente trovo una<br />
ribellione ostinata verso quel Colonnello Heyne;<br />
non mi quadra il Reggimento Winckelmann che<br />
decide che Michel Angelo era secco, e mi sento<br />
voglia di voltare il fucile verso questi pesanti e stivalati<br />
maestri che deturpano un campo coltivato<br />
sinora dagli Italiani».<br />
Corollario della lettera di Verri è il dibattito su<br />
estratti di libri funzionali ad orientare il sistema delle<br />
arti nel suo complesso. Le Opere di Mengs, pittore<br />
consacrato dalla letteraria Accademia dell’Arcadia<br />
nel 1780, auspice Giovanni Cristoforo Amaduzzi,<br />
autore del Discorso del fine ed utilità delle Accademie<br />
(1777), vennero recensite nel 1781 sulle «Efemeridi<br />
letterarie». A fornirne un estratto critico fu Onorato<br />
Caetani chiamando in causa Algarotti e la riforma<br />
dell’istituto accademico clementino:<br />
«Sopra il ragionamento intorno le belle arti di<br />
Fig. 1 – Michael Köck, Riunione serale dell’Accademia della<br />
Pace, 1797, penna, inchiostro bruno, acquerello, rialzi di<br />
biacca e tracce di matita su carta, 42,7 × 55,2 cm., Roma,<br />
collezione Apolloni; iscritto e d. sullo scudo di Minerva:<br />
Accademia della Pace 1797<br />
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Madrid nel quale si anima lo stabilimento d’un’Accademia, non si può dir altro che ciocchè scrisse<br />
il Conte Algarotti al Sig. Crespi, che non è a tali stabilimenti, che si deve la produzione de grandi<br />
uomini. Tiziano, Giorgione non sono stati Accademici, e Tintoretto cacciato dalla scuola di Tiziano<br />
da se solo divenne quel grandissimo pittore, quale nessuna Accademia ha formato di poi».<br />
La posizione pubblicata sulle «Efemeridi letterarie» è alla base delle postille di Tommaso Puccini alle<br />
Opere di Mengs, in anni in cui a Firenze, con Ferdinando III si tornava a ragionare sull’istituto accademico.<br />
Sappiamo che fu Onorato Caetani a stilare quell’estratto, per sua stessa ammissione in una lettera a<br />
Girolamo Tiraboschi, e da Azara che quell’intervento, addebitò al gesuitismo dei suoi oppositori:<br />
«Non ve dubbio che il Gesuitismo sia mescolato nella critica del libro di Mengs. So tutte le combricole<br />
che fecero per screditarlo, e come cercarono il minchione di Monsignor Gaetani per testa di ferro. Il nome<br />
mio incommoda troppo questa razza di gente per perdonarmi di avere fatto qualche poco di bene».<br />
Il Ragionamento su l’Accademia delle Belle Arti di Madrid, inserito da José Nicolás de Azara nelle<br />
Opere edite a Parma e Madrid nel 1780, fu nerbo della polemica:<br />
«Per Accademia s’intende un’assemblea d’uomini i più esperti nelle Scienze, o nelle Arti coll’oggetto<br />
d’investigare la verità, e di trovar regole fisse conducenti sempre al maggior progresso, e alla perfezione.<br />
Ella è ben diversa dalla Scuola, in cui gli abili Maestri insegnano gli elementi delle Scienze, o delle Arti».<br />
Nel testo si aggiungeva: «un’Accademia di queste Arti non deve comprendere soltanto l’esecuzione,<br />
ma deve occuparsi principalmente alla teoria, e alla speculazione delle regole». Azara aveva scritto<br />
a Paolo Maria Paciaudi a proposito della curatela di quegli scritti:<br />
«Gli altri tutti a bisognato farli in gran parte di nuovo, perchè Mengs scriveva i suoi pensieri quando<br />
gliene veniva voglia, sui straci, e sino sulle soprascrite delle lettere, e mai col fine di fare cose per<br />
pubblicarsi. Il frammento poi sulle Arti di Spagna, e nell Academia di Madrid sono farina mia intieramente<br />
ed ho avute delle buone ragioni per usare di questa superchieria».<br />
Le questioni di attribuzione del Ragionamento, come degli altri testi, pure sollevate in quegli anni,<br />
in forma anonima (Innocenzo Ansaldi), sono accessorie rispetto al portato operativo di quegli stessi<br />
scritti. Fu scontro aperto. Della risposta a Caetani si incaricò il presidente dell’Accademia di Parma,<br />
Carlo Gastone della Torre di Rezzonico, in un «arringo» recitato in occasione della distribuzione dei<br />
premi nel giugno del 1781.<br />
Gesuitismo per Azara, per altri convinta rilettura di Algarotti. In quel contesto riemerge la lettura<br />
attualizzante del Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma di Francesco Algarotti (1763); sul<br />
Saggio, Giovan Battista Giovio scrisse nell’Elogio di Algarotti, contenuto nella prima edizione delle<br />
Opere (1784): «sarà sempre un modello per le orazioni in aprimento dei consessi pittorici, ed insieme<br />
una difesa dell’onore d’Italia».<br />
I modelli “vivi” sparsi per l’Italia per Algarotti forniscono l’elenco positivo delle maniere, escludendo<br />
i cataloghi sottrattivi basati sui principi della riforma del gusto e la censura degli abusi;<br />
Algarotti vi comprendeva anche gli artisti secondari e le «troppo ornate invenzioni del Longhena, o<br />
le fantastiche del Guarini», adatte a «risvegliare gl’ingegni non abbastanza fecondi, o troppo severi»:<br />
«In tanta varietà di maniere potrà il giovane appigliarsi a quella, a cui più lo chiamasse il proprio naturale,<br />
ovvero comporne una sua saporita e nuova, con che primeggiare forse un giorno anch’egli nel bel<br />
campo della pittura. Dal vedere un pittor solo, per quanto egli sia eccellente, ne seguono i medesimi effetti,<br />
che dal leggere un sol libro; che in troppo ristretti termini a confinar si viene la fantasia.»<br />
Nel 1787 al dibattito si aggiungeva un nuovo titolo con l’Elogio di Pompeo Batoni, pubblicato<br />
da Onofrio Boni sulle «Memorie per le belle Arti» (maggio 1787), e poi in volumetto autonomo<br />
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nel luglio dello stesso anno per i tipi Pagliarini, con dedica al conte di Thurn Valsassina, ministro<br />
di Giuseppe II, e comandante del corpo di Guardia di Lepoldo di Toscana. Batoni è un modello<br />
di formazione percorribile da Roma, nell’anno di pubblicazione della quarta edizione delle Opere di<br />
Mengs curate da Carlo Fea, per i tipi Pagliarini:<br />
«E se alla fine di questo secolo abbiamo qualche speranza di rivedere i giorni felici dei Caracci, che<br />
ben guardaronsi d’inceppare colla servitù delle regole il gusto dei loro scolari, lasciarono ad ognuno<br />
libero il corso là dove il proprio talento chiamavalo, come non pochi valorosi Giovani, che bevono<br />
agli stessi fonti del Batoni, ci danno speranza; tutto dovrassi al Genio immortale di questo celebre<br />
Pittore, che ancor morto colle opere ne addita il vero cammino dell’Arte.»<br />
Il passo su Batoni troverà modo di spiegarsi nel 1792, nella Storia pittorica di Lanzi, dove torna<br />
gioco ricordare la sottolineatura sulla riforma dei Carracci che «fu opera non di un’accademia, ma di<br />
una casa». La «riforma è andata tanto avanti, che è troppo», scrisse Boni in una delle lettere indirizzate<br />
a Leonardo De Vegni sulle «Memorie per le belle Arti» del 1787, concludendo: il «giovine studente sa<br />
cosa non deve fare, ma ignora ciò, che dovrebbe fare». Su quella conclusione s’innestava una proposta<br />
basata sulle ragioni proprie alle arti figurative, secondo un principio espresso da Diderot: «è forse<br />
possibile arrivare a ridurre le condizioni, i caratteri, le passioni, gli organismi diversi, a una semplice<br />
questione di regole e di compasso?».<br />
Lo spunto pratico offerto da Boni tornava alle Conference dell’accademia francese:<br />
«esistevano già delle Accademie di Belle Arti: e della Reale di Pittura, e di Scultura di Parigi<br />
esistono le Conferenze stampate nel 1669., fatte per ordine del gran Colbert dagli Artisti più celebri<br />
d’allora. Dunque si ragionava anche allora sulle Belle Arti: anzi secondo me, se si ragionava per<br />
tutto come in Francia, si ragionava benissimo. Si prendeva per tema della Conferenza un quadro di<br />
Raffaelle, del Pussino, o di altro valent’uomo, o una statua antica, e vi si ragionava sopra da quegli<br />
Artisti naturalmente con i termini dell’Arte, rilevandone le bellezze, senza il grave tuono Filosofico,<br />
che credo certo non usassero, perché capivano che la bellezza ed il gusto nulla hanno che fare colla<br />
Filosofia, come altra volta vi dissi coll’autorità di Eustachio Zannotti.»<br />
All’inizio degli anni Novanta uno dei redattori delle «Memorie per le belle Arti», Giovanni<br />
Gherardo De Rossi, ebbe modo di mettere in pratica quel modello cui Lanzi dedicò spazio nella<br />
Storia pittorica della Italia ricordando la fondazione, «simile molto all’Accademia franzese», dell’Accademia<br />
di Portogallo, voluta dall’ambasciatore Alexandre de Souza Holstein e diretta da De Rossi<br />
a Roma (1791).<br />
L’attuazione di quell’idea media una pratica corrente tra gli stessi artisti. Tra i radi documenti<br />
figurativi usciti dalle riunioni informali dell’Accademia della Pace riunitasi intorno a Felice Giani,<br />
non pochi sono i disegni che traducono in figura quel «convien dire ciò, che l’Arte richiede positivamente<br />
di fare», che stava a cuore a Boni nel 1787; in anni più vicini all’articolo di Boni, a quello<br />
stesso metodo si uniformò l’organizzazione di una delle accademie indipendenti, frequentate da un<br />
allievo del vecchio Batoni, Gottlieb Puhlmann «insieme a un allievo di Batoni, uno della famiglia di<br />
Mengs e un pensionante di Lichtenstein», dove «ognuno deve organizzare l’act che va disegnato per<br />
tre domeniche». Dalle pagine delle «Memorie per le belle Arti», ci si provò a mediare una soluzione<br />
«con i termini dell’Arte», praticata dagli stessi artisti.<br />
Rimettere ordine tra gli studi particolari sulle accademie, potrà servire a rivedere il quadro d’insieme<br />
del vecchio saggio di Pevsner (1940) sul “secolo delle accademie” imperniato sull’opposizione tra<br />
i “programmi d’istruzione” – i «legami che unirono il Winckelmann ai nuovi istituti» – e il motore<br />
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“mercantile” della riforma istituzionale; dall’altra sull’inconciliabilità dell’antiaccademismo degli artisti<br />
maturato nel XIX secolo, per Pevsner imperniato sul modello di Carstens che da Roma tagliò i ponti<br />
con l’accademia di Berlino, e delle posizioni “élitarie” dello Sturm und Drang e dell’enciclopedismo<br />
francese (PEVSNER 1982: 166, 168, 211).<br />
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Serenella Rolfi<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
F. ALGAROTTI, Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma, Livorno 1763.<br />
J.N. DE AZARA, Ragionamento su l’Accademia delle Belle Arti di Madrid, in Opere di Antonio Raffaello Mengs,<br />
vol. I, Parma 1780.<br />
O. CAETANI, Titolo del saggio?, in «Efemeridi Letterarie», XI (17 marzo 1781), pp. 87-88.<br />
G.B. GIOVIO, Elogio di Francesco Algarotti, in Opere, vol. X, Cremona 1784.<br />
O. BONI, Elogio di Pompeo Girolamo Batoni, in «Memorie per le belle Arti», III (novembre 1787), p. CCXLIX.<br />
O. BONI, Architettura. Seguono le Lettere sopra varj argomenti di Architettua. Lettera III. Sull’autorità degli esempj, in<br />
«Memorie per le belle Arti», III (maggio 1787), p. CVII ss.<br />
C.G. DELLA TORRE DI REZZONICO, Opere, raccolte e pubblicate da Francesco Mocchetti, vol. X, Como 1830, pp. 94-95.<br />
G. CAVAZZUTTI, Tra eruditi e giornalisti del secolo XVIII (G. Tiraboschi e il «nuovo Giornale de’ Letterati»), in<br />
«Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie Modenesi», VII/8 (1924), pp. 31-134.<br />
Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1 gennaio 1780 al 26 maggio 1781, a cura di G. Seregni, Milano 1940.<br />
J. JORDÁN DE URRIES DE LA COLINA, La embajada de José Nicolás de Azara y la difusión del gusto neoclásico, in Roma y<br />
España: un crisol de la cultura europea en la edad moderna, Actas del Congreso Internacional (Roma 2007), Madrid 2007.<br />
L. LANZI, Storia pittorica dell’Italia (1809), edizione a cura di M. Capucci, Firenze 1968.<br />
D. LEVI, Il “Codice del Buon gusto”: appunti sui rapporti fra Bodoni e l’editoria storico-artistica, in Bodoni: l’invenzione<br />
della semplicità, a cura di A. Ciavarella, Parma 1990, pp. 33-54.<br />
S. PASQUALI, Scrivere di architettura intorno al 1780: Andrea Memmo e Francesco Milizia tra il Veneto e Roma, in<br />
«Arte veneta», 59 (2004), pp. 168-185.<br />
N. PEVSNER, Le Accademie d’arte (1940), Torino 1982, capp. IV, V.<br />
S. ROLFI OŽVALD, Pratiche di atelier e strategie di mercato, in Pompeo Batoni 1708-1787, a cura di L. Barroero,<br />
F. Mazzocca, catalogo della mostra, Milano 2008, pp. 42-45.<br />
S. RUDOLPH, Felice Giani da Addacemico “de’ Pensieri” a Madonnero, in «Storia dell’arte», 29-31 (1977), pp. 175-190.<br />
“Il mondo in una stanza”: esempi del collezionismo archeologico di stampo universale<br />
tra il XIX e il XXI secolo<br />
Fig. 1 – Antonio Raimondi<br />
«Una delle più cose che io abbia avuto et che abbia è il mio studio, dal<br />
quale mi sono proceduti tutti li honori e tutta la stima della mia persona. Il<br />
quale intendo che sia non solamente dove sono i libri, ma tutto quello che<br />
contengono le quattro stanze delli mezadi dove io sto ordinariamente, dove vi<br />
sono cose esquisite, et tali che chi ben non le considera non lo potrebbe creder,<br />
così dei libri a stampa come de’ scritti a penna, instrumenti mathematici<br />
et mecanici, statue così di marmo come di bronzo, pitture, minerali, pietre<br />
secrete et altro, le qual tutte cose sono state raccolte da me con grandissimo<br />
studio e fatica, però voglio anco che sii conservato et argomentato, acciò che<br />
i nostri posteri possano godere e sentir beneficio di queste mie fatiche…» (DE<br />
BENEDICTIS 1991).<br />
Il brano del testamento del senatore veneziano Jacopo Contarini, datato<br />
1 luglio 1596, documenta la composizione e lo spirito con il quale venivano
costituite le collezioni di stampo universale sia in Italia che in Europa nel XVI secolo. Il modello per<br />
l’homo universalis era la Naturalis historia di Plinio il Vecchio che, come è noto, riuniva in un’unica<br />
compilazione le aspirazioni di conoscenza verso la natura ed i suoi fenomeni e verso l’essere umano ed<br />
i suoi prodotti degni di essere ricordati. Ma mentre il collezionismo di stampo universale e le cosiddette<br />
“camere delle meraviglie” sono argomenti molto studiati fino agli sviluppi nel XVIII secolo (a<br />
titolo esemplificativo si cita qui solo LUGLI 1983), altrettanto non si può dire della fase più recente,<br />
quella che vede lo smembramento di tali raccolte e l’origine dei musei di storia naturale e dei musei<br />
etnografici e antropologici.<br />
Restringendo a questa seconda tipologia di museo la ricerca mira, in particolare, a due obiettivi:<br />
1) censimento (in atto) delle raccolte museali esistenti in Italia che contengono materiali archeologici<br />
di provenienza andina; 2) individuazione di casi di studio di particolare interesse, che consentano di<br />
ricostruire le fasi di ingresso in museo di tali materiali. Il fine è quello di integrare la conoscenza del<br />
collezionismo di antichità, non limitando il fenomeno all’interesse per i reperti classici.<br />
Dopo la scoperta delle Americhe, la gara per inserire l’oggetto più raro ed esotico aveva aumentato<br />
il raggio d’azione dei collezionisti europei. La Spagna e gli ordini religiosi esercitarono, in tal<br />
senso, un importante ruolo di mediazione (LAURENCICH-MINELLI 1985; PALMA VENETUCCI 2003;<br />
EAD. 2006; EAD. 2007). Non manca, tuttavia, la presenza di singoli studiosi che hanno svolto un’importante<br />
funzione di tramite tra le conoscenze del vecchio e del nuovo mondo, ovvero tra il Perù e<br />
Milano, come Antonio Raimondi (AIMI 2009) (fig. 1) o di collezionisti, come Ugo Canepa, meno<br />
attenti al significato scientifico, ma decisivi per la costituzione di importanti nuclei collezionistici a<br />
Rimini (BIORDI 1991; ID. 2000; ID. 2005). Su alcune realtà museali come le raccolte extraeuropee del<br />
Castello Sforzesco di Milano (AIMI 1991; ID. 1993 e 1994), il sopracitato caso delle raccolte civiche di<br />
Rimini e di altri musei dell’Emilia Romagna (SALVI 2007) o l’ancora più studiato Museo Nazionale<br />
Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini di Roma (da BARONCELLI 1935 a LERARIO 2005) sono già<br />
disponibili pubblicazioni sulla storia della formazione delle raccolte, per cui restano settori molto<br />
circoscritti ancora da indagare. Parzialmente dissodato appare anche il campo della storia della formazione<br />
dei musei di antropologia che fanno capo ad istituzioni universitarie (tra i più noti ricordiamo<br />
quello di Bologna e di Firenze), mentre di più difficile accesso sono i dati riguardanti le collezioni<br />
connesse con istituzioni religiose (per un quadro d’insieme resta punto di partenza BIORDI 1990).<br />
Questa realtà, particolarmente importante – basti ricordare che l’unica collezione pubblica a carattere<br />
universale presente sul suolo italiano sono i Musei Vaticani – non sarà compresa in questa fase della<br />
ricerca, perché richiederebbe tempi e strumenti diversi d’indagine rispetto a quelli preventivati. È<br />
interessante, tuttavia, notare che mentre in Europa non viene meno (e anzi si rafforza, basti pensare<br />
al Pavillon des Sessions del Louvre, inaugurato da Chirac nel 2000) l’aspirazione al museo universale<br />
che, come è noto, si forma nel XIX secolo come riflesso del colonialismo e della competizione tra le<br />
potenze occidentali, in Italia continua ancora oggi il fenomeno inverso, cioè quello della separazione<br />
tra le culture, attraverso la creazione di strutture museali differenziate, innescato dall’Unità d’Italia.<br />
La necessità di fornire riferimenti chiari e univoci alla nuova identità nazionale italiana portò,<br />
nel momento della fondazione dei musei nazionali, a smembrare le collezioni “universali” in sedi<br />
espositive diverse. Tale processo di “classificazione” del patrimonio culturale su cui fondare le radici<br />
italiche è esemplificato dal caso ben noto della nascita del “Museo Preistorico ed Etnografico”, diretto<br />
da Luigi Pigorini. La collezione raccolta nel Collegio Romano dal padre gesuita Athanasius Kircher,<br />
a cui era stata unita per donazione, nel 1651, la raccolta di antichità romane del senatore Alfonso<br />
69
Donnino de Toscanella (già nel Palazzo dei Conservatori) e che si era costantemente arricchita con<br />
invii di materiali da parte dei gesuiti in missione in America Latina e in altre remote parti del mondo,<br />
non fu mantenuta nell’integrità della sua formazione storica, ma se ne valorizzarono alcune sezioni<br />
come quella preistorica, il cui ampliamento interessava particolarmente il Pigorini, mentre i materiali<br />
classici furono trasferiti al Museo Nazionale Romano.<br />
Tra le realtà museali di particolare interesse per la ricerca, oltre a quelle già ricordate, è da segnalare<br />
il “Museo delle Culture del Mondo” al Castello D’Albertis di Genova, che espone la collezione<br />
di oggetti raccolti dal Capitano Enrico Alberto D’Albertis tra la fine dell’Ottocento ed i primi del<br />
Novecento, nella sua stessa dimora.<br />
Questo primo anno d’indagine è stato dedicato alla raccolta di materiali bibliografici che offrono<br />
dati soprattutto per collezioni e musei dell’Italia centro-settentrionale. La ricerca continua nel reperimento<br />
della bibliografia specializzata e nel censimento delle realtà museali del centro-sud, dove ci si<br />
aspettano risultati soprattutto in considerazione del particolare collegamento tra la Spagna (e quindi<br />
le sue colonie dell’America del Sud e il viceregno del Perù) ed il Regno di Napoli, come appare da<br />
un primo spoglio bibliografico (AIMI 1993).<br />
70<br />
Giuliana Calcani<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
A. AIMI, La storia della Raccolta Precolombiana, in A. Aimi, L. Laurencich Minelli, Museo d’arti applicate: raccolta<br />
precolombiana, Milano 1991.<br />
A. AIMI, Napoli e l’America, inTesori dalle Ande, a cura di L. Laurencich Minelli, Centro Europeo Mostre, La<br />
Spezia 1993, pp. 23-29.<br />
A. AIMI, Le Collezioni Amerindiane di Milano, in L’Americanistica italiana e le Collezioni precolombiane, Verona<br />
1993, pp. 21-39.<br />
A. AIMI, Il collezionismo milanese di interesse americanistico e l’origine della Raccolta Precolombiana, in «Rassegna<br />
di Studi e Notizie», 18 (1994), pp. 27-52.<br />
A. AIMI, Firenze e l’America: una storia antica, in Perù: tremila anni di capolavori, a cura di A. Aimi, Milano<br />
2003, pp. 11-19.<br />
A. AIMI, Federico Balzarotti: il collezionista, in Le culture del Perù da Chavín agli Inca, a cura di A. Aimi,<br />
Cinisello Balsamo 2004, pp. 16-21.<br />
A. AIMI, Milano e l’America Latina: cinque secoli di storia, in «Politica internazionale», 4-5 (2009), pp. 215-223.<br />
A. AIMI, Alle origini dell’antropologia italiana: il ruolo di Antonio Raimondi, in Tra Italia e Perù: l’attualità<br />
di Antonio Raimondi. Atti delle giornate di studio (Quaderni di Casa America, V/2), a cura di G. Calcani, R.<br />
Speciale, Genova 2009, pp. 69-74.<br />
A. AIMI, L. CAGNOLARO, V. DE MICHELE, L. LAURENCICH MINELLI, Il Museo di Manfredo Settala nella Milano<br />
del XVII secolo, Museo Civico di Storia Naturale, Milano 1983.<br />
P. BARONCELLI, Il R. Museo Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini”: le origini, le vicende, gli scopi, in Atti del<br />
IV Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1935, vol. V, pp. 127 e sgg.<br />
P. BARONCELLI, Il R. Museo Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini”di Roma, Roma 1940.<br />
M. BIORDI, I musei italiani e l’americanistica, in L’americanistica italiana e le collezioni precolombiane in Italia,<br />
Atti della giornata di studi, a cura di M. Sartor, Verona 1990 (1991), pp. 29-45.<br />
M. BIORDI, Il collezionismo americanistico e il primitivismo: gli artefatti precolombiani nel Museo delle culture<br />
extraeuropee Dinz Rialto di Rimini, in L’Americanistica italiana e le celebrazioni colombiane, Atti della giornata di<br />
studi, a cura di M. Sartor, Verona 1991, pp. 41-51.<br />
M. BIORDI, Le collezioni extraeuropee dei musei romagnoli ed il Museo delle culture extraeuropee Dinz Rialto di<br />
Rimini, in Atti e Memorie. Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, Bologna 2000, pp. 349-374.<br />
G. CANDELA, M. BIORDI, L’arte etnica tra cultura e mercato, Milano 2007.<br />
C. DE BENEDICTIS, Per la storia del collezionismo italiano. Fonti e documenti, Firenze 1991.<br />
Bologna e il Mondo Nuovo, a cura di L. Laurencich Minelli, catalogo della mostra, Bologna 1992.
Il Collegio Romano dalle origini al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, a cura di C. Cerchiaia, Roma 2003.<br />
M.C. DE PALMA, Castello D’Albertis, museo delle culture del mondo, Cinisello Balsamo 2008.<br />
L. LAURENCICH-MINELLI, Museography and Ethnographical Collections in Bologna during the Sixteenth and<br />
Seventeenth Century, in <strong>The</strong> Origins of Museums. <strong>The</strong> Cabinet of Curiosities in Sixteenth and Seventeenth-Century<br />
Europe, a cura di O. R. Impey, A. MacGregor, Oxford 1985, pp. 17-23.<br />
M.G. LERARIO, Il museo Luigi Pigorini dalle raccolte etnografiche al mito di Nazione, Roma 2005.<br />
Lo sguardo altrove: il progetto Etno e il patrimonio culturale extraeuropeo in Emilia Romagna, a cura di A. Salvi,<br />
catalogo della mostra, Bologna 2007.<br />
A. LUGLI, Naturalia et Mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d’Europa, Milano 1983.<br />
Museo degli sguardi. Raccolte etnografiche di Rimini, a cura di M. Biordi, Rimini 2005.<br />
G. OLMI, L’inventario del mondo: catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna 1992.<br />
B. PALMA VENETUCCI, Commercio antiquario ed esportazioni di antichità nel XVIII secolo: il ruolo della Spagna,<br />
in Illuminismo e Ilustraciòn. Le antichità e i loro protagonisti in Spagna e in Italia. Atti del Congresso (Roma, 30<br />
novembre-2 dicembre 2001), a cura di J. Beltràn Fortes, B. Cacciotti, X. Dupré Raventòs, B. Palma Venetucci,<br />
Roma 2003, pp. 277-293.<br />
B. PALMA VENETUCCI, Nuovi aspetti del collezionismo in Italia e Spagna attraverso le esportazioni delle antichità,<br />
in Arqueología, Coleccionismo y Antigüedad España e Italia en el siglo XIX. Atti del Congresso, (Siviglia, 18-20<br />
novembre 2004), a cura di J. Beltràn Fortes, B. Cacciotti, X. Dupré Raventòs, B. Palma Venetucci, Siviglia<br />
2006, pp. 503-526.<br />
B. PALMA VENETUCCI, Dallo scavo al collezionismo. Un viaggio nel passato dal Medioevo all’Ottocento, Roma 2007.<br />
Europa e America nel modernismo “transatlantico” di Walker Evans, 1928-1934<br />
Lo scarso interesse che ha circondato sino ad oggi l’opera giovanile di Walker Evans costituisce un caso<br />
storiografico tanto complesso quanto singolare. Nato nel 1903, Evans si dedicò precocemente agli studi<br />
letterari e coltivò l’ambizione di divenire scrittore. Dall’aprile 1926 trascorse un anno di studio a Parigi,<br />
dove studiò la lingua, approfondì la conoscenza della letteratura francese e frequentò la libreria Shakespeare<br />
& Co. di Sylvia Beach, dove non era raro incontare James Joyce. Ritornato a New York nel 1927, tuttavia,<br />
abbandonò progressivamente la scrittura, apparentemente sopraffatto dai propri modelli artistici.<br />
I negativi e le stampe oggi conservati presso il Walker Evans Archive del Metropolitan Museum<br />
di New York e presso il J. Paul Getty Museum di Los Angeles indicano che Evans iniziò a dedicarsi<br />
con continuità alla fotografia nel 1928, privilegiando i temi della grande città: la nuova architettura<br />
del grattacielo, il paesaggio creato dalla comunicazione pubblicitaria, la stratificazione sociale di New<br />
York. Circa 500 negativi nella collezione del Metropolitan e 100 stampe in quella del Getty testimoniano<br />
che questo interesse per la metropoli si protrasse sino al 1934, allorché l’interesse di Evans si<br />
spostò decisamente verso l’architettura “vernacolare” e la provincia. Fra il 1935 e il 1937 collaborò<br />
con l’agenzia fotografica della Farm Security Administration, viaggiando negli stati dell’est e del<br />
sud per documentare gli effetti della Depressione. Furono proprio le fotografie riprese nelle piccole<br />
e medie città fra il 1930 e il 1936 a costituire l’ossatura di American Photographs, la retrospettiva<br />
presentata al MoMA nel 1938 – la prima dedicata dal museo a un fotografo – che consacrò Evans<br />
come uno dei maggiori interpreti della provincia americana e della “main street”. Fu poi la seconda,<br />
influente retrospettiva del MoMA, curata da John Szarkowski nel 1971, a consolidare i contorni di<br />
quello «stile documentario» frontale, austero e descrittivo che ancora oggi è unanimemente considerato<br />
il contributo più originale di Evans all’arte del Novecento.<br />
In questo quadro dominato dalla maturità artistica raggiunta negli anni trenta con lavori che<br />
affrontavano il tema dell’“americanità”, le fotografie d’esordio realizzate secondo un approccio a<br />
prima vista “europeo” sono state relegate in una posizione sostanzialmente marginale. La storiografia<br />
71
dominante si è infatti concentrata su elementi stilistici come la prospettiva accidentale e la composizione<br />
“angolare”, imputando le prime prove newyorkesi alla fascinazione del giovane artista per<br />
la “Nuova Visione” europea. Questa lettura è in realtà contraddetta dal sostanziale disinteresse di<br />
Evans per la “Nuova Visione”, come del resto per il Costruttivismo e l’Astrattismo spesso richiamati<br />
per inquadrare i suoi primi lavori. Al contrario, in varie occasioni espresse ammirazione per fotografi<br />
come Mathew Brady, Paul Strand, Eugène Atget, August Sander, Ben Shahn, ma anche per aspetti<br />
dell’opera di Alfred Stieglitz, Ralph Steiner, Henri Cartier-Bresson ed Erich Salomon.<br />
In questo panorama variegato e frammentario si può cogliere la tipica tendenza di Evans a dissimulare<br />
i propri debiti nei confronti di altri artisti visuali, indicando piuttosto tra i propri ascendenti scrittori<br />
come Flaubert e Baudelaire. Per una conoscenza più circostanziata della sua formazione visiva e del suo<br />
interesse per la metropoli, la ricerca deve dunque prendere le mosse dalle opere effettivamente realizzate,<br />
considerando non solo le stampe fotografiche più note, ma anche la grande quantità di negativi<br />
conservati nell’archivio, spesso non accompagnati da positivi. Se le fotografie sono solitamente “tracce”<br />
del mondo e immagini di qualcosa, il compito primario dello storico è quello di restituire i modi con<br />
i quali l’esperienza della realtà è stata trasformata dal fotografo in una rappresentazione bidimensionale<br />
attraverso una serie di scelte tecniche ed estetiche, che corrispondono a interpretazioni culturali non<br />
sempre riconducibili a princípi condivisi o a manifesti artistici.<br />
Un primo, importante esempio in questa direzione è fornito da nove negativi conservati al<br />
Metropolitan che mostrano il profilo di Manhattan ripreso dal ponte di Brooklyn. Su questo topos newyorkese<br />
Evans operò alcune torsioni visive che consentono già di individuare l’elaborazione di un’idea di città.<br />
Eliminando il campo medio con la superficie dell’East River, queste vedute negano l’immagine pittoresca<br />
di Manhattan come penisola naturale protesa sulle acque del fiume. A contraltare, le icone della razionalità<br />
ingegneristica – il ponte ottocentesco e i nuovi grattacieli – vengono presentate come frammenti di un<br />
collage disumanizzato, dal quale sono assenti gli spazi pubblici e la vita sociale.<br />
Nel suo complesso, la serie rivela inoltre un ambizioso programma concettuale. Tutte le fotografie<br />
risultano infatti incentrate sulla costruzione del 111 John Street Building, un grattacielo di 26 piani<br />
da 3,5 milioni di dollari nel distretto finanziario di Manhattan. La cronaca immobiliare del «New<br />
York Times» consente di datare i negativi all’autunno 1928, ma un’analisi comparativa rivela anche<br />
che tutte le immagini, pur con alcune varianti compositive, sono state realizzate nel corso di alcuni<br />
mesi da due specifici punti di ripresa. Il carattere sistematico di questa sequenza segnala perciò che le<br />
primissime prove dell’artista a noi pervenute, sebbene a un primo sguardo stereotipate e frammentarie,<br />
rientrano in un progetto più ampio sull’immagine di New York, avviato nel pieno di un ciclo<br />
edilizio che cambiò il volto della metropoli.<br />
In sintonia con queste premesse, la ricerca ha teso anzitutto ad individuare i soggetti urbani di tutte le<br />
fotografie realizzate in questo periodo iniziale – sino ad oggi rubricate come «studi formali», «composizioni»<br />
o «astrazioni» – nel tentativo di comprendere i criteri di trattamento messi in atto da Evans. L’analisi<br />
comparativa delle fonti iconografiche – fotografie, vedute aeree, mappe, libri illustrati, materiali pubblicitari<br />
– incrociata con le cronache architettoniche – presenti soprattutto nella sezione immobiliare del «New<br />
York Times» e nelle riviste di settore – ha consentito non solo di precisare i dati catalografici di moltissime<br />
opere conservate al Metropolitan e al Getty e di individuare le modalità operative dell’artista, ma anche di<br />
ricostruire la geografia simbolica sottesa al suo lavoro newyorkese.<br />
Dalle maglie dell’archivio emerge dunque una mappa visiva di New York in un periodo cruciale<br />
della sua crescita e del suo declino, a ridosso della drammatica crisi del 1929. Insistendo sui luoghi di<br />
72
maggior attività immobiliare – il Financial District, 42nd Street, Central Park South – ma fotografando<br />
edifici non ancora completati e facciate secondarie, tra il 1928 e il 1934 Evans accumulò un’iconografia<br />
sospesa tra costruzione e distruzione, in una rappresentazione ironica del mito progressista degli anni<br />
venti. Gli slogan pubblicitari, ritagliati dall’inquadratura, appaiono ridotti a frammenti di un babelico<br />
sillabario; le persone, in particolare i lavoratori, sono colte in momenti inespressivi di sospensione o di<br />
pausa – in una modalità diametralmente opposta a quella adottata da Lewis Hine nel 1930-1931 per<br />
celebrare l’eroismo del lavoro nella costruzione dell’Empire State Building.<br />
Ne emerge una tensione fra la descrizione documentaria della città e la formalizzazione dello spazio<br />
urbano, in sintonia con le ricerche di molti artisti del tempo. L’archivio rivela rimandi puntuali a<br />
fotografie di Percy L. Sperr, Thurman Rotan, Ewing Galloway e Ira W. Martin pubblicate in riviste<br />
dell’epoca. Ma la riflessione di Evans sull’“astrattezza” fisica e morale della città commerciale rivela<br />
contatti non meno stretti con l’opera di artisti attivi nel campo delle arti grafiche – Louis Lozowick,<br />
Arnold Rönnebeck, Howard Cook, Ernest Fiene, Mark Freeman – e di pittori successivamente unificati<br />
sotto la corrente del Precisionismo, come Charles Demuth, Stuart Davis, Charles Sheeler, George<br />
Ault, Preston Dickinson e Stefan Hirsch. In generale, si tratta di artisti che articolarono un discorso<br />
critico sulla metropoli e sull’estetica della macchina coniugando i principi del post-Cubismo a una<br />
resa realista del linearismo industriale e tecnologico. Come ha suggerito Wanda Corn in un suggestivo<br />
inquadramento di questa generazione di artisti, ad essere in gioco è una declinazione “transatlantica” del<br />
modernismo, sviluppata in una dialettica continua – talvolta persino irrisolta – tra Europa ed America.<br />
Forse non a caso, una delle prime fotografie pubblicate da Evans è una scena intitolata «Port of New<br />
York», probabile citazione di un libro di Paul Rosenfeld apparso nel 1924 nel quale la metropoli viene<br />
celebrata come la più europea delle città americane e come ponte ideale tra vecchio e nuovo continente.<br />
L’aspetto più originale della ricerca di Evans si ritrova proprio nelle sequenze messe a punto per<br />
riviste come «<strong>The</strong> Architectural Record», «<strong>The</strong> Hound & Horn» e «Creative Art» o per le esposizioni<br />
alle quali partecipò, nelle quali la tradizionale narrazione fotografica si trova innervata dalle nuove<br />
teorie sovietiche sul montaggio cinematografico. Lo sviluppo più avanzato di questa tendenza è dato<br />
da una serie perduta di 36 fotografie «Spedite in Russia con W. Goldwater», testimoniata da un<br />
elenco di didascalie di mano dell’artista. La ricostruzione della sequenza – resa possibile dal lavoro di<br />
identificazione dei soggetti sopra illustrato – consente di individuare i contorni di un inedito “viaggio”<br />
all’interno di New York: un caleidoscopio di frammenti metropolitani strutturato da un ordine<br />
narrativo rovesciato, nel quale il Chrysler Building, sintesi americana delle arti, dell’architettura e<br />
dell’industria, viene presentato in un ambiguo stato di incompletezza confinante con il decadimento.<br />
Con il progredire della Depressione, nel 1933-1934 Evans continuò a lavorare a New York spostandosi<br />
progressivamente verso 14th Street, South Street e West Street, dove il senso di abbandono e<br />
di rovina stava diventando palpabile. È in questo laboratorio metropolitano, frequentato assiduamente<br />
nel corso degli anni cruciali di formazione, che l’artista ebbe modo di mettere a punto quello “stile<br />
documentario”, allo stesso tempo descrittivo e interpretativo, che lo rese celebre negli anni successivi.<br />
Antonello Frongia<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
W.M. CORN, <strong>The</strong> Great American Thing: Modern Art and National Identity, 1915-1935, Berkeley 1999.<br />
D. EKLUND, M. FINEMAN, M. MORRIS HAMBOURG, J.L. ROSENHEIM, Walker Evans, New York 2000.<br />
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73
J. KELLER, Walker Evans, Los Angeles 1995.<br />
D.B. KUSPIT, Individual and Mass Identity in Urban Art: <strong>The</strong> New York Case, in «Art in America», LXV/5<br />
(1977), pp. 66-77.<br />
J.R. MELLOW, Walker Evans, New York 1999.<br />
G. MORA, J.T. H<strong>IL</strong>L, Walker Evans. <strong>The</strong> Hungry Eye, New York 1993.<br />
B. RATHBONE, Walker Evans, Boston 1995.<br />
P. ROSENFELD, Port of New York. Essays on Fourteen American Moderns, New York 1924.<br />
Shared Perspectives. <strong>The</strong> Printmaker and Photographer in New York, 1900-1950, a cura di L. Nolan, New York,<br />
catalogo della mostra, New York 1993.<br />
G. STAVITSKY, E. HANDY, M. ORVELL et al., Precisionism in America, 1915-1941. Reordering Reality, New York 1994.<br />
J. SZARKOWSKI, Walker Evans, New York 1971.<br />
D. TASHJIAN, Skyscraper Primitives. Dada and the American Avant-Garde, 1910-1925, Middletown 1975.<br />
J.L. THOMPSON, J.T. H<strong>IL</strong>L, Walker Evans at Work, New York 1982.<br />
L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste culturali negli<br />
anni 1960-1980<br />
Gli interventi di Laura D’Angelo e Elena Salza si inscrivono in un progetto di ricerca finanziato<br />
dal MIUR nell’ambito del PRIN 2008. Il progetto, coordinato a livello nazionale da Antonello Negri<br />
dell’Università di Milano, ha per tema La moltiplicazione dell’arte e le sue immagini. La cultura visiva<br />
in Italia nell’epoca della riproducibilità tecnica: dalle riviste illustrate del secondo Ottocento a rotocalchi<br />
e quotidiani della contemporaneità.<br />
Si tratta dunque di una ricerca ampia alla quale collaborano, oltre all’unità locale di Roma Tre coordinata<br />
da Barbara Cinelli, le unità locali delle Università di Firenze e Udine, coordinate rispettivamente da<br />
Maria Grazia Messina e Flavio Fergonzi.<br />
L’unità romana – alla quale partecipano anche Giovanna Montani, Valentina Russo e Chiara<br />
Fabi – ha scelto come tema specifico L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste<br />
culturali negli anni 1960-1980. Il segmento temporale è caratterizzato da una straordinaria vivacità dal<br />
punto di vista della sperimentazione dei linguaggi artistici; nonostante gli anni Sessanta e Settanta siano<br />
stati recentemente oggetto di una ripresa di interesse storiografico, i rotocalchi e in generale i periodici a<br />
larga diffusione restano una fonte tuttora inesplorata per i decenni del dopoguerra. Si è dunque deciso<br />
di focalizzare l’attenzione su alcune pubblicazioni<br />
(«L’Espresso» ed «Epoca»), che testimoniano con<br />
modalità e scelte redazionali diverse – ad esempio<br />
con la presenza o meno di rubriche fisse, con il<br />
ricorso o meno a nomi importanti della storia<br />
e della critica contemporanea – la diffusione<br />
di un’arte ormai inevitabilmente “moltiplicata”.<br />
Questa presenza, numericamente rilevante, permette<br />
una lettura secondo due direzioni: in primo<br />
luogo, una riflessione sull’immagine che della produzione<br />
artistica contemporanea viene fornita ai<br />
lettori secondo un criterio che potremmo definire<br />
Fig. 1 – R. Carrieri, I pittori a domicilio: Cassinari, in «Epoca», 1003<br />
(14/12/1969)<br />
74<br />
di consumo culturale; si tratta di un’immagine<br />
spesso dissonante e come fuori asse rispetto al
quadro generale formato dalla successiva elaborazione storiografica. In secondo luogo, la considerazione<br />
di questi periodici come repertori di possibili fonti, di suggestioni visive, come motori di diffusione delle<br />
immagini di reportage o di cronaca destinate a circolare negli atelier e a coesistere accanto a veicoli di<br />
trasmissione più tradizionale.<br />
La ricerca è stata condotta dividendo il vasto campo di indagine in segmenti. Gli interventi qui pubblicati<br />
presentano nello specifico i primi esiti delle ricerche su «Epoca» nel decennio 1960-’69 (D’Angelo), e<br />
su «L’Espresso» negli anni Sessanta (Salza). L’attenzione delle ricercatrici si è concentrata, per precisa scelta<br />
metodologica, sulle immagini fotomeccaniche, che sono state oggetto di un imponente lavoro di schedatura.<br />
La raccolta dei dati è stata l’oggetto della prima fase della ricerca, attualmente giunta alle battute<br />
conclusive. Al fine di rendere utilizzabile l’enorme repertorio di immagini all’interno della ricerca, i dati<br />
schedati confluiscono in un database appositamente elaborato per una tipologia di immagini finora mai<br />
utilizzata come fonte e che dunque richiede strumenti appropriati di catalogazione. Il carattere innovatore<br />
e sperimentale del programma informatico permetterà, nei prossimi mesi, di passare dalla schedatura ad<br />
una fase di condivisione dei dati raccolti dalle diverse unità, permettendo così una più intensa circolazione<br />
di informazioni, ragionamenti e confronti fra i diversi gruppi locali.<br />
Gli interventi qui pubblicati sono dunque da intendersi come prime riflessioni che poggiano<br />
sull’esperienza diretta di una ricerca in fieri, riferibili ad uno stadio di elaborazione ancora suscettibile<br />
di numerosi approfondimenti.<br />
«Epoca» 1960-1969: l’immagine dell’artista nell’Italia del miracolo economico<br />
Laura Iamurri<br />
Lo spoglio, catalogazione e analisi dell’apparato iconografico del rotocalco Epoca per il decennio 1960-<br />
’69, ha già prodotto risultati che seppur ancora parziali possono condurre a riflessioni significative. Lo studio<br />
su immagini la cui circolazione è garantita da un veicolo rilevante di comunicazione visiva consente di<br />
determinare quale sia la percezione e la ricezione dell’arte contemporanea in uno strato diffuso di pubblico<br />
non specializzato; ma soprattutto consente di intravedere interessanti sviluppi di ricerca nella definizione<br />
di una “storia dell’arte”, parallela e alternativa a<br />
quella che veniva in quegli anni scritta dai critici<br />
di professione, e trasmessa su circuiti diversi e utilizzati<br />
da un pubblico che a quella data può ormai<br />
definirsi “di massa”.<br />
Difficile riassumere in breve, e con una ricerca<br />
in corso d’opera, la linea editoriale di «Epoca»,<br />
tratteggiarne la missione e individuarne nel dettaglio<br />
il pubblico; ma i dati finora raccolti consentono<br />
di affermare con una sufficiente plausibilità<br />
come tra le sue pagine si affermassero, numero per<br />
numero, i valori su cui si era costituita l’Italia libe-<br />
rata: il lavoro e la famiglia, al cui consolidamento<br />
anche l’arte fu chiamata a contribuire.<br />
Fig. 2 – R. Carrieri, I pittori a domicilio: Guttuso, in «Epoca» 992<br />
(28/09/1969)<br />
75
I luoghi redazionali privilegiati dalla ricerca<br />
si individuano nelle due rubriche fisse: Italia<br />
Domanda e Arte, dove i ritratti fotografici di<br />
esponenti del mondo artistico internazionale, o<br />
riproduzioni di loro opere, costituivano naturale<br />
e imprescindibile corredo della materia<br />
giornalistica trattata. Queste due rassegne sono<br />
accumunate dalla cadenza settimanale, causa/<br />
conseguenza di una popolarità riscossa tra i<br />
lettori, e dall’analogo formato delle immagini<br />
usate, spesso minimale e in bianco e nero. In<br />
queste rassegne, molto legate all’identità della<br />
rivista, ricorre ciclicamente il medesimo grup-<br />
Fig. 3 – I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», 673 (18/08/1963)<br />
po di artisti, il cui censimento costituirà una<br />
delle priorità della ricerca che seguirà la fase di catalogazione.<br />
Italia domanda era una rubrica ideata da Cesare Zavattini, che ne ebbe la cura dal primo al quindicesimo<br />
numero; coinvolgeva personaggi celebri, dai registri ai letterati, per rispondere a questioni sollevate dai<br />
lettori su argomenti di natura molto diversa, mostrando la piena sintonia tra il Neorealismo zavattiniano<br />
e la visione editoriale di Arnoldo Mondadori. Tra il 1960 e la metà del 1962 l’artista, pittore o scultore<br />
che sia, è sempre incluso (e naturalmente ritratto accanto alla risposta fornita) nella cerchia di “esperti” che<br />
esprimevano i loro statement su interrogativi posti dai lettori a volte generici: Credete nel destino?, a volte<br />
di tono più intellettualmente ambizioso e specialistico: Anche per gli artisti si parla di lancio pubblicitario.<br />
Crede possibile questo tipo di successo? Che opinione ha dei critici?<br />
Le “fototessere” a corredo dei piccoli contributi, oltre al compito di avvicinare alla comunità i volti di<br />
personaggi affermati a cui erano chiamati a lasciarsi ispirare nella personale corsa al successo sociale, adempiono<br />
al compito di educare il pubblico all’arte giocando su tacite simmetrie visive tra la fisionomia degli<br />
autori e il linguaggio per cui avevano acquisito la notorietà, coadiuvate talvolta da didascalie telegrafiche.<br />
Si può citare l’esempio di De Chirico, «creatore della pittura metafisica», la cui espressione sospesa ed<br />
enigmatica permetteva una associazione istintiva alla cifra della fortunata produzione metafisica a garanzia<br />
di un’immediata e inconfutabile riconoscibilità. Quando Italia domanda verrà meno a questa istanza, sarà<br />
il pubblico stesso a chiedere di conoscere il volto<br />
degli autori proposti. Nell’agosto del ’63 «Epoca»<br />
dedica a Giuseppe Viviani, assai sponsorizzato<br />
dalle pagine della rivista, un ampio servizio a<br />
colori in cui vengono riprodotti i suoi dipinti<br />
sempre popolati da tristi personaggi, inclusi<br />
animali, con grandi occhi mesti. Nel numero<br />
successivo si registra la reazione del signor Fusari<br />
di Roma, che in una lettera al direttore scriveva:<br />
«Le informazioni, i commenti, le notizie sui<br />
grandi avvenimenti del mondo sono necessarie<br />
ed utili. Ma pagine come quelle dedicate ai cani<br />
Fig. 4 – I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», 673 (18/08/1963)<br />
di Viviani sono indispensabili». E denunciava<br />
76
contestualmente la mancanza di una foto<br />
del pittore che, poi pubblicata, mostrava le<br />
affinità fisiognomiche tra l’artista e le sue<br />
patetiche creature.<br />
Arte era invece una rubrica curata<br />
da Raffaele Carrieri, collaboratore stabile<br />
del settimanale fin dal primo numero,<br />
poeta e critico d’arte residente a Milano,<br />
città che diviene l’osservatorio esclusivo<br />
da cui individuare gli artisti presentati ai<br />
lettori. I protagonisti delle sue recensioni<br />
sono ritratti in foto quasi segnaletiche,<br />
che contrastano con il tono partecipe del<br />
testo, dove, come un journal, si indugiava<br />
Fig. 5 – Milano ha ricordato Giuseppe Viviani, in «Epoca», 853 (29/01/1967)<br />
su aspetti biografici ed affettivi del personaggio<br />
e dell’autore stesso. Analogamente le immagini delle opere, riprodotte specialmente in occasione di<br />
recensioni di mostre, non sembrano comunicare giudizi estetici, a stento hanno una valenza informativa,<br />
e sono corredate da didascalie sintetiche e spesso imprecise. Questa combinazione di uno scritto impegnativo<br />
e di illustrazioni poco accattivanti induce a credere che la rubrica fosse stata pensata per un target se<br />
non di specialisti quantomeno di appassionati, interessati, lettori che sapevano di poter trovare nella loro<br />
rivista, nelle ultime pagine, articoli in sequenza, oltre a Arte, anche Libri e Teatro.<br />
Viceversa negli articoli che Carrieri redige in occasione di eventi di particolare rilievo, spesso ancora<br />
rubricati sotto il titolo Arte, il testo avanzava nel corpo della rivista, riducendosi al minimo ma arricchendosi<br />
di grandi immagini a colori con didascalie più eloquenti e con un titolo ad effetto, il tutto finalizzato<br />
a raggiungere una più vasta audience. Questo tipo di servizi era inteso come elemento di grande suggestione<br />
sul pubblico che, anche solo scorrendo distrattamente argomenti non di suo interesse precipuo, poteva<br />
venire catturato da illustrazioni importanti, incorniciate da un messaggio succinto ma inequivocabile.<br />
Ne è un esempio l’eloquente articolo Noi paghiamo per queste buffonate con cui Carrieri – che non firma<br />
ma di cui si riconosce la prosa – commenta la XXXII Biennale di Venezia (fig. 1). Tra le fotografie che<br />
analiticamente offrono le opere al severo giudizio del lettore ne campeggiano talune dal taglio studiato:<br />
oltre ad una graziosa signora che «catalogo alla mano cerca di capire qualcosa», uno scatto significativo<br />
ritrae una visitatrice, della quale si vedono solo le gambe, sufficienti, nella loro postura, per indovinare<br />
l’atteggiamento smarrito di fronte al Dono per Apollo di Rauschenberg. La foto, di una singolare potenza<br />
espressiva, riesce bene ad evocare il difficile impatto tra il pubblico borghese italiano, che manifestava in<br />
quegli anni (anche incoraggiato dagli stessi rotocalchi) velleità di collezionismo, e l’arte americana che di lì<br />
a poco avrebbe spostato oltreoceano il baricentro del mercato.<br />
A partire dal 1967, con la nuova rubrica Artisti a domicilio e con altri spazi di argomento analogo,<br />
Carrieri incrementa la propria presenza su «Epoca» sfruttando l’appeal di questa tipologia di servizi per<br />
avvicinare al mondo delle arti una sempre più vasta porzione di pubblico e per imporre una sua visione<br />
critica e una sua “scuderia” di autori. Le immagini infatti propongono diversi prototipi di artista a cui<br />
ciascun italiano, dall’operaio all’avvocato, poteva sentirsi vicino: l’artista era un modello sociale universale,<br />
perché possedeva la manualità che caratterizzava il mestiere delle classi meno abbienti ma anche le qualità<br />
intellettuali dei ceti più elevati. Il critico mostra quindi con ottime foto appositamente realizzate, spesso<br />
77
da Walter Mori con il copyright «Epoca», Giacomo Manzù come un artigiano emancipato in uno studioofficina,<br />
Renato Guttuso in posa da affermato maestro, e il pio Salvatore Messina dedito alle sue committenze<br />
religiose, per sconfessare quanti tra i lettori, per la maggior parte di ala cattolica, avessero potuto<br />
credere che pittori e scultori fossero solo anticonformisti e senzadio. Un raffronto, anche superficiale, tra<br />
le rassegne di Carrieri e la letteratura specialistica coeva o semplicemente, ad esempio, con gli ordinamenti<br />
firmati da Palma Bucarelli negli stessi anni per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, restituisce la varietà<br />
degli orizzonti lungo i quali si scala in questi anni il dialogo tra arte contemporanea e pubblico. Nel 1962,<br />
mentre sulle pagine di «Epoca» si elogiano per due numeri consecutivi le retrospettive della XXXI Biennale<br />
di Venezia, quella di Sironi in particolare, la soprintendente smantella dalle sale di Valle Giulia l’arte degli<br />
anni Trenta, aggiornandosi sulle tendenze attuali e sugli autori stranieri che avevano da tempo rinunciato<br />
al conforto della forma.<br />
Gli sforzi di Carrieri, e della redazione che ne sosteneva le scelte, per desacralizzare in chiave demagogica<br />
l’immagine dell’artista, vacillano però sotto il peso di due fattori: da un lato la progressiva irruzione<br />
di stimoli visivi provenienti da fonti sempre nuove, che nessun rotocalco poteva totalmente ignorare;<br />
dall’altra il divario innegabile, che i lettori stessi reclamavano, tra il pubblico e quella vasta categoria<br />
raggruppata sotto la comune denominazione di “artista”, che fosse attore, scrittore, pittore o scultore,<br />
per ragioni culturali non dissimili a quelle che nel Seicento avevano condotto dei poveri parrocchiani ad<br />
indignarsi di fronte alla Madonna dei Pellegrini di Caravaggio. Negli stessi anni in cui l’Italia inorridiva<br />
alla vista della “dama bianca” che piangeva al funerale di Fausto Coppi, sostituendosi fino all’ultimo alla<br />
consorte legittima Pablo Picasso era il celebrato ottantenne che impalmava donne più giovani fotografato<br />
nel suo studio con la neo-moglie e musa. Un esempio nostrano è quello di Mario Schifano, menzionato<br />
in un articolo di cronaca nera del 1966 come consumatore di marijuana necessaria, per sua ammissione,<br />
«per stimolare la sua ispirazione di artista di avanguardia». Nello stesso testo si fa anche menzione delle<br />
alte quotazioni raggiunte del giovane pittore, che compare ritratto in compagnia delle sue opere per ben<br />
tre volte, in formato ¼ di pagina con un probabile buon ritorno di mercato.<br />
Le fotografie riprodotte nei rotocalchi contribuivano alla consacrazione della “persona” in “personaggio”.<br />
In relazione all’immagine dell’artista, quando questi non poteva essere proposto come rassicurante<br />
modello da imitare, specialmente negli anni a ridosso dei ’70, e diventa un’icona negativa, se ne ammettono<br />
i comportamenti spregiudicati in virtù del suo talento. In questo ultimo aspetto risiedeva l’insanabile<br />
distanza degli artisti dal pubblico, ma anche l’origine della fascinazione che esercitavano, poiché il talento<br />
era una qualità che neppure la volontà e l’impegno, doti che avevano permesso ad un tipografo nullatenente<br />
di diventare Arnoldo Mondadori, potevano garantire all’uomo comune. Il genio è anche sregolatezza, ed<br />
«Epoca», nel 1962, si avvale della stravagante fisionomia di Salvator Dalì per fissare la declinazione “negativa”<br />
di estro, ammonendo i lettori che «non basta distinguersi dagli tutti gli altri in una maniera qualsiasi<br />
per essere originali», in quanto si rischierebbe solo di rendersi ridicoli. E anche la didascalia indirettamente<br />
ammonisce: Salvator Dalì: una vera personalità della pittura ma indubbiamente un eccentrico nella vita. In<br />
questo ambito, ma in accezione opposta, deve intendersi la pubblicazione, nel 1963, dell’opera figurativa<br />
La vendemmia di Gregorio Sciltian per il proposito di ribadire il carattere indefinibile della creatività,<br />
annoverata tra le qualità emotive più che cognitive e per questo innate, anche quando dipinti o sculture<br />
sembravano riprodurre fedelmente la realtà: «Anche la più fedele rappresentazione della realtà, insieme a<br />
doti intellettive non comuni, richiede sempre e prima di tutto la capacità di comunicare emozioni ricevute,<br />
al di là della pura intelligenza».<br />
Il fattore “talento” poteva quindi soccorrere anche i redattori di politica e costume, per sottolineare<br />
78
come esso fosse all’origine di tutte le arti o, di contro, come potesse costituire il plusvalore di personaggi<br />
dediti ad attività imperniate esclusivamente sulle facoltà razionali: frequenti le occorrenze di immagini, da<br />
un lato di cantanti, attori, scrittori e, dall’altro di politici, presentati in qualità di pittori dilettanti.<br />
Una serie di servizi con illustrazioni di grande formato, spesso anche a colori, sono quelli a firma di<br />
collaboratori come Grazia Livi, Lorenzo Bocchi, Guido Gerosa, Giuseppe Grazzini, nelle cui pagine trovano<br />
spazio i grandi nomi della pittura nazionale e internazionale – Braque, Utrillo, ma anche Soffici e<br />
Morandi – che esulano dalle proposte di Carrieri, che comunque nonostante la grande enfasi portata sulle<br />
immagini non possono essere considerate rassegne artistiche ma piuttosto articoli di costume. In virtù di<br />
questo aspetto è paradossalmente concesso loro di spaziare con disinvoltura tra le categorie iconografiche<br />
fino ad ora descritte: la creatività, la follia, la spiritualità sono qualità visivamente espresse dalle riproduzioni<br />
fotografiche, ma in un assetto che appare finalizzato soprattutto a dilettare il lettore. Non possedendo<br />
rubriche a cadenza settimanale, si deve dedurre che la selezione dei pezzi proposti si basasse su criteri di<br />
godibilità e che, in tale contesto, autori dissonanti seppur in linea con l’immaginario proposto, potessero<br />
essere ben tollerati.<br />
Laura D’Angelo<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
Anche per gli artisti si parla di lancio pubblicitario. Crede possibile questo tipo di successo? Che opinione ha dei<br />
critici?, in «Epoca», XI/512 (1960), pp. 6-7.<br />
L. BOCCHI, Picasso alla terza colomba, in «Epoca», XII/546 (1961), pp. 80-85.<br />
R. CARRIERI, Il genio di Sironi risplende nelle sue tele a Venezia, in «Epoca», XIII/614 (1962), pp. 90-91.<br />
Credete nel destino, in «Epoca», XIII/599 (1962), p. 5.<br />
In cosa consiste la personalità?, in «Epoca», XIII/615 (1962), p. 5.<br />
I malinconici amici di Viviani, in «Epoca», XIV/673 (1963), pp. 34-37.<br />
Noi paghiamo per queste buffonate, in «Epoca», XV/718 (1964), pp. 26-29.<br />
Per essere artisti bisogna avere un’intelligenza eccezionale?, in «Epoca», XIV/672 (1963), p. 5.<br />
F. SERRA, Perderà anche il figlio di Coppi?, in «Epoca», XI/502 (1960), pp. 83-85.<br />
Tramonta a Venezia la pittura degli Informal, in «Epoca», XIII/613 (1962), pp. 62-65.<br />
B. VANDANO, Le disavventure della baronessa, in «Epoca», XVII/829 (1966), pp. 70-72.<br />
«L’Espresso». Strategie di moltiplicazione e consumo culturale delle immagini<br />
Le immagini oggetto della ricerca sono rintracciabili nell’apparato iconografico a corredo di un nucleo<br />
ben individuabile di rubriche. In primis la rubrica di critica d’arte, curata da Lionello Venturi sin dagli<br />
esordi de «L’Espresso», affidata poi a Carlo Ludovico Ragghianti, affiancato da Pier Carlo Santini nel<br />
1963, passata alla curatela di Giuliano Briganti nel 1965 fino al 1967; con l’avvio de «L’Espresso colore»,<br />
viene sostituita nel supplemento dalla rubrica I Pittori curata da Briganti e Maurizio Calvesi, con la sezione<br />
Incontri dedicata al ritratto fotografico e testuale di pittori, galleristi, critici e collezionisti, affiancata dal<br />
1968 da quella Le mostre. Stesso rapporto di appartenenza funzionale al testo hanno le immagini riprodotte<br />
nella rubrica d’architettura curata da Bruno Zevi, della quale sono state selezionate immagini pertinenti<br />
al dibattito sull’arte pubblica e alla recensione di esposizioni e allestimenti. Al binomio arte-architettura si<br />
affianca il mercato con la rubrica Il collezionista curata da Fabrizio Dentice, che la firma con lo pseudonimo<br />
di Oberon, nome shakespeariano che sarà condiviso da Agata Benedetti che ne continua la curatela con lo<br />
pseudonimo di Titania dal 1962 al 1967 nella rubrica Gli Antiquari del supplemento.<br />
Al di là di questi luoghi redazionali, le strategie di moltiplicazione sottese alla riproduzione delle<br />
79
Fig. 1 – Illustrazione di Brunetta Mateldi<br />
dedicata all’iniziativa della vendita rateale<br />
di quadri promossa da Ivan Trivulzio, in<br />
«L’Espresso», VII/16 (1961), p. 24<br />
80<br />
immagini possono essere piuttosto isolate nelle sezioni dedicate<br />
alla cronaca mondana, all’attualità e alla politica, dove<br />
l’autonomia dell’immagine contribuisce ad una sua ulteriore<br />
significazione. La comprensione di queste modalità permette di<br />
isolare alcuni nodi tematici e critici quali la diffusione dell’immagine<br />
dell’artista e della sua opera, ma anche di luoghi d’arte<br />
all’interno di un sistema socio-politico ben riconoscibile. Una<br />
moltiplicazione dunque che insiste in una riproduzione situata<br />
ben oltre il corredo iconografico al testo.<br />
Esemplificative di questa prassi sono le illustrazioni di Brunetta<br />
Mateldi a corredo de Il lato debole, rubrica di moda e costume<br />
curata da Camilla Cederna. Nel 1961 l’articolo Quadri a rate,<br />
dedicato all’iniziativa di vendita rateale di quadri promossa da<br />
Ivan Trivulzio, era accompagnato da un’illustrazione che ritraeva<br />
il mercante nell’atto di tagliare una tela di Giuseppe Capogrossi<br />
quasi per poterla vendere in parti separate (fig. 1).<br />
L’anno successivo nella rubrica Il collezionista Dentice proponeva una fotografia ancora di Trivulzio<br />
davanti ad un quadro di Carlo Levi a corredo dell’articolo Venderà Picasso agli operai con riferimento alla<br />
pratica di mercato già oggetto dell’articolo della Cederna e dell’illustrazione di Brunetta.<br />
Nella dialettica che intercorre tra una comunicazione dichiaratamente specialistica e una divulgazione<br />
apparentemente disinvolta, si attesta una tipologia di riproduzione funzionale a quel consumo<br />
culturale delle immagini che il genere editoriale del rotocalco documenta.<br />
Nel settembre 1962 Ragghianti rilasciava un’intervista titolata Il segreto di Mondrian. Ragghianti<br />
spiega l’opera di un caposcuola della pittura moderna in occasione dell’uscita di Mondrian e l’arte del<br />
XX secolo, il saggio vincitore quell’anno del Premio Viareggio per la critica. Accompagnavano l’intervista<br />
la riproduzione di tre immagini tratte dal volume: rispettivamente, Autoritratto (1900) e un<br />
particolare del Nudo alla toilette (1912) in dialogo con lo schema figurativo tracciato da Ragghianti.<br />
In questo caso l’attenzione era certamente dedicata alla presentazione delle qualità specifiche del<br />
volume di un collaboratore, ma «L’Espresso» aveva già pubblicato una fotografia di Ragghianti con la<br />
moglie e Carlo Levi a Viareggio a corredo dell’articolo di Marialivia Serini I premiati. Li ha letti anche<br />
la Loren: in quell’occasione l’autrice non aveva potuto non far riferimento all’opinione di Sofia Loren<br />
in merito: «Quel suo libro m’ha messo subito voglia<br />
di aver un bel Mondrian nel mio soggiorno».<br />
Non potendo mostrare un Mondrian nel soggiorno<br />
della Loren, si documenta la presenza di un<br />
Picasso nell’abitazione di Paul Steffen (fig. 2): anziché<br />
sul sofà dell’analista, come Ragghianti titolerà la<br />
sua recensione a Guernica. Genesis of a Painting di<br />
Rudolf Arnheim, sopra al sofà di Steffen compare<br />
una riproduzione di Guernica.<br />
Fig. 2 – Una riproduzione di Guernica nell’appartamento<br />
del coreografo Paul Steffen a Roma, in «L’Espresso», VI/36<br />
(1960), p. 11<br />
Picasso e Guernica costituiscono casi emblematici<br />
delle declinazioni che la riproduzione assume, capaci<br />
di documentare la circolazione ed appropriazione
dell’immagine del mito dell’artista da un lato e dell’opera-emblema dall’altro.<br />
A trent’anni da Guernica, nel 1967 «L’Espresso colore» dedicava un ampio articolo a firma di<br />
Nello Ajello dal titolo Come fu distrutta una città. Come nacque un capolavoro, con evidente riferimento,<br />
nuovamente, allo studio di Arnheim. Nonostante alcune delle immagini fossero tratte dal<br />
reportage condotto da David Douglas Duncan presso La Californie, già apparso in «Life» nel 1961,<br />
la sintassi compositiva e il montaggio delle immagini erano di natura diversa.<br />
Se in «Life» la figura di Picasso veniva rappresentata con evocazione romantica e toni giocosi attraverso<br />
il divertissement con l’amico Manuel Pallares (Miguel Pallarès, in «Life» e «L’Espresso») qui le<br />
tonalità mitiche della figura di Picasso si muovevano verso una connotazione propriamente politica<br />
che non poteva essere se non quella del dipinto per la Guerra civile spagnola, corredato dagli studi di<br />
donna piangente realizzati proprio durante la “genesi” del dipinto.<br />
Ulteriore prova delle declinazioni e del ruolo strategico che la moltiplicazione assume sono le<br />
immagini riprodotte nell’ambito degli articoli dei corrispondenti esteri.<br />
La fotografia che ritrae Afro nel quartiere di Harlem a New York viene scelta da Mauro Calamandrei<br />
come icona della fortuna dell’arte italiana negli Stati Uniti facendo del pittore l’italiano senza mandolino.<br />
In apertura dell’articolo Calamandrei ricordava l’esordio della fortuna critica delle ricerche italiane<br />
del dopoguerra sancita dalla mostra curata da Alfred Barr e James T. Soby nel 1949 al MoMA<br />
titolata XXth Century Italian Art e la mostra Five Italian Painters presso la galleria di Catherine<br />
Viviano a New York che aveva ospitato, nel gennaio 1950, opere di Afro, Cagli, Guttuso, Morlotti<br />
e Pizzinato. Siamo nel 1962 e proprio quell’anno usciva a firma di Dentice l’inchiesta L’ispirazione<br />
gli affari la moda nell’arte italiana contemporanea; la seconda parte era dedicata a I convertiti della<br />
generazione di mezzo tra i quali lo stesso Afro che, proprio durante il soggiorno americano degli anni<br />
cinquanta, aveva trovato la sua forma, la conversione all’informale, e la sua fortuna. Già nel 1958<br />
«Life» aveva dedicato ai Basaldella un ampio articolo con riferimento all’attività didattica dei due<br />
artisti, rispettivamente presso il Mills College in California e ad Harvard.<br />
Se da un lato la figura dell’artista veniva usata come simbolo del boom economico dell’Italia del<br />
dopoguerra, dall’altro è l’immagine del museo ad essere importata come icona del miracolo americano<br />
e dell’eccezionale collezionismo statunitense che il MoMA e il Guggenheim incarnavano.<br />
Il 22 maggio 1960, sempre a firma di Calamandrei, una pagina veniva dedicata all’asta organizzata<br />
a New York per il trentesimo anniversario della fondazione del MoMA. La settimana<br />
successiva Calamandrei illustrava con una fotografia di una sala del Guggenheim Museum un<br />
articolo dedicato al «Wall Street Journal» che rappresentava la «testimonianza più genuina del capitalismo<br />
illuminato americano» tanto quanto il Guggenheim, aperto al pubblico solo il 21 ottobre<br />
1959, era il simbolo, culturale e politico, del collezionismo americano ma anche per sineddoche<br />
dell’arte contemporanea. La stessa fotografia, seppur ridotta, veniva ripresa nel 1964 nella rubrica<br />
Collezionista a corredo dell’articolo I musei americani si spostano come zingari con riferimento alle<br />
vicende di alcune istituzioni museali americane.<br />
Come foro ed agorà dell’arte contemporanea appariva il Guggenheim nella fotografia di<br />
Michelangelo Durazzo, pubblicata a mezza pagina, a corredo degli appunti di un viaggio della durata<br />
di trenta giorni condotto nel 1963 da Arrigo Benedetti negli Stati Uniti. In queste annotazioni<br />
Benedetti ricordava l’appuntamento a Boston proprio con uno dei fratelli Basaldella, Mirko, al quale<br />
era stata affidata in quegli anni la direzione del Carpenter Center for the Visual Arts costruito da Le<br />
Corbusier a Cambridge. Appuntamento forse per andare insieme a visitare l’Isabella Stewart Gardner<br />
81
Museum a cui si riferisce scrivendo: «Si ha l’impressione di un incontro poco equilibrato tra tradizioni.<br />
Come se dopo una catastrofe che avesse distrutto l’Europa e l’Asia gli americani fossero intenti a<br />
ricostruire un’immagine dei vecchi continenti da cui venne la loro civiltà».<br />
Certamente il riferimento non è al museo newyorkese della fotografia di Durazzo, che avrebbe<br />
piuttosto contribuito alla scossa elettrica subita durante il viaggio statunitense e citata nel titolo<br />
dell’articolo; è pur vero, tuttavia, che il Guggenheim costituiva, anche grazie al progetto di Frank<br />
Lloyd Wright, l’immagine di un tempio-monumento chiamato a raccogliere l’eredità dell’arte europea<br />
e a ricostruire l’immagine del vecchio continente.<br />
Se è possibile parlare di esportazione e importazione di immagini legate a figure e luoghi dell’arte contemporanea<br />
con la conseguente creazione di un repertorio visivo di carattere culturale e politico, dall’altra<br />
parte del Muro, ad Est, è certamente la figura di Renato Guttuso ad essere esportata, esempio di una<br />
possibile conciliazione tra pratica artistica e fedeltà ad un realismo ritenuto necessario.<br />
Nel 1961 Guttuso, in occasione della sua mostra antologica ospitata al Puskin di Mosca e all’Ermitage<br />
di Leningrado, visitava alcuni artisti russi presso il quartiere Masterkaia a Mosca. L’altisonante titolazione<br />
Guttuso dicci i nostri sbagli. Da ogni parte della Russia i pittori sono venuti a Mosca per discutere i suoi quadri<br />
con cui Andrea Barbato presentava come corrispondente il memorabile incontro, anticipato anche in<br />
prima pagina, e la centralità della fotografia che ritrae Guttuso con i pittori Ivan, Sasha e Andrej che<br />
avevano sottoposto i loro quadri al suo giudizio, offrono il peso dell’evento.<br />
Nell’aprile dello stesso anno, Manlio Del Bosco incontrava Ilja Ehrenburg a Roma e illustrava<br />
l’intervista con una fotografia dello scrittore sovietico accanto ad una Natura morta di Guttuso. Un altro<br />
ritratto di Eherenburg, questa volta in una galleria non specificata di Via del Babuino, accompagnava il passo<br />
dedicato ad Isaak Babel, tratto dalla terza parte delle memorie di Eherenburg tradotte da Giovanni Crino.<br />
Nuovamente con la traduzione di Crino veniva pubblicato nel 1962 un estratto dal quarto<br />
volume delle memorie Uomini, anni, vita dedicato a Robert Rafailovič Fa’lk che, insieme a Chagall,<br />
Malevich, Goncharova e Larionov, aveva preso parte alla stagione del Fante di Quadri.<br />
Nell’intervento ad una conferenza all’università di Mosca di pochi mesi prima, posto in apertura<br />
dell’articolo, lo scrittore aveva dichiarato: «Se i nostri giovani vedessero le opere dei pittori sovietici<br />
degli anni venti (i vari Kandinski, Lisitski, Malevi[ch], Tatlin, Rodcenko etc), nascosti nei fondi della<br />
galleria Tretiakov di Mosca, forse non cercherebbero di scoprire l’America». Corredava il brano il<br />
ben noto Ritratto maschile con cravatta rossa di Fa’lk che chiariva, attraverso gli evidenti riferimenti a<br />
Cézanne, a quale tipo di pittura moderna Eherenburg voleva riferirsi.<br />
Fotografie della galleria Tretiakov accompagnavano la quinta parte del racconto di Aleksandr<br />
Solzhenizin, apparso nel 1962 sulla rivista «Novyi Mir» e pubblicato in cinque episodi nel 1963<br />
con la traduzione di Enzo Bettiza, già corrispondente da Mosca per «La Stampa», che collaborava<br />
a «L’Espresso» con lo pseudonimo di Sarmatius. Ma ad essere riprodotte erano le sale della galleria<br />
abitate da operai e contadine in visita, svelando quanto il dibattito tra realismo e astrattismo, che<br />
aveva connotato la polemica figurativa del secondo dopoguerra, fosse ancora attuale.<br />
82<br />
Elena Salza<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
N. AJELLO, Come fu distrutta una città. Come nacque un capolavoro, in «L’Espresso Colore», I/11 (1967), pp. 8-19.<br />
A. BARBATO, Guttuso dicci i nostri sbagli. Da ogni parte della Russia i pittori sono venuti a Mosca per discutere i<br />
suoi quadri, in «L’Espresso», VII/35 (1961), p. 11.
A. BENEDETTI, La scossa elettrica. Trenta giorni negli Stati Uniti, in «L’Espresso», IX/16 (1963), p.15.<br />
M. CALAMANDREI, Gli accademisti dell’astrattismo. I ricchi americani si sono disputati Cézanne per televisione, in<br />
«L’Espresso», VI/21 (1960), p. 10.<br />
M. CALAMANDREI, Cento uomini una firma. Com’è fatto il giornale che ha più successo in America, in<br />
«L’Espresso»,VI/22 (1960), p. 13.<br />
M. CALAMANDREI, L’italiano senza mandolino. Come gli americani ci giudicano dopo due anni di miracolo economico,<br />
in «L’Espresso», VIII/3 (1962), p. 11.<br />
C. CEDERNA, Quadri a rate, in «L’Espresso», VII/16 (1961), p. 24.<br />
F. DENTICE, L’ispirazione gli affari la moda nell’arte italiana contemporanea. I convertiti della generazione di<br />
mezzo, «L’Espresso», VIII/6 (1962), pp. 14-15.<br />
I. EHRENBURG, M. DEL BOSCO, Ai giovani russi non piace la letteratura crudele. Un colloquio con Ilja Ehrenburg<br />
di passaggio a Roma a proposito d’una nostra critica ai suoi giudizi sul Dottor Zivago, in «L’Espresso», VII/17<br />
(1961), p. 13.<br />
I. EHRENBURG, Il gaio silenzio di Babel, in «L’Espresso», VII/41 (1961), p. 17.<br />
I. EHRENBURG, Il Fante di quadri. Ehrenburg nobilita l’opera di un pittore che non piaceva a Stalin, in<br />
«L’Espresso»,VIII/20 (1962), pp. 18-19.<br />
OBERON, Venderà Picasso agli operai, in «L’Espresso», VIII/14 (1962), p. 23.<br />
C.L. RAGGHIANTI, Il segreto di Mondrian. Ragghianti spiega l’opera di un caposcuola della pittura moderna, in<br />
«L’Espresso»,VIII/36 (1962), p. 15.<br />
C.L. RAGGHIANTI, Un libro di Arnheim. Picasso sul sofà dell’analista, in «L’Espresso», VIII/13 (1963), p. 22.<br />
M. SERINI, Mama’s Boy. Perché al coreografo Paul Steffen piace tanto abitare il nostro paese, in «L’Espresso», VI/36<br />
(1960), p. 11.<br />
M. SERINI, I premiati. Li ha letti anche la Loren, in «L’Espresso»,VIII/35 (1962), p. 13.<br />
A. SOLZHENIZIN, Manca un uomo. Quasi un secondo rapporto Kruscev. La giornata di Ivan Denissovic, in<br />
«L’Espresso», IX/2 (1963), pp. 14-15.<br />
Star Brother Act in Art. Two Italian Artists, Afro and Mirko Make Hit Teaching in U.S. Colleges, in «Life»,<br />
XXII/23 (1958), pp. 66-72.<br />
<strong>The</strong> Surprise Picasso. Photographed by David Douglas Duncan, in «Life», XXV/17 (1961), pp. 60-69.<br />
TITANIA, I musei americani si spostano come zingari, in «L’Espresso», X/29 (1964), p. 23.<br />
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Indice<br />
Premessa 3<br />
L. BARROERO<br />
Nota dei curatori 5<br />
R. DOLCE, A. FRONGIA<br />
Gli arredi lignei da Ebla: una questione aperta 6<br />
R. DOLCE<br />
Attività di ricerca della cattedra di Paletnologia nel 2010 9<br />
A. GUIDI<br />
Attività di ricerca degli studenti dell’Università Roma Tre nella necropoli di Fossa (AQ) 11<br />
M. PENNACCHIONI<br />
Verso una storia della conservazione del Patrimonio Culturale in Cina 13<br />
M. MICHELI, ZHAN CHANG FA<br />
Mortalità materna nei rilievi funerari attici: un’ipotesi di lettura 16<br />
A. LATINI<br />
Le tombe rupestri “a tempio” in Etruria e in altre zone del Mediterraneo orientale 19<br />
S. STEINGRAEBER<br />
La “Basilica Argentaria”: alcuni spunti di ricerca 23<br />
M. MEDRI, C. TAFFETANI<br />
A proposito delle Tre Grazie 27<br />
D. MANACORDA<br />
Pompeiopolis di Paflagonia. Un progetto di cooperazione tra la Ludwig-Maximilians-Universität di<br />
Monaco e l’Università Roma Tre 30<br />
L. MUSSO<br />
Osservazioni sulle iscrizioni cristiane di tridentum anteriori al VII secolo 33<br />
D. MAZZOLENI<br />
L’altare di Giovanni VII (706) e l’apertura della Porta Santa nell’antico San Pietro 36<br />
A. BALLARDINI<br />
Dalla Curia Senatus alla chiesa di Sant’Adriano. La riscoperta di un palinsesto architettonico e<br />
pittorico perduto 38<br />
G. BORDI<br />
Anfiteatro Flavio: lo scavo di due ambienti del primo ordine 42<br />
R. SANTANGELI VALENZANI
L’incisione a Roma fra Cinquecento e Seicento. Paesaggio e veduta 45<br />
G. SAPORI, L. TIBERTI<br />
Una famiglia di scultori, fonditori e mercanti di antichità: i Rondoni-Spagna 48<br />
F. RANGONI<br />
Conseguenze di un viaggio di Annibale Carracci nel 1602 53<br />
S. GINZBURG<br />
Pittori e Virtuosi attraverso i disegni di Ottavio Leoni 55<br />
M.C. TERZAGHI<br />
Pittura del Seicento e del Settecento. Ricerche in Umbria: l’antica diocesi di Perugia 59<br />
C. METELLI<br />
Per una storia del mercato dell’arte. Da Roma all’Europa e al Nuovo Mondo, tra la seconda metà<br />
del secolo XVIII e la fine del XIX 62<br />
L. BARROERO<br />
Il dibattito romano sulla riforma dell’insegnamento accademico negli anni Ottanta del XVIII secolo e<br />
Le Accademie d’arte di Nikolaus Pevsner (1940) 65<br />
S. ROLFI<br />
“Il mondo in una stanza”: esempi del collezionismo archeologico di stampo universale<br />
tra il XIX e il XXI secolo 68<br />
G. CALCANI<br />
Europa e America nel modernismo “transatlantico” di Walker Evans, 1928-1934 71<br />
A. FRONGIA<br />
L’arte moltiplicata. La cultura visiva a Roma tra rotocalchi e riviste culturali negli anni 1960-1980 74<br />
L. IAMURRI<br />
«Epoca» 1960-1969: l’immagine dell’artista nell’Italia del miracolo economico 75<br />
L. D’ANGELO<br />
«L’Espresso»: strategie di moltiplicazione e consumo culturale delle immagini 79<br />
E. SALZA
Finito di stampare nel mese di novembre 2012<br />
presso 3emmegrafica snc - Firenze<br />
per conto di LIBRO CO. ITALIA