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bob mould john cale house is the temptation - Sentireascoltare

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BoB <strong>mould</strong><br />

John Cale<br />

<strong>house</strong> Is<br />

The TempTaTIon<br />

digital magazine | dicembre 2012 | n. 98<br />

a<br />

Sco<br />

l k e r<br />

tt


turn on – p. 4<br />

Mimes Of Wine<br />

Ronin<br />

The Soft Moon<br />

Yousef<br />

recensioni – p. 44<br />

tune in – p. 12<br />

John Cale<br />

gimme some inches – p. 100<br />

classic album – p. 116<br />

drop out – p. 16<br />

Scott Walker<br />

House Is The Temptation<br />

Santo Barbaro<br />

rearview mirror – p. 102<br />

Bob Mould<br />

sentireascoltare<br />

#98<br />

dicembre<br />

Direttore<br />

Edoardo Bridda<br />

Direttore Responsabile<br />

Antonello Comunale<br />

Ufficio Stampa<br />

Alberto Lepri, Teresa Greco<br />

Coordinamento<br />

Gaspare Caliri<br />

Progetto Grafico<br />

Nicolas Campagnari<br />

Redazione<br />

Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda,<br />

Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion,<br />

Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia,<br />

Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco<br />

Staff<br />

Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia,<br />

Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante,<br />

Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere,<br />

Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo,<br />

Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri<br />

Copertina<br />

Scott Walker (foto © Jamie Hawkesworth)<br />

Guida spirituale<br />

Adriano Trauber (1966-2004)<br />

SentireAscoltare<br />

online music magazine<br />

Reg<strong>is</strong>trazione Trib.BO N° 7590<br />

del 28/10/05<br />

Editore: Edoardo Bridda<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

Copyright © 2012 Edoardo Bridda.<br />

Tutti i diritti r<strong>is</strong>ervati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con<br />

qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Canzoni che diventano memorie. La Spoon River dei Mimes Of Wine, forte di un<br />

romantic<strong>is</strong>mo in parte lunare e sin<strong>is</strong>tro, in parte solare ed aspro.<br />

MiMes Of Wine Giro di Vite<br />

La musica ha la capacità di prendersi il proprio spazio,<br />

di sottolineare un attimo, di farsi firma per un evento,<br />

un pensiero, finanche per un’opinione. La buona musica<br />

può addirittura trascendere e farsi memoria. Come<br />

Haruki Murakami che cita i Beatles in Tokyo Blues e le<br />

diverse Penny Lane, Julia, Nowhere Man più che siglare<br />

semplicemente uno stacco, un passaggio, un dialogo, si<br />

fanno sostanza stessa del libro. Canzoni che diventano<br />

memorie. Quelle di Memories For The Unseen hanno lo<br />

stesso spirito confidenziale, r<strong>is</strong>ervato, intimo del sussurro<br />

notturno degli amanti, delle lettere sporche dal fronte, di<br />

una carezza inaspettata. E’ il Giro di Vite secondo i Mimes<br />

Of Wine, la loro Spoon River, forte di un romantic<strong>is</strong>mo in<br />

alcune parti lunare e sin<strong>is</strong>tro, in altre solare ed aspro. In<br />

definitiva uno spirito molto “rock”, come dovrebbe essere<br />

il rock nel 2012: tagliente, colto, pieno di una passionalità<br />

che si è persa da tempo.<br />

Come fosse una medium che parla per i suoi fantasmi,<br />

Laura Loriga si incarica di trasmettere ai posteri le opinioni<br />

degli inv<strong>is</strong>ibili: «l’ album raccoglie le storie di dodici<br />

voci che ritornano per parlare a qualcuno di importante,<br />

per riaprire un momento del passato, legate da un’idea<br />

piuttosto variegata di ritorno. A volte è l’immagine di un<br />

ricordo ad essere descritta, a volte le immagini vengono<br />

inventate per dare concretezza a quello che viene detto e<br />

chiesto. In tutti i brani, chi parla tramite la mia voce, lo fa<br />

sempre dal retro della scena (per tre volte sono personaggi<br />

vivi solo nei libri), ma si tratta sempre di una presenza<br />

centrale, che guarda da molto tempo ciò di cui è parte silenziosa,<br />

mossa da un desiderio di essere infine, v<strong>is</strong>ta. Si<br />

tratta di dialoghi tra fantasmi veri, di battaglie, preghiere,<br />

scherzi e amori, dietro ai quali a volte mi nascondo anche<br />

io stessa.» Memories For The Unseen, secondo d<strong>is</strong>co<br />

firmato Mimes Of Wine ha il carattere intimo del diario<br />

personale, enfatizzando sotto questo aspetto l’intim<strong>is</strong>mo<br />

pian<strong>is</strong>tico di Apocalypse Sets In.<br />

Eppure, se il merito di Laura Loriga fosse stato solo quello<br />

di buttar giù un abile secondo capitolo, non avremmo<br />

avuto una collezione di canzoni così coesa e dinamica,<br />

marchiata da quell’umore agrodolce che è ormai un trademark.<br />

Sottolineato da un parterre strumentale assai<br />

più ricco, Memories For The Unseen è la testimonianza<br />

di una music<strong>is</strong>ta che si conqu<strong>is</strong>ta il proprio spazio e<br />

diventa cosciente delle proprie capacità: «L’approccio in<br />

sé è rimasto lo stesso, ma crescendo e cambiando i miei<br />

ascolti e le esperienze fatte nei due anni che mi separano<br />

dal primo d<strong>is</strong>co, i r<strong>is</strong>ultati si sono sicuramente a loro volta<br />

trasformati. Ho semplificato i brani per concentrarmi di<br />

più sullo sviluppare idee definite, e il concetto che li un<strong>is</strong>ce<br />

mi ha guidato nel dare ad ognuno di essi il suo posto e il<br />

suo colore». In questo senso, più di una mano arriva dai<br />

music<strong>is</strong>ti che gravitano attorno alla sigla Mimes Of Wine<br />

fin dall’inizio e dal rodaggio dal vivo: «In realtà i live del<br />

d<strong>is</strong>co scorso sono stati fatti con music<strong>is</strong>ti diversi e molte<br />

variazioni di formazione. Questa volta la band che ha reg<strong>is</strong>trato<br />

sarà anche quella al mio fianco sul palco. Tutti i suoi<br />

componenti hanno influito molt<strong>is</strong>simo sugli arrangiamenti<br />

e il suono finale dell’album: Stefano Michelotti, Luca Guglielmino,<br />

Matteo Zucconi, Riccardo Fr<strong>is</strong>ari, Helen Belangie.<br />

Altre due persone, il cui contributo è stato fondamentale,<br />

sono Adam Moseley (con cui ho lavorato sul mix e il master<br />

a Los Angeles) e Enzo Cimino. Quest’ultimo si è preso cura<br />

delle reg<strong>is</strong>trazioni e ha colto in pieno le idee che avevamo<br />

in mente per il r<strong>is</strong>ultato finale».<br />

La vicenda si fa poi del tutto personale. Laura ha ormai<br />

una capacità di scrittura autonoma, individuale. Le canzoni<br />

dei Mimes Of Wine hanno un respiro e uno sviluppo<br />

sufficientemente caratter<strong>is</strong>tici per svincolarsi, di volta in<br />

volta, dai variegati riferimenti della stampa. Paragoni che<br />

vanno dai più ovvi come Tori Amos, L<strong>is</strong>a Germano e PJ<br />

Harvey a quelli più strambi come Dead Can Dance e<br />

Diamanda Galas. Interrogata sulle possibili assonanze<br />

della propria musica, Laura non si fa pregare: «E’ buffo<br />

perchè quasi mai chi fa confronti cita le cose che ascolto di<br />

più, ma è anche interessante e un buon segno, perchè altrimenti<br />

vorrebbe dire che sono una seria vittima di che quello<br />

a cui accenni, il problema di creare cose simili a quello che<br />

si sente. Quando capita di sentire l’eco di qualcosa, credo<br />

che stia a noi decidere se crediamo di poterlo fare nostro o<br />

se è meglio lasciar perdere. Mi piace molto L<strong>is</strong>a Germano<br />

e il suo modo di scrivere sincero e forte, come mi piacciono<br />

la maggior parte degli art<strong>is</strong>ti prodotti da Michael Gira e<br />

Young God Records. Non ascolto Tori Amos da molt<strong>is</strong>simi<br />

anni perciò non so dire ora se mi si sia vicina o meno, ma<br />

rimane sicuramente un complimento».<br />

I Mimes Of Wine, complice anche il tour con i Giardini di<br />

Mirò, sono destinati a marchiare a fuoco questo strano<br />

autunno 2012, che non sa decidersi se diluire i postumi<br />

di un’estate torrida o flirtare timoroso con il minaccioso<br />

inverno all’orizzonte<br />

Antonello ComunAle<br />

4 5


La scusa è l’anteprima del nuovo video dei Ronin “Fenice”. Ottima occasione per<br />

parlare con Bruno Dorella dell’ultimo periodo della band, ma anche degli innumerevoli<br />

progetti collaterali<br />

ROnin Narrare senza parole<br />

La scelta di fare un video per la title track di un album<br />

dal titolo così pieno di significati non può essere<br />

casuale. In più l’idea alla base del girato di Fenice,<br />

pur essendo semplice, è anche piuttosto evocativa<br />

e adatta alla musica. Ti va di raccontarci il dietro le<br />

quinte?<br />

Il primo video tratto da Fenice è stato Selce, girato da<br />

una donna (Fatima Bianchi) che fa parte del mondo della<br />

videoart. In mezzo c’è stato il gustoso dono di Angelo<br />

Puzzutiello per Gentlemen Only, una sorta di Romanzo<br />

Criminale in chiave Roma Underground che ho gradito<br />

molto. Si trattava però di un pezzo ironico, il “divert<strong>is</strong>sement”<br />

del d<strong>is</strong>co. Tornando ai pezzi di matrice “epica<br />

Ronin”, Fenice è stato affidato di nuovo ad una donna<br />

(Natalia Saurin), anch’essa riconducibile al mondo della<br />

videoart. Questa duplice caratter<strong>is</strong>tica (donna + videoarte)<br />

dà ai video dei Ronin una chiave di lettura veramente<br />

unica. Lungi dall’essere melensa, lontana anni luce<br />

dall’esigenza di “ritmo” e appeal del videoclip. Ecco, se<br />

qualcuno volesse capire la differenza tra videoclip e videoart<br />

applicata alla musica, potrebbe guardarsi i video di<br />

Selce o Fenice, e poi guardare un qualsiasi altro videoclip.<br />

Per quanto riguarda il canovaccio di partenza, abbiamo<br />

dato a Natalia piena libertà, anche perché la mia v<strong>is</strong>ione<br />

estetica dell’epica dei Ronin (l’eroe sconfitto, eccetera) è<br />

piuttosto maschia e invece volevo lasciare emergere la<br />

personalità della reg<strong>is</strong>ta.<br />

Narrare senza parole rende impegnativo decrittare il<br />

significato del video: ci si legge inquietudine, solitudine,<br />

aspettative d<strong>is</strong>illuse, rimasugli del passato, su<br />

cui aleggia la costante presenza della morte. Gli archi<br />

di Manzan sul finale, insieme agli stormi di uccelli in<br />

volo libero, arricch<strong>is</strong>cono le suggestioni musicali, ma<br />

c’è sempre un forte senso di malinconia..<br />

E’ quello che volevo: la v<strong>is</strong>ione dell’epica Ronin virata al<br />

femminile. L’intro è di un’angoscia quasi insostenibile,<br />

perché non ne capiamo il motivo. Quando poi ho letto<br />

che Natalia voleva girare delle immagini in un Luna<br />

Park, ho subito capito che ne avrebbe colto l’aspetto<br />

decadente. Questo vale anche per me: mettetemi a una<br />

festa e vedrete la versione più solitaria e malinconica di<br />

Bruno Dorella. La sensazione di <strong>is</strong>olamento in situazioni<br />

di euforia collettiva mi appartiene in pieno. Infine, il volo<br />

finale abbinato agli archi di Nicola Manzan è di grande<br />

forza evocativa e il nesso narrativo con la pesca dei cigni<br />

di plastica al Luna Park è geniale.<br />

A quasi un anno dall’uscita dall’omonimo CD da cui<br />

il brano è tratto, quale credi sia il pregio maggiore<br />

dell’ultima produzione targata Ronin?<br />

La reg<strong>is</strong>trazione casalinga, il sapore sanguigno dei pezzi<br />

che ricade anche sul suono, l’urgenza espressiva che<br />

è stata colta da critica e pubblico. Abbiamo voluto far<br />

passare il messaggio che si trattava di un d<strong>is</strong>co “vero” e<br />

sentito. Non che gli altri non lo fossero, ma la produzione<br />

patinata forse prevaricava il sentimento. Non so. Ma<br />

sono contento invece che su Fenice la gente abbia colto<br />

il messaggio.<br />

Com’è portare un d<strong>is</strong>co così “difficile” - dal punto di<br />

v<strong>is</strong>ta dell’impegno con cui l’hai scritto e reg<strong>is</strong>trato e<br />

del significato che ha per l’intera esperienza Ronin -<br />

in tour? Avete fatto un bel numero di date...<br />

Non so se fosse più o meno difficile degli altri. C’erano<br />

due brani che, a causa dei contributi esterni di grande<br />

spessore (la voce di Emma Tricca in It Was a Very Good<br />

Year ed i fiati di Enrico Gabrielli in Conjure Man) non<br />

potevano essere riproposti live. Ma questo è successo<br />

per ogni d<strong>is</strong>co. Mi tengo sempre un paio di brani che<br />

esulano dal set chitarre-basso-batteria, ben sapendo<br />

che poi, probabilmente, non potrò riproporli dal vivo.<br />

Suonare il d<strong>is</strong>co ogni sera ci ha permesso di migliorare<br />

e cementare l’unione anche col nuovo batter<strong>is</strong>ta Paolo<br />

Mongardi. La prima sera del tour, a Torino, mi ricordo che<br />

ero emozionat<strong>is</strong>simo.<br />

Abbiamo saputo dell’uscita di Chet dalla formazione.<br />

Il commiato dev’essere stato tra lo struggente e<br />

il cazzone, da quanto si è letto sulla vostra pagina<br />

facebook. Nel frattempo è arrivato Diego Pasini.<br />

Cambierà qualcosa nello stile del gruppo?<br />

Nel Luglio 2011, quando stavo per sciogliere il gruppo,<br />

Chet e Nicola vennero a Ravenna e mi convinsero a ripensarci.<br />

Da lì nacque Fenice. Ho dec<strong>is</strong>o di ritrovarci ogni<br />

anno a Luglio, per fare un bilancio dell’annata e capire<br />

chi c’è e chi non c’è. I Ronin non devono essere un cappio<br />

per nessuno. Chet ha dec<strong>is</strong>o che aveva dato e ricevuto<br />

dal gruppo quello che c’era da dare e ricevere. Siamo<br />

amici come prima e così dovrebbe essere sempre, se i<br />

rapporti sono limpidi e corretti. Gli auguro ogni bene<br />

coi Quasiviri. Diego è appena arrivato, abbiamo fatto un<br />

paio di reg<strong>is</strong>trazioni e un solo concerto. E’ giovane e ha<br />

una gran voglia di suonare. Ha portato nel gruppo una<br />

bella energia e una sana dose di tensione propedeutica.<br />

Ovo, Ronin, Bachi da Pietra sono i progetti che ti vedono<br />

impegnato attualmente. Cosa ti piace di ognu-<br />

no di essi e come cambia il tuo approccio - in termini<br />

strettamente musicali ma anche di attitudine - passando<br />

da una formazione all’altra?<br />

Cambia tutto in ogni gruppo: genere, strumento, attitudine.<br />

Negli OvO suono la batteria, il genere è in qualche<br />

modo riconducibile al no<strong>is</strong>e-rock, io e Stefania Pedretti<br />

ci dividiamo equamente le responsabilità compositive<br />

e organizzative. Nei Ronin suono la chitarra, scrivo io i<br />

pezzi e dirigo il gruppo e il genere è strumentale/cinematografico.<br />

Nei Bachi da pietra scrive e dirige Giovanni<br />

Succi, io suono la batteria in un ruolo di gregario d’oro<br />

che mi piace molto e il genere è più o meno affine alla<br />

canzone. Come vedi è tutto molto diverso, non corro il<br />

r<strong>is</strong>chio di m<strong>is</strong>chiare troppo o confondermi....<br />

Ultimamente il tuo alter ego nei Bachi da Pietra, Giovanni<br />

Succi, ha lavorato sul progetto La Morte con<br />

Rico di Uochi Toki. Come lo giudichi? Che ti pare del<br />

suo impegno nell’ambito dei reading inaugurato con<br />

Il Conte di Kevenhüller?<br />

A me sembra straordinario. In questo momento sono<br />

davvero pochi in Italia a scrivere e leggere con la sua<br />

intensità, nel mondo della musica. Il Conte di Kevenhüller<br />

mi ha coinvolto oltre ogni aspettativa, tanto che ora<br />

sto seguendo il blog (caproni.org) come se fosse un’avvincente<br />

serie TV. Ho v<strong>is</strong>to La Morte Dal Vivo al suo esordio,<br />

pochi giorni fa, e ne sono entusiasta, sono riusciti ad<br />

inventarsi un modo convincente di affrontare la lettura<br />

in musica, ed hanno margini di miglioramento tali che<br />

non mi stupirei se diventassero un “caso” nazionale. Se<br />

poi aggiungi che Rico Uochi Toki è anche il fonico degli<br />

OvO dal vivo, ecco che le mie sorti sono legate a doppio<br />

filo a La Morte. Ma non pensare che il mio giudizio su di<br />

essa sia ammorbidito da ciò, anzi... Sono severo censore<br />

di Rico e Giovanni, e loro lo sono per me. Ci diciamo<br />

sempre cosa ci piace e cosa no di quello che facciamo, è<br />

il modo migliore di aiutarsi a vicenda.<br />

Domanda inevitabile e certamente fuori tema, considerato<br />

l’argomento principale di questa interv<strong>is</strong>ta:<br />

puoi darci qualche anticipazione sul nuovo d<strong>is</strong>co dei<br />

Bachi da Pietra in uscita a Gennaio 2013?<br />

Sarà un d<strong>is</strong>co hard rock. Non scherzo.<br />

FAbrizio zAmpighi, SteFAno piFFeri<br />

6 7


Arriva Halloween e puntualmente torna The Soft Moon, questa volta con il secondo<br />

LP, Zeros. Nell’interv<strong>is</strong>ta esclusiva ci racconta l’evoluzione del progetto e del processo<br />

creativo, la collaborazione con John Foxx ed i retroscena dello scorso tour in Italia...<br />

The sOfT MOOn<br />

Adult, focused darkness<br />

The Soft Moon è nato come progetto estremamente<br />

introspettivo. A livello di reg<strong>is</strong>trazione, hai fatto nuovamente<br />

più o meno tutto per conto tuo anche per<br />

il nuovo album, Zeros? O questa volta hai preferito<br />

spostarti dalla tua “cameretta” allo studio?<br />

Ho scelto di scrivere anche il grosso di Zeros per conto<br />

mio e a porte chiuse, eppure questa volta ho finito per<br />

portare tutto il materiale che avevo reg<strong>is</strong>trato e prodotto<br />

(a metà) in uno studio professionale per espanderlo<br />

ulteriormente. The Soft Moon resta un progetto intro-<br />

spettivo e sempre lo sarà, in quanto le mie intenzioni<br />

sono tuttora quelle di guardarmi dentro per ragioni terapeutiche,<br />

così come di esprimere la mia creatività e le<br />

mie sensazioni.<br />

Che diresti della tua nuova musica? Dalle due canzoni<br />

di lancio, Die Life e Insides, mi è parso che dal punto<br />

di v<strong>is</strong>ta sonico tu abbia voluto prenderti un altro<br />

d<strong>is</strong>co per portare ancora avanti il tuo d<strong>is</strong>corso. Ma<br />

qualcosa è cambiato in termini di mood o punto di<br />

v<strong>is</strong>ta magari?<br />

Credo la differenza principale sia che Zeros tratta di prospettive<br />

della vita attraverso gli occhi e le orecchie del<br />

me stesso adulto, mentre invece il primo d<strong>is</strong>co puntava<br />

alla r<strong>is</strong>coperta dell’infanzia che mi sembrava di avere rimosso,<br />

oscurato. Approcciarmi a Zeros come adulto mi<br />

ha portato ad essere molto più focalizzato e prec<strong>is</strong>o. Ho<br />

sentito di avere molto più controllo che in precedenza<br />

nello sviluppo di questo d<strong>is</strong>co ed allo stesso tempo di<br />

poter continuare a lasciare che le cose semplicemente<br />

ven<strong>is</strong>sero da sè.<br />

Hai collaborato con l’ex-cantante degli Ultravox John<br />

Foxx e la sua band, <strong>the</strong> Maths, per il 7” Evidence che è<br />

uscito sempre per Captured Tracks lo scorso giugno.<br />

Come sei finito a lavorare con lui? Come è stato? Che<br />

hai ricevuto da questa collab in termini di esperienza/trucchi<br />

del mestiere?<br />

John Foxx mi ha contattato un paio d’anni fa proponendomi<br />

una possibile collaborazione. Tutt’oggi non so bene<br />

come avesse scoperto The Soft Moon. In ogni caso, poco<br />

dopo che mi contattò, io e la band avevamo uno show<br />

f<strong>is</strong>sato a Londra, così lo m<strong>is</strong>i in l<strong>is</strong>ta per d<strong>is</strong>cuterne nel<br />

backstage. Pochi mesi dopo il nostro incontro mi mandò<br />

qualcosa su cui lavorare: una sequenza interessant<strong>is</strong>sima<br />

che aveva creato usando uno dei miei sintetizzatori<br />

preferiti, l’Arp Odyssey. Dal canto mio, avendo amato alla<br />

follia il suo primo album, ho dec<strong>is</strong>o di spingere in quella<br />

direzione, sperando di echeggiare un qualche tipo di nostalgia<br />

per entrambi e allo stesso tempo di creare qualcosa<br />

di fresco. Dopo una serie di back and forth di r<strong>is</strong>pettive<br />

idée siamo alla fine arrivati ad aver per le mani un pezzo<br />

incredibile. Ciò che ho guadagnato da questa esperienza<br />

è stata la realizzazione di non essere poi davvero il lupo<br />

solitario che pensavo e quindi effettivamente di poter<br />

lavorar bene con altre persone.<br />

Ho notato che il nuovo album uscirà il giorno prima di<br />

Halloween, esattamente come fu per l’EP dello scorso<br />

anno, Total Decay. Questo non è altrettanto valido per<br />

il tuo s/t del 2010 ma immagino possa magari essere<br />

perchè all’epoca non avevi lo stesso controllo del tuo<br />

progetto che puoi vantare ora. Per cui ti chiedo: è una<br />

sorta di via figurata che ti sei scelto per incanalare e<br />

rilasciare le atmosfere tetre, l’oscurità e le paure che<br />

stanno in piedi con la tua musica dove popolarmente<br />

appergono?<br />

Total Decay doveva in realtà uscire esattamente per<br />

Halloween. Per qualche ragione non ho preso l’EP tanto<br />

seriamente quanto i full-lenght ed è per questo che<br />

mi è stato bene ven<strong>is</strong>se rilasciato in corr<strong>is</strong>pondenza di<br />

tale festività, mentre in un’altra situazione tale mossa<br />

mi avrebbe fatto sentire piuttosto “fasullo”. In ogni caso<br />

per quella release il timing era corretto e mi sembrò una<br />

buona idea. Il fatto che Zeros esca in data similare è una<br />

coincidenza. La scelta riguarda piuttosto il lanciarlo in<br />

autunno, in quanto sento le sue sonorità come particolarmente<br />

adatte per questa stagione. Ma hai ragione:<br />

ironicamente [quella delle uscite sotto Halloween] potrebbe<br />

diventare una vera e propria tradizione per The<br />

Soft Moon.<br />

Parlando di touring, dobbiamo onestamente ammettere<br />

che il tuo concerto dello scorso anno a Bologna<br />

fu ben lungi dall’essere pubblicizzato a dovere. È andato<br />

così male in termini di r<strong>is</strong>posta del pubblico da<br />

averti convinto a saltare a piedi pari l’Italia nella tua<br />

prossima tour-leg europea? O hai in programma di<br />

tornare comunque presto a farci v<strong>is</strong>ita?<br />

A dir la verità, quella data mi piacque molto e anzi finì<br />

per diventare uno dei miei personali highlight di quel<br />

tour. L’affluenza è stata persino migliore di quanto mi<br />

aspettassi, considerando che prima di allora non avevo<br />

mai sentito parlare di Bologna. Inoltre, nonostante sia<br />

vero che i sold-out si fecero a Milano e Roma, fu effettivamente<br />

in occasione di quella performance che ho<br />

percepito la connessione più forte col pubblico. Sarò di<br />

ritorno in Italia a Marzo 2013!<br />

mASSimo rAnCAti,<br />

8 9


L’interv<strong>is</strong>ta esclusiva al leader di uno dei club più importanti al mondo, il Circus di<br />

Liverpool. Arrivato al suo secondo album, Yousef vuol andare oltre la consolle.<br />

YOusef<br />

The Importance Of Being (more than) a DJ<br />

Ha compiuto a Settembre 10 anni di gloriosa attività, il<br />

Circus Club di Liverpool, e non vogliamo immaginare<br />

cosa devono essere stati i festeggiamenti con dietro la<br />

consolle Sasha, Seth Troxler, Maceo Plex, David Squillace<br />

e Lew<strong>is</strong> Boardman. Ovviamente c’era anche lui,<br />

Yousef, il fondatore del club, il responsabile del prestigio<br />

degli eventi Circus, che negli anni passati hanno ospitato<br />

nomi come Laurent Garnier, Luciano, Richie Hawtin,<br />

Ricardo Villalobos, Sven Vath, Carl Cox e avviato le<br />

carriere DJ degli allora giovan<strong>is</strong>simi Jamie Jones, Seth<br />

Troxler e Loco Dice. Era dietro alla consolle, preso come<br />

sempre a offrire al pubblico il più elettrizzante evento<br />

<strong>house</strong> di cui è capace, ma alemo una volta la sua mente<br />

sarà andata al suo nuovo album A Product Of Your<br />

Environment, al suo sottile smarcamento dalla dimensione<br />

club e alle recenti, nuove ambizioni di producer.<br />

Una differenza che si nota, se rapportata al primo A Collection<br />

Of Scars And Situations. Se quello era l’album<br />

fatto per il suo pubblico, che raccoglieva pezzi già noti<br />

ai frequentatori del club, il nuovo album ha voglia di<br />

offrire anche una differente prospettiva d’ascolto. Accanto<br />

a hit da dancefloor come Think Twice o In Fear Of<br />

Dusk, che restano comunque il marchio di fedeltà del<br />

producer britannico, compaiono anche pezzi più lenti<br />

e densi di suggestioni esotiche come What Is Revolution<br />

o una prova di coraggio dall’ambizione pop come I<br />

See, arricchita dalla sezione cantata di Chari Taft. Anche<br />

Yousef, insomma, vuole un orizzonte più ampio del solo<br />

ambiente club, ambizione che prima o poi coinvolge<br />

tutti i DJ dotati di capacità di producing.<br />

L’obiettivo, come dice lui stesso, è invogliare la gente<br />

ad ascoltare ed apprezzare l’album anche in cuffia, una<br />

mossa importante anche quando non riesce alla perfezione,<br />

volta ad evolvere un rapporto consolidato DJpubblico<br />

oltre la p<strong>is</strong>ta e trasformarlo in un legame più<br />

profondo e affezionato. È per questo che Yousef appare<br />

così entusiasta nell’interv<strong>is</strong>ta che segue: sta scoprendo<br />

di essere qualcosa in più che solo un DJ, e vedere che<br />

sono in molti ad accorgersene significa che sta andando<br />

nella giusta direzione.<br />

Ciao Yousef,parlaci dello spirito di A Product Of Your<br />

Environment e di come si differenzi r<strong>is</strong>petto all’album<br />

precedente.<br />

Il nuovo album era pensato come produzione in studio<br />

fin dall’inizio, mentre l’altro alla fine era una serie di tracce<br />

precedenti messe insieme. A Product Of Your Evnironment<br />

vuole raccontare una storia, essere ascoltato<br />

dall’inizio alla fine. Ha molti momenti club ma è più che<br />

una serie di tracce da dancefloor, ho voluto mettermi<br />

alla prova lato <strong>house</strong> e techno, coinvolgendo anche elementi<br />

live.<br />

Possiamo dire che il nuovo album ha un maggiore<br />

appeal d’ascolto? Penso a tracce come What Is Revolution<br />

o I See...<br />

Sì, l’idea era quella, farmi conoscere anche come producer<br />

e art<strong>is</strong>ta, non solo come DJ. Sono sempre un DJ prima<br />

di tutto, ma so bene che tanti album fatti dai DJ si fin<strong>is</strong>ce<br />

per non ascoltarli mai fino alla fine. Mi sono sforzato di<br />

fare un lavoro che vale il tempo speso dall’ascoltatore,<br />

e poi magari dopo l’ascolto il DJ può tirar fuori le tracce<br />

più forti per il club. Il progetto è in equilibrio tra l’ascolto<br />

in casa o in macchina e i momenti in p<strong>is</strong>ta. Pezzi come<br />

Feel The Same Thing, For The Terraces, In Fear Of Dusk son<br />

già finite nei set di Marco Carola, Loco Dice, Carl Cox,<br />

Magda, Nic Fanciulli e altri.<br />

Cosa si aspetta la gente da un album del leader del<br />

Circus? Ti senti forzato a far musica che rifletta le notti<br />

nel club, o sei libero di provare quello che vuoi?<br />

Al Circus c’è sempre <strong>house</strong> e techno di qualità, chiamiamo<br />

i migliori DJ ma li incoraggiamo anche a prendere<br />

iniziativa e mettere nuova musica. Come DJ e come capo<br />

del Circus ovviamente voglio sempre spaccare nel dancefloor,<br />

ma stavolta ho voluto spingermi oltre. Molti dei<br />

pezzi dell’album sono già degli inni al Circus, intendiamoci,<br />

ma l’album è pensato come qualcosa in più della<br />

semplice dimensione club, ho voluto una maggiore<br />

libertà.<br />

In quest’album ho sentito suoni meno urbani. Qualcosa<br />

di più jazzy, esotico, come serate estive ballando<br />

in spiaggia. È il tuo modo di evadere?<br />

Grazie. Ascolto ogni tipo di musica e ho viaggato molto<br />

quindi sono aperto a ogni influenza. Mi piace pensare<br />

che la musica porti l’ascoltatore alla deriva e lo spinga<br />

ad ascoltare le melodie e i testi (che scrivo anch’io da<br />

me). Ogni traccia è una storia che ho voluto raccontare.<br />

Quest’album mette in mostra tutte le potenzialità<br />

della <strong>house</strong>: la melodia, l’immaginazione, il movimento,<br />

l’orientamento pop, il clubbing... es<strong>is</strong>te uno<br />

stile più flessibile di questo?<br />

Grazie di nuovo, son contento che tu abbia compreso<br />

cosa ho tentato di fare. È stato un progetto molto personale,<br />

per me. I pezzi sono mixati in modo da suonare<br />

gentili all’orecchio e forti nel club. Concordo, la <strong>house</strong> è<br />

molto flessibile. Dicono che la <strong>house</strong> è musica di sensazione<br />

e se sono riuscito a infondere sensazioni alla gente,<br />

allora posso ritenermi sodd<strong>is</strong>fatto.<br />

Il tuo club ha celebrato da poco dieci anni di attività.<br />

Com’è stata la festa?<br />

Sì, è stato un viaggio folle. Dagli inizi umili al diventare<br />

club UK dell’anno a ospitare il 500esimo Essential mix<br />

party di BBC Radio. Ormai abbiamo chiamato chiunque,<br />

Hawtin, Cox, Villalobos, Carola, offerto a DJ come<br />

Loco Dice e David Squillace i loro primi concerti in UK,<br />

ospitato gente sconosciuta come Seth Troxler e Jamie<br />

Jones nei loro primi set di r<strong>is</strong>caldamento tanti anni fa.<br />

Cerchiamo sempre di fare il party più divertente possibile.<br />

Il sabato del nostro decimo compleanno è stato incredibile,<br />

Seth, Sasha, Davide, Maceo Plex e ovviamente<br />

anch’io. È bell<strong>is</strong>simo aver raggiunto dieci anni.<br />

Quali sono i tuoi producer preferiti al momento?<br />

Ci son molti stili che apprezzo, Maceo Plex, Davide<br />

Squillace, Nicole Mouderber, Just Be, Tom Flynn,<br />

Lew<strong>is</strong> Boardman, Dj Sneak, Hot Since 82, Butch, etichette<br />

come Cadenza, Desolat, Intec, Ellum Audio e Cecille.<br />

Chiunque produca un buon sound, la cui music sia<br />

interessante, abbia sentimento, spacchi in p<strong>is</strong>ta e sia più<br />

originale possibile.<br />

Prossimi obiettivi?<br />

Sto già lavorando ad alcune tracce per clubbing. Più<br />

tagliate del mio album, studiate per far ballare e stare<br />

bene. Ne ho già pronte 5, le farò uscire dopo l’album.<br />

Continuo a organizzare eventi Circus a Liverpool, Londra<br />

e New York e penso ancora di allargare il raggio d’azione<br />

(forse Italia?). L’etichetta Circus è presa a bloccare nuovi<br />

talenti. Sono sempre al lavoro e in viaggio. Ora comincia<br />

anche il tour dell’album, America, Sud America, Asia,<br />

Australia e un’infinità di concerti in Europa.<br />

Il DJing è la mia passione, e così anche far musica.<br />

CArlo AFFAtigAto<br />

10 11


John Cale<br />

Le shifty adventures di un giovane settantenne<br />

Un nuovo album, una r<strong>is</strong>tampa celebrativa del debutto dei Velvet<br />

Underground, un imminente tributo live a Nico a Brooklyn e altri<br />

ottimi motivi per parlare oggi dell’eclettico pioniere del rock<br />

Ci sono molti buoni motivi per tornare a parlare, nel<br />

2012, di mr. John Davies Cale. Certo, questo è l’anno<br />

della riedizione celebrativa (anche in veste super deluxe)<br />

di The Velvet Underground and Nico, ma anche quello che<br />

segna il suo ritorno d<strong>is</strong>cografico - anticipato lo scorso<br />

anno dall’Ep Extra Playful, primo tassello della collaborazione<br />

con l’etichetta Domino - con l’album Shifty<br />

Adventures In Nookie Wood. I più fortunati lo vedranno<br />

anche alla BAM Howard Gilman Opera House di Brooklyn,<br />

il prossimo gennaio, alle prese con Life Along <strong>the</strong><br />

Borderline: A Tribute To Nico insieme ad altri ospiti e con<br />

la riv<strong>is</strong>itazione integrale del già riproposto Par<strong>is</strong>, 1919<br />

(ancora oggi tra i suoi lavori più accessibili), che festeggerà<br />

quaranta primavere.<br />

Shifty Adventures in Nookie Wood, dicevamo. In Inghilterra<br />

possono vederci un riferimento allusivo all’amplesso<br />

(“Do you wanna have some nookie?” sembra sia<br />

un’espressione che lascia poco spazio all’immaginazione),<br />

eppure il senso del titolo è più complesso, tetro<br />

e stravagante: l’<strong>is</strong>pirazione arriva nientemeno che<br />

dal Giappone, dalla foresta Aokigahara (“Il mare degli<br />

testo: Alessandro Liccardo<br />

alberi”), resa famosa nei primi anni Sessanta da Seicho<br />

Matsumoto e celebre ancora oggi in tutto il mondo per<br />

l’incredibile tasso di suicidi (si parla di una media di trenta<br />

all’anno) che si verificano da quelle parti.<br />

Nato nel Galles ma arrivato a New York a ventun anni,<br />

Cale attirò le attenzioni di Aaron Copland e fu attivo<br />

nell’avanguardia prima di fondare insieme a Lou Reed<br />

(col quale si è ricongiunto tanti anni più tardi per Songs<br />

For Drella) una delle band più influenti di tutti i tempi.<br />

Sebbene di solito si associ l’immagine ad altri art<strong>is</strong>ti<br />

come David Bowie e Madonna, quella del “camaleonte”<br />

gli si addice particolarmente: se Par<strong>is</strong>, 1919 è la sua<br />

v<strong>is</strong>ione del chamber pop, è anche vero che si deve a<br />

lui la produzione del debutto proto-punk degli Stooges<br />

datato 1969 e di Horses di Patti Smith, tanto per<br />

citare due d<strong>is</strong>chi passati alla storia. Amante del r<strong>is</strong>chio,<br />

delle novità, ci ha insegnato come anche il suono della<br />

viola può “dronare” e, prima di Jeff Buckley, k.d. lang e<br />

un’infinità di colleghi che l’hanno aggiunta al proprio<br />

repertorio, ha riconosciuto la bellezza di Hallelujah di<br />

Leonard Cohen, che interpretò per il tribute album I’m<br />

12 13


Your Fan. La recente, interessante compilation Conflict<br />

& Catalys<strong>is</strong>: Productions & Arrangements 1966-2006 ben<br />

incapsula il suo ampio e variegato curriculum art<strong>is</strong>tico<br />

(tra i suoi partner di lusso ci sono i Modern Lovers, gli<br />

Squeeze, gli Happy Mondays e i Jesus Lizards); dopo<br />

esserre sempre stato avanti nelle intuizioni, negli anni<br />

Novanta si è crogiolato un po’ con art<strong>is</strong>ti-simbolo della<br />

new wave del decennio precedente come Siouxsie (The<br />

Rapture) e Marc Almond (è lui a suonare il piano in Love<br />

To Die For e Come In Sweet Assassin, quest’ultimo uno dei<br />

pochi momenti davvero riusciti nel farraginoso Fantastic<br />

Star dell’ex cantante dei Soft Cell). Ora ci racconta che la<br />

sua passione è l’hip-hop - cita Erykah Badu, Dr. Dre, Eminem<br />

- ma è difficile non intuire che nella sua proposta<br />

c’è anche molta nu-new wave.<br />

Nookie Wood è un d<strong>is</strong>co di contrasti, mescola mood diversi,<br />

con coraggio e il più delle volte con successo. Per<br />

il precedente blackAcetate del 2005 John Cale compose<br />

le canzoni al piano e alla chitarra, ma stavolta - racconta<br />

- ha scelto un approccio meno ortodosso. C’è molto<br />

studio, ma anche molta improvv<strong>is</strong>azione (Cale qui suona<br />

quasi tutti gli strumenti). C’è l’AutoTune che fa capolino,<br />

per esempio, in December Rain (più Pet Shop Boys<br />

dei Pet Shop Boys stessi!). Poi c’è Danger Mouse (Gnarls<br />

Barkley, ma anche i Broken Bells con James Mercer degli<br />

Shins), già all’opera con i Black Keys, Norah Jones (Little<br />

Broken Hearts), i Gorillaz e Beck, che si diverte in una<br />

jam session con l’eterno ragazzo settantenne dal ciuffo<br />

improbabile.<br />

John Cale non ama parlare del proprio passato (“lo riv<strong>is</strong>ito<br />

giusto quando devo creare setl<strong>is</strong>t per i miei concerti”),<br />

ma a ripercorrerlo oggi ci pensano, con riverenza,<br />

art<strong>is</strong>ti come Agnes Obel (che ha riletto Close Watch per<br />

Philharmonics) e gli Awesome New Republic (Fear Is<br />

A Man’s Best Friend). L’art<strong>is</strong>ta ha smesso da tempo di<br />

assumere droghe (quella più forte adesso, rivela, è il<br />

caffè) ma non ha perso la voglia di stupire, di stare attento<br />

alla nuova musica che lo circonda, perfettamente<br />

sintonizzato con gli umori del nostro tempo (già in<br />

Hobosapiens del 2003 si respirava aria di Beta Band,<br />

Elbow e Radiohead).<br />

Com’è nato questo nuovo lavoro? C’è qualcosa di<br />

radicalmente nuovo, in termini di produzione e soprattutto<br />

di songwriting, r<strong>is</strong>petto a quanto già inc<strong>is</strong>o<br />

negli ultimi dieci anni?<br />

Sì, spero lo si possa avvertire chiaramente. E’ quello che<br />

cerco di fare ogni volta, creare qualcosa di totalmente<br />

nuovo, perché non mi piace ripetermi quando compongo<br />

nuova musica. L’elemento dell’electronica è molto<br />

importante - non ho scritto i nuovi brani al piano o alla<br />

chitarra, stavolta; spesso si è partiti da una linea di basso,<br />

dalla batteria, da un hook.<br />

Quando entri in studio hai già qualche idea o molto<br />

nasce durante le jam session? Mi rifer<strong>is</strong>co in particolare<br />

al brano con Danger Mouse, I Wanna Talk 2 U..<br />

Con Danger Mouse è nato tutto esattamente così, improvv<strong>is</strong>ando,<br />

sviluppando un’idea strada facendo. Un<br />

processo compositivo bottom-up, come potremmo definirlo.<br />

Ho ascoltato Shifty Adventures In Nookie Wood e lo<br />

trovo straordinariamente vicino alla nu-new wave<br />

che abbiamo ascoltato nel corso del decennio precedente.<br />

Questo lo rende classico e, allo stesso tempo,<br />

“fresco”. Che tipo di musica ascolti oggi? Quale ti<br />

influenza di più?<br />

Dunque.. direi Dr. Dre.. mi piace molto Eminem, per<br />

come stende i propri testi, delle vere storie “estese”. C’è<br />

molta black music tra i miei ascolti, è un qualcosa che ho<br />

cercato di fare mio (lo si può notare nel brano Vampire<br />

Cafe..). Mi piacciono molto certe tracce ritmiche sloppy,<br />

ecco. Nell’era del digitale sembra tutto più semplice, ma<br />

c’è ancora spazio per l’inusuale: ho scritto la parte del<br />

piano di Face To The Sky sull’iPad, che però non ha configurazione<br />

Midi.. C’è molta elettronica in questo d<strong>is</strong>co,<br />

ma non sostitu<strong>is</strong>ce del tutto gli altri strumenti. Semmai<br />

li completa: il batter<strong>is</strong>ta (Michael Jerome Moore, ndr) ha<br />

il proprio spazio nella scena sonora.<br />

Spesso quando pensiamo a John Cale ci viene in<br />

mente il music<strong>is</strong>ta sperimentatore, avanguard<strong>is</strong>ta.<br />

Eppure qui emerge molto il tuo lato di storyteller..<br />

Anche di vero e proprio “commentatore sociale”, per<br />

esempio in Mary in cui affronti con delicatezza il tema<br />

del bull<strong>is</strong>mo omofobico, ahimé sempre attuale.<br />

È sempre stato così. Non interessa cosa fai: sei sempre,<br />

inevitabilmente, un commentatore sociale. Poi chiaro,<br />

cantautore “di protesta” non lo sono stato mai, però di<br />

tanto in tanto sento il b<strong>is</strong>ogno di dire la mia su argomenti<br />

che ritengo importanti.<br />

Come scegli i pezzi per i tuoi concerti?<br />

Non ho una regola prec<strong>is</strong>a, tutto dipende da come si<br />

inser<strong>is</strong>cono nel contesto - specie se il set contiene molt<strong>is</strong>simo<br />

nuovo materiale. Anche come d<strong>is</strong>pongo i brani<br />

in s<strong>cale</strong>tta dipende dal mood e da cosa voglio trasmettere<br />

al pubblico - quindi con quale pezzo partire, quali<br />

inserire a metà e quali eseguire in chiusura.<br />

Recentemente hai suonato dal vivo a Chicago insie-<br />

me ad art<strong>is</strong>ti come Bobby Womack e Zola Jesus. Trovo<br />

interessante che quest’ultima richiami Siouxsie<br />

e Patti Smith, due art<strong>is</strong>te rock con una personalità<br />

molto forte con cui hai lavorato nel corso della tua<br />

carriera. Come vedi, oggi, il ruolo delle donne nel<br />

rock e nel cantautorato?<br />

Trovo che Zola sia fantastica! Le donne oggi sono più<br />

presenti che in passato, emergono ottimi talenti, il loro<br />

ruolo è più forte, più energico. Tutto questo non può<br />

che essere positivo.<br />

Pochi mesi fa è uscito un documentario nel Regno<br />

Unito, Last Shop Standing, sul boom e sull’attuale cr<strong>is</strong>i<br />

dei record shop indipendenti. Se da una parte notiamo<br />

che sempre meno persone acqu<strong>is</strong>tano cd nei<br />

negozi, dall’altra c’è il grande ritorno del vinile. Che<br />

ne pensi?<br />

Non so.. oggi esce un d<strong>is</strong>co, si fa il CD, il vinile, poi ci<br />

sono i download... a me tutte queste edizioni sembrano<br />

il più delle volte strategie volte a confondere l’attenzione<br />

della gente. Però ritengo ancora importante il ruolo<br />

dei record shop indipendenti: non solo sono luoghi in<br />

cui è ancora possibile confrontarsi con appassionati, ma<br />

c’è un legame speciale tra questi e le band emergenti<br />

che giungono, per esempio, a proporre il loro primo Ep..<br />

Quest’anno abbiamo celebrato il centenario della<br />

nascita di John Cage. Un tuo ricordo particolare del<br />

maestro?<br />

Di Cage ricorderò sempre l’approccio peculiare alla performance,<br />

mai eguagliato dai suoi epigoni. Va fatta attenzione<br />

ai suoi Pieces, al modo in cui sono organizzati.<br />

John, inoltre, non era proprio il tipo di persona cui si<br />

poteva dare ordini.<br />

Ti vedremo dal vivo in Italia?<br />

È ancora tutto da definire. Penso che ci vedremo nel<br />

2013.<br />

14 15


Scott<br />

Walker<br />

La parabola art<strong>is</strong>tica di un genio<br />

musi<strong>cale</strong> contemporaneo che si<br />

spinge continuamente al di là dei<br />

propri limiti. Un outsider assoluto<br />

e una ind<strong>is</strong>cutibile lezione di stile.<br />

Testo: Teresa Greco<br />

Ant<strong>is</strong>tAr<br />

16 17


Due flash, in ordine sparso. Q Awards 2003, apparizione assolutamente rara:<br />

uno Scott Walker spaurito, dimesso ma dall’inarrivabile car<strong>is</strong>ma riceve un<br />

premio speciale alla carriera dalle mani del fan Jarv<strong>is</strong> Cocker, pronunciando<br />

un brev<strong>is</strong>simo ringraziamento, contornato per la maggior parte da stelline<br />

in una scontata fiera delle vanità. 8 gennaio 1997, in occasione del suo cinquantesimo<br />

compleanno in diretta alla BBC, David Bowie viene omaggiato<br />

da una serie di d<strong>is</strong>cepoli-fan, tra i quali Brett Anderson, Damon Albarn e<br />

Bono. Sicuramente inaspettata è la telefonata di Scott: “Come tutti, anch’io<br />

allora vorrei ringraziarti per quello che hai fatto in questi anni, in particolar<br />

modo per la generosità d’animo che hai mostrato verso i tuoi colleghi. Ne sono<br />

stato il beneficiario in più di una occasione, lasciatelo dire”. La commovente<br />

dedica del maestro all’allievo testimonia dei rapporti di stima profondi tra<br />

i due e di come in verità quanto detto da Walker al Duca Bianco valga in<br />

realtà per se stesso, assoluto pioniere e <strong>is</strong>piratore negli anni per decine di<br />

art<strong>is</strong>ti, che da un certo punto in poi della sua carriera gli hanno riconosciuto<br />

i meriti dovuti. Si veda anche a questo proposito il documentario di Stephen<br />

Kijak uscito nel 2006, Scott Walker 30 Century Man, con le sue numerose<br />

testimonianze, da Brian Eno a Bowie, dai Radiohead a Johnny Marr, da<br />

Neil Hannon dei Divine Comedy a Simon Raymonde (Cocteau Twins) fino<br />

a Jarv<strong>is</strong> e Marc Almond.<br />

Ant<strong>is</strong>tar per eccellenza, l’art<strong>is</strong>ta americano ha l’assoluto merito di avere una<br />

carriera qualitativamente straordinaria che dura ormai da diversi decenni, di<br />

essere sopravv<strong>is</strong>suto a fama e celebrità giovanili negli anni ‘60 con la gabbia<br />

dorata dei Walker Bro<strong>the</strong>rs, sorta di r<strong>is</strong>posta ai Beatles nonché in un certo<br />

senso precursori raffinati delle boy-band che sarebbero venute, di aver avuto<br />

il coraggio di annullarsi e ripartire più volte e di aver intrapreso, a un certo<br />

punto della carriera sin da metà ‘80, un percorso “altro” di musica sperimentale<br />

coraggioso e inarrivabile, da outsider al di fuori di mode e v<strong>is</strong>ibilità, per<br />

andare continuamente al di là dei propri limiti, perseguendo in tal modo<br />

un d<strong>is</strong>egno coerente e alto. E riuscendo in pieno a scomparire progressiva-<br />

mente come persona pubblica, per rifondarsi ed esprimersi art<strong>is</strong>ticamente<br />

al meglio.<br />

WALker fAme<br />

Ovvero come un ragazzo di Hamilton, Ohio riesce ad arrivare a Londra negli<br />

anni Sessanta con la deflagrante esplosione pop dei Walker Bro<strong>the</strong>rs.<br />

Il ragazzo in questione nasce il 9 gennaio 1943 come Noel Scott Engel da<br />

una famiglia benestante di origine tedesca, figlio unico di una coppia che<br />

non durerà a lungo. Il nomad<strong>is</strong>mo, l’essere solitario per natura e a quanto<br />

pare una vena ribelle caratterizzerà la sua infanzia, fino al trasferimento da<br />

Dallas a New York, dove avviene l’incontro con la musica, che lo segnerà. Ha<br />

meno di dodici anni quando accompagna un amico per un’audizione e viene<br />

scelto lui, nella più classica delle circostanze. Si ritrova così ad avere una<br />

parte, faccia d’angelo dai biondi capelli, nel musical Pipedream di Rodgers<br />

& Hammerstein; vi partecipa per un anno e mezzo non troppo volentieri<br />

e questo gli consente l’ingresso nello show biz. Scotty Engel, “baritono da<br />

Denver” come viene ormai presentato, ha per modelli Elv<strong>is</strong> Presley e Frankie<br />

Lymon ed esord<strong>is</strong>ce nel ‘57 per la RKO con il 45 When Is A Boy A Man /<br />

Steady As A Rock, a cui seguirà altro materiale abbastanza trascurabile in<br />

stile rockabilly e doo-wop, cantato con una voce da adolescente che non è<br />

ancora quella che ben si conosce.<br />

Si trasfer<strong>is</strong>ce a Los Angeles nel ‘59 dove però non va come prev<strong>is</strong>to e qui<br />

conosce precocemente le delusioni di una mancata affermazione. A poco<br />

più di 18 anni comincia intanto a prendere forma il suo gusto estetico ed<br />

intellettuale, fatto di fascinazione per l’Europa, a base di Federico Fellini,<br />

Ingmar Bergman, Jean-Paul Sartre, Albert Camus.<br />

Ci riprova allora con il contrabbasso, abbandonando per il momento il canto,<br />

diventando un ricercato sessionman, per poi continuare facendosi le ossa<br />

nell’ambiente. Più o meno a questo punto incontra un certo John Maus,<br />

biondo chitarr<strong>is</strong>ta californiano che avrebbe impartito, secondo la leggenda,<br />

lezioni a un giovan<strong>is</strong>simo Carl Wilson. Scott entra come bass<strong>is</strong>ta nella<br />

sua band, Walker Family, che dopo la fuoriuscita della sorella di John, Judy,<br />

prende il nome di Walker Bro<strong>the</strong>rs. Non sono ancora quei Walker Bro<strong>the</strong>rs,<br />

canta John e perlopiù fanno i sessionmen. Nel giro di un anno si esib<strong>is</strong>cono<br />

nel giro che conta e ottengono alla fine del ‘64 un contratto con la Mercury,<br />

per cui pubblicano un deludente singolo di debutto, Pretty Girls Everywhere<br />

(cover di una hit r’n’b del ‘58 di Eugene Church); intanto Scott ha sviluppato<br />

una passione per crooner quali Frank Sinatra e Tony Bennett. L’occasione<br />

giusta arriva al secondo singolo su Mercury, Love Her (firmato Mann / Weil),<br />

la cui produzione va ai veterani Nick Venet e Jack Nitzche; trattasi di superballad<br />

per la cui voce non va bene quella di John, ed ecco come nascono<br />

i veri Walker Bro<strong>the</strong>rs con la voce cald<strong>is</strong>sima di Scott. Il pezzo ha il wall of<br />

sound spectoriano, le armonie al loro posto e finalmente la formula adatta.<br />

E di lì a non molto progettano una Brit<strong>is</strong>h Invasion, emigrando a Londra nel<br />

febbraio ‘65. L’idea è del nuovo batter<strong>is</strong>ta, Gary Leeds, un breve passaggio<br />

negli Standells, del quale più che le doti musicali (non partecipò a nessuna<br />

inc<strong>is</strong>ione del gruppo negli anni ‘60 e dal vivo era doppiato..) contano<br />

quelle organizzative. L’idea è quella di far diventare i Walkers più famosi dei<br />

Beatles e con questo progetto in mente tentano la strada d’oltreoceano. Ci<br />

riescono di lì a non molto, raggiungendo il #1 con il terzo singolo, Make It<br />

Easy On Yourself (Bacharach / David). Ed è Walkermania, con il personaggio<br />

18 19


m<strong>is</strong>terioso e fascinoso di Scott, biondo e occhiali scuri, es<strong>is</strong>tenzial<strong>is</strong>ta ed<br />

europeo ma dal caldo crooning americano, ed intorno l’industria del pop<br />

aureo degli anni ‘60, con grandi autori, arrangiatori ed interpreti. Trattasi di<br />

ballad melodrammatiche, perlopiù, come My Ship Is Coming In e The Sun Ain’t<br />

Gonna Shine Anymore, che fece strage di classifiche nell’estate ‘66. Il bilancio<br />

è di tre LP realizzati in tre anni più alcuni singoli, la cui qualità è variegata,<br />

che hanno dietro Scott soprattutto dal punto di v<strong>is</strong>ta art<strong>is</strong>tico, insieme al<br />

produttore Johnny Franz e ad arrangiatori come Ivor Raymonde (il papà di<br />

Simon dei Cocteau Twins e della Bella Union) e Reg Guest (gli stessi dietro<br />

a Dusty Springfield). Take It Easy With The Walker Bro<strong>the</strong>rs (Philips, 1965) è<br />

il debutto sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, una sorta di versione più lucidata del wall of<br />

sound spectoriano; Portrait (Philips, 1966) è più drammatico e lascia spazio ai<br />

singoli membri, Scott con Saturday’s Child (una sorta di River Deep Mountain<br />

High) e Where’s The Girl di Leiber / Stoller; seguono alcune sue ottime b-side,<br />

come Archangel e Mrs. Murphy. Scott comincia intanto a stare sempre più<br />

per conto suo d<strong>is</strong>taccandosi dagli eccessi da popstar degli altri Walkers. E<br />

prendendone sideralmente le d<strong>is</strong>tanze. Come si evince in Images (Philips,<br />

1967) ultimo d<strong>is</strong>co dei “fratelli”, dove i suoi pezzi svettano: la drammatica<br />

Orpheus, la stramba Experience e la romantica Genevieve. L’esperienza Walker<br />

Bro<strong>the</strong>rs è ormai agli sgoccioli, poco successo dei singoli e le ambizioni di<br />

John verso una carriera sol<strong>is</strong>ta fanno il resto.<br />

four soLos<br />

1967, 1968, 1969: sono i tre anni che vedono l’uscita dei primi quattro d<strong>is</strong>chi<br />

sol<strong>is</strong>ti del Nostro e il suo affermarsi come songwriter raffinato; da un lato il lascito<br />

“commerciale” dei Walkers e il personaggio, l’idolo delle ragazzine, dall’altro<br />

l’emergere della personalità poliedrica di Scott, il decadente interprete<br />

dello chansonnier francese Jacques Brel nelle empatiche traduzioni inglesi<br />

di Mort Shuman, e infine l’intellettuale curios<strong>is</strong>simo che divora classica, avanguardia,<br />

letteratura e cinema. E tutto va allora a confluire nella produzione di<br />

questi anni. Il primo Scott (Philips, 1967) viene premiato commercialmente da<br />

un terzo posto in classifica e vede la presenza di una serie di cover di Brel, la<br />

drammatica Mathilde e le siderali My Death e Amsterdam, verso le quali Bowie<br />

si rivolgerà presto, nonché Jackie. Non mancano le originali di qualità, come la<br />

Montague Terrace (In Blue), song orchestrale e alcune canzoni più vicine a un<br />

gusto popolare. Il successivo Scott 2 (Philips, 1968) fin<strong>is</strong>ce al primo posto delle<br />

classifiche, trainato dal singolo abbastanza facile Joanna, mentre si segnala<br />

un gioiellino del calibro della psichedelica Plastic Palace People.<br />

È a questo punto che, al culmine della popolarità, la BBC gli offre una serie<br />

TV: possiamo solo immaginare come fossero andati quei sei ep<strong>is</strong>odi trasmessi<br />

, non essendone rimasto niente, a causa del riutilizzo dei nastri. Certo è<br />

che il suo desiderio di privacy mal si concilia, con il passare del tempo, con<br />

le esigenze del music biz, come si sarebbe v<strong>is</strong>to di lì a poco. Il seguente Scott<br />

3 (Philips, 1969) è quasi tutto suo, a parte tre cover breliane in coda (Sons<br />

Of, Funeral Tango e If You Go Away); un preludio di quello che sarebbe stato<br />

il sublime Scott 4, il terzo Scott ha dalla sua un’unità di stile che va verso il<br />

lir<strong>is</strong>mo, si vedano gli arrangiamenti di Wally Stott. Con tocchi d<strong>is</strong>sonanti che<br />

preannunciano un futuro prossimo a venire. Copenhagen, Rosemary, Two<br />

Ragged Soldiers ma anche Big Lou<strong>is</strong>e, It’s Raining Today. Ottiene un terzo posto<br />

in classifica, mentre di lì a poco esce anche Scott - Scott Walker Sing Songs<br />

From H<strong>is</strong> Tv Series (Philips, 1969), un estratto di alcuni standard presentati<br />

nello show TV. Si avverte lo stridore con la produzione corrente, dato che<br />

trattasi di Walker virato mainstream.<br />

E a questo punto la scelta si fa radi<strong>cale</strong>: abbandonata la sua identità, il seguente<br />

Scott 4 (Philips, 1969) è pubblicato a nome di Noel Scott Engel. Solo<br />

pezzi originali per questo capolavoro siderale: lirico e drammatico, malinconico<br />

e umorale, mescola love songs tinte di folk, rock e perfino country,<br />

in cui si respira davvero un’aria rarefatta e impalpabile; le <strong>is</strong>pirazioni sono<br />

palesi e vanno da Albert Camus, citato in copertina a Ingmar Bergman,<br />

il cui Settimo Sigillo diventa una canzone (The Seventh Seal), fino a Ennio<br />

Morricone e in generale a tutta la musica sin lì espressa, che sia Brel o il<br />

crooning classico che adorava o Phil Spector o Burt Bacharach o la musica<br />

contemporanea. Tutto è filtrato secondo il suo gusto alto e reso proprio.<br />

Dieci pezzi ineguagliabili da ascoltare di seguito. Perdendosi.<br />

Non c’è troppo da stupirsi però se questa perfezionenon fosse da classifica,<br />

infatti Scott 4 non vi entrò, anzi fu accompagnato da recensioni alquanto<br />

negative.<br />

Lost..<br />

E allora Scott ne prende atto, ritorna al vecchio nome e ci riprova ancora<br />

con la Philips. Che impone un album bizzarro come ‘Til The Band Comes In<br />

(Philips, 1970), con originali, co-firmati dal nuovo manager Ady Semel, e<br />

cover; r<strong>is</strong>ultato altalenante con qualche chicca (Prologue / Little Things, la<br />

title track e The War Is Over) che il pubblico ignora completamente.<br />

Decide di scomparire per qualche anno, dal ‘71 al ‘75, non senza aver tenuto<br />

fede agli impegni presi con la casa d<strong>is</strong>cografica. Escono The Moviegoer (Philips,<br />

1972) e Any Day Now (Philips, 1973), il primo una selezione di musica<br />

da film, il secondo una serie di pezzi leggeri, musica senza infamia né lode<br />

20 21


cantata in modo scialbo. Amen. Si avvicina allora alla CBS e ancora una volta<br />

la speranza di poter incidere la sua musica svan<strong>is</strong>ce: Stretch (CBS, 1973) e We<br />

Had It All (CBS, 1974) sono album country & western oggi d<strong>is</strong>ponibili in una<br />

r<strong>is</strong>tampa unica, del tutto privi di mordente. Un’altra fase sta per chiudersi<br />

su un presente meditabondo, con un effetto sorpresa ..<br />

<strong>the</strong> eLectriciAn<br />

Il passo successivo, il comeback dei tre “fratelli” Walker, sembra il tentativo<br />

ultimo di riacciuffare un treno perduto, e in fondo cos’hanno da perdere a<br />

questo punto gli americani? Non si erano avute notizie rilevanti sugli altri due,<br />

se non su John Maus, il quale aveva persino tentato un ritorno fotocopia selfmade<br />

del gruppo, ribattezzato New Walker Bro<strong>the</strong>rs con un epigono di Scott ..<br />

A dare manforte ai tre c’è una nuova etichetta indipendente, la GTO di Dick<br />

Leahy, che dà loro la possibilità di incidere tre album, con Scott come produttore.<br />

Si ripropongono ora ad un pubblico adulto come è diventato ormai<br />

il loro, e il singolo No Regrets (ballata folk di Tom Rush) fa il resto: riarrangiato<br />

pomposamente in mainstream style seventies, entra in classifica al settimo<br />

posto e segna il loro ritorno. L’album che seguirà, No Regrets (GTO, 1975)<br />

allinea una serie di cover piuttosto innocue (Curt<strong>is</strong> Mayfield, Emmylou Harr<strong>is</strong>,<br />

Kr<strong>is</strong> Kr<strong>is</strong>tofferson, Dionne Warwick ..) ma soprattutto mostra la voglia di<br />

tornare a presentarsi al loro pubblico; l’immagine è mutuata dall’immaginario<br />

di ragazzoni “californiani” tutti sorr<strong>is</strong>i e ottim<strong>is</strong>mo.. e Scott fa buon v<strong>is</strong>o<br />

a cattivo gioco. Il successivo Lines (GTO, 1976) ancora di cover, segna ancor<br />

più il passo verso il mainstream, passando del tutto inosservato, mentre la<br />

casa d<strong>is</strong>cografica sta ormai per essere venduta. L’ultima chance resta allora<br />

quella di scrivere il proprio materiale e così Nite Flights (GTO, 1978) si materializza.<br />

Ora, non ci vuole molto a capire che il livello delle composizioni<br />

di Scott, finalmente lasciato libero di esprimersi, sia pure in un contesto<br />

come questo, superi stellarmente quelle degli altri due. I pezzi infatti (Shutout,<br />

Fat Mama Kick, Nite Flights e soprattutto The Electrician) parlano un<br />

linguaggio che poco ha a che vedere con il mainstream pop dei “fratelli”, tra<br />

wave di qualità e oscuri ab<strong>is</strong>si come The Electrician, sospeso com’è tra incubi<br />

industrial e orchestrazioni. La musica che verrà parte anche da qua, con il<br />

music<strong>is</strong>ta che ha ormai attraversato il presente ed è entrato in uno spazio<br />

altro, scomparendo e rinascendo a nuova vita art<strong>is</strong>tica. Nite Flights segna il<br />

canto del cigno dei Walkers e pur avendo ricevuto recensioni positive per<br />

l’apporto di Scott, fall<strong>is</strong>ce l’obiettivo vendite.<br />

th<strong>is</strong> <strong>is</strong> hoW you d<strong>is</strong>AppeAr..<br />

Mentre il Nostro vive un periodo tormentato dopo lo scioglimento dei Walker<br />

Bro<strong>the</strong>rs, come riferirà a Alan Bangs (si paragona ad Orson Welles, “un<br />

grande che tutti volevano incontrare ma di cui nessuno era d<strong>is</strong>posto a finanziarne<br />

i progetti”), il suo nome da inizi ‘80 comincia a diventare un punto di<br />

riferimento per altri music<strong>is</strong>ti, David Bowie e Brian Eno in prim<strong>is</strong>; quest’ultimo<br />

ne aveva ampiamente tessuto le lodi sul Melody Maker ai tempi di Nite<br />

Flights, e Bowie farà conoscere il pezzo omonimo grazie a una cover nel ‘93,<br />

mentre nell’81 veniva pubblicata una compilation di editi, Fire Escape In The<br />

Sky: The Godlike Genius of Scott Walker, a cura del fan Julian Cope, senza<br />

contare che nello stesso anno la Philips aveva raccolto le cover breliane in<br />

Scott Sings Jacques Brel.<br />

Questo “hype” gli favorirà quindi un contratto con la Virgin, per cui nel 1984<br />

esce Climate Of Hunter. L’album segna il definitivo spartiacque tra il Walker #<br />

1 e quello successivo, marcando definitivamente un punto di non ritorno con<br />

l’art<strong>is</strong>ta più pop in senso lato. Raccogliendo tutte le sue migliori esperienze,<br />

da quelle orchestrali e crooning di Scott 1,2, 3, e soprattutto 4 e le avv<strong>is</strong>aglie<br />

più futur<strong>is</strong>tiche v<strong>is</strong>te in Nite Flights, con la fida produzione di Peter Walsh,<br />

l’art<strong>is</strong>ta americano riduce al minimo la strumentazione: poch<strong>is</strong>sima orchestrazione<br />

ed arrangiamenti, permane formalmente la forma canzone, che<br />

qua e là si sgretola e riduce (Dealer, Sleepwalkers Woman, Track Six), sembra<br />

ritornare a tratti (Rawhide, il singolo Track 3) per farsi d<strong>is</strong>sonanza e rarefazione.<br />

Walsh spiegherà nel citato documentario Scott Walker 30 Century Man che<br />

nelle session del d<strong>is</strong>co i music<strong>is</strong>ti reg<strong>is</strong>travano le loro parti senza conoscere<br />

la melodia dei pezzi, sia perché Walker non aveva fatto alcun demo ma semplicemente<br />

perché la melodia era un “segreto gelosamente custodito”. Engel<br />

intendeva dire che se si fosse conosciuta la melodia, questo avrebbe portato<br />

ogni pezzo lontano da dove doveva stare secondo la sua concezione; vale a<br />

dire che “tutto doveva essere tenuto un po’ d<strong>is</strong>giunto” per “evitare che ci fosse<br />

la possibilità di andare tutti a tempo”. L’effetto è allora straniante e segna un<br />

al di là da cui non si può più fare ritorno. Il tutto accompagnato da testi non<br />

facili che permarranno in tutta la successiva produzione di Scott. E ancora<br />

non si era v<strong>is</strong>to abbastanza. Th<strong>is</strong> Is How To D<strong>is</strong>appear..<br />

fArmer in <strong>the</strong> city<br />

Come scomparire appunto .. Così come il precedente, Climate passa inosservato<br />

commercialmente. Un secondo album per la Virgin era prev<strong>is</strong>to, con la<br />

22 23


produzione di Brian Eno e Daniel Lano<strong>is</strong>, ma non se ne fece niente. Da qui in<br />

poi le notizie su Walker si fanno sempre più rade, e se già poche erano state<br />

le interv<strong>is</strong>te promozionali nel corso del 1984, ora il buio assoluto. B<strong>is</strong>ogna<br />

aspettare addirittura il 1993, quindi quasi un decennio, per un singolo (di<br />

cui firma il testo) con Goran Bregovic, Man From Reno / Indecent Sacrifice,<br />

uscito in Francia per il film Toxic Affair di Philoméne Esposito, con Isabelle<br />

Adjani e per cui Bregovic compone la colonna sonora. Una ballad non propriamente<br />

oscura.<br />

E infine due anni dopo il ritorno con Tilt (Fontana, 1995), coprodotto con<br />

Peter Walsh. L’album prosegue in parte sulla scia del precedente, facendosi<br />

però incubo sonoro tout court. Una m<strong>is</strong>cellanea di elementi, in cui coes<strong>is</strong>tono<br />

classica, avanguardia, sperimental<strong>is</strong>mo, minimal<strong>is</strong>mo, industrial, per un<br />

marchio di fabbrica che comincia ora a diventare “riconoscibile”. Via del tutto<br />

la forma-canzone, la poca melodia sia pur presente non è ingabbiata ma<br />

d<strong>is</strong>sonante insieme al resto, il cantato si fa espression<strong>is</strong>tico, declamatorio,<br />

come un lieder sui gener<strong>is</strong>, le atmosfere sono claustrofobiche e morbose,<br />

cinematograficamente efficaci sia nelle immagini evocate, sia dal punto di<br />

v<strong>is</strong>ta sonoro (l’uso narrativo dell’orchestra, della strumentazione minimale,<br />

l’utilizzo funzionale degli effetti sonori, delle d<strong>is</strong>sonanze). Alienazione,<br />

d<strong>is</strong>agio es<strong>is</strong>tenziale ma anche sarcasmo e ironia gli elementi presenti. I<br />

testi stessi sono evocativi più che letterari, sono parte musi<strong>cale</strong>, effetto<br />

sonoro che procede per immagini, sia quando rievocano la morte di Pier<br />

Paolo Pasolini (la incalzante Farmer In The City, <strong>is</strong>pirata dalla poesia Uno dei<br />

tanti epiloghi, dedicata nel 1969 all’attore Ninetto Davoli), sia nel processo<br />

all’ufficiale SS Adolf Eichmann (The Cockfighter), negli orrori delle guerre<br />

americane (Patriot), nel narcotraffico sudamericano (Bolivia ‘95). Come detto<br />

dall’autore, sono le liriche che dettano il suono all’intera canzone. La compiutezza<br />

dell’album rivela le ambizioni di Walker, che nelle interv<strong>is</strong>te non<br />

concede molt<strong>is</strong>simo seguendo la sua indole. E d’altra parte un lavoro art<strong>is</strong>tico<br />

dovrebbe parlare di per se stesso, crediamo. E come in tutte le prove<br />

che verranno dopo, il fascino malato avvince e si riesce a entrare penetrare<br />

compiutamente nell’opera se si ha la pazienza e l’umiltà di addentrarv<strong>is</strong>i, di<br />

aspettare, di ins<strong>is</strong>tere.<br />

cossAcks Are chArging in ..<br />

Dopo Tilt Walker esce relativamente dall’<strong>is</strong>olamento, con diverse collaborazioni.<br />

Nel 1996 reg<strong>is</strong>tra I Threw It All Away di Bob Dylan, sotto la direzione<br />

di Nick Cave, per la colonna sonora del film To Have and to Hold; nel 1998<br />

coverizza Only Myself to Blame di David Arnold, per lo score del bondiano<br />

The World Is Not Enough (Il mondo non basta). Nello stesso anno scrive e<br />

produce la maggior parte della colonna sonora del controverso Pola X di<br />

Léos Carax, che contiene contribuiti anche di Smog e Sonic Youth. Trattasi<br />

di strumentali, orchestrati o sperimentali/industrial, e l’unica volta che si<br />

sente la sua voce, è in un estratto di Cockfighter, da Tilt.<br />

Nel 2000 è il curatore del prestigioso Meltdown Festival, dove non suona<br />

ma scrive un pezzo, Thimble Rigging per The Richard Alston Dance Project;<br />

nello stesso anno collabora a Pun<strong>is</strong>hing K<strong>is</strong>s, album della performer tedesca<br />

Ute Lemper, con due pezzi articolati e d<strong>is</strong>sonanti nello stile di Tilt. Nel 2001<br />

produce l’album dei Pulp, We Love Life, ovvero di uno dei suoi più grandi<br />

fan, Jarv<strong>is</strong> Cocker, traghettandone la transizione, con un album raffinato,<br />

verso una fase più adulta e preparando il Jarv<strong>is</strong> sol<strong>is</strong>ta.<br />

A fine 2003 esce un importante e corposo box set, Five Easy Pieces (Mercury),<br />

suddiv<strong>is</strong>o in 5 CD tematici e un booklet; l’arduo compito di antologizzare<br />

la carriera di Walker viene così bypassato dalla div<strong>is</strong>ione per argomenti e in<br />

modo cronologico, racchiudendo numerosi brani rari e fuori stampa.<br />

La firma con la 4AD nel 2004, sua etichetta attuale, preannuncia l’uscita di<br />

The Drift (2006). Walker continua il suo percorso art<strong>is</strong>tico altro, tassello dopo<br />

tassello, ogni volta destrutturando, togliendo o modificando gli elementi<br />

costitutivi della sua musica. Di Tilt restano il mood e l’ambientazione sonora:<br />

il cantato è parimenti espression<strong>is</strong>ta, declamatorio, lirico, con poca melodia;<br />

è ancora più claustrofobico, morboso, oscuro, cinematografico (si vedano<br />

l’uso narrativo dell’orchestra , la strumentazione minimale, gli effetti sonori<br />

funzionali, le d<strong>is</strong>sonanze). Si ass<strong>is</strong>te a un’ulteriore d<strong>is</strong>gregazione delle “canzoni”,<br />

che già nel precedente avevano perso la loro forma: qui diventano<br />

momenti di flusso ininterrotto, uno stream assoluto di suoni e parole.<br />

I brani cons<strong>is</strong>tono in “blocchi di suono”, come vengono definiti dall’autore,<br />

che si susseguono per giustapposizioni e contrapposizioni, assenze di ritmo<br />

seguite da accelerazioni (Hand Me Ups), incubi sonorizzati (Jolson and Jones,<br />

Cue), brevi attimi di calma (A Lover Loves). Fanno eco le liriche astratte e in<br />

apparenza casuali, unite tra loro (Cossacks Are, Jolson And Jones), colme di<br />

v<strong>is</strong>ioni horror, f<strong>is</strong>iche, attualità (la scomparsa di Woytila, in Cossacks Are, o<br />

l’11/9 in Jesse) e Storia (la vicenda Benito Mussolini / Claretta Petacci in Clara,<br />

Milosevic in Cue).<br />

24 25


In The Drift dominano la cognizione del dolore e la tragicità estrema della<br />

condizione umana, come osservate al microscopio da un narratore, senza<br />

darne alcun giudizio. Lo specchio dei tempi oscuri che stiamo vivendo e un<br />

punto di non ritorno. Ancora un passo oltre i propri limiti.<br />

Appena un anno dopo, nel 2007, Walker pubblica sempre su 4AD in edizione<br />

limitata And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una<br />

suite strumentale in quattro movimenti per una pièce di danza contemporanea<br />

della compagnia CandoCo (con ballerini anche d<strong>is</strong>abili) del coreografo<br />

Rafael Bonachela. L’americano qui è molto vicino alle sperimentazioni di The<br />

Drift, tra sottrazioni ed implosioni, strappi ed improvv<strong>is</strong>e esplosioni, sinfonie<br />

irregolari per archi (con la London Sinfonietta) e percussioni sincopate,<br />

fughe improvv<strong>is</strong>e ed esplosioni di archi, con rari momenti di quiete. Inoltre<br />

droni leggeri, sovrapposizioni alla Philip Glass, orchestrazioni che per alcuni<br />

momenti possono ricordare quelle di Bernard Herrmann. Sal<strong>is</strong>cendi che<br />

richiamano un sottile gioco di equilibri/d<strong>is</strong>equilibri. Il concept espresso da<br />

musica e danza riflette la vita dell’uomo in un mondo meccanizzato, con la<br />

dicotomia profonda tra corpo e mente, e viene trasmessa ai movimenti irregolari<br />

dei danzatori, anche d<strong>is</strong>abili, che sono come prigionieri in uno spazio<br />

chiuso. Ancora una volta, la musica trasmette il d<strong>is</strong>agio e la d<strong>is</strong>perazione di<br />

una condizione alienata e spezzata.<br />

Due anni dopo, nel 2009, ritroviamo Scott ad occuparsi ancora di musica per<br />

balletto, alla Royal Opera House di Londra, con una r<strong>is</strong>crittura del monologo<br />

Duet For One di Jean Cocteau, coreografato da Aletta Collins; e sempre<br />

nello stesso anno, una collaborazione con Bat For Lashes in un pezzo del<br />

suo Two Suns.<br />

B<strong>is</strong>h Bosh ending<br />

Le sorprese non sono finite e Scott continua ancora a lasciare senza fiato. A<br />

sei anni da The Drift, senza contare gli intermezzi susseguit<strong>is</strong>i nel frattempo,<br />

fa un altro centro, riuscendo a mutare ulteriormente le variabili a sua d<strong>is</strong>posizione,<br />

senza alcun segno di cedimento, anzi proseguendo con una classe<br />

infinita, spanne sopra tutti. In finale d’anno, il 2012 vede B<strong>is</strong>h Bosch (in spazio<br />

recensioni) svettare e offrirsi come ennesimo capolavoro. In sintesi, ritroviamo<br />

la struttura che abbiamo imparato a conoscere con gli album dell’ultima<br />

parte della sua carriera, destrutturata e con voce narrante-cantante, con alcuni<br />

significativi cambiamenti. Più ricco di sfumature e meno oscuro r<strong>is</strong>petto<br />

al precedente, con una pienezza di suono, vi si trovano chitarre, tastiere e<br />

fiati, una novità assoluta. Il mood è meno claustrofobico e morboso, e le<br />

storie raccontate e cantate conflu<strong>is</strong>cono in un unicum organico, un fluire<br />

ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Il narratore Walker si fa<br />

guida in un Inferno dantesco, una sorta di dipinto v<strong>is</strong>ionario di Hieronymus<br />

Bosch, citato nel titolo in un gioco di parole - dove b<strong>is</strong>h bosh significa “job<br />

done, sorted” - per esprimere l’ordine delle parti, apparentemente messe<br />

accanto ma in realtà unite fluidamente in un tutto organico.<br />

B<strong>is</strong>h Bosch è quindi un’esperienza totalizzante che ripaga ascolto dopo ascolto,<br />

confermando Walker come genio musi<strong>cale</strong> contemporaneo e outsider<br />

al di fuori di mode e tempi. Un osservatore acuto della contemporaneità<br />

e della condizione umana sempre più lacerata e dolorosa. Uno di quei rari<br />

art<strong>is</strong>ti concentrato totalmente sulle sue espressioni art<strong>is</strong>tiche. Si può andare<br />

ancora più in là?<br />

“I’m for permanence” (Scott Walker, TV tedesca, 1969).<br />

26 27


House Is THe<br />

TempTaTIon<br />

Testo: Carlo Affatigato<br />

Da qualche tempo alla Rinse tira<br />

una nuova, sorprendente aria.<br />

È la <strong>house</strong>, propugnata da un<br />

poker di personaggi car<strong>is</strong>matici<br />

lungo quattro punti cardinali:<br />

energia, rigore, eleganza e<br />

grooves.<br />

Ha compiuto 18 anni giusto lo scorso settembre, Rinse FM, festeggiando con una doppia data tra Manchester e<br />

Londra e una line up che comprendeva non solo la propria crew ma tutti i membri dell’unit<strong>is</strong>sima élite UK che va<br />

da Skream, Joker e J:Kenzo a Pearson Sound, Jamie George e Kode 9. 18 anni di alacre attività e continui rapporti<br />

con pezzi grossi e giovani emergenti della scena, dopo i quali puoi permetterti oggi di avere una timeline di<br />

lusso ogni giorno della settimana, d<strong>is</strong>tribuita tra forze giovani come Monki o Sian Anderson e veri pezzi di storia<br />

della scena elettronica londinese come Plastician o D<strong>is</strong>tance, più una folta scuderia di soggetti amat<strong>is</strong>simi dal<br />

pubblico che con la Rinse son legati a doppio filo: Roska, Redlight, Zinc, Brackles, Youngsta, Elijah & Skilliam,<br />

tutti protagon<strong>is</strong>ti di un continuo inseguimento delle espressioni dance underground più divertenti del momento.<br />

Come label d<strong>is</strong>cografica, invece, da circa un lustro s’è imposta in una scena vivace e ricca di fermenti affermandosi<br />

come una delle realtà più cool della Londra musi<strong>cale</strong>. Ha inseguito i trend ma sempre prendendo una prec<strong>is</strong>a posizione<br />

estetica a riguardo: quando s’è trattato di affrontare il dubstep lo si è fatto tramite i Rinse Mix di Skream,<br />

Plastician e N-Type, che com’è noto hanno di quel mondo un proprio personale punto di v<strong>is</strong>ta, per molti versi<br />

lontano dallo schema offerto intanto su Tempa; nel frattempo, il funky e il grime diventavano ufficialmente concreti<br />

terreni di indagine di casa e iniziavano a sparigliare le carte, dando l’ass<strong>is</strong>t a uscite crossover frizzanti come quelle di<br />

Skepta, Oneman e più recentemente Roska. Una costellazione di inziative e direzioni che restitu<strong>is</strong>cono l’immagine<br />

non di un gruppo gerarchico con una linea adottata dall’alto (come invece - e ce ne siamo accorti più volte - può<br />

essere la Planet Mu di Paradinas), ma di un team fresco e fortemente unito dall’esperienza in radio, che condivide<br />

la voglia di esprimere il vero fun londinese in tutte le sue forme.<br />

Da qualche tempo, poi, alla Rinse sembra esser arrivato un nuovo vento di passione che viene da lontano: la <strong>house</strong>.<br />

Qualcosa che non si credeva pienamente fittable col sound di casa, sempre eclettico, estroso e attento alla vivacità<br />

del pubblico giovane, ma che proprio per questo diventa ufficialmente la nuova sfida. Perché se i soggetti in questione<br />

iniziano ad appassionarsi allo schema 4/4, ovviamente lo fanno con prec<strong>is</strong>e direttive caratteriali, plasmando<br />

una forma trasversale che un<strong>is</strong>ca movimento e rigore. E se si erano già avute certe avv<strong>is</strong>aglie del passaggio a una<br />

nuova fase di rev<strong>is</strong>ion<strong>is</strong>mo interno (vedi la Rinse:15 di Roska o l’arrivo di Katy B), oggi abbiamo una manciata<br />

di nomi vecchi e nuovi da tenere d’occhio, che stan portando avanti alcune teorie originali sotto schema quadro.<br />

Nessuno di loro è ancora esploso definitvamente in questo senso, quindi gustatevi questa d<strong>is</strong>amina come un’anticipazione<br />

su quel che potrebbe fare il botto di qui a qualche mese.<br />

Zinc: LA “crAck”<br />

Se è vero che i nuovi trend hanno origine dalle influenze reciproche, in questo caso l’inizio di tutto va ricondotto a<br />

28 29


zinc<br />

Zinc. O meglio, al volto che Zinc ha mostrato grossomodo nell’ultimo lustro,<br />

rileggendo in maniera drasticamente diversa i frutti di un’esperienza lunga<br />

ormai vent’anni: lui è quello di pezzi storici dell’era jungle e drum’n’bass<br />

come 138 Trek e Super Sharp Shooter, uno dei più affezionati sodali di DJ<br />

Hype (i due hanno collaborato più volte, D<strong>is</strong>appear, Six Millions Ways To Die,<br />

Show Me The Lovin) e per lungo tempo impegnato a indagare i presupposti<br />

evolutivi del continuum verso l’hip-hop e quel precursore del dubstep che<br />

fu il breakstep. Fino a fine 2000, quando si sedette a tavolino e si inventò un<br />

suo modo di rendere i groove, gli inserti sintetici e tutti quei meccan<strong>is</strong>mi<br />

dance di pancia figli di anni di DJing e produzioni rave/UK garage su un più<br />

elastico e irriverente tessuto in 4/4. Crack <strong>house</strong>, la battezzò, e fu l’intuizione<br />

che lo fece rinascere a nuova vita.<br />

Nel 2009 pubblica sulla propria Bingo Bass il primo Crack House EP, seguito<br />

pochi mesi dopo da Crack House Vol. 2, venti tracce per circa due ore di ascolto<br />

inedito. Ed è subito chiaro che la <strong>house</strong> non è solo segno di svecchiamento<br />

(attenzione, non è un controsenso) ma vera e propria tentazione: quello<br />

adottato è un pattern più universale, sul quale riversare i frutti consolidati<br />

dello sballo sperimentato con le produzioni dnb. Tecnicamente parlando, i<br />

genitori più diretti sono la deep <strong>house</strong> e l’acid, dove la prima viene spogliata<br />

delle sue forme più eleganti e soul e la seconda viene traslata su un piano<br />

meno hardcore e più popolare. Un pezzo come Killa Sound spiega tutto, lo<br />

spazio importante dei loop vocali che catalizzano gli effetti dance e l’ind<strong>is</strong>pensabile<br />

groove sintetico killer, il vero elemento di scarto tra la normale<br />

tech-<strong>house</strong> e la crack di Zinc, più le sirene à la Kill Bill che lanciano un<br />

parallelo concreto con quel che Quentin Tarantino fa del cinema: riciclo<br />

sfrenato (qui prevalentemente dai ‘90) e ricerca ossessiva del piacere esplicito,<br />

con una determinazione e una pressocché totale assenza di d<strong>is</strong>trazioni<br />

intellettuali che colloca il prodotto finale proprio sopra la sottile linea di<br />

separazione tra erot<strong>is</strong>mo e pornografia. Pezzi come 128 Trek (il crack <strong>house</strong><br />

remix della sua stessa hit dnb) e soprattutoo Wyle Out (con Ms. Dynamite)<br />

rappresentano invece l’anello di congiunzione diretto con la rave culture,<br />

gli elementi sono esattamente gli stessi (luci, bleeps e droghe) e quel che<br />

cambia è solo la recettibilità di tempi e strutture ritmiche.<br />

L’impatto sulla scena è enorme. I pezzi migliori del Crack House Vol. 2, Love<br />

To Feel Th<strong>is</strong> Way e Nexx, fin<strong>is</strong>cono nelle compilation più estroverse (I Love<br />

Techno dei Cassius e ancora Rinse:15 di Roska, che resta ascolto imprescindibile<br />

per chi si appassiona al tema corrente) e il nome di Zinc riacqu<strong>is</strong>ta<br />

lo spolvero di un tempo. La formula giovane e elettrizzante fin<strong>is</strong>ce per conqu<strong>is</strong>tare<br />

un palco prestigioso come la Rinse (che dei nuovi modi per esaltare<br />

il pubblico dance non se ne lascia scappare nessuno), Zinc inizia ad essere<br />

presenza f<strong>is</strong>sa nella programmazione e sarà uno dei producers dietro l’album<br />

di Katy B (l’altro è Geeneus). L’anno scorso, lo step successivo alla serie crack<br />

<strong>house</strong> è Sprung, stavolta proprio su Rinse, un EP di 4 pezzi ancora più dritti e<br />

tagliati per l’eccitazione collettiva (nonché perfetti come dj tools): Unlike Me<br />

e Juicy Fruit son le due mosse di stile per la clubbing fashion, mentre Sprung<br />

e Recovered son due vere gemme di energia esplosiva che spinge verso l’aggressivo<br />

e può cambiarti la serata in un attimo. Le ultime tappe del percorso<br />

arrivano quest’anno, prima Goin’ In e poi Like The Dancefloor con A-Trak, e<br />

portano la crack <strong>house</strong> verso un’immagine più radiofonica e commerciale<br />

(si parla di successo, of course), ma con Zinc c’è sempre da stare in allerta e<br />

ch<strong>is</strong>sà che presto non arrivi la sua crack release definitiva. Per dicembre è<br />

già pronto il nuovo EP, Only For Tonight, e i primi ascolti sembrano volgere<br />

a un’immagine <strong>house</strong> pop compiuta. Terremo gli occhi aperti.<br />

mArk rAdford: iL rigore<br />

Quando a marzo il Rinse:18 di Mark Radford è stato recensito su ResidentAdv<strong>is</strong>or,<br />

Andrew Ryce esordiva chiedendosi furbescamente: “Che diavolo<br />

ci fanno Alex Niggemann e Steve Bug in una compilation Rinse?”. Quello<br />

è stato in effetti il primo squarcio del velo, la prima incursione della <strong>house</strong><br />

tra le release ufficiali della Rinse. Radford era entrato a far parte della crew<br />

da un annetto circa, con una finestra settimanale f<strong>is</strong>sa nella timeline radio<br />

(adesso ha la prestigios<strong>is</strong>sima prima serata del sabato), ma si era fatto notare<br />

dai talent scout già qualche tempo prima, grazie a una serie di serate underground<br />

londinesi in cui il ragazzo sembrava star dando un nuovo slancio di<br />

euforia alla scena UK <strong>house</strong> live (cosa non facile per un pubblico esigente<br />

come quello di Londra, soprattutto se parliamo di un genere così altamente<br />

storicizzato).<br />

E che <strong>house</strong>, poi. Parliamo del lato più rigoroso e old-fashioned del filone,<br />

quello che d<strong>is</strong>cende direttamente dalla prima fase deep di Chicago e che<br />

oggi è ancora vivo grazie al lavoro di etichette come la Poker Flat, che teoricamente<br />

della Rinse sarebbero concorrenti in piena regola (aspetto, questo,<br />

che fa riflettere su quanto sia editorialmente r<strong>is</strong>chiosa la mossa di cui stiam<br />

parlando). Più che la fresca gioventù di nomi caldi UK come potevano essere<br />

i D<strong>is</strong>closure o Benjamin Damage, i set di Radford prefer<strong>is</strong>cono r<strong>is</strong>coprire<br />

il classic<strong>is</strong>mo e l’eleganza della <strong>house</strong> recente, e infatti il suo mix includex<br />

lavori come la Speechless della coppia Agoria-Carl Craig o il John Tejada<br />

remixer, stando ovviamente sempre attenti ai nuovi nomi della scena underground<br />

come James What, No Artificial Colours o A1 Bassline.<br />

Eppure anche Radford veniva da un background e un bacino d’esperienza<br />

jungle/drum’n’bass e solo recentemente è scoppiato l’amore <strong>house</strong>. In una<br />

recente interv<strong>is</strong>ta su Pulseradio la racconta come la sua vera fase di maturazione,<br />

spiegando che “col tempo è cambiato il tipo di party a cui andavo, dalla<br />

30 31


mark radford t. williams<br />

UK garage a una <strong>house</strong> più funky e soulful. La mia attenzione si è spostata verso<br />

groove più morbidi e lontano dalle aggressioni dnb, e quando ho iniziato ad<br />

appassionarmi ai bassi dark e profondi della deep, ho trovato il mix davvero<br />

sexy”. Se in Zinc parlavamo di mossa di rinnovamento, in Radford i 4/4 sono<br />

l’effetto della crescita estetica. Prerogative niente male per un genere che<br />

si appresta a compiere 30 anni di vita. E non è finita...<br />

t WiLLiAms: L’eLegAnZA<br />

Tesfa Williams è un altro che proviene da un punto di partenza stil<strong>is</strong>ticamente<br />

lontan<strong>is</strong>simo. Per tutti gli anni ‘00 lui è DJ Dread D, giovan<strong>is</strong>simo<br />

produttore grime partito per gioco all’età di 13 anni e arrivato alle prime<br />

produzioni ufficiali al giro di boa della maggiore età, con un bel pezzo di<br />

cattiveria ossuta come Invasion e una serie di interessanti 12’’ usciti sulla<br />

Black Ops di Jon E Cash. Poi una pausa riflessiva durante gli anni della laurea,<br />

alcuni anni di silenzio serviti a focalizzare bene la migliore direzione<br />

e prendere la rincorsa per poi partire in velocità. Spinto da una costante<br />

voglia di cimentarsi in nuovi orizzonti, prima fonda la Deep Teknologi, label<br />

dichiaratamente orientata verso influenze world music legate in particolare<br />

all’India e al Nord Africa (il padre è dei Caraibi e gli ha trasmesso la passione<br />

per i vinili) e poi incide come T Williams un paio di EP (Chop And Screw<br />

sulla sua Teknologi e T Williams sulla Local Action del collaboratore di FACT<br />

Tom Lea) che compiono la svolta dec<strong>is</strong>iva verso un sound <strong>house</strong> dal carattere<br />

tribale più o meno marcato.<br />

La <strong>house</strong> entra in punta di piedi nell’universo sonoro di Williams. Sempre su<br />

Pulseradio l’interv<strong>is</strong>ta più interessante sul web, dove il producer racconta:<br />

“C’era un rave di old-skool garage a Londra, il Liberty. Alle 6 di mattina si trasformava<br />

in un rave <strong>house</strong>, e mi ritrovai anch’io, da appassionato di garage,<br />

ad ascoltare <strong>house</strong>. Insieme a un amico iniziammo ad ascoltarla prima per<br />

mezz’ora, poi per un’ora, poi per due e finché ci passavamo intere notti. Venendo<br />

dal grime non amavo particolarmente la <strong>house</strong>, alla fine di ogni sessione<br />

d’ascolto ci dicevamo, un po’ per sentirci più a nostro agio, ‘è come la garage,<br />

vero?’. Poi alcuni dj bravi a guardare oltre come Wig Man mi hanno introdotto<br />

alla <strong>house</strong> più afro/soulful di Quentin Harr<strong>is</strong>, DJ Gregory e Denn<strong>is</strong> Ferrer.<br />

Fu lì che scoprii il vero vibe <strong>house</strong>, nel suo momento storico migliore in UK.”<br />

Accolto alla Rinse con grande entusiasmo, la sua v<strong>is</strong>ione <strong>house</strong> ve l’abbiamo<br />

raccontata all’uscita di Rinse 21: il four-on-<strong>the</strong>-floor di Williams è denso di<br />

umori e amante dell’eleganza, ragiona su mood deep e sulla puntuale presenza<br />

di sezioni cantate a rendere il tutto più easy all’ascolto, estendendone<br />

l’efficacia anche fuori dalla p<strong>is</strong>ta. I quattro pezzi del suo ultimo EP Pain &<br />

Love raccontano meglio di mille parole le armonie di cui il ragazzo è capace,<br />

in particolare con due brani di spicco come Can’t Get Enough (la voce funky<br />

è di Himal e serve tutta al movimento clubbing) e Think Of You (capolavoro<br />

di raffinatezza deep/soul con la voce femminile di Tendai a raddoppiare la<br />

sensualità di una formula erotica a priori). T Williams oggi non è solo “uno<br />

dei bass producers più interessanti della scena londinese”, come dicono ormai<br />

tutti. Lui è la perfezione in carne ed ossa della cosiddetta <strong>house</strong> sensation<br />

del momento, e la speranza è che venga fuori l’album-capolavoro a tema<br />

prima che la spinta al cambiamento lo faccia spostare altrove.<br />

moscA: LA groove science<br />

Giovan<strong>is</strong>simo ma dotato di un sorprendente bagaglio di conoscenze musicali,<br />

Mosca è finito sulla bocca di tutti a fine 2011 grazie alla super hit Bax,<br />

un tessuto ritmico tech-<strong>house</strong> di grande energia con tanto di inserto tribale<br />

seminascosto nell’ombra e un giro acid ipnotico da fase finale di una notte in<br />

d<strong>is</strong>co, tutto apparentemente semplice ma irres<strong>is</strong>tibile. In precedenza, erano<br />

già usciti per Night Slugs e Fat City una manciata di pezzi che avevano fatto<br />

breccia sugli intenditori di nuove intuizioni, così che prima l’esplorazione<br />

degli spazi tra afrobeat e west dance di Square One, poi il giro slow <strong>house</strong><br />

groove-addicted di Tilt Shift si son beccati i remix di Roska, Julio Bashmore,<br />

Bok Bok e L-V<strong>is</strong> 1990. I frutti dolci del successo però Mosca li ha raccolti da<br />

fine 2011 in poi, coi tre pezzi di garage sghemba contenuti nel Wavey EP<br />

che ricevono consenso unanime in tutte le riv<strong>is</strong>te specializzate e l’altro eppì<br />

di quest’anno Eva Mendes, contenente la collaborazione eccellente di un<br />

semidio come Robert Owens, Accidentally.<br />

Più che il cambio di rotta che abbiam v<strong>is</strong>to per i tre qui sopra, per Mosca la<br />

<strong>house</strong> è la forma sposata con convinzione per la sua flessibilità, che permette<br />

32 33


mosca<br />

di tirare in ballo ogni sorta di influenza derivante dal crate digging senza<br />

per questo rinunciare all’appeal di prima mano. Il profilo più interessante del<br />

producer londinese lo d<strong>is</strong>egna stavolta Fact Magazine, in una lunga interv<strong>is</strong>ta<br />

che ben rende lo spirito compositivo dietro ai suoi pezzi: appassionato da<br />

sempre di world music proveniente da ogni parte del mondo, per lungo<br />

tempo il ragazzo è conqu<strong>is</strong>tato dai fermenti ritmici del terzo mondo (kuduro,<br />

kwaito, zouk, cumbia, reggaeton) senza però riuscire a integrarli al meglio<br />

in un dj set (“quella roba proprio non era mixabile, a meno che tu non sia un dj<br />

fenomenale come DJ Rupture. E io non lo sono.”). Successivamente scopre il<br />

lato urbano della world music (il pezzo illuminante è stato Vem Nha Nha del<br />

brasiliano Mr. Catra, che infatti fa da fulcro per l’intera interv<strong>is</strong>ta) e inizia a<br />

farsi attrarre dalle sue prerogative dance per il mondo occidentale.<br />

Niente in Mosca può prescindere dal groove. Qualsiasi sia la componente<br />

esterofila dei suoi pezzi, c’è sempre il gancio infallibile del giro melodico che<br />

rende ogni conqu<strong>is</strong>ta più facile. Eva Mendes è il suo cavallo di battaglia metropolitano,<br />

atmosfera elegante ma taglio netto e concreto che comanda in<br />

p<strong>is</strong>ta, mentre la coppia Dom Perignon / Orange Jack sfoggia l’estro che si può<br />

mettere in gioco nello schema <strong>house</strong> e un pezzo sulla carta minore come<br />

Murderous è una gemma di equilibrio fashion+beat che trasuda Londra da<br />

ogni poro. Qui in fondo non c’è molta filosofia da fare, i 4/4 sono il mezzo<br />

maestro per catturare il pubblico in modo immediato ed esaustivo, ed è<br />

questo un fine per cui si è d<strong>is</strong>posti a giocarsi qualsiasi carta, persino quella<br />

patinata di What You Came For, il rework di Bax fatto con una Katy B ormai<br />

popstar, nonché l’esordio ufficiale di Mosca su Rinse. Ci vuole anche faccia<br />

tosta, e alla Rinse nessuno può dar lezioni in merito.<br />

Quattro linee direttrici che raccontano una rinnovata attenzione verso la<br />

musica <strong>house</strong>, capace più di ogni altro genere di flettersi ed evolversi per<br />

qualsiasi esigenza. Che sia voglia di r<strong>is</strong>coprire la vecchia scuola delle emozioni<br />

oppure determinazione a ricreare energia clubbing per più pratiche<br />

necessità d’evasione, il movimento intorno alla cassa in quattro, regina incontrastata<br />

della p<strong>is</strong>ta praticamente da quand’è nata, è una delle tendenze<br />

più interessanti del momento. E non è un caso infatti che quattro dei nomi<br />

londinesi più sul pezzo in questo senso siano finiti nella crew storicamente<br />

più attenta all’underground UK. Tutti sembrano completamente d’accordo<br />

nel dire che non c’è mai stato momento migliore per la UK <strong>house</strong> di questo.<br />

Il bello è che lo si dice da alcuni anni ormai, ed c’è sempre una release che<br />

stabil<strong>is</strong>ce un nuovo apice.<br />

Tra la New Wave Of Techno che vi abbiamo raccontato e l’escalation <strong>house</strong> di<br />

cui sopra, sembra non esserci più spazio per altro negli ambienti veramente<br />

cool: col funky in declino, il footwork che sembra preferire la dimensione<br />

intellettuale, il dubstep che ormai è storia e la tangente modern beats<br />

ricch<strong>is</strong>sima di inventiva ma ancora poco apprezzata in p<strong>is</strong>ta, sembra che<br />

lo scettro dance l’abbiano ancora gli stili storici. Retromania? No, questa è<br />

voglia di ripartire, e i livelli di energia son troppo evidenti per considerarla<br />

semplicemente una fase di transizione. Fai tanto l’hipster sof<strong>is</strong>ticato sempre<br />

in cerca della dimensione alternativa e intanto non passa notte in questo<br />

2012 senza che un DJ europeo mandi Child.<br />

//HOUSE TEMPTATION: THE ESSENTIALS//<br />

Zinc - Sprung<br />

T Williams feat. Tendai - Think Of You<br />

Mosca - Eva Mendes<br />

George FitzGerald - Child<br />

D<strong>is</strong>closure feat. Sam Smith - Latch<br />

Julio Bashmore - Au Seve<br />

Gerry Read - Roomland (Youandewan Remix)<br />

Cooly G - Love Dub<br />

Maceo Plex - Fr<strong>is</strong>ky<br />

Maya Jane Coles - Nobody Else<br />

34 35


sanTo<br />

BarBaro<br />

Testo: Fabrizio Zampighi<br />

cAntAutorAto mutAnte<br />

Esce “Navi”, terzo d<strong>is</strong>co dei Santo<br />

Barbaro. Una buona occasione<br />

per ricostruire le vic<strong>is</strong>situdini<br />

di una formazione che del<br />

cantautorato sta facendo un<br />

linguaggio inedito e affascinante<br />

36 37


LA notte è un muro<br />

Al Cosabeat si arriva percorrendo una strada strett<strong>is</strong>sima che passa per la<br />

campagna forlivese. Da fuori, lo studio di reg<strong>is</strong>trazione di Franco Naddei ha<br />

l’aspetto di una vecchia casa colonica, confinata in un’area verde piuttosto<br />

rustica che sembra quasi fare da filtro naturale tra l’edificio e l’ambiente<br />

esterno. Il pomeriggio d’ottobre in cui arriviamo c’è un consapevole silenzio<br />

autunnale ad accoglierci nel giardino che circonda lo stabile. Una pace quasi<br />

irreale che sa di <strong>is</strong>olamento, nonostante il primo centro abitato sia solo a<br />

pochi minuti di macchina. Vien quasi da pensare che un d<strong>is</strong>co di artigianato<br />

autarchico come Navi, i Santo Barbaro, potessero concepirlo soltanto tra<br />

queste mura: dieci brani slegati da un’attualità musi<strong>cale</strong> che v<strong>is</strong>ta da qui<br />

sembra ancora più aliena, capaci indirettamente di rappresentare un viaggio<br />

nell’io più recondito di chi li ha partoriti. «Nel cantare ci metto me stesso,<br />

la mia vita, la mia incompiutezza. Non me vergogno. Dalla bocca esce ciò che<br />

sono» dichiarava qualche tempo fa a E20 Romagna l’altra metà del progetto<br />

Pieralberto Valli riferendosi alla peculiarità della sua voce e dei suoi testi.<br />

Eppure il d<strong>is</strong>corso potrebbe valere per tutta la poetica del gruppo, che incompiuta<br />

non è, ma certo procede senza freni in una ricerca formale febbrile,<br />

personale, mutevole, che non porta quasi mai dove ci si potrebbe aspettare.<br />

L’ultimo Navi è un chiaro esempio in questo senso, anche se a ben vedere è<br />

così fin dagli esordi per i Santo Barbaro. Quando esce Mare Morto, nel 2008,<br />

in formazione ci sono lo stesso Valli, Marco Frattini (batteria), Francesco Tappi<br />

(basso e contrabbasso) e Giacomo Toni (pianoforte e f<strong>is</strong>armonica) ma la<br />

sostanza non cambia. Già allora il linguaggio è composito, letterario, v<strong>is</strong>ivo<br />

e musi<strong>cale</strong> al tempo stesso (il CD esce inizialmente inserito in un libretto<br />

con i testi e accompagnato dalle foto di Francesco Fantini, per poi essere<br />

r<strong>is</strong>tampato dalla Ribess Records assieme a un libro di racconti - Un giorno<br />

passo e ti libero - indipendente dal d<strong>is</strong>co), per un lavoro che sanc<strong>is</strong>ce le linee<br />

guida del progetto su un ventaglio stil<strong>is</strong>tico comunque ricercato: «Il primo<br />

d<strong>is</strong>co era incentrato sul concetto di straniero, una sorta di concept involontario<br />

se vogliamo. Una riflessione sulla diversità, sui viaggi da una realtà all’altra, data<br />

anche da esperienze personali. In questo senso, la dicotomia Santo Barbaro ci<br />

piaceva e ci piace tutt’ora. Questo concetto rimane il cuore di tutto il d<strong>is</strong>corso:<br />

dove c’è una diversità, dove c’è anche d<strong>is</strong>accordo, c’è la possibilità che nasca<br />

qualcosa di nuovo».<br />

Il “barbaro” come personificazione della diversità, quest’ultima da santificare<br />

ed eleggere a manifesto programmatico. Sembra una banalità e invece<br />

non lo è, soprattutto in un mercato veloce e caotico come quello in cui ci<br />

troviamo ad operare, a suo modo spietato nel non dare v<strong>is</strong>ibilità a tutto ciò<br />

che non sia immediatamente targetizzabile e in linea con i tempi di assimilazione<br />

ridott<strong>is</strong>simi del web. Nel caso di Mare Morto l’universo musi<strong>cale</strong> di<br />

riferimento è una canzone d’autore elegante, parente alla lontana del jazz<br />

ma anche piacevolmente d<strong>is</strong>tesa nella r<strong>is</strong>coperta di un esotico che parte<br />

da certi accenni al Sud America per arrivare fino al Medio Oriente (Occhi<br />

immensi). In mezzo, riferimenti a esponenti di primo piano di un certo cantautorato<br />

moderno come Giancarlo Onorato (Santo Barbaro, Nuovi schiavi)<br />

e Marco Parente (Nero deserto), ma anche il Nick Drake di Three Hours<br />

(Guerre), certo blues in orbita Hugo Race (Cecità), pianoforti in stile Black<br />

Heart Procession (Noir) e persino post-rock (Mare morto). «Volevamo ridestare<br />

la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere allo stomaco di<br />

un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per scavare nella nostra coscienza e<br />

mettere in d<strong>is</strong>cussione la nostra percezione delle cose» dichiarava il gruppo al<br />

nostro Luca Barachetti ai tempi del primo d<strong>is</strong>co. Segno di una scrittura che<br />

prima di tutto è ricerca interiore e poi parto ad uso e consumo di terzi. Nei<br />

testi non c’è l’eleganza d<strong>is</strong>taccata di un Tenco o il narrare puntuale di un De<br />

Andrè - anche se Valli è un estimatore della produzione del genovese -, piuttosto<br />

una serie di input capace di aprire delle porte, comunicare sensazioni,<br />

lasciando all’ascoltatore la responsabilità di interpretare. Un procedere per<br />

immagini montate in ordine sparso e date in pasto attraverso una calligrafia<br />

in parte già riconoscibile e senza sbavature.<br />

Lorna, arriva l’anno successivo e fin<strong>is</strong>ce - immeritatamente, lasciatemelo<br />

dire - per passare quasi sotto silenzio. E’ sufficiente fare una breve ricerca<br />

su Google per rendersene conto: nel momento in cui scriviamo il celebre<br />

motore di ricerca dà come r<strong>is</strong>ultato sei recensioni in tutto - tra cui la nostra<br />

- e molte di queste non stanno sui principali siti internet di informazione<br />

38 39


musi<strong>cale</strong>. Un delitto, se si pensa a tutto il ben di Dio che c’è all’interno del<br />

d<strong>is</strong>co. Il secondo lavoro dei Santo Barbaro è una mezza rivoluzione, sia dal<br />

punto di v<strong>is</strong>ta musi<strong>cale</strong> che della line-up: della formazione originale rimane il<br />

solo Valli e tra i crediti, questa volta, troviamo Franco Naddei (Francobeat) e<br />

il pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta Diego Sapignoli (già Aidoru, Hugo Race, Sacri cuori, Pan<br />

del Diavolo, Vinicio Capossela). Il trio si dimostra la scelta migliore, vuoi per<br />

la caratura dei nuovi arrivati, vuoi per un’idea di canzone d’autore che qui<br />

si fa ancora più imprevedibile nei richiami. A dimostrazione un brano come<br />

Naufragio, vicino per indole all’ultimo Fabrizio De Andrè nella parte iniziale<br />

e poi inghiottito dalle chitarre elettriche o magari un Non balla nessuno<br />

voce-chitarra nei primi minuti e delirio di batteria ed elettronica in chiusura.<br />

Giusto, l’elettronica. Compare qui per la prima volta ed è una svolta piuttosto<br />

importante nell’ottica dell’evoluzione del gruppo. Come sottolinea del resto<br />

anche Naddei: «Lorna è stato una sorta di terra di mezzo. Su quel d<strong>is</strong>co io sono<br />

entrato a gamba tesa facendo comparire le prime cose elettroniche, elettronica<br />

che, alla fine, è un linguaggio che comunque possiede anche Pieralberto. In<br />

realtà, ho cercato di far venir fuori Pieralberto in un contesto diverso da quel<br />

cantautorato a cui si rifer<strong>is</strong>ce di solito, portandolo su altro pianeta. I brani di<br />

Lorna, alla fine, hanno comunque mantenuto un’identità basata su chitarravoce<br />

al centro e l’impianto strumentale attorno». Nel nostro caso due sono gli<br />

elementi che sottolineano uno scarto dec<strong>is</strong>ivo r<strong>is</strong>petto al primo d<strong>is</strong>co: da<br />

un lato un impianto musi<strong>cale</strong> flessibile, volutamente sfilacciato e mutante<br />

(ascoltatevi L’uomo del sogno) nel suo toccare l’ambient, il folk, la canzone<br />

d’autore, i ritmi sintetici con la stessa efficacia; dall’altro i testi di Pieralberto<br />

Valli, perfettamente adagiati negli spazi ampi concessi dalla musica, peculiari<br />

nella metrica e molto più evocativi r<strong>is</strong>petto agli esordi. O per meglio dire,<br />

poetici. Del resto in quale altra maniera potremmo definire versi come Lei<br />

incide i giorni sulle vene di un bosco / rincorre la neve sui camini fumanti / lei<br />

che ascolta le foglie vagare nomadi sulle colline / tu non sai le carovane di lupi<br />

che si nascondono nei silenzi dei vespri (Il vuoto) oppure Potrebbero mancare<br />

forse anche millenni / per chi mendica su croci improvv<strong>is</strong>ate / maledico l’uomo<br />

che sorride al mio specchio / il dolore che diventa passatempo /e se tu sei il<br />

padre perché non mi somigli / se tu sei il padre perché non premi il grilletto /<br />

che a me tremano un poco le gambe / nel vedere il destino che giunge su una<br />

scia di polvere (Su una scia di polvere)? E dire che lo stesso Valli, interrogato<br />

a proposito del suo stile nella scrittura, si scherm<strong>is</strong>ce dietro un «In realtà<br />

detesto scrivere i testi. Mi piace scrivere in libertà, senza vincoli, ma quando si<br />

tratta di calcolare le metriche e adattarle alla musica, faccio fatica. Di base, mi<br />

piacciono più la musica e la melodia».<br />

Lorna è il d<strong>is</strong>co che, in un mondo ideale, avrebbe dovuto sbancare alle Targhe<br />

Tenco. E invece passa veloce come l’acqua per finire presto nel dimenticatoio,<br />

lasciando tuttavia in eredità ai diretti interessati una serie di concerti<br />

utile per riflettere sulla direzione da imprimere al progetto. E’ ancora Naddei<br />

a parlare: «Portando in giro Lorna, ci siamo accorti che i concerti diventavano<br />

delle performance che cambiavano in continuazione. Se per esempio eravamo<br />

in un lo<strong>cale</strong> in cui prima di noi suonavano dub, poteva succedere che anche<br />

il nostro concerto guadagnasse qualche elemento dub. Qualsiasi brano,<br />

se è efficacie, lo si può girare in tutti i modi. Noi cerchiamo sempre di tendere<br />

a un’evoluzione. Se Pieralberto domani ven<strong>is</strong>se fuori con l’intenzione di fare il<br />

prossimo d<strong>is</strong>co con un gruppo di africani e senza di me, quelli sarebbero i nuovi<br />

Santo Barbaro».<br />

Senti la tempesta che cresce<br />

Ricerca formale, dicevamo. Per Navi, il terzo d<strong>is</strong>co della formazione romagnola,<br />

sarebbe meglio parlare di direzioni potenziali, attracchi possibili, futuri<br />

incerti. Come quelli suggeriti dal brano Nove navi, chiusura di s<strong>cale</strong>tta<br />

che lo stesso Valli elegge in realtà a manifesto del nuovo corso: «Il d<strong>is</strong>co è<br />

fondamentalmente autobiografico. Tutto parte dalla numerologia: nove sono<br />

le personalità, i destini. Le nove navi sono quindi i futuri potenziali, tra cui un<br />

individuo deve scegliere. Fuor di metafora, la direzione che deve prendere nella<br />

vita. Non ci sono appigli o consiglieri che ti dicano come muoverti, tutto dipende<br />

da te e la scelta ovviamente non è facile». Si parla di elettronica nei<br />

dieci brani del d<strong>is</strong>co: teutonica, razionale, ma anche aperta a ogni tipo di<br />

contaminazione. Con la canzone d’autore a far da filo conduttore, da chiave<br />

interpretativa, tanto che considerare Navi come un d<strong>is</strong>co di elettronica pura<br />

sarebbe quantomeno riduttivo, se non proprio un errore. I testi si fanno<br />

ancora più essenziali e r<strong>is</strong>icati r<strong>is</strong>petto al passato, in una fusione a freddo<br />

40 41


con la musica che cerca di privilegiare le fascinazioni suggerite dall’insieme,<br />

dai brani nella loro interezza. Lontani, per una volta, dalle inutili e vetuste -<br />

anche se spesso inevitabili, quando si parla di canzone d’autore - viv<strong>is</strong>ezioni<br />

tra parole e musica.<br />

Il d<strong>is</strong>co è un parto estenuante, iniziato da semplici demo chitarra e voce e<br />

arrivato, tra rimpalli e riletture infinite, a ciò si ascolta nel prodotto finito.<br />

Indice, quanto meno, della libertà creativa alla base del progetto. «Per me è<br />

stata una grande fatica» ci dice Pieralberto Valli «Sono arrivato in studio solo<br />

con i provini e abbiamo passato il tempo a smontare pezzo per pezzo quello<br />

che era stato fatto per costruire tutto il d<strong>is</strong>co sulla voce. Per Urania per esempio,<br />

abbiamo fatto quattro versioni finite e poi ne abbiamo scelta una. In tutto<br />

ci abbiamo lavorato un anno, con le pause inevitabili tra una reg<strong>is</strong>trazione e<br />

l’altra. La cosa difficile, quando lavori molto in studio, è che puoi fare qualsiasi<br />

cosa con i suoni». E’ Naddei il “barbaro” della situazione. Sua è buona parte<br />

della responsabilità per le macchine utilizzate nella parte più elettronica del<br />

lavoro. E infatti si procede sui binari atipici e creativi tipici del personaggio,<br />

lontan<strong>is</strong>simi dalle ultime tendenze e certamente poco interessati a sancire<br />

un’appartenenza stil<strong>is</strong>tica o ideologica certa. Anzi, si va esattamente nella<br />

direzione opposta, privilegiando il significato e lo svolgersi dei contenuti,<br />

piuttosto che una forma ment<strong>is</strong> riconoscibile e aggiornata: «Io [Franco Naddei,<br />

ndr] vengo dall’elettronica dei Depeche Mode in giù e ho quaranta anni.<br />

Non mi andava di competere con ragazzi giovani - su cui tra l’altro sarebbe stato<br />

molto difficile avere la meglio - che utilizzano il computer e due plug-in. Il mio<br />

linguaggio è semplicemente diverso. All’interno del d<strong>is</strong>co ci sono comunque<br />

riferimenti prec<strong>is</strong>i, come i Talk Talk e i Massive Attack ad esempio. Però è anche<br />

vero che nel momento in cui, in fase di scrittura, ci sembrava di essere troppo<br />

derivativi, abbiamo subito cambiato direzione cercando di suonare più originali<br />

possibili».<br />

Nulla che appaia d<strong>is</strong>persivo o raffazzonato - come del resto era già accaduto<br />

in Lorna -, piuttosto una v<strong>is</strong>ione della musica come linguaggio tout court, a<br />

trecentosessanta gradi, e non come atto strategico. L’obiettivo è raggiunto, a<br />

giudicare da un d<strong>is</strong>co che colleziona archi, pianoforte e basso, che concede<br />

enorme spazio ai synth e alle drum machine e che, nel contempo, mostra in<br />

alcuni dettagli un’indole sperimentale da coltivare. Nello specifico, i suoni<br />

percussivi in odore Einstürzende Neubauten ricavati dalle lamiere autocostruite<br />

di Jessica Stenta e perfettamente integrati nel tessuto sonoro. «Questo<br />

d<strong>is</strong>co è un po’ una scommessa, un parto travagliato, perché ognuno di noi<br />

due ha voluto osare qualcosa in più seguendo il suo linguaggio e stimolando<br />

l’altro a fare altrettanto».<br />

Chiudo gli occhi e non ricordo più<br />

Resta infine da chiedersi in che termini la proposta dei Santo Barbaro sia<br />

riconducibile o meno al mondo della canzone d’autore. Lo è per la profondità<br />

degli argomenti, per la vena poetica dei contenuti e per la sensibilità;<br />

non lo è (soprattutto ora) se il termine di paragone è l’estetica dei classici<br />

o dei figliocci copia carbone dei classici. Qui siamo a duemila anni luce da<br />

casa, con una band che si dimostra abile nel ridefinire un linguaggio, non<br />

solo a frequentarlo. Un elemento che si spiega con le dichiarazioni di un Valli<br />

debitore solo in parte - e in tempi recenti - verso l’immaginario condiv<strong>is</strong>o<br />

(«In realtà fino a Mare Morto non ho mai avuto nulla a che fare col cantautorato.<br />

Prima suonavo punk, elettronica, trip hop, post rock. Quando ho dec<strong>is</strong>o di<br />

passare ai testi in italiano mi sono guardato un po’ intorno e ho cominciato ad<br />

ascoltare i cantautori, in particolare De Andrè») e ancor più con quelle di Franco<br />

Naddei: «Tra i cantautori apprezzo soprattutto Lucio Dalla, che era davvero<br />

avanti. Le riv<strong>is</strong>itazioni moderne di cantautorato mi lasciano piuttosto freddo.<br />

Le trovo eccessivamente ripetitive r<strong>is</strong>petto ai modelli originali. In generale, il<br />

cantautorato l’ho sempre v<strong>is</strong>to come un binario morto, in cui a spiccare sono<br />

in poch<strong>is</strong>simi. Anche i tentativi di svecchiamento del genere non sono sempre<br />

efficaci, come dimostrano produzioni di gente come Leonard Cohen negli anni<br />

Ottanta. Credo che il linguaggio cantautorale debba essere reso potente e originale<br />

da quello che sei tu, non tanto prendendo ad esempio qualche modello<br />

precedente a cui per forza di cose si fin<strong>is</strong>ce per rimanere troppo attaccati».<br />

Un ragionamento che non fa un piega, se ci pensate, ma quanti lo mettono<br />

davvero in pratica? Soprattutto negli ultimi tempi, da quando la new wave<br />

del cantautorato si è riguadagnata uno spazio notevole negli ascolti del<br />

pubblico e, proprio per questo, è forse capitolata in una sclerotizzazione<br />

(per quanto spesso gradevole) dal punto di v<strong>is</strong>ta estetico e delle finalità.<br />

Da quel Vasco Brondi/Le luci della centrale elettrica - tanto b<strong>is</strong>trattato ma<br />

alla fine fondamentale nell’aprire un varco negli appetiti cantautorali del<br />

nuovo pubblico con il suo Canzoni da spiaggia deturpata - in poi, è tutto un<br />

ritorno di sonorità nostalgiche pensato per ascoltatori forse non del tutto<br />

consapevoli, talvolta fin troppo accond<strong>is</strong>cendenti. E allora non si sfugge<br />

nemmeno alla domanda inevitabile sullo stato di salute della cosiddetta<br />

“scena italiana”, a cui Naddei r<strong>is</strong>ponde con una chiosa che idealmente chiude<br />

il nostro percorso: «Di sicuro ora c’è più libertà. E la libertà ha lati positivi e negativi.<br />

Fare d<strong>is</strong>chi oggi costa poch<strong>is</strong>simo e questo ovviamente permette a molte<br />

cose belle di emergere ma anche a molte cose brutte. Il giudizio sulla proposta<br />

musi<strong>cale</strong> ormai lo dà la fruizione del pubblico. A volte il mondo indipendente è<br />

schiavo dell’estetica molto più del mondo major. Ci sono molti gruppi che sono<br />

nella posizione in cui sono perché se lo meritano e molti altri per cui invece<br />

questo ragionamento non vale. Non so. Senti certi testi che citano “You Tube” o<br />

“Berlusconi” e se da un lato identifichi tutto questo in un meccan<strong>is</strong>mo generazionale,<br />

dall’altro ti rendi conto che questo tipo di musica è destinata a invecchiare<br />

all’<strong>is</strong>tante. E’ musica morta, scaduta in partenza. Io ho seguito il sogno “pop”<br />

per anni facendo pali e traverse per etichette anche grosse. Alla fine non se ne<br />

è fatto nulla, però nel momento in cui ho dec<strong>is</strong>o di smettere di voler piacere a<br />

tutti i costi, musicalmente sono rinato».<br />

42 43


— cd&lp<br />

Recensioni<br />

dicembre<br />

(etre) - AbitAColo oStile (2006-2001)<br />

(privileged to FAil, novembre 2012)<br />

Genere: abstract<br />

Una vera e propria parata di all-star, Abitacolo Ostile. Con<br />

un incipit del genere però, si corre il r<strong>is</strong>chio di spostare<br />

l’attenzione, guadagnat<strong>is</strong>sima nel corso degli anni e<br />

degli album, da (etre), sigla dietro cui si cela Salvatore<br />

Borrelli, uno dei music<strong>is</strong>ti più sensibili e meno valutati<br />

del panorama non solo nazionale.<br />

Dieci composizioni in ensemble (con una pletora di<br />

ospiti nazionali e internazionali) reg<strong>is</strong>trate qualche anno<br />

addietro e confezionate solo ora, in cui (etre) omaggia<br />

altrettanti cap<strong>is</strong>aldi della cultura più trasversale e<br />

ricercata. Ognuna delle quali rende appieno lo spirito<br />

dell’omaggiato, rielaborando sensazioni e suggestioni<br />

provenienti dall’arte, filmica, pittorica, letteraria o musi<strong>cale</strong>,<br />

di ognuno di essi.<br />

La d<strong>is</strong>gregazione del non-suono che rimanda alla filosofia<br />

dell’”eternità di tutti gli essenti” di Severino (L’Avenir Se<br />

Prend-il Dans L’Origin con Zero Centigrade, The North<br />

Sea e Sascha Neudeck); la fratturata ritmica del jazz rimanda<br />

all’infrazione ayleriana (Goodbye Dragon Hymn<br />

insieme a Zavoloka, Valerio Cosi, Xabier Iriondo, Elio<br />

Martusciello e Donato Epiro); l’accumulo bambinesco<br />

e parodico di voci infantili su tappeti cinematici che tira<br />

in ballo lo humour nero di Todd Solondz (Unquiet Night<br />

In The Intermediary D<strong>is</strong>tance col supporto di Lucky Dragons,<br />

My Jazzy Child e Nobuko Hori); la stasi estatica fatta<br />

di fruscii e piccole rifrazioni in omaggio all’arte filmica<br />

di Kiyoshi Kurosawa (Petrified By The Sun In Convalescence<br />

And The Long Departed Lover, insieme a Midori Hirano<br />

e Moskitoo) non solo che esempi di un procedere che è<br />

prima “ideologico” che strettamente musi<strong>cale</strong> e che trova<br />

nella controparte sonora - collag<strong>is</strong>tica, astratta, deviata<br />

e mutante - una sua definizione totalizzante.<br />

Ascoltatelo con la richiesta e dovuta attenzione e lasciatevi<br />

trascinare dalle volute architettate da Borrelli. Dopo<br />

di che sbrigatevi ad accaparrarvi una delle purtroppo<br />

sole 150 copie.<br />

(7.2/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

A C newmAn - Shut down <strong>the</strong> StreetS<br />

(mAtAdor, ottobre 2012)<br />

Genere: pop rock<br />

Nel terzo lavoro sol<strong>is</strong>ta di A.C. Newman - due anni abbondanti<br />

dopo il buon Get Guilty - avverti una specie<br />

di entusiastica rassegnazione. Il buon Carl sembra infatti<br />

arrendersi all’inevitabile: per quanto genuinamente tenti<br />

di abbozzare un percorso sol<strong>is</strong>tico, è innanzitutto il leader<br />

dei New Pornographers, quella la cifra espressiva<br />

e l’orizzonte stil<strong>is</strong>tico. D’altro canto, si muove in questa<br />

falsariga senza pigrizia, fa perno sulla padronanza per<br />

approfondire e svariare, con generosità. Nelle dieci tracce<br />

di Shut Down The Streets non azzecca mai l’impasto<br />

killer, però riesce sempre a mantenersi su un livello di<br />

piacevolezza arguta, vivace, a tratti persino raffinata.<br />

Accanto ai consueti pedaggi Beach Boys (lo slancio frugale<br />

di Do Your Own Time, le trovate e gli struggimenti a<br />

fuoco lento di They Should Have Shut Down The Streets), ai<br />

divert<strong>is</strong>sement power-pop (l’incalzante Encyclopedia Of<br />

Classic Takedowns, ospite Neko Case ai cori), alle glasse<br />

60s (There’s Money In New Wave, I’m Not Talking) e alle<br />

gelatine remmiane (Hostages), capita infatti d’incontrare<br />

miraggi desertici come Wasted Engl<strong>is</strong>h, valzerini sghembi<br />

punteggiati di loop sintetici (You Could Get Lost Out Here)<br />

oppure trepidazioni traditional (mandolino, clarinetto,<br />

tuba...) come The Troubadour.<br />

Ok, Newman non sarà un grand<strong>is</strong>simo e tende un po’ a<br />

ripetersi ormai, ma una cosa possiamo sostenerla senza<br />

remore: la sua proverbiale immediatezza è una trama<br />

di complessità r<strong>is</strong>olte grazie ad una fervida m<strong>is</strong>cela di<br />

attitudine e talento. Appena un gradino sotto al genio.<br />

(7/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

AdriAn Crowley - i See three birdS<br />

Flying (ChemikAl underground reCordS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: folk sonGwritinG<br />

Il sodalizio tra Chemikal Underground e Adrain Crowley<br />

iniziato nel 2009 continua con il sesto d<strong>is</strong>co del cantautore<br />

di origine maltesi ma cresciuto a Galway, una delle<br />

mille capitali del folk irlandese. Della voce si è già scritto<br />

tutto, basta leggere la recensione di Season of <strong>the</strong><br />

Andrew bird - hAndS oF glory (mom And pop, novembre 2012)<br />

Genere: folk rock<br />

Un d<strong>is</strong>co così non te lo aspetteresti da quel meditabondo perfezion<strong>is</strong>ta che r<strong>is</strong>ponde al<br />

nome di Andrew Bird. Appena otto mesi sono passati dalla pubblicazione di Break It<br />

Yourself, del quale il qui presente Hands Of Glory rappresenta una sorta di appendice<br />

basale. Il materiale proviene dalle stesse sessioni, ma lo spirito è rilassato, amichevole,<br />

ruspante. Scosso da slanci appalachiani, scorticato d’irrequietezza errebì e indolenzito<br />

di trasporto gospel. Riuscendo comunque - anzi forse proprio per questo - ad azzeccare<br />

inedite combinazioni di profondità e rarefazione.<br />

Quattro le cover, il rodeo zompettante del traditional Railroad Bill (dove Bird sbriglia<br />

l’estro al fiddle), l’ombrosa When The Helicopter Comes dei The Handsome Family, una<br />

agrodolce Spirograph dal repertorio degli Alpha Consumer e quella If I Needed You firmata Townes Van Zandt il<br />

cui lir<strong>is</strong>mo stratificato ci ricorda i Byrds del riflusso spiritual/country: sembrano dichiarazioni di non appartenenza<br />

alle rapide del presente, come il passo dell’amico che resta indietro e che ti mette una mano sulla spalla facendoti<br />

sussultare. Non si tratta però di abbracciare la causa del passato per smarcarsi snob<strong>is</strong>ticamente dall’attualità,<br />

semmai di sposare una dimensione espressiva che sia tanto più avulsa quanto più stringente. E per farlo non c’è<br />

una formula, una ricetta, un manuale d’<strong>is</strong>truzioni: somiglia più ad un sortilegio, che in qualche modo ti fa toccare<br />

le corde di un archetipo. Lo stesso che miracolava la Band nella casa rosa e marezzava d’entusiasmo il primo Tim<br />

Buckley: l’inspiegabile capacità evocativa d’una m<strong>is</strong>tura folk, errebì e gospel lasciata fermentare in un caldo, fiero,<br />

spontaneo <strong>is</strong>olamento art<strong>is</strong>tico.<br />

E’ quello che senti nella prosciugata rilettura di Orpheo Looks Back (qui semplicemente Orpheo) e nei notevoli inediti:<br />

una Something Biblical che procede con garbo commovente e tenace, l’iniziale Three White Horses con le caligini<br />

country e le vibrazioni Arcade Fire, la conclusiva chiusura del cerchio di Beyond <strong>the</strong> Valley Of The Three White Horses,<br />

col suo lungo crepuscolo di suggestioni camer<strong>is</strong>tiche e fatamorgane di celluloide. Questo d<strong>is</strong>co ribad<strong>is</strong>ce la statura<br />

di Andrew Bird mettendo sul piatto nuovi indizi e prospettive inattese. Ed è solo un’appendice.<br />

(7.4/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

Sparks firmata da Teresa Greco. Qui basti aggiungere<br />

che l’attacco dell’iniziale Alice Among The Pines fa pensare<br />

immediatamente a Charlie Fink dei Noah And The<br />

Whale, che vengono richiamati anche per altre particolarità<br />

stil<strong>is</strong>tiche.<br />

Il percorso intim<strong>is</strong>tico e bucolico già segno di fabbrica<br />

di un autore che si è oramai rassegnato a essere definito<br />

“serio” dalla stampa irlandese e britannica (“è impossibile<br />

toglierti di dosso un’etichetta quando te la mettono<br />

addosso all’inizio della carriera”), qui si fa più umbratile,<br />

come sottolineato anche dalla brughiera al confine tra<br />

il magico e il tragico ritratta in copertina. Le canzoni di<br />

Crowley sono fatte di poco o niente: qualche accordo<br />

di chitarra, qualche raro fiato (The Mock Wedding), pochi<br />

tocchi di tastiera (The Morning Bells) e su tutto un canto<br />

che non lascia indifferenti, specialmente se ascoltato in<br />

un pomeriggio invernale.<br />

I quadri bucolici, ma soprattutto la personale descrizione<br />

di Dublino (From Champion Avenue to M<strong>is</strong>ery Hill) fanno<br />

pensare a Dickens o, per meglio rimanere in territorio<br />

irlandese, il Joyce di The Dubliners. Allora i riferimenti<br />

si fanno chiari (irlandesità profonda e sofferta, povertà,<br />

campagna e pioggia, il folk) per un gemello di Neil<br />

Hannon che ha scelto la brughiera e la riflessione alla<br />

città e all’ironia. La materia che trattano, però, è la stessa:<br />

l’animo umano di fronte al precipizio della vita.<br />

(7.1/10)<br />

mArCo boSColo<br />

AdriAno modiCA - lA SediA (CArdio A<br />

dinAmo, novembre 2012)<br />

Genere: canzone d’autore<br />

E’ un d<strong>is</strong>co che colp<strong>is</strong>ce senza far rumore, il nuovo di<br />

Adriano Modica. Diversamente da quanto accadeva nei<br />

due ep<strong>is</strong>odi precedenti, La sedia rinuncia a un approccio<br />

immediato e diretto (pop?), delegando al secondo<br />

o al terzo ascolto (almeno) il compito di d<strong>is</strong>tricare tutti<br />

i fili. Non che la materia sia ostica, tutt’altro. La ragione<br />

è da ricercare invece nelle aspirazioni di un lavoro a<br />

suo modo “orchestrale”, allentato, capace di rinsaldare<br />

44 45


il legame profondo di Modica con la canzone d’autore<br />

ma anche di esplorare una dimensione nuova per<br />

quella psichedelia sognante ormai marchio di fabbrica<br />

del music<strong>is</strong>ta. «La sedia è fermarsi, darsi una calmata e<br />

guardare al passato per non dimenticarsi di essere stati<br />

vivi, al presente per preoccuparsi e chiedersi il perché e al<br />

futuro per ricordarsi che c’è sempre un’altra possibilità per<br />

fare meno schifo. Considero il coltivare la memoria come la<br />

base di un progresso sano, sottintendendo per progresso la<br />

rielaborazione delle cose in funzione del benessere e non la<br />

manipolazione del concetto di benessere in funzione delle<br />

cose. Non imparare dagli sbagli è al di sotto persino delle<br />

bestie».<br />

La trilogia inaugurata dai due lavori pubblicati in passato<br />

trova quindi compimento: dall’infanzia (la stoffa<br />

morbida e confortevole di Annanna), all’adolescenza<br />

(la pietra dura della realtà esemplificata da Il fantasma<br />

ha paura), all’età matura qui rappresentata dal legno,<br />

materiale caldo e comunque vivo. Si fa pace con i mostri<br />

della vita reale, insomma, affrontandoli finalmente con<br />

occhi diversi.<br />

Un concept sui tempi moderni? Probabilmente si, ma<br />

alla maniera di Modica. Il che significa d<strong>is</strong>torcere il punto<br />

di v<strong>is</strong>ta fino a interiorizzarlo in un grandangolo autobiografico<br />

sfumato, grazie soprattutto a una musica<br />

che gioca con gli spazi vuoti, le pause, gli arrangiamenti<br />

articolati. Con la poetica dei testi che segue a ruota: non<br />

più le fotografie oniriche ma essenzialmente descrittive<br />

dei “cassetti chiusi a chiave” di qualche anno fa, piuttosto<br />

suggestioni da cogliere, espression<strong>is</strong>mo slegato dalla<br />

consecutio temporum. Se Che mi dai è il brano più cinematografico<br />

e l<strong>is</strong>ergico del lotto con i suoi cerchi concentrici<br />

di fagotto, mellotron e voci, l’iniziale Alieni è il<br />

Modica più familiare, Almeno il cielo è sempre uguale è<br />

l’Italia musi<strong>cale</strong> in bianco e nero di cinquanta anni fa, Il<br />

divano mescola Syd Barrett e un’indole da brass band,<br />

L’albero delle mollette è cabaret in stile Liza Minnelli traviato<br />

dai Beatles (con la chiusura affidata agli intrecci<br />

vocali del “Coro acrobatico delle voci nell’armadio”).<br />

Quel che rimane di un d<strong>is</strong>co reg<strong>is</strong>trato in analogico,<br />

ambizioso (numeros<strong>is</strong>simi i contributi strumentali, dal<br />

timpano al vibrafono, dal clavicembalo agli ottoni, dal<br />

flauto dolce agli archi) e a cui partecipa con un cameo<br />

anche quel Duggie Fields nel ‘69 coinquilino del Barrett<br />

già citato, è il m<strong>is</strong>to paradossale di classic<strong>is</strong>mo ed<br />

estrema libertà formale che si respira al suo interno. A<br />

dimostrazione che la personalità, quando c’è, non ha<br />

b<strong>is</strong>ogno di effetti speciali o di trucchi da imbonitore.<br />

(7.2/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

AeroSmith - muSiC From Ano<strong>the</strong>r<br />

dimenSion! (ColumbiA reCordS, novembre<br />

2012)<br />

Genere: tamarrock+ballads<br />

Nati ad inizio anni ‘70 come band di culto all’ombra dei<br />

giganti del rock (dai Led Zeppelin ai Rolling Stones),<br />

gli Aerosmith riuscirono a lasciare una traccia importante<br />

(Toys In The Attic e Rocks) appena prima dell’arrivo<br />

dello spazzino chiamato punk. Letteralmente a pezzi<br />

e autori di prove indecorose nella prima metà degli<br />

anni ‘80, Steven Tyler e compagni (all’epoca i chitarr<strong>is</strong>ti<br />

Perry e Whitford abbandonarono la causa per qualche<br />

anno) tornarono sulla cresta dell’onda, aggrappandosi<br />

alle spalle dell’esplosione glam/hair (e di MTV), con<br />

gli album Permanent Vacation e Pump, prima tuffarsi<br />

nei ‘90 con ballate strappalacrime di successo (Amazing,<br />

Cryin’ e poi I Don’t Want to M<strong>is</strong>s a Thing).<br />

Anni zero praticamente nulli, tanto che l’ultimo album<br />

vero e proprio (il dimenticabil<strong>is</strong>simo Just Push Play) r<strong>is</strong>ale<br />

addirittura ad undici anni fa, seguito poi da problemi<br />

di varia natura, cover e uscite minori. Si ripresenano<br />

nel 2012 con Music from Ano<strong>the</strong>r Dimension!, album<br />

che sulla carte avrebbe dovuto rappresentare il grande<br />

comeback sulla scena mondiale.<br />

Purtroppo per loro, partendo dall’artwork old-style (e<br />

dec<strong>is</strong>amente primi-883), è chiaro fin da subito che gli<br />

Aerosmith non riescono a b<strong>is</strong>sare quanto fatto dagli<br />

AC/DC qualche anno fa: la riproposizione, quasi caricaturale,<br />

di se stessi è la medesima, ma manca il tiro<br />

giusto... e non solo.<br />

L’album infatti si apre con LUV XXX, introdotta da un d<strong>is</strong>corso<br />

da datato sci-fi movie è il classico riff-orama hard<br />

bello ritmato con chorus che rimanda a Love In a Elevator,<br />

Steven però appare d<strong>is</strong>tante e fiacco, protagon<strong>is</strong>ta<br />

- un po’ come su tutto il d<strong>is</strong>co - di una ricercata energia<br />

ormai persa (si pensi all’ultimo Kied<strong>is</strong>).<br />

Rock-blues tamarro (tra Stones e AC/DC) come Oh Yeah<br />

o la decente Legendary Chid (ad un certo punto è impossibile<br />

non pensare a Sweet Emotion), aperture corali<br />

insensate (Beautiful, dove Tyler insegue Mat<strong>the</strong>ws Shadows<br />

degli Avenged Sevenfold), autocitazion<strong>is</strong>mi vari<br />

(le chitarre+fiati di Out Go The Lights) e tentativi speed<br />

che non vanno da nessuna parte (Street Jesus)<br />

Poi ci sono loro, ovviamente, le cheesy-ballads languide<br />

da rimorchio: la semiacustica Tell Me, We All Fall Down, la<br />

pacchian<strong>is</strong>sima (telefilm anni ‘90 dietro l’angolo) What<br />

Could Have Been Love? e il d<strong>is</strong>astro annunciato di Can’t<br />

Stop Loving You, un pezzo alla ultimo Kid Rock in compagnia<br />

dell’ex-reginetta del country-pop Carrie Underwood,<br />

negli anni soppiantata da Taylor Swift. Chiude<br />

Ano<strong>the</strong>r Last Goodbye (co-scritta da Desmond Child,<br />

eAgle twin - <strong>the</strong> FeA<strong>the</strong>r tipped <strong>the</strong> Serpent’S SCAle (Sou<strong>the</strong>rn lord, ottobre 2012)<br />

Genere: post stoner<br />

Non è dato sapere se il messaggio criptico (e non avrebbe potuto essere altrimenti)<br />

rilasciato dagli Eagle Twin al termine delle reg<strong>is</strong>trazioni di The Fea<strong>the</strong>r Tipped <strong>the</strong> Serpent’s<br />

S<strong>cale</strong> - “questo d<strong>is</strong>co segna il termine di un lungo e oscuro processo di ricerca, per<br />

tutte le persone coinvolte nel progetto..” - significhi la fine di un’era (o la fine del tutto).<br />

Ipotizziamo che loro, sconfortati dalla poca considerazione a fronte di una carriera sinceramente<br />

titanica, abbiano optato per una legittima riflessione: continuare o dichiarare<br />

terminato il proprio excursus musi<strong>cale</strong>? Gli eventi ce lo diranno ma, nel frattempo,<br />

non possiamo non rilevare come quest’ultimo lavoro del gruppo sia uno dei d<strong>is</strong>chi di<br />

metal estremo più interessante degli ultimi anni.<br />

Una radice ultra core e doom nella loro storia (provengono dai seminali Iceburn e Ascend) e la forza di <strong>is</strong>olarsi<br />

dall’universo per penetrare i m<strong>is</strong>teri dell’occulto, hanno permesso al duo di Salt Lake City di sviluppare un concept<br />

a partire dal già significativo debutto The Unkindness of Crows, che oggi esplode in tutta la sua soffocante meraviglia.<br />

E per l’occasione, la produzione di Rundall Dunn ha significato l’aggiunta di un terzo uomo, di un concepteur<br />

d’elite, in grado di trasmettere alla band le regole soniche già applicate ai Wolves In The Throne Room, agli Earth<br />

e ai Bor<strong>is</strong>.<br />

Descrivere gli Eagle Twin oggi è praticamente impossibile se non partendo proprio dai Wolves In The Throne<br />

Room dai quali la band eredita, non tanto il caos pagano della radice black metal, quanto la violenza oscurant<strong>is</strong>ta<br />

del doom estremo. Ma sarebbe limitativo definirli una doom band. Anzi, sarebbe fuorviante. Provate ad immaginare<br />

la fusione di Earth, Slayer e Pentagram, polverizzare il r<strong>is</strong>ultato in una macina composta dalle mole monolitiche<br />

di Mayhem e Saint Vitus e, infine, immaginare il r<strong>is</strong>ultato soffiato nell’oscurità del cosmo. Sarete vicini alla poetica<br />

maledetta di una Ballad Of Job Cain div<strong>is</strong>a in due parti, continuamente altalenate tra drumming epici, spoken<br />

gutturali, lastre di doom siderurgico e stomp gong alla Bongripper.<br />

Ancor di più in Lorca, sembra di avvicinarsi nuovamente alle prime note del debutto dei Black Sabbath, ma sconvolto<br />

dall’ascet<strong>is</strong>mo malefico dei Bong e dalla marzialità neuros<strong>is</strong>iana. Gli Eagle Twin non solo hanno coraggio,<br />

ma anche un progetto musi<strong>cale</strong> solido e inattaccabile che sublima nell’apocal<strong>is</strong>se Coleridgiana di Snake Hymn, in<br />

cui si materializza l’incubo dronico dei Sunn O))) prima che il break tipico degli Slayer di Angel Of Death squarci<br />

il velo e apra a una danza sacrifi<strong>cale</strong> violent<strong>is</strong>sima. Niente da dire, gli Eagle Twin hanno scritto una delle migliori<br />

pagine di doom core degli ultimi anni.<br />

(8/10)<br />

mArio ruggeri<br />

storico filo conduttore tra Aerosmith e Bon Jovi).<br />

Considerando il livello di Music from Ano<strong>the</strong>r Dimension!<br />

speriamo sia davvero un sincero “last goodbye”:<br />

gli Aerosmith del 2012 hanno tutti i sintomi di una <strong>is</strong>pirazione<br />

che non c’è e di un attaccamento mania<strong>cale</strong> a<br />

certi stereotipi (loro, in prim<strong>is</strong>) legati inevitabilmente al<br />

passato e forzatamente riproposti fino allo sfinimento<br />

(l’album, tra le altre cose, è fin troppo lungo) nel segno<br />

dell’obsolescenza.<br />

(4.4/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

AllAh-lAS - AllAh-lAS (innovAtive leiSure,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: 60’ GaraGe<br />

Il debutto di questo quartetto losangelino per Innovative<br />

le<strong>is</strong>ure è un’esperienza totalizzante. Come chiudere<br />

gli occhi ed entrare nella macchina del tempo destinazione<br />

West Coast, la San Franc<strong>is</strong>co garage e surf dei ‘60<br />

e di Greg Shawn: Nuggets, Bomp, tutta quella roba lì. Ci<br />

siamo arrivati alla fine, un retrò completamente identico<br />

al vintage.<br />

Viene da chiedersi come faccia a piacere un d<strong>is</strong>co così<br />

nel 2012, perché indubbiamente piace. La r<strong>is</strong>posta è in<br />

realtà abbastanza semplice, gli Allah-Las hanno trovato<br />

la ricetta perfetta: evirare il garage di cui sopra della sua<br />

componente rock’n’roll, sostituendola con il jingle jangle<br />

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dei Byrds e il surf dei Beach Boys. D’altronde fare garage<br />

oggi pare davvero diventato sinonimo di saccheggio,<br />

quindi tanto vale razziare dai Byrds e dai Beach boys che<br />

piacciono a tutti giusto? E se due più due fa quattro, un<br />

fac-simile con sapore alla Youger than Yesterday dovrebbe<br />

quantomeno essere gradevole, fosse anche solo<br />

un quarto dell’originale andrebbe ben<strong>is</strong>simo. Ragionamento<br />

perfetto, funziona proprio così.<br />

Gli Allah las hanno il merito di padroneggiare bene la<br />

materia, di far scorrere queste dodici tracce senza intoppi,<br />

di far vorticare di atmosfere svagate, leggere psichedelie<br />

e spiaggie in salsa lounge con assoluta naturalezza,<br />

permettendosi anche di uscire dai binari con la bossa<br />

nova di Ela Navega. Qualcosa di simile l’avevano fatto un<br />

paio d’anni fa i Fresh & onlys con Play it strange, ma<br />

qui la copia è di fedeltà assoluta. Si fin<strong>is</strong>ce col rimuginare<br />

il ritornello “beh cosa ci vuole, lo potevo fare anch’io”. E<br />

invece l’hanno fatto loro, onore al merito.<br />

(6.8/10)<br />

SteFAno gAz<br />

Anthony phillipS - City oF dreAmS<br />

(voiCeprint, diCembre 2012)<br />

Genere: musica elettronica<br />

Confacendosi a meraviglia col significato della collana<br />

Private Parts and Pieces, anche l’undicesima edizione della<br />

raccolta si rivela espletazione di spunti e annotazioni<br />

dec<strong>is</strong>amente privati; la musica elettronica qui affrontata<br />

da Phillips è - più che in passato - soliloquio d<strong>is</strong>interessato<br />

a considerare l’es<strong>is</strong>tenza di un qualsiasi sottogenere<br />

nato e cresciuto negli ultimi quarant’anni (da quando<br />

cioè, l’elettronica fece breccia sul mercato popolare grazie<br />

ai vari Morton Subotnick e Walter Carlos).<br />

City Of Dreams rinuncia momentaneamente al mood<br />

acustico delle opere più note di Ant d<strong>is</strong>costandosi pure<br />

dalle recenti dolcezze orchestrali in coppia con Andrew<br />

Skeet in Seventh Heaven. R<strong>is</strong>ultato di queste investigazioni<br />

sono trentuno acquerelli che alternano pacificazioni<br />

ambient (Watching While You Sleep, Coral Island, Astral<br />

Bath) a soluzioni strumentali vicine per enfasi v<strong>is</strong>iva al<br />

mondo delle colonne sonore, a cui si aggiungono alcuni<br />

ep<strong>is</strong>odi di scherzoso stordimento (la titletrack).<br />

Nei momenti più riusciti si gioca seriamente alla sottrazione,<br />

evocando paesaggi di indubbia profondità come<br />

nel caso di Desert Flower. Nella mancanza di un filo conduttore<br />

che leghi insieme una canzone alla successiva<br />

c’è spazio anche per uno scampolo tastier<strong>is</strong>tico più convenzionale<br />

e lì il profession<strong>is</strong>ta sa commuovere con una<br />

progressione di accordi di meticolosa semplicità (Air &<br />

Grace). King Of The Mountains parte con l’enfasi fluida<br />

del tipico Vangel<strong>is</strong> cinematografico per sovraincidere<br />

un assolo di chitarra elettrica che rimanda al Göttsching<br />

di fine Anni ‘70. I guai si odorano quando è selezionato<br />

sul synth un timbro oltremodo datato (Piledriver) o<br />

nell’azzardo di frenesie robotiche sprovv<strong>is</strong>te del giusto<br />

ingranaggio (lo schizzo jungle Night Train To Novrogod).<br />

Il tutto - va ribadito senza che questa voglia r<strong>is</strong>ultare<br />

necessariamente un merito - senza il benché minimo<br />

criterio commerciale.<br />

Se ce ne fosse b<strong>is</strong>ogno, Phillips ribad<strong>is</strong>ce al mercato e<br />

ai suoi fedel<strong>is</strong>simi l’assoluto d<strong>is</strong>interesse nel dare alle<br />

stampe un prodotto che non riproduca tale e quale il<br />

suo estro del momento. Davvero indipendente, a tutto<br />

e a tutti.<br />

(6.9/10)<br />

Filippo bordignon<br />

AntibAlAS - AntibAlAS (dAptone reCordS,<br />

AgoSto 2012)<br />

Genere: afrobeat<br />

Sono passati 5 anni dal precedente Security nel quale il<br />

collettivo di Brooklyn aveva spinto i propri limiti stil<strong>is</strong>tici<br />

fin quasi oltre l’afrobeat nel cui ritorno in auge aveva<br />

giocato un ruolo non secondario e al quale qui torna,<br />

<strong>is</strong>pirato in parte dall’aver lavorato al musical Fela!, in parte<br />

dal ritorno al banco della produzione dell’ex-membro<br />

Gabe Roth (anche produttore dei primi 3 d<strong>is</strong>chi).<br />

Il gruppo infatti ricompatta le linee tornando ad una più<br />

stretta osservanza del manuale, dalla quale però riparte<br />

cercando la novità altrove, quasi più dall’interno che non<br />

nella contaminazione.<br />

I riff di chitarra e di organo acqu<strong>is</strong>tano infatti maggiore<br />

centralità r<strong>is</strong>petto a prima, guidando il flusso musi<strong>cale</strong><br />

ampiamente d<strong>is</strong>piegato nella durata lunga dei brani e<br />

sostenuto dalla forza poliritmica dell’ensemble, questa<br />

affidata anche a fiati in contrappunto e ricamo ritmico:<br />

vedi l’apertura subito in ballo di Dirty Money, che rallenta<br />

solo leggermente in The Ratcatcher ma arriva vicino<br />

al reggae in Him Belly No Go Sweet, viaggia d<strong>is</strong>pari sulle<br />

stratificazioni ritmiche di Ari Degbe e Ibéji prima di ripartire<br />

nella frenetica apoteosi finale di Sáré Kon Kon col sax<br />

che si riprende il centro della scena tirando il tutto senza<br />

nessuna voglia di smettere.<br />

Per qualcuno è un paradosso che un gruppo occidentale<br />

sia così calato dentro una musica che nella terra e negli<br />

anni d’origine veniva suonata con un orecchio agli strumenti<br />

e l’altro alla porta da cui potevano irrompere militari,<br />

e vede in ciò la causa dell’assenza della tensione che<br />

animava i d<strong>is</strong>chi di Fela Kuti; ma i testi, che esprimono<br />

talvolta sotto metafora talvolta direttamente temi cari al<br />

movimento Occupy (per il quale hanno anche suonato,<br />

e si guardi anche il video della suddetta Dirty Money),<br />

holly herndon - movement (rvng intl., novembre 2012)<br />

Genere: experimental<br />

Movement, l’esordio di Holly Herndon, è una sorta di saggio anatomico: il corpo in relazione alla tecnologia e la<br />

decostruzione dello stesso allo stato pre-codificato. Più in generale è d<strong>is</strong>co ultra-concettuale, che passa in rassegna<br />

vari nerd<strong>is</strong>mi 90s (realtà virtuale, post-umanesimo, cyborg manifestoes e cyber-femmin<strong>is</strong>mo)<br />

per poi incasellarsi, estremamente contemporaneo, nel dual<strong>is</strong>mo fra tecnofobia<br />

e tecnofilia. Un dual<strong>is</strong>mo che in musica viene steso attraverso il doppio binario curriculare<br />

della nostra: da una parte il club come appreso dagli anni spesi in consolle a<br />

Berlino, dall’altra l’accademia come da laurea in Electronic Music and Recording Media<br />

al Mills College di San Franc<strong>is</strong>co e attuale dottorato a Stanford.<br />

Si parla quindi di laptop e composizione vo<strong>cale</strong> processat<strong>is</strong>sima, di combinazione fra<br />

gelide astrazioni avant-garde e techno v<strong>is</strong>cerale, di blend fra cerebrale e f<strong>is</strong>ico. Eppure<br />

i paragoni - logici ed immediati - con gli ultimi lavori di Actress e Laurel Halo sono<br />

riduttivi: la proposta della Herndon è ben più coraggiosa ed intenzionata ad abbattere muri e nozioni assodate. La<br />

stessa concezione di elettronica come “intrattenimento” è limitata in Movement a due ep<strong>is</strong>odi su sette, ovvero la<br />

cavernosa Fade - che suona come il r<strong>is</strong>ultato di una collab fra Ellen Allien, Andy Stott e i Knife dopo una v<strong>is</strong>ione<br />

di Ghost In The Shell - e l’acida, kinetica, Aphex Twin-esca titletrack. Ep<strong>is</strong>odi che non possono che essere letti come<br />

concessioni all’accessibilità, come antri in cui sciogliere la tensione.<br />

La maggior parte del d<strong>is</strong>corso è infatti estrema, ansiolitica, tenuta per <strong>is</strong>olamenti drastici degli elementi essenziali<br />

del grottesco, a tratti deliberatamente d<strong>is</strong>gustosa. È il caso di Brea<strong>the</strong>, in cui respiri, sospiri e ansimi sono microprocessati,<br />

tritati e deformati per il massimo d<strong>is</strong>agio; ancora di Dilato, controparte ideale dell’I Am Sitting In A Room<br />

di Alvin Lucier e della Numb di Stott, con la ripetizione del titolo affidata ad una bella voce outsider - quella del<br />

baritono classico Bruce Rameker - e condotta per via di time-stretching e pitch-shifting dal gutturale all’angelico,<br />

fino al totale, inquietante spoglio dei ruoli di genere.<br />

Movement è breve e d<strong>is</strong>giunto, ma non l’ennesima residenza per la sperimentazione incons<strong>is</strong>tente. La Herndon<br />

crede davvero nelle sue idee, la perseveranza che ci mette per realizzarle è palpabile e fa struttura da sè. Non solo:<br />

all’ascolto ripetuto vengono rivelati diversi livelli di profondità, tanto che dall’attrazione inconscia per l’orrorifico si<br />

arriva a rovescio alla sfera intima, quasi-sessuale. Come da concept, dalla antica (ma del tutto superata?) diffidenza<br />

e timore per tutto ciò che è tech, all’oggi dei device come estensione di noi stessi e della nostra espressione. Il lato<br />

sintetico della voce umana e quello organico della “musica fatta al computer” sono qui entrambi legittimati. Non<br />

è un d<strong>is</strong>co facile e non può esserlo, ma alla dedizione si rivela per ciò che è: arte.<br />

(7.5/10)<br />

mASSimo rAnCAti<br />

mostrano che si può guardare comunque il mondo sfruttando<br />

la prospettiva, certo più sicura ma diversa, offerta<br />

dal vivere al centro dell’Impero. Magari senza senso di<br />

pericolo, ma con “tiro” e <strong>is</strong>pirazione.<br />

(7.2/10)<br />

giulio pASquAli<br />

AtlAS geniuS - through <strong>the</strong> glASS ep<br />

(wArner muSiC group, novembre 2012)<br />

Genere: pop rock<br />

Ennesimo nome nuovo destinato al successo? Gli Atlas<br />

Genius sono tra le “next big things” della scena Australiana<br />

(recentemente vi abbiamo parlato dei Gypsy & The<br />

Cat e dei Collarbones) ed hanno tutte le caratter<strong>is</strong>tiche<br />

per fare breccia tra il pubblico figlio di O.C..<br />

La band è formata da Keith Jeffrey, Steven Jeffrey, Michael<br />

Jeffrey e Darren Sell e se siete stati abbastanza attenti<br />

vi starete chiedendo “ma sono fratelli?”. R<strong>is</strong>posta affermativa,<br />

tanto che qualcuno li ha già etichettati come i Kings<br />

Of Leon australiani, non solo per alcune sfaccettature<br />

vocali di Keith.<br />

Gli Atlas Genius escono per la Warner Bros e non sorprende<br />

quindi che stiano già iniziando a ricevere un d<strong>is</strong>creto<br />

airplay radiofonico negli States grazie al brano<br />

Trojans ed il suo appicicoso chorus “Your trojan’s in my<br />

head”. Detto questo, la formazione guidata da Keith Jeffrey<br />

non eccelle in nulla e lo dimostra senza troppi veli<br />

nell’EP di debutto Through The Glass.<br />

48 49


Più un assaggio che un vero e proprio EP considerato<br />

l’esile contenuto, il quattro tracce Through The Glass<br />

si apre con la sopracitata Trojans, brano in cui le particolarità<br />

vanno ricercate in alcune e vaghe inflessioni<br />

alla Foals, probabilmente più evidenti nella successiva<br />

Back Seat: pulizia sonora, giochetti in direzione mathpop<br />

e andazzo svogliato ma trascinante. Il terzo brano<br />

in s<strong>cale</strong>tta, Symptoms, rimedia un innocuo incrocio tra<br />

Temper Trap, Phoenix e un Miike Snow svuotato della<br />

componente electro prima di lasciare spazio ad una<br />

versione acustica di Trojans, probabilmente progettata<br />

per finire in una scena conclusiva di qualche telefilm<br />

americano.<br />

La musica contenuta in Through The Glass e gli altri<br />

brani d<strong>is</strong>ponibili su internet, tra cui If So presente nella<br />

soundtrack del videogioco Fifa 13, per il momento non<br />

ci permettono di sbilanciarci più di tanto. Attendiamo<br />

l’album, con aspettative piuttosto tiepide.<br />

(6/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

bAbA SiSSoko - AFriCAn griot groove<br />

(AFrodiSiA, giugno 2012)<br />

Genere: amandran<br />

Come ci spiegano le note di copertina, S<strong>is</strong>soko appartiene<br />

ad un’illustre dinastia di griot: figura centrale nella<br />

cultura dell’africa subsahariana, un po’ saggio, un po’<br />

cantastorie, un po’ memoria collettiva della comunità,<br />

come ai tempi in cui i ruoli di sacerdote, poeta, sciamano<br />

degli elementi e filosofo non erano così d<strong>is</strong>tinti.<br />

Un’eredità ancestrale protrattasi però anche oltre i tempi<br />

del colonial<strong>is</strong>mo e delle varie diaspore africane, grazie<br />

a un adattamento alle nuove circostanze che, specie in<br />

situazioni di emigrazione, continuano a vedere necessaria<br />

la presenza di qualcuno che interpreti e trasmetta<br />

la cultura di un popolo (e lo stesso S<strong>is</strong>soko si è trasferito<br />

da tempo in Calabria). Nella pratica dei griot musica e<br />

aspetto scenico hanno sempre rivestito un ruolo centrale:<br />

non stup<strong>is</strong>ce quindi vedere alcuni di essi avere<br />

successo nello spettacolo.<br />

Baba porta avanti da anni una ricerca sull’amandran<br />

e sulla musica tradizionale del suo paese d’origine, in<br />

un’ottica di contaminazione che lo ha portato a suonare<br />

i suoi strumenti tradizionali (lo ‘ngoni, a corda, e i tamani,<br />

tamburi parlanti) con gruppi piuttosto lontani tra di<br />

loro (Art Ensemble of Chicago e Buena V<strong>is</strong>ta Social<br />

Club per dirne due), o a metter su collaborazioni che<br />

portavano a mescolare il suo patrimonio musi<strong>cale</strong> col<br />

jazz o col folk rock (vedi il progetto con Aka Moon e<br />

Black Machine, o quello con Il pozzo di san Patrizio).<br />

Stavolta la scelta è diversa: si torna all’essenzialità ori-<br />

ginaria, drums and wires per davvero, a mostrare come<br />

l’amandran sia davvero l’origine del blues, sia per l’affinità<br />

tra lo ‘ngoni e la chitarra, sia per i call and response,<br />

sia per raccontare il quotidiano e gli umori profondi di<br />

una cultura (emblematica Afrika/Afro blues, ma anche le<br />

venature fusion di So/Fanzia).<br />

Ma nell’arte come in biologia è la mescolanza che rende<br />

più forti: così i 4 membri del gruppo che lo accompagna<br />

provengono da zone diverse del centroafrica (Senegal,<br />

Costa d’Avorio, Camerun) più un cubano, e tra il groove<br />

del titolo, un’aria diffusa da canti tradizionali e frequenti<br />

assonanze afrobeat, la musica esce dall’ortodossia trovando<br />

uno dei momenti più alti nel funk di Ambita/<br />

Bakadaji o nei ricordi d’India col basso in evidenza di<br />

Yala (ma non solo, vedi Mama Don) mentre il manifesto<br />

Donnya oscilla tra swing e blues (e dal vivo prende una<br />

in perfetta naturalezza una piega reggae).<br />

A questo punto della carriera S<strong>is</strong>soko ha ormai la mano<br />

sicura per essere se stesso mentre rilegge la tradizione.<br />

(7.1/10)<br />

giulio pASquAli<br />

bAlmorheA - StrAnger (weStern vinyl,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: chamber post rock<br />

Con il quinto d<strong>is</strong>co, il duo di Austin (benché ormai f<strong>is</strong>icamente<br />

separato) prova a cambiare direzione: con<br />

calma, com’è nelle loro corde, ma il camer<strong>is</strong>mo dei d<strong>is</strong>chi<br />

precedenti qui accoglie variazioni di suono e dinamica<br />

dovute ad una paletta strumentale che adesso include<br />

anche, tra le altre cose, inserti elettronici, chitarre elettriche,<br />

oltre a una maggiore presenza delle percussioni.<br />

Siamo sempre lungo le onde di strumentali sereni, ottimamente<br />

prodotti, che flu<strong>is</strong>cono piacevoli e atmosferici<br />

l’uno nell’altro (i due brani iniziali), ma già nel terzo Fake<br />

Fealty le dinamiche portano a momenti di grinta ritmica<br />

che proseguono anche nella successiva Dived. Archi e<br />

piano sono qui come al solito, ma le chitarre effettate<br />

richiamano in Jubi certo Me<strong>the</strong>ny anni ‘80, tracciano<br />

etereità in Shore e nel bozzetto Islet (ma anche in Pyrakantha,<br />

prima del crescendo con elettronica, steel drum<br />

e infine batteria tradizionale), mentre la più strana del<br />

lotto, Artifact, giustifica gli accostamenti precedenti al<br />

post-rock coi suoi arpeggi da Fripp primi anni ‘80 (e anche<br />

certi controtempi si collocano tra i King Crimson di<br />

quel periodo e i suoi d<strong>is</strong>chi con Andy Summers).<br />

Passi avanti, forse ancora da focalizzare del tutto, ma<br />

intrapresi con l’eleganza consueta.<br />

(6.9/10)<br />

giulio pASquAli<br />

king dude - burning dAylight (dAiS, novembre 2012)<br />

Genere: dark folk<br />

Parlavamo poco tempo fa dei Cult of youth ed ecco arrivare l’illustre compare, TJ Cowgill aka King Dude, altra punta<br />

di diamante del neofolk americano. Un po’ cantante un po’ imprenditore (si è inventato uno marchio streetwear a<br />

croce in giù dal nome Actual Pain, di cui cura personalmente accessori magliette eccetera) Cowgill l’anno scorso<br />

aveva sorpreso con Love, d<strong>is</strong>co struggente che rileggeva in chiave nera e scarnificata parecchia della tradizione<br />

folk a stelle e str<strong>is</strong>ce scomodando i vari Dylan e Cash.<br />

Come i suoi predecessori anche questo nuovo d<strong>is</strong>co è intr<strong>is</strong>o di sacralità, invocazioni<br />

a Dio e al Diavolo, personaggi rassegnati allo scorrere del tempo e quindi al sopraggiungere<br />

della morte (i drive my hearse in reverese coz’ i know when i die o ancora <strong>the</strong>re’s<br />

no use in lying cuz’ i know that i’m dying my friend/ my body <strong>is</strong> leaving and i know Death<br />

<strong>is</strong> reeling me in). Tutto gira intorno a voce e chitarra, gli elementi essenziali del King<br />

Dude pensiero. Temi morriconiani a sfondo western, ballate per cuori spezzati, Cowgill<br />

che gioca a fare il crooner con la sua voce greve e baritonale. Ed è proprio la voce il<br />

topos più indagato, un canto estremo e quasi parod<strong>is</strong>tico nei timbri funerari (Barbara<br />

Anne) o nell’esaltazione del vibrato (Lorraine), in ogni caso alla ricerca di nuove forme<br />

e soluzioni senza rinunciare a un pizzico di ironia.<br />

Anche la musica allarga il respiro, agguanta la rabbia del blues (I’m Cold), vede assimilata la lezione Dirty Beaches<br />

(Holy Land che rilegge in chiave polverosa i Suicide, You can break my heart che già dal titolo bussa alla porta di<br />

papà Elv<strong>is</strong>) e soprattutto pone molta più attenzione negli arrangiamenti, finalmente inc<strong>is</strong>ivi in un fiorire di strepitii<br />

tenui e altezzosi. Così Burning Daylight riesce a avanzare con maggior complessità quella dicotomia tra dolcezza<br />

e oscurità che è il vero tratto d<strong>is</strong>tintivo della poesia Cowgilliana.<br />

I detrattori potrebbero dire che è uno un po’ finto il Dude, uno pronto a marciare nell’hype del ritual<strong>is</strong>mo stile<br />

chitarra e passamontagna, eppure sotto la maschera c’è un songwriting <strong>is</strong>pirato, capace di emozionare e centrare<br />

sempre il bersaglio (Jesus in <strong>the</strong> countryard). Il dark folk 2012 è marchiato col suo nome.<br />

(7.5/10)<br />

SteFAno gAz<br />

bAmbounou - orbiting (50 weAponS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: techno<br />

Che la techno sia il vero, nuovo terreno di conqu<strong>is</strong>ta<br />

dei producer votati all’inventiva non lo dimostra solo<br />

quel che abbiamo raccontato su speciale e osservato dal<br />

vivo, ma anche quel che stan facendo due delle label<br />

più dinamiche e originali che si son v<strong>is</strong>te quest’anno,<br />

Monkeytown e 50 Weapons. Entrambe dirette con mano<br />

caparbia e dec<strong>is</strong>a dai Modeselektor, d’estrazione intellettuale<br />

la prima e più club-oriented la seconda, nel 2012<br />

le due etichette han saputo offrirci uno spaccato affascinante<br />

delle direzioni più prolifiche recitate dal verbo<br />

techno, passando dalla rigidità da club di Shed e Benjamin<br />

Damage/Doc Daneeka alle aperture garage ben<br />

orchestrate da Phon.o e Lazer Sword, senza contare le<br />

teorie personali più caratter<strong>is</strong>tiche di Otto Von Schirach<br />

o Anstam e le mosse da fuoriclasse di Mouse On Mars<br />

e Add<strong>is</strong>on Groove.<br />

Coi Modeselektor a dettare i tempi, tutto avviene sem-<br />

pre a gran velocità. Il giovane produttore parigino Bambounou,<br />

ad esempio, non ha fatto nemmeno in tempo<br />

l’anno scorso a venir fuori da etichette underground<br />

come Youngunz e Sound Pellegrino che già questo agosto<br />

era al primo EP su 50 Weapons, poi un altro paio di<br />

mesi e arriva l’album che fa impazzire diversi addetti al<br />

settore, tra cui una garanzia di qualità come Laurent Garnier.<br />

Facile pensare che le esitazioni spar<strong>is</strong>cono quando<br />

non si hanno dubbi, perché il ragazzo in effetti sembra<br />

tutto tranne che un principiante in cerca del proprio<br />

nord: Orbiting mostra sicurezza e autorevolezza in ogni<br />

r<strong>is</strong>volto, componendo un mosaico di sfumature piantate<br />

tra le derive moderne a partire da un midollo osseo fatto<br />

di tensione minimal techno e aggressività urbana.<br />

Da una parte Mass e Let Me Get che esaltano i loop<br />

stretti del juke, con scoppi di energia dancey che il<br />

ghetto difficilmente avrebbe replicato, dall’altra Splaz,<br />

Great Escape e Any O<strong>the</strong>r Service che riprendono le fascinazioni<br />

future-garage con rinnovato spirito melodico<br />

e una punta di sana invidia verso la coppia Jimmy<br />

50 51


mArthA wAinwright - Come home to mAmA (v2 muSiC, ottobre 2012)<br />

Genere: pop<br />

La nascita di un figlio, la morte della madre. La ruota gira e sono carezze e ceffoni, il togliere e il dare della vita<br />

che spesso riverberano sul versante pop-rock come invasive infusioni di concretezza. Con Martha Wainwright,<br />

invece, le cose non vanno così. Forse meno addicted alla messinscena r<strong>is</strong>petto al fratello Rufus, è comunque uno<br />

spettacolo d’arte varia quello che allest<strong>is</strong>ce con questa terza prova d’inediti (a quattro<br />

anni dal buon I Know You’re Married But I’ve Got Feelings Too). Se nel frattempo lo<br />

splendido live dedicato ad Édith Piaf faceva supporre un rinculo verso territori nobili<br />

dell’arte canzonett<strong>is</strong>tica, questo Come Home To Mama - reg<strong>is</strong>trato nello studio di Sean<br />

Lennon - cala sul piatto una rinnovata voglia di sparigliare le carte.<br />

Dec<strong>is</strong>iva è stata la mossa d’affidare la produzione a Yuka C Honda delle Cibo Matto,<br />

che ha portato in dote ghiribizzi elettronici e il prurito della m<strong>is</strong>ticanza stil<strong>is</strong>tica, oltre<br />

al di lei marito Nels Cline, ospite pregiato alla chitarra. Ne r<strong>is</strong>ulta un album poliedrico<br />

e vivace, croccante d’intelligenza e sensibilità. Il reg<strong>is</strong>tro svaria dalla spersa malinconia<br />

bluesy di All Your Clo<strong>the</strong>s alla piacioneria folk-errebì di Can You Believe It, passando da spasmi ed esot<strong>is</strong>mi David<br />

Byrne (la tesa I Wanna Make an Arrest, una Radio Star irrorata glam), solennità crepuscolari (la gravità à la Sandy<br />

Denny di Everything Wrong) e altri approcci diversamente arty (le impalpabili arguzie di Leave Behind, la wave<br />

acidula di I Am Sorry, lo pseudo trip-hop di Some People...).<br />

Quanto a Proserpina, pezzo scritto dalla madre Kate McGarrigle nei suoi ultimi giorni, è un melò camer<strong>is</strong>tico corale<br />

che per quanto suoni avulso dal resto del programma sembra esserne l’ombra luminosa, il momento di massimo<br />

artificio che va a coincidere col massimo di (struggente) verità. Del resto con Martha la messinscena è solo un altro<br />

modo in cui il vero può (rap)presentarsi, prassi che ne potrebbe mettere a r<strong>is</strong>chio la credibilità se la caratura di<br />

autrice ed interprete non fosse a livelli (oramai) alt<strong>is</strong>simi.<br />

(7.2/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

Edgar+Machinedrum: sono le direttive che lasciano<br />

più il segno durante l’ascolto, strappi intelligenti a una<br />

regola base che invece affonda i colpi in Data o Off The<br />

Motion, svelando il retaggio minimal da club underground<br />

di Bambounou. È un suono abrasivo e votato<br />

alla notte, che però sa esibirsi in slanci electro d’impatto<br />

pià cerebrale, come in Capsule Process e EX06. Orbiting<br />

è l’album giusto per riassumere lo stato di forma della<br />

techno 2012 e presentare un autore con le mani in pasta<br />

nella scena che conta. Le scimmie di Berlino non ne<br />

sbagliano più una.<br />

(7/10)<br />

CArlo AFFAtigAto<br />

bettye lAvette - thAnkFul n’ thoughtFul<br />

(Anti-, Settembre 2012)<br />

Genere: soul, r’n’b<br />

50 anni di carriera accidentata che da qualche anno<br />

ottiene i meritati riconoscimenti: le nozze d’oro con la<br />

d<strong>is</strong>cografia arrivano nel momento migliore per questa<br />

signora del soul old style. Per festeggiare, dunque,<br />

autobiografia e d<strong>is</strong>co nuovo che, dopo Interpretations<br />

costruito su firme UK, stavolta pesca il repertorio dagli<br />

USA (con significativa eccezione).<br />

Con la produzione di Craig Street (già con Norah Jones,<br />

tra gli altri) che fa tessere al gruppo una trama sonora<br />

notturna, fremente di d<strong>is</strong>torsioni e di un occasionale<br />

tremolo sulla chitarra (calzante, benché dai Calexico e<br />

da Tarantino in poi sia diventato quasi più inflazionato<br />

del flanger negli anni ‘80), la nostra sfodera tutte le arti<br />

che ben le conosciamo: graffi e passione, ruvidità e cuore,<br />

e la profondità sensuale di una voce che ha cinque<br />

decenni di lezioni soul da impartire.<br />

Anche troppo, però: il repertorio di vocalizzi, ricami, rubati,<br />

variazioni melodiche che Bettye conosce in tutti i<br />

suoi recessi viene squadernato in m<strong>is</strong>ura forse eccessiva,<br />

quasi senza interruzione e, invece di essere utilizzato<br />

come decorazione e abbellimento al momento giusto,<br />

spesso diventa una spezia che prende il posto di qualsiasi<br />

altro sapore.<br />

Certo, Everything’s Broken di Dylan che aveva già una<br />

struttura blues funziona, come I’m Not The One dei classic<strong>is</strong>ti<br />

Black Keys che r<strong>is</strong>ulta personale pur senza esagerare<br />

in d<strong>is</strong>tanza dall’originale; la title track era di Sly<br />

& The Family Stone quindi ci siamo (e la versione ha<br />

tutti i pregi e nessuno dei difetti del d<strong>is</strong>co) e Everybody<br />

Knows Th<strong>is</strong> Is Nowhere è la conclusione che scioglie la<br />

tensione su una nota lieve.<br />

Ma, pur senza pretendere filologia fuori luogo, altre<br />

volte d<strong>is</strong>piace veder sparire le belle melodie originali:<br />

vedi Yesterday Is Here di Tom Waits (retta da un piano<br />

che sembra uscire da un grammofono), o il classico Dirty<br />

Old Town (l’eccezione di cui dicevamo, ma col testo riportato<br />

negli USA delle tensioni razziali) presente in due<br />

versioni (un mid tempo vibrante la prima, un blues rilassato<br />

intorno a una bella figura di batteria la seconda).<br />

Crazy degli Gnarls Barkley, invece, era nell’originale che<br />

soffriva di qualche sguaiatezza, e qui migliora sia nell’arrangiamento<br />

rarefatto che nell’interpretazione vo<strong>cale</strong>,<br />

più m<strong>is</strong>urata r<strong>is</strong>petto al resto; ma rimane il fatto che,<br />

come nelle due precedenti, se avesse cantato un altro<br />

testo e cambiato il titolo non l’avrebbero riconosciuta<br />

neanche gli stessi autori.<br />

Ma non si può certo chiedere a Bettye di rinnegare la<br />

sua natura e la sua storia, o un genere che vive più di<br />

cuore che di osservanze e per il quale tutto ciò va ben<strong>is</strong>simo:<br />

anche un po’ meno, però.<br />

(7/10)<br />

giulio pASquAli<br />

biSon b.C. - loveleSSneSS (metAl blAde,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: heavy metal<br />

Quiet Earth. Dark Ages. Infine Loveleness. Ovvero,<br />

un pianeta terra quieto, un’era oscura e infine una vita<br />

senza amore. In pratica, la trilogia della d<strong>is</strong>perazione,<br />

secondo i B<strong>is</strong>on B.C. che, nel breve giro di tre d<strong>is</strong>chi,<br />

sono passati da band metal emergente (e parzialmente<br />

grezza) a gruppo di riferimento nella scena heavy nordamericana.<br />

Vengono da Vancouver e hanno allineato la<br />

loro carriera a quella della Metal Blade che ne ha patrocinato<br />

gli ultimi lavori, credendo ampiamente nelle loro<br />

possibilità. Ebbene Loveleness è la r<strong>is</strong>posta più concreta<br />

a questo atto di fede e racconta perfettamente origini<br />

e sviluppi dei B<strong>is</strong>on B.C.<br />

Fondamentale conoscere le loro radici, per entrare perfettamente<br />

nel quadro apocalittico di uno dei migliori<br />

d<strong>is</strong>chi metal dell’anno; e quindi è doveroso ricordare<br />

come la prima incarnazione della formazione congiungesse<br />

le partiture aggressive e secche del thrash<br />

metal, la greve cadenza del doom con lo state of <strong>the</strong><br />

art dell’Heavy Metal inglese. Tutta la loro vita si è concentrata<br />

sullo sviluppo di un tema fatto di tre elementi<br />

ben d<strong>is</strong>tinti e, se prima il punto di caduta della band era<br />

la difficile amalgama fra i generi oggi, trovata la qua-<br />

dratura del cerchio, diventa l’arma vincente. Tutto ha<br />

inizio con An Old Friend in cui James Farwell, cantante e<br />

chitarr<strong>is</strong>ta, dimostra una versatilità non comune, danzando<br />

(metaforicamente) tra il power metal ortodosso<br />

degli High On Fire, il chitarr<strong>is</strong>mo degli Iron Maiden e<br />

l’incedere tipico dei Black Sabbath, spezzato da una<br />

marcia speed chiaramente thrash metal, alla Forbidden.<br />

La forza sta nel tema di fondo, lanciato con la prima canzone<br />

del d<strong>is</strong>co e poi mai abbandonato, come dimostra<br />

il gioco a intarsi di Last and First Thing, tutta sviluppata<br />

sul classico intreccio di “guitar twin” Judas Priest, che<br />

si aprono solo con un sottile gioco di armoniche vicino<br />

ai primi Machine Head: ed eccolo il thrash evoluto che<br />

ritorna in una scarica di watt che il Logan Mader di Davidian<br />

ha consacrato a status metal.<br />

Metal, metal, sempre più metal in Blood Music, ma ribadiamo,<br />

è nell’insieme, nell’omogeneità, nel trademark<br />

musi<strong>cale</strong>, che i B<strong>is</strong>on B.C. si giocano le frecce migliori. E<br />

centrano il bersaglio. Una band sicuramente non innovativa,<br />

ma nel conservator<strong>is</strong>mo tipico del metal di ogni<br />

tempo, sfavillante.<br />

(7.2/10)<br />

mArio ruggeri<br />

blood CommAnd - FunerAl beACh (FySiSk<br />

FormAt, diCembre 2012)<br />

Genere: post metal<br />

Bergen, Norvegia, crocevia culturale del Nord Europa.<br />

Terra silenziosa ma così importante per la storia della<br />

musica. Bergen, la città di Grieg, del Peer Gynnt Ibseniano,<br />

landa desolata di atrocità Black Metal, dance<br />

(Royksopp) e NAM (Kings Of Convenience). Bergen:<br />

confine delle sperimentazioni e dei Blood Command<br />

che gettano i semi nel 2008 e, dopo un paio di lavori<br />

sotto m<strong>is</strong>ura, raccolgono i frutti, nel 2012, con Funeral<br />

Beach.<br />

Non si gridi al capolavoro, non ancora, perché i Blood<br />

Command devono ancora chiarire a loro stessi alcuni<br />

punti fondamentali, come ad esempio l’equilibrio da<br />

tenere in fase di composizione, però il dato di partenza<br />

è interessant<strong>is</strong>simo, Funeral Beach nasce dall’esigenza<br />

di fondere la club music (loro passione) con il punk<br />

hardcore (loro provenienza art<strong>is</strong>tica). Un esperimento<br />

che, letto da un altro punto di v<strong>is</strong>ta, ricorda quello degli<br />

ultimi Justice che partendo dall’elettro pop, sfociavano<br />

nel rock. I Blood Command si prendono il r<strong>is</strong>chio di<br />

tentare una strada di fusione, di comm<strong>is</strong>tione, fra generi<br />

apparentemente in conflitto tra loro e, come già detto, a<br />

volte non si cap<strong>is</strong>ce dove vogliano andare esattamente,<br />

soprattutto quando si concedono al pop o alla tentazione<br />

di un bel singolo da classifica (Wolves At The Door).<br />

52 53


Aime - quArter turnS over A living line (blACkeSt ever blACk, novembre 2012)<br />

Genere: post-industrial<br />

Erano attesi per il battesimo sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, Joe Andrews e Tom Halstead, in arte Raime, dopo che la trilogia<br />

su Blackest Ever Black degli Ep - Raime Ep / If Anywhere was here we would know where we are / Hennail<br />

aveva preparato il terreno dando ampie indicazioni sul tipo di sonorità che i due volevano v<strong>is</strong>itare. Più che musica,<br />

quella dei Raime è una scenografia, uno studio d’ambiente, una forma di soundtrack<br />

della notte metropolitana. Il r<strong>is</strong>ultato finale si traduce in un design profondamente<br />

noir: paranoico, inquieto, d<strong>is</strong>turbato. I Raime abitano le ore della notte con la stessa<br />

sicurezza con cui i colletti bianchi si affollano intorno alle 8.00 del mattino. Arriva da<br />

qui l’evidenza proclamata con cui seguono una tradizione prettamente britannica. Da<br />

un lato il flirt, quasi <strong>is</strong>tintivo, con la corrente dubstep, che viene trattata come indole<br />

di fondo, come materiale grezzo, privato dei suoi riflessi più carnali.<br />

I due brutalizzano di fatto il sound Hyperdub con una lama minimal<strong>is</strong>ta che stacca<br />

letteralmente la sostanza delle cose dalle notti più lussuriose di Burial, Scuba e Kode9<br />

lasciandone solo uno scheletro esanime. Dall’altro il tributo alla tradizione post-industrial e dark-ambient, di cui si<br />

pongono evidentemente come gli ultimi profeti. Lo scontro tra la ritmica algida, digitale, inumana che sa di dub<br />

androide e la saggezza dei sample concreti e metallici che si stendono come nebbia nelle strade, apre un varco<br />

sensibile con l’<strong>is</strong>olazion<strong>is</strong>mo di metà ‘90: Scorn soprattutto, ma anche Main, :Zoviet*France:*, Thomas Köner,<br />

Techno Animal e tutti i nomi catalogati nella seminale Ambient 4: Isolation<strong>is</strong>m.<br />

Nascono così i brani di Quarter Turns Over A Living Line, che asciugano se possibile una tavolozza di suoni, mostrata<br />

negli ep, già estremamente austera di suo. Ne è un esempio The Last Foundry, che riprende la Th<strong>is</strong> Foundry<br />

del Raime Ep, riletta poi mag<strong>is</strong>tralmente da Reg<strong>is</strong>, dove l’elettronica aveva ancora un taglio concreto e nell’ordine<br />

delle cose. Il confronto con quella contenuta nel d<strong>is</strong>co di debutto, non potrebbe dare indicazioni più chiare su<br />

dove stanno andando a parare Andrews e Halstead. Il mimal<strong>is</strong>mo mania<strong>cale</strong> della ritmica di Soil And Colts segna<br />

evidentemente un ulteriore stato del degrado costante verso cui tendono le composizioni dei Raime. Sempre<br />

più vuote, con gli echi sempre più profondi e i suoni sempre più d<strong>is</strong>tanti. La catastrofe sceneggiata in Ex<strong>is</strong>t In The<br />

Repeat Of Practice non nasconde per altro l’ossessiva d<strong>is</strong>posizione dei suoni e dei campionamenti. C’è sempre una<br />

forma di eleganza molto inglese nel modo in cui i Raime mandano in rotazione e giocano con la circolarità, si veda<br />

la fragranza blues di Your Cast Will Tire che riprende il taglio urbano post-Neubauten degli Heaven And, o ancora<br />

la maestria con cui si mette mano al lato più “aereo”, con i campioni di archi e strumenti a corda di The Dimming<br />

Of Road And Rights che mandano in gloria il d<strong>is</strong>co e chiudono malinconicamente sui i titoli di coda per quella che<br />

potrebbe essere la soundtrack ideale di La Fin absolue du monde.<br />

(7.5/10)<br />

Antonello ComunAle<br />

Eppure, quando rimangono concentrati, i ragazzi di<br />

Bergen riescono a tirare fuori dal cilindro qualcosa di<br />

paradossalmente vicino agli At The Drive In, solo che<br />

in versione più ballabile. Un hardcore <strong>is</strong>terico, quello<br />

di Funeral Beach, ma anche saltellante come March<br />

of <strong>the</strong> Swan Elite, tra i pezzi più convincenti di tutto il<br />

d<strong>is</strong>co.<br />

Non per portarla sempre sul rock, ma i Blood Command<br />

convincono maggiormente quando l’ago della<br />

bilancia si sposta sull’hardcore. E’ lì che la loro reinterpretazione<br />

di Orange 9mm, Refused e Justice diventa<br />

materia indubbiamente interessante. I numeri ci<br />

sono, l’idea pure. Ora, spazio alla chiarezza. E il gioco<br />

è fatto.<br />

(6.7/10)<br />

mArio ruggeri<br />

born blonde - whAt <strong>the</strong> deSert tAught<br />

you (moriArty <strong>the</strong> CAt reCordS, novembre<br />

2012)<br />

Genere: britpop / psy<br />

Nell’ultimo decennio in tanti hanno provato - invano -<br />

a far resuscitare la scena britpop: i residui post-britpop<br />

brevemente fagocitati dai Coldplay, un ramo della scena<br />

indie-UK mid-00 (dai Ka<strong>is</strong>er Chiefs ai Kasabian, passando<br />

per i Jet), progetti paralleli/sol<strong>is</strong>ti minori e gruppi da<br />

facepalm come i Viva Bro<strong>the</strong>r.<br />

Le recenti live reunion (Stone Roses, Blur, Suede e<br />

Pulp) da una parte dimostrano che la nostalgia di quel<br />

periodo oggi è diffus<strong>is</strong>sima, dall’altra hanno la f<strong>is</strong>ionomia<br />

di chi ha il compito di celebrare il passato, tarpando<br />

ulteriormente le ali ad un’ipotetica rinascita.<br />

Nonostante le premesse, cinque londinesi capitanati<br />

da Arthur Delaney da un paio d’anni girano per le terre<br />

albioniche armati di buona volontà e sostegno alla<br />

causa. Si chiamano Born Blonde e per la Moriarty <strong>the</strong><br />

Cat Records pubblicano il loro album di debutto What<br />

<strong>the</strong> Desert Taught You, uscito dopo una serie di singoli<br />

piuttosto promettenti.<br />

Il tocco dei Born Blonde è spesso influenzato da una<br />

psichedelia spacey, più cullante che acida (l’iniziale Solar)<br />

e da sonorità puramente anni ‘90. Si prenda I Just<br />

Wanna Be: intenti fluttuanti (“I just want to fly. I don’t<br />

want to fall”), pattern di batteria collaudato, strofa vagamente<br />

Oas<strong>is</strong> e ritornello abbastanza an<strong>the</strong>mico per riaccendere<br />

le speranze del popolo brit. Certi The Verve e<br />

The Charlatans rivivono in brani come Light On, sorretto<br />

da un basso bello corposo.Dopo una parte centrale<br />

del d<strong>is</strong>co più radiofonica (Signs Of Fear), con These Days<br />

I Dream of Pyramids si torna ad ondeggiare lentamente.<br />

La voce melodica e sognante di Arthur è perennemente<br />

protagon<strong>is</strong>ta e tende ad assumere una connotazione<br />

più roca quando aumenta i giri. A livello strumentale<br />

b<strong>is</strong>ogna riconoscere alla band il coraggio di smarcarsi<br />

da qualsiasi moda del momento (d<strong>is</strong>torsioni shoegaze<br />

o hip-hyped sounds ad esempio), cercando una soluzione<br />

di derivazione brit ‘90s che va ad attingere da varie<br />

fonti, senza necessariamente clonare. In questo senso<br />

importante un utilizzo di piano/tastiere mai invadenti<br />

ma quasi sempre presenti (Dreamland, Radio Bl<strong>is</strong>s).<br />

What <strong>the</strong> Desert Taught You non brilla di originalità e<br />

presenta qualche filler di troppo (dovuti probabilmente<br />

ad una capacità compositiva ancora da rodare), ma nel<br />

complesso si fa più che apprezzare, soprattutto se si è<br />

alla ricerca di un ascolto poco impegnativo.<br />

(6.4/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

briAn eno - lux (wArp reCordS, novembre<br />

2012)<br />

Genere: ambient<br />

Lux è inequivocabilmente un album di musica d<strong>is</strong>creta.<br />

E perché farne oggi, nel 2012, di musica d<strong>is</strong>creta?<br />

Impossibile comprenderlo se non si pensa a Scape,<br />

l’applicazione per iPad che Eno ha rilasciato da poco.<br />

Niente a che vedere con il caso Cage-iano, se pensiamo<br />

che le due cose (d<strong>is</strong>co e app) sono state raccontate in<br />

un’interv<strong>is</strong>ta unica (che potete ascoltare qui). “Abbiamo<br />

molte più chance di scegliere come ascoltare oggi”. E<br />

abbiamo molte più chance di scrivere per i fatti nostri<br />

l’album che vogliamo ascoltare. Come ha detto Brian<br />

al Guardian: “A partire da D<strong>is</strong>creet Music e da Music For<br />

Airports, ho mostrato il processo della musica generativa<br />

in azione. Con Scape, quello che voglio fare ora è vendere il<br />

processo a chiunque, e non il mio output di quel processo”.<br />

Lux è esattamente un’altra versione di quel “process in<br />

action”. Una composizione di 75 minuti in 12 sezioni che<br />

porta a compimento la sonorizzazione delll’<strong>is</strong>tallazione,<br />

Music for <strong>the</strong> Great Gallery of <strong>the</strong> Palace of Venaria,<br />

realizzata l’estate appena passata alla Galleria Grande<br />

della Venaria Reale di Torino. Un’ora e un quarto in quattro<br />

parti, suddiv<strong>is</strong>ione che ricorda subito Music For Airports,<br />

r<strong>is</strong>petto al quale è un po’ più “dramatic” (soprattutto<br />

per i picchi dinamici sulle note alte nella seconda<br />

e terza parte), con un uso degli strumenti che ricordano<br />

On Land. Più estatico di D<strong>is</strong>creet Music (diciamo più<br />

vicino - ma con meno “m<strong>is</strong>tero” - a Neroli). Lo stesso<br />

mattoncino-tema minimal<strong>is</strong>ta è rilasciato piano piano,<br />

in vena, per tutta la durata dell’album, con un’ins<strong>is</strong>tenza<br />

e un effetto ipnosi che ricordano Morton Feldman per<br />

pianoforte.<br />

C’è un ragionamento in più da fare. La musica ambientale<br />

nasce come musica per rassenerare le ansie<br />

dei fruitori degli ascensori dei primi grattacieli, grazie<br />

all’opera della Muzak. Musica industriale per calmierare<br />

psicodrammi standard. Brian è colui che ha rigirato<br />

la frittata, e l’ha pensata come musica come supporto,<br />

superficie di <strong>is</strong>crizione personale. Musica “per”, da far<br />

abitare ai rumori della giornata, del momento in cui la<br />

si ascolta. Oppure - ma allora è thinking music - il supporto<br />

di <strong>is</strong>crizione è per i nostri pensieri. Con Lux viene<br />

da domandarsi da che parte stiamo. Da che parte sia<br />

oggi la musica generativa di Eno.<br />

La questione non è tra music<strong>is</strong>ta e non-music<strong>is</strong>ta, ma<br />

l’eterna tensione tra ascoltatore e non-ascoltatore. È<br />

una questione davvero peculiare alla musica generativa.<br />

Nell’ascensore oggi ci stiamo con le nostre cuffie<br />

che abbattono il rumore di fondo. Siamo <strong>is</strong>olati. Eppure<br />

i pensieri sono più roboanti del rumore meccanico del<br />

contrappeso dell’elevator che va su e giù. E i picchi minimal<strong>is</strong>ti<br />

delle tastiere di Eno interag<strong>is</strong>cono con i nostri<br />

neuroni. Li influenzano in definitiva molto di più che nel<br />

passato, e quindi sono subdoli, se fruiti dentro il manifesto<br />

Eno-iano di una vita. Non è una forma di meditazione:<br />

Eno si scarta in modo assertivo e definitorio<br />

dall’ambientale m<strong>is</strong>tico-new age-iana di compositori<br />

54 55


come Steve Roach (da noi interv<strong>is</strong>tato qui e con mille<br />

rigagnoli di acqua santa di Palo Alto ancora da esplorare<br />

nelle dune del deserto). Brian è dentro il presente.<br />

E cap<strong>is</strong>ce bene che rifare la stessa cosa non vuol dire<br />

davvero riproporla, dato che i requ<strong>is</strong>iti a contesto (noi)<br />

sono (siamo) cambiati.<br />

(7/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

brokebACk - brokebACk And <strong>the</strong> blACk<br />

roCk (thrill JoCkey, novembre 2012)<br />

Genere: rock<br />

I Brokeback sono lo sfizio che Doug McCombs si concede<br />

dall’ormai lontano 1995. Un combo mutante che<br />

dal 2010 si è consolidato in quartetto: assieme al bass<strong>is</strong>ta<br />

(qui anche chitarr<strong>is</strong>ta) dei Torto<strong>is</strong>e ci sono music<strong>is</strong>ti<br />

dell’area chicagoana come James Elkington degli<br />

ex-inglesi The Zincs (chitarra, organo e batteria), Pete<br />

Croke (basso) e Chr<strong>is</strong> Hansen (chitarra), questi ultimi<br />

assieme nei tosti Head Of Skulls. Reg<strong>is</strong>trato negli studi<br />

dell’amico John McEntire, Brokeback And The Black<br />

Rock è il quinto titolo del progetto e r<strong>is</strong>petto all’ormai<br />

lontano predecessore Looks at <strong>the</strong> Bird (Thrill Jockey,<br />

2003) suona potente e rilassato, un divert<strong>is</strong>sement da<br />

profession<strong>is</strong>ti con la fiammella della passione ancora<br />

accesa.<br />

Otto strumentali che m<strong>is</strong>celano brume desertiche, retaggi<br />

prog-psych (in senso torto<strong>is</strong>iano, vedi Don’t Worry<br />

Pigeon) e un pizzico di peregrinazioni post, in una<br />

forma estremamente fruibile, a tratti persino radiofonica<br />

(come i Calexico in estasi l<strong>is</strong>ergica di Tonight At<br />

Ten e Will Be Arriving). A sorreggere il tutto c’è un piglio<br />

friendly che nei titoli diventa persino umor<strong>is</strong>tico, come<br />

a stemperare la naturale attitudine ad un eccesso di epicità:<br />

vedi la drammatica Colossus Of Roads o i miraggi<br />

morriconiani che pervadono Gold! e The Wire, The Rag,<br />

And The Payoff. Va sottolineata una eccessiva attenzione<br />

nel suonare per suonare (esercizi sulle strutture, calligrafie<br />

strumentali...) che sposta il baricentro emotivo sul<br />

sentire (che in effetti è un bel sentire, McEntire sa il fatto<br />

suo) determinando di contro un ascolto appagante ma<br />

poco evocativo, senza m<strong>is</strong>tero. Mi verrebbe da definirla<br />

una raccolta di brevi soundtrack per gratificanti chill-out<br />

salottieri. Mah. Fate voi.<br />

(6/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

CAlvin hArriS - 18 monthS (ColumbiA<br />

reCordS, ottobre 2012)<br />

Genere: trance pop<br />

Non deve stupire se Calvin Harr<strong>is</strong> prima lo selezionia-<br />

mo nella summer compilation mainstream e poi finiamo<br />

in sede di recensione per dirne tutto il male possibile. La<br />

compilation estiva rappresenta la classica selezione goliardica<br />

che sporge la testa oltre il davanzale ad osservare<br />

cosa succede “fuori”, a scorrere i pezzi con la massima<br />

spensieratezza senza spendere tempo in anal<strong>is</strong>i o solidità<br />

di stile, aspetti sotto i quali invece la preferibilità della<br />

musica del soggetto in questione crolla m<strong>is</strong>eramente.<br />

Ed è qualcosa che in Harr<strong>is</strong> si è accentuata soprattutto in<br />

tempi recenti, perché in fondo il primo album I Created<br />

D<strong>is</strong>co riusciva ancora a mantenere una propria dignità,<br />

grazie soprattutto all’autoironia e all’esplicito richiamo<br />

dei meccan<strong>is</strong>mi classici di catalizzazione dance ereditati<br />

dai 70/80.<br />

Ora invece è tutto diverso. Lo scozzese ha furbamente<br />

assorbito lo spirito di quelli con cui condivide i piani alti<br />

della DJ Mag top 100 (quest’anno ha raggiunto il 31°<br />

posto) e ha gettato il solito fumo negli occhi con un album<br />

alla David Guetta, pieno di collaborazioni illustri e<br />

singoli già di ampio successo, dandosi con convinzione<br />

nella trance, che non è solo il genere che storicamente<br />

s’è svenduto ai meccan<strong>is</strong>mi commerciali peggio di tutti<br />

gli altri, ma anche l’unico col quale puoi ancora produrre<br />

un pezzo piatto come pochi e r<strong>is</strong>cuotere comunque gli<br />

applausi degli affezionati della scena. Che poi è proprio<br />

il caso di Bounce con Kel<strong>is</strong> - giro melodico di sconfortante<br />

monotonia, n. 2 nella UK chart - e di Sweet Nothing,<br />

cordiale ma banale nella struttura, con in più il demerito<br />

di ridurre Florence Welch ad anonima voce femminile<br />

di genere.<br />

Con dieci featuring eccellenti su tredici brani veri totali<br />

c’è poco da d<strong>is</strong>cutere sulla nuova piega stil<strong>is</strong>tica dell’autore,<br />

dell’happy pop di Feel So Close (una manna per<br />

radio e negozi d’abbigliamento) o della scelta electro<br />

<strong>house</strong> di Awooga (il modo più facile per far massa in<br />

un album dance). Come sempre in questi casi contano<br />

i nomi e l’immagine adottata, e la scelta di un profilo<br />

danzereccio così povero di spunti e omologato a<br />

schemi vecchi di dieci anni (Drinking From The Bottle,<br />

Let’s Go) non fa altro che rivolgersi sulle file di ascoltatori<br />

meno esigenti e caratterizzate da una fruizione di<br />

massa e “ignorante” (ci scusino i fan ma è così: qualsiasi<br />

altro dance act d<strong>is</strong>ponibile oggi, compresi Deadmau5,<br />

Zedd o Madonna, offrono energie e stimoli più solidi<br />

di 18 Months).<br />

Mettici anche il brutto di vedere art<strong>is</strong>ti di differente<br />

estrazione che rinunciano ai propri caratteri d<strong>is</strong>tintivi<br />

per appiattirsi sullo stile imposto (I Need Your Love e We’ll<br />

Be Coming Back, prove di car<strong>is</strong>ma fallite per Ellie Goulding<br />

ed Example) e le delusioni si accatastano. Alla fine<br />

gli unici a fare una minima figura sono Rihanna (la hit<br />

SCott wAlker - biSh boSCh (4Ad, diCembre 2012)<br />

Genere: contemporanea<br />

Riesce molto difficile racchiudere nello spazio limitato di una recensione l’ennesima opera compiuta di quel genio<br />

musi<strong>cale</strong> contemporaneo che conosciamo sotto il nome di Scott Walker. A d<strong>is</strong>tanza di sei anni dall’oscuro ed<br />

estremo The Drift e intrapresa sin da metà anni Ottanta una strada che lo ha definitivamente separato dalla prima<br />

parte della sua carriera “pop”, l’art<strong>is</strong>ta americano procede senza minimamente guardarsi<br />

indietro, andando continuamente al di là dei propri limiti.<br />

In questo cons<strong>is</strong>te la sua sfida, effettuata con autentica passione art<strong>is</strong>tica e un sottile<br />

e crudo sense of humour: superare la forma musi<strong>cale</strong>, mescolando generi e modi,<br />

attitudini, umori e materiali più d<strong>is</strong>parati, di cui la musica è solo una parte. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />

anche e soprattutto in questo caso, è un patchwork che trascende le singole parti, per<br />

farsi r<strong>is</strong>ultato art<strong>is</strong>tico a tutto tondo, capolavoro.<br />

“Lavoro fatto, in ordine”, recitano le note stampa a proposito del significato dell’espressione<br />

B<strong>is</strong>h bosh, che nel titolo dell’album diventa B<strong>is</strong>h Bosch, citando il v<strong>is</strong>ionario e<br />

simbolico pittore fiammingo Hieronymus Bosch. L’’ordine’ è quello derivante dalla giustapposizione delle parti. In<br />

questo caso l’album non è un vero e proprio concept ma cons<strong>is</strong>te in tante piccole narrazioni che nel d<strong>is</strong>egno del<br />

music<strong>is</strong>ta diventano un unicum organico, un fluire ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Lirica e<br />

drammatica, tesa e liberatoria, più ricca di sfumature e meno oscura r<strong>is</strong>petto al precedente d<strong>is</strong>co, l’opera segue il<br />

filo della voce narrante Walker, che si fa guida attraverso l’humus figurativo e sonoro, iterativo e cinematico. Come<br />

un dipinto di Bosch, si scoprono sempre nuovi tasselli e angolazioni che ne completano il senso, mescolando bene<br />

e male, senza dare alcun giudizio.<br />

Musicalmente B<strong>is</strong>h Bosch è abbastanza affine a The Drift per quanto riguarda l’aspetto formale: abolita quasi del<br />

tutto la forma canzone, il cantato-recitato, lirico ed espression<strong>is</strong>ta procede liberamente come un flusso, accompagnato<br />

dall’onnipresente ritmo, e dall’uso di chitarre, tastiere e fiati, che ne contrappuntano il narrato. Tutti elementi,<br />

questi ultimi, che rappresentano una novità assoluta. L’orchestra è usata soprattutto funzionalmente per gli effetti<br />

sonori; l’effetto è quello di una pienezza assoluta di suono ed è lasciato totale campo libero alla sperimentazione<br />

e alle soluzioni di arrangiamento: fra gli “strumenti” usati è presente perfino un machete.<br />

Testi e suoni procedono di pari passo, intersecandosi gli uni negli altri, in un procedimento cinematografico che<br />

richiama molto una danza sonorizzata, più che un album sperimentale tout court. E non a caso dopo The Drift<br />

Scott Walker aveva composto And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una suite strumentale<br />

per una pièce di danza contemporanea del coreografo Rafael Bonachela pubblicata in edizione limitata nel 2007,<br />

mentre nel 2009 si era occupato delle musiche di un altro balletto, Duet For One, coreografato da Aletta Collins ed<br />

<strong>is</strong>pirato a Jean Cocteau.<br />

I testi di B<strong>is</strong>h Bosch un<strong>is</strong>cono tante piccole e grandi storie, flash e narrazioni che comprendono vicende storiche<br />

(l’esecuzione del dittatore rumeno Ceausescu e di sua moglie Elena in The Day The ‘Conducator’ Died, un buffone<br />

della corte di Attila e la recente scoperta astronomica di corpi substellari freddi fuori dal S<strong>is</strong>tema Solare nella lunga<br />

suite SDSS1416 + 13B (Zercon, A Flagpole Sitter), Gorbacev, Reagan, i naz<strong>is</strong>ti, il Ku Klux Klan..), ambientazioni geografiche<br />

(Danimarca, Alpi, Hawai (Hepizootics!), antica Roma e Grecia..), metafore prese dalla medicina e dalla biologia<br />

molecolare, citazioni bibliche, cinematografiche e quant’altro. Il tutto unito in un procedimento che un<strong>is</strong>ce cut-up,<br />

reinvenzione storica, sci-fi e spesso mescolamento di più di una storia in uno stesso pezzo (come nel caso della<br />

suite citata), con termini ricercati di inglese colto e vocaboli specifici di genere.<br />

Non è un d<strong>is</strong>co facile, B<strong>is</strong>h Bosch, ma l’ascolto ripetuto ripaga ampiamente, rivelando via via sempre nuovi indizi,<br />

in un’esperienza sonica totalizzante e immersiva.<br />

(8.5/10)<br />

tereSA greCo<br />

56 57


We Found Love sarà anche facile e leggera, ma almeno la<br />

popstar tiene le redini di stile sui binari a lei funzionali)<br />

e Dizzee Rascal (l’unico che in Here 2 China è capace<br />

di mettere all’angolo Calvin Harr<strong>is</strong> e far valere senza<br />

compromessi il suo grime inossidabile). Ma non bastano<br />

a tenere a galla una barca in cui tutti sembrano volersi<br />

fiondare sul fondale per vedere l’effetto che fa. Tanto<br />

il r<strong>is</strong>ultato si sa già: vendite alle stelle e sorr<strong>is</strong>i da ogni<br />

parte tranne che dalla critica. In quella condizione da<br />

summer compilation di cui sopra ci vive mezzo mondo,<br />

e questo d<strong>is</strong>co se lo meritano tutto.<br />

(3.8/10)<br />

CArlo AFFAtigAto<br />

CemeterieS - <strong>the</strong> wilderneSS (leFSe,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: bedroom dream-pop<br />

A dimostrare che la scena newyorkese non è tutta brookl-hip<br />

e feste ci pensa il solitario Kyle J. Reigle, mente<br />

e creatore del progetto Cemeteries.<br />

Nel leggere la sua bio, che descrive il suo appartamento<br />

situato nella desolante zona industriale di Buffalo, mi<br />

sono immaginato Kyle recluso all’interno di un loculo,<br />

unico avamposto abitativo in un grigio panorama, composto<br />

da ciminiere ed industrie perennemente al lavoro<br />

sotto al cielo plumbeo.<br />

E’ tutta questione di immaginazione, come quella che<br />

porta facilmente ad associare il nome Cemeteries a stili<br />

musicali (black metal o darkwave) piuttosto lontani da<br />

quelli proposti nell’album di debutto The Wilderness,<br />

pubblicato per la Lefse, da sempre brava a coprire tutte<br />

le sfumature della musica indipendente, spaziando tra<br />

post-r&b (how to dress well), chillwave (Neon Indian,<br />

Teen Daze) e chitarre (i nostri A Classic Education) con<br />

un occhio sempre puntato al futuro (attenzione a M<strong>is</strong>ter<br />

Lies) e all’attitudine DIY (Youth Lagoon).<br />

Il progetto Cemeteries può essere considerato come il<br />

corr<strong>is</strong>pettivo dream-pop (e probabilmente meno <strong>is</strong>pirato)<br />

del fragile Youth Lagoon. In The Wilderness l’atmosfera<br />

è perennemente ovattata al limite del subacqueo<br />

(Deerhunter, Atlas Sound i riferimenti), sia quando a<br />

dirigere sono accordi acustici (Young Blood), sia quando<br />

invece sono arpeggi dal DNA 100% dreamy (What Did<br />

You See) o tappeti di tastiera (In The Trees).<br />

Kyle cede alle tentazioni eighties di scuola Wild Nothing<br />

nella titletrack, uno degli ep<strong>is</strong>odi musicalmente<br />

meno cupi di un d<strong>is</strong>co caratterizzato da una tavolozza<br />

dalle tonalità crepuscolari che se diluite portano a situazioni<br />

dec<strong>is</strong>amente fluttuanti (in Summer Smoke gioca<br />

con i Pink Floyd).<br />

The Wilderness pur regalando qualche picco emozio-<br />

nale, è il classico lavoro destinato quasi esclusivamente<br />

agli appassionati del genere, soffre infatti di un’eccessiva<br />

staticità di fondo che va a braccetto con una mancanza<br />

di coraggio che ben si sposa con la figura timida di Kyle.<br />

(6.4/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

ChAd vAlley - young hunger (CASCine,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: balearic dance-pop<br />

Non è un caso che ogni release a firma Chad Valley<br />

fin<strong>is</strong>ca s<strong>is</strong>tematicamente ai vertici della sezione popular<br />

del celebre aggregatore Hype Machine. L’oxfordiano ha,<br />

infatti, sempre avuto intuito nel far fremere la blogosfera,<br />

a partire dall’ingresso nel business con un EP (selftitled,<br />

2010) che aveva dato al web esattamente ciò che<br />

domandava: variazioni più smaccatamente tropical-pop<br />

al tabù chillwave sull’onda della ripresa della balearic.<br />

Equatorial Ultravox (2011) aveva battuto il medesimo<br />

sentiero, mentre per questo Young Hunger la virata dec<strong>is</strong>a<br />

è per un revival ultra-patinato tra citazion<strong>is</strong>mo billionario<br />

di 80s e 90s (“If you wanna be my girl/Then you<br />

gotta get with my friends” in My Girl, tributo diretto alle<br />

Spice Girls).<br />

Il nostro - che all’anagrafe fa Hugo Manuel - non può,<br />

è chiaro, puntare nuovamente sul temp<strong>is</strong>mo perchè il<br />

trend è già strabordante; gioca quindi duro, scorretto se<br />

volete, imbracciando un parco ospitate che va da Twin<br />

Shadow ad Active Child, passando per Glasser, El Perro<br />

del Mar e Totally Enormous Extinct Dinosaurs.<br />

Ne vien fuori una piccola sintesi-manifesto di un genere<br />

minore, di quella che lo stesso Chad Valley chiama “pop<br />

music for people who don’t l<strong>is</strong>ten to pop music”, ovvero che<br />

possa essere legittimata anche dal pubblico, che dir si<br />

voglia, alt o hipster. Gli ingredienti ci sono tutti: chattering<br />

drums e d<strong>is</strong>co beats, armonie auto-tuned (My Girl), la<br />

tavolozza che spazia dal minimal<strong>is</strong>mo atmosferico (Fa<strong>the</strong>ring<br />

Mo<strong>the</strong>ring, con Anne L<strong>is</strong>e Frøkedal) al synth bass<br />

del glo più nostalgico (titletrack), il ponte con l’indie-R&B<br />

bianco che sta definendo il roster - altrettanto a favor di<br />

blog - della stessa Cascine (Evening Surrender), la posa da<br />

frontman che non offusca il trademark - col solito occhio<br />

di riguardo alla balearic nordica - da producer.<br />

Perdonati un paio di gestioni restrittive (I Owe You Th<strong>is</strong>,<br />

Manimals) delle controparti vocali (egomania?) per altrettanti<br />

ep<strong>is</strong>odi che in mano a nomi da milioni di click ci<br />

avrebbero già bombardato le radio (Fall 4 U e Tell All Your<br />

Friends), Young Hunger si rivela un album immediato,<br />

divertente, infettivo.<br />

(6.9/10)<br />

mASSimo rAnCAti<br />

SpACCAmombu - in <strong>the</strong> kennel vol. 2 (goAtmAn, novembre 2012)<br />

Genere: metal<br />

Incontrarsi su un terreno di mezzo. Questo il senso della collana In The Kennel, parente stretta dell’ormai mitizzata<br />

In The F<strong>is</strong>htank olandese ma ben radicata in quella provincia italiana sempre vigile e irrequieta. Nello specifico,<br />

quella Provincia piemontese che molto spesso ci siamo ritrovati a trattare qui, col Canalese no<strong>is</strong>e prima e con le<br />

singole uscite, poi.<br />

Ora, il secondo volume della collana compie già qualche passo dec<strong>is</strong>ivo in più r<strong>is</strong>petto<br />

al primo numero. Non più cd, bensì bell<strong>is</strong>sima edizione in vinile; non più una collaborazione<br />

in studio tra entità diverse quanto una fusione di due progetti in una nuova<br />

vita. Il nome dei protagon<strong>is</strong>ti si cela poco dietro l’intellegibile a.k.a. Spaccamombu<br />

a dimostrazione della fusione “a caldo” tra esperienze in apparenza lontane ma che,<br />

nell’accogliente studio Blue Rec di Mondovì e cullati dalla GoatMan Records, si sono<br />

dimostrate in grado di stupire. Da un lato Paolo Spaccamonti, chitarr<strong>is</strong>ta silenzioso<br />

e solitario, dal taglio cinematico e umorale; dall’altro i due Mombu (Luca T. Mai degli<br />

Zu e Antonio Zitarelli dei Neo), rumorosi e afro-addicted in formazione atipica. Nel mezzo i cinque pezzi del vinile<br />

totalmente immolati al verbo del metal sabbathiano e post-.<br />

Sorpresi? Beh, se per il versante Mombu, il trafficare con le musiche estreme era piuttosto comprensibile (vedi alla<br />

voce Tom Araya Is Our Elv<strong>is</strong> di Zuiana memoria), per Spaccamonti è una vera sorpresa trovarcelo accanito fan dei<br />

quattro in nero. E, dall’ascolto delle cinque tracce del vinile, nemmeno in soggezione. Che si tratti di rinverdire fasti<br />

doomy (Antro) col supporto dello stravolto sax di Mai, di tirate metallone con break da urlo e stop’n’go assassini<br />

(Mountains Crashing Sound) o catacombali incroci tra sludge straniante e jazz-metal alieno (Idemortos), la potenza<br />

di fuoco è fatale.<br />

Quando poi il trio libera i fantasmi afro - una Assufa<strong>is</strong> veramente notevole e la conclusiva The Altar Of Iommi che<br />

racchiude molti mondi - allora la fusione riesce al massimo. Centrifugando il percussiv<strong>is</strong>mo tribale di Zitarelli (sempre<br />

più influenzato dalle poliritmie africane), l’attitudine ipnotica degli ultimi Ex (quelli più afro), la follia cosmica e libera<br />

di Sun Ra, certo jazz nordico limitrofo al no<strong>is</strong>e made in Rune Grammofon (i Noxagt, per esempio), la devozione a<br />

Tony Iommi che riecheggia anche in progetti particolari (gli Om meno devozionali), sfilacciamenti ambient-fusion<br />

e ch<strong>is</strong>sà quant’altro. Centro pieno? Dec<strong>is</strong>amente. In alto le corna.<br />

(7.5/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

ChriStinA AguilerA - lotuS (rCA, novembre<br />

2012)<br />

Genere: voci sprecate<br />

Quando le attenzioni dell’universo girl-pop si spostarono<br />

dalla sfida Spice Girls-All Saints alla sfida Britney<br />

Spears-Chr<strong>is</strong>tina Aguilera, dovevano ancora scoccare<br />

i rintocchi del nuovo millennio e per le due teen-diva i<br />

più prevedevano un destino effimero similare a quelle di<br />

tante altre star usa&getta. Invece (purtroppo? Malauguratamente?<br />

Sfortunatamente?) ancora oggi, nel 2012, il<br />

music business sembra non riuscire a farne a meno, nonostante<br />

successo e vendite in calo più o meno costante.<br />

Se Britney Spears ha toccato il fondo (art<strong>is</strong>tico e non<br />

solo) abbastanza presto per poi, in parte, riprendersi,<br />

Chr<strong>is</strong>tina Aguilera l’ha raggiunto negli ultimi anni,<br />

dando vita ad un album destinato alla der<strong>is</strong>ione (Bionic)<br />

e attirando il gossip più cinico e di bassa lega. Prima<br />

di Bionic una carriera partita a livello d<strong>is</strong>ney-teen pop,<br />

mutata prima in un porno-pop dirtyzzato di r&b e poi<br />

nel revival retro-pop di Back to Basics, probabilmente ad<br />

oggi il d<strong>is</strong>co a suo nome più coraggioso (ed è tutto dire).<br />

Bionic è stato un d<strong>is</strong>astro perchè i suoi stessi fan avevano<br />

intuito la fregatura: era un d<strong>is</strong>co realizzato con la<br />

sola necessità di seguire la moda del momento (l’electrodance-pop<br />

di Lady Gaga). Veniamo a Lotus, ritorno d<strong>is</strong>cografico<br />

successivo alla parentesi cinematografica - in<br />

compagnia di Cher - del consigliat<strong>is</strong>simo (...) Burlesque<br />

e alla fastidios<strong>is</strong>sima Moves Like Jagger con i Maroon 5.<br />

Avvio affidato alle velleità arty di Lotus Intro, dove il produttore<br />

Alex Da Kid manipola il sample della sdoganat<strong>is</strong>sima<br />

Midnight City: una Chr<strong>is</strong>tina Aguilera per certi<br />

versi inedita. L’illusione termina qui: Army Of Me rigurgita<br />

sonorità dance radiofoniche (leggasi Katy Perry) su cui<br />

piazzare il solito potente vocione, Red Hot Kinda Love è<br />

58 59


semplicemente impresentabile e il singolo trash-pop Your<br />

Body debole (qui producono Max Martin e Shellback,<br />

come nella successiva e wannabe d<strong>is</strong>co-hit Let There Be<br />

Love). Chi si fa incantare dall’innegabile talento canoro<br />

apprezzerà maggiormente l’accoppiata balladry Sing For<br />

Me-Blank Page (quest’ultima in compagnia di Sia).<br />

L’assenza di una direzione prec<strong>is</strong>a è evidente in Around<br />

The World - a metà tra Rihanna e la Lady Marmaladecitazione<br />

“voulez-vous coucher avec moi ce soir” - e<br />

nella finta naughtytudine di Circles. A rendere ancora<br />

più chiara la situazione “proviamole tutte pur di salvare<br />

il salvabile” ci pensano i feat con i due colleghi telev<strong>is</strong>ivi<br />

- come lei giudici nel talent show The Voice - Cee Lo<br />

Green (presenza quasi impalpabile in Make The World<br />

Move) e il divo contry Blake Shelton, nell’arrangiamento<br />

pessimo di Just a Fool.<br />

Unica nota positiva: nessun tentativo brostep.<br />

(3.3/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

CollArboneS - die young (two bright<br />

lAkeS, novembre 2012)<br />

Genere: nu r&b / elettronica<br />

All’interno della recensione del debutto degli Stubborn<br />

Heart avevamo descritto la contaminazione tra black music<br />

e le ultime tendenze elettroniche come un “movimento<br />

in pericolo saturazione”. Negli ultimi due anni tra James<br />

Blake, Jamie Woon, How To Dress Well, The Weeknd e<br />

la dimensione clubby di SBTRKT (solo per citare i nomi<br />

più noti) si è ass<strong>is</strong>tito ad una vera e propria rinascita di un<br />

contesto black - spesso inglobato da art<strong>is</strong>ti bianchi - che in<br />

questi giorni sembra non conoscere limiti. Con un 2013 già<br />

spianato tra inc., Brolin, Autre Ne Veut e - si spera - Twigs,<br />

il 2012 post-r&b ha ancora da sparare qualche cartuccia.<br />

Una di queste r<strong>is</strong>ponde al nome Collarbones.<br />

Collarbones è un progetto australiano composto da<br />

Marcus Whale e Trav<strong>is</strong> Cook - i quali vivono più di 1000<br />

km di d<strong>is</strong>tanza l’uno dall’altro - con già all’attivo un<br />

album, Iconography dello scorso anno, passato pressochè<br />

inosservato. A meno di un anno di d<strong>is</strong>tanza da<br />

Iconography i Collarbones ci riprovano - sempre per la<br />

Two Bright Lakes - con il sophomore album Die Young,<br />

un d<strong>is</strong>co tributo alla gioventù spenta crudelmente troppo<br />

presto, tanto che tra le note del booklet troviamo<br />

frasi come “RIP River, Aaliyah, Lefteye” e “Thanks to all<br />

our teen crushes”.<br />

Marcus (stanziato a Sydney) e Trav<strong>is</strong> (di casa ad Adelaide)<br />

nelle interv<strong>is</strong>te esprimono apprezzamenti per R.Kelly e<br />

Miguel ma sono ben consapevoli di porsi sopra ad un piano<br />

mediatico e concettuale totalmente differente e maggiormente<br />

legato all’elettronica. L’iniziale Hypo<strong>the</strong>rmia (in<br />

feat con Guerre) mette le cose in chiaro impastando ritmi<br />

‘90s - 2step&bass - con linee e timbri soul. La titletrack è<br />

settata maggiormente su tonalità pop&rap (qui il guest è<br />

HTML Flowers), ma poi i due tornano a mettersi i guanti<br />

vellutati che non avrebbero stonato addosso a Frank<br />

Ocean, nella successiva Too Much e nella più ritmata - ma<br />

comunque sinuosa - M<strong>is</strong>sing.<br />

Se pensate che lo slow-minimal soul di Cocooned sia<br />

dec<strong>is</strong>ament deep, aspettate di sentire l’apertura di Teenage<br />

Dream (l’obiettivo dei due era collaborare con<br />

How to Dress Well su questa traccia), sviluppata poi su<br />

variazioni che possono riportare alla mente certe cose<br />

di The Weeknd. Ottimo lavoro dietro ai tasti sia in One<br />

Day che nel chill-sound di Losing, prima di approdare<br />

alla conclusiva e vagamente spettrale Red.<br />

Die Young difficilmente può competere con i pesi massimi,<br />

ma si contestualizza perfettamente e si muove con<br />

grande gusto all’interno del movimento nu r&b.<br />

(6.9/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

Corin tuCker - kill my blueS (kill roCk<br />

StArS, Settembre 2012)<br />

Genere: indie rock<br />

Al secondo album sol<strong>is</strong>ta, Corin Tucker lascia da parte<br />

le interessanti esplorazioni semi-acustiche dell’esordio<br />

1000 Years, per far tornare le chitarre elettriche in primo<br />

piano. Una scelta che certo non sorprende, considerata<br />

la reazione tiepida r<strong>is</strong>ervata al d<strong>is</strong>co precedente, ma che<br />

sembra essere una diretta reazione al successo delle altre<br />

due Sleater-Kinney Carrie Brownstein e Janet We<strong>is</strong>s,<br />

ormai lanciate nelle Wild Flag.<br />

“Eccomi, sono tornata” esord<strong>is</strong>ce la cantante nell’inno<br />

post-femmin<strong>is</strong>ta Groundhog Day che apre l’album, mettendo<br />

da subito in primo piano la sua voce inimitabile,<br />

per niente segnata dagli anni che passano. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />

grazie anche al drumming frenetico dell’ex Unwound<br />

Sara Lund, non sfigura r<strong>is</strong>petto ai momenti migliori delle<br />

Sleater-Kinney nei brani più movimentati (Kill My<br />

Blues, I Don’t Wanna Go, No Bad News Tonight), mentre<br />

r<strong>is</strong>petto all’album precedente convincono maggiormente<br />

anche i pezzi più lenti, dall’esperimento quasi<br />

psichedelico None Like You alle chitarre schiaffeggiate<br />

di Outgoing Message, forse l’apice emotivo dell’album.<br />

Come ai tempi di Call <strong>the</strong> Doctor conmuove l’omaggio<br />

a Joey Ramone Joey, mentre le noti dolenti arrivano<br />

invece con il singolo Neskowin, un malriuscito tentativo<br />

di trasformare il sound del d<strong>is</strong>co in chiave dance-rock.<br />

In generale, ci troviamo di fronte ad un buon seguito,<br />

lontano come ci si poteva aspettare dagli apici emotivi<br />

del trio di Olympia, ma che mostra un’art<strong>is</strong>ta di nuovo<br />

wAlking mountAinS - wAlking mountAinS (40033 reCordS, diCembre 2012)<br />

Genere: ambient, psych<br />

Walking Mountains è Bartolomeo Sailer, sound art<strong>is</strong>t di stanza a Bologna. Il suo nuovo<br />

progetto segue l’epopea Wang Inc., marchio di culto che lo ha fatto conosce alla scena<br />

elettronica internazionale fin dal 1999 - sulla Sonig dei Mouse On Mars - nonché progetto<br />

ideale per comprendere il passaggio che, tra i Novanta e i Duemila, ha portato la<br />

comunità elettronica verso sonorità concrete e un approccio maggiormente “suonato”<br />

(un nome di punta? Matmos). Da allora, Bart approfond<strong>is</strong>ce queste tematiche in un<br />

frame di musica (pop)olare e non solo. Negli ultimi anni ha ampliato particolarmente<br />

lo spettro d’anal<strong>is</strong>i nelle musiche per v<strong>is</strong>uals con video art<strong>is</strong>ti come Saguatti, Federico<br />

Pepe, Yuri Ancarani, mentre recentemente si è cimentato in Toilet Paper - progetto in<br />

condiv<strong>is</strong>ione con Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan - e in una mastodontica maratona per l’etichetta digitale<br />

40033 records che lo ha portato alla realizzazione di una ottantina di tracce minimal dance in un anno.<br />

Sempre per quest’ultima label, grazie al crowd founding, esce l’atteso debutto omonimo Walking Mountains, un<br />

album che ha richiesto più di un anno di lavoro e che si presenta come un melting pot degli ascolti di una vita,<br />

oltre che di ripescaggi mirati di psych, rock, kraut, prog e di tutte le pietre miliari 70s (da cui eredita lunghezza e<br />

suggestioni). Al centro il concetto di rivoluzione, gesto che sottintende una forte (e meditabonda) componente<br />

di res<strong>is</strong>tenza passiva sviluppata sia a partire da un mondo familiare e interconesso (e mai del tutto decifrabile),<br />

sia all’interno di mura domestiche che liberano ma anche asf<strong>is</strong>siano. Il taglio potrebbe richiamare il concetto di<br />

broadcasting dal mondo che sappiamo ha intrigato gli Animal Collective nella realizzazione dell’ultimo album,<br />

qui sotto la lente di ingrandimento dell’open v<strong>is</strong>ion liquida dei Mouse On Mars e degli incastri acustico elettronici<br />

dei Matmos (al netto di humor).<br />

Molto attento, Bart, a vestirsi delle miriadi di band che hanno influenzato il d<strong>is</strong>co: Amon Düül e (a)simmetrie Can,<br />

cosmica Cluster, la psichedelia più marcia dei Throbbing Gr<strong>is</strong>tle (&#8008;&delta;&#973;&sigma;&sigma;&epsilon;&i<br />

ota;&alpha; Book XII), l’influenza dichiarata capitale di ESKMO (guarda caso un mouseonmarsiano doc), il free-jazz di<br />

Peter Brotzmann e il trip hop più esoterico e black di Tricky. Molto a fuoco il taglio sonico, dove ambientazioni di<br />

cielo (ambient e psych) e terra (l’etno) oculatamente s’affidano a rock (chitarre) e hip e hop (campioni, filtri, break).<br />

Interessante anche la scelta di sondare dicotomie quali l’intim<strong>is</strong>mo (e la sofferenza) del solo (No Poetry) vs la forza<br />

(e la propulsione) della moltitudine. Altrettanto importante la resa delle tracce, lungamente lavorate e soggette<br />

al continuo feedback della community di Bandcamp (dove sono state originariamente pubblicate). Materiale che<br />

nel master finale a cura di Mauro Andreolli (presso Das Ende Der Dinge), ha goduto di un sound all’altezza degli<br />

immaginari di riferimento.<br />

Molto suonato (e percosso), ma pur sempre frutto di una sensibilità elettronica, Walking Mountains è un album a<br />

cui si ritorna sapendo di scoprirci sempre qualcosa di nuovo e ben cesellato. Certo prog via King Crimson (Holding<br />

Back), i Nine Inch Nails (My Revolution), lo status facebook di Umberto Palazzo e il sax di Enzo Casucci (The Dominant<br />

Class), la voce di Vincenzo Vasi (&#9398;) on and on e mai nulla che sia una banale citazione.<br />

(7.3/10)<br />

edoArdo briddA<br />

pronta a tirare fuori i denti e ormai avviata da protagon<strong>is</strong>ta<br />

anche in questa carriera sol<strong>is</strong>ta. Se era lecito<br />

aspettarsi forse qualcosa di più dopo gli esperimenti<br />

dell’album precedente, è anche vero che il formato da<br />

rock band è quello che si addice di più alla bionda cantante<br />

dell’Oregon, che non è mai sembrata così a suo<br />

agio dai tempi di The Woods.<br />

(6.5/10)<br />

giorgio bonomi<br />

dAniel mAloSo - in And out (kompAkt,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: latin body music<br />

Dopo il grande interesse suscitato negli addetti ai lavori,<br />

forte dell’esperienza alla Cómeme e del successo ottenuto<br />

con la hit Ritmo Especial, non stup<strong>is</strong>ce più di tanto<br />

vedere su Kompakt il messicano Daniel Maloso, sostanzialmente<br />

per tre buoni motivi: primo, la label di Michael<br />

Mayer & co. resta sempre ottimo trampolino di lancio<br />

60 61


e traguardo di consolidamento nello stesso tempo (a<br />

dirlo sono i nomi passati e presenti della scuderia, Oxia,<br />

Steve Bug, Popnoname, Jürgen Paape, SCSI-9, The<br />

Field); secondo, la scena minimal o comunque techno<br />

sud-americana vanta ancora ottimi ascendenti tra le release<br />

Kompakt (vedi anche Gui Boratto e Matias Aguayo);<br />

ultimo, il sound di Maloso, così attento all’intreccio<br />

ritmo/groove, non poteva trovare che trovare naturale<br />

delta e foce nella casa di Colonia, che a questa maniera<br />

di massaggiare e coccolare i bassi modulati da synth ha<br />

dedicato parte pressochè totalitaria delle proprie uscite,<br />

peccando quasi di settar<strong>is</strong>mo.<br />

Per In And Out quindi c’è stato uno scambio quanto<br />

meno alla pari, con la Kompakt che ha messo a d<strong>is</strong>posizione<br />

tutta la propria caratter<strong>is</strong>tica libreria di suoni<br />

(quelli sentiti in toto da Superpitcher a Jürgen Paape<br />

a Rex The Dog) e Maloso che nel goderne ha offerto il<br />

proprio mestiere, manipolando secondo voglie, usi e<br />

costumi non soltanto germanici ma genuinamente latini,<br />

che ripartono dalle sensazioni di producer di classe<br />

amanti di una techno (Aguayo) e di una micro-<strong>house</strong><br />

(Boratto) dai sapori dolci e meldiosi.<br />

Non stup<strong>is</strong>cono e non d<strong>is</strong>piacciono dunque certi salti a<br />

gravità zero nella spacey di Lindstrøm prima maniera<br />

(Boney, Right Kind, sono le stesse, lunghe levitazioni in<br />

salsa norvegese) e divertono anche le esibizioni muscolari<br />

di Body Music e Cafe Obscuro, vigorose ma brave a<br />

non trascendere nel kitsch e nemmeno nel rozzo già<br />

v<strong>is</strong>to in Rebolledo. Il marchio di fabbrica della label ovviamente<br />

è ben presente in tutte le tracce, anche con<br />

una certa ridondanza: le lunghe armonie panoramiche<br />

micro <strong>house</strong> di They Came At Night le adottava Superpitcher<br />

già nel 2004, ma va detto che lo stile di Maloso<br />

è maturo e sicuro, d<strong>is</strong>tinguendosi per la notevole cura<br />

dell’estetica e della produzione.<br />

L’unico limite, purtroppo invasivo e penetrante, è frutto<br />

del vortice imbalsamatore orchestrato da Mayer e<br />

Voigt, che ormai fanno album col limitatore di fantasia<br />

in mode ON. E Daniel Maloso qui ci fin<strong>is</strong>ce dentro a<br />

piedi uniti.<br />

L’innovazione in casa Kompakt è finita con Supermayer<br />

nel 2007, da li è solo un rielaborare secondo varianti<br />

di stile e piacere differenti. Fortuna vuole che<br />

a Maloso l’esercizio riesca piuttosto bene, anche perché<br />

trattasi di prima prova, ma per il secondo album<br />

urgono innovazione e novità, tenendo bene a mente<br />

anche le scelte fatte dai predecessori: chi ha voluto<br />

innovare, anche solo parzialmente, ha allargato i suoi<br />

orizzonti (SCSI-9 e Oxia, che han pubblicato gli ultimi<br />

album altrove) e nel frattempo a Colonia vanno in<br />

onda solo repliche, benché recitate alla perfezione e<br />

capaci ancora di non annoiare. Le evoluzioni non si<br />

faranno attendere.<br />

(6.5/10)<br />

mirko CArerA<br />

de mAgiA veterum - deiFiCAtion<br />

(trASCendentAl CreAtionS, novembre<br />

2012)<br />

Genere: black metal<br />

Che cos’è black metal oggi? O, un passo in avanti, cosa<br />

possiamo considerare “pure black metal” oggi? Chiediamolo<br />

a Maurice De Jong, olandese con un passato<br />

e un presente nel suo progetto più famoso, gli Gnaw<br />

Their Tongues, ma autore del miglior d<strong>is</strong>co black metal<br />

radi<strong>cale</strong> dell’ultimo quinquennio grazie al suo side<br />

project De Magia Veterum. Il potenziale nervoso del<br />

gruppo si era già intuito nel predecessore The Divine<br />

Anti<strong>the</strong>s<strong>is</strong>, ma nessuno si sarebbe mai aspettato un<br />

d<strong>is</strong>co così fulminante come Deification.<br />

Il black metal, nel corso dell’ultimo decennio, ha attraversato<br />

fasi particolari, spesso diverse fra loro e si è<br />

decomposto in tante correnti: dal black ortodosso di<br />

scuola norvegese, al black progressivo poi sfociato in<br />

prog puro (penso agli Opeth), al black ammantato di<br />

oscurità dark e industrial (penso ai Blunt Aus Nord), per<br />

arrivare al black sperimentale e spirituale di un gruppo<br />

come i Wolves In The Throne Room. Ma ciò che<br />

è, insieme, nuova teoria del caos e continuazione della<br />

specie, oggi è solo nei De Magia Veterum. Non è tanto<br />

il vortice horror della strumentale di apertura, Eradication,<br />

liberamente <strong>is</strong>pirata agli Entombed di Left Hand<br />

Path e al King Diamond di Abigail ad essere il centro<br />

nevralgico di un ottimo d<strong>is</strong>co, quanto il delirio <strong>is</strong>terico<br />

di Thorns (la polverizzazione degli Emperor e dei D<strong>is</strong>section<br />

degli esordi).<br />

Thorns è un catacl<strong>is</strong>ma, la convergenza di ferocia e satan<strong>is</strong>mo.<br />

Una lunga serie di scosse nervose che diventano<br />

quasi il grindcore applicato al black metal. Passage riprende<br />

i passaggi Zorniani dei Painkiller, r<strong>is</strong>crivendoli<br />

secondo le teorie di Burzum. Ecco, immaginate Filosofem<br />

se fosse scritto con il sangue e spogliato di tutte<br />

le concezioni elettroniche. Ci potremmo avvicinare a<br />

Deification. C’è qualcosa di veramente malvagio in<br />

De Jong e nella sua v<strong>is</strong>ione della musica. Qualcosa che<br />

in Evoked in Passion espolode in un vortice di ferocia<br />

insopportabile: oltre certi livelli di suono, il rapporto<br />

con l’ascoltatore diventa sofferenza f<strong>is</strong>ica. De Jong, che<br />

scrive e produce tutti i suoi lavori - e anche in questo è<br />

vicino a Burzum - ancora in Shall Not Take Form applica<br />

al free jazz schizoide il black metal e produce qualcosa<br />

di impenetrabile. Come se tutto fosse un messaggio<br />

subliminale. Resta il fatto che Deification oggi si pone<br />

come un d<strong>is</strong>co di riferimento per il black a venire.<br />

(7.5/10)<br />

mArio ruggeri<br />

deFtoneS - koi no yokAn (repriSe,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: alternative metal<br />

Anche se questo album fosse stato meno convincente,<br />

i Deftones sarebbero da considerare senza dubbio il<br />

gruppo più interessante compreso nel d<strong>is</strong>cusso fenomeno<br />

nu-metal, se non altro perché la qualità media e la<br />

longevità art<strong>is</strong>tica della loro produzione superano, per<br />

ragioni differenti, sia i Korn sia i System Of A Down (fermo<br />

restando che lavori come l’omonimo dei Korn o Toxicity<br />

dei SOAD sono d<strong>is</strong>chi fondamentali per il genere<br />

e per una certa idea di metal alternativo e contaminato).<br />

Ko No Yokan lo dimostra “solo” una volta di più. Che<br />

la band di Sacramento possieda più elasticità creativa<br />

di molti complessi a lei contemporanei non è una novità.<br />

Oltre a quel muro chitarr<strong>is</strong>tico così potente e allo<br />

stesso tempo quasi volatile nella sua molecolarità, e alla<br />

voce calda ed emotiva di Moreno, il segreto sono le doti<br />

melodiche superiori che quest’album non si astiene dal<br />

d<strong>is</strong>pensare a piene mani e che permettono di apprezzare<br />

meglio la ricchezza di sfumature presente nel loro<br />

stile. Niente cr<strong>is</strong>i, il settimo LP li restitu<strong>is</strong>ce oltretutto in<br />

forma come non li ricordavo dai tempi dell’omonimo del<br />

2003, dopo qualche lieve ma comprensibile flessione.<br />

Il dittico iniziale lascia pochi dubbi: Swerve City, con il<br />

suo insieme di Black Sabbath, Nirvana, new wave e<br />

emocore, e Romantic Dreams hanno il pregio di suonare<br />

tanto classiche (cioè “deftoniane” fino al midollo) quanto<br />

fresche. Lea<strong>the</strong>rs, che aveva anticipato il d<strong>is</strong>co, è addirittura<br />

più inc<strong>is</strong>iva nel contesto dell’album. Polterge<strong>is</strong>t<br />

r<strong>is</strong>polvera tutti i trucchi preferiti dei quattro californiani,<br />

a partire dal canto melodico sui controtempi.<br />

I Deftones sono tuttora uno dei complessi rock che usa<br />

meglio il dj, e nonostante l’assenza di Chi Cheng (che sta<br />

ancora recuperando dopo il terribile incidente d’auto<br />

del 2008) la scelta di Sergio Vega, ex Quicksand, al basso<br />

è sembrata da subito la più naturale. Tutto al posto<br />

giusto, e anche se alcuni riff li avevamo già sentiti, è<br />

difficile domandare di più a una band del genere dopo<br />

quasi vent’anni di carriera.<br />

(7.2/10)<br />

tommASo iAnnini<br />

deniSe - univerSe (Al-kemi reCordS,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: Glitch pop<br />

Universe è il d<strong>is</strong>co della presunta maturità di Den<strong>is</strong>e<br />

Galdo, autrice salernitana di spiccata sensibilità dreamypop,<br />

fantasiosa, favol<strong>is</strong>tica, rediviva Alice in un paese che<br />

non è mai stanco di meraviglie. Lasciatasi alle spalle l’ala<br />

salvifica e lungimirante di Gianni Maroccolo (già produttore<br />

del primo d<strong>is</strong>co), la music<strong>is</strong>ta si affida a Roberto<br />

Vernetti, Cr<strong>is</strong>tian Milani e Michele Clivati. L’intento, ça va<br />

sans dire, è quello di superare il clima bambinesco e ingenuo<br />

che caratterizzava Dodo, do! e che, in un modo o<br />

nell’altro, era riuscito a conqu<strong>is</strong>tare l’ammirazione della<br />

critica (passando ovviamente per le varie Trl, Radio Dj e<br />

quant’altro, mai sazie di ritornelli e stornelli prêt-à-porter)<br />

Eppure l’ingresso nel mondo degli adulti non è così facile,<br />

quando manca la leva militare. Se da un lato è palese<br />

l’approccio a sonorità più emancipate r<strong>is</strong>petto alla parte<br />

glitterata degli Eighties (il suono di Mantra of The Universe<br />

e Halfman può essere cifra di ciò) e c’è il tentativo<br />

- per quanto solo accennato - di accostarsi a una tradizione<br />

che parte dal jazz-folk passando per Kate Bush e<br />

Regina Spektor (Sailors è una bella, ma troppo classica<br />

ballad), dall’altro la zampata del manier<strong>is</strong>mo “pascoliano”<br />

è dietro l’angolo. C’est-à-dire: ben venga questo<br />

mondo di meraviglia v<strong>is</strong>to dall’art<strong>is</strong>ta con gli occhi di<br />

un fanciullino e condito di sincopati ritmi pop e accenni<br />

elettronici di natura squ<strong>is</strong>itamente sognante (e quindi<br />

archi, archetti, stelle e stelline, giocattoli e giocattolini),<br />

ma attenzione a non farsi prendere troppo la mano. E<br />

quale miglior testimone di questa indole manier<strong>is</strong>tica<br />

se non proprio l’accanimento sull’onomatopea (ancora<br />

in Rain e Piggy Poggy), la faciloneria gigiona storpiata<br />

nell’electro-indie-pop di Superpop o la strozzatura forzata<br />

di una bella (è doveroso dirlo) vocalità?.<br />

Rimangono gli spunti programmatici finalizzati a uscire<br />

dal Baby Den<strong>is</strong>e Universe e che, salvo gli ep<strong>is</strong>odi indicati<br />

sopra, si sporgono appena in dirittura d’arrivo (Light<strong>house</strong><br />

Keeper). Troppo contaminati, tuttavia, da un immaginario<br />

che in tempi come i nostri ha smesso di affascinare.<br />

(5.8/10)<br />

nino Ciglio<br />

dJ bAlli - tweet it! (extrAtone mix) (SoniC<br />

belligerAnzA, novembre 2012)<br />

Genere: extravaGanza concept<br />

DJ Balli + Ralph Brown manipolano tweet. Concept a<br />

140 bpm: electrocabala della comunicazione 2.0 (14<br />

brani x 1:40 min) in picture d<strong>is</strong>c.<br />

(7/10)<br />

mArCo boSColo<br />

62 63


egyptiAn hip hop - good don’t Sleep (r & S<br />

reCordS, ottobre 2012)<br />

Genere: art pop, psychedelia<br />

Li si era dati per desaparecidos, un po’ come i Late Of The<br />

Pier del loro primo collaboratore, Sam Eastgate (Wild Human<br />

Child, 2010). Invece, a d<strong>is</strong>tanza di due anni dall’acclamat<strong>is</strong>simo<br />

EP Some Reptiles Grew Wings (prodotto<br />

da Hudson Mohawke), rieccoli gli Egyptian Hip Hop,<br />

quattro mancuniani neanche ventenni che ritorviamo<br />

maturati sia tecnicamente (il frontman Alex Hewett è<br />

stato touring member per Connan Mockasin e Charlotte<br />

Gainsbourg), sia art<strong>is</strong>ticamente.<br />

R<strong>is</strong>petto al progressive synth-pop di stampo “upbeat” (e<br />

a favor di NME) v<strong>is</strong>to in precedenza, Good Don’t Sleep si<br />

rivela fin da subito un album dalla lenta combustione,<br />

dalle qualità espansive e sorprendentemente coeso. Un<br />

unico mood dai tanti blend esplorati in dodici tracce scritte<br />

su una prosa psichedelia narcolettica, contradd<strong>is</strong>tinte<br />

cioé dalla diversa intensità di movimento e scandite da<br />

una attiva, pulsante e vagamente esotica sezione ritmica.<br />

I richiami vanno dai 90s alternative agli 80s gothpop;<br />

ci troviamo sapori Warpaintiani (The White Falls)<br />

e - d’altronde in cabina di regia c’è il medesimo Richard<br />

Formby - dei Wild Beasts di Smo<strong>the</strong>r (Tobago, Strange<br />

Vale), per un suono che è già piuttosto caratterizzato:<br />

synth e torbide bassline a far da fondale nebbioso ad<br />

effetto “wall of sound”, in grado di esaltare al massimo le<br />

intricate trame chitarr<strong>is</strong>tiche che dai citati 80s di genere<br />

possono sorprendere in calibrate e scientificizzate pose<br />

Talking Heads.<br />

Complice inoltre una sensibilità tutta chorus che torna a<br />

rompere la quiete ripetitiva (Yoro Diallo, SYH), Good Don’t<br />

Sleep scaccia il r<strong>is</strong>chio noia, r<strong>is</strong>ultando, anzi, intrigante ed<br />

immersivo. Comodità da stereotipo indie incluse nella<br />

scatola (leggi: vocalità “shoegazey”) ma tutto il potenziale<br />

a d<strong>is</strong>posizione per il classico debutto da qualche<br />

culto, come fu quello dei Wu Lyf lo scorso anno. Merita.<br />

(7.2/10)<br />

mASSimo rAnCAti<br />

el perro del mAr - pAle Fire (memphiS<br />

induStrieS, ottobre 2012)<br />

Genere: folk<br />

Preceduto in estate da un sorprendente singolo Innosence<br />

Is Sense, che lasciava presagire una svolta goth-pop,<br />

efficace ma fin troppo anonima in un territorio a metà<br />

tra Zola Jesus e Esben And The Witch dove perdeva<br />

su tutti i punti, Sarah Assbring consegna finalmente alle<br />

stampe l’atteso ritorno sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, sgombrando<br />

il campo dagli equivoci. El Perro Del Mar non traffica<br />

con l’oscurità. Sarah, anche se gli anni passano, resta la<br />

ragazza bionda con i capelli da marinaretto che sogna<br />

una forma di amore impossibile, tra Liala e un romanzo<br />

Harmony. Esattamente quel profilo anni ‘60, leggero e<br />

soffice come le nuvole estive che ce l’ha fatta amare fin<br />

dall’esordio.<br />

Pale Fire si colloca come l’ultimo tassello di questo personal<strong>is</strong>simo<br />

mosaico pop. Parla la stessa lingua di brani<br />

storici del suo catalogo come Change Of Heart, Th<strong>is</strong> Loliness,<br />

Candy, Let Me In, eppure non conserva un grammo<br />

della magia di quest’ultime, colpa soprattutto del<br />

pesante corredo elettro, che se pure si era intrav<strong>is</strong>to in<br />

Love Is Not Pop, stavolta domina su tutte le canzoni. Una<br />

soluzione che aiuta l’omaggio verso la dance pop anni<br />

‘90 che Sarah afferma voler fare con questo d<strong>is</strong>co. Brani<br />

come Hold Off The Dawn, Home Is To Feel Like That e I<br />

Carry The Fire, in questo senso riescono a stabilire una<br />

relazione con i vecchi Ace Of Base o Cardigans, in un<br />

modo sicuramente più efficace di Maria Minerva, che<br />

sostanzialmente fa la stessa cosa. Il singolo, con quell’irres<strong>is</strong>tible<br />

refrain “Solitude <strong>is</strong> my best friend..” e gli ancheggiamenti<br />

pop-funk riesce finanche a farci ricordare<br />

gente come Luscious Jackson, Soul Coughing e il Beck<br />

di Odelay. Sostanzialmente i brani da best of ci sono<br />

anche stavolta, soprattutto I Was A Boy, ma la scelta di<br />

adeguarsi all’andazzo digitale quando lei, da sola con<br />

la sua chitarra, evocava mondi interi e si rivelava come<br />

l’unica degna erede di Claudine Longet, toglie parecchi<br />

punti al d<strong>is</strong>co. (6/10)<br />

Antonello ComunAle<br />

emptySet - CollApSed (rASter noton de,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: elettronica<br />

Emptyset sono James Ginzburg, producer americano<br />

di Washington ma di stanza a Br<strong>is</strong>tol che durante due<br />

lustri ha suonato praticamene di tutto sotto svariati alias<br />

(30Hz, P Dutty), dalla dubstep ai break, passando per<br />

grime, acid e tech-<strong>house</strong> (tra gli altri ha collaborato con<br />

Pinch fondando con lui il Multiverse, un network d’etichette).<br />

E l’art<strong>is</strong>ta Paul Purgas, attivo in solo soltanto<br />

con un 12’’ di quest’anno, Dual Capacity co-firmato Shelley<br />

Parker, in area ambient scura, post-industrial, no<strong>is</strong>e<br />

e paraggi (non a caso la giovane etichetta dell’eppì, la<br />

WCEC, ha ospitato Mick Harr<strong>is</strong>).<br />

Assieme dal 2007, James e Paul producono costantemente<br />

per svariate label specializzate e di genere tra cui<br />

Caravan e Future Days su album e eppì. Collapsed è il<br />

loro biglietto da v<strong>is</strong>ita Rasten Noton: smussati i looping<br />

più grezzi e accantonato il 4/4 in area Minus per pulseprogramming,<br />

minimal<strong>is</strong>mo e no<strong>is</strong>e effect (Core, Wire)<br />

rigorosamente analogico, il duo si posiziona sulla scia di<br />

Byetone, ovvero sul lato più muscolare della faccenda<br />

abstract techno iniziata dai Pan Sonic e proseguita con<br />

rigore dai mastermind dell’etichetta tedesca (Armature).<br />

Tra i nuovi ingressi della label, sicuramente più interessante<br />

la giapponese Kyoka.<br />

(6.2/10)<br />

edoArdo briddA<br />

FAuSto bAlbo - login (SnowdoniA, ottobre<br />

2012)<br />

Genere: kraut / Glitch<br />

Pubblicato dalla solita ammirevole stoica Snowdonia<br />

in coproduzione con Afe Records (il d<strong>is</strong>co è apparso in<br />

streaming su bandcamp a luglio, la d<strong>is</strong>tribuzione Audioglobe<br />

è di ottobre), ecco la quinta release maggiore<br />

in 12 anni di attività d<strong>is</strong>cografica per il cuneese classe<br />

1970 Fausto Balbo, a due anni da quel Detrimental<br />

Dialogue smezzato con Andrea Marutti che ci era<br />

molto piaciuto. Fausto fa stavolta con la sua elettronica<br />

glitch di <strong>is</strong>pirazione metà krauta metà industriale - ma<br />

dal taglio artiginale e fragrante - una specie di concept<br />

pessim<strong>is</strong>ta sul web e sul web 2.0 dei social e dei login<br />

appunto, con lo spirito di chi dopo un giro circospetto e<br />

attento corre prima possibile a fare logout, agli antipodi<br />

insomma dell’ottim<strong>is</strong>mo modern<strong>is</strong>ta, yuppie e fintoingenuamente<br />

pro-tecnologico del James Ferraro di<br />

Far Side Virtual.<br />

L’elettronica di Balbo è rabdomantica nel senso che si<br />

aggira zoppa alla ricerca di una forma propriamente<br />

musi<strong>cale</strong>, e te la fa intuire, te la fa immaginare, restando<br />

sempre orgoliosamente al confine tra concreta pura e<br />

suono orientato/organizzato. Come già abbiamo avuto<br />

occasione di sottolineare, è questo un ambito inflazionato<br />

e r<strong>is</strong>chioso, ma il nostro sa bene come costruire i<br />

suoi materiali e il r<strong>is</strong>ultato, per quanto apparentemente<br />

anche di base, riesce a suonare fresch<strong>is</strong>simo e godibile.<br />

E’ un viaggio nella rete non consolatorio da un punto di<br />

v<strong>is</strong>ta della dimensione sociale-comunicativa, tutto grumi,<br />

inciampi, interdizioni; più appagante forse per chi<br />

cerca davanti allo schermo la sublimazione di un’esperienza<br />

individuale/individual<strong>is</strong>tica di ritiro appartato, di<br />

meditazione.<br />

Dal romantic<strong>is</strong>mo austero subito ricondotto a un algido<br />

inciampare di bit di Harvester of Bits appunto, all’effetto<br />

didgeridoo di aphextwiniana memoria di Virus Scan,<br />

dalla illbient arabeggiante e m<strong>is</strong>teriosa - poi addensantesi<br />

in figure quasi gobliniane - di Hardmysticmeeting, ai<br />

suoni al limite dell’infrasuono che fanno agghiacciare il<br />

gatto di Hi Mr. Kemp, dalla mimesi natural<strong>is</strong>tica e dalle<br />

krauterie di Bird’s Room, al melmoso drone dub di Clozier<br />

e allo sfarfallio spacey di Walkin’ with Klaus (il pezzo più<br />

formato - nel senso di musi<strong>cale</strong> - del lotto). Fino ai quasi<br />

diciotto minuti conclusivi di Will Future Man Develop a<br />

Third Ear?, che stimolano lo spuntare di questo famoso<br />

terzo orecchio con un fantastico concertino di ciguettii<br />

- f<strong>is</strong>chi, rumori e rumorini - che diventa poi un muro<br />

di micro-contrappunti come di grilli in trance, diciotto<br />

minuti che passano ipnotici e l<strong>is</strong>ci come fossero manco<br />

cinque.<br />

Login by Fausto Balbo<br />

(7.1/10)<br />

gAbriele mArino<br />

FAuve! gegen A rhino - polemoS (bedevil,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: avant<br />

Avevamo v<strong>is</strong>to giusto puntando sulla formazione toscana<br />

Fauve! Gegen A Rhino. Per modalità compositive e<br />

di d<strong>is</strong>tribuzione si dimostrano sempre più emancipati,<br />

figli di una generazione “liquida” per manegevolezza del<br />

medium e impatto libero, ma accesi dal sacro fuoco del<br />

furore conoscitivo intragenere. Un atteggiamento che<br />

li porta a mostrarsi come epigoni di nessuno e originali<br />

compositori, pur nella trafficata ampiezza della tavolozza<br />

di colori usata.<br />

Polemos è la collezione, uscita in formato digitale, dei tre<br />

Ep a concetto rilasciati dall’un tempo trio e ora duo (da<br />

segnalare la defezione di Matteo Moca avvenuta dopo<br />

la reg<strong>is</strong>trazione del primo ep) nei mesi scorsi, e incentrati<br />

sulla riflessione sulla lotta come “modalità di origine<br />

dell’evento”. In When You’re Dancing, You’re Struggling,<br />

When You’re Struggling You’re Winning e When You’re<br />

Winning You’re Losing c’è un intero universo di forme e<br />

modalità sonore agile e scomposto tra heavy rhythm,<br />

ambient malsana, techno atipica, destrutturazione acidrock,<br />

devianze trip-hop, perversioni Liars e increspature<br />

Fennesziane, trance da droga sintetica e mantra dal<br />

futuro.<br />

Roba che è a tempo stesso minimale e massimal<strong>is</strong>ta, che<br />

costru<strong>is</strong>ce orizzonti rimescolando input da ogni dove,<br />

che frantuma generi e preconcetti, convogliando in sé<br />

la migliore accezione del termine “musica liquida”. La tavolozza<br />

di colori dei Fauve è orizzontale sul piano dello<br />

spazio-tempo e condita di ogni ben di dio musi<strong>cale</strong>. In<br />

essa infilano le manine per dipingere paesaggi sonori<br />

nuovi e sporcare quelli evidenti e riconoscibili, col sostegno<br />

di una impalcatura progettuale e ideologica di<br />

grand<strong>is</strong>simo spessore. Leggere e guardare il video di<br />

Serse per averne conferma.<br />

(7.5/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

64 65


FeAr - <strong>the</strong> FeAr reCordS (em reCordS,<br />

diCembre 2012)<br />

Genere: punk<br />

Personalmente, non ho mai nutrito per i remake di nessun<br />

genere. Prefer<strong>is</strong>co gli originali o almeno, accetto le<br />

riproposizioni se fatte con arte e intelligenza, con gusto,<br />

r<strong>is</strong>petto e con (addirittura) magari qualche idea innovativa.<br />

Ma le autocelebrazioni no. Soprattutto quando<br />

si tratta di celebrare un culto totale, d<strong>is</strong>truggendolo.<br />

Sarebbe interessante chiedere ai The Fear, motivazioni<br />

economiche a parte, perché incidere nuovamente un<br />

d<strong>is</strong>co, trent’anni dopo, dopo aver perso giocoforza tutto<br />

lo smalto e la rabbia del revolt punk dei prim<strong>is</strong>simi anni<br />

‘80. E torniamo, non si scappa, al ragionamento di sempre:<br />

Debord, McLuhan, la storia si ripete. Prendete una<br />

musica, estrapolatela dal suo habitat originario e allora,<br />

solo allora, capirete quanto la storia, l’ambiente, la società<br />

nella quale è stata composta siano importanti tanto<br />

quanto l’idea creativa. Soprattutto se parliamo di punk.<br />

I Fear, per gli amanti del rock, sono un’<strong>is</strong>tituzione. Per<br />

tutti gli altri sono quelli che hanno copiato i Guns’n’Roses<br />

rifacendo I Don’t Care (da The Spaghetti Incident!?)<br />

senza sapere, loro malgrado, che furono i G’n’R a coverizzare<br />

il manifesto del gruppo che faceva paura: Fear<br />

appunto. The Fear Album, edito nel 1982, fu una sorta<br />

di elegia del caos rivoluzionario, da mettere in fila con<br />

i Germs di G.I., i D<strong>is</strong>charge di Hear Nothing, See Nothing,<br />

Say Nothing, i Po<strong>is</strong>on Idea di The Fear E.P.,<br />

i Gbh e bande armate non troppo d<strong>is</strong>simili; un d<strong>is</strong>co<br />

violento, fastidioso, pericoloso, scomodo, una sorta di<br />

blitz sonoro effettuato a colpi di We Destroy The Family,<br />

Let’s Have a War, Gimme Some Action. Più che canzoni,<br />

manifesti sociali.<br />

Ed oggi? Ecco, provate ad immaginare una canzone ingrassata,<br />

imbolsita, pigra, senza più rabbia ma con la<br />

voglia di rappresentare la rabbia. Come una proiezione<br />

di un tempo che è stato. Ecco, il r<strong>is</strong>ultato, senza cattiveria,<br />

non può che essere pericolosamente tragico. Perché<br />

se al punk togli il suo contesto di rabbia giovanile, o ti<br />

chiami Jello Biafra, oppure r<strong>is</strong>chi di fare magre figure:<br />

e se sei un simbolo del punk, allora l’affare si complica.<br />

Certo, i The Fear anche oggi si fanno ascoltare ma qualcuno<br />

dovrà anche spiegarci il senso di un’operazione<br />

del genere.<br />

(5/10)<br />

mArio ruggeri<br />

FerguS & geronimo - Funky wAS <strong>the</strong> StAte<br />

oF AFFAirS (hArdly Art, luglio 2012)<br />

Genere: GaraGe soul<br />

Rieccoli, i Fergus & Geronimo, quel duo di folli garage<br />

boys tanto promettenti usciti con il loro buon primo<br />

d<strong>is</strong>co poco più di un anno fa. Funky was <strong>the</strong> state of affairs<br />

è un titolo dec<strong>is</strong>amente adatto a sedici canzoni che<br />

vanno a comporre un mix delirante di parlato (The strange<br />

one speaketh, My phone’s bene tappe, baby), rumor<strong>is</strong>mi<br />

(The Uncanny Valley) rock’n’roll, garage (Spies) e parecchi<br />

residui (post)punk (Roman nvmerals, Drones). R<strong>is</strong>petto<br />

all’esordio i passi avanti sono molt<strong>is</strong>simi. Si riconferma<br />

soprattutto l’eterogeneità delle <strong>is</strong>pirazioni, in particolar<br />

modo aggiungendo i deliri funky tutti basso, tromba e<br />

synth che vanno a chiudere l’album.<br />

Funky was <strong>the</strong> state of affairs ha a tratti perfino la<br />

forza di un concept che non si presta a una facil<strong>is</strong>sima<br />

interpretazione, anche a causa di scelte stil<strong>is</strong>tiche d<strong>is</strong>parate<br />

che comunque vanno a dare al d<strong>is</strong>co una forma<br />

unitaria. Un buon lavoro, insomma, pieno di slanci low-fi<br />

e ricco di estemporaneità.<br />

(7/10)<br />

giuliA CAvAliere<br />

FrAnCo bAttiAto - Apriti SeSAmo<br />

(univerSAl, ottobre 2012)<br />

Genere: cantautorato<br />

Capire Battiato, avrebbe detto il buon Castoldi, non è<br />

affatto un’operazione scontata. Tanto più se, dopo cinque<br />

anni e mezzo, l’attesa (l’ultimo lavoro di inediti fu Il<br />

Vuoto, 2007) ha divorato i fans, che, trepidanti, hanno<br />

guardato con mal celata malizia le opere cinematografiche,<br />

teatrali e sperimentali del maestro. Apriti Sesamo<br />

arriva in una stagione inattesa della vita di Battiato, in<br />

cui, di certo non nel silenzio assoluto, il cantautore catanese<br />

sta affrontando la sperimentazione su vari fronti.<br />

Rimarrà deluso, dunque, chi si aspettava da questo<br />

ventottesimo album un’opera di indagine e di ricerca sul<br />

suono. Essa non è stata abbandonata, quanto piuttosto<br />

relegata al campo di altre arti non meno nobili come il<br />

melodramma (recent<strong>is</strong>sima è l’opera di ologrammi, balletto<br />

e lirica dedicata alla figura di Bernardino Telesio).<br />

Si può dire che, sul fronte del sound, Apriti Sesamo<br />

poco si d<strong>is</strong>tacca dall’esperienza de Il Vuoto o, meglio<br />

ancora, dei Fleurs.<br />

Ma nessuno aveva aspettative diverse. Gli strumenti<br />

dell’artigiano pop sono maneggiati con la perfezione<br />

che si confà a chi è maestro assoluto nel genere. Con<br />

l’immancabile ausilio del fido Sgalambro e di un cast<br />

d’eccezione come Faso (Elio e le storie tese), Gavin<br />

Harr<strong>is</strong>on (King Crimson), Simon Tong (Verve), Battiato<br />

cuce dieci ep<strong>is</strong>odi di vita, fra nostalgie e indignazione,<br />

echi sacri e mitologia pagana. Il tutto sapientemente<br />

d<strong>is</strong>tribuito nel consueto pastiche di citazion<strong>is</strong>mo: si va<br />

da Santa Teresa d’Avilia (Un irres<strong>is</strong>tibile richiamo) a Dan-<br />

te (Testamento), da Stefano Landi (Passacaglia) al poeta<br />

arabo Ibn Hamd<strong>is</strong> (Aurora), da Sheherazade di Nikolai<br />

Rimsky-Korsakov (Apriti Sesamo) ai sempreverdi Vangeli.<br />

L’impressione è quella di un Battiato per nulla stanco e<br />

per nulla sazio di novità liriche. Se si eccettua un po’ di<br />

moral<strong>is</strong>mo di troppo nel singolo Passacaglia (“La gente<br />

è crudele e spesso è infedele” et similia), il ritornello ridondante<br />

e a marcetta di Eri con me e il cantato femminile<br />

(pur pregno di significato politico) in stile pubblicità della<br />

Lines di Caliti Junku, il d<strong>is</strong>co presenta svariati momenti<br />

in cui l’orecchio corre ad opere dec<strong>is</strong>amente fortunate<br />

di Battiato: Testamento suona molto alla maniera di<br />

F<strong>is</strong>iognomica, La polvere del branco ricorda alcune cose<br />

di Gommalacca, il tutto in un’operazione che nei due<br />

precedenti d<strong>is</strong>chi di inediti non era avvenuta. Il richiamo<br />

alla gioventù e la nostalgia di essa porta con sé anche un<br />

auspicio militante per le nuove generazioni (in Quand’ero<br />

giovane si canta “Viva la gioventù che fortunatamente<br />

passa senza troppi problemi”), ridimensiona gli spazi<br />

bucolici investendoli di una saggezza popolare ormai<br />

dimenticata (Caliti junku) che diventa critica sociale (“The<br />

world outside <strong>is</strong> insane”), s’allarga, infine, in atmosfere<br />

favol<strong>is</strong>tiche, da Mille e Una Notte, con il finale di Apriti<br />

Sesamo, che, come la roccia della favola, sembra quasi<br />

spalancare un’aspettativa di speranza, di rinascita e reincarnazione<br />

(non a caso la parola torna spesso nel d<strong>is</strong>co).<br />

Se dunque l’impegno del cantautore è sconfinato in altri<br />

fronti estetici e la ricerca sul suono non progred<strong>is</strong>ce in<br />

maniera evidente (non si pensi però che gli arrangiamenti<br />

siano deboli), nulla si può certo contestare all’accanimento<br />

e all’ardore di questo signore di sessantasette<br />

anni che ancora non smette di deliziarci.<br />

(6.9/10)<br />

nino Ciglio<br />

gAry ClArk Jr - blAk And blu (wArner<br />

muSiC group, ottobre 2012)<br />

Genere: blues-soul-rock-pop<br />

Etichettato dai soliti noti come “il nuovo Hendrix” o “il<br />

salvatore del blues”, il ventottenne texano Gary Clark<br />

Jr. ha passato gli ultimi anni tra lo studio (alcuni album<br />

introvabili e un paio di EP) e il palco.<br />

Il nuovo Hendrix, il salvatore del blues... ma qualcuno<br />

oggi sente veramente il b<strong>is</strong>ogno di un nuovo Hendrix<br />

(non lo doveva già essere Lenny Kravitz? Ecco...) o del<br />

salvatore del blues? La musica, fortunatamente, evolve<br />

e per farlo spesso lo fa passando anche dal revival, senza<br />

però che ci sia per forza la necessità di avere un nuovo<br />

qualcuno o colui in grado di salvare un genere che negli<br />

anni ha perso parte del suo fascino, forse proprio perchè<br />

fin troppo legato ai cliché del passato e spesso incapace<br />

di contaminarsi con concetti musicali contemporanei.<br />

Blak and Blu per Gary Clark Jr. è l’album d’esordio su<br />

Warner, la quale ha evidentemente individuato in lui<br />

un potenziale tornaconto economico: Gary ha div<strong>is</strong>o<br />

lo stage con alcuni dei nomi più prestigiosi del blues,<br />

ha presenziato all’evento Red, White and Blues alla Casa<br />

Bianca, ha recitato nel film Honeydripper, è stato nominato<br />

“Best Young Gun” dal Rolling Stone (eh beh...) ed<br />

ha collaborato a più riprese con Alicia Keys. Insomma,<br />

in un periodo in cui in USA la tradizione (dai Mumford<br />

& Sons a Taylor Swift) è tornata a dominare, uno come<br />

Gary Clark Jr. la vince facile.<br />

Gary Clark Jr è sicuramente un music<strong>is</strong>ta abile quanto<br />

furbo e lo si può intuire dalla linfa, sapientemente<br />

impostata sul gusto vintage, che scorre lungo le tredici<br />

tracce - alcune già presentate in passato - di Blak and<br />

Blu. L’iniziale Ain’t Messin’ ‘Round ha il compito di catturare<br />

l’attenzione con il suo trascinate soul-rock bello tirato,<br />

sorretto egregiamente dalla grana grossa del blues<br />

cattivo e ‘60s della successiva When My train Pulls In. Altrove<br />

troviamo tentativi soul (la titletrack), scie Prince,<br />

modernizzazioni vicine all’r&b (The Life) contrapposte a<br />

stereotipati retro boogie-roll (Trav<strong>is</strong> County), la vecchia<br />

black sixties (Please Come Home) e gli ancora più vecchi<br />

blues delle paludi (Next Door Neighbor Blues).<br />

Blak and Blu è una sorta di mini guida tascabile “For<br />

Dummies” sulla storia della musica nera dell’ultimo<br />

secolo. L’autore, Gary Clark Jr, conosce molto bene la<br />

materia e i suoi riferimenti principali ma non si è sforzato<br />

abbastanza da rendere l’opera interessante, inoltre la<br />

produzione affidata a Mike Elizondo e Rob Cavallo (mr.<br />

rock patinato) fin<strong>is</strong>ce per appesantire il tutto.<br />

(5.7/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

gentleSS3 - SpeAk to <strong>the</strong> boneS (viCeverSA,<br />

diCembre 2012)<br />

Genere: folk rock<br />

Sono tanti i motivi d’interesse per questo sophomore dei<br />

Gentless3. Alcune arrivano dalla cartella stampa, dove<br />

ad esempio si narra che le inc<strong>is</strong>ioni sono state effettuate<br />

anche al Teatro Coppola, della cui occupazione vi abbiamo<br />

parlato qualche mese fa, esperienza che prosegue<br />

e cui rinnoviamo il nostro più cordiale in bocca al lupo.<br />

Inoltre, veniamo a sapere che la produzione art<strong>is</strong>tica di<br />

questo Speak To The Bones è di Joe Lally nientemeno,<br />

e che anche un altro tipo poco raccomandabile (si fa per<br />

dire) come Cesare Basile ci ha messo lo zampino.<br />

E’ però alla prova dell’ascolto che arrivano le notizie più<br />

gustose, v<strong>is</strong>to che il trio ragusano pare essersi affrancato<br />

quasi del tutto dai fantasmi post-rock per abbracciare<br />

66 67


una forma canzone matura ma non supina, cupa e calda,<br />

elaborata seppure diretta al cuore. Il banjo e le tastiere<br />

cambiano gli scenari intrecciando trame tradizionali e<br />

inquietudini 90s, ma ad indicare la rotta è la scrittura, di<br />

un’intensità duttile ed espansa, capace d’impastare con<br />

d<strong>is</strong>involtura la palpitazione tenue Mark Kozelek ed il<br />

ciondolare afflitto Black Heart Procession (Destinations<br />

Unknown), il lir<strong>is</strong>mo essenziale Karate ed il malanimo<br />

Alice In Chains (V For Vittoria), ugge Willard Grant Conspiracy<br />

(Letters From A New Form) e paturnie Lanegan<br />

(My Fa<strong>the</strong>r Moved Through Dooms Of Love).<br />

Un pan<strong>the</strong>on d’influenze che pure sa tenere al centro<br />

la propria voce, densa e febbrile in Speak To My Bones,<br />

struggente nella dedica ad Elliott Smith buonanima<br />

di Ell<strong>is</strong> Island, bieca ma venata di tenerezza speranzosa<br />

nella conclusiva Saved, come dire che c’è uno spiraglio<br />

di luce alla fine del tunnel noir.<br />

(7.1/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

giAnCArlo Frigieri - togliAmoCi il<br />

penSiero (Contro reCordS, ottobre 2012)<br />

Genere: canzone d’autore<br />

Si defin<strong>is</strong>ce un cantante “povero”, Giancarlo Frigieri, facendo<br />

torto a sé stesso. Anche se un mood involontariamente<br />

scompigliato lo cogli davvero in una poetica che<br />

rimane comunque riconoscibile, per certi versi tradizionale,<br />

innegabilmente autarchica. Quinto d<strong>is</strong>co in carniere<br />

e un immaginario sonoro in bilico tra rock ad ampio<br />

spettro e Giorgio Gaber, Francesco Guccini e Pierangelo<br />

Bertoli, ma anche, per dire, un Mauro Mercatanti<br />

dei tempi di Infedele alla linea. Tanto per sottolineare<br />

che qui di laccature ordinarie e ben codificabili legate<br />

a una r<strong>is</strong>coperta à la page della canzone all’italiana ne<br />

troverete ben poche. Al massimo una sensibilità d’autore<br />

che mira al quotidiano, a una dimensione lo<strong>cale</strong><br />

e da essere umano con tutti i pregi e i difetti del caso.<br />

Del resto l’ex Love Flower/Julie’s Haircut/Joe Leaman<br />

ci ha abituati a un punto di v<strong>is</strong>ta tutto suo sul mondo e<br />

sulla la vita, rinnovato con stile ad ogni passaggio d<strong>is</strong>cografico.<br />

Anche con un Togliamoci il pensiero che non fa<br />

eccezione in questo senso, adottando il linguaggio della<br />

semplicità folk-rock (la title-track) e mescolandolo, di<br />

volta in volta, a richiami tra i più d<strong>is</strong>parati: il Messico di<br />

frontiera de Il nemico, la chiusa quasi hardcore del L’altra,<br />

il blues-funk di Senza canditi. Con quel valore aggiunto<br />

di cui si diceva poche righe più su, ovvero la capacità<br />

di scrivere su un attualità semplice e legata a filo doppio<br />

alle umane solitudini. Quel che accade soprattutto<br />

in una La pol<strong>is</strong>portiva che nei suoi cinque minuti riesce<br />

a dipingere un universo r<strong>is</strong>tretto, contestualizzato, ma<br />

anche commovente e con le sue regole, tra badanti e<br />

pensionati, gnocco fritto e balli di gruppo.<br />

(6.8/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

giovAnni mArton - ogni SguArdo non è<br />

perSo (SeAhorSe reCordingS, novembre<br />

2012)<br />

Genere: dark pop d’autore<br />

Cresciuto a pane e studi musicali - soprattutto chitarra<br />

classica, ma anche solfeggio, armonia e composizione -,<br />

il ventitreenne Giovanni Marton esord<strong>is</strong>ce sulla lunga<br />

d<strong>is</strong>tanza con Ogni sguardo non è perso (sottotitolo: Formulario<br />

di estetica stagionale), album che arriva dopo<br />

l’EP del 2011 Non sogno l’estate. Il giovane pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta<br />

si presenta con un debutto convincente sotto<br />

diversi aspetti, grazie a una personalità cantautorale già<br />

matura che, seppur orientata principalmente verso sonorità<br />

dark pop, riesce comunque a costruire brani eterogenei.<br />

Un campionario di suoni caratterizzato da una<br />

scrittura sottile, m<strong>is</strong>urata, che di volta in volta rimanda<br />

a paesaggi fuori dal tempo e dallo spazio, in bilico tra<br />

d<strong>is</strong>solvenze barocche ed eclett<strong>is</strong>mi camer<strong>is</strong>tici.<br />

Tormenta estiva, il brano che apre il d<strong>is</strong>co, introduce<br />

l’ascoltatore a un songwriting che per i suoi giochi di<br />

luce e ombra fa pensare al lato intim<strong>is</strong>ta e v<strong>is</strong>ionario<br />

del Morgan migliore, come anche L’ultimo sole, pezzo<br />

che vira verso territori maggiormente synth senza però<br />

rinunciare alla linearità della forma-canzone tradizionale.<br />

Perdersi tra gli sguardi, con la sua tenue melodia<br />

impression<strong>is</strong>ta, immerge in uno scenario da Parigi in<br />

bianco e nero, dove la suggestione chamber non è più<br />

solo musi<strong>cale</strong> ma anche cinematografica, mentre Il tuo<br />

mondo non è perso è un ipnosi electro rock à la Bluvertigo.<br />

Nel d<strong>is</strong>co c’è spazio anche per due ospiti illustri: Fabio<br />

Cinti in Nuovi s<strong>is</strong>temi stellari (un synth d’autore in<br />

aria Battiato) e Lele Batt<strong>is</strong>ta in Idillio Borghese (ottimo<br />

esempio di artigianato pop, per uno dei brani più riusciti<br />

del lotto). Tanto per sottolineare ancora una volta i<br />

legami di Marton con tutto il revival 80s connesso a una<br />

certa canzone d’autore all’italiana.<br />

Nel complesso, il pregio maggiore di Ogni sguardo non<br />

è perso è la voglia di sperimentare soluzioni musicali<br />

insolite e personali, pur nell’ottica di un songwriting<br />

sempre riconoscibile. Un buon esordio di un autore da<br />

tenere d’occhio.<br />

(7/10)<br />

giuliA Antelli<br />

green dAy - ¡doS! (repriSe, novembre 2012)<br />

Genere: GaraGe pop<br />

Non staremo qui a parlarvi degli attuali tormenti di<br />

Billy Joe, quarantenne ragazzaccio in rehab reduce da<br />

bravate come quello sfogo anti-Bieber all’iHeart Radio<br />

Music Festival (dai, ché su Facebook l’avete cliccato e<br />

pure condiv<strong>is</strong>o). E nemmeno a ribadirvi chi, anzi che cosa<br />

siano i Green Day oggi come ieri (macchina da soldi per<br />

teenager lo erano già ai tempi di Dookie e di Woodstock<br />

‘94, le indignazioni dei pur<strong>is</strong>ti “punk” lasciano il tempo<br />

che trovano).<br />

Essì, neanche l’arte della preterizione ci salva da questo<br />

¡Dos!, seconda installazione dell’annunciata trilogia aperta<br />

dall’invero innocuo (e a tratti fastidioso) ¡Uno! e chiusa<br />

ovviamente dal venturo ¡Tré! (indovinate chi ci sarà in<br />

copertina?). Freddure a parte - chi conosce i nomi della<br />

band l’avrà capita, nemmeno a spiegarla -, la scelta di<br />

tre album sparati a breve d<strong>is</strong>tanza riflette una - per loro<br />

- audace diversificazione stil<strong>is</strong>tica: il d<strong>is</strong>co precedente era<br />

dedicato alle canzoncine punk pop, il prossimo sarà dedicato<br />

alle canzoncione in stile rock opera (alla American<br />

Idiot, per capirci), mentre questo vede i tre californiarni<br />

alle prese con le - si fa per dire - canzonacce garage.<br />

Operazione per certi versi gustosa, anzitutto perché richiama<br />

palesemente il loro side-project Foxboro Hot<br />

Tubs (ne hanno pure semiriciclato una canzone, Mo<strong>the</strong>r<br />

Mary, per il singolo Stray Heart, peraltro parente melodica<br />

di Everybody’s Happy Nowadays dei Buzzcocks) e poi<br />

perché certe dinamiche riescono ai nostri meglio della<br />

solita roba. La voce di BJ è ovviamente sempre - sin<br />

troppo - riconoscibile per indurci nell’illusione che non<br />

si tratti dei Green Day, però cose come il bridge di Fuck<br />

Time e Wild One - puro Weezer - hanno il loro bel sapore<br />

bubblegum (appena sporcato di ruggine e di testi inevitabilmente<br />

adolescenziali), laddove l’evidente strizzata<br />

d’occhio agli Strokes di Lazy Bones fa quasi tenerezza; e<br />

se la scontat<strong>is</strong>sima dedica a Amy Wine<strong>house</strong> (Amy, appunto)<br />

nasconde una melodia che più beatlesiana non<br />

si può, Nightlife è l’inevitabile concessione poppettara<br />

(scivolone pari alla ruffian<strong>is</strong>sima Kill The DJ del d<strong>is</strong>co prima),<br />

con l’ospitata della rapper Lady Cobra. Uno, due,<br />

massimo tré ascolti: impossibile chiedere di più a un d<strong>is</strong>co<br />

così. Non è poco, eh.<br />

(6.3/10)<br />

Antonio pAnCAmopugliA<br />

gypSy & <strong>the</strong> CAt - <strong>the</strong> lAte blue (AlSAtiAn<br />

muSiC, novembre 2012)<br />

Genere: indiepop+psichedelia<br />

I Gypsy and The Cat sono due ex DJ australiani, Xavier<br />

Bacash e Lionel Towers, votati alla causa dell’indie pop.<br />

Un album d’esordio, Gilgamesh del 2010, capace di ricevere<br />

- soprattutto nella terra dei canguri e nei territori<br />

mitteleuropei - consensi ad ampio spettro, grazie ad una<br />

proposta tanto fresca quanto azzeccata.<br />

Se in Gilgamesh il duo proponeva un pop di derivazione<br />

eighties (che la scena electropop australiana sia ai vertici<br />

ormai da anni non è un caso) che li ha portati ad aprire<br />

per Kylie Minogue, nel sophomore The Late Blue Xavier<br />

e Lionel si sono tuffati tra le variopinte onde sixties.<br />

Scritto in tour e reg<strong>is</strong>trato in una fattoria, The Late Blue,<br />

può far vanto della produzione del guru della new psichedelia<br />

Dave Fridmann. Ed è proprio Dave Fridmann<br />

(recentemente dietro all’acclamato Loner<strong>is</strong>m dei Tame<br />

Impala) il nome chiave di una sterzata sonora che va a<br />

rafforzare la scena acida made in Australia. L’obiettivo<br />

dei musicalmente rinnovati Gypsy & The Cat sembra<br />

essere quello di portare il d<strong>is</strong>corso psichedelia+pop di<br />

Loner<strong>is</strong>m su livelli ancora più radiofonici e vendibili,<br />

lasciando quindi da parte tutte le contaminazioni jamoriented<br />

anni’70.All’interno delle dieci tracce di The Late<br />

Blue è il singolo di lancio Bloom a svettare: prendete<br />

un po’ di Cure, un po’ di The Drums, tocchi jangly (non<br />

lontana Every Beat Of The Heart dei The Railway Children),<br />

infarcite il tutto in un’atmosfera surf/estiva e avete<br />

l’indiepop-hit perfetta.<br />

Regnano melodie funzionali come quella di It’s a Fine<br />

Line (qui e in Soul K<strong>is</strong>s la mano di Fridmann è più evidente<br />

che mai), armonie The Zombies, qualche falsetto<br />

di troppo (nella MGMTiana Sorry), repliche Foster<br />

<strong>the</strong> People (Only In December) e un perenne senso di<br />

psichedelia annacquata evidente ad esempio negli accompagnamenti<br />

acustici di Broken Kites e della titletrack<br />

(impossibile non vedere arcobaleni ovunque).<br />

Furbi quanto volete, anche questa volta i Gypsy and<br />

The Cat zitti zitti hanno realizzato un bel d<strong>is</strong>chetto senza<br />

troppe pretese. Pubblicato in Australia tramite la propria<br />

label Alsatian Music, dovrebbe essere d<strong>is</strong>ponibile a livello<br />

internazionale ad inizio 2013.<br />

(6.6/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

how to deStroy AngelS - An omen ep (<strong>the</strong><br />

null CorporAtion, novembre 2012)<br />

Genere: soft postindustrial<br />

Il secondo EP degli How To Destroy Angels lascia aperte<br />

molte soluzioni. Può dare l’idea di una compagine molto<br />

eclettica, oppure che gioca un po’ a carte nascoste o che<br />

ha un progetto ancora in fase di sviluppo. Ogni ipotesi è<br />

valida. Anche se non si tratta di un vero album (per cui<br />

b<strong>is</strong>ogna aspettare l’anno prossimo), dal confronto tra An<br />

Omen, pubblicato solo in MP3 e vinile, e il precedente<br />

68 69


EP iniziano a delinearsi meglio i connotati della creatura<br />

di Trent Reznor, Maryqueen Maandig e Atticus Ross. Di<br />

sicuro, il d<strong>is</strong>egno musi<strong>cale</strong> ha una sua personalità, sia<br />

r<strong>is</strong>petto ai Nine Inch Nails, sia r<strong>is</strong>petto alle colonne sonore,<br />

pur r<strong>is</strong>entendo come logico di entrambe le esperienze.<br />

Semmai le tracce di industrial sono più sfumate,<br />

il rock non abita più qui mentre le assonanze con il triphop<br />

diventano più di una suggestione in un pezzo come<br />

On <strong>the</strong> Wing, dalla melodia pigra e indolente.<br />

Una forma canzone piuttosto statica e dilatata e la voce<br />

di Maryqueen sono gli elementi principali dei primi due<br />

brani. L’idea di stile di Keep It Toge<strong>the</strong>r è piuttosto chiara:<br />

una specie di trance pop, una song elettronica avvolgente<br />

e minimale, che sfrutta in particolare la ripetitività<br />

delle parti strumentali e la circolarità della melodia vo<strong>cale</strong>.<br />

Sarebbe forse la direzione più interessante su cui<br />

lavorare, a giudicare anche dal duetto finale tra le voci<br />

di Maryqueen e Trent Reznor. La successiva Ice Age, il<br />

pezzo più curioso del d<strong>is</strong>co, parte dagli stessi motivi di<br />

fondo, ma ci troviamo al cospetto di un elegante etnofolk<br />

2.0, che ai bassi elettronici sostitu<strong>is</strong>ce percussioni<br />

analogiche e suoni di strumenti a corda.<br />

Gli altri pezzi, a prevalenza strumentale, spaziano tra<br />

diverse direzioni: con The Sleep of Reason Produces Monsters<br />

lambiamo i territori dell’ambient, The Loop Closes<br />

sembra un brano dei Nine Inch Nails senza le chitarre (la<br />

voce è soltanto di Trent) e Speaking In Tongues è il momento<br />

più sperimentale e indecifrabile, tra voci pesantemente<br />

filtrate, b<strong>is</strong>bigli, d<strong>is</strong>torsioni e suoni enigmatici.<br />

È ancora un lavoro di transizione, ma chi apprezza Trent<br />

Reznor può ascoltare con interesse.<br />

(6/10)<br />

tommASo iAnnini<br />

hugo rACe - we never hAd Control<br />

(interbAng reCordS, ottobre 2012)<br />

Genere: blues<br />

La musica di Hugo Race si potrebbe paragonare a un<br />

fiume: procede spedita e, pur sembrando a prima v<strong>is</strong>ta<br />

sempre uguale, di d<strong>is</strong>co in d<strong>is</strong>co cambia la portata, la<br />

velocità, la profondità dei fondali su cui scorre. Del resto<br />

l’australiano stesso è in perenne movimento: una vita<br />

pressoché nomade (si dice) in stile hobo contemporaneo,<br />

buona parte della quale spesa entro i patrii (nostri)<br />

confini. A f<strong>is</strong>sare su nastro un blues che, nonostante gli<br />

innamoramenti temporanei - il jazz dei tempi di Last<br />

Frontier o magari gli accenti più folk di questo We Never<br />

Had Control -, rimane l’architrave di tutta la sua produzione,<br />

oltre che la naturale espressione di un’es<strong>is</strong>tenza<br />

affascinata dai crepuscoli. Chi continua a vederlo come<br />

una filiazione del Nick Cave a cui prestò la chitarra ai<br />

tempi di From Her To Eternity dimostra di non aver capito<br />

molto del personaggio: Race al massimo può rientrare<br />

in quella vasta tradizione che parte da Leadbelly,<br />

passa per Robert Johnson e Son House e arriva fino a<br />

Howlin’ Wolf. Con una puntatina, magari, verso l’ultimo<br />

Mark Lanegan, a cui il Nostro assomiglia sempre più<br />

nel timbro vo<strong>cale</strong> ruvido e polveroso (ma chi dei due è<br />

l’uovo e chi la gallina?).<br />

In We Never Had Control ritroviamo il nucleo dei Sacri<br />

Cuori Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli già<br />

all’opera nel precedente Fatal<strong>is</strong>ts, oltre al “guastatore”<br />

Franco Naddei (Francobeat, Santo Barbaro) addetto ai<br />

synth. Una presenza importante, quest’ultima, perché<br />

se il duo citato poc’anzi lavora sulle più classiche atmosfere<br />

desertiche (Snowblind), Naddei si occupa di creare<br />

sfondi sintetici che staccano un po’ lo stile raceiano dai<br />

soliti canoni. Quelli, per dire, che nell’electro-boogie<br />

di Ghostwriter lucidano le scarpe a John Lee Hooker<br />

chiamando a supporto vaghe atmosfere à la Depeche<br />

Mode. Se Dopefiends ricorda la Ghost Riders In The Sky<br />

cantata da Johnny Cash, No Stereotype è a metà strada<br />

tra la State Trooper di Springsteen e una Peggy Sue in<br />

stile Hellra<strong>is</strong>er, Shining Light sembra fare il verso, col suo<br />

violino ancestrale, al duo Nick Cave-Warren Ell<strong>is</strong> mentre<br />

Meaning Gone è puro blues tra west e M<strong>is</strong>s<strong>is</strong>sipi.<br />

We Never Had Control non stravolge l’universo di riferimento<br />

del chitarr<strong>is</strong>ta australiano - chi lo conosce già, ci<br />

si ritroverà ampiamente - ma riesce a costruire un immaginario<br />

credibile e maledettamente affascinante, grazie<br />

anche alla collaborazione di Francesco Giampaoli, Vicky<br />

Brown, Ca<strong>the</strong>rine Graindorge, Violetta DelConte Race e<br />

Hellhound Brown.<br />

(7/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

indiAn Jewelry - peel it (reverberAtion<br />

AppreCiAtion SoCiety, novembre 2012)<br />

Genere: no<strong>is</strong>e-psych<br />

Li avevamo lasciati con la “psichedelia nera sempre più<br />

industriale” ma in assetto variabile di Totaled - e li ritroviamo<br />

con uno psych post-punk che certo tra cupo<br />

e chiaro sceglie le ore notturne. La musica di Indian<br />

Jewelry è scorticata, nomen omen da titolo dell’album,<br />

e nondimeno l’effetto sull’ascolto è come fare uno scivolo<br />

su carta vetrata. Con una novità r<strong>is</strong>petto al passato<br />

che tanto abbiamo celebrato: la fine della scivolata è<br />

nota (See Forever), l’abrasione costante, senza picchi e<br />

imprevedibili cambi di direzione.<br />

Ciò che è intatto è la capacità di fare forse ottimamente<br />

ciò che oggi viene fatto già bene da altri - vedi le remin<strong>is</strong>cenze<br />

tra Peaking Lights e Fabulous Diamonds in Eva<br />

Cherie. Indian Jewelry nel 2012 vuol dire però principalmente<br />

essere punto di riferimento nel genere “bad trip<br />

psichedelico in formato canzone”. Musica psych fatta di<br />

spazzatura, come direbbero i diretti interessati.<br />

Le undici tracce di Peel It - d<strong>is</strong>ponibili in full streaming<br />

- sono tali - ossia canzoni - quantomeno per durata e<br />

per riconoscibilità; non comportano sconquassi stil<strong>is</strong>tici,<br />

lavorano sulla formula, ne cesellano una serie di varianti<br />

di medio-alta se non alta qualità (come nella dritt<strong>is</strong>sima<br />

ma perforante Heart Of A Dog). Il lavorìo ritmico è ipnotico<br />

eppure sempre in primo piano, come in Unknown<br />

Pleasures, la voce di Tex Kerschen (e a volte di Erika<br />

Thrasher, nomen omen part. II) riverbera con eco cose<br />

indicibili. Le pennate di chitarra sono moltiplicate per<br />

le x virgola volte delle dimensioni frattali, il basso un<br />

binario da cui non si sfugge. La sporca cinquina di Houston<br />

si è fermata a pensare e scrivere. Tutto se non altro<br />

apprezzabile, ma noi li preferiamo quando camminano<br />

sballati al buio.<br />

(7/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

JAh wobble/keith levene - yin & yAng<br />

(Cherry red reCordS, novembre 2012)<br />

Genere: cockney dub rock<br />

Quando nel 2006 Mark Stewart ci dichiarò che stava<br />

reg<strong>is</strong>trando con il chitarr<strong>is</strong>ta dei PiL tracce per il nuovo<br />

album, il nome di Keith Levene sembrava il più improbabile<br />

tra i chitarr<strong>is</strong>ti delle varie line-up della formazione<br />

di John Lydon. Non che Keith fosse morto, lo avevamo<br />

avv<strong>is</strong>tato nell’album del 2004 dei Pigface per esempio,<br />

ma sicuramente rimaneva un eroinomane dai tempi dai<br />

tempi di First Edition, perso nei meandri della propria<br />

dipendenza da almeno due decadi.<br />

Contrariamente ad ogni pronostico, il mitico chitarr<strong>is</strong>ta<br />

c’è finito veramente su un album di Stewart e non parliamo<br />

di Edit, uscito a un paio d’anni di d<strong>is</strong>tanza dalla<br />

nostra interv<strong>is</strong>ta, ma del recente, deludente, The Politics<br />

Of Envy, album del 2012 che fa coppia, in negativo, con<br />

l’attess<strong>is</strong>simo ritorno d<strong>is</strong>cografico dei PiL. La faccenda<br />

è curiosa perché negli ultimi anni Levene, non solo ha<br />

provato a uscire da una dipendenza trentennale ma, a<br />

quanto pare, da un paio d’anni è pulito e in forma sufficiente<br />

da imbracciare lo strumento. Jah Wobble lo ha<br />

voluto prima in un paio di tracce di Psychic Life con<br />

Julie Cambpell, poi in un mini tour che negli scorsi mesi<br />

ha riproposto il mitologico Metal Box (Metal Box In Dub<br />

Tour). Secondo quanto dichiarato da NME, John Lydon<br />

aveva chiesto pochi mesi prima al bass<strong>is</strong>ta di riunirsi ai<br />

PiL e s’era v<strong>is</strong>to sventolare un cachet piuttosto salato.<br />

Ch<strong>is</strong>sà che invece non sia stato l’egomaniaco frontman<br />

ad aver voluto l’ex amico unicamente come turn<strong>is</strong>ta e<br />

non come parte integrante della band. Sia come sia Levene<br />

ne è stato fuori a priori. Le sue skill chitarr<strong>is</strong>tiche<br />

sono indubbiamente compromesse e questo Yin & Yang,<br />

come il precedente eppì firmato dalla coppia, lo dimostra<br />

ampiamente.<br />

La seicorde che tagliava vetro e fregava il metallo è ancora<br />

lì, sepolta sotto le macerie e, non senza sorpresa,<br />

può ancora regalare notevoli colpi al cuore (Vampires).<br />

Eppure, l’uomo, spesso d<strong>is</strong>tratto e slabbrato negli arrangiamenti<br />

(Black On The Block) è, in definitiva, dolorosamente<br />

non paragonabile agli ep<strong>is</strong>odi maggiori<br />

della d<strong>is</strong>cografia della Public Image Ltd. Oltre al fatto<br />

che l’ombra lunga dell’ex band dei due amici si d<strong>is</strong>tende<br />

lungo tutta l’avventura. Il recitato cockeny holligan di<br />

Jags And Staffs richiama quello di Religion, mentre in<br />

Understand al canto troviamo Nathan Maverick conosciuto<br />

come Johnny Rotter, cantante di una P<strong>is</strong>tols Tribute<br />

band che ha contribuito in alcuni show del Metal<br />

Box In Dub (e che qui canta come se i Blur fossero scesi<br />

a Gunter Grove).<br />

D’altro canto, la quarantecinquesima (?) prova wobbliana,<br />

pur con il buon trattamento alla harr<strong>is</strong>oniana Within<br />

You Without You, i gustosi gli inserti jazzati al sapor di<br />

Miles Dav<strong>is</strong> (grazie alla tromba di Sean Corby, collaboratore<br />

di lungo corso di Wobble), l’onesto taglio 60s<br />

psych e il dub di Jah, è a pieno titolo annoverbile tra<br />

le classiche jam trasportate su album del Nostro, pro e<br />

contro compresi. Levene nel mezzo.<br />

(6.8/10)<br />

edoArdo briddA<br />

JAmeS FerrAro - SuShi (hippoS in tAnkS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: electro / wonky<br />

Sempre concettuale James Ferraro, anche quando<br />

non si dà a una personale possibile s<strong>is</strong>tematizzazione<br />

estetica della hauntology - il controverso ma comunque<br />

importante Far Side Virtual - o non si cimenta - situazion<strong>is</strong>ta?<br />

- con la tradizione della musica corale. Sempre<br />

concettuale: anche quando sulla testa fa vincere l’orecchio<br />

e per una volta si concentra - sempre fedele però<br />

al proprio immaginario - sui suoni di oggi. Copertina<br />

ner<strong>is</strong>sima e minimale, la scritta Sushi appena d<strong>is</strong>tinguibile<br />

in toni di grigio, stile finto bassorilievo, e dentro<br />

una musica decorativa e golosa, proprio come i piatti<br />

di pesce crudo giapponese: ma una musica, sotto sotto,<br />

a ben sentire, rigorosa e monocroma, fredda sotto la<br />

superficie calda di nowness electro/wonky.<br />

Anche se il singolo SO N2U ha un gusto break/downtempo<br />

innegabilmente primi anni Novanta (e l’incipi-<br />

70 71


taria Powder ha in trasparenza un’anima praticamente<br />

drill, altro fantasmatico richiamo quindi a quel decennio),<br />

il focus è sempre e comunque sugli anni Ottanta,<br />

stanza degli specchi dalla quale Ferraro non ha la benché<br />

minima intenzione di uscire: Ottanta non più però<br />

concentrati in forma di ultralucidi acquerelli elettronici<br />

miniaturizzati - Far Side Virtual appunto - ma aggiornati<br />

ai nostri giorni e quindi declinati, strato su strato, con<br />

tutti i trick che la cosmesi produttiva anni Dieci mette a<br />

d<strong>is</strong>posizione, vedere i sapori addirittura juke/footwork<br />

spalmati tra le tracce (specialmente i cut vocali di Jump<br />

Shot Earth, Flamboyant e della soulrappusa Lovesick).<br />

Laddove Far Side era naif e lineare, Sushi è grumoso e<br />

barocco: un guazzabuglio di suoni che per svagatezza e<br />

formato può anche far pensare a un update degli Psychic<br />

Chasms di Neon Indian (altro d<strong>is</strong>co controverso<br />

e importante), ma con tutt’altra capacità costruttiva e<br />

di sintesi (Baby Mitsub<strong>is</strong>hi, con sotto l’<strong>house</strong> che cova;<br />

Condom; Bootycall), cosa questa che ci piace ascrivere<br />

alle basi - occhio - alla fine hip hop di tutto (E 7; appunto<br />

e di nuovo, Lovesick). Ancora un buon d<strong>is</strong>co per Ferraro,<br />

che non sment<strong>is</strong>ce la sua anima di giocherellone cervellotico,<br />

perfettamente a metà tra genio incompreso (o al<br />

contrario sovrastimato) e slacker elettronico.<br />

Qui sotto lo streaming integrale dell’album, attraverso il<br />

canale Soundcloud di Dazed Digital.<br />

(6.9/10)<br />

gAbriele mArino<br />

JAmeS yorkSton - i wAS A CAt From A book<br />

(domino, AgoSto 2012)<br />

Genere: folk<br />

James Yorkston non è più una sorpresa. E’ la sua d<strong>is</strong>cografia<br />

a parlare per lui, esemplare nel delineare una<br />

scrittura folk elegante, sensibile, legata a filo doppio alla<br />

tradizione inglese quanto personale in certi passaggi. Ai<br />

tempi del buon esordio Moving Up Country (r<strong>is</strong>tampato<br />

di recente), di Yorkston si accorsero Bert Jansch, un<br />

John Peel che lo chiamò a partecipare ad una delle sue<br />

celeberrime session e persino John Martyn, quest’ultimo<br />

talmente impressionato dai suoi brani da volerlo<br />

con lui in tour. Tanto per dire che al Nostro è bastato un<br />

pugno di buone canzoni per ritrovarsi in un batter d’occhio<br />

- e meritatamente - ad attraversare la storia della<br />

musica anglosassone. Da allora sei album pubblicati, tra<br />

materiale inedito, raccolte e cover (ad esempio le Folk<br />

Songs in condiv<strong>is</strong>ione con i The Big Eyes Family Players),<br />

utili a definire i canoni di uno stile sempre in bilico tra<br />

intim<strong>is</strong>mo e melodia.<br />

Paradigmatico, in questo senso, I Was A Cat From A Book,<br />

un lavoro che in termini di immaginario non cambia pra-<br />

ticamente nulla ma riesce comunque a suonare fresco.<br />

Reg<strong>is</strong>trato per buona parte in presa diretta, il d<strong>is</strong>co snocciola<br />

undici brani tra il Nick Drake altezza Bryter Layter<br />

di Catch e i violini in stile Hurricane di Border Song, le<br />

malinconie chitarra, voce e poco più di The Fire And The<br />

Flames (i primi Radiohead non sono poi così lontani) e<br />

le atmosfere vagamente Belle & Sebastian di Sometimes<br />

The Act Of Giving Love. In generale il mood varia, tra<br />

suoni riconducibili alla tradizione irlandese/scozzese - un<br />

immaginario che Yorkston si porta appresso anche solo<br />

per ragioni biografiche - e una morbidezza d’insieme<br />

garantita soprattutto dalle tastiere e dal contrabbasso<br />

(quello del Lamb John Thorne). Tutto suona estremamente<br />

rassicurante e i toni “caldi” della reg<strong>is</strong>trazione danno<br />

cons<strong>is</strong>tenza a una musica che riconferma il talento<br />

cr<strong>is</strong>tallino del music<strong>is</strong>ta scozzese.<br />

(7/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

Jello biAFrA/Jello biAFrA & <strong>the</strong><br />

guAntAnAmo SChool oF mediCine - ShoCk-upy<br />

(AlternAtive tentACleS, novembre 2012)<br />

Genere: punk<br />

Il fatto che Jello Biafra non avesse ancora allungato il suo<br />

sguardo caustico sul movimento Occupy, era una sorta<br />

di cattivo presagio. Di quelli che fanno pensare cose che<br />

non si vorrebbero mai pensare, tipo “vuoi vedere che il<br />

vecchio leone è diventato veramente vecchio?”. La r<strong>is</strong>posta<br />

alla domanda oziosa non ha tardato ad arrivare ed è<br />

affidata a questo 10”. Tre soli pezzi, e questo è male, di<br />

infinito punk in opposition, e questo è bene.<br />

Si parte con l’hard-rock cafon<strong>is</strong>simo della title track, 30<br />

secondi che sembrano gli ac/dc, e poi via di sarabanda<br />

jellobiafresca tra hardcore evoluto e punk da bava alla<br />

bocca: bassone infinito e drumming ins<strong>is</strong>tito col santone<br />

della controcultura a sciorinare i suoi versi caustici e velenosi<br />

a creare un ponte tra grande depressione e attualità<br />

in cr<strong>is</strong>i, a dimostrazione della lucida v<strong>is</strong>ione del grande<br />

vecchio from Fr<strong>is</strong>co. Barackstar O’ Bummer r<strong>is</strong>polvera il<br />

tiro dei migliori Dead Kennedys mentre dimostra, se<br />

ce ne fosse ancora b<strong>is</strong>ogno, di che pasta è fatto il nostro:<br />

riottoso, punk al midollo e contro ogni s<strong>is</strong>tema: il<br />

target stesso, quell’Obama osannato a destra e sin<strong>is</strong>tra<br />

(Barackstar O’ Bummer / outta nowhere to save <strong>the</strong> day<br />

/ what a package / marketing hope and change / never<br />

seen / so much excitement and faith / since MLK / where’ve<br />

I heard th<strong>is</strong> before? 1992 / called him <strong>the</strong> “Man From Hope”<br />

/ a “New beginning” was h<strong>is</strong> tune / signed our sovereignty<br />

/ over to Wall Street / he should have been impeached / for<br />

treason), da la m<strong>is</strong>ura delle mire di un leone mai domo.<br />

Nemmeno a cinquant’anni suonati.<br />

A concludere We Occupy, già edita nel 7” in cui Biafra<br />

prestava la sua voce incazzata a quei loschi figuri dei<br />

D.O.A. per un inno all’occupazione che supera il tempo.<br />

We occupy, gonna occupy. E se lo dice il quasi sindaco di<br />

Fr<strong>is</strong>co, c’è da credergli.<br />

(6.5/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

Jimi tenor - <strong>the</strong> myStery oF Ae<strong>the</strong>r (Sähkö<br />

reCordingS, novembre 2012)<br />

Genere: etno<br />

Figlio un po’ del fortunato sodalizio con Tony Allen (l’Inspiration/Information<br />

del 2009) e di una lunga collaborazione<br />

con i sodali Kabu Kabu, il nuovo The Mystery Of<br />

Ae<strong>the</strong>r di Jimi Tenor è l’ennesima tappa di un viaggio nel<br />

mondo afro-lounge-jazz-exotico-blaxploitation per big<br />

band e fiati. Un trip che il Nostro ha intrapreso con forza<br />

prima con Beyond <strong>the</strong> Stars e poi con l’afro ensemble di<br />

stanza a Berlino in Joystone.<br />

Calato perfettamente in un immaginario vintage tra<br />

Strut, Fantastic Voyage e Vamp<strong>is</strong>oul, ora come ora il<br />

Tenor elettronico su Warp non è neppure più un ricordo.<br />

Inforcando la direttrice afro-jazz cinematografica, il<br />

finalandese continua a testa bassa su un immaginario<br />

testardamente retrò a cui, b<strong>is</strong>ogna ammetterlo, non<br />

manca più nulla in termini di sfumature (le soundtrack<br />

fantascientifica di fine Sessanta, la psychedelia bucolica<br />

dei primi 70s, il jazz-rock più esoterico, il mambo, suoni<br />

da balera latina ecc.), smalti (questa volta Jimi si costru<strong>is</strong>ce<br />

anche gli strumenti da solo) e influenze (Martin<br />

Denny, Sun Ra e ovviamente gli Africa 70 di Allen, ma<br />

anche tante chicce come scampoli di folk-prog sempre<br />

primi Seventies).<br />

Come nelle migliori parabole da world hyppie, quest’album<br />

parla d’esplorare il cosmo per il nostro bene materiale<br />

e spirituale. In brani cantati come Universal Love,<br />

Eternal Mystery, Dance Of The Planets e Resonate And Be<br />

ci si rifer<strong>is</strong>ce addirittura alle particelle di noi umani che<br />

r<strong>is</strong>uonano nella canzone suprema del cosmo. Tutto il<br />

folklore è ovviamente parte del gioco (certi passaggi da<br />

Pantera Rosa à la Lounge Lizard - Africa Kingdom - lo<br />

confermano) e di un d<strong>is</strong>co svagato e generoso. Il perfetto<br />

album per chi si trova nella fase di scoperta di questo<br />

tipo d’eclet<strong>is</strong>mo dalle parti di Strut e co.<br />

(6.8/10)<br />

edoArdo briddA<br />

kAki king - glow (, ottobre 2012)<br />

Genere: instrumental<br />

Kaki King, chitarr<strong>is</strong>ta da Atlanta classe ‘79, sforna il sesto<br />

lavoro lungo a suggello di un periodo di cr<strong>is</strong>i creativa<br />

che ne aveva messo in dubbio prospettive e direzione.<br />

A sentire la dozzina di tracce che compongono questo<br />

Glow, sembra tornato tutto a posto. La ragazza è dinamica<br />

e intensa sulle sei corde spalleggiata dal quartetto<br />

d’archi ETHEL nella d<strong>is</strong>creta ma evocativa trama sonica<br />

apparecchiata dal producer newyorkese D. James Goodwin<br />

(già al lavoro per Devo e Murder By Death). C’è<br />

lei e la sua ossessione folk con digressioni psych-blues<br />

e svalvolate jazzy che governa con padronanza febbricitante<br />

(se il fingerpicking è notevole, l’abilità con percussivi<br />

e tapping è impressionante), mediando apprensioni<br />

e furore, incantesimi traditional e astrazioni avanguard<strong>is</strong>te,<br />

senza farsi mancare una presenza di spirito in bilico<br />

tra gioco e autoironia.<br />

La scrittura è sorretta da una buona <strong>is</strong>pirazione però<br />

sempre chiaramente al servizio dell’impatto timbrico,<br />

mirata cioè a creare la scena nella quale il suono suonato<br />

possa consumarsi in apprensioni meditabonde (le<br />

atmosferiche Skimming <strong>the</strong> Fractured Surface to a Place<br />

of Endless Light e Fences con quel un gioco di armonici<br />

da nipotina acustica di Jimmy Page), frenesia noir<br />

(Streetlight In The Egg) o incendi mercuriali (Great Round<br />

Burn, The Fire Eater), con tutto ciò che sta nel mezzo (la<br />

trama arty di Cargo Cult, la pseudo bossa di Kelvinator<br />

Kelvinator, gli esot<strong>is</strong>mi di Bowen Island...). Ok, siamo di<br />

fronte ad un prodotto che aspira a mediare il massimo<br />

dell’espressività col massimo della vendibilità, ma tutto<br />

sommato ci riesce bene, senza mai suonare eccessivamente<br />

patinato o - peggio - artefatto. Ka<strong>the</strong>rine possiede<br />

del talento vero. La sua carriera d’ora in avanti probabilmente<br />

somiglierà ad una sfida per mantenerlo tale.<br />

(6.9/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

kelly hogAn - i like to keep mySelF in pAin<br />

(Anti-, luglio 2012)<br />

Genere: country pop<br />

Mentre la grande d<strong>is</strong>cografia arranca impelagata nel paradosso<br />

di politiche sempre meno attente alla qualità<br />

art<strong>is</strong>tica (per non usare la parolaccia “commerciali”) con<br />

le quali - retromanie a parte - poi invece vende sempre<br />

meno, un’etichetta come la Anti- continua la caccia ai<br />

più o meno grandi esodati del rock e dintorni.<br />

Stavolta va a prendere una cantante dalla lunga carriera<br />

che, dopo un inizio che l’aveva v<strong>is</strong>ta militare in vari gruppi,<br />

si era indirizzata verso un ruolo da seconda voce di<br />

lusso per un gran numero di colleghi (Dylan, Torto<strong>is</strong>e,<br />

Neko Case...), e le propone di fare un nuovo d<strong>is</strong>co suo<br />

dopo undici anni.<br />

Lei allora si rivolge agli amici/colleghi di una carriera e<br />

loro le inviano le canzoni che vanno a comporre la sca-<br />

72 73


letta di quello che è solo il quarto d<strong>is</strong>co sol<strong>is</strong>ta. Il quale<br />

nonostante le grandi firme non si d<strong>is</strong>costa granché dal<br />

lontano predecessore, v<strong>is</strong>to che la cantante di Atlanta<br />

riporta tutto al suo tipico stile country pop venato soul,<br />

col r<strong>is</strong>ultato che l’eterogenesi delle scritture fin<strong>is</strong>ce per<br />

lo più per dare al d<strong>is</strong>co semplicemente le giuste dinamiche<br />

di s<strong>cale</strong>tta - e anche una band piena di nomi illustri<br />

(Booker T., per dirne uno) si limita ad assecondare il<br />

d<strong>is</strong>egno generale (in questo, il contributo come autore<br />

di Andrew Bird ci sta anche bene, ma Plant White Roses<br />

fin<strong>is</strong>ce per nascondere l’ironia con cui Stephin Merritt<br />

scrive questo tipo di canzoni).<br />

Non che il d<strong>is</strong>co sia monotono: la generale impressione<br />

Emmylou Harr<strong>is</strong> dell’iniziale Dusty Groove ma anche<br />

della title-track (dono di un Robyn Hitchcock mascherato<br />

da cowboy) o le rimembranze Eddie Brickell di We<br />

Can’t Have Nice Things e Haunted, si stemperano in testi<br />

che affrontano temi che a Nashville non sono proprio<br />

il pane quotidiano, o nel dolore di Ways of Th<strong>is</strong> World<br />

(lascito del compianto Vic Chesnutt e presumibilmente<br />

uno degli ultimi frutti della sua penna).<br />

Rimane una generale coerenza stil<strong>is</strong>tica, elegante, che<br />

forse è un pregio (anche come potenzialità commerciale,<br />

volendo), forse smorza possibili, interessanti deviazioni.<br />

(6.8/10)<br />

giulio pASquAli<br />

kevin drumm - relieF (editionS mego,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: drone<br />

Un ritorno formale alla materia no<strong>is</strong>e era ampiamente<br />

prevedibile per Kevin Drumm. Si era capito che i due<br />

capitoli su Hospital, Imperial D<strong>is</strong>torsion e Imperial<br />

Horizon, altro non erano che fenomenali deviazioni da<br />

una strada abbastanza integral<strong>is</strong>ta, fatta di rumore, caos,<br />

scontro di frequenze.<br />

Relief è l’atteso comeback alle maniere di Sheer Hell<strong>is</strong>h<br />

Miasma, ergo grand<strong>is</strong>simo lavoro di stratificazione su<br />

multitraccia e caos predominante per tutti o quasi i<br />

37 minuti dell’unico brano di cui è fatto il d<strong>is</strong>co. I due<br />

ep<strong>is</strong>odi ambient oriented della Hospital non sono però<br />

passati del tutto senza lasciar traccia. Si avverte in alcuni<br />

frangenti una vena maggiormente meditata che<br />

va ad insinuarsi nel dens<strong>is</strong>simo layer cacofonico delle<br />

d<strong>is</strong>torsioni.<br />

Eppure la forma finale che assume Relief è quella di un<br />

lungh<strong>is</strong>simo quanto inutile torrente sonoro con variazioni<br />

di reg<strong>is</strong>tro scars<strong>is</strong>sime se non proprio nulle. Una<br />

sorta di fiume guadato a metà e per questo fondamentalmente<br />

inconcludente. Di fatto siamo di fronte ad un<br />

d<strong>is</strong>co di passaggio in attesa di capire dove voglia andare<br />

a parare il music<strong>is</strong>ta.<br />

(5/10)<br />

Antonello ComunAle<br />

kid roCk - rebel Soul (AtlAntiC reCordS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: redneck rock<br />

Il primo approccio con il termine “redneck” lo ebbi in<br />

adolescenza grazie al videogioco Redneck Rampage,<br />

ironicamente ambientato nel Sud degli Stati Uniti e<br />

pieno di tutti gli stereotipi che ruotano attorno ad un<br />

universo ben rappresentato da personaggi come Cletus<br />

dei Simpson o Ansel Smith del recente film Killer Joe.<br />

Nell’ambiente musi<strong>cale</strong> probabilmente nessuno - provenienza<br />

geografica a parte - incorpora tutte le caratter<strong>is</strong>tiche<br />

redneck meglio di Kid Rock: rozzo, ignorantone,<br />

conservatore e amante dei motori tanto da autodefinirsi<br />

un “redneck, rock and roll son of Detroit”.<br />

Nato come rapper di serie z e successivamente convertito<br />

con grande fortuna (Devil Without a Cause del 1998<br />

raggiunse cifre di vendita clamorose) in MTV rap-zarrrocker,<br />

Robert James Ritchie/Kid Rock nell’ultimo decennio<br />

ha intrapreso un processo di countryzzazione che<br />

gli ha regalato parecchie sodd<strong>is</strong>fazioni (prima dell’agghiacciante<br />

tormentone All Summer Long per l’italiano<br />

medio era solo “uno che è stato con Pamela Anderson”).<br />

A due anni di d<strong>is</strong>tanza da Born Free, Mr.Rock in compagnia<br />

della sua fedele - e piuttosto preparata - Tw<strong>is</strong>ted<br />

Brown Trucker Band, torna con quello che è il nono album<br />

in carriera: Rebel Soul. Dopo due lavori che hanno<br />

v<strong>is</strong>to due guru del plastic-rock come Rob Cavallo e Rick<br />

Rubin in cabina di regia, Robert - in copertina ritratto in<br />

modalità pappone - questa volta ha preferito accantonare<br />

big producers e fare tutto, o quasi, da solo.<br />

Il concentrato di country-rock, blues e atmosfera sou<strong>the</strong>rn<br />

affiora già nell’iniziale Chickens In The Pen seguita<br />

dal singolo di lancio Let’s Ride, che oltre ad essere un<br />

pasticcio assoluto tra riff AC/DC e chorus late-RHCP è<br />

contemporaneamente sia un tributo alle truppe militari<br />

statunitensi, sia uno dei brani manifesto della campagna<br />

elettorale di Mitt Romney. Esplicativo il commento<br />

su Youtube “Th<strong>is</strong> song made me PROUD to be an AME-<br />

RICAN! Mitt would have won <strong>the</strong> election, hands down<br />

if th<strong>is</strong> would have been h<strong>is</strong> <strong>the</strong>me song!!!!!”: in una mano<br />

la Stars & Stripes, nell’altra il fucile.<br />

Kid Rock sa bene dove colpire e non c’è dubbio che<br />

il - suo - pubblico apprezzerà anche questa nuova scorpacciata<br />

di riferimenti ad Uncle Sam, a Detroit (Detroit,<br />

Michigan) e alla glorificazione del ruuuock (God Save<br />

Rock & Roll, Mr.Rock annd Roll). Musicalmente insegue<br />

ancora Bob Seger e un certo swamp rock anni ‘70 prendendo<br />

in prestito (da C.C.R e dintorni) più o meno velatamente<br />

melodie e giri chitarr<strong>is</strong>tici. Fanno eccezione<br />

il comeback in territori rap-rock (comunque sporcati di<br />

fango sou<strong>the</strong>rn-soul) di Cucci Galore e l’oscena ballad<br />

in autotune The Mirror. Il re dei redneck è lui e ci tiene<br />

a prec<strong>is</strong>arlo in Redneck Parad<strong>is</strong>e, an<strong>the</strong>m campagnolo<br />

per eccellenza (“And when you’re here you’re free and<br />

clear to drink beer and dance all night, that’s right. Cuz<br />

no one’s uptight in Redneck Parad<strong>is</strong>e”).<br />

Il problema di Rebel Soul, e più in generale di qualsiasi<br />

cosa uscita a suo nome, non è tanto l’aspetto musi<strong>cale</strong><br />

(il d<strong>is</strong>co è derivativo e obsoleto ma a tratti si fa anche<br />

ascoltare) quanto quel m<strong>is</strong>to di patriott<strong>is</strong>mo e di superficialità<br />

spicciola che caratterizza in lungo e in largo i suoi<br />

prevedibili quanto ripetitivi testi.<br />

(3.4/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

kk null/CriS x - proto plAnet (Cx reCordS,<br />

diCembre 2012)<br />

Genere: noizu<br />

Da un po’ di tempo in qua il romano Cr<strong>is</strong>tiano Luciani aka<br />

Cr<strong>is</strong> X sembra aver conosciuto una seconda giovinezza,<br />

nonostante la giovane età. Dopo la dipartita dell’esperienza<br />

Lendormin il nostro ha intrapreso una carriera in<br />

solo con la nuova sigla e a suggellare questa scelta sono<br />

uscite in rapida successione una serie di collaborazioni<br />

con nomi alt<strong>is</strong>onanti del no<strong>is</strong>e e dell’industrial mondiale,<br />

quasi a stabilire padri putativi, omaggi sentiti e totale<br />

mancanza di timore reverenziale.<br />

Dopo gli split con Maurizio Bianchi (Heczplaser/Black<br />

Pulse) e con sua santità Merzbow (Guya/Greed), ecco ora<br />

il turno di un altro peso massimo della sperimentazione<br />

noizu. A segnare un punto d’interesse nella geografia<br />

rumorosa di Cr<strong>is</strong> Xè la volta di Kazuyuki K<strong>is</strong>hino Null noto<br />

come KK Null e già leader degli important<strong>is</strong>simi Zeni<br />

Geva.<br />

Proto Planet (o Genshi Wakusei in lingua nippo) vede i<br />

due non dividersi i lati del limitato 12” quanto collaborare<br />

in nome di un no<strong>is</strong>e-impro che spesso e volentieri<br />

oscilla tra deflagrazioni white no<strong>is</strong>e (il gioco di d<strong>is</strong>torsioni<br />

incrociate di 1, le folate al calor bianco di 4, le asperità<br />

“materiche” quasi Z’ev di 5) e momenti di stasi ambientale<br />

(il cuore di 2, il piano post-atomico della parte centrale<br />

di 1) non meno oscure e minacciose. Tra elettronica<br />

primitiva, loops assassini, cut-up estremo e cupezza<br />

(post)industrial a go-go emerge tutta la maestria con cui<br />

il duo plasma una materia incandescente, giocando di<br />

cesello e clava, tanto che non mancano i momenti più<br />

ipnotici ed ossessivi (3), costruiti sulla rielaborazione di<br />

field recordings come si trattasse di una architettura di<br />

origami, prima di venire spazzata via da uno tsunami di<br />

cancrene sonore. Musica in tensione, mai doma, sempre<br />

alla ricerca della mutevolezza e dell’equilibrio, figlia di<br />

due art<strong>is</strong>ti che prefer<strong>is</strong>cono far parlare la propria arte<br />

piuttosto che altro. Chapeau.<br />

(7/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

klippA kloppA - Siren (ChArity preSS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: kraut / electro<br />

Una prolificità imbarazzante e una altrettanto straordinaria<br />

qualità media garantita. Il tutto in free download.<br />

Questi in due parole i Klippa Kloppa, il collettivo casertano<br />

guidato da Prete Criminale e Dino Draghen già ampiamente<br />

- ma mai abbastanza - magnificato su queste<br />

pagine, nel loro oramai più che decennale armeggiare<br />

pop/sperimentale a doppia mandata ‘ncòppa alla musica<br />

italiana indipendente, anzi proprio autarchica. Poche<br />

parole qui giusto per dare le coordinate di un nuovo<br />

bell<strong>is</strong>simo lavoro, uscito l’8 novembre per la loro Charity<br />

Press (come a dire: autoproduzione, do it yourself e zappiana<br />

cheepn<strong>is</strong>), uno dei loro più rigorosi ed eleganti,<br />

fin dalla evocativa copertina d<strong>is</strong>egnata da Daniela (In)<br />

Stabile.<br />

Siren sono 9 tracce strumentali tutte nebulose di tastiere,<br />

oscillazioni e pulsazioni che un<strong>is</strong>cono cardiaco e<br />

siderale, tra Kraut, electro e ambient elettronica ma analogica.<br />

Un lavoro lineare, luminoso, ar<strong>is</strong>tocratico, ma immediatamente<br />

godibile, notevole nella sua interezza ma<br />

di cui dobbiamo lodare particolarmente la dance anni<br />

Novanta di Union, la terza traccia, il dub funk minimale<br />

di Loving God, la sette, e la solenne zampogna venusiana<br />

di Life, l’ultimo pezzo. La musica dei Klippa Kloppa è un<br />

diamante neanche poi tanto grezzo. La sfida è riuscire<br />

sul serio a stare appresso a tutte le cose che sfornano.<br />

Siren by klippa kloppa<br />

(7.3/10)<br />

gAbriele mArino<br />

lAnA del rey - pArAdiSe ep (interSCope<br />

reCordS, novembre 2012)<br />

Genere: bored pop<br />

Un successo di massa annunciato quello di Lana Del<br />

Rey, arrivata - dopo mesi di hip-blogosfera - nelle case<br />

di chiunque grazie anche (o soprattutto?) a vicende di<br />

extra-musicali come prime pagine, ospitate telev<strong>is</strong>ive e<br />

spot pubblicitari.<br />

A livello di classifiche, Lana Del Rey è stato il “nuovo”<br />

nome femminile del 2012 (nonostante la sua fama sia re-<br />

74 75


taggio del 2011): il d<strong>is</strong>creto Born To Die è infatti, ad oggi,<br />

il terzo album più venduto dell’anno a livello globale con<br />

due milioni e mezzo di copie ed è la perfetta fotografia<br />

di un universo mainstream pop - e ci mettiamo in mezzo<br />

anche Gotye - che ha nuovamente virato verso la melodia,<br />

dopo un periodo di estremizzazioni electro-trashy.<br />

La figura di Lana Del Rey (ovviamente sommersa da<br />

qualsiasi tipo di opinioni, speculazioni e rumors) oggi<br />

appare sicuramente più definita di un anno fa, ma è ancora<br />

difficile stabilire realmente quanto ci sia e quanto<br />

ci faccia. Com’è ancora difficile riconoscere le indubbie<br />

qualità sotto a uno strato così spesso di furbizia business-oriented:<br />

Lana è una bambola in mano ai produttori<br />

come le altre dive pop, ma è abil<strong>is</strong>sima a fare il doppio<br />

gioco.<br />

Che sia ormai in balia del commercio è evidente anche<br />

dalla scelta di pubblicare la classica deluxe edition<br />

dell’album in prossimità del periodo pre-natalizio per<br />

sfruttare il boom del mercato. Come la Lady Gaga del<br />

primo d<strong>is</strong>co, la deluxe di Born To Die cons<strong>is</strong>te nell’inclusione<br />

di un vero e proprio EP aggiuntivo, intitolato<br />

Parad<strong>is</strong>e (da cui il titolo complessivo The Parad<strong>is</strong>e Edition).<br />

Otto tracce aperte dal singolo Ride (prodotto da<br />

Rick Rubin) che mostra la corda a livello d’<strong>is</strong>pirazione<br />

e, tra una strofa sicuramente evocativa e un chorus in<br />

cui avrebbe potuto duettare con Brandon Flowers, la<br />

naturalezza di una Video Games sembra lontana. Lana<br />

continua a portare alta la bandiera a stelle e str<strong>is</strong>ce nelle<br />

successive American e Cola: la prima piuttosto anonima<br />

e con un chorus leggermente fuori dai suoi standard e la<br />

seconda, già famigerata (“my pussy tastes like Pepsi Cola”).<br />

Più interessante il taglio melodico di Body Electric (“I sing<br />

<strong>the</strong> body electric” è un tributo al poeta trascendental<strong>is</strong>ta<br />

Walt Whitman), la ricerca di redenzione di Gods and Monsters<br />

(“In <strong>the</strong> land of gods and monsters, I was an angel,<br />

Lookin’ to get fucked hard. Like a groupie, incognito,<br />

posing as a real singer”), e soprattutto la conclusiva Bel<br />

Air, tra i soliti tappeti orchestrali e certe melodie dreamy<br />

di scuola Cocteau Twins. La cover di Blue Velvet non fa<br />

gridare al miracolo ma Lana Del Rey ha saputo adattarla<br />

abilmente alle proprie caratter<strong>is</strong>tiche, rievocando alcune<br />

atmosfere - ovviamente e non a caso - lynchiane, ancora<br />

più forti nella jazz-Badalamentiana Yayo.<br />

Abbandonati (momentaneamente?) quasi del tutto i<br />

tentativi di avvicinarsi al mondo dell’hip hop, il Parad<strong>is</strong>e<br />

EP non è altro che una breve raccolta di variazioni<br />

sul tema.<br />

(6.4/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

lebowSki - lebowSki & niCo - propAgAndA<br />

(bloody Sound FuCktory, novembre 2012)<br />

Genere: post punk-wave<br />

Quando in mezzo ci sono i Lebowski il citazion<strong>is</strong>mo è<br />

d’obbligo, seppur mediato da una cazzonaggine di fondo<br />

quasi irres<strong>is</strong>tibile. Prendete Propaganda: foto di copertina<br />

in puro stile Devo (versione Ken di Barbie e con<br />

qualche accento demenziale garantito dal David Gnomo<br />

e parentado ritratti di spalle); la partnership con Nicola<br />

Amici sancita da una ragione sociale opportunamente<br />

corretta in Lebowski & Nico (il nome Velvet Underground<br />

vi dice nulla?); brani come Giovanni citofon<strong>is</strong>ta<br />

che sembrano una versione ancor più da loser del Giovanni<br />

telegraf<strong>is</strong>ta di Jannacci (il che è tutto un programma).<br />

Poi c’è il suono, incasellato perfettamente tra i Devo<br />

di cui sopra, i Talking Heads e le stilettate dei Gang<br />

Of Four. Synth e chitarre elettriche formalmente riconoscibili<br />

ma abbastanza flessibili da evitare pericolosi<br />

vicoli ciechi, grazie anche al sax no wave del già citato<br />

Amici (Mattia Pascal, Mutat<strong>is</strong> Mutande, (A dicembre una<br />

tombola) rosso shocking).<br />

Ch<strong>is</strong>sà che non sia proprio l’immaginario surreale del<br />

gruppo, oltre alle ottime capacità tecniche, a rendere<br />

impeccabile e in qualche maniera necessaria una formula<br />

che comunque pesca a piene mani da un revival<br />

fin troppo inflazionato. Certo è che trovarsi di fronte a<br />

brani come Sei uno sprovveduto (una rapina finita male<br />

raccontata in un italiano strascicato), Kansas City (electro-funk-rock<br />

piantato sul mantra Oggi ho fatto veramente<br />

niente / però l’ho fatto veramente bene / oggi ho detto<br />

veramente niente / però l’ho detto molto chiaramente) o<br />

Avevo un sogno nel cassonetto (fusion-no wave robotica<br />

a suon di Chi voleva fare il dottore e invece resta a casa<br />

malato / chi l’esploratore spaziale ed ora si ritrova alienato)<br />

fa dec<strong>is</strong>amente apprezzare l’approccio del gruppo.<br />

Fresco, sempre sul pezzo, blindato nelle geometrie, ma<br />

anche d<strong>is</strong>sacrante, in un m<strong>is</strong>to di leggerezza e ironico<br />

d<strong>is</strong>incanto che non crederesti possibile.<br />

A produrre ci sono Giulio Ragno Favero e Andrea Cajelli,<br />

per un lavoro che suona più compatto r<strong>is</strong>petto al precedente<br />

e già ottimo The Best Love Songs Of The Love For<br />

The Songs And Best. Anzi detto tra noi, i Lebowski se ne<br />

escono proprio bene, fortunati - e forse involontari - continuatori<br />

di quella intelligente irriverenza che in passato<br />

ha caratterizzato (pur con le dovute differenze formali<br />

e di approccio) formazioni come gli Elio e le storie tese.<br />

(7.2/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

lino CoStA - miniAnimAli (4miqe,<br />

Settembre 2012)<br />

Genere: jazz-fusion<br />

Se brani come Insonnia o Chimera sugger<strong>is</strong>cono, per<br />

Lino Costa, parentele che vanno dal padre Wes Montgomery<br />

fino al figliol prodigo (e altolocato) Bill Fr<strong>is</strong>ell<br />

- lo avrete capito, parliamo di chitarra jazz e dintorni<br />

-, il resto della s<strong>cale</strong>tta di Minianimali fa di tutto<br />

per confondere le idee. O quantomeno, procede senza<br />

troppe esitazioni in una fusion virtuos<strong>is</strong>tica e pulita che<br />

conferma ancora una volta come il jazz possa essere un<br />

linguaggio totalizzante e aperto a mille contaminazioni.<br />

Tanto che in questo d<strong>is</strong>co d’esordio, concepito tra il<br />

1998 e il 2011, si azzardano comm<strong>is</strong>tioni singolari con<br />

il progressive (Orange Trip), ci si trova proiettati in medioriente<br />

sulle note del sax (Oud), si apprezza uno stile<br />

monkiano d’annata su base ritmica funk (The Elephant<br />

Jump), si fin<strong>is</strong>ce per frequentare persino un avant-rock<br />

elettrico sfilacciato ma credibile (Minianimali).<br />

Il tutto fatto col rigore tipico di un music<strong>is</strong>ta con una<br />

buona esperienza alle spalle - tra i tanti progetti a cui<br />

Costa ha prestato lo strumento ci sono Ivan Segreto e i<br />

Tinturia - e grazie a collaboratori di primo piano (Domenico<br />

Cacciatore al basso e Roberto P<strong>is</strong>toiesi alla batteria,<br />

con in più Gianni Gebbia, Stefano D’anna e Gianpiero<br />

R<strong>is</strong>ico ai fiati e Mauro Schiavone al piano). Ne vien fuori<br />

un album soprattutto elegante, destinato a un ascolto<br />

generalizzato e a tutte le latitudini. Nulla di apparentemente<br />

rivoluzionario alla maniera di Improvv<strong>is</strong>atore<br />

Involontario, per intenderci, eppure materiale tutt’altro<br />

che banale.<br />

(6.7/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

lorenzo lAmbiASe - lupi e vergini (modern<br />

liFe, novembre 2012)<br />

Genere: pop cantautorale<br />

Romano, classe 1981, Lorenzo Lambiase ha esordito<br />

nel 2009 con un La Cena in cui si immaginava una “cena<br />

ideale intesa come momento di condiv<strong>is</strong>ione, in cui le tematiche<br />

siano quelle del viaggio, del sogno, della città,<br />

dell’amore, del tempo, dello smarrimento”.Dopo tre anni<br />

il music<strong>is</strong>ta torna per l’etichetta Modern Life con Lupi<br />

e vergini, un d<strong>is</strong>co il cui filo conduttore è, già dal titolo,<br />

quello della sincerità e della fragilità poste all’interno<br />

di una prospettiva universale dell’amore. Il tentativo<br />

pare quello di volersi mettere completamente a nudo<br />

attraverso undici canzoni che, pur cercando di muoversi<br />

in più direzioni - soprattutto elettronica e post-rock,<br />

ma non mancano neppure suggestioni psichedeliche<br />

-, fin<strong>is</strong>cono per costruire un pop-rock cantautorale ben<br />

curato nella produzione, ma monocorde nella sostanza<br />

delle singole canzoni.Non bastano gli arpeggi à la Bon<br />

Iver (si ascolti l’attacco di Perth) dell’iniziale Le mani né<br />

l’attacco in ipnosi electro della title-track per esaltare<br />

un lir<strong>is</strong>mo che, nonostante le buone intenzioni, sembra<br />

forse un troppo scontato: è il caso del pop elettrificato<br />

di Sulla riva o dell’intro acoustic di Gospel. Brani, quelli<br />

citati, in cui il pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta pecca per la troppa voglia<br />

di raccontarsi, senza riuscire a immergere l’ascoltatore<br />

nel proprio ab<strong>is</strong>so emotivo. Non mancano ep<strong>is</strong>odi di<br />

scrittura più convincenti come in Periferia - altro brano<br />

costruito su rimandi ambient/pop e giocato sui controcanti<br />

soul della voce - o un La stanza di Winston e<br />

Julia dai riferimenti letterari ed esempio di cantautorato<br />

- seppur declinato in toni electro beat - non troppo<br />

d<strong>is</strong>tante dal Mol<strong>the</strong>ni più d<strong>is</strong>incantato ed es<strong>is</strong>tenziale.<br />

La conclusione è affidata agli inserti rock di La grande<br />

rivolta, brano di oltre sette minuti che chiude un d<strong>is</strong>co<br />

certo interessato a sondare nuove direzioni ma pure<br />

troppo attento allo stile e meno al contenuto. Intuizioni<br />

e mestiere ci sono, ma manca ancora la maturità per<br />

consegnare un album che riesca ad esprimere appieno<br />

una personalità per il momento ancora troppo legata ai<br />

grandi nomi della tradizione cantautorale.<br />

(5.8/10)<br />

giuliA Antelli<br />

luCAS SAnttAnA - o deuS que devAStA mAS<br />

tAmbém CurA (mAiS um diSCoS, ottobre<br />

2012)<br />

Genere: post-tropical<strong>is</strong>ta<br />

Fa un certo effetto recensire Lucas Santtana, dopo<br />

averlo incontrato e ascoltato in concerto prima della<br />

proiezione dell’abbagliante documentario Tropicália<br />

(andatelo a vedere). Non per questioni squ<strong>is</strong>itamente<br />

personali, d<strong>is</strong>corsi ep<strong>is</strong>odici aneddotici esperienze inenarrabili<br />

di condiv<strong>is</strong>ione, ma perché ora che l’associazione<br />

con quella linfa vitale è fatta, iacta est: è operazione<br />

chirurgica <strong>is</strong>olare la musica del Lucas dal tropical<strong>is</strong>mo,<br />

da quella gioia ed energia trascinante, e dalla leggerezza<br />

romantica che la persona comunica. Ci proviamo<br />

quanto meno - è nelle nostre corde - per posizionare<br />

O Deus Que Devasta Mas Também Cura r<strong>is</strong>petto agli<br />

ep<strong>is</strong>odi precedenti di Santtana, e specialmente al più<br />

significativo di essi, Sem Nostalgia, perfetto set di scritture<br />

post-tropical<strong>is</strong>te, con melodie e arrangiamenti direttamente<br />

provenienti da quell’approccio sincretico<br />

che Caetano, Gil, Mutantes tra gli altri esercitavano<br />

con la nonchalance del talento di una comunità intera.<br />

Lucas sorprende per la stessa d<strong>is</strong>involtura con cui ci colpivano<br />

i protagon<strong>is</strong>ti dell’onda tropi<strong>cale</strong>. Con O Deus<br />

76 77


Que Devasta... tenta però meno la strada della bossa<br />

(tranne in casi quali Dia de Furar Onda no Mar, sciolti<br />

in produzione con elaborata stanza dei bottoni) e più<br />

la ricchezza dell’arrangiamento, dell’orchestrazione, e<br />

della canzone (e della figura del cantautore) in tutta<br />

la sua variabilità transoceanica che porta poi alla tradizione<br />

del rondò, pur con le inconfondibili note che<br />

escono solo a chi profer<strong>is</strong>ce portoghese brasiliano (la<br />

title-track). Allo stesso Santtana, parole sue, un brano<br />

come É Sempre Bom Se Lembrar sembra musica italiana<br />

(dei nostri sessanta, aggiungeremmo noi, e mai più del<br />

cantautorato odierno).<br />

Mancano forse i momenti avvincenti di Sem Nostalgia<br />

(come quelli strumentali, da heavy rotation, vedi Super<br />

Violão Mashup o Recado Para Pio Lobato) ma la penna è<br />

in assoluta evidenza, pronta a essere agghindata senza<br />

perdere la propria natura. Altra chiave - per chiudere - di<br />

lettura. Lucas Santtana sa fare cose semplici che semplici<br />

poi non sono (scrivere canzoni) e attorno allo scheletro<br />

pulsante metterci carne e pelli colorate, senza però<br />

far perdere di v<strong>is</strong>ta le ossa che si dimenano.<br />

(7/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

mAdneSS - oui, oui, Si, Si, JA, JA, dA, dA<br />

(Cooking vinyl uk, ottobre 2012)<br />

Genere: pop<br />

A tre anni (abbondanti) dall’apprezzabile The Liberty of<br />

Norton Folgate, i Madness tornano a dimostrarci come<br />

la seconda giovinezza non sia solo un bolso luogo comune<br />

ma un’eventualità possibile, anche e soprattutto<br />

nel supergiovanil<strong>is</strong>tico mondo del pop-rock. Certo, vale<br />

la regola che è difficile ascoltarli e scriverne senza voltarsi<br />

indietro, nella fatt<strong>is</strong>pecie a quegli 80s che li videro<br />

rappresentare una via di fuga tanto cazzona quanto intelligente<br />

all’oppressione tatcheriana. Un vero e proprio<br />

esercizio di dada<strong>is</strong>mo caricaturale dai r<strong>is</strong>volti umani il<br />

loro, che nella sinergia tra videoclip e canzone li proponeva<br />

come dei nipotini scellerati (e a tratti gratuiti)<br />

dei Monty Python, ad uso e consumo dei post-punk<br />

alla ricerca di un d<strong>is</strong>impegno che non d<strong>is</strong>impegnasse<br />

troppo i neuroni.<br />

Nevrotici, folli, allegri, ma con sotto un cuore che pulsava<br />

tra gli ska, i vaudeville e gli errebì. La loro eredità si è<br />

d<strong>is</strong>persa tra le tante band che hanno tentato di tenere<br />

vivo il mix senza mai azzeccare la sintonia col presente,<br />

a meno che non si voglia annoverare tra gli epigoni certi<br />

Blur (e in parte ci può stare). Quindi oggi McPherson e<br />

soci si ritrovano con un capitale mitologico pressoché<br />

intatto da proporre ai nostalgici di mezza età e di rimbalzo<br />

ai più giovani, b<strong>is</strong>ognosi di nuove dosi di cazzoni-<br />

smo come antalgico per nuove e sempre più pressanti<br />

oppressioni (e infatti vedi il successo che r<strong>is</strong>cuotono i<br />

vari circhi radiofonici e il solitoidiot<strong>is</strong>mo cinetelev<strong>is</strong>ivo).<br />

Però i Madness non stanno al gioco, non cadono nell’errore<br />

di fare la trita rifrittura dei Madness r<strong>is</strong>chiando il<br />

ridicolo. Ovvero, ci marciano eccome sulla loro fama -<br />

e ci mancherebbe - ma sanno bene di non poter più<br />

interpretare quel ruolo, per cui chiamano a raccolta il<br />

mestiere e la maturità sfornando un songwriting - come<br />

dire? - post-Madness, ovvero pop gradevole, guizzante,<br />

a tratti denso, guarnito di espedienti ad hoc.<br />

Capace d’ingegnarsi agrodolce (il doo wop in salsa reggae<br />

di M<strong>is</strong>ery) e cotonarsi d<strong>is</strong>co (la vagamente inquieta<br />

Never Knew Your Name), d’imbronciarsi trip-hop (una<br />

Death Of A Rude Boy che sfoggia trovate futur<strong>is</strong>tico/fumett<strong>is</strong>tiche<br />

quasi Gorillaz - il che chiude uno strano,<br />

intrigante cerchio) ed incalzare power pop (Leon). E’ un<br />

d<strong>is</strong>co che non aggiunge virgole significative alla loro<br />

vicenda e neppure paragrafi sul libro del pop rock contemporaneo,<br />

ma che si fa forte della sua inessenzialità<br />

rendendola l’alibi perfetto per sbrigliare estro d<strong>is</strong>incantato<br />

(il reggaettino slavato di How Can I Tell You?), a costo<br />

di svariare tra improbabili siparietti mariachi (La Luna),<br />

piacion<strong>is</strong>mo errebì (My Girl 2) o malinconie noir (la invero<br />

un po’ didascalica Powder Blue). Quanto allo ska, è<br />

ingrediente quasi omeopatico che quando viene a galla<br />

sembra una caramellina che si scioglie subito (So Alive,<br />

Black And Blue). Ed è meglio così.<br />

(6.7/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

mAmA roSin - bye bye bAyou (moi J ConnAiS,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: trash’n’roll, zydeco<br />

Quantomeno era difficile da pronosticare: tre svizzeri<br />

che direttamente dal lago di Ginevra si mettono a fare<br />

zydeco e cajun, musica tradizionale della minoranza<br />

creola francese in Lou<strong>is</strong>iana. Poteri della globalizzazione?<br />

Ch<strong>is</strong>sà, certo è che non te lo aspetteresti e invece...<br />

Partiti con un paio di d<strong>is</strong>chi rilasciati per il culto svizzero<br />

Voodoo Rhythm, si sono finalmente dec<strong>is</strong>i a sbarcare in<br />

America per saggiare con mano luoghi e tradizioni della<br />

zona, e la traversata atlantica ha portato con sè anche<br />

un mentore d’eccezione, Jon Spencer, produttore di<br />

Bye bye Bayou.<br />

Diciamolo senza mezzi termini: il party - o la sagra? -<br />

rock’n’roll dell’anno si consuma qui, con buona pace<br />

dei vari Blues Explosion e Jim Jones Revue. Bye bye<br />

Bayou è uno di quei d<strong>is</strong>chi che ti esplode nelle orecchie.<br />

Parte rock’n’roll, si incurva nel trash punk rock, inverte<br />

la rotta verso lo zydeco salvo fare subito marcia<br />

indietro in territori punk, e fin<strong>is</strong>ce per scratchare una<br />

comm<strong>is</strong>tione cajun trash’n’roll. Prime cinque tracce. Va<br />

bene non inventano la luna, ma il mix tra tradizione e<br />

innovazione trova l’equilibrio perfetto, supportato da<br />

un cantato div<strong>is</strong>o equamente tra francese e inglese. E<br />

poi le cose continuano a evolvere anche nella seconda<br />

parte con qualche filtro psichedelico in Black Samedi<br />

e nella polverosa Seco e Molhado, del vecchio country<br />

western, con la ballad malinconica di I don’t fell home e il<br />

surf rock svagato di Story of love and hate, un po’ Beach<br />

boys e un po’ Byrds.<br />

E’ un d<strong>is</strong>co pieno di energia e buone vibrazioni ma non<br />

si commetta l’errore di rilegarlo con superficialità alla<br />

voce happy songs. I Mama Rosin offrono una narrazione<br />

che prevede incontro di culture, studio della storia e capacità<br />

interpretativa. Metteteci lo zampino di Spencer a<br />

tenere unite le parti ed ecco spiegato il piccolo miracolo.<br />

(7.3/10)<br />

SteFAno gAz<br />

mArA - dotS (brutture moderne,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: pop<br />

Una mezz’ora spesa tra certi Velvet Underground puliti<br />

e fuori contesto (Way Out), frammenti pop di Fifties<br />

americani (Your Lies), i Doors più brechtiani (Not You),<br />

qualche parentesi folk à la Le-Li (Hitch), divert<strong>is</strong>sement<br />

strumentali senza pretese (Afternoon Here, Close) e cover<br />

plausibili (i dEUS di Nine Threads). La scrittura di Mara<br />

Luzietti - ravennate all’esordio - per quanto minimale<br />

e, a suo modo, solitaria, regge il peso delle aspirazioni<br />

sciorinando un pop-folk da cameretta asciutto nella<br />

strumentazione, ma comunicativo come non crederesti<br />

possibile. Il tutto grazie anche a una voce ancora un po’<br />

timida - o forse dovremmo dire algida - ma adatt<strong>is</strong>sima<br />

a far da battitrice libera in mezzo a bozzetti musicali da<br />

un paio di minuti o poco più.<br />

La formula scelta per Dots qualche naso lo farà storcere,<br />

anche solo per il fatto di rappresentare un modello estetico<br />

dec<strong>is</strong>amente inflazionato. Eppure c’è una certa freschezza<br />

nelle nove tracce della trackl<strong>is</strong>t che non sai bene a cosa<br />

ricondurre: se alle inquadrature effettivamente sghembe<br />

della Luzietti o al buon lavoro di arrangiamento e produzione<br />

di Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra<br />

Afrobeat, Quartetto Klez, Sur). Probabilmente a<br />

entrambe le cose, fatto salvo che Dots rimane comunque<br />

un buon modo per iniziare un percorso d<strong>is</strong>cografico che,<br />

con la dovuta costanza e un po’ di coraggio in più, potrebbe<br />

rivelarsi dec<strong>is</strong>amente intrigante.<br />

(6.5/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

mASCArA - tutti uSCiAmo di CASA (eCleCtiC<br />

CirCuS, Aprile 2012)<br />

Genere: indie<br />

Dopo l’EP del 2010 L’amore e la filosofia, i varesini MasCara<br />

approdano al primo album e lo fanno in grande.<br />

La produzione è sontuosa, così come una cura per<br />

i dettagli profonda e attenta. Il d<strong>is</strong>co, un concept sul<br />

passaggio dalla giovinezza all’età adulta - quella in cui<br />

appunto si esce di casa -, è stato anticipato da un trailer<br />

a puntate atto a introdurci ai suoni e alle atmosfere di<br />

questa storia. Grande produzione, grande attenzione<br />

alla forma, per un sound che si divide tra una contemporaneità<br />

tutta riverbero di Editors e Bloc Party (con<br />

inserti in stile Muse e Coldplay) e un passato dal quale<br />

emergono richiami Cure (Le città da costruire) e Depeche<br />

Mode (I giorni di Urano contro).<br />

Nonostante gli antecedenti illustri e un abito che si<br />

allontana dall’universo indie rivolgendosi a un pubblico<br />

più vasto, sembra che a questo d<strong>is</strong>co manchi però<br />

una dec<strong>is</strong>iva spinta emotiva, soprattutto per un lavoro<br />

sui testi che non svetta mai. Se a livello compositivo il<br />

suono della band ha una connotazione comunque rilevante,<br />

soprattutto in termini di commerciabilità, i testi<br />

sfuggono, banalizzano e in qualche caso annoiano. Per<br />

un concept album, a ben vedere, non è cosa da poco.<br />

Monumenti sonori in esplosione tra l’elettronico e il baroccheggiante<br />

(Da uomo a uomo, La stanza) ma racconti<br />

le cui immagini non spiccano.<br />

(6/10)<br />

giuliA CAvAliere<br />

miChele mArAglino - i medioCri (lA FAme<br />

diSChi, novembre 2012)<br />

Genere: cantautorato indie<br />

Cantautorato indie post-anni Zero, quindi un grado<br />

(quasi) zero di pancia e nervi che ti arrivano al cervello<br />

per dare la scossa alla matassa di neuroni generazionali<br />

anestetizzati. Non chiamatelo impegno, ma il b<strong>is</strong>ogno<br />

impellente di dare voce allo sconcerto per una prassi<br />

sociale dalle molte, troppe sfaccettature tragicomiche.<br />

Sferzate che possono assumere la forma del lir<strong>is</strong>mo slogan<strong>is</strong>tico<br />

à la Vasco Brondi o del sarcasmo urticante<br />

tipo I Cani, con tutto ciò che ti ritrovi nel mezzo, dai<br />

laconici quadretti di Dimartino alla d<strong>is</strong>amina umorale<br />

dei Numero 6 passando dal cin<strong>is</strong>mo outsider de Lo<br />

Stato Sociale. Ecco, appunto, dal mazzo spunta anche<br />

Michele Maraglino, classe ‘84 da Perugia, fondatore de<br />

La Fame D<strong>is</strong>chi, un ep d’esordio targato 2011 (Vogliono<br />

solo che ti diverti) e finalmente questo debutto su lunga<br />

d<strong>is</strong>tanza che ne conferma l’attitudine per la calligrafia<br />

diretta, nessun volo pindarico ma congetture essenziali<br />

78 79


che arrivano al punto senza tappe intermedie.<br />

Una triangolazione basale di testi, melodia e arrangiamenti<br />

(chitarre, basso, batteria) che non inventa nulla<br />

se non il senso di urgenza hic et nunc, quello che ti fa<br />

ascoltare canzoni come L’aperitivo, Taranto o Verranno<br />

a dirti che c’è un muro sopra come reportage dal cuore<br />

stesso del d<strong>is</strong>agio. Canzoni che sembrano circostanze<br />

sul punto di accaderti, o appena accadute, comunque<br />

fatti che ti riguardano da vicino, empatia innescata più<br />

dall’approccio ad altezza marciapiede - un po’ busker e<br />

un po’ punk da cameretta - di Maraglino che non dall’efficacia<br />

delle pur apprezzabili intuizioni (c’è arguzia da<br />

vendere nel ritornello di Umida, mentre l’innodia di Vita<br />

mediocre e Vienimi a cercare è meno facilona di quel che<br />

può sembrare).<br />

Manca appunto la ricchezza delle tappe intermedie, la<br />

capacità di avventurarsi e svariare nei contesti, l’<strong>is</strong>pessimento<br />

e la problematicità del punto di v<strong>is</strong>ta, l’additivo di<br />

astrazioni e v<strong>is</strong>ioni, tutto ciò insomma che possa conferire<br />

alla cronaca emotiva dimensione “poetica”, come invece<br />

fa ad esempio ben<strong>is</strong>simo un Paolo Zanardi. Tuttavia,<br />

come accennavamo in apertura, più che di mancanza<br />

dovremmo parlare di necessità storica, fors’anche di una<br />

ben ponderata scelta espressiva. Quanto fruttuosa oltre<br />

la contingenza, lo scopriremo ovviamente solo vivendo.<br />

(6.8/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

mikA vAinio - mAgnetite (touCh muSiC uk,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: ambient-no<strong>is</strong>e<br />

Mika Vainio ha sicuramente un approccio in qualche<br />

modo stoico. Non solo per il significato che questa parola<br />

assume nel senso comune, ma anche per l’originario<br />

senso filosofico e per le connotazioni a esso associato.<br />

Ossia, stoico è colui che desidera ciò che ha. Una questione<br />

di consapevolezza della propria volontà e dei<br />

propri mezzi, insomma. Fe3o4 - Magnetite è non solo<br />

l’ennesimo d<strong>is</strong>co analogic<strong>is</strong>simo dell’ex metà pansonica<br />

ma ulteriore prova provata di questo atteggiamento.<br />

Non vale la pena cercare innovazione, piuttosto coinvolgimento,<br />

da un esperimento come questo. E forse per<br />

dare complessità alla faccenda si può ipotizzare qualche<br />

dettaglio in più sul concept, derivato dal minerale che<br />

in natura più di ogni altro (e prima di ogni altro, nella<br />

storia delle scoperte umane) ha proprietà magnetiche,<br />

e lì balla l’aprezzamento o meno dell’album: un gioco<br />

di polarità.<br />

Punto di partenza è la sospensione dello stato d’animo,<br />

che Vainio attira a sua d<strong>is</strong>crezione verso toni più o meno<br />

luminosi - e quindi meno scontati dell’oscurescenza a cui<br />

il nome di Mika è abbastanza drammaticamente ormai<br />

associato. Magnetotactic ne è perfetta espressione, anzi<br />

una successione il cui netto tra scuro e bianco è pari. Lo<br />

switch è anche tra materia analogica e materia sintetizzata<br />

da suoni radiofonici a basso fuoco di frequenza di<br />

hertz - e funziona finchè da padroni li fanno gli oscillatori,<br />

pur con continue soluzioni di continuità, all’opposto<br />

di come fa per esempio Keith Fullerton Whitman.<br />

Il bipolar<strong>is</strong>mo scende anche nel giudizio. I suoni, il vero<br />

prodotto su cui dare un giudizio aldilà dell’epochè, convincono<br />

solo a metà, ossia quando se ne sente la materia<br />

viva. E purché non generino automat<strong>is</strong>mi alla Pan Sonic<br />

come nella conclusiva Elv<strong>is</strong>’s TV Room (con frequenza<br />

acuta finale che sembra autoironica, ma sappiamo che<br />

non lo potrà mai essere).<br />

(6.5/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

moCk & tooF - temporAry hAppineSS (tiny<br />

StiCkS, ottobre 2012)<br />

Genere: deepest <strong>house</strong><br />

Quando un paio d’anni fa vennero pubblicati una serie<br />

di articoli sui danni permanenti all’udito provocati dal<br />

clubbing, sembrò solo l’ultima riflessione, in ordine di<br />

tempo, da parte della dance sull’estemporaneità ed il<br />

costo dello stile di vita che propone.<br />

La <strong>house</strong> poi, proprio in quanto offshoot tecnologico,<br />

non-umano, della d<strong>is</strong>co è sempre stata consapevole<br />

della d<strong>is</strong>foria e dell’autod<strong>is</strong>truzione che stanno al cuore<br />

dei suoi incalzanti inviti a gioire e ballare. Una consapevolezza<br />

che, nell’essere presente sin dagli inizi, ne ha<br />

fatto un genere maturo, riflessivo, raramente naive. Per<br />

esempio Adon<strong>is</strong>, solo due anni dopo avere suonato coi<br />

Clockwork la melensa I’m Your Candy Girl, confesserà la<br />

sua d<strong>is</strong>perazione con No Way Back. Ancora prima On and<br />

On di Jesse Saunders, lo stesso groove madre, includevea<br />

in sé tutti gli elementi che sarebbero andati a comporre<br />

la futura <strong>house</strong> music suonando allo stesso tempo<br />

come l’espressione di un profondo malessere.<br />

L’intera carriera dei Mock & Toof potrebbe essere considerata<br />

come un lungo commento a On and On: gli stessi<br />

ritmi che si sfaldano meccanici in uno spazio assolutamete<br />

vuoto, con percussioni dedicate a f<strong>is</strong>sare l’attenzione<br />

dell’ascoltatore sulla cassa quarti, tesa a sostenere pad<br />

d<strong>is</strong>sonanti e synth corpuscolari. Resta al basso e al vocal<strong>is</strong>t<br />

il compito di ricordare la parentela, tramite studiati accenni,<br />

con il funk ed il dub. Confusion Time, traccia che apre<br />

l’LP, evoca addirittura la strofa di Saunders quando canta<br />

Th<strong>is</strong> things inside in my soul, <strong>the</strong>y make me lose control.<br />

Per poi essere seguita a ruota da My Head che continua<br />

ad esplorare il tema della possessione e dell’ossessione<br />

nella loro connessione con desideri di plastica e lattice.<br />

La produzione ha qulla cura che ci si aspetta, ormai, da<br />

ogni art<strong>is</strong>ta uscito dalla scuola DFA e si incanala nel solco<br />

di quella <strong>house</strong> adulta, anche nelle tematiche, insieme ai<br />

più recenti esempi di Chelon<strong>is</strong> e Wolf+Lamb.<br />

Temporary Happiness non è la proposta di un breve<br />

parad<strong>is</strong>o nel quale fuggire per la durata del d<strong>is</strong>co. Così<br />

come Don’t Work, Don’t Care, che si avvia con un cut up<br />

vo<strong>cale</strong> che ricorda gli Art of No<strong>is</strong>e, l’intera opera è un’inno<br />

all’apatia drogata e allo stesso tempo espressione<br />

dell’insodd<strong>is</strong>fazione per queste routine che si basano,<br />

schiettamente, sul perdere tempo. I Mock & Toof stressano<br />

quindi l’accento su quel Temporality per spingerci<br />

a ricordare, ancora una volta, la vanità e la fragilità dello<br />

stesso progetto <strong>house</strong>.<br />

(7.2/10)<br />

Antonio CuCCu<br />

mouSe on mArS - wow (monkeytown<br />

reCordS, novembre 2012)<br />

Genere: wonky<br />

A pochi mesi da Parastrophics, album che segnava il ritorno<br />

sulle scene dopo svariati anni d’attività parallele<br />

e collaborazioni, i Mouse On Mars si riaffacciano sulla<br />

Monkeytown dei Modeselektor con una sorta di spinoff<br />

di quella prova, WOW.<br />

Se il predente lavoro cercava d’aggiornare il caratter<strong>is</strong>tico<br />

massimal<strong>is</strong>mo sonico del duo, quest’ultimo sforzo,<br />

prodotto seguendo un approccio il più possibile spontaneo<br />

e di petto, vede i tedeschi posizionarsi in area wonky<br />

con tutto il corollario di beat, bit e filtri derivati. I contribuiti<br />

dichiarati da parte di Eric D. Clarke, l’art<strong>is</strong>ta Dao Anh<br />

Khanh (gli sparuti urletti inc<strong>is</strong>i all’Hanoi studio sono suoi)<br />

e la punk band argentina Las Kellies sono giusto delle<br />

note di folclore. La trackl<strong>is</strong>t è al 100% figlia di un marchio<br />

che, ancora una volta, tenta lo svecchiamento anche con<br />

APP musi<strong>cale</strong> (Wretchup) d’imminente commecializzazione<br />

su ITunes e, di fatto, usata per la composizione<br />

delle tracce.<br />

Con MYH a piazzarsi con successo tra Bibio e Hudson<br />

Mohawke sotto lente vintage-balearic, PUN a giocare<br />

stancamente con gli acquerelli post-glo, APE a trafficare<br />

con l’afosità meticcia delle produzioni Flying Lotus e<br />

altre tracce a pasturare il lato tech di Parastrophics (la micro<br />

acid da videogame di ACD con tanto di 303 filtrate),<br />

WOW non si divincolerà dai difetti dell’ultima fase dei<br />

Mouse On Mars (CAN) eppure un minimo di freschezza<br />

e genuinità lo dimostra. Per la serie, Jan e Andi in studio<br />

si divertono e divertono.<br />

(6.4/10)<br />

edoArdo briddA<br />

nAomi punk - <strong>the</strong> Feeling (CAptured<br />

trACkS, novembre 2012)<br />

Genere: psy-GaraGrunGe<br />

In ambito musi<strong>cale</strong> ho sempre sostenuto l’importanza<br />

delle idee. Puoi aver studiato per trent’anni pianoforte,<br />

puoi sparare assoli hyper-speed di 10 minuti o cambiare<br />

tre tempi nel giro di 5 secondi, ma se mancano le idee<br />

ai miei occhi vali zero. In poche parole, se ci fossero piú<br />

Kevin Shields e meno John Petrucci sarebbe un mondo<br />

(d<strong>is</strong>cografico) migliore.<br />

Anche per questo motivo apprezzo il lavoro della Captured<br />

Tracks, protagon<strong>is</strong>ta di un 2012 di grande valore e<br />

capace di crearsi un roster di art<strong>is</strong>ti che tendenzialmete<br />

mettono davanti l’urgenza espressiva o il tocco personale<br />

alla mera tecnica. Art<strong>is</strong>ti forse ancora un po’ acerbi<br />

ma già in grado di portare avanti un d<strong>is</strong>corso tanto di<br />

difficile collocazione quanto facilmente riconoscibile.<br />

Il primo approccio dell’ascoltatore medio con The Feeling<br />

dei Naomi Punk può variare dal “cosa è questa<br />

roba?” al “per piacere abbassa”. L’album, uscito originariamente<br />

in 300 copie su Couple Skate Records e caratterizzato<br />

da un artwork dalle tendenze cromatiche presenti<br />

in molte delle ultime uscite Captured Tracks, è infatti un<br />

tuffo in un mondo malato, dove però il rifiuto iniziale si<br />

tramuta ben presto in assuefazione.<br />

The Feeling, che è il secondo d<strong>is</strong>co della band, non trad<strong>is</strong>ce<br />

le origini - Seattle e dintorni - del trio capitanato<br />

da Trav<strong>is</strong> Benjamin Coster: si respirano dosi di abrasioni<br />

proto-grunge lungo le dieci tracce del d<strong>is</strong>co, soprattutto<br />

in brani garage oriented come l’ottima Burned Body o<br />

nell’estrema v<strong>is</strong>ceralità di The Buzz.<br />

Tra la sguaiatezza di chitarre maltrattate, riff sorretti<br />

da potenti crash e melodie capaci di entrare in testa in<br />

modo subdolo, il sin<strong>is</strong>tro The Feeling è un lavoro che si<br />

concentra in prim<strong>is</strong> sul suono e poi, con un po’ di fortuna,<br />

sulle canzoni: dietro alla loro proposta musi<strong>cale</strong> è facile<br />

intuire infatti delle scelte stil<strong>is</strong>tiche ben prec<strong>is</strong>e, come<br />

ad esempio il settaggio della d<strong>is</strong>torsione della chitarra<br />

o l’effetto omnipresente sulla voce.Tra i momenti più<br />

alti troviamo l’iniziale Voodoo Trust con una strofa non<br />

troppo lontana dal chorus della sopracitata Burned Body<br />

ed un ritornello dec<strong>is</strong>amente killer e la struttura ciclica<br />

di Trashworld.<br />

Niente male pure l’instrumental (uno dei tre presenti<br />

nell’album) vagamente gaze di Gentle Movement Toward<br />

Sensual Liberation, esplicativo della sensazione<br />

“inside <strong>the</strong> bell” che torna a più riprese lungo la durata<br />

del d<strong>is</strong>co e il retrogusto art/no della conclusiva Linoleum<br />

Tryst.<br />

Si potrebbero trovare decine di aspetti negativi, debolezze<br />

compositive o di possibili migliorie, ma a conti fatti<br />

80 81


- e non è poco - non es<strong>is</strong>te nessun d<strong>is</strong>co che suoni come<br />

questo. Alienato e alienante.<br />

(7/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

nAturAl ASSembly - ArmS oF depArture<br />

(AvAnt!, ottobre 2012)<br />

Genere: synth-wave<br />

Torbido e oscuro. Eppure a suo modo attraversato da<br />

bagliori “glamour”. Elegante, insomma. Ma pur sempre<br />

apocalittico. Il primo (mini) Lp del duo londinese Natural<br />

Assembly raccoglie frammenti di electro, industrial ed<br />

ebm, per creare una scultura di ferro, plastica e velluto,<br />

creatura squ<strong>is</strong>itamente “cold”, come tutta la wave più o<br />

meno sotterranea che ha saputo farsi apprezzare nelle<br />

ultime due o tre stagioni.<br />

Ritmiche aliene e riverberate, sintetizzatori a pervadere<br />

l’aria, voci lontane, filtrate e trasfigurate nel processo di<br />

de-umanizzazione che vuole la macchina a sostituire la<br />

coscienza di un’umanità alla deriva, fanno di Arms of<br />

Departure un album ricco di variazioni sul tema, nonostante<br />

la breve durata.<br />

Piace quindi l’incontro tra groove incalzante e oscurità<br />

soffocante in 19.03.12, così come la d<strong>is</strong>tensione synthpop<br />

di Sunr<strong>is</strong>e e i fitti tappeti su battiti mid-tempo di<br />

Wretched Burden. Certamente perfettibili, ma già ampiamente<br />

a fuoco.<br />

(7/10)<br />

Antonio lAudAzi<br />

niCo muhly - droneS (bedroom Community,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: contemporanea<br />

Nico Muhly è uno fedele a quello che dice. E alle metafore<br />

con cui titola le proprie composizioni. Mo<strong>the</strong>rtongue<br />

era un <strong>cale</strong>mbour di vocal<strong>is</strong>mi, l’allestimento di una<br />

scena di parole e timbri d’ugola pennellati da mamma<br />

lingua. Drones - che raccoglie tre EP del compositore<br />

(Drones & Piano, Drones & Viola, Drones & Violin) unendoli<br />

con la finale Drones & Violin - Drones in Large Cycles - non<br />

solo riflette i mezzi usati (gli strumenti), ma li impasta<br />

dando a uno o all’altro il protagon<strong>is</strong>to e al restante l’ambientazione<br />

dronica. Il gioco è non cadere nel tranello:<br />

non ci sono droni - come siamo abituati a pensarli - ma<br />

ipotesi strumentali di traduzione della sospensione del<br />

velivolo senza conducente, non un ronzio ma un veicolo<br />

- un mezzo, appunto.<br />

Il tutto resta molto legato a Philip Glass, con il quale<br />

Nico ha collaborato in diverse occasioni e che del resto<br />

forse è stato mentore indiretto. Si rimpallano pianoforte,<br />

viola e violino. Drones & Piano (comm<strong>is</strong>sionata in origine<br />

dal Gilmore International Keyboard Festival, per il pian<strong>is</strong>ta<br />

Bruce Brubaker) è la parte migliore del lotto. La<br />

pianizzazione di un bipolar<strong>is</strong>mo. Ci racconta una storia<br />

musi<strong>cale</strong> di schizofrenia. Da un lato il pianoforte assume<br />

una personalità antitonale, d<strong>is</strong>sonante e dinamica.<br />

Dall’altro una personalità docile, quasi pensierosa. Con<br />

soluzioni di continuità raramente prevedibili. A volte<br />

(Drones & Piano Part 3 - The 8th Tune) quel nervos<strong>is</strong>mo<br />

è una composizione veloce, che sa che i minuti contati<br />

sono preziosi per mantenere un barlume di lucidità.<br />

La viola di sottofondo è l’ambiente ideale per questa<br />

dialogica tragedia quotidiana, allo stesso modo il piano<br />

in reverse dovrebbe essere tappeto perfetto per il<br />

protagon<strong>is</strong>mo degli archi nelle due serie successive<br />

(Drones & Viola e Drones & Violin), ma perde efficacia. La<br />

viola dronica ricorda John Cale, se non Tony Conrad;<br />

il piano statico il Terry Riley di In C, come se fosse suonato<br />

nell’altra stanza, e quindi come se gli fosse negato<br />

il protagon<strong>is</strong>mo solo per una questione di piani di fuoco.<br />

Per lo stesso motivo, gli switch / glitch di Drones &<br />

Violin - Drones in Large Cycles sono - seppur più “strutturanti”<br />

- meno adatti a dare luce alla metafora del d<strong>is</strong>co:<br />

monologhi interiori su suoni dronici della quotidianità<br />

tradotti in strumento musi<strong>cale</strong>. Funziona quando lavora<br />

sull’ossatura, Nico Muhly, in Drones. Per un compositore<br />

di fatto camer<strong>is</strong>ta, è una posizione di vantaggio.<br />

(7.1/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

odd Future wolF gAng kill <strong>the</strong>m All - <strong>the</strong><br />

oF tApe vol. 2 (odd Future reCordS, mArzo<br />

2012)<br />

Genere: hip hop<br />

Il collettivo hip hop Odd Future confeziona una compilation<br />

per fare bella mostra di tutti i piccoli e grandi<br />

talenti che si sono raggruppati attorno al leader Tyler<br />

<strong>the</strong> Creator, art<strong>is</strong>ti quali Earl Sweatshirt, Frank Ocean,<br />

Hodgy Beat, Domo Genes<strong>is</strong>, The internet. L’impressione<br />

è che questo d<strong>is</strong>co immortali una momento difficile<br />

per la crew: da normal<strong>is</strong>simi ragazzini malati di hip<br />

hop gli Odd Future si sono trovati in un baleno, grazie<br />

ai tempi iper-veloci di internet, al centro dell’attenzione<br />

della scena musi<strong>cale</strong> grazie all’immediato successo<br />

r<strong>is</strong>cosso da Earl e Tyler. Gran parte del merito dei due è<br />

stato quello di portare una ventata di aria fresca nella<br />

scena hip hop con una musica estrema e perversa (con<br />

basi che pescano tanto da Waka Flocka Flame che da<br />

Hudson Mohawke) ma al contempo adolescenziale<br />

e spensierata, sempre però concentrata sull’autocelebrazione<br />

di sé stessi come giovan<strong>is</strong>simi V.I.P. Purtroppo<br />

però non si rimane adolescenti a vita e le debolezze di<br />

questo d<strong>is</strong>co ci mostrano come ciò è vero anche per la<br />

gang del lupo, che forse dovrebbe iniziare a ricalibrare<br />

la propria proposta. L’album è incentrato su una formula<br />

semplice: lo storico membro e produttore Left<br />

Brain (aiutato da Tyler) siede in consolle e sforna basi<br />

su cui andranno a lavorare più art<strong>is</strong>ti. Purtroppo r<strong>is</strong>petto<br />

agli anni passati è proprio questo meccan<strong>is</strong>mo che si è<br />

inceppato. Se l’adolescenza è il momento della vita comune,<br />

la maturazione impone la solitudine degli adulti<br />

e di conseguenza è divenuto difficile per i nostri lavorare<br />

insieme senza schiacciarsi l’uno con l’altro. Così da una<br />

parte ci sono un gruppetto di big che per lavorare assieme<br />

avrebbero b<strong>is</strong>ogno almeno di un terreno neutro,<br />

laddove invece la produzione di Left Brain gioca quasi<br />

sempre a favore di Tyler. Un esempio tra tutti: in Snow<br />

White Frank Ocean sembra capitato per caso in un pezzo<br />

di Tyler <strong>the</strong> Creator.<br />

Dall’altra ci sono invece Hodgy Beat e Domo Genes<strong>is</strong> i<br />

quali sono ancora incerti tra adagiarsi sugli stereotipi<br />

Odd Future, ma rimanere sempre personaggi di secondo<br />

piano r<strong>is</strong>petto ai più car<strong>is</strong>matici, oppure azzardare un<br />

percorso di maturazione che li porti verso una propria<br />

proposta art<strong>is</strong>tica, come cercano di fare nei loro buoni<br />

d<strong>is</strong>chi sol<strong>is</strong>ti grazie a produzioni più classiche (l’Ep di<br />

Hodgy e No idols di Domo). Paradossalmente le<br />

tracce migliori sono quelle più inaspettate come White,<br />

con Ocean questa volta libero di fare Frank Ocean<br />

(accompagnato dal piano). Belle anche la funkeggiante<br />

Ya Know dei The Internet con The Internet stessi in consolle<br />

e Forest Green by Mike G, che ci presenta un flow<br />

assolutamente di livello. Fortunatamente a redimere<br />

tanti brutti momenti arriva, in chiusura, il singolo allstar<br />

Oldie, dalla produzione finalmente poco ingrombrante<br />

e 90s che ci lascia godere della varietà di stili e reg<strong>is</strong>tri<br />

vocali. Da notare - e non senza amarezza - come Ocean<br />

si dimostri il più maturo del gruppo anche nel rappato<br />

e come il ritorno nel finale di Earl (che non aveva potuto<br />

presenziare alle session) ci faccia pentire di aver ascoltato<br />

finora quasi solo brani di Domo Genes<strong>is</strong> e Hodgy<br />

Beat. Un fatto curioso è che il più grande difetto del<br />

d<strong>is</strong>co, quello di fare un pasticciaccio di art<strong>is</strong>ti così diversi,<br />

va in realtà a vantaggio della crew: viene voglia di sentire<br />

i d<strong>is</strong>chi sol<strong>is</strong>ti, dove ognuno avrà lo spazio per esprimersi<br />

al meglio. Forse una mossa di marketing geniale?<br />

(6.5/10)<br />

giAnluCA CArletti<br />

pAul kAlkbrenner - guten tAg (pAul<br />

kAlkbrenner muSik, novembre 2012)<br />

Genere: berlin techno<br />

Giusto questo mese riprendevamo il Kalkbrenner affair<br />

in occasione dell’uscita del sophomore di Fritz, col quale<br />

tornava alta l’evidenza di una scienza del perfezionamento,<br />

l’elevazione di un sound in fondo proprietario<br />

e amat<strong>is</strong>simo per armonie e umori difficilmente replicabili.<br />

E se questo nel fratello minore raggiunge l’apice<br />

con Sick Travellin’, la d<strong>is</strong>cografia della star Paul aveva<br />

già raccolto tutto il possibile negli ultimi due (vendut<strong>is</strong>simi)<br />

album, Berlin Calling e Icke Wieder, ponendolo<br />

di fronte a un bivio per questo Guten Tag: ins<strong>is</strong>tere su<br />

quel che vogliono i fan col r<strong>is</strong>chio di apparire narc<strong>is</strong><strong>is</strong>ta,<br />

o liberare il movimento verso una nuova fase stil<strong>is</strong>tica?<br />

La r<strong>is</strong>posta la dà subito in apertura Der Stabsvörnern,<br />

parziale messa in d<strong>is</strong>cussione di quel caratter<strong>is</strong>tico mix<br />

di atmosfera e ritmo che aveva fatto innamorare nelle<br />

opener dei due d<strong>is</strong>chi precedenti, Aaron e Böxig Le<strong>is</strong>e.<br />

Stavolta i bpm sono accelerati e il mood è più duro, più<br />

vicino alle ossessioni della Berlin techno (i loop autoritari<br />

di Trümmerung) e all’impatto per il club (Hinrich Zur See,<br />

siam dalle parti della minimal), interpretando una certa<br />

tendenza europea recente che punta verso territori più<br />

aggressivi e intransigenti e che stiamo osservando sotto<br />

fronti diversi, che siano lo Scuba berlinese lanciat<strong>is</strong>simo<br />

con Sigha o persino l’ultimo urlo hardcore di Vitalic (che<br />

- guarda caso, troviamo qui campionato in Kernspalte, il<br />

sample è della Polkamatic di OK Cowboy e adesso suona<br />

come la fase di respirazione preliminare all’agon<strong>is</strong>mo).<br />

Nonostante il singolo Das Gezabel sia di quelli fedeli al<br />

ben noto Kalkbrenner style e l’album lasci comunque<br />

spazio a momenti melodici liberatori (ottima Der Buhold<br />

che ci mette anche la grinta), gran parte della trackl<strong>is</strong>t<br />

si rivolge, in realtà, agli aficionados delle notti in p<strong>is</strong>ta.<br />

Il pezzo più rappresentativo è Spitz-Auge, che riesce a<br />

riversare la sapienza della star di Berlino sui meccan<strong>is</strong>mi<br />

del club buio, farcendo con bassi electro industriali<br />

che accompagnano ogni battuta nel segno di un groove<br />

meccanizzato. Così Guten Tag diventa album meno propenso<br />

all’accettazione globale e più orientato a un pubblico<br />

di appassionati di nicchia (se così possiam vedere<br />

la techno nello scacchiere complessivo). Mossa più che<br />

lecita: dopo Icke Wieder d’altronde era controproducente<br />

tentare ancora repliche, e il ritorno alla dimensione DJ<br />

è un modo per ribadire l’identità di Paul Kalkbrenner.<br />

Da oggi un po’ meno divo, un po’ più umano e genuino.<br />

(6.7/10)<br />

CArlo AFFAtigAto<br />

phillip phillipS - <strong>the</strong> world From <strong>the</strong><br />

Side oF <strong>the</strong> moon (interSCope reCordS,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: mumford&mat<strong>the</strong>ws<br />

Nel 2012 dove vai se il mandolino non ce l’hai? Il succes-<br />

82 83


so - assolutamente clamoroso - dei Mumford & Sons e<br />

dei loro nipoti (dai The Lumineers agli Of Monsters and<br />

Men) recentemente è arrivato fino al melmoso e putrido<br />

mercato italiano. Semplice, le armonie dilatate e a volte<br />

articolate dei Fleet Foxes funzionano ma non sono<br />

abbastanza spensierate per il nostro pubblico e non potrebbero<br />

di certo finire nel trailer del cinepanettone con<br />

De Sica (come è successo a Little Talks).<br />

Negli Stati Uniti il ricambio è continuo e il fenomeno è<br />

probabilmente all’apice dell’esposizione mediatica, tanto<br />

che l’ultima edizione del talent show American Idol,<br />

in passato trampolino di lancio per teen-idols, divette<br />

mtv, country-boys o pseudorocker, ha v<strong>is</strong>to trionfare un<br />

cantautore folk-pop armato di chitarra acustica: Phillip<br />

Phillips.<br />

Il brano che che lo accompagna da qualche mese si intitola<br />

Home e potrebbe trovare - rarità per i prodotti usciti<br />

da talent show statunitensi - consensi anche da noi, magari<br />

sotto ad un albero di Natale radicato in frasi come<br />

“because I’m gonna make th<strong>is</strong> place your home”. Home,<br />

manco a dirlo, sembra un clone - anche ben riuscito - di<br />

un qualsiasi (tanto per sottolineare nuovamente la poca<br />

varietà presente in Babel) brano dei Mumford & Sons<br />

con la partecipazione degli Arcade Fire a fare la coda.<br />

L’album di debutto di Phillip Phillips, pubblicato via Interscope<br />

e 19 Entertainment, si intitola The World from<br />

<strong>the</strong> Side of <strong>the</strong> Moon e parte certamente dai r<strong>is</strong>volti<br />

trad di Marcus Mumford&co ma va a toccare corde - anche<br />

vocali - più vicine a certe cose (private dei tecnic<strong>is</strong>mi<br />

free-jam del caso) della Dave Mat<strong>the</strong>ws Band come in<br />

Hold On, in Get Up Get Down e in una Drive Me a r<strong>is</strong>chio<br />

plagio concettuale.<br />

Realizzato con la collaborazione di Gregg Wattenberg<br />

(non a caso già con roots pop-rockers quali Train, Five<br />

For Fighting e O.A.R.), The World from <strong>the</strong> Side of <strong>the</strong><br />

Moon è il classico prodotto di chi punta dritto all’obiettivo<br />

- le classifiche - mettendo in secondo piano tutto<br />

il resto. I pro sono quindi quasi tutti da ricercare nella<br />

facilità con cui Phillip trova gli hook melodici mentre tra<br />

i - tanti - contro abbiamo cori quasi parrocchiali (Where<br />

We Came From, la probabile hit Gone, Gone, Gone), produzioni<br />

da blockbusters OST (Tell Me A Story), eccessi<br />

zuccherosi e alcuni ritornelli talmente stucchevoli (So<br />

Easy) da generare l’effetto contrario.<br />

The World from <strong>the</strong> Side of <strong>the</strong> Moon è un album bidirezionale:<br />

da una parte Mumford e dall’altra<br />

Mat<strong>the</strong>ws.M&M’s e tutto torna.<br />

(5.3/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

pinCh - miSSing in ACtion (teCtoniC,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: dubstep<br />

Mentre oggi uno come Skream inizia a generare casi<br />

di malcontento tra i fan per abbandono del tetto coniugale,<br />

Pinch aveva iniziato un’inesorabile deriva verso<br />

la New Wave Of Techno già due anni fa con le varie<br />

Croydon House, Retribution e Paranormal Activity, tracce<br />

che ridefinivano certi contorni dance con equilibrio<br />

e autorità, senza crear troppo scompiglio. Un percorso<br />

di rinnovamento che ha trovato espressione definitva<br />

proprio quest’anno (l’ottimo FabricLive.61) ma che non<br />

ha mai completamente d<strong>is</strong>tolto il producer br<strong>is</strong>toliano<br />

dalle genuine profondità del dubstep. In questo senso<br />

vanno il valido album in collaborazione con Shackleton<br />

e questo M<strong>is</strong>sing In Action, che segna il ritorno nei luoghi<br />

del delitto sotto forma di raccolta di rarità e inediti<br />

prodotti dal 2006 al 2010.Rob Ell<strong>is</strong> rinvia dunque a data<br />

da destinarsi il seguito in studio di Underwater Dancehall,<br />

e si ripresenta nelle vesti di label manager attento ai desideri<br />

del pubblico, mantenendo alto il profilo tecnico e<br />

preferendo evitare certe versioni/v<strong>is</strong>ioni personali che,<br />

Mala insegna, richiedono coraggio e sforzo mediatico.<br />

Meglio agire con cautela dunque, mettendo sì in gioco<br />

le r<strong>is</strong>poste nu soul al giro post-Blake & SBTRKT (nel personale<br />

approccio esotico di Dil Da Rog Muka Ja Maha,<br />

ovvero dell’arab-soul) ma lasciando il centro del palco<br />

ai personali fondamenti, mai sconfessati, del producing<br />

elettronico 00s e all’arte del remixing.<br />

In 12 tracce, dal 2006 al 2010, M.I.A. presenta il biglietto<br />

da v<strong>is</strong>ita di una vecchia volpe che puntella ai fianchi il monolite<br />

dubstep: materia giocata per raffinazioni successive<br />

(la spendida 136 Trek tutto stepping in chiaroscuro +<br />

polveri di stelle old skool <strong>house</strong>), curata a livello tattile del<br />

campione ritmico come da tradizione trip-hop (Motion<br />

Sickness, E.Motive), chiara (reggae/dancehall) come scura.<br />

Con il wobble nelle vene (Cave Dream). Dal cuore tech<br />

che batte per Detroit (Mutate(d), ovvero il rework di 30Hz,<br />

ovvero il citato Ginzburg) senza che lo sguardo si neghi<br />

ai tagli ambient (ancora la citata E.Motive, Attack Of The<br />

Giant Robot Spiders!) oltre che ai tocchi soul (via 2 step),<br />

<strong>house</strong> (ancora Mutate(d)), fondamenti reggae (la versione<br />

di R<strong>is</strong>e Up di Henry & Lu<strong>is</strong> con il feat. in ragammuffin di<br />

Steve Harper), dancehall (Chamber Dub) e pop (Qawwali<br />

VIP, il remix di Emika Double Edge).<br />

Ancora una volta, assieme alle compile Dubstep Allstars, i<br />

nostalgici del genere avranno un paladino da osannare,<br />

del resto questa è anche materia destinata ai cultori di<br />

ogni categoria elettronica.<br />

(7.2/10)<br />

edoArdo briddA<br />

prinCe rAmA - top ten hitS oF <strong>the</strong> end oF<br />

<strong>the</strong> world (pAw trACkS, novembre 2012)<br />

Genere: now-aGe<br />

Tanto erano credibili i paralleli fra le assurde personalità<br />

- background in una comune Hare Kr<strong>is</strong>hna, letture e manifesti<br />

prodigati da pozze di sangue, esorc<strong>is</strong>mi di gruppo<br />

su VHS - e le rotelle altrettanto fuori posto rinvenibili nel<br />

melt di psych, raga/free-folk e now-age, fino a Shadow<br />

Temple (2010) di dubbi ne avevamo pochi: il trio dietro al<br />

progetto Prince Rama c’era ben più di quanto ci facesse,<br />

nel senso che faceva quel che faceva perchè quella era<br />

la natura alla base.<br />

Soltanto un anno dopo, ecco la fuoriuscita di Michael<br />

Collins, con la band che diventa appannaggio esclusivo<br />

delle sorelle Larson e il deludente Trust Now a farci annusare<br />

una deriva terzo/quartomond<strong>is</strong>ta da freak sfattone<br />

che di colpo appariva un po’ forzata. Ora, infine,<br />

il terzo lavoro su Paw Tracks a consolidare tale deriva,<br />

con l’aggravante di un’apertura ad uso e consumo di un<br />

pubblico sempre più vasto (e modaiolo) che affossa ogni<br />

parvenza di attitudine del tutto non calcolata.<br />

Tops 10 Hits Of The End Of The World è concepito come<br />

un souvenir post-apocalittico, ovvero una pseudo-compilation<br />

di singoli firmati dalle dieci band (fittizie) che<br />

stavano ai vertici delle chart prima di perire allo scoccare<br />

del giorno del giudizio. Il concept non è nuovo (Sonny<br />

Smith aveva già gestito art<strong>is</strong>ti immaginari nel suo 100<br />

Records) ma r<strong>is</strong>ulta comunque interessante e di grande<br />

potenziale, specie se messo in prossimità del responso<br />

della profezia Maya e in balia di due menti malate come<br />

quelle di Taraka e Nimai.<br />

E infatti tutto il corredo del d<strong>is</strong>co è un capolavoro demenziale:<br />

cover ultra-goofy a parte, per ogni band<br />

- tra cui spiccano nomi come Taohaus, Hyparxia e<br />

I.M.M.O.R.T.A.L.I.F.E che già di per sè meritano - ci sono<br />

anche le press photos, i tag di genere - motorcycle rock,<br />

new-wave grunge, ghost-modern glam, etc - e delle<br />

bios che, fra culti erotici infiltrati nelle d<strong>is</strong>co underground<br />

ed act generati al computer, sono tra le cose più divertenti<br />

ci siano capitate per le mani di recente.<br />

Lo stesso non si può dire del contenuto musi<strong>cale</strong>. La<br />

buona resa della mossa volta all’immediata appetibilità<br />

attraverso la diluizione dei tratti ricorrenti - droni arabeggianti<br />

e new-age, blend di cheesy-d<strong>is</strong>co e goth-rock,<br />

percussioni tribal<strong>is</strong>sime e riverbero cosmico - regge soltanto<br />

per quattro pezzi, scadendo poi in un pasticcio di<br />

generico, scarsamente <strong>is</strong>pirato retro synth-pop, tra imbarazzi<br />

bollywoodiani (Radhamadhava) e nostalgie lato<br />

Bananarama (Exerc<strong>is</strong>e Ecstacy). Non solo: col volgere al<br />

termine di So Destroyed - appunto la traccia #4 - va a<br />

perdersi anche un qualsiasi contatto con l’idea di fondo,<br />

sia per la varietà di proposta - ben inferiore a quanto<br />

implicitamente richiesto -, sia per la assenza di ulteriori<br />

ep<strong>is</strong>odi che ne rinnovino il “panico concettuale”. Per intenderci,<br />

quanto egregiamente fatto dai canti meta-rituali<br />

dell’opener Blade Of Austerity e della contigua Those<br />

Who Live For Love Will Live Forever. Per le Prince Rama è<br />

un’altra occasione sprecata.<br />

(6/10)<br />

mASSimo rAnCAti<br />

produCerS - mAde in bASing Street (<strong>the</strong><br />

lASt lAbel, novembre 2012)<br />

Genere: aor/aaa<br />

Sono in quattro, arrivano da Londra, si fanno chiamare<br />

Producers ma non sono l’ennesima nuova band destinata<br />

alle copertine di NME, tutt’altro. Suonano insieme<br />

da sei anni e all’anagrafe sono Lol Creme, Trevor Horn,<br />

Steve Lipson e Ash Soan.<br />

Un progetto guidato da due assi del pop inglese, music<strong>is</strong>ti<br />

di fama mondiale prima ancora di dedicarsi in primo<br />

luogo alla produzione: l’occhialuto Trevor Horn - nei<br />

Baggles di Video Killed <strong>the</strong> Radio Star, negli Yes di Owner<br />

of a Lonely Heart e negli Art Of No<strong>is</strong>e del superclassico<br />

Moments in Love - e il sessantacinquenne Lol Creme,<br />

già negli Art Of No<strong>is</strong>e della reunion di fine millennio e<br />

presenza storica dei 10cc di (compresa I’m Not in Love).<br />

Stephen Lipson è stato v<strong>is</strong>to spesso a fianco di Horn (ad<br />

esempio per Slave to <strong>the</strong> Rhythm di Grace Jones), mentre<br />

l’ex Del Amitri Ash Soan - il più giovane del gruppo - ha<br />

recentemente lavorato come sessionman dietro alle pelli<br />

per molte star dell’UK pop.<br />

L’album di debutto Made In Basing Street esce per<br />

la The LAST Label, branchia della ZTT Records fondata<br />

trent’anni fa dallo stesso Horn, dopo mesi passati - guestate<br />

di Will Young e Jamie Cullum comprese - sui palchi<br />

di mezzo mondo. Nonostante siano producer, la dimensione<br />

ideale della band è infatti quella live, situazione<br />

perfetta per sfoggiare anni e anni di esperienza e una<br />

perizia tecnica sopraffina, davanti ad un pubblico nostalgico<br />

dell’AOR-era.<br />

Made in Basing Street - così intitolato in quanto reg<strong>is</strong>trato<br />

ai SARM/Basing Street Studios - inizia con quell’incrocio<br />

tra Live And Let Die e i TOTO più leziosi che è Freeway.<br />

Soft rock (Waiting For The Right Time) e cori che<br />

rimandano a quella che a cavallo tra ‘70 e ‘80 era probabilmente<br />

la scena meno interessante che l’industria musi<strong>cale</strong><br />

aveva da offrire: tappeti di tastiere, arrangiamenti<br />

e guizzi chitarr<strong>is</strong>tici che sembrano uscire a seconda dei<br />

casi da Sanremo 1980 (o anche 2012, cambia poco) o dai<br />

cd di Beppe Maniglia (Your Life). Qualche riffetto accennato<br />

(You And I) e una parte centrale del d<strong>is</strong>co pseudo-<br />

84 85


acustica (Stay Elaine, Barking Up The Right Tree) che alza<br />

ulteriormente un livello di glucosio già molto elevato.<br />

Dieci tracce costruite su struttre di layer, strumentali e<br />

vocali, impilati da una mano dolce e inoffensiva. Pacchiana.<br />

Anche dai titoli dei brani (l’onesta Every Single Night in<br />

Jamaica ad esempio) è chiaro che i quattro Producers<br />

puntino tutto sull’effetto nostalgia, ma non siamo né di<br />

fronte ad una nascita di un revival prog-soft-aor (fortunatamente),<br />

né di fronte ad un prodotto in grado di<br />

trovare nuovi adepti alla causa. Made in Basing Street<br />

sarebbe stato un arcaico d<strong>is</strong>co da cestino automatico già<br />

trent’anni fa, figuriamoci oggi.<br />

(3.5/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

rihAnnA - unApologetiC (deF JAm<br />

reCordingS, novembre 2012)<br />

Genere: pop / r’n’b<br />

Per ben tre album, dal primo Music Of The Sun a Good<br />

Girl Gone Bad, Rihanna era riuscita a gestire con una<br />

certa dignità la propria figura di star pop/r’n’b dalle diverse<br />

influenze, e se pensiamo a quanto aggressiva e<br />

invadente sia l’industria musi<strong>cale</strong> USA degli ultimi anni,<br />

non è poco. Ma col mainstream, si sa, la genuinità non<br />

dura mai e dal 2009 l’art<strong>is</strong>ta caraibica è diventata una<br />

specie di carrozzone carnevalesco sul quale tutti vogliono<br />

salire (il tasso di v<strong>is</strong>ibilità è troppo allettante), così<br />

che tutti i d<strong>is</strong>chi da Rater R in avanti son finiti per essere<br />

dei puzzle eterogenei studiati a tavolino che non si son<br />

lasciati scappare nessuna delle mode intercorse nel frattempo:<br />

dal dubstep al Gaga style fino al danzereccio pop,<br />

e mai nessuno a chiedersi sul serio se fossero mosse perfettamente<br />

adatte alle qualità del soggetto manipolato.<br />

Per Unapologetic la situazione è ancora così (la svolta<br />

solitamente avviene causa colpo d’orgoglio dell’art<strong>is</strong>ta<br />

stesso, qui non pervenuto) e quel che qualcuno defin<strong>is</strong>ce<br />

“un gran bel mix di generi” in realtà è uno scontro in<br />

galleria di almeno 4-5 diverse traiettorie tra loro incompatibili.<br />

Peccato, perché i primi pezzi sembravano aver<br />

identificato un’immagine efficace da seguire e la stavano<br />

costruendo anche con stile. Fresh Off The Runaway pecca<br />

forse di leggerezza nel rivangare certe sonorità fidget<br />

da autoradio, ma almeno rid<strong>is</strong>egna un volto da bad girl,<br />

resosi necessario dopo il passaggio di Calvin Harr<strong>is</strong> e<br />

spendibile bene in più di un’occasione. Come in Numb,<br />

ad esempio, per riempire con carattere gli spazi abstract<br />

e compensare l’impalpabilità dell’intervento di Eminem.<br />

E molto meglio sono Power It Up e Loveeeee Song, che<br />

finalmente tirano in ballo qualcosa di veramente underground<br />

come la trap music e le sue filettature ritmiche:<br />

mentre sullo sfondo corrono proprio quelle che presumibilmente<br />

saranno le colonne sonore della dance<br />

d’avanguardia dei prossimi anni, il ruolo di Rihanna è<br />

di addolcirne l’effetto con un r’n’b essenziale e black, riportandole<br />

a una dimensione più ascoltabile e fruibile,<br />

sinuosa nella prima e malinconica nella seconda. Mossa<br />

coraggiosa al di là delle ragioni che ci stanno dietro, soprattutto<br />

perché si svincola dal solito schema caro a Mtv<br />

e anche da quello che i fan potevano aspettarsi.<br />

Il resto dell’album, ovviamente, non poteva correre<br />

dietro teoremi tanto r<strong>is</strong>chiosi e va quindi a cercarsi le<br />

proprie ricette appetibili secondo i canali classici, ballate<br />

pop sul mieloso andante come Stay e Get Over With It<br />

(che su un d<strong>is</strong>co r’n’b di un certo livello non dovrebbero<br />

starci), riciclo di suoni indie rock collaudati (Lost In Parad<strong>is</strong>e,<br />

Love Without Tragedy) e onoroficenze devote verso<br />

il pop che conta (Nobody’s Business con Chr<strong>is</strong> Brown, che<br />

trapela invidia stil<strong>is</strong>tica verso chi certe cose le ha dimostrate<br />

negli ‘80, Madonna e Pet Shop Boys). I momenti<br />

peggiori però son due: Jump prova a inseguire il nuovo<br />

dubstep insieme a due esperti del caso come i Chase &<br />

Status, che vedono di non esagerare ma di fatto creano<br />

un conflitto di compatibilità con le movenze di Rihanna<br />

(Katy B già c’è e non è necessario imitarla), mentre<br />

in Right Now - manco a dirlo - David Guetta è sempre<br />

abil<strong>is</strong>simo a far sbiadire ogni eleganza estetica, coprendo<br />

con quantità industriali di dj tools d<strong>is</strong>inibiti al limite<br />

dell’offensivo. Se togli la sostanza capace di d<strong>is</strong>tinguerti<br />

e lasci intatto il jet set, alla fine hai solo un contenitore<br />

luccicante riempito senza molto criterio. E con Rihanna<br />

sta diventando un’abitudine.<br />

(5/10)<br />

CArlo AFFAtigAto<br />

rio mezzAnino - love iS A rAdio (A buzz<br />

Supreme, novembre 2012)<br />

Genere: blues, desert<br />

Quattro anni fa, al loro esordio, i Rio Mezzanino convinsero<br />

un po’ tutti e si ritagliarono apprezzamenti e paragoni<br />

con un certo desert blues-rock di taglia grossa.<br />

La combriccola toscana torna a bomba su quello che<br />

aveva sapientemente costruito, cercando di equilibrare<br />

gli orizzonti e aggiungere solidità al sound.<br />

Love Is A Radio è un d<strong>is</strong>co cupo, granitico, sporcato dalla<br />

polvere di un country-blues deviato e sorretto dalla<br />

voce portante di Bacchiddu, suggestionato dalla ballad<br />

nera e mitologica dei Bad Seeds (Ghost Song, Get Me<br />

Down, Animal), influenzato dall’ombra degli Screaming<br />

Trees (Thorn, A Star), addolcito dagli smussamenti in stile<br />

Calexico (Mint And Holy Water, For Love). Fanno la loro<br />

dignitosa comparsata le ricostruzioni di sassofono e i rit-<br />

mi sbarazzini quando tutto sembra perdersi nella calma<br />

piatta e strasognante di Silver, le rifiniture di archi e il<br />

controcanto femminile in pieno stile western (la sedia<br />

a dondolo cigolante sotto il porticato) di My Enemy JR,<br />

le cattedrali di innovazione sonora in eco Radiohead di<br />

Sleep Togheter.<br />

Tutte le carte sono giocate ben<strong>is</strong>simo e i toni moderati<br />

da dieci ep<strong>is</strong>odi d’amore e non, paradigma affatto scontato<br />

per chi si avvicina al genere. Eppure il castello di<br />

sabbia viene via con un soffio, le canzoni non suggestionano,<br />

non smuovono gli animi (né di chi le esegue né di<br />

chi le fru<strong>is</strong>ce), come se l’apparato esterno fosse troppo<br />

facilmente penetrabile da allagamenti e sconfitte.<br />

(6/10)<br />

nino Ciglio<br />

robbie williAmS - tAke <strong>the</strong> Crown (iSlAnd,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: pop<br />

A luglio 2006, al termine di una sudata esibizione in quel<br />

catino chiamato stadio San Siro, Robbie Williams deteneva<br />

e custodiva lo scettro di Re ind<strong>is</strong>cusso del pop di<br />

tutta Europa. Gradasso e adorato sex simbol, negli anni<br />

precedenti aveva sfanculato i Take That per andarsene<br />

da solo e litigato con un Liam Gallagher che gli dava<br />

del ciccione; si era drogato e alcolizzato; aveva superato<br />

indenne la maledizione dei 27 anni pubblicando singoli<br />

capaci di fare la storia del pop inglese moderno (Angels);<br />

aveva sfornato pupazzate stilos<strong>is</strong>sime (Millenium, che<br />

quasi ruba il posto a Daniel Craig per 007) e confezionato<br />

duetti swing (Something Stupid, cover di Mr. Frankie<br />

Sinatra - e figlia - in compagnia di Nicole Kidman fresca<br />

di oscar); aveva b<strong>is</strong>ticciato furiosamente contro il bigott<strong>is</strong>mo<br />

a stelle e str<strong>is</strong>ce precludendosi definitivamente<br />

il mercato USA (i famosi 10 secondi tolti al videoclip di<br />

Rock DJ). Il concerto meneghino e il tour di quell’anno riuscirono<br />

abilmente a mascherare i primi passi falsi di un<br />

Williams che, staccatosi dal produttore Guy Chamber,<br />

pubblicava prima Rudebox (album dal taglio elettronico<br />

con, tra le altre, la collaborazione dei Pet Shop Boys) e<br />

poi, tre anni più tardi, l’imbarazzante Reality Killed The<br />

Video Stars, con un parterre di produttori quali Trevor<br />

Horn e Mark Ronson (oltre al rientrato Chambers).<br />

Tra i fatti recenti: una reunion con i Take That (Progress)<br />

che si commenta da sola, un fidanzamento con prole,<br />

l’ossessione per gli UFO che quasi gli costa un TSO, e un<br />

“buen” ritiro nei prima odiati e poi amati USA. E dunque<br />

Take The Crown, l’ultima wild card che lasciava presagire<br />

un’amm<strong>is</strong>sione di colpa e, invece, non esaud<strong>is</strong>ce né i<br />

desideri del pubblico general<strong>is</strong>ta né quelli dei fan.<br />

Robbie, che tra le attitudini non ha mai avuto il rock,<br />

decide d’affidarsi a Jacknife Lee, che in curriculum può<br />

vantare gente come U2 e R.E.M. (di cui ha cercato di<br />

ringiovanire il sound) ma anche The Drums e Two Door<br />

Cinema Club. Il r<strong>is</strong>ultato? The Killers che coverizzano gli<br />

U2 (All That I Want, Hunting For You, Not Like The O<strong>the</strong>rs).<br />

Un minestrone r<strong>is</strong>caldato e sciapo in cui, con l’aiuto (?) di<br />

due p<strong>is</strong>chelli provienienti dagli Undercolours troviamo<br />

un bolso papà Williams a d<strong>is</strong>pensare, tra gli uuh e gli ooh,<br />

consigli di saggezza per le giovani generazioni (Be A Boy).<br />

Into The Silence o il singolone Candy - bannato dalla BBC1<br />

perché non in linea con il palinsesto e scritta a quattro<br />

mani con Gary Barlow - dimostrano ancora quanto il<br />

Take That ci sappia fare, ma nel resto della trackl<strong>is</strong>t c’è<br />

troppa svogliatezza e stanchezza.<br />

Con un giro da X-Factor, Robbie i conti li farà ancora tornare,<br />

ma sono lontani i tempi degli stadi e delle ballad<br />

con l’accendino. Take The Crown non r<strong>is</strong>parmia nulla,<br />

neppure le paternali. I sudditi stiano tranquilli, a Buckingam<br />

Palace non sono prev<strong>is</strong>ti smoking rosa e sneakers<br />

blu.<br />

(4/10)<br />

mirko CArerA<br />

roberto “FreAk” Antoni & AleSSAndrA<br />

moStACCi - però quASi ep (Cni, ottobre 2012)<br />

Genere: rock demenziale<br />

Dopo il clamoroso abbandono degli Skiantos (il secondo,<br />

dopo quello dell’80) l’incontenibile Freak Antoni<br />

prosegue i progetti cui aveva già dato vita da un po’ di<br />

tempo insieme alla pian<strong>is</strong>ta Alessandra Mostacci: il duo<br />

di Ironikontemporaneo e il rock della Freak Antoni Band.<br />

Questo EP anticipa un album prev<strong>is</strong>to in primavera e dà<br />

anche l’idea di come i pezzi dei vari repertori passino da<br />

un progetto all’altro (le serate voce e piano che includono<br />

anche brani Skiantos e altri suonati con la Band, e<br />

idem i concerti di questa).<br />

Non si tratta infatti un nuovo volume di Ironikontemporaneo<br />

ma il passaggio al “rock”, almeno su d<strong>is</strong>co, anche<br />

del duo, che allo scopo recluta music<strong>is</strong>ti diversi da quelli<br />

della FAB. Però quasi, melodia che arguta e leggera segue<br />

i movimenti di un testo d’amore apparentemente<br />

classico, riesce dove il pop dei tentativi di mandare la<br />

Buconi a Sanremo realizzati con la FAB r<strong>is</strong>ultavano fuori<br />

contesto (troppo festivalieri e lontani dal resto), cioè riequilibrando<br />

l’elemento pop italiano con l’ironia che Freak<br />

ha già nel timbro vo<strong>cale</strong> e con immagini notevoli quali<br />

“Baciami, fammi passeggiare sulla porcellana dei tuoi denti”<br />

- in Liguria poteva finirci davvero e fare un figurone.<br />

La natura composita dell’approccio recente si vede però<br />

anche nelle collaborazioni: la canzone del titolo ospita<br />

un Luca Carboni evidentemente stufo del pop, mentre<br />

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J-Ax, dopo averla ripresa in un suo live, aggiunge le sue<br />

rime a I gelati sono buoni (la classica Gelati), brano le cui<br />

varie versioni negli anni ne hanno dimostrato una duttilità<br />

inattesa. Dove sei è uno dei pezzi “sanremesi” di cui<br />

sopra (in origine Dove sei stato), arrangiamento diverso e<br />

bello come l’originale ma che non scaccia le perplessità,<br />

Sono un ribelle mamma le toglie gli anni ‘80 della versione<br />

originale animandola di samples nel finale mentre Lettera<br />

alla madre è la Filastrocca della mamma della FAB che<br />

musicava una lettera di Mozart (sboccata come Freak non<br />

è mai stato), qui resa con carillon e scalpitii campionati.<br />

Ottima la title track, buon souvenir per i divertenti concerti<br />

il resto, ma perché cambiare i titoli alle canzoni?<br />

(6.8/10)<br />

giulio pASquAli<br />

ruSko - kApow ep (ruSko reCordingS,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: mainstream dubstep<br />

Dopo la joint venture con i Cypress Hill nell’estivo eppì<br />

Cypressxrusko, Rusko torna sulla media d<strong>is</strong>tanza con un<br />

lavoro in free download di 4 tracce, Kapow.<br />

In un periodo d’oro per il brostep - e l’Owsla con i fari<br />

più che mai puntati addosso - era chiaro che il furbone<br />

di Songs non potesse mancare all’appello. Se condividi<br />

sulla tua bacheca il post facebook, in cambio scarichi<br />

quattro tracce tra il potente e il tamarro con meno attenzione<br />

verso i drop e più enfasi sulle power rhythm<br />

che strizzano l’occhio a Krewella (Yeah), alla trance cara<br />

a Van Bureen (numero uno di dj mag per il 2012, gran<br />

temp<strong>is</strong>mo), a jingle degni di Deadmau5 e Guetta (Bring<br />

It Back), condendo con rigurgiti hardcore/techno europea<br />

come Booyakasha, il pezzo più valido del lotto, forte<br />

anche del tipico Rusko sound.<br />

Vale lo stesso d<strong>is</strong>corso fatto ai tempi dell’album dei Nero:<br />

mainstream dubstep per il general<strong>is</strong>mo di MTV.<br />

(5.4/10)<br />

mirko CArerA<br />

SCott & ChArlene’S wedding - pArA viStA<br />

SoCiAl Club (CritiCAl heightS, ottobre<br />

2012)<br />

Genere: low fi<br />

Basta con questa robetta suonata male e reg<strong>is</strong>trata<br />

peggio, forzatamente sdrucita come i jeans degli adolescenti,<br />

retrograda, con la carica eversiva di un mozzicone<br />

gettato per terra. Tanto i Velvet Underground<br />

erano i Velvet Underground, e comunque non ci sono<br />

più. Punto. Non ci sono più gli Stooges, né i Telev<strong>is</strong>ion.<br />

Non c’è più l’epoca che ne legittimava la poetica. Tutto<br />

il resto, o quasi, è revival, sovente fastidioso.<br />

Craig Dermody, l’australiano trapiantato a New York<br />

sotto il moniker di Scott and Charlene’s Wedding, se<br />

ne esce appunto con un d<strong>is</strong>co derivativo e fuori m<strong>is</strong>ura,<br />

sporco come un divano abbandonato accanto a un cassonetto<br />

dell’immondizia, molesto come un ubriaco che<br />

ti viene addosso sul marciapiede alle quattro di notte,<br />

ma scarico di poesia, tensione, tormento e <strong>is</strong>pirazione.<br />

Incentrato su chitarre slabbrate e voce a cazzo di cane,<br />

tra melodie stonate e chiacchiericcio proto punk, Parav<strong>is</strong>ta<br />

Social Club è un d<strong>is</strong>co noioso e pretestuoso, il quale,<br />

più che rievocare i numi tutelari di cui sopra, ne azzarda<br />

una floscia ripresa stil<strong>is</strong>tica.<br />

Unica nota positiva è il packaging, che al di là del r<strong>is</strong>ultato<br />

sonoro denota con tutta probabilità la buona fede del progetto.<br />

Il d<strong>is</strong>co, infatti, fu originariamente stampato in sole<br />

200 copie oggi sold out, ciascuna con una copertina diversa<br />

dipinta a mano dall’autore, e in questa re<strong>is</strong>sue la londinese<br />

Critical Heights ne sceglie 38 che l’appassionato o (sventurato)<br />

ascoltatore potrà intercambiare a suo piacimento.<br />

(4.5/10)<br />

Antonio lAudAzi<br />

SighA - living with ghoStS (hotFluSh<br />

reCordingS, novembre 2012)<br />

Genere: techno<br />

Quel che ha spinto Scuba ad accaparrarsi il giovane<br />

Sigha e tirarselo in quel di Berlino non è dato saperlo,<br />

ma di certo il boss Hotflush negli ultimi tempi ha dimostrato<br />

lungimiranza, giocando, se non in anticipo, almeno<br />

alla pari con i desideri del club teutonico. Lui, con<br />

Triangulation prima e col DJ-Kicks poi, è stato il primo<br />

a smarcarsi dal pantano dubstep e ora il pupillo spinge<br />

a tavoletta sulla autobahn.<br />

La sua è techno sudata e cerebrale, paranoica e senza<br />

fronzoli, fatta di strati programmati, pause and repr<strong>is</strong>e,<br />

dove le ossessioni per la p<strong>is</strong>ta hanno un posto più importante<br />

di stimoli intellettivi che comunque non vengono<br />

trascurati. Mirror e Ascention ricordano l’ultimo<br />

Andy Stott al netto di rassicurazioni soul, ed è qui che<br />

r<strong>is</strong>iedono le angosce e i fantasmi con cui Sigha sembra<br />

convivere. Il d<strong>is</strong>co, del resto, gioca su alienazioni mentali<br />

dur<strong>is</strong>sime e intermittenti come la luce di un neon rotto:<br />

Puritan suona come un avvertimento prima d’intraprendere<br />

il viaggio, è un rito sciamanico sotto cassa dritta che<br />

trasmette rigore al ballo e all’ascolto. Lo stesso basso killer<br />

che ritroviamo in Scenecouple tra ripetizione in levare<br />

e sapienti manipolazioni no<strong>is</strong>e.<br />

A colpire, e in maniera l<strong>is</strong>ergica, sono ancora le iniezioni<br />

di ambient asettica, vicine a quelle usate da Redshape<br />

nell’ultimo Square: i cali di tensione sono indotti e<br />

studiati (She Kills In Ecstasy), il cattedral<strong>is</strong>mo dronico e<br />

incensante (Aokigahara richiama persino Tim Hecker).<br />

Un peccato che questa vena venga sacrificata sull’altare<br />

dell’ortodossia techno. Living With Ghosts, infatti, resuscita<br />

la durezza e le simmetrie care alla minimal (Hatwin,<br />

M_nus o Bar 25 che sia) e d<strong>is</strong>egna uno affresco<br />

dai contorni netti e paranoidi (leggi Shed, Ben Klock<br />

e Marcel Dettmann, quest’ultimo non a caso feticcio<br />

dichiarato dello stesso Scuba). E’ un album funzionale<br />

al club techno di nicchia. 8 euro all’ingresso e buio pesto<br />

in sala. Prendere o lasciare.<br />

(7/10)<br />

mirko CArerA<br />

SikitikiS - le belle CoSe (Autoprodotto,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: electro rock<br />

I Sikitik<strong>is</strong> tornano dopo due anni di assenza con un d<strong>is</strong>co,<br />

Le belle cose, che riprende il d<strong>is</strong>corso là dove il precedente<br />

D<strong>is</strong>chi fuori moda lo aveva lasciato. Una ricerca<br />

in continua evoluzione, che prosegue spedita intorno<br />

a quei territori rock/psych che caratterizzano il gruppo<br />

fin dall’esordio (Fuga dal deserto del Tiki) e che si ritrova,<br />

declinata in più soluzioni - elettronica in prim<strong>is</strong> -, anche<br />

in questo terzo album. Come a dire: la sostanza, l’essenza<br />

vera della musica dei Sikitik<strong>is</strong> è soprattutto nel riuscire a<br />

far convivere - rigorosamente senza chitarre - gli aspetti<br />

più contorti e straripanti del rock con un mix di generi<br />

che varia dal jazz al funk, dal punk al prog, senza mai<br />

tener conto delle categorie precostuite.<br />

Il cocktail lo ritroviamo anche in Le belle cose, a cominciare<br />

dalla title-track, introduzione afrobeat trascinata<br />

dall’incedere funky dei synth, mentre La mia piccola rivoluzione<br />

continua su toni electro 80s uniti all’orecchiabilità<br />

del ritornello. La divertente marcetta di Soli, a cui<br />

partecipa la cantante reggae S<strong>is</strong>ta Namely, è un surfpop<br />

in acido subito rovesciato dalle pulsazioni ambient<br />

di un Aria in cui riecheggia la lezione dei Radiohead di<br />

Kid A. Si procede poi con La casa sull’albero e Hey tu!, altri<br />

ep<strong>is</strong>odi in bilico tra spensieratezza anni ‘60 e tastiere,<br />

con la chiusa affidata all’anima latina di Amori stupidi,<br />

perfetto retro-pop italiano unito alla vocalità sempre<br />

incalzante di Alessandro “Diablo” Spedicati.<br />

Le belle cose è un album che vive di citazioni - dichiarate,<br />

esplicite, riconoscibili - e che passa con grande<br />

d<strong>is</strong>involtura dal cantautorato blues di Bennato e Rino<br />

Gaetano, ai classici di Celentano, alla f<strong>is</strong>icità del punk<br />

unita all’eclett<strong>is</strong>mo del jazz. Il tutto legato, rimasticato e<br />

buttato fuori da quella massiccia dose di ironia e sberleffo<br />

che da sempre contradd<strong>is</strong>tingue la band.<br />

(7.1/10)<br />

giuliA Antelli<br />

Snow pAlmS - intervAlS (villAge green,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: modern classical<br />

Un carillon impazzito di marimbas, xilofoni, vibrafoni e<br />

glockenspiel che tratteggia mini-suite tra minimali orchestrazioni<br />

da camera, folk stranito e cantilene afone su<br />

cui si stratificano elettronica scarna, nebulose di suoni e<br />

corde pizzicate in punta di dita.<br />

Intervals è tutto questo, niente più, niente meno. Piccoli<br />

sketch di romantic<strong>is</strong>mo algido e sognante (post)elettronica<br />

appannaggio della sigla dietro cui si nasconde David<br />

Sheppard - titolare del progetto - e il collaboratore,<br />

non si sa quanto occasionale a questo punto, Chr<strong>is</strong> Leary<br />

aka Ochre.<br />

Musica minima che gioca di stratificazione e accumulo<br />

senza mai r<strong>is</strong>ultare eccessiva, che prende da mondi<br />

diversi - Yann Tiersen e Reich, Moondog e Riley, poliritmie<br />

esotiche e le musiche filmiche di Philipp Glass<br />

- per amalgamare il tutto in un concentrato umorale e<br />

ondivago, a tratti melanconico, spesso giocoso, che si<br />

sviluppa quasi sempre con tonalità soffuse e tinte tenui.<br />

Un album che passerà inosservato per la sua inclassificabile<br />

stravaganza, ma che non mancherà di lasciare un<br />

segno nei coraggiosi che ci si cimenteranno. In <strong>the</strong> night<br />

time, ovviamente.<br />

(6.8/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

SoundgArden - king AnimAl (univerSAl,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: GrunGe<br />

Quando Chr<strong>is</strong> Cornell e compagni si sono sciolti negli<br />

anni ‘90, in fondo non avevano lasciato nulla d’intentato.<br />

La loro parabola creativa era giunta al termine per naturale<br />

esaurimento. A un ascolto attento, e non influenzato<br />

dall’entusiasmo per quello che era stato Superunknown,<br />

in Down On The Upside r<strong>is</strong>ultava evidente una certa usura<br />

del loro armamentario musi<strong>cale</strong>, che poi era quello di<br />

tutto il genere che avevano contribuito a <strong>is</strong>pirare. Piuttosto<br />

che fare altri d<strong>is</strong>chi di routine scelsero di sciogliersi,<br />

una dec<strong>is</strong>ione saggia e di una certa onestà intellettuale.<br />

Come si fa a riaprire, quindici anni dopo, un d<strong>is</strong>corso<br />

chiuso in questo modo?<br />

Se escludiamo ragioni essenzialmente economiche che<br />

ci possono stare, l’operazione comeback più ancora che<br />

di revival sa di commemorazione, se non altro perché il<br />

ritorno dei Soundgarden si è sovrapposto al ventennale<br />

di Nevermind dei Nirvana e ai vent’anni di carriera dei<br />

Pearl Jam. Un modo per dire che c’erano anche loro,<br />

oppure la dimostrazione che il grunge è ormai un genere<br />

storicizzato; al di là di una breve stagione e dei suoi<br />

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interpreti originari non ha saputo produrre una degna<br />

continuazione.<br />

Tranne in casi di nadir estremo, e questo non lo è, spesso<br />

i “ritorni” d<strong>is</strong>cografici non aggiungono e non tolgono<br />

nulla alla carriera dei titolari. Di fatto, sono d<strong>is</strong>chi superflui.<br />

King Animal è un album troppo lungo, alcuni brani<br />

si potevano tranquillamente sforbiciare. Per il resto, i<br />

Soundgarden ci provano. B<strong>is</strong>ogna riconoscerlo. Provano<br />

a fare cosa? Ad aggiornarsi, o meglio a riproporsi in<br />

modo credibile.<br />

Il loro sound era già di per sé il frutto di un’operazione<br />

di aggiornamento dell’hard rock degli anni ‘70 r<strong>is</strong>petto<br />

a ciò che era venuto dopo: il punk, la new wave e l’indie<br />

rock americano degli anni ‘80. In Screaming Life i riff<br />

cavernosi dei Black Sabbath e il dinam<strong>is</strong>mo ritmico/chitarr<strong>is</strong>tico<br />

dei Led Zeppelin andavano a braccetto con un<br />

art rock abrasivo, derivato dal dark punk britannico e<br />

dalle tossiche riv<strong>is</strong>itazioni post-punk di scuola SST (Black<br />

Flag) e Touch And Go (Die Kreuzen, Killdozer, Butthole<br />

Surfers). Ultramega OK metteva curiosamente in evidenza<br />

le radici blues dello stesso sound, Louder Than Love<br />

era una sorta di d<strong>is</strong>co a doppio taglio, che giocava in<br />

modo ambiguo con gli stereotipi del metal, quanto Badmotorfinger<br />

plasmava in una direzione più psichedelica<br />

e progressiva il loro stile ormai maturo: un power rock<br />

alternativo di cui Superunknown incarna invece il classico,<br />

apogeo di un tardo suono di Seattle prossimo alla<br />

fine. Da dove si riparte quindici anni dopo?<br />

Le premesse non sono granché. La copertina è un funesto<br />

presagio, anche se le scelte di grafica e videoclip<br />

del gruppo sono state spesso brutte e kitsch: è un<br />

elemento di continuità con il passato di cui avremmo<br />

fatto a meno, ma per altri versi è un tratto familiare da<br />

cui riconosciamo in filigrana la vecchia e cara band. Il<br />

singolo pomposetto e autoindulgente, Been Away Too<br />

Long, concessione al riff troppo facile e al boogie metal<br />

più dozzinale, è una parentesi fortunatamente chiusa<br />

già al secondo pezzo. Non-state Actor e By Crooked Steps<br />

sono due brani molto più dinamici e interessanti, specialmente<br />

sotto il profilo strumentale, intendendo anche<br />

la voce tenorile di Cornell come uno strumento insieme<br />

alla chitarra di Thayil e alla fondamentale sezione ritmica<br />

di Cameron e Shepherd. Sono anche i pezzi in cui i<br />

Soundgarden sembrano rendere meglio come band e<br />

reinventarsi partendo dal loro versante più progressivo<br />

e psichedelico. Su questa falsariga, A Thousand Days<br />

Before è la canzone più piacevole e sorprendente: il suo<br />

raga-rock suona come un omaggio alle indimenticate<br />

origine indiane di Thayil ma anche al lato più curioso e<br />

l<strong>is</strong>ergico dei Soundgarden. Il dinosauro si è scrollato un<br />

po’ d’anni dal groppone? Sarebbe bello.<br />

In realtà, nel blocco centrale del d<strong>is</strong>co le cose vanno<br />

meno bene, anche se si naviga a v<strong>is</strong>ta senza veri scivoloni.<br />

Il quartetto specula sul proprio stile classico e maturo<br />

in Blood on <strong>the</strong> Valley Floor, Bones of Birds e Taree. È<br />

un ep<strong>is</strong>odio estemporaneo ma gradevole Attrition, un<br />

ibrido indie rock che ricorda i Dinosaur Jr. La parte conclusiva<br />

è quella che, francamente, ci convince di meno.<br />

Nel grunge semiacustico di Black Saturday e nel folk pop<br />

di Halfway There sembra di ascoltare un d<strong>is</strong>co sol<strong>is</strong>ta di<br />

Cornell con gli altri ridotti a backing band. Worse Dreams<br />

si salva in corner con il rovente finale psichedelico. Gli<br />

ultimi due pezzi, no: parliamo dei Black Sabbath virati<br />

soul (in verità, un mezzo pasticcio) di Eyelids Mouth e di<br />

Rowing, una specie di mantra-blues tirato troppo per le<br />

lunghe. Nel complesso, basta per sfiorare una sufficienza<br />

r<strong>is</strong>icata, peccato per i buoni spunti che la prima parte<br />

lasciava intravedere.<br />

(5.9/10)<br />

tommASo iAnnini<br />

StArred - priSon to priSon ep (pendu<br />

Sound, novembre 2012)<br />

Genere: narcotic-dreamfolk<br />

Ennesima coppia uomo-donna a r<strong>is</strong>chio hype? Ennesimo<br />

progetto con base a Brooklyn? Sì, ma non solo.<br />

Il progetto Starred ruota attorno alla figura di Liza Thorn<br />

e alle intuizioni di Mat<strong>the</strong>w Koshak. Liza, californiana,<br />

cresciuta a San Franc<strong>is</strong>co ed emblema di eccessi autod<strong>is</strong>truttivi,<br />

per un periodo è stata la Courtney Love<br />

dell’ex-Girls Chr<strong>is</strong>topher Owens (quando i due si facevano<br />

chiamare Curls).<br />

L’EP Pr<strong>is</strong>on To Pr<strong>is</strong>on arriva dopo il singolo (escluso dalla<br />

trackl<strong>is</strong>t) No Good, accompagnato da un video che rende<br />

bene l’idea delle suggestioni che il duo è in grado di<br />

creare. Sei tracce per circa venticinque minuti di musica,<br />

Pr<strong>is</strong>on To Pr<strong>is</strong>on EP si apre con l’ottimo biglietto da v<strong>is</strong>ita<br />

Call From Par<strong>is</strong>: chitarra acustica ed echi dream... un<br />

incrocio tra desolazione country-folk<strong>is</strong>h e statiche atmosfere<br />

narcoticho/funeree. Pensate alla EMA di California<br />

che gioca con i Mazzy Star.<br />

La successiva e spiazzante Sure Bet muove le carte in tavola<br />

portando drum beats incalzanti e riff elettrici che<br />

forse stonano all’interno di un set che torna sulle lande<br />

desertico-oniriche già con la successiva La Drugs: tappeto<br />

di organi, lullaby-piano e una chitarra che a metà<br />

del brano sfocia in un lancinante e spettrale mini assolo.<br />

Aperture vicine al fuzz-pop (hanno aperto per le Dum<br />

Dum Girls di recente) in Commitee, e lento e lugubre<br />

crescendo dream-folk - con intro Badalamentiana - in<br />

direzione spazio in Cemetery. Chiude Light, ipnotica meditazione<br />

strimpellata.<br />

Evocativa e senza tempo, la musica contenuta in Pr<strong>is</strong>on<br />

To Pr<strong>is</strong>on EP non lascia indifferenti: uno di quegli esordi<br />

in grado di attirare l’attenzione all’<strong>is</strong>tante.<br />

(7/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

Submotion orCheStrA - FrAgmentS<br />

(exCeptionAl, diCembre 2012)<br />

Genere: downstep / nu jazz<br />

Finest Hour - l’album di debutto della Submotion Orchestra<br />

- lo scorso anno non è stato incluso nelle yearend<br />

charts più quotate, ma più o meno tutti quelli che<br />

lo hanno ascoltato ne hanno tessuto le lodi.<br />

Nata nel 2009 a Leeds su comm<strong>is</strong>sione della Arts Council,<br />

la band è formata dal batter<strong>is</strong>ta jazz Tommy Evans, dal<br />

percussion<strong>is</strong>ta dal tocco latino Danny Templeman, dal<br />

bass<strong>is</strong>ta Chr<strong>is</strong> Hargreaves, dal tastier<strong>is</strong>ta Taz Modi, dai fiati<br />

di Simon Beddoe e dalla voce di Ruby Wood, laureata<br />

al Leeds College of Music’s con formazione jazz. Dirige<br />

l’orchestra m<strong>is</strong>ter Dom Howard aka Ruckspin, ovvero<br />

metà del progetto chillstep Author. Detta così è facile<br />

pensare alla cocktail music da Buddah Bar.<br />

In un certo senso è così: la Submotion Orchestra parte<br />

dalle diramazioni cool-chic anni ‘90 e le modernizza<br />

con sonorità contemporanee. Nel secondo album Fragments<br />

abbiamo infatti un concentrato di frammenti vellutati<br />

figli dell’acid e del nu jazz, battute lente tra downtempo<br />

(Zero 7) e certe cose trip hop (Morcheeba) e la<br />

profondita dei bassi dubstep. E’ chillstep che non d<strong>is</strong>degna<br />

il drop: provate ad togliere mentalmente tutta la<br />

componente beat e wub-centrica da brani come Fallen,<br />

rimane un pop da lo<strong>cale</strong> jazz, con tutti i pro e i contro<br />

del caso.<br />

It’s Not Me, It’s You è un m<strong>is</strong>to tra trance-voices, SBTRKT e<br />

impianto jazzy di chitarra e tromba, Thousand Yard Stare<br />

è puro dubstep, privo dell’aurea dui Ruby Wood ma arricchito<br />

da fiati sbilenchi, impro pian<strong>is</strong>itici ed archi, mentre<br />

ad ampliare ulteriormente la contaminazione temporale<br />

ci pensa lo spokern-rap di Rider Shafique che sul finale<br />

di Times Strange riporta la mente ad alcune cose di Roni<br />

Size & Reprazent senza ritmiche d&b. Nella conclusiva<br />

Coming Up For Air troviamo infine anche sonorità orchestrali<br />

con crescendo quasi post-rock (vagamente The Cinematic<br />

Orchestra se vogliamo). Il brano simbolo del<br />

set è probabilmente Blind Spot con Roby protagon<strong>is</strong>ta<br />

(ma sempre in bilico tra sublime diva soul e vocal<strong>is</strong>t da X<br />

Factor), basso che cresce sottopelle, giri che aumentano<br />

ed esplosione droppata con l’arrivo della batteria.<br />

Quando tutto torna ed è calibrato nel modo giusto la<br />

Submotion Orchestra riesce a creare un gioco di atmosfere<br />

piuttosto intrigante, il r<strong>is</strong>chio stucchevolezza<br />

però è spesso dietro l’angolo ed è un peccato, soprattutto<br />

considerate le qualità dei singoli e la produzione<br />

di Ruckspin, che speriamo essere più presente in futuro.<br />

(6.5/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

tAylor deupree - FAint (12k, novembre<br />

2012)<br />

Genere: ambient / field recs<br />

Deupree ha dimostrato con Nor<strong>the</strong>rn di saper trattare<br />

le sostanze musicali sottil<strong>is</strong>sime e delicate. E di avere la<br />

competenza per far abitare il “minimal<strong>is</strong>mo digitale” con<br />

la musica concreta. Sono passati sei anni e la pasta della<br />

musica dell’elettroacustico di New York non ricerca molte<br />

differenze: i suoni sono trovati, il retroscena riecheggia<br />

Brian Eno e il ciclo di passaggio da musica da ambienti<br />

/ musica da pensiero / generativa. Faint è “ontologicamente”,<br />

per usare un termine speso dallo stesso autore,<br />

fatto di quella cons<strong>is</strong>tenza dell’incapacità di capire se si<br />

è nella veglia o nel sonno.<br />

Quello stato ha una peculiare sostanza e l’ultimo album<br />

di Taylor ne va in cerca. Sarebbe molto comodo fare<br />

scorrere le metafore, cosiccome Taylor fa scorrere i field<br />

recording sul tappeto pseudo-generativo dell’ambiente<br />

musi<strong>cale</strong>. E dato che il music<strong>is</strong>ta non ne r<strong>is</strong>parmia nella<br />

descrizione testuale del d<strong>is</strong>co, né usando altri supporti:<br />

la versione Deluxe di Faint è un box che comprende<br />

anche un bonus CD contenente la versione estesa (38<br />

minuti) di Thaw - uno dei brani originariamente sviluppantesi<br />

in 11 minuti e mezzo di classica ambientale - ma<br />

soprattutto un set di riproduzioni di 12 foto che Deupree<br />

in persona ha scattato con una macchina fotografica di<br />

plastica.<br />

Anziché cedere alle metafore e agli aggettiv<strong>is</strong>mi, citiamo<br />

una similitudine: chi ha mai fatto un esercizio di campionamento,<br />

magari di quelli scientifici, da archeologo,<br />

strappi da parete o cogliere da terra un pezzo di arbusto<br />

o una ceramica da catalogare e categorizzare, sa ben<strong>is</strong>simo<br />

che la sostanza che ci si trova in mano appare,<br />

un <strong>is</strong>tante dopo averla “rubata”, fragil<strong>is</strong>sima. Come se si<br />

rompesse al solo sguardo. Così l’ambientazione elettronica<br />

che Deupree allest<strong>is</strong>ce per i suoi suoni: è come se<br />

cercassero di contenerne l’indole a scomparire. Come in<br />

una campana di vetro.<br />

(7/10)<br />

gASpAre CAliri<br />

<strong>the</strong> 1975 - Sex ep (vAgrAnt, novembre 2012)<br />

Genere: post r&b o pop-rock<br />

L’attuale scena mancuniana ha b<strong>is</strong>ogno di almeno due<br />

o tre nomi in grado di portare nuovamente Manchester<br />

90 91


tra le grandi capitali della musica. Secondo alcuni uno di<br />

questi potrebbe essere quello dei The 1975, quartetto<br />

guidato da Matt Healy che sembra destinato a generare<br />

un d<strong>is</strong>creto buzz nei prossimi mesi.<br />

Il progetto di realizzare tre EP prima del debutto lungo<br />

atteso per il 2013, ha già dato alla luce gli extended play<br />

Facedown (uscito questo agosto) e il recente Sex. Due<br />

EP sicuramente non ancora abbastanza esplicativi e non<br />

ancora in grado di definire la loro direzione musi<strong>cale</strong>:<br />

in poche parole, in tutta onestà, non ci ho capito nulla.<br />

Sex EP propone ad inizio trackl<strong>is</strong>t Intro/Set 3, un liquido<br />

e sospeso battito elettronico sulle quali si armonizzano<br />

diverse voci e loops a creare qualcosa di non troppo lontano<br />

dal concetto di post-r&b. Undo, la seconda traccia,<br />

sembra confermare una proposta sonora che propende<br />

verso un pop piuttosto slow, filtrato da un comparto di<br />

beats che ruota attorno all’universo nu r&b. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />

nel complesso, convince.<br />

Proprio quando sembra di essere di fronte ad una versione<br />

radiofonica di How To Dress Well, arriva l’uptempo<br />

power-pop Sex e pensi di aver inserito per sbaglio un cd<br />

dei Bloc Party (nell’attacco), un cd dei Jimmy Eat World<br />

(nella strofa) o di qualche pagliaccio “emo”-pop (nel ritornello):<br />

Sex è praticamente l’opposto musi<strong>cale</strong> di Undo,<br />

sotto tutti i punti di v<strong>is</strong>ta (approccio, influenze, strumenti<br />

e vocalità). La conclusiva You invece va a parare su coordinate<br />

pop rock in zona Snow Patrol/Coldplay.<br />

Attualmente in studio con Mike Crossey (Arctic Monkeys,<br />

Foals, Razorlight), a questo punto per i giovan<strong>is</strong>simi The<br />

1975 le strade percorribili sono due: tentare di seguire<br />

la scia della scena alt-r&b o buttarsi completamente sul<br />

pop-rock da classifica. Scopriremo presto quale sceglieranno,<br />

ora come ora siamo al cospetto di una grande<br />

incognita.<br />

(6/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

<strong>the</strong> ex/getAtChew mekuriA - y’AnbeSSAw<br />

tezetA (terp, novembre 2012)<br />

Genere: world<br />

Non ti guadagni il titolo di “negus del sax” a caso. Te lo<br />

guadagni perché hai più di 75 anni e un sacro fuoco che<br />

arde dentro. Che ti porta a scrivere musica nonostante<br />

l’età, nonostante un passato burrascoso, nonostante<br />

il (metaforico) bastone che porti per sostenerti. E per<br />

fare la tua musica, che è un messaggio universale senza<br />

tempo né spazio, riesci perfino ad unirti ad un gruppo<br />

di punk anarchici olandesi, per un clash of <strong>the</strong> titans, per<br />

non dire di culture, storie, mondi, che ha dell’incredibile.<br />

Così come dell’incredibile ha la musica che fuoriesce da<br />

questa ennesima perla di un mondo trasversale, globale<br />

nel senso più puro e genuino del termine, figlio di quel<br />

melting pot culturale che tanto apprezziamo e che invece<br />

spesso se non sempre viene sacrificato sull’altare<br />

del mercimonio.<br />

Jazz etiope, malinconico e corale, furioso a tratti e delicato<br />

sempre più spesso, etnico senza essere popular<br />

e avanguard<strong>is</strong>tico senza perdere in immediatezza,<br />

world nel senso più sano, come se il neolog<strong>is</strong>mo glocal<br />

prendesse finalmente un senso in forma musi<strong>cale</strong>. È un<br />

mondo in apparenza a noi alieno, d<strong>is</strong>tante nello spaziotempo<br />

ma vicino antropologicamente. Un mondo in cui<br />

convivono tracce di “blues etiope”, tezeta e jazz spirituale<br />

della prima ora in forme rielaborate e personali, ma che<br />

siamo in grado di apprezzare e decodificare, poiché ci<br />

dimostra come la musica sia un linguaggio universale<br />

che solo le sovrastrutture ci hanno insegnato a suddividere<br />

e recintare. Noi e loro, occidente e oriente, di là e di<br />

qua diventano ad un tratto, mentre si ascolta e si sfoglia<br />

il corpos<strong>is</strong>simo booklet con foto e interv<strong>is</strong>te, mere speculazioni<br />

prive di senso, specie quando in un folgorante<br />

b/n di Matìas Corral ti ritrovi sul palco quattro anarcopunk<br />

olandesi in posa a gambe aperte e chitarre altezza<br />

ginocchio e il negus lì con loro, fasciato nei vestiti della<br />

sua tradizione e inforcato il sax come fosse una chitarra,<br />

nella più totale normalità.<br />

Gente che non comunica a parole (Getatchew speaks<br />

Amharic and a tiny bit of Engl<strong>is</strong>h and we speak engl<strong>is</strong>h<br />

and dutch and a tiny bit Amharic. Th<strong>is</strong> made work in <strong>the</strong><br />

rehearsal space a interesting challenge, Andy dixit) ma col<br />

linguaggio atavico della musica. Ed è lì che il miracolo<br />

avviene di nuovo, come sempre. Che assuma le forme<br />

della wedding song, del tradizionale folk, del canto guerresco,<br />

della marcia funebre arricchita di tant<strong>is</strong>simi fiati,<br />

dell’incontro tra bianchi e neri poco cambia. La musica<br />

è un messaggio universale, specie se proviene dalla sapiente<br />

saggezza di un vecchio figlio della grande madre<br />

Africa da dove tutto parte.<br />

(7.8/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

<strong>the</strong> herbAliSer - <strong>the</strong>re were Seven<br />

(depArtment h, ottobre 2012)<br />

Genere: hip hop / jazz funk<br />

Torna dopo quattro anni l’hip hop suonato dei londinesi<br />

Herbal<strong>is</strong>er, Jake Wherry e Ollie Teeba. Storicamente accasati<br />

Ninja Tune, dopo il passaggio su !K7 di Same As It<br />

Never Was, pubblicano questo There Were Seven in odore<br />

di celebrazioni sulla personale Department H, settimo<br />

album in studio in diciassette anni di attività e settima<br />

release, la prima maggiore, della label (attiva dal 2000<br />

ma con uscite centellinate).<br />

La m<strong>is</strong>cela è la solita: calchi di colonne sonore black/<br />

Blaxploitation (e tutto il d<strong>is</strong>co è intr<strong>is</strong>o di omaggi e ammicchi<br />

cinematografici, vedere anche solo la penultima<br />

traccia Danny Glover), cremosità downtempo, densi fiati<br />

e robuste sezioni ritmiche jazzfunk. Titoli di testa e di<br />

coda epici che piacerebbero tanto a Tarantino e RZA,<br />

l’ottimo esperimento reggae/dub di Welcome to Extravagance,<br />

le atmosfere da trip hop felino di The Lost Boy, il<br />

basso pulsante e gli scratch di Crimes & M<strong>is</strong>demeanours,<br />

l’afrofunk/noir di Deep in <strong>the</strong> Woods, il tutto elegantemente<br />

e orgogliosamente - le note stampa parlano di<br />

un time-out from <strong>the</strong> tinny, uninspiring, auto-tune-infected<br />

world of today - fuori dal tempo, diciamo anche datato,<br />

ma in senso buono. Ottimi tutti i feat (Hannah Clive, George<br />

<strong>the</strong> Poet, Teenburger, il duo canadese Twin Peaks),<br />

per un d<strong>is</strong>co di genere classico, condotto con equilibrio<br />

e mestiere, ma sorprendentemente fresco e succoso.<br />

(7/10)<br />

gAbriele mArino<br />

<strong>the</strong> neighbourhood - i’m Sorry... ep<br />

(ColumbiA reCordS, novembre 2012)<br />

Genere: pop rock / hip&b<br />

Continuiamo il focus sulla scena indie->mainstream<br />

della costa ovest degli USA. Dopo Imagine Dragons,<br />

Youngblood Hawk e The New Electric Sound è il momento<br />

di parlare dei The Neighbourhood.<br />

Guidati dal pseudo-attore Jesse James Ru<strong>the</strong>rford, i<br />

cinque giovani californiani hanno saputo in breve tempo<br />

catalizzare l’attenzione di un certo tipo di pubblico<br />

ed i favori delle emittenti radio sia al di qua che al di là<br />

dell’oceano.<br />

Ru<strong>the</strong>rford non nasconde la propria passione per l’hip<br />

hop (prima dei The Neigbourhood faceva parte di un<br />

gruppo rap) all’interno dell’EP di debutto I’m Sorry... nel<br />

quale cercano di presentarsi al mondo attraverso cinque<br />

tracce piuttosto esplicative delle peculiarità e delle velleità<br />

della band.<br />

La linea dei The Neigbourhood insegue quelle band in<br />

grado contemporaneamente di proporsi con sonorità<br />

tanto personali quanto astute a livello di music business.<br />

Un po’ come degli Alt-J deturpati della credibilità art<strong>is</strong>tica,<br />

la band ci consegna cinque tracce sospese tra “indie”<br />

pop-rock, calore r&b-soul e cadenze hip hop.<br />

Female Robbery, accompagnata da un video Hitchcockiano,<br />

evidenzia la produzione di Emile Haynie, tanto<br />

che r<strong>is</strong>ulta facile ritrovare suoni (le bells per esempio)<br />

e scelte stil<strong>is</strong>tiche già cucite addosso a Lana Del Rey.<br />

Batteria a scandire il ritmo del chill-rock vagamente late<br />

‘90s di Leaving Tonight e delle battute downtempo della<br />

strofa di una Baby Come Home che fin<strong>is</strong>ce per riversarsi<br />

in un assolo psy-blues di derivazione sixties. Le aperture<br />

al pop sono maggiormente evidenti nella patinat<strong>is</strong>sima<br />

Sweater Wea<strong>the</strong>r (nella strofa il r<strong>is</strong>chio è quello di avvicinarsi<br />

pericolosamente The Script), graziata da suggestioni<br />

acustiche affogate in un mare di “ouh-ouh-ooohh”.<br />

Chiude l’orecchiabile Wires: voce filtrata, ritmica hip hop<br />

da movimento cranico e chorus appicicoso (“If he said<br />

help me kill <strong>the</strong> president, I’d say he needs medicine”).<br />

I’m Sorry... è un biglietto da v<strong>is</strong>ita dal contenuto anche<br />

interessante - probabile che fin<strong>is</strong>cano in qualche l<strong>is</strong>ta<br />

“new acts 2013” - ma tipografato su del materiale da<br />

centro commerciale.<br />

(5.8/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

<strong>the</strong> ruSt And <strong>the</strong> Fury - mAy <strong>the</strong> Sun hit<br />

your eyeS (lA FAme diSChi, Settembre 2012)<br />

Genere: GaraGe/roots rock<br />

Eccoli i The Rust And The Fury, formazione umbra con<br />

alle spalle quasi dieci anni di attività ma con un esordio,<br />

appunto May The Sun Hit Your Eyes, uscito solo a settembre<br />

scorso per La Fame D<strong>is</strong>chi/Cura Domestica. Un percorso<br />

inconsueto quello dei cinque ragazzi di Perugia,<br />

caratterizzato da diversi cambi di formazione e dalla<br />

volontà di staccarsi dal repertorio originario, virando<br />

dec<strong>is</strong>amente verso i territori più schietti del rock.<br />

Siamo infatti dalle parti di un d<strong>is</strong>co che si rifà tanto al<br />

blues elettrico di Neil Young (e al suo nutrito esercito<br />

di eredi/epigoni) quanto al revival<strong>is</strong>mo garage-wave<br />

di inizio secolo. Gli otto brani della trackl<strong>is</strong>t si reggono<br />

su una volontà cantautorale consapevolmente tenuta<br />

sottopelle e immersa nell’adrenalinica tensione delle<br />

chitarre: quello che succede nell’iniziale Roundabouts,<br />

buona melodia ben amalgamata all’incedere noir del<br />

pezzo, o nella successiva Franc<strong>is</strong> With God, con il suo refrain<br />

catchy (Arcade Fire?) intrecciato alle voci di Daniele<br />

Rotella e Francesca L<strong>is</strong>etto. Voce femminile protagon<strong>is</strong>ta<br />

anche in Laughing For Nothing, con il suo synth-wave in<br />

aria psych in cui il controcanto fra le due chitarre tesse il<br />

crescendo finale del pezzo. C’è anche spazio per accenti<br />

maggiormente sou<strong>the</strong>rn come in Keep On e She Was<br />

Too Late, con un intim<strong>is</strong>mo (espressamente debitore al<br />

sopracitato Young) che rimanda al classic rock dei Band<br />

Of Horses.<br />

May The Sun Hit Your Eyes è un album che vive di stratificazioni<br />

sonore, variazioni dark e riverberi accuratamente<br />

elettrificati che si rivelano ascolto dopo ascolto. Un<br />

esordio nel complesso piuttosto maturo che, pur non<br />

presentando niente che non sia stato già v<strong>is</strong>to e sentito,<br />

r<strong>is</strong>ulta comunque godibile. (6.7/10)<br />

giuliA Antelli<br />

92 93


three SeCond kiSS - tAStyville<br />

(AFriCAntApe, novembre 2012)<br />

Genere: mathrock<br />

Si potrebbe riaprire l’infinito casus belli della “morte del<br />

(math)rock” parlando dell’album numero cinque (e mezzo)<br />

del trio italiano. Riproposizione di uno standard ormai<br />

storicizzato o necessità di sorprendenti svolte a gomito?<br />

Nessuna delle due ed entrambe, perché nel caso<br />

dei bolognesi Three Second K<strong>is</strong>s la classe non è mai stata<br />

acqua e i tempi geologici che Sergio Carlini, Massimo<br />

Mosca e Sasha Tilotta mettono tra una uscita e l’altra -<br />

ne sono già passati quattro di anni da Long D<strong>is</strong>tance, per<br />

dire - stanno a significare riflessione e approfondimento,<br />

lavoro incessante sulla propria materia musi<strong>cale</strong> e continuità.<br />

E così se per incensare l’album precedente ne<br />

parlavamo come dei nuovi Shellac, non per paragonare<br />

i tre al trio americano, quanto per dimostrarne coerenza<br />

e spessore, ora ci ritroviamo nel mezzo del guado.<br />

I TSK sono quelli che conoscevamo: nervosi, ma<strong>the</strong>matici,<br />

accesi dal sacro fuoco dell’irrequietezza e della spigolosità,<br />

ma questa volta sono anche altro. Più ragionati, a<br />

volte melodici, si direbbe, di sicuro meno irruenti e affilati,<br />

specie nelle timbriche delle chitarre di Carlini (che<br />

c’entri l’esordio in solo con Jowjo?). Sempre alla ricerca<br />

di una quadratura ormai nota tra pancia e cervello, tensione<br />

e rilascio, ma che stavolta tende verso lande più<br />

evocative e meno dirette. Arzigogoli e melodie che si<br />

rifrangono e ricompongono appoggiati su una sezione<br />

ritmica mai come ora all’un<strong>is</strong>ono, con connaturate tracce<br />

di un qualcosa di sognante e romantico.<br />

L’opener Caterpillar Tracks Haircut con quell’organo che<br />

più datato e fuori fase non si può, mette già sull’avv<strong>is</strong>o:<br />

gli intarsi chitarr<strong>is</strong>tici e l’indolenza vo<strong>cale</strong> di The Sky Is<br />

Mine a far da presagio al crescendo tempestoso della<br />

parte centrale o le tessiture a incastro dei migliori June<br />

Of 44 rese sotto la lente dell’indolenza, prima, e della<br />

cavalcata tempestosa, poi (A Catastrophe Outside), la<br />

sad-mathy-song In Winter, The Sun Shines Over The Bridge,<br />

sono alcuni esempi di un lavoro prezioso e elaborat<strong>is</strong>simo.<br />

Che sceglie la via della ricerca e mai si adagia sul<br />

già fatto ma allunga lo sguardo verso nuove modalità.<br />

La “convocazione” per l’ATP festival di fine mese non è<br />

che l’ennesima dimostrazione di una stima guadagnata<br />

senza sbandierare nulla, a parte la propria classe.<br />

(7.3/10)<br />

SteFAno piFFeri<br />

throbbing griStle/x-tg - deSertShore - <strong>the</strong><br />

FinAl report (induStriAl reCordS ltd.,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: industrial<br />

È doloroso tornare sulla vicenda Throbbing Gr<strong>is</strong>tle, innanzitutto<br />

perché è la storia della band ad essere caratterizzata<br />

da profonde lacerazioni sia umane che musicali.<br />

Nei TG, vita, morte e musica sono sempre stati un<br />

tutt’uno, così come le scelte dei componenti della band,<br />

sempre urgenti, estreme, massacranti. L’intera vicenda<br />

della formazione britannica si può così riassumere in un<br />

grande taglio sulla tela. Una storia di final report, m<strong>is</strong>sioni<br />

di anime morte, scelte radicali dalle quali non si può<br />

tornare indietro. E nondimeno la vicenda di quattro persone<br />

umanamente e art<strong>is</strong>ticamente mosse da altrettanto<br />

vital<strong>is</strong>tiche scelte di res<strong>is</strong>tenza e des<strong>is</strong>tenza.L’abbandono<br />

di Genes<strong>is</strong> P. Orridge durante la final leg del tour del<br />

2010 - d<strong>is</strong>trutto da tre anni di lutto per morte di Lady<br />

Jaye - che chiuse definitivamente il capitolo reunion<br />

della band, è stata una mossa in tal senso. È servita<br />

per salvaguardare il progetto dal peggio, tanto quanto<br />

quella di Chr<strong>is</strong> Carter, Peter “Sleazy” Chr<strong>is</strong>topherson e<br />

Cosey Fanni Tutti di tenere in vita il cadavere. Dopo l’annullamento<br />

della gig di Praga e la conferma al Festival<br />

Gender Bender di Bologna, la nuova formazione si battezzava<br />

quell’anno X-TG, lo stesso nome sotto il quale<br />

esce questo doppio album inizialmente - ed erroneamente<br />

- accreditato alla sigla Throbbing Gr<strong>is</strong>tle. Quella<br />

sera, all’Arena del Sole, c’eravamo, e abbiamo ass<strong>is</strong>tito a<br />

un concerto con Carter e Fanni Tutti ai 4/4 e droni, e con<br />

un Chr<strong>is</strong>topherson attrezzato di <strong>the</strong>remin, voci filtrate e<br />

altri strumenti a fiato autocostruiti. Uno show musicalmente<br />

vario e d’esperienza, con rigurgiti di D.O.A., già a<br />

suo tempo “bollettino finale”, eppur privo degli strappi<br />

e delle lacerazioni psycho-horror-thrilling che le gig a<br />

quattro erano in grado di garantire con lancinante - e<br />

quasi masoch<strong>is</strong>tica - prec<strong>is</strong>ione (zenit puntualmente<br />

raggiunto durante la trasm<strong>is</strong>sione dei vecchi filmati del<br />

COUM Transm<strong>is</strong>sion).L’affresco della data bolognese era<br />

stata una sintesi delle recenti evoluzioni dell’industrial<br />

originaria con le varie correnti art-techno, <strong>is</strong>olazion<strong>is</strong>te,<br />

elettroacustiche, no<strong>is</strong>e, drone ottimamente metabolizzate,<br />

ma anche un bel film senza reali presupposti. Lo<br />

stesso lungometraggio a cui ass<strong>is</strong>tiamo oggi nel commiato<br />

The Final Report, inc<strong>is</strong>o tra il 2009 e il 2010 negli<br />

studi di Norfolk, e nell’omaggio al Desertshore di Nico,<br />

diverso per formato (canzone), approccio (industrialtechno-pop-rock)<br />

e ospiti al canto (Antony di Antony<br />

and <strong>the</strong> Johnsons, Marc Almond, Blixa Bargeld degli<br />

Einstürzende Neubauten, l’attrice Sasha Grey e il reg<strong>is</strong>ta<br />

Gaspar Noé) ma pressoché identico nei r<strong>is</strong>ultati<br />

art<strong>is</strong>tici.Come i Battles di Gloss Drop, ovvero la band<br />

al netto del sol<strong>is</strong>ta ad apparecchiare le scenografie e i<br />

cantanti/guest star ad interpetare se stessi, gli X-Tg del<br />

cover album allest<strong>is</strong>cono un all star set industriale per il<br />

pubblico industriale di ieri e di oggi. L’idea del lavoro era<br />

nata dal solo Chr<strong>is</strong>topherson nel 2006 a Berlino e doveva<br />

trovare attuazione nel dicembre di quel fatidico anno<br />

con le musiche che Chr<strong>is</strong> & Cosey preparono alla fine del<br />

tour. Morto Sleazy, la coppia ha concluso il lavoro chiamando<br />

gli amici di una vita a omaggiarlo. A conti fatti,<br />

il lavoro non sfugge ai limiti delle operazioni di questo<br />

tipo. La performance di Bargeld r<strong>is</strong>ulta la più intensa e<br />

car<strong>is</strong>matica (Abschied, Mutterlein), Marc Almond è bolso<br />

(The Falconer), Antony, al solito, bravo, ma nessuno di<br />

loro ha cantato Nico come se non ci fosse un domani.<br />

Gen lo avrebbe fatto.<br />

(6.8/10)<br />

edoArdo briddA<br />

tre Allegri rAgAzzi morti - nel giArdino<br />

dei FAntASmi (lA tempeStA diSChi, diCembre<br />

2012)<br />

Genere: dub-etnico<br />

Ci era piaciuto e non poco, I primitivi del futuro, soprattutto<br />

perché sanciva la svolta reggae-dub del gruppo<br />

di Pordenone - a suo modo storica, se pensiamo alla<br />

produzione precedente - pur mantenendo integro il<br />

DNA originale della band. Diversi eppure sempre riconoscibili,<br />

i TARM, come ben sottolineava anche un Enrico<br />

Molteni interv<strong>is</strong>tato in quei giorni: «È come cambiare abbigliamento<br />

a una persona. La persona è sempre la stessa,<br />

anche se con colori e taglie nuove. I Tre allegri ragazzi<br />

morti rimangono (anti)eroi nemici delle convenzioni anche<br />

quando suonano in levare». Quel d<strong>is</strong>co sparigliava le carte<br />

in maniera consapevole, affiancando ritmiche giamaicane<br />

e bassi corposi a uno stile essenziale ma sufficientemente<br />

elastico da poter accogliere senza cr<strong>is</strong>i di rigetto<br />

i nuovi input.<br />

Nel giardino dei fantasmi, nonostante quanto si dice<br />

in giro, non è l’ennesima inversione di marcia della formazione.<br />

L’etnico di cui si parla nei comunicati stampa<br />

o nelle anticipazioni web è meno di una rivoluzione, al<br />

massimo un aggiustare il tiro che arricch<strong>is</strong>ce di nuove<br />

sfumature un suono già fatto e finito (nel d<strong>is</strong>co precedente).<br />

Quel che accade, ad esempio, in una Come mi<br />

guardi tu fondamentalmente dub nelle atmosfere - seppur<br />

con una ritmica peculiare - ma attorcigliata a un riff<br />

ripetuto di mandolino. Se di etnico si deve parlare, allora,<br />

lo si deve fare chiamando in causa più un’attitudine generalizzata,<br />

che uno stravolgimento estetico palpabile:<br />

quella, si, presente e rintracciabile nella scansione dei<br />

tempi legata al sound africano, in strutture musicali circolari<br />

e soprattutto in testi basati su un call and response<br />

di stampo quasi blues-tribale (la già citata Come mi<br />

guardi tu, Alle anime perse, Bene che sia, E poi si canta, Il<br />

nuovo ordine).<br />

Semplicità concettuale da un lato, produzione efficac<strong>is</strong>sima<br />

- quella del Paolo Baldini già in regia per I primitivi<br />

del futuro - dall’altro: queste le due direttive principali<br />

lungo cui ci si muove. Per un lavoro che, oltretutto,<br />

mette in mostra più TARM “tradizionali” r<strong>is</strong>petto al d<strong>is</strong>co<br />

precedente, seppur aggiornandoli al nuovo corso: l’adolescenza<br />

d<strong>is</strong>sotterrata a suon di chitarre elettriche ne I<br />

cacciatori, una Bugiardo che monta un punk sui gener<strong>is</strong><br />

su basi ritmiche d<strong>is</strong>pari, il rock un po’ Violent Femmes/<br />

Zen Circus de La via di casa, il sound vagamente beatlesiano<br />

di Di che cosa parla veramente una canzone?.<br />

Innegabilmente pop, al cento per cento TARM, apparentemente<br />

meno ideologico e schierato r<strong>is</strong>petto al precedente,<br />

Nel giardino dei fantasmi è un d<strong>is</strong>co solido, ben<br />

suonato e che cresce con gli ascolti, pur non rappresentando,<br />

nell’ottica della storia del gruppo, un passaggio<br />

epo<strong>cale</strong>.<br />

(6.9/10)<br />

FAbrizio zAmpighi<br />

two FingerS - Stunt rhythmS (big dAdA<br />

reCordingS, ottobre 2012)<br />

Genere: bass-hop<br />

Amon Tobin si rimette a fare le cose da solo nel secondo<br />

d<strong>is</strong>co Two Fingers, abbandonando il compagno di<br />

ventura Joe Chapman aka Doubleclick, che collaborava<br />

al progetto nelle sue prime fasi, r<strong>is</strong>alenti al 2006 e sfociate<br />

nell’omonimo e interessante esordio del 2009. L’act<br />

dovrebbe mostrare il Tobin che punta alle sonorità declinate<br />

nel più ampio spettro UK Bass, il “lato continuum”<br />

della proposta più seria e di ricerca che il music<strong>is</strong>ta professa<br />

con il vero nome.<br />

Se fosse per la prima metà del d<strong>is</strong>co (per lo meno fino<br />

a Razorback) si potrebbe anche pensare di avere per le<br />

mani un d<strong>is</strong>co importante: Stripe Rhythm è slow motion<br />

fidget per i Chemical, Snap una teoria decostruzion<strong>is</strong>ta<br />

del vocoder<strong>is</strong>mo hip-hop, Defender Rhythm viaggia in eccellenza<br />

sulle acidità di Kid 606 e Bok Bok, Fools Rhythm<br />

è puro an<strong>the</strong>m post-hop (il pezzo era già stato inserito<br />

nella compila celebrativa del ventennale della Ninja Tune),<br />

Lock86 e Sweden sono Amon in smascellamento ‘90, 101<br />

South mesh-hop con anima e stile.<br />

Poi purtroppo Tobin cede al rimpianto e si mette a r<strong>is</strong>uonare<br />

le cose di vent’anni fa - quando ancora girava con il<br />

moniker di Cujo. Un trip-hop sì curato, ma che richiama<br />

un’epoca ormai storicizzata (vedi alla voce Mantronix e J<br />

94 95


Dilla). L’hip-hop strumentale va anche bene ma quando<br />

si vuole strafare e scimmiottare i Beastie Boys (Problem)<br />

od il Mochipet più massiccio e meno breakcore si cade<br />

quasi nel ridicolo.<br />

(6.2/10)<br />

mArCo brAggion<br />

tyvek - on triple beAmS (in <strong>the</strong> red<br />

reCordS, ottobre 2012)<br />

Genere: GaraGe punk<br />

Si è già detto in queste pagine come i Tyvek, nel giro di<br />

pochi anni, abbiano mostrato due anime d<strong>is</strong>tinte: una<br />

weird e abrasiva r<strong>is</strong>alente agli esordi (Tyvek e Fast Metabol<strong>is</strong>m),<br />

con singoli fluttuanti tra punk post punk shitgaze<br />

e garage, un’altra più noiosa come punkers prec<strong>is</strong>ini,<br />

tutti an<strong>the</strong>m e zero fuochi d’artificio (Nothing fits). A<br />

questo punto On triple Beam, terzo d<strong>is</strong>co, ancora su In<br />

The Red, ne è la prova del nove.<br />

Non essendo cuori impavidi, i quattro se ne escono con<br />

la mossa del pot-pourri: prendono un po’ di questo un<br />

po’ di quello speziando con qualcosa di nuovo, ovvero<br />

un’ambientazione ossessiva e reiterante. Le chitarre<br />

spigolano sempre gli stessi giri e per una volta sferragliano<br />

senza esagerare con brutture shit/lo-fi, mentre le<br />

ritmiche marciano asf<strong>is</strong>sianti a conferma di una tensione<br />

sempre presente e temperata. Pezzo chiave: l’ingranaggio<br />

a ciclo continuo Efficency con echi no wave. E poi<br />

guardare indietro è sinonimo di varietà. A momenti torna<br />

una scrittura originale (Little Richard e il suo riuscito<br />

gioco pieno/vuoto), nervosa, sgangherata, con un paio<br />

di immancabili standard punk (al grido di don’t say/don’t<br />

say/don’t say no/just say yeah/yeah yeah yeah) e garage<br />

ricamati a dovere.<br />

Nuovo punto di partenza, On triple Beams non fa gridare<br />

al miracolo. Si riorganizzano le idee prima di decidere<br />

cosa fare da grandi. Per fortuna, le fondamenta reggono.<br />

(6.9/10)<br />

SteFAno gAz<br />

underdog - keep CAlm (AltipiAni,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: art jazz<br />

Ci hanno messo tre anni a dare un seguito all’esordio<br />

Keine Psicho<strong>the</strong>rapie, segno che questo settetto basato<br />

a Roma è di quelli che prefer<strong>is</strong>cono fare le cose per<br />

bene, malgrado l’estro tracotante e l’attitudine impro<br />

che sprizza dai pori del loro sound. Nel quale in effetti<br />

non manchi mai d’avvertire la competizione tra il cerebrale<br />

e l’animalesco, tra sfuriata e sfumatura. Anche in<br />

questo Keep Calm - pubblicato in joint venture da Altipiani<br />

e MArte Label - si parte da un’impostazione jazz, di<br />

quello più selvatico ed aperto a qualsivoglia digressione<br />

(come insegna la loro guida spirituale Charles Mingus,<br />

alla cui biografia si sono <strong>is</strong>pirati per la ragione sociale),<br />

in particolare blues <strong>is</strong>pido da crogiolo Bad Seeds, l’impudenza<br />

crossover dei Primus e il vaudeville desolato<br />

d’un Tom Waits. Non fin<strong>is</strong>ce qui però la l<strong>is</strong>ta degli ingredienti<br />

e delle suggestioni, talvolta così stranianti che un<br />

po’ hai timore di citarli, tipo certo lir<strong>is</strong>mo astruso Jefferson<br />

Airplane tra le scorie psych e i fremiti noir di Lundi<br />

Massacre o il rapimento Nico che mette in standby la<br />

nevrastenia post-bop di Revolution Is Subject To Delay.<br />

Aspettatevi quindi un po’ di tutto, in primo luogo una<br />

bravura quasi irritante sugli strumenti (di certo una spanna<br />

sopra la media del tipico indie rocker) tra le pataf<strong>is</strong>iche<br />

circensi di Empty Stomach, i velluti mitteleuropei di<br />

Soul Coffee, l’incubo rumba di Macaronar. Gli strumenti,<br />

a proposito, sono: trombone, piano, chitarre, violino,<br />

basso, batteria, più le voci opposte e complementari di<br />

Diego e Barbara. Da segnalare inoltre una cover schizoide<br />

(tra understatement e <strong>is</strong>teria) di Cuore Matto, curiosa<br />

ma non imprescindibile, mentre invece è notevole la rilettura<br />

di Berlin, come un balocco atavico smontato nei<br />

suoi elementi basali senza perdere il polso di una tenera,<br />

decadente malinconia (stupendo il crescendo band<strong>is</strong>tico<br />

conclusivo).<br />

Bel sophomore quindi, al quale possiamo rimproverare<br />

solo un pizzico di spirito goliardico di troppo, frutto forse<br />

dell’attitudine alla performance, sensat<strong>is</strong>sima sul palco,<br />

un po’ meno su d<strong>is</strong>co.<br />

(7/10)<br />

SteFAno Solventi<br />

unSolved problemS oF noiSe - l ‘ombrA<br />

delle FormiChe (SnowdoniA, novembre<br />

2012)<br />

Genere: jazzcore / metal<br />

Quando eravamo giovani ci siamo letteralmente ammazzati<br />

di tutto quello che veniva dal post-hardcore,<br />

e quindi tutto l’albero di band di Lou<strong>is</strong>ville figlio degli<br />

Squirrel Bait (Slint, Bastro, Bitch Magnet, For Carnation)<br />

e non (Rodan, June Of 44), Don Caballero (e Storm &<br />

Stress), Blind Idiot God, Dazzling Killmen e Laddio Bolocko,<br />

i Rapeman/Big Black/Shellac di Steve Albini, Fugazi,<br />

NoMeansNo, Jesus Lizard, il jazzcore (Saccharine<br />

Trust, Sabot, la scena italiana con Zu, Demodè/Squartet,<br />

gli Splatterpink/Testadeporcu di Diego D’Agata), ma anche<br />

gli Uzeda, i Primus, e su indietro fino a The Process Of<br />

Weeding Out dei Black Flag o a quello che insieme a poco<br />

altro con pari efficacia profetica ci sembrava il big bang<br />

della d<strong>is</strong>integrazione della forma rock/blues classica in<br />

senso appunto post-rock (almeno di tutto quel post-rock<br />

non elettronicofilo), ovvero il Beefheart strumentale (per<br />

esempio quello semplicemente sorprendente delle outtake<br />

di Safe As Milk).<br />

Bene. Tutto questo per dire che abbiamo le orecchie vaccinate<br />

ed è proprio cosa rara ormai che no<strong>is</strong>e, jazzcore,<br />

math, post o tantomeno metal tecnico, matematico e<br />

progressivo - abbiamo in testa gli A<strong>the</strong><strong>is</strong>t, ma anche<br />

Dillinger Escape Plan, Commit Suicide e via dicendo tra<br />

mathcore e brutal - riescano a sorprenderci o almeno<br />

avvincerci davvero. E qui arrivano i tre genovesi David<br />

Avanzini, Matteo Orlandi e Mattia Prando, gli Unsolved<br />

Problems of No<strong>is</strong>e (dal nome di un congresso di matematica<br />

applicata ai problemi del rumore), chitarra-batteria-basso<br />

ma anche saxtenore-batteria-basso. Sono nati<br />

nel 2005 ma debuttano adesso su Snowdonia in coproduzione<br />

con TeslaD<strong>is</strong>chi. Loro dicono di fare post-atomic<br />

instrumental no<strong>is</strong>e e in effetti dietro l’artwork entomologico<br />

e geologico come in un mix tra Il Silenzio degli Innocenti<br />

e i Ruins di Tatsuya Yoshida (aggiungere prego alla<br />

l<strong>is</strong>ta) troviamo qualcosa del genere, ovvero una m<strong>is</strong>cela<br />

di molto di quanto sopra elencato.<br />

Le filiazioni, i riferimenti o almeno i parallel<strong>is</strong>mi sono tutti<br />

in bella mostra (Formicazione Parte 1 sembra un pezzo<br />

degli Shellac; la Parte 2, dopo una intro death/prog/freejazz-metal,<br />

coi suoi stomp secchi ricorda gli Zu di Tom<br />

Araya Is Our Elv<strong>is</strong>; riferimento questo obbligato anche per<br />

la successiva Le Pecore Elettriche Sognano gli Androidi?; e<br />

così via), chiaro, ma i ragazzi li conducono e mescolano<br />

ottimamente, con un dec<strong>is</strong>o tocco psichedelico e una<br />

dose di emotività epica che deriva sicuramente da certi<br />

ascolti metal. Non solo assalti hardcore quindi, tra intro<br />

arpeggiate, controtempi, tempi d<strong>is</strong>pari, riff meccanici,<br />

rullat<strong>is</strong>sime a doppiare eccetera che dominano la prima<br />

metà del d<strong>is</strong>co, ma anche la ambience cinematografica,<br />

quasi camer<strong>is</strong>tica, di Una Formica Da Marciapiede; il fumoso<br />

jazzblues, quasi morphineano, di L’ultimo Grido in<br />

fatto di Silenzio; l’epico/tragico arpeggio di Dromofobia<br />

Parte 1, che ci ha ricordato tanto - ma proprio tanto - la<br />

Tragic del supertrio Bozzio Levin Stevens; le sognanti<br />

sv<strong>is</strong>ate di chitarra di Il Diavolo A4; la bell<strong>is</strong>sima avvincente<br />

jam di fusion psichedelica All Jazz Hera, con sfoghi di<br />

jazzcore circense alla Bromio sul finale. Bravi: 7+.<br />

L ‘ombra delle Formiche by Unsolved Problems of No<strong>is</strong>e<br />

(7.3/10)<br />

gAbriele mArino<br />

vlAdiSlAv delAy - kuopio (rASter noton de,<br />

novembre 2012)<br />

Genere: ambient-tech<br />

Il d<strong>is</strong>corso in solitaria di pure electronic iniziato con Vantaa<br />

continua con Kuopio via Espoo, eppì di transizione tra<br />

la prima e la seconda prova sull’etichetta di Alva Noto. E<br />

Sasu Ripatti su Raster Noton non l’abbiamo mai sentito<br />

così avvincente, sia perché questo lavoro rappresenta un<br />

autorevole punto di continuità all’interno delle fila concrete-conceptual-techno<br />

della label, sia per la capacità<br />

del finnico di rinnovare il proprio repertorio partendo<br />

dall’assorbimento/superamento dei canoni architettonici<br />

dell’etichetta stessa.<br />

Attraverso le lenti della natia Finlandia e dal solito avamposto<br />

fuori dal mondo di Hailuoto, Sasu si sposta su<br />

un’anal<strong>is</strong>i urban<strong>is</strong>tico sonica osservando Kuopio - una<br />

paradigmatica città finlandese - da un punto di v<strong>is</strong>ta organizzativo<br />

e di interazione con l’ambiente circostante.<br />

Abbiamo così un lavoro che, pur tenendoli ovattati, aumenta<br />

l’intensità nei ritmi e, in continuità con l’approccio<br />

organico del recente corso, presta ancor più attenzione<br />

all’addensamento/dipanamento dei layer sonici.<br />

Sulla spinta subliminare degli stepping della New Wave<br />

Of Techno e della pulsante battuta Footwork troviamo<br />

gli ep<strong>is</strong>odi migliori, tutti caratterizzati da serrati loop<br />

ritmici: Marsila porta Alva Noto a Ibiza, Hitto serializza<br />

gli an<strong>the</strong>m-tamburello di Plastikman, Osottava, traccia<br />

manifesto del d<strong>is</strong>co, svecchia efficacemente alcuni standard<br />

del Dalay sound. Le trasfigurazioni tech-<strong>house</strong> in<br />

salsa artica di Avanne rappresentano senz’altro la parte<br />

più prevedibile. Del resto, già le rienterpretazioni dinamiche<br />

dell’esperienza del trio di Von Oswald (Kellute)<br />

godono degli scarti necessari per tenere ben alta l’attenzione<br />

come, in generale, le potenzialità e la libertà data<br />

dall’utilizzo dei microfoni a contatto confer<strong>is</strong>ce all’opera<br />

un bilanciamento ottimale tra la severa v<strong>is</strong>ione sonica e<br />

l’impro sul 4/4 e oltre.<br />

R<strong>is</strong>petto alle possibilità e alle problematiche dei lavori<br />

collettivi del finnico (Vainio personalità troppo forte per<br />

il Quartet?), la nuova fase di Vlad<strong>is</strong>lav Delay restitu<strong>is</strong>ce<br />

un music<strong>is</strong>ta fieramente finnico, coerente e perciò libero,<br />

preparato. Un adulto che ha trovato una propria ecologia<br />

elettronica. Un habitat noto dove non accade mai<br />

quello che veramente ti aspetti che accada.<br />

(7.2/10)<br />

edoArdo briddA<br />

wolF + lAmb - verSuS (wolF + lAmb muSiC,<br />

ottobre 2012)<br />

Genere: electro funk<br />

Wolf + Lamb, il duo di Brooklyn mecenate assoluto del<br />

rinascimento <strong>house</strong> anni 2006/2007 e forte dell’esperienza<br />

del Marcy Hotel (come for <strong>the</strong> music stay for <strong>the</strong><br />

life), torna a d<strong>is</strong>tanza di due anni dal debut album Love<br />

Someone - accolto con favore da pubblico e critica - e<br />

ad uno da un’ ottima prova su Dj Kicks. In mezzo, live<br />

96 97


di alta scuola che hanno toccato un paio di volte anche<br />

l’Italia (la Wolf+Lamb night in chiusura al roBOt festival<br />

5 di Bologna) e last but not least pregiate produzioni al<br />

banco mixer per la label che porta lo stesso nome di cui<br />

Soul Clap, sorpresa del 2012, Deniz Kurtel di cui ha prodotto<br />

l’ultimo album e, più indietro negli anni, Nicolas<br />

Jaar (Mi mujer l’hanno prodotta loro)<br />

Riunendo in otto tracce amici e componenti della label<br />

newyorchese (Pillow talk, Soul Clap e Voices of Black)<br />

Versus Lp diventa vero un statuto del love movement<br />

promulgato dal duo, una corrente di pensiero nata al<br />

tempo della produzione del sopraccitato lavoro della<br />

Kurtel e di cui dicono “<strong>is</strong> <strong>the</strong> evolution of our family, not<br />

only affiliated by name, but constantly working with<br />

each o<strong>the</strong>r to grow, produce new sounds and evolve<br />

toge<strong>the</strong>r” .<br />

L’album riprende e costru<strong>is</strong>ce uno sguardo su pop, soul<br />

e jazz in continuità con le basi <strong>house</strong> del primo d<strong>is</strong>co.<br />

E quel che ne esce è un suono corposo e conviviale, di<br />

un’eleganza scintillante (ma non fatta di lustrini) che si<br />

tiene ben lontana dal glamour rosa e patinato della 5th<br />

avenue. I ritmi compassati e spezzettati consentono d’inserire<br />

più divert<strong>is</strong>sement arricchendo il sound di calde<br />

provocazioni, un humus che attraversa l’album partendo<br />

dalla traccia d’apertura con l’auto-tune (Kanye West dia<br />

un’ascoltatina) e una bassline sospesa tra Prince e Kruder<br />

& Dorfme<strong>is</strong>ter (Real Life), ai profumi del Bronx e allo<br />

spoken so eighties di Weekend Affair.<br />

Molte idee sono figlie dell’hip hop pre 2k che ricordano<br />

il funk di George Clinton smussato d’angoli e ovvietà.<br />

Le stesse che fecero da testimone alla nascita del g-funk<br />

di Dr. Dre e di tutto il suono rap West Coast. Inoltre, le<br />

suggestioni depechemodiane di World Turning, sempre<br />

in continuità con il primo album, raccolgono quanto Gahan<br />

e soci hanno elaborando fino ad oggi ed, infine, il<br />

tocco deep dai sapori Little Luie Vega e Master At Work,<br />

tra il latino e il balearico, lo ritroviamo in In The Morning.<br />

Il club riposa mentre il Marcy Hotel, l’Hotel vero e proprio<br />

gestito dalla coppia, è protagon<strong>is</strong>ta, avvolto, magari, dal<br />

jazz della closing track Close To You che l’ultimo Miles Dav<strong>is</strong>,<br />

avrebbe adorato. Wolf+lamb decantano ogni forma<br />

di eleganza in musica, guardando a un pubblico sempre<br />

più maturo. Lo stesso target che ritroviamo nell’ultimo<br />

Temporary Happiness di Mock & Toof, coppia con la<br />

quale Zev e Gadi avevano collaborato in Love Someone.<br />

It’s A Famly Thing.<br />

(7.2/10)<br />

mirko CArerA<br />

young wonder - young wonder ep (Feel<br />

good loSt, novembre 2012)<br />

Genere: future pop<br />

Giochiamo ad indovina chi. Primo indizio: “duo ragazzaragazzo<br />

in zona future-pop con un Ring di mezzo”. Ok, so<br />

già a chi state pensando, ma il secondo indizio vi spiazzerà:<br />

“non sono canadesi”. La r<strong>is</strong>posta infatti non è Purity<br />

Ring ma Young Wonder, progetto con base a Cork in<br />

Irlanda, r<strong>is</strong>ultato dell’unione tra il beat maker Ian Ring e<br />

la vocal<strong>is</strong>t Rachel Koeman.<br />

L’omonimo EP di debutto, uscito ormai da qualche mese<br />

per la Feel Good Lost Records (che cura anche i numerosi<br />

videoclip), ha l’obiettivo primario di presentare al mondo<br />

il microcosmo sonoro dei due irlandesi e contemporaneamente<br />

di farli emergere tra una folta selva di art<strong>is</strong>ti<br />

sotto alcuni aspetti abbastanza simili. L’apertura è affidata<br />

completamente a Ian Ring che confeziona un crescendo<br />

di due minuti e quaranta (A Live Mystery) prima<br />

di lasciare spazio alla voce di Rachel (come timbro siamo<br />

su coordinate nordiche via Fever Rey/Niki & The Dove/<br />

Karin Park), protagon<strong>is</strong>ta in Orange.<br />

In Flesh riescono nell’impresa di utilizzare a loro volta<br />

un sample dei masters of samples The Avalanches (il<br />

classicone Since I Left You) costruendoci attorno un contesto<br />

piuttosto interessante. Sono invece beats e bassi<br />

più corposi a sorreggere la strofa, dec<strong>is</strong>amente melodica,<br />

di Tumbling Backwards e le atmosfere piuttosto spettrali<br />

di Pulse che portano a pensare che la vera mente degli<br />

Young Wonder sia Ian, abile nell’impastare pitch-shifted<br />

vocals, tratti glo-fi e intuizioni glitch-hop sotto il segno<br />

delle quattro S (Slow Magic, Sun Glitters, Stumbleine<br />

e Shlohmo). Chiudono l’EP tre remix di Orange, Flesh e<br />

Tumbling Backwards a cura r<strong>is</strong>pettivamente del sopracitato<br />

Sun Glitters, Sertone e Daìthi.<br />

Recentemente in Italia per il Club To Club, i poco più<br />

che ventenni Young Wonder hanno già pubblicato in<br />

rete due nuovi brani che dovrebbero anticipare l’uscita<br />

di nuovo materiale: Lucky One (qui aleggia lo spettro di<br />

James Blake) e To You, caratterizzato da aperture pop<br />

non indifferenti.<br />

(6.7/10)<br />

riCCArdo zAgAgliA<br />

sentireascoltare.com<br />

98 99


Gimme Some<br />

Inches #32<br />

Mp3, cassette, vinili a 10 e 12 pollici, split, cd-r...anche questo mese<br />

non ci facciamo mancare nessuno dei formati “minori”. Con Morose,<br />

HTRK, Holy Hole, Sonic Jesus, D<strong>is</strong>po and so on<br />

Partiamo dall’impalpabile, questo<br />

mese, per passare via via in rassegna<br />

una serie di uscite in formati come<br />

cassette e 12” considerati “minori”<br />

ma non per questo meno intriganti.<br />

Affidano alla volatilità dell’mp3 il<br />

loro esordio gli Holy Hole, duo italico<br />

di cervelli in fuga verso Berlino.<br />

Chitarre e loop montanti per una<br />

drone music virata al nero che ha i<br />

suoi buoni momenti ritual<strong>is</strong>tici (Excerpt<br />

#3) ed evocativi, senza perdere<br />

di v<strong>is</strong>ta la materialità del suono alla<br />

maniera di un BJ Nielsen. Dote mai<br />

abbastanza apprezzata.<br />

Salendo sul versante delle cassette,<br />

incontriamo una vecchia conoscenza.<br />

Nicola Giunta, prima con<br />

summerTales, poi in solo, è ormai<br />

presenza f<strong>is</strong>sa qui da noi. Ora è il<br />

turno di The Lay Llamas, ennesima<br />

incarnazione in cui il siciliano mette<br />

la crescente dimestichezza sonora<br />

al servizio di una sensibilità psichedelica<br />

che si mostra sempre più ipnotica<br />

(African Spacecraft 2092 AD)<br />

e “altra” (il tribal<strong>is</strong>mo droning di Rite<br />

Of Passage). Il tasso di weird<strong>is</strong>mo è<br />

assicurato anche dal concept alla<br />

base del tutto, ossia le avventure<br />

della tribù nigeriana dei Lay Llamas<br />

che nel 2092 si avventura a bordo di<br />

una astronave su un pianeta lontano<br />

e in cui raggiungono la purificazione<br />

e l’innalzamento dello stato di<br />

coscienza una volta incontrato un<br />

totem chiamato Grande Serpente.<br />

Una narrazione in 4 momenti cruciali<br />

per altrettante tracce di un trip<br />

sonico da psych sci-fi.<br />

Sempre per la Jozik, in una manciata<br />

di ottime tapes appena sfornate,<br />

ritroviamo Olli Aarni, il finlandese<br />

che aveva condiv<strong>is</strong>o una split-tape<br />

proprio coi summerTales. Non differ<strong>is</strong>ce<br />

di molto il contenuto di Pohjo<strong>is</strong>en<br />

Kesä: due lunghe estatiche<br />

tracce di ambient rilassante tra suoni<br />

trovati, rielaborazione di nastri e<br />

frequenze radio che non può non<br />

far tornare in mente le lande innevate<br />

e silenziose della terra d’origine.<br />

Salendo ancora di gerarchia dei<br />

mezzi di riproduzione,tocca ora ai<br />

vinili. Partiamo dal 10” d’esordio<br />

dei Sonic Jesus, quartetto laziale<br />

totalmente devoto alla psichedelia<br />

citar<strong>is</strong>tica della perfida Albione. Se<br />

prendi <strong>is</strong>pirazione da Sonic Boom<br />

e dalla Jesus dei Velvet hai segnato<br />

bene i paletti entro cui ti muovi. Se<br />

poi lo fai col giusto grado di reiteratezza<br />

ipnotica (It’s Time To Hear),<br />

weirdness (Monkey On My Back) e<br />

malattia mentale (Underground) e<br />

ci metti pure la firma di Nonni Dead<br />

dei Dead Skeletons (responsabile<br />

dell’ottimo artwork) allora dimostri<br />

di avere le idee ben chiare. E, cosa<br />

non altrettanto scontata, di saperle<br />

mettere perfettamente su pentagramma.<br />

Dec<strong>is</strong>amente ottimi.<br />

Saliamo poi ai 12” del vinile con l’ultima<br />

uscita targata Brigad<strong>is</strong>co con<br />

protagon<strong>is</strong>ti i romani D<strong>is</strong>po e gli<br />

(italo)inglesi Barberos. Split nato da<br />

circostanze da live condiv<strong>is</strong>o, ossia<br />

quando affiatamento e lunghezza<br />

d’onda sono simili ecco che i frutti<br />

fin<strong>is</strong>cono su preziosi d<strong>is</strong>chetti. Da un<br />

lato, i romani con la loro ormai ben<br />

nota follia math&no<strong>is</strong>e tra cambi di<br />

tempi, elaborazioni ritmiche, strappi<br />

muscolari e ritmi spezzati, sempre<br />

conditi da autoironia e sprezzo del<br />

pericolo. Della serie, un frullatore di<br />

cui non ci si annoia.R<strong>is</strong>pondono a<br />

tono i Barberos, forti di doppia batteria<br />

e synth creano grovigli avantelectro-no<strong>is</strong>e<br />

(Buffalo Biffle) spesso<br />

dilatati oltrem<strong>is</strong>ura (In The Mouth<br />

Of The Madness) in ipnotici deliri<br />

space-ipno-horror.<br />

Scendendo verso atmosfere scure,<br />

segnaliamo un altro split a 12”<br />

uscito per Ghostly con protagon<strong>is</strong>ti<br />

HTRK e Tropic Of Cancer. Il 12” racchiude<br />

6 tracce figlie delle Part Time<br />

Punks Radio Sessions, una specie<br />

di Peel Sessions losangeline virate<br />

dark. Luogo della mente dove le<br />

due formazioni si ritrovano a pieno<br />

agio, condividendo immaginario e<br />

sonorità: più sognanti ed elettronici<br />

i primi, completamente ripres<strong>is</strong>i dalla<br />

tragedia di un paio di anni fa che<br />

sembrava interromperne la carriera.<br />

Più inchiodati ad una forma postpunk<strong>is</strong>h<br />

dreamy e quasi shoegaze<br />

i secondi, in realtà progetto ormai<br />

solitario di Camella Lobo. Tutte o<br />

quasi trace già pubblicate sui r<strong>is</strong>pettivi<br />

album, ma la menzione d’onore<br />

va all’inedito More Alone dei TOC:<br />

beat sintetici e nuvole di sognanti<br />

riverberi, come un arcobaleno neropece<br />

dentro a una caverna.<br />

Cambiando dec<strong>is</strong>amente atmosfera,<br />

giusta segnalazione se la merita<br />

anche Backslash, nuovo progetto<br />

in <strong>the</strong> vein of M16 per Alessandro<br />

Bocci già Starfuckers/Sin<strong>is</strong>tri. Due<br />

lunghe tracce d<strong>is</strong>tanti dall’incomprom<strong>is</strong>soria<br />

formula di M16 e più dj<br />

friendly grazie ad una impostazione<br />

classicamente detroitiana. Musica<br />

che induce alla trance grazie alla<br />

reiterazione delle frasi sonore (Cold<br />

Fusion Technology), al ricorso a stilemi<br />

techno dub e all’introduzione<br />

di ritmiche esotiche di matrice afrotech<br />

(The End Of The Weekenders).<br />

Non esattamente la mia cup of tea,<br />

ma gli amanti avranno di che essere<br />

felici.<br />

Concludiamo arrivando al cd e inab<strong>is</strong>sandoci<br />

su dimensioni più intim<strong>is</strong>te,<br />

tiriamo in ballo il volume 4 della<br />

serie Cinque Pezzi Facili edita dalla<br />

Under My Bed. Dell’Amore E Dei Suoi<br />

Fallimenti è il titolo indicativo delle<br />

atmosfere che i Morose rilasciano<br />

sul “lato A” di questo cd-r, rievocando<br />

quelle dell’ottimo La Vedova<br />

D’Un Uomo Vivo: struggenti, malinconiche,<br />

notturne, di una bellezza<br />

conturbante e insieme d<strong>is</strong>turbante.<br />

Roba che prende al cuore e lo stringe<br />

forte fino a farlo sanguinare.<br />

Non ce n’è di simili in Italia, almeno<br />

oggigiorno. E purtroppo, non si sa<br />

nemmeno troppo in giro.<br />

Dall’altro, il quartetto parmigiano<br />

Campofame d<strong>is</strong>piega un armamentario<br />

meno diretto in Deleted<br />

Scenes, ma pur sempre evocativo.<br />

Composizioni in punta di plettro ed<br />

elettronica non invasiva, senza necessità<br />

di parole per d<strong>is</strong>egnare paesaggi<br />

astratti e sinestetici, e ipotizzare<br />

geografie dell’animo. Promossi,<br />

ovviamente.<br />

SteFAno piFFeri<br />

100 101


BoB Life &<br />

times<br />

<strong>mould</strong><br />

Mentre la sua autobiografia ci<br />

restitu<strong>is</strong>ce l’immagine di un<br />

personaggio complesso, l’album<br />

Silver Age lo riporta agli anni ‘90.<br />

Il nuovo (e il vecchio) Bob Mould.<br />

LA rABBiA, LA meLodiA<br />

«Da bambino la musica era la mia via di fuga, il mio mondo<br />

di fantasia. Appena ho capito il suo valore e il suo significato,<br />

ho cominciato a comporre». Parole - e musica,<br />

naturalmente - sono di Bob Mould, dalla prefazione alla<br />

sua autobiografia See A Little Light - The Trail of Rage and<br />

Melody, scritta con la collaborazione di Michael Azerrad.<br />

È sicuramente “la versione di Bob”, nel senso che restitu<strong>is</strong>ce<br />

il suo punto di v<strong>is</strong>ta anche su fatti controversi come<br />

la fine della sua storica prima band, ma aiuta a capire<br />

meglio il music<strong>is</strong>ta insieme all’uomo, tra i suoi slanci e le<br />

sue contraddizioni. Preparatevi a una lettura torrenziale<br />

(non è ancora uscito in versione italiana): prima ancora<br />

che di trentacinque anni di carriera, il libro traccia un<br />

bilancio di cinquant’anni di vita.<br />

Spesso, però, proprio i ricordi personali e il racconto privato<br />

sugger<strong>is</strong>cono nuove prospettive da cui inquadrare<br />

le sue vicende art<strong>is</strong>tiche. Bob racconta di avere scritto i<br />

testi di Zen Arcade nel furgone regalatogli dal padre, la<br />

persona che più lo ha influenzato in negativo e che pure<br />

ha assecondato più di altre la sua passione per la musica.<br />

La presenza di questo padre autoritario e frustrato sembra<br />

rivelare molto della parabola creativa e umana di<br />

uno dei più intensi songwriter degli ultimi trent’anni di<br />

rock. Th<strong>is</strong> Is Not Your Parents World è la frase che compare<br />

al termine del video di If I Can’t Change Your Mind degli<br />

Sugar. Il clip, più della canzone in sé, aveva il valore di un<br />

metaforico coming out, un paio d’anni prima che Mould<br />

Testo: Tommaso Iannini<br />

rivelasse dettagli della sua vita privata in un’interv<strong>is</strong>ta a<br />

Denn<strong>is</strong> Cooper. La stessa frase può riassumere lo spirito<br />

del movimento hardcore, di cui gli Hüsker Dü hanno<br />

fatto parte, ma anche il senso sempiterno della contestazione<br />

giovanile. Il trio di Minneapol<strong>is</strong> ha gettato un<br />

ponte tra lo spirito degli anni ‘60 per chiudere con il post<br />

hardcore il cerchio aperto del ‘77 e preparare il terreno<br />

per il rock alternativo degli anni ‘90. Bob Mould ha creato<br />

un nuovo modello di punk rock, proponendo una<br />

rivoluzione che iniziava da casa, di fronte allo specchio<br />

del bagno. Punto di partenza, le emozioni. E la musica:<br />

un rapido flusso dai toni lirici, epici e l<strong>is</strong>ergici, dagli accenti<br />

aspri e toccanti, capace di raffiche rabbiose come<br />

di estatici deliri. Alla base, il concetto di catarsi, su cui si<br />

sofferma a un certo punto del libro. Con quel muro di<br />

rumore chitarr<strong>is</strong>tico era la valvola di sfogo della rabbia<br />

e dell’angoscia di chi viveva dentro di sé una lacerazione<br />

profonda e con il wall of sound non cercava solo un<br />

metodo per scrivere grande musica pop. Cercava il suo<br />

nirvana acustico. Lo ha trovato, più ancora che per se,<br />

per i tanti che in quei solchi ci hanno lasciato le vibrazioni<br />

della loro anima.<br />

Broken home, Broken heArt<br />

Robert Mould nasce a Malone, nello stato di New York, il<br />

16 ottobre 1960, ultimo di quattro fratelli, il più grande<br />

dei quali muore di cancro pochi giorni dopo che lui è<br />

venuto al mondo. La Broken Home della quale parlerà<br />

102 103


in una canzone era probabilmente casa sua. Nel suo libro<br />

Bob non è tenero con il padre, ne ricorda gli eccessi<br />

quando beveva ma soprattutto il clima di terrore psicologico<br />

che aveva creato in famiglia. Le cose non vanno<br />

molto meglio neppure dopo che i suoi genitori rilevano<br />

un piccolo negozio. Nonostante tutto, i familiari assecondano<br />

il suo interesse per la musica fin da quando<br />

è un bambino. La nonna cura a domicilio una persona<br />

d<strong>is</strong>abile e lo porta spesso con sé, lasciandogli suonare<br />

il pianoforte a casa della persona che ass<strong>is</strong>te. Il padre<br />

compra per pochi centesimi da un d<strong>is</strong>tributore i 45 giri<br />

usati di un juke-box, facendogli scoprire Who, Beatles e<br />

Beach Boys. Il r<strong>is</strong>ultato è che il piccolo Bob a nove anni<br />

compone le sue prime canzoni su una tastiera giocattolo<br />

e le incide con tanto di overdubs, usando due reg<strong>is</strong>tratori<br />

a <strong>bob</strong>ine.<br />

Negli anni della prima adolescenza, che per lui significano<br />

la scoperta della sessualità e della sua “diversità”,<br />

Bob è più preso dallo sport che dalla musica. In seguito<br />

si lascia conqu<strong>is</strong>tare dall’hard rock di K<strong>is</strong>s, Aerosmith e<br />

Ted Nugent. Forma anche una band e torna a scrivere<br />

canzoni, poco più che fotocopie di successi heavy metal.<br />

Niente di paragonabile alla “folgorazione” per i 45<br />

giri degli anni ‘60 che hanno segnato la sua infanzia.<br />

Nella vita succede, tuttavia, che cercando qualcosa, si<br />

raggiunga qualcos’altro. Attirato dalle cover story dei<br />

propri idoli, sulle pagine di una riv<strong>is</strong>ta il nostro scopre<br />

i fermenti sotterranei del rock americano degli anni ‘70:<br />

la scena punk di New York, l’underground di Cleveland<br />

e i Suicide Commandos, un gruppo di Saint Paul, la città<br />

gemella di Minneapol<strong>is</strong> («un altro posto in cui si gelava a<br />

200 miglia da Malone»), che avrà una forte influenza non<br />

solo sul suo modo di scrivere, ma anche sulla dec<strong>is</strong>ione<br />

di trasferirsi nel Minnesota.<br />

E poi la vera “epifania”, i Ramones, «la prima gang di cui<br />

volevo fare parte». Nel giorno del sedicesimo compleanno,<br />

Bob si fa accompagnare dal padre nel negozio di<br />

d<strong>is</strong>chi di una città vicina e torna con il loro primo album.<br />

Appena s<strong>is</strong>tema il vinile sul piatto e appoggia la puntina,<br />

si accorge di avere in mano qualcosa di diverso, di controcorrente,<br />

di unico. Primitivo, nel bianco e nero della<br />

copertina, Ramones è mixato con la chitarra su un canale,<br />

il basso sull’altro e la batteria e la voce nel mezzo, come<br />

gli adorati singoli degli anni ‘60. Le canzoni sono brevi,<br />

veloci, intense. Lo conqu<strong>is</strong>tano le figure semplici ma suonate<br />

con veemenza della chitarra di Johnny Ramone, il<br />

suo stile elementare, aggressivo e pieno di energia, le<br />

sequenze di accordi scandite con le pennate in giù invece<br />

che con le classiche alternate, un altro tassello del salutare<br />

shock di questa seconda iniziazione musi<strong>cale</strong>. Poi<br />

sarà il turno del punk inglese e dei New York Dolls, sorta<br />

di anello mancante tra i K<strong>is</strong>s e i Ramones. Bob sceglie la<br />

Flying V della Ibanez come prima chitarra in omaggio a<br />

Sylvain Sylvain. Altrettanto dec<strong>is</strong>ive in prospettiva, saranno<br />

due formazioni del Midwest, i Cheap Trick e i già citati<br />

Suicide Commandos, con la loro combinazione di punk,<br />

hard rock e guitar pop anni ‘60. «Ero cresciuto ascoltando<br />

tutte quelle cose e mi riconoscevo nel loro sound».<br />

Per un ragazzo punk e gay una città di provincia come<br />

Malone è soltanto un luogo da cui fuggire al più presto.<br />

Bob va a studiare al Ma<strong>cale</strong>ster di Saint Paul, un college<br />

progress<strong>is</strong>ta che ha una retta sostenibile dalla famiglia.<br />

Nel 1978, in un negozio di d<strong>is</strong>chi di Minneapol<strong>is</strong> fa<br />

amicizia con il commesso, di un anno più giovane di lui.<br />

Iniziano a parlare di musica, poi il d<strong>is</strong>corso cade sulla marijuana,<br />

e Grant Hart - così si chiama il ragazzo - chiude il<br />

negozio per andare a fumare insieme al suo nuovo amico.<br />

La seconda volta che tirerà giù le serrande sarà per<br />

sentirlo suonare la chitarra. Grant conosce un bass<strong>is</strong>ta<br />

appassionato di jazz, anche lui commesso in un negozio<br />

di d<strong>is</strong>chi. Con Greg Norton prende forma il nucleo degli<br />

Hüsker Dü che rimarrà immutato fino allo scioglimento,<br />

quasi dieci anni dopo.<br />

uLtrAcore<br />

Se la prima sala prove è lo scantinato del Nor<strong>the</strong>rn Lights<br />

(sempre un negozio di d<strong>is</strong>chi), la prima <strong>is</strong>pirazione è ovviamente<br />

il punk rock americano: dai Ramones all’avantgarage<br />

dei Pere Ubu fino ai Germs (fondamentali nel<br />

passaggio dal punk all’hardcore), ma emerge anche un<br />

lato più dark e sin<strong>is</strong>tro, <strong>is</strong>pirato dai Joy Div<strong>is</strong>ion e dal<br />

post-punk inglese. Gli Hüsker Dü dovevano tra l’altro<br />

aprire uno dei concerti americani del gruppo di Manchester<br />

- show che non ci sono mai stati perché Ian Curt<strong>is</strong> si<br />

ucc<strong>is</strong>e alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti. Dopo<br />

aver cercato invano di essere ingaggiati dalla Twin/Tone,<br />

la più importante etichetta di Minneapol<strong>is</strong> - e, incidentalmente,<br />

dove si sono accasati gli amici/rivali Replacements<br />

- pubblicano il singolo per la loro etichetta Reflex,<br />

che non avrà vita molto lunga ma contribuirà non poco<br />

ai fasti della scena lo<strong>cale</strong> (sotto la sua ala protettrice usciranno<br />

i primi d<strong>is</strong>chi dei Soul Asylum). La lunga Statues,<br />

lato A del 45 giri (il retro è Amusement, un altro brano<br />

lungo e d<strong>is</strong>solto), deve tutto ai Public Image Ltd.; la voce<br />

salmodia delirando come quella di John Lydon e la chitarra<br />

clona lo stile di Keith Levene.<br />

Da questo primo bozzolo post-punk il gruppo (a proposito<br />

il nome Hüsker Dü in danese significa “Ti ricordi” ed<br />

era il nome di un popolare gioco da tavolo) si trasforma<br />

nella cr<strong>is</strong>alide hardcore. Nel 1981 il terzetto suona due<br />

concerti a Chicago e qui conosce Greg Ginn, che rimane<br />

conqu<strong>is</strong>tato dalla loro performance, nonostante Mould<br />

fosse completamente fatto di speed e a un certo punto<br />

del concerto avessero imbrattato il palco di vernice<br />

blu. Per molti aspetti gli Hüsker Dü sono sulla stessa<br />

lunghezza d’onda dei Black Flag e dei Minutemen: li<br />

accomunano l’etica del lavoro, l’attitudine do it yourself e<br />

lo stakanov<strong>is</strong>mo da palco. Un po’ per la necessità di<br />

concentrare più canzoni possibili nei brevi set a d<strong>is</strong>posizione,<br />

un po’ per inclinazione naturale, il trio esaspera<br />

l’approccio hardcore accentuandolo fino al paross<strong>is</strong>mo.<br />

Una canzone dell’epoca ha un titolo eloquente, quasi<br />

una dichiarazione di intenti: Ultracore. Il brano fa parte<br />

dell’album di debutto Land Speed Record, un grezzo live<br />

pubblicato agli inizi del 1982 dalla New Alliance, etichetta<br />

di proprietà dei Minutemen. Diciassette brani in vent<strong>is</strong>ei<br />

minuti, per un punk frenetico al limite del rumore<br />

bianco. Per certi versi, una sorta di rockblues tirat<strong>is</strong>simo,<br />

talmente esasperato da diventare una sorta di astrazione<br />

psichedelica, favorita da un’inc<strong>is</strong>ione economica e<br />

dec<strong>is</strong>amente lo-fi. Reg<strong>is</strong>trato in presa diretta, è la fedele<br />

riproposizione del loro set dal vivo; senza un attimo di<br />

tregua - non c’è praticamente soluzione di continuità da<br />

un brano all’altro - la band cerca i nervi scoperti degli<br />

spettatori spingendo al limite f<strong>is</strong>ico la propria veemenza<br />

sonora, ammantata di un’eco l<strong>is</strong>ergica.<br />

Inarrestabili nel loro hardcore veloce, gli Hüsker Dü iniziano<br />

a infonderlo di una struttura dec<strong>is</strong>amente più melodica<br />

nel singolo In A Free Land. Non è un caso se Everything<br />

Falls Apart, prodotto dalla Reflex nel 1982, ha un<br />

respiro più ampio del predecessore, non soltanto perché<br />

è reg<strong>is</strong>trato in studio e ha una resa sonora migliore (per<br />

quanto si tratta pur sempre di brani autoprodotti, inc<strong>is</strong>i<br />

in una sola take o comunque in maniera diretta e veloce).<br />

Parte del repertorio è un intreccio di anfetamine,<br />

nichil<strong>is</strong>mo e ambizione, ma in questo sound claustrofobico<br />

si fanno spazio una piccola “eresia” come la cover<br />

di Sunshine Superman di Donovan e la title-track, che<br />

tra una melodia in stile bubblegum-punk e i rintocchi<br />

psichedelici del ritornello preannuncia sostanziali novità<br />

in arrivo.<br />

Reg<strong>is</strong>trato alla fine del 1982, il mini album Metal Circus<br />

(1983) contiene sette brani in diciannove minuti<br />

scarsi ma f<strong>is</strong>sa una tappa fondamentale nell’evoluzione<br />

della band. La durata media di fatto raddoppia r<strong>is</strong>petto<br />

a Land Speed Record, e i brani hanno il tempo di svilupparsi<br />

in trame di più ampio respiro, senza stemperare<br />

però l’energia e i volumi da tregenda a cui suona la band.<br />

Si tratta a tutti gli effetti di un avvicinamento, certo non<br />

solo temporale, a quello che i più considerano il loro<br />

capolavoro. Deadly Skies e On A Limb mostrano tutte le<br />

r<strong>is</strong>pettive assonanze con Black Flag e Flipper e Out On A<br />

Line è una tirata hardcore. Tuttavia gli altri quattro bra-<br />

104 105


ni, due di Bob Mould e due di Grant Hart, d<strong>is</strong>piegano il<br />

ventaglio di possibilità che può offrire la loro scrittura<br />

una volta maturata. Real World di Mould inaugura un<br />

turning point nella poetica del terzetto e di una fetta non<br />

indifferente del post-punk americano. Se emo non fosse<br />

diventata una parolaccia di questi tempi, cercheremo qui<br />

le radici di un’attitudine lirica nuova; Bob esprime con<br />

chiarezza il rifiuto della retorica hardcore e la volontà di<br />

toccare temi più profondi, intimi e personali. C’è voglia<br />

di sporcarsi le mani con il mondo reale dei sentimenti.<br />

La musica segue di pari passo; al di là del canto a squarciagola,<br />

la chitarra cerca nuove armonie in un’esecuzione<br />

dal timing serrato. Ai power chords, tipici del rock duro,<br />

che costruivano l’ossatura dei brani del primo periodo,<br />

Mould affianca ora volentieri accordi aperti, di cui sfrutta<br />

le corde vuote per creare bordoni, secondo una tecnica<br />

cara al folk e alla psichedelia. «Il suono di chitarra degli<br />

Hüskers nasceva per buona parte dal fatto che cercassi<br />

di suonare due parti di chitarra in un colpo solo - tenendo<br />

una nota, usando i bordoni e sviluppando sequenze<br />

di accordi su quella singola nota - il tutto combinato<br />

con la “scatoletta gialla” il pedale MXR D<strong>is</strong>tortion» e un<br />

harmonizer collegato al banco del mixer per creare un<br />

suono saturo con la densità di un gas più che del metallo<br />

pesante, un wall of sound quasi spectoriano ottenuto<br />

con una sola chitarra. Da parte sua, Grant Hart è molto<br />

più versatile r<strong>is</strong>petto ai batter<strong>is</strong>ti hardcore che si limitavano<br />

a tenere il solito tempo in stile polka. Ascoltando<br />

bene si può notare, per esempio, il lavoro sui piatti, dai<br />

rintocchi a un lungo sciabordio, parallelo ai drones della<br />

chitarra di Mould. Con il basso di Norton a fungere da<br />

essenziale collante, e a ritagliarsi qualche momento da<br />

protagon<strong>is</strong>ta, gli Hüsker Dü rappresentano un power trio<br />

essenziale quanto dinamico. First Of The Last Calls annuncia<br />

con enfasi che la direzione musi<strong>cale</strong> del gruppo sarà<br />

più orientata alla melodia. È comunque di Hart la firma<br />

sul numero più melodico, It’s Not Funny Anymore, memore<br />

del pop d<strong>is</strong>sonante dei M<strong>is</strong>sion Of Burma (quegli<br />

armonici..), e sul vero pezzo forte del mini LP: Diane, una<br />

murder ballad <strong>is</strong>pirata da un ep<strong>is</strong>odio di cronaca nera e<br />

cadenzata da un giro di basso che ricorda i Joy Div<strong>is</strong>ion.<br />

Splendida la progressione del pezzo, tra il controcanto<br />

sul ritornello e un arrangiamento di chitarra da pelle<br />

d’oca: sembra di sentire un anticipo di Big Black via PIL<br />

e Throbbing Gr<strong>is</strong>tle (una grande passione di Mould),<br />

negli accordi acuti simili a lamine di metallo che scivo-<br />

lano uno sull’altro, soprattutto nel ritornello e nell’assolo.<br />

Metal Circus esce per i tipi della SST, affidato alle cure<br />

del produttore di casa, Spot.<br />

chArtered trips<br />

La collaborazione con l’etichetta californiana segna uno<br />

dei momenti più alti di tutto l’indie rock. A cavallo della<br />

metà degli anni ‘80, infatti, il terzetto del Minnesota vive<br />

una fase di notevole <strong>is</strong>pirazione, segnata da rapidi cambiamenti<br />

e da una produttività ai limiti dell’inaudito. Il<br />

centro della loro attività rimangono i concerti, dove la<br />

band si lancia in show nervosi ed esaltanti, senza soluzione<br />

di continuità tra un pezzo e l’altro, come nei loro<br />

primi live. Le s<strong>cale</strong>tte comprendono abitualmente brani<br />

inediti su d<strong>is</strong>co: mentre sono in tour per promuovere<br />

un album, gli Hüskers suonano già le canzoni del 33 giri<br />

successivo, mesi prima di inciderlo. In questo modo, i<br />

pezzi sono già rodati per la reg<strong>is</strong>trazione in tempi rapidi<br />

e con poca spesa che è la norma delle produzioni SST.<br />

La prima dimostrazione di questo stato di grazia sono i<br />

ventiquattro brani di Zen Arcade (1984) reg<strong>is</strong>trati in una<br />

settimana e mixati in 48 ore. L’uscita del doppio album<br />

sarà poi posticipata di qualche mese per permettere la<br />

pubblicazione in contemporanea con Double Nickels<br />

On The Dime dei Minutemen. Tenendo conto che nello<br />

stesso periodo usciva Meat Puppets II, il 1984 è un anno<br />

cruciale per la SST e per tutto il rock indipendente americano.<br />

Questi tre lavori costitu<strong>is</strong>cono uno spartiacque storico<br />

e stil<strong>is</strong>tico dec<strong>is</strong>ivo, alla luce di quello che succederà<br />

tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. La mossa<br />

di un doppio LP non è solo coraggiosa dal punto di v<strong>is</strong>ta<br />

estetico, ma anche economico, considerando i mezzi limitati<br />

con cui operavano le etichette indipendenti.<br />

L’antipasto di Zen Arcade è un singolo che sul lato B presenta<br />

una versione di Masoch<strong>is</strong>m World mentre sul lato A<br />

c’è una vera chicca: uno dei nomi di punta dell’hardcore<br />

a stelle e str<strong>is</strong>ce interpreta a modo suo il brano simbolo<br />

dell’era psichedelica, Eight Miles High dei Byrds. Quello<br />

che poteva sembrare un controsenso appena pochi<br />

mesi prima è una sorta di passaggio di consegne generazionale<br />

che apre l’hardcore e il rock del dopo punk a<br />

nuove contaminazioni. Non si può parlare di revival o di<br />

neopsichedelia ma di un cambio di passo sotto il profilo<br />

musi<strong>cale</strong>. Gli Hüsker Dü non imitano i Byrds; interpretano<br />

lo spirito di quel brano alla luce del loro stile. I 45 giri<br />

degli anni ‘60 sono stati il primo amore di Bob e sono<br />

anche la guida della sua rivoluzione musi<strong>cale</strong>.<br />

Se Zen Arcade ha rappresentato per l’hardcore quello<br />

che London Calling è stato per il punk, il suo riferimento<br />

ideale è piuttosto un White Album meets Tommy (o Quadrophenia).<br />

L’idea del concept è nata probabilmente in<br />

un secondo tempo, fatto sta che gli Hüsker Dü allargano<br />

il quadro abbastanza da farci entrare una storia. I<br />

contorni non sono molto chiari, l’idea è forse quella di<br />

«un ragazzo lascia la sua famiglia devastata e va a cercar<br />

fortuna nella Silicon Valley dove crea un videogioco<br />

intitolato Search», oppure semplicemente il racconto di<br />

un’iniziazione alla vita indipendente.<br />

L’hardcore es<strong>is</strong>tenziale del gruppo ha acqu<strong>is</strong>tato una propria<br />

identità e una coesione formale che gli permette di<br />

essere riconoscibile al primo ascolto. L’iniziale Something<br />

I Learned Today parte con il ritmo incalzante di basso e<br />

batteria e prende quota con il vespaio sollevato dalla chitarra<br />

di Mould. In Broken Home, Broken Heart e Chartered<br />

Trips il tempo veloce ma più sincopato di Hart e gli interventi<br />

melodici di Norton d<strong>is</strong>egnano una trama di più<br />

ampio respiro che la chitarra satura completa con bordoni<br />

d<strong>is</strong>torti e fills armonici aprendo nuove dimensioni<br />

alla musicalità del gruppo, restando sempre nel campo<br />

di un punk rock veloce. Il paross<strong>is</strong>mo hardcore tocca<br />

vertici di frenesia unici in Beyond The Treshold, Pride, I’ll<br />

Never Forget You con sciabolate ai limiti dell’heavy metal.<br />

The Biggest Lie, Somewhere, Pink Turns To Blue (Hart)<br />

e Newest Industry con un suono più soft anticipano il<br />

pop core sviluppato nei d<strong>is</strong>chi successivi. Lo spettro si<br />

allarga in maniera quasi vertiginosa se si considerano<br />

i nastri al contrario e il maelstrom psichedelico di Hare<br />

Kr<strong>is</strong>hna, Dreams Reoccurring e Reoccurring Dreams, il folk<br />

acustico di Never Talking To You Again (Hart), il boogie<br />

di What’s Going On (Hart), la ballata elettrica Standing By<br />

The Sea (Hart) e interludi pian<strong>is</strong>tici creati apposta come<br />

passaggi tra diverse tonalità. Stil<strong>is</strong>ticamente è una delle<br />

opere più mature e complesse del punk, cui infonde<br />

un lir<strong>is</strong>mo di rara intensità oltre ad allargarne l’orizzonte<br />

compositivo.<br />

L’hardcore es<strong>is</strong>tenzial<strong>is</strong>ta degli Hüsker Dü è arrivato a<br />

una dimensione quasi trascendentale, che ha forzato<br />

nettamente i confini del genere. New Day R<strong>is</strong>ing (1985)<br />

è un d<strong>is</strong>co abbastanza diverso da Zen Arcade. I testi affrontano<br />

temi più adulti: «Prima prendevo le frasi dai<br />

quaderni, le radunavo insieme, le compattavo, ci sputavo<br />

sopra e le tiravo in faccia agli ascoltatori come se fossero<br />

palle di neve. Erano esplosioni di confusione, parlavano<br />

soltanto di problemi e non offrivano mai delle r<strong>is</strong>poste.<br />

Le nuove canzoni avevano tutto un altro immaginario,<br />

parlavano del tempo, della natura transitoria delle emozioni<br />

e del trascorrere delle stagioni». Bob lo defin<strong>is</strong>ce il<br />

suo drinking album, mentre per Zen Arcade aveva carburato<br />

a caffè e metedrina. Anche dal punto di v<strong>is</strong>ta musi<strong>cale</strong>,<br />

l’evoluzione è costante. Se la produzione di questo<br />

d<strong>is</strong>co (di Spot) è stata spesso criticata, non c’è dubbio<br />

che New Day R<strong>is</strong>ing contenga alcuni dei migliori brani<br />

106 107


degli Hüsker Dü. Perle assolute di Mould sono Celebrated<br />

Summer e I Apologize. La prima un<strong>is</strong>ce il folk rock<br />

cr<strong>is</strong>tallino in stile Sixties con la d<strong>is</strong>perazione ultrasonica<br />

dell’hardcore (stessa cosa fa anche Folklore): Mould ha<br />

iniziato a scrivere canzoni sulla dodici corde acustica, a<br />

usare di più gli arpeggi e le variazioni di intensità sonora,<br />

e mette a frutto quello che imparato in uno dei suoi<br />

classici. A cavallo tra garage rock e neomod settantasettino<br />

in stile Jam, I Apologize è una delle sue melodie<br />

più ricche di pathos e dimostra come il nostro sappia<br />

caricare di ipertoni psichedelici anche il più semplice<br />

di giro di accordi. Questo genere di canzoni melodiche<br />

e veloci, suonate con un muro di d<strong>is</strong>torsioni e sterzate<br />

dinamiche, è una conqu<strong>is</strong>ta fondamentale alla luce del<br />

successivo alternative rock: un tipo di scrittura analoga,<br />

per fare un nome, a quella di J Masc<strong>is</strong>, che quell’anno<br />

debutta con i Dinosaur Jr. L’accoppiata rumor<strong>is</strong>mo/melodia<br />

stabil<strong>is</strong>ce una delle grandi linee guida dell’indie<br />

rock. Il power pop punk acido degli Hüsker Dü è l’altra<br />

faccia della medaglia che oltreoceano propone Psychocandy<br />

dei Jesus And Mary Chain. Il d<strong>is</strong>corso su New Day<br />

R<strong>is</strong>ing non si esaur<strong>is</strong>ce qui. Dei brani scritti da Grant Hart,<br />

è d’obbligo citare The Girl Who Leaves On Heaven Hill e il<br />

divert<strong>is</strong>sement di Books About UFOs. La tavolozza di stili<br />

si allarga anche al jazz e all’honky tonk, dimostrando una<br />

libertà creativa quasi sorprendente.<br />

<strong>the</strong>se importAnt yeArs<br />

Nessuno parla ancora di alternative, un termine che<br />

diventerà d’uso comune soltanto negli anni ‘90, per<br />

indicare il new rock nel periodo post Nevermind, ma<br />

l’ascendente esercitato dal complesso di Minneapol<strong>is</strong><br />

sulla m<strong>is</strong>cela di stili rock del passato, riletti alla luce di<br />

quanto è successo dopo il punk, è innegabile. Saranno<br />

poi le major a sdoganare un suono nato nell’ambito delle<br />

etichette indipendenti e portarlo alle masse. Appunto,<br />

le major. Anche da questo punto di v<strong>is</strong>ta, gli Hüsker<br />

Dü sono stati un po’ pionieri e un po’ profeti. Flip Your<br />

Wig (1985) sarà l’ultimo d<strong>is</strong>co pubblicato per la SST. Karen<br />

Berg, una d<strong>is</strong>cografica della Warner Bro<strong>the</strong>rs che in<br />

passato aveva lavorato anche per Joni Mitchell e i Telev<strong>is</strong>ion,<br />

vola a Minneapol<strong>is</strong> per convincere la band a firmare.<br />

Nonostante i problemi con l’etichetta di Greg Ginn, gli<br />

Hüsker Dü in segno di lealtà le concedono di pubblicare<br />

l’album che hanno già reg<strong>is</strong>trato. In compenso, sono il<br />

primo gruppo della scena indie rock a firmare per una<br />

multinazionale (addirittura prima dei REM, che però già<br />

pubblicavano per una semi-indipendente, la Enigma).<br />

«Speravamo di avere successo senza compromettere<br />

la nostra integrità, e che questo avrebbe potuto aprire<br />

la porta per altre band. Non eravamo il primo gruppo<br />

alternativo a firmare per una major, ma tenevamo più<br />

degli altri alla libertà e all’autonomia art<strong>is</strong>tica. Volevamo<br />

raggiungere un pubblico più numeroso, sapevamo che<br />

la Warner ci avrebbe garantito una struttura con cui poterlo<br />

fare, e avevamo fiducia nel fatto che non avrebbe<br />

cercato di cambiare la nostra immagine, la nostra musica<br />

o il nostro messaggio». In effetti la Warner accetta la loro<br />

dec<strong>is</strong>ione di prodursi da soli e non interfer<strong>is</strong>ce nel loro<br />

processo creativo.<br />

Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose<br />

se Flip Your Wig fosse uscito già per la Warner. Di sicuro<br />

era l’album più accessibile pubblicato fino a quel momento<br />

con almeno due potenziali hit: Makes No Sense<br />

At All, firmata da Bob, e l’irres<strong>is</strong>tibile Green Eyes di Grant<br />

Hart.<br />

«Con Metal Circus ci eravamo d<strong>is</strong>tanziati dai suoni e dai<br />

dogmi dell’hardcore, Zen Arcade era un concept album<br />

che si proiettava ben oltre i confini e le convenzioni del<br />

punk, con New Day R<strong>is</strong>ing avevamo cominciato a privile-<br />

giare la melodia r<strong>is</strong>petto al rumore. Ora volevamo creare<br />

un d<strong>is</strong>co pop a tutti gli effetti e quello abbiamo fatto». Il<br />

no<strong>is</strong>e pop non è l’unica freccia dell’arco di questo LP, in<br />

cui l’immediatezza delle canzoni va di pari passo con una<br />

produzione che porta più in primo piano la voce r<strong>is</strong>petto<br />

ai d<strong>is</strong>chi precedenti.<br />

Fino a questo momento, la presenza di due menti creative<br />

in seno alla band è stata la sua carta vincente. Bob<br />

è il principale songwriter, ma Grant ha dato un contributo<br />

fondamentale sia per il suono e le armonie vocali,<br />

sia come compositore e cantante. In Candy Apple<br />

Grey (1986) le canzoni più rappresentative, scelte come<br />

singoli, sono entrambe di Hart: Don’t Want To Know If<br />

You Are Lonely e Sorry Somehow. Mould da parte sua<br />

conqu<strong>is</strong>ta una dimensione più riflessiva, nella delicata<br />

veste cantautoriale dei brani acustici, Too Far Down e la<br />

struggente Hardly Getting Over It. Le sue ballate più mag<strong>is</strong>trali.<br />

Tra i brani elettrici che portano la sua firma, si<br />

fa preferire la sfuriata finale di All Th<strong>is</strong> I’ve Done For You,<br />

mentre I Don’t Know For Sure è una replica in tono minore<br />

di Makes No Sense At All. Il debutto per la Warner non<br />

ottiene il successo sperato, tuttavia, il problema di fondo<br />

è un altro. Le tensioni all’interno del gruppo crescono di<br />

giorno in giorno. Too Far Down e No Prom<strong>is</strong>e I’ve Made di<br />

108 109


Hart sono due brani sol<strong>is</strong>ti a tutti gli effetti, a cui soltanto<br />

i titolari hanno messo mano.<br />

Per cercare di bilanciare di più gli apporti di entrambi,<br />

Ware<strong>house</strong>: Songs And Stories (1987) diventa il secondo<br />

doppio LP della storia degli Hüsker Dü. Mentre Zen<br />

Arcade mette d’accordo quasi tutti, l’ultimo album suscita<br />

reazioni contrastanti: c’è chi lo considera l’apoteosi<br />

e uno dei migliori d<strong>is</strong>chi non solo del complesso,<br />

ma dell’intero decennio, e chi addirittura lo considera<br />

il peggior capitolo di tutta la loro carriera d<strong>is</strong>cografica.<br />

Per quanto mi riguarda, sono più vicino alla prima<br />

ipotesi. Per motivi anagrafici sono arrivato a Ware<strong>house</strong><br />

andando a ritroso da Nevermind e Doolittle e la linea<br />

di d<strong>is</strong>cendenza si sente, eccome. Il doppio del 1987 fa<br />

da contraltare a Zen Arcade e rappresenta il perfezionamento<br />

di quel sound. Meglio ancora, l’album del 1984<br />

rappresentava l’uscita dai confini, questo è la chiusura<br />

del cerchio. Un loop che riavvolge tutto il percorso del<br />

gruppo e lo sintetizza nella sua formula canzone “definitiva”,<br />

replicandola all’infinito con una sorta di virtuos<strong>is</strong>mo<br />

solips<strong>is</strong>tico. Sublime o stucchevole? In realtà, se<br />

si esclude un calo naturale nell’ultima parte, la tensione<br />

creativa almeno della prima metà è alt<strong>is</strong>sima. Dal punto<br />

di v<strong>is</strong>ta compositivo, l’album funziona come i poli di<br />

una batteria: a un brano di Mould ne segue uno di Hart,<br />

come se fosse uno schema voluto. Bob firma gli an<strong>the</strong>m<br />

più appassionati, These Important Years, Standing In The<br />

Rain, Ice Cold Ice, Could You Be The One, melodie mozzafiato<br />

e squarci v<strong>is</strong>ionari, rifinendo un nuovo genere di<br />

ballata elettrica che piacerà a tanto college rock (ricambiando<br />

perché V<strong>is</strong>ionary è una versione punk dei REM).<br />

Di Grant sono le melodie più insidiose e uno degli standouts<br />

del d<strong>is</strong>co, She Floated Away. Ware<strong>house</strong> contiene<br />

tutti gli elementi del sound degli Hüsker Dü - la progressione<br />

hardcore con il ritornello beat, il feedback e il fuzz<br />

del garage rock con la grinta bubblegum dei Ramones,<br />

la m<strong>is</strong>tica hippie con l’irrequietezza sovreccitata del<br />

punk, le d<strong>is</strong>torsioni timbriche del rock hendrixiano con<br />

gli assoli paross<strong>is</strong>tici dell’heavy metal e la delicatezza<br />

del folk rock con il rumor<strong>is</strong>mo esasperato - a un livello<br />

di raffinatezza superiore e definitivo. Quando è finito il<br />

gruppo non è ancora sciolto ma di fatto non es<strong>is</strong>te più.<br />

Greg Norton d<strong>is</strong>erta parte delle sessioni e Mould e Hart<br />

non lavorano quasi mai insieme. Vivranno da separati in<br />

casa i mesi successivi fino allo scioglimento della band.<br />

È interessante notare come Bob nel suo libro attribu<strong>is</strong>ca<br />

velatamente la scelta di reg<strong>is</strong>trare Ware<strong>house</strong> come un<br />

doppio album al fatto che Hart avesse voluto avere più<br />

pezzi suoi sul d<strong>is</strong>co, mentre Grant, dal canto suo, sostiene<br />

che Mould non gli avrebbe mai concesso di firmare<br />

lo stesso numero di brani r<strong>is</strong>petto a lui. La fine degli<br />

Hüsker Dü è tuttora fonte di polemiche e rancori mai<br />

sopiti. La verità è che la situazione prima o poi era destinata<br />

a precipitare per lo scontro tra ego, e i problemi<br />

di droga di Grant Hart non hanno fatto che accelerare la<br />

conclusione. Attore non protagon<strong>is</strong>ta in buona parte di<br />

questa vicenda, Greg Norton, come noto, si è creato una<br />

seconda vita come chef, poi ha dovuto chiudere il lo<strong>cale</strong><br />

e ora fa il rappresentante di vini. Le altre sue avventure<br />

musicali non hanno lasciato il segno.<br />

Dopo la fine della band, Bob Mould si trasfer<strong>is</strong>ce con il<br />

suo partner di allora, Michael, in una grande casa fuori<br />

città per staccare da tutto. A Pine City vive come in <strong>is</strong>olamento<br />

e inizia a comporre di nuovo, ma da una prospettiva<br />

diversa. Anche gli strumenti sono nuovi: una<br />

Strato blu e una Yamaha a dodici corde con un suono<br />

che paragona a un “sacco di dadi fruscianti”. Scrive spesso<br />

improvv<strong>is</strong>ando, in maniera più spirituale e libera. Ha<br />

un modo curioso di raccontarlo nel suo libro: «Facevo<br />

sempre più attenzione al suono delle sibilanti e alle consonanze<br />

tra musica e parole, a come le sibilanti somigliavano<br />

a percussioni, e a come la ‘s’ si accordava al suono<br />

dei piatti o la ‘t’ e le consonanti occlusive o percussive<br />

formavano gruppi di suoni che cadevano perfettamente<br />

sulle note di chitarra. Adesso capivo meglio i piccoli<br />

dettagli, gli spazi tra i suoni e le parole. Questo nuovo<br />

approccio non c’entrava nulla con quello che facevo prima,<br />

e sembrava arrivare dal nulla. Di certo non mi sono<br />

seduto con l’idea di lavorare su bordoni, accordature<br />

alternative, parole in libertà e di pensare al suono delle<br />

consonanti come a un elemento ritmico».<br />

W<strong>is</strong>hing WeLL<br />

Il r<strong>is</strong>ultato di questo anno sabbatico, passato a ricaricare<br />

le batterie e scrivere canzoni, è il suo primo album<br />

sol<strong>is</strong>ta, Workbook, pubblicato dalla Virgin nel 1989. Lo<br />

strumentale Sunspots apre l’album con il suo arpeggio<br />

fingerstyle (in questo caso, più vicino al folk rock britannico<br />

che a quello americano). La cesura r<strong>is</strong>petto agli Hüsker<br />

Dü è marcata con dec<strong>is</strong>ione. È evidente la volontà di<br />

emanciparsi dal passato e di assumere una dimensione<br />

espressiva diversa, da cantautore, anche se non si tratta<br />

di un semplice d<strong>is</strong>co voce/chitarra e non si tratta di un<br />

d<strong>is</strong>co semplice in generale. Anzi, è molto arrangiato ed<br />

enfatico. Per quanto la chitarra acustica a sei o dodici<br />

corde o al massimo l’elettrica pulita siano le vere protagon<strong>is</strong>te<br />

delle canzoni, il sound d’insieme è ovviamente<br />

meno saturo ma più spazioso, “arioso” nel senso che i<br />

suoni sembrano sviluppare più volume e le stesse com-<br />

posizioni tendono a gonfiarsi, a crescere a lievitare come<br />

accade a W<strong>is</strong>hing Well. Nel parco strumentale, Mould può<br />

contare su una sezione ritmica importante, formata da<br />

Anton Fier e Tony Maimone, e sul violoncello di Jane<br />

Scarpantoni, un elemento fondamentale per l’atmosfera<br />

di Workbook. «Per anni avevo v<strong>is</strong>suto circondato da un<br />

muro di suono d<strong>is</strong>torto, ora pensavo agli arrangiamenti<br />

d’archi su questi sonanti accordi aperti che producevano<br />

bordoni (huge open droning chords)». Huge è proprio la<br />

parola adatta: con la sua scioltezza See A Little Light, uno<br />

dei brani più amati tanto da intitolare la biografia del<br />

nostro, rappresenta quasi una parentesi r<strong>is</strong>petto all’epica<br />

drammaticità di una Po<strong>is</strong>on Years o alla pomposa classicità<br />

tra il melò e il pastorale di Sinners and Repeantances,<br />

per non parlare del ruggito hard blues di Whichever <strong>the</strong><br />

Wind Blows (a sua volta uno stacco piuttosto marcato dal<br />

tono generale). D<strong>is</strong>co di un’intensità stordente e che r<strong>is</strong>ente<br />

di una messa a punto quasi mania<strong>cale</strong>, Workbook è<br />

inserito dall’autore nel trittico dei suoi preferiti, insieme<br />

a Flip Your Wig degli Hüsker Dü e a Copper Blue degli<br />

Sugar.<br />

Anton Fier alla batteria e Tony Maimone al basso sono<br />

un duo di music<strong>is</strong>ti esperti, che Mould sfrutterà anche<br />

110 111


in tour. La musica degli Hüsker Dü era un unico flusso di<br />

energia in cui i contorni spesso si perdevano; invece il<br />

batter<strong>is</strong>ta (un passato con i Golden Palominos ma anche<br />

Lounge Lizards e Feelies) e l’ex bass<strong>is</strong>ta dei Pere Ubu<br />

formano una sezione ritmica più tecnica e sincronizzata.<br />

Mould stesso riconosce quanto la loro professionalità<br />

abbia aiutato il suo orecchio di music<strong>is</strong>ta. Il seguito della<br />

prima avventura da solo è il rovente e cup<strong>is</strong>simo Black<br />

Sheets Of Rain (1990). Le ballate di Workbook diventano<br />

una marziale sinfonia elettrica, da cui emergono composizioni<br />

cadenzate e potenti. Stop Your Crying, Hanging<br />

Tree e It’s Too Late, tra Neil Young e quello che tutti di lì<br />

a poco chiameranno grunge, la byrdsiana Hear Me Calling<br />

o Out Of Your Life sono la sintesi che ci si sarebbe<br />

aspettati tra l’eredità degli Hüsker Dü , la nuova cifra di<br />

cantautore, l’amore per il melod<strong>is</strong>mo anni ‘60 e una r<strong>is</strong>coperta<br />

del rock dopo il folk-core da camera di Workbook.<br />

Anche se l’unica canzone nello stile della vecchia band,<br />

il pop-punk di D<strong>is</strong>appointed, non è un omaggio ma una<br />

frecciata agli ex compagni. Lo shouter dell’hardcore ritorna<br />

in Sacrifice, in una sorta di blues trasformato in un<br />

tour de force vo<strong>cale</strong> con tanto di sdoppiamento tra call<br />

and response. La title track è uno dei migliori brani di<br />

Bob Mould sol<strong>is</strong>ta e anche il d<strong>is</strong>co, di una compattezza<br />

invidiabile, si colloca ai vertici della sua produzione, nonostante<br />

la sua avversione a posteriori per le atmosfere<br />

claustrofobiche di questa seconda prova en solitaire.<br />

thAt’s A good ideA<br />

Tuttavia, le cose non si mettono bene per il nostro: la<br />

successiva tournée è un flop, non tanto per i concerti<br />

in sé quanto per il fatto che, per la prima volta nella sua<br />

carriera, si trova a chiudere un tour in perdita, per i costi<br />

di due turn<strong>is</strong>ti di lusso e di tutto l’apparato. La Virgin e il<br />

suo management avevano oltretutto ceduto i suoi diritti<br />

di edizione. «All’inizio del 1991 stavo facendo i conti. Perché<br />

anche se avevo un ricco contratto con la Virgin ero<br />

sempre al verde?». Su consiglio di un legale, Bob r<strong>is</strong>olve<br />

il contratto e si lancia in un tour acustico senza band.<br />

Un’esperienza che sotto certi aspetti lo riavvicina alle<br />

origini, al punto da ricondurlo anche a formare un vero<br />

gruppo e a riabbracciare il mondo delle indie. Dopo aver<br />

fatto ascoltare i suoi demo a diverse case d<strong>is</strong>cografiche,<br />

trova infatti un accordo con la Creation in Gran Bretagna<br />

e la Rykod<strong>is</strong>c in America. I prescelti per il nuovo trio<br />

sono il bass<strong>is</strong>ta David Barbe, un vecchio amico del suo<br />

compagno Kevin O’Neill, e Malcolm Trav<strong>is</strong>, l’ex batter<strong>is</strong>ta<br />

degli Zulus, di cui Mould aveva prodotto nel 1988 l’album<br />

Down On The Floor.<br />

Copper Blue (1992) è uno dei suoi migliori d<strong>is</strong>chi. Esce nel<br />

momento giusto per farlo conoscere al nuovo pubblico<br />

“alternativo”, appena sedotto dai Nirvana (di cui Mould<br />

ha potuto vedere da vicino l’ascesa partecipando allo<br />

stesso tour insieme a Sonic Youth e Dinosaur Jr. documentato<br />

nel video The Year Punk Broke). Non a caso, sarà<br />

il suo bestseller. Privo di un contraltare quale Grant Hart<br />

negli Hüsker Dü , Bob dirige la band come se fosse una<br />

sua creatura. Mentre il muro chitarr<strong>is</strong>tico degli Hüskers<br />

aveva un valore assoluto, una trascendenza che andava<br />

oltre l’armonia stessa, quello degli Sugar è più corposo<br />

ma più quadrato e funzionale. Composizione e arrangiamento<br />

mostrano una grande attenzione alla dinamica,<br />

sull’esempio di Workbook ma in maniera più diretta e rumorosa.<br />

Come nell’iniziale The Act We Act, tra i momenti<br />

clou del d<strong>is</strong>co, un aspro rock mid-tempo quasi grunge,<br />

che parte da un riff compresso coronato da un breve<br />

ricamo di chitarra per decollare verso una luminosa armonia<br />

sostenuta da un melodioso assolo sottotraccia.<br />

Come in Good Idea, con un ritornello che si pianta in<br />

testa al primo ascolto, ma che assorbe tutta l’influenza<br />

di ritorno dei Pixies: la struttura è proprio quella di un<br />

brano dei folletti (file under: Debaser), dal giro di basso<br />

iniziale alla progressione di accordi che supportano il<br />

ritornello e il finale. Tracce di Huskers in Fortune Teller,<br />

ma anche molta melodia, lo psych pop frizzante di Helpless<br />

e Hoover Dam e la perla di una canzone folk-rock<br />

super orecchiabile, If I Can’t Change Your Mind.<br />

Pochi mesi dopo Copper Blue, è la volta di Beaster (1993),<br />

un mini album composto da canzoni reg<strong>is</strong>trate nello<br />

stesso periodo, ma dal mood molto più cupo. Esce la<br />

settimana di Pasqua e rappresenta una sorta di passione<br />

tutta personale di Bob Mould. Le sonorità - come in JC<br />

Auto - sono a volte più vicine al grunge che al pop-core<br />

o a certe frange dell’indie inglese. Feeling Better ha addirittura<br />

uno strano sapore baggy. Walking Away ricorda<br />

invece i My Bloody Valentine, compagni di etichetta alla<br />

Creation, anche se sono le tastiere a prendere il posto<br />

della chitarra. Il titolo dell’ultimo d<strong>is</strong>co degli Sugar, File<br />

Under: Easy L<strong>is</strong>tening (1994), non è poi così ironico come<br />

sembra. Brani come Your Favorite Thing (che echeggia<br />

un titolo dei Replacements), Gee Angel, Can’t Help You<br />

Anymore rielaborano il consolidato stile di Mould e del<br />

suo gruppo in maniera più facile e scanzonata. È il d<strong>is</strong>co<br />

più pop del nostro so far, e se Gift potrebbe ricordare i<br />

Dinosaur Jr., Believe What You’re Saying la sua nenia più<br />

dolce, è ancora un velato omaggio agli amati Byrds. È<br />

l’ultimo album del trio, di cui due anni dopo uscirà una<br />

raccolta di rarità.<br />

Il 1994 è anche l’anno in cui esce il live degli Hüsker<br />

Dü, The Living End, che il nostro si rifiuta perentoriamente<br />

di ascoltare. Sempre nel 1994, un’interv<strong>is</strong>ta con<br />

Denn<strong>is</strong> Cooper per Spin rende di pubblico dominio alcuni<br />

aspetti della sua vita privata, a cominciare dal suo<br />

orientamento sessuale. Se di coming out si tratta, è un<br />

po’ forzato e detto fra i denti, con il timore di finire ingabbiato<br />

in uno stereotipo. Alcune radio si rifiutano di<br />

trasmettere la musica degli Sugar, ma a mettere d<strong>is</strong>agio<br />

il music<strong>is</strong>ta e l’uomo sono probabilmente le critiche ricevute<br />

in seno alla stessa comunità gay.<br />

BoB mouLd <strong>is</strong> BoB mouLd<br />

Gli Sugar si sciolgono all’inizio del 1995, e Bob ritorna<br />

alla carriera sol<strong>is</strong>ta nel 1996 con uno spartano senza titolo<br />

(Bob Mould) in cui canta e suona tutti gli strumenti.<br />

È l’ennesimo segnale di un’indole creativa irrequieta e<br />

mai accomodante. Accomodante non lo è neppure con<br />

se stesso, il buon Bob: I’m sick of myself, ripete nel primo<br />

pezzo, Anymore Time Between. Con lo stesso sarcasmo<br />

con cui parlava di easy l<strong>is</strong>tening per il d<strong>is</strong>co degli Sugar,<br />

intitola il brano chiave del suo ritorno sol<strong>is</strong>ta IHate Alternative<br />

Rock. È una specie di parodia (un po’ come in D<strong>is</strong>appointed<br />

il nostro parodiava gli Hüsker Dü) per un atto<br />

d’accusa nei confronti delle case d<strong>is</strong>cografiche, colpevoli<br />

ai suoi occhi di avere trasformato in una moda il genere<br />

di musica che lui aveva contribuito a creare. In questo<br />

caso è difficile dargli torto; per il resto, uno dei punti<br />

deboli conclamati dell’album è la rigidità dovuta all’utilizzo,<br />

non molto fantasioso, della batteria elettronica,<br />

insieme a una produzione dallo spiacevole retrogusto<br />

meccanico. Il modello che Mould sembra avere in mente<br />

è quello di Lou Barlow e dei suoi Sebadoh; per accorgersene<br />

è sufficiente ascoltare l’incipit (sempre Anymore<br />

Time Between). Qualche zampata non manca (il turbinio<br />

elettrico di Egøverride), ma è penalizzata dalle scelte<br />

sonore, in una prova al di sotto degli standard a cui ci<br />

aveva abituati.<br />

The Last Dog and Pony Show (1998) è quello che spesso si<br />

defin<strong>is</strong>ce un d<strong>is</strong>co di transizione. Non è <strong>is</strong>pirato quanto<br />

i migliori d<strong>is</strong>chi del suo autore, ma trova un suo equilibrio,<br />

tra il ritorno alle atmosfere di Workbook, sonorità<br />

rock aggressive o il panning elettroacustico (Who Was<br />

Around) che sono ormai un marchio di fabbrica. Si sentono<br />

anche le avv<strong>is</strong>aglie di qualcosa di diverso, nel primo<br />

flirt con i sintetizzatori di Megamanic, una specie di<br />

sgorbio rap che parte con una base drum and bass e non<br />

si cap<strong>is</strong>ce bene dove vada a parare. Bob avrebbe provato<br />

molte altre soluzioni ma alcuni nastri di esperimenti<br />

sono rimasti cancellati per sbaglio perché dimenticati<br />

in studio. Se i r<strong>is</strong>ultati erano simili a Megamanic, forse è<br />

meglio che sia andata così. LiveDog98 (2004), venduto<br />

ai concerti e su internet, è una testimonianza del tour<br />

che lo vede, per la prima e ultima volta, affiancato da un<br />

secondo chitarr<strong>is</strong>ta.<br />

Nel giro di un paio di d<strong>is</strong>chi i riferimenti passano dai<br />

112 113


Sebadoh e dalla scena lo-fi a Believe di Cher e a Xpander<br />

di Sasha. Modulate (2002) è il progetto a nome Loudbomb<br />

(l’album Long Playing Grooves,2004) sono per<br />

molti critici la pietra dello scandalo. Nessuno dei fans<br />

storici si sarebbe probabilmente aspettato che da qualche<br />

esperimento estemporaneo sarebbe nata la svolta<br />

più clamorosa della carriera. Mould diventato dj di musica<br />

dance poteva sorprendere quanto, per chi non lo<br />

monitorava da un po’, scoprire che per un anno aveva<br />

fatto lo sceneggiatore per gli incontri di wrestling (e<br />

prima ancora aveva fornito la colonna sonora per una<br />

campagna pubblicitaria della American Express). Tutte e<br />

due le cose, anzi tutte e tre, sono vere. L’abiura del rock e<br />

l’improvv<strong>is</strong>a metamorfosi si spiegano anche con la new<br />

gay life di cui racconta esplicitamente nella sua autobiografia.<br />

Bob si appassiona alla musica da ballo elettronica<br />

da club nel momento in cui si trasfer<strong>is</strong>ce a New York e<br />

insieme al suo compagno conosce per la prima volta da<br />

vicino la cultura gay della Grande Mela. Anche considerando<br />

che questa folgorazione sulla via del dancefloor<br />

può avere una sua contestualizzazione es<strong>is</strong>tenziale e la<br />

necessità di liberarsi dallo stereotipo del rocker depresso<br />

e arrabbiato abbia ragioni al di là di quelle strettamente<br />

art<strong>is</strong>tiche, a un ascolto senza pregiudizi Modulate rimane<br />

un d<strong>is</strong>co goffo. Il buon Mould soffre del difetto<br />

di molti neofiti, che si lasciano incautamente prendere<br />

la mano senza filtro e, soprattutto, senza la necessaria<br />

padronanza del linguaggio in cui si avventurano per la<br />

prima volta. Il r<strong>is</strong>ultato sono pacchianate a ripetizione,<br />

che fin<strong>is</strong>cono per sabotare anche quelle poche idee fluttuanti<br />

in una serie di inutili orpelli.<br />

Body Of Song (2005) contiene in parte l’hangover dalla<br />

sbornia electro-danzereccia, con rimasugli di suoni sintetici<br />

e qualche fastidioso effetto vo<strong>cale</strong>, ma la REMiana<br />

Circles sembra tornare ai tempi di Black Sheets Of Rain,<br />

e il pop punk tinto di psichedelia di M<strong>is</strong>sin’ You anche<br />

qualche anno più indietro. La malinconica Days Of Rain è<br />

il viatico per i d<strong>is</strong>chi successivi. Per il tour, Mould può<br />

contare su una band di tutto r<strong>is</strong>petto in cui oltre al sodale<br />

elettronico Richard Morel (l’altra metà di Loudbomb),<br />

milita Brendan Canty dei Fugazi. Con il quartetto di cui<br />

fa parte anche il bass<strong>is</strong>ta Jason Narducy, l’ex Hüsker Dü<br />

ritorna ad esibirsi dal vivo con un gruppo elettrico dopo<br />

più di un lustro. Per l’occasione r<strong>is</strong>polvera i classici di<br />

tutta la sua carriera che finiranno anche sul suo primo<br />

DVD, Circle Of Friends.<br />

<strong>the</strong> descent<br />

In D<strong>is</strong>trict Line (2007) l’anima del cantautore torna in<br />

primo piano. L’influenza che salta per prima all’orecchio<br />

sono curiosamente i REM (in parte, si tratta anche qui di<br />

un’<strong>is</strong>pirazione di ritorno). Il modo di cantare di Bob nei<br />

primi pezzi ricalca da vicino quello di Michael Stipe; Old<br />

Highs New Lows rivela piuttosto un’affinità con Mark<br />

Eitzel. Il trascorrere dei pezzi segna un ritorno del rock<br />

(Return To Dust, The Silence Between Us) e dell’elettronica<br />

(Shelter Me), che fa capolino con qualche moderata introm<strong>is</strong>sione<br />

anche nei brani di impianto chitarr<strong>is</strong>tico. Di<br />

apprezzabile c’è che il nostro non ricalchi i soliti schemi<br />

di un tempo anche nel momento in cui la sua produzione<br />

è più di routine e meno <strong>is</strong>pirata. Più o meno sulla<br />

stessa linea si colloca Life and Times (2009). Anche il<br />

power pop di Argos e Spiraling Down e il ritorno (uno<br />

dei tanti) alle architetture di Workbook in Bad Blood Better<br />

stavolta sanno di routine. Nel 2009 esce Live At ATP,<br />

reg<strong>is</strong>trato all’All Tomorrow’s Parties: la seconda metà del<br />

set è quasi tutta occupata da classici degli Hüsker Dü (I<br />

Apologize, Chartered Trips, Celebrated Summer, Makes No<br />

Sense At All, New Day R<strong>is</strong>ing). Se si è riconciliato con il suo<br />

passato, Mould, non lo è affatto con i suoi ex compagni,<br />

trattati ancora con un certo astio nelle pagine del libro.<br />

Il più recente LP, Silver Age (2012), sembra un d<strong>is</strong>co più<br />

“leggero” di molte sue opere del passato, non nel sound<br />

ma nello stato d’animo. È l’album più fragorosamente<br />

rock dai tempi degli Sugar e il migliore degli ultimi dieci<br />

anni (in cui non ha certamente brillato). Dove il nostro,<br />

almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni, si abbandona<br />

al piacere di suonare musica elettrica e liberatoria.<br />

Un d<strong>is</strong>co compatto e che dà certezze: solidità in fase di<br />

scrittura, un sound grintoso e le melodie con i giri giusti.<br />

Oltre che con il passato, Mould sembra più a suo agio<br />

con se stesso e con il suo ruolo di icona, un ruolo che lui<br />

stesso ha intenzione di rivendicare e promuovere, senza<br />

la conflittualità del passato. Non è un caso l’intenzione<br />

di pubblicare See A Little Light, stesso titolo del libro per<br />

un concerto che dovrebbe diventare un film e in cui l’ex<br />

Hüsker Dü duetta con suoi d<strong>is</strong>cepoli dichiarati come<br />

Dave Grohl e i No Age. «Finalmente inizio a godermi la<br />

vita come viene» è una delle ultime frasi della biografia.<br />

Contenti per lui oggi, e meglio per noi che in passato sia<br />

appartenuto alla schiera dei non riconciliati e abbia scritto<br />

alcune delle migliori pagine di indie rock di sempre.<br />

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classic album<br />

Dire Straits<br />

dire StrAitS (vertigo, ottobre 1978)<br />

Credo di aver conosciuto i Dire Straits assieme ai principali<br />

rimproveri che da sempre vengono mossi nei loro<br />

confronti: derivativi, e quel che è peggio out-of-time.<br />

Quanto alla prima accusa, penso sia abbastanza incontestabile,<br />

per quanto non mi sembra che debbano scontare<br />

più debiti di quanto il rock non abbia contratto prima<br />

e dopo la loro venuta. Senza scordare poi come siano<br />

comunque riusciti a sviluppare un sound estremamente<br />

riconoscibile, soprattutto grazie alla chitarra (e alla voce)<br />

di Mark Knopfler. Quanto al secondo “peccato”, credo<br />

sia il caso di soffermarsi un attimo. Di ripartire dall’inizio.<br />

La band prese forma a metà dei 70s proponendo una<br />

m<strong>is</strong>tura di rock’n’roll venato country e blues nel circuito<br />

dei pub londinesi. A muovere i fratelli Knopfler, il bass<strong>is</strong>ta<br />

John Illsley ed il batter<strong>is</strong>ta Pick Wi<strong>the</strong>rs (quest’ultimo con<br />

un passato abbastanza importante nei The Primitives di<br />

Mal) pareva essere innanzitutto la voglia di allestire un<br />

sottofondo tanto suggestivo quanto divertente, nel quale<br />

la componente folk-blues - seppur mutuata in una sorta<br />

di fantasia western ad alto tasso cinematico - predominava<br />

tenendo ancorato il messaggio ad altezza d’uomo.<br />

In un certo senso, possiamo interpretare la proposta dei<br />

Dire Straits come un controcanto escap<strong>is</strong>ta tanto all’iconoclastia<br />

punk dominante quanto alla sua alternativa arty<br />

rappresentata dalla parimenti pervasiva new wave. Ne<br />

r<strong>is</strong>ultò un crescente successo di pubblico (a partire dal<br />

terzo album addirittura clamoroso) e la d<strong>is</strong><strong>is</strong>tima imperitura<br />

proprio da parte di chi vedeva nel verbo di P<strong>is</strong>tols,<br />

Clash, Suicide e Telev<strong>is</strong>ion il codice che avrebbe salvato le<br />

sorti del rock. Un’avversione che ancora oggi dura.<br />

Penso tuttavia sia il caso di tenere presente quanto le<br />

schematizzazioni storiografiche siano solo necessarie<br />

approssimazioni. Nella realtà in ogni momento convivono,<br />

si sfiorano e sovrappongono situazioni diverse,<br />

ognuna diretta volente o nolente verso lo stesso domani.<br />

I Dire Straits insomma, che ci piaccia o meno,<br />

sono figli perfetti del loro tempo. Prendete ad esempio<br />

il nome della band, che tradotto vuol dire più o meno<br />

“gravi r<strong>is</strong>trettezze”: non sarà una delle ragioni sociali più<br />

punk che si possano immaginare, ma ci va abbastanza<br />

vicino. Detto questo, non si può negare che la loro comparsa<br />

sulla scena fu v<strong>is</strong>suta con sollievo e persino con<br />

entusiasmo proprio dai reduci del folk-rock e persino di<br />

certo prog (ne ho conosciuti in tempo reale). Alla fine di<br />

tutti questi d<strong>is</strong>corsi, e passiamo a quello che conta, c’è<br />

un album d’esordio omonimo uscito nell’ottobre del ‘78:<br />

periodo tragico che il quartetto britannico (con sede a<br />

Londra, anche se i Knopfler erano originari di Glasgow)<br />

volle sublimare inventandosi una dimensione epica.<br />

Fu un po’ come fondere il piombo di quegli anni per farne<br />

proiettili simbolici, vaganti in una specie di scenario<br />

post-western, tutto un gioco di astrazioni al sapor di<br />

celluloide condotte con un gradevole mix di entusiasmo<br />

e gravità. Lo stile del chitarr<strong>is</strong>ta-cantante-compositore<br />

si esalta tra le insidie bluesy di Six Blade Knife e quelle<br />

funky di Southbound Again, nella blandizie errebì di<br />

Lions (tipo gli Steely Dan in fregola Tom Petty), nelle latinerie<br />

languide di Water Of Love e in quelle smerigliate<br />

di Down To The Waterline, nel deserto carezzevole di Wild<br />

West End. Soprattutto, è ovvio, nella trascinante celebrazione<br />

di un mondo sul punto d’estinguersi (“...And an<br />

old guitar <strong>is</strong> all he can afford/When he gets up under <strong>the</strong><br />

lights to play h<strong>is</strong> thing”) di Sultans Of Swing, nella quale<br />

c’è tutta intera la loro poetica, né più né meno.<br />

Col suo lir<strong>is</strong>mo liquido e denso, dalla v<strong>is</strong>ionarietà prepsichedelica,<br />

la chitarra di Knopfler sembra un archetipo<br />

rurale di Tom Verlaine, lo stilo di un sognatore che<br />

allest<strong>is</strong>ce sogni senza additivi, trasformando cupezze &<br />

amarezze in un melò crepuscolare. Troppo caratterizzato<br />

per lasciare epigoni, il d<strong>is</strong>corso dei Dire Straits è<br />

evaporato in una nuvola mainstream prima che sembrasse<br />

in grado di scrivere pagine davvero profonde. Un<br />

percorso così simile seppur così diverso nella sostanza<br />

a quello dei coevi Police. In questo senso, il sodalizio<br />

stretto da Sting e Knopfler per la scrittura e l’interpretazione<br />

della celeberrima Money For Nothing - anno 1985<br />

- assume l’aspetto di un paradigma. O di un punto di<br />

non ritorno, fate voi.<br />

SteFAno Solventi<br />

classic album<br />

Nine Inch Nails<br />

<strong>the</strong> downwArd SpirAl (tvt reCordS, mArzo 1994)<br />

“I ragazzi sono curiosi di noi, ci chiedono di Rebirth,<br />

ma non sanno cosa c’è di sporco in quel programma,<br />

di BASTARDO DENTRO”, diceva Cr<strong>is</strong>tina dei Kr<strong>is</strong>ma<br />

tempo fa dopo un concerto.<br />

Reznor invece lo sapeva sicuramente, cresciuto com’era<br />

in un contesto nel quale i losers anni ‘90 avevano preso<br />

da un decennio di metal il gusto per apocal<strong>is</strong>se, atrocità<br />

e violenza, nonché attento allievo di Min<strong>is</strong>try e Skinny<br />

Puppy sui lati oscuri dell’elettronica e conscio della svolta<br />

industrial presa da una buona corrente del suo amato<br />

gothic rock (amore che lo porterà alla cover di Dead<br />

Souls per la colonna sonora de Il Corvo e alle collaborazioni<br />

con Peter Murphy). D’altronde nel ‘91 Nirvana<br />

e Red Hot Chili Peppers avevano ribadito in classifica,<br />

per chi non lo sapesse, che il rock es<strong>is</strong>teva ed era rumoroso,<br />

violento e meticcio (e dunque punk e metal<br />

potevano abbandonare parecchie diffidenze reciproche),<br />

aprendo la strada per MTV a Vitalogy, agli Alice In<br />

Chains o ai Min<strong>is</strong>try di Psalm 69.<br />

Così Trent, che aveva esordito con due lavori ottimi ma<br />

ancora non del tutto autonomi dai maestri suddetti<br />

(Pretty Hate Machine, deviatamente pop, e l’EP Broken)<br />

e che partecipava al Lollapalooza fin dall’inizio, va a raccogliere<br />

numerose suggestioni sia da una fase musi<strong>cale</strong><br />

eclettica capace di sdoganare il rumore, sia da tendenze<br />

sotterranee che r<strong>is</strong>alivano ai Suicide e dintorni, sintetizzandole<br />

in una nuova musica davvero 90s e in grado<br />

di dare indicazioni per il futuro: creare il capolavoro /<br />

colonna sonora per la nuova generazione.<br />

Attent<strong>is</strong>simo manipolatore del suono, chiuso nel suo<br />

studio (costruito nella villa in cui Sharon Tate fu ucc<strong>is</strong>a<br />

da Manson e accoliti, tanto per ribadire la moda<br />

dell’atrocità) insieme a Flood a combattere contro tecniche<br />

pionier<strong>is</strong>tiche di hard d<strong>is</strong>k recording, Reznor costru<strong>is</strong>ce<br />

un edificio di violenza sonora strutturato come<br />

un film, dove l’introspezione d<strong>is</strong>perata e l’immaginario<br />

tra splatter, apocal<strong>is</strong>se e cyberpunk dei testi sanno raccontare<br />

le ansie di una modernità sempre meno umana.<br />

Tanto quanto le narra un suono che toglie alla chitarra<br />

elettrica l’aura di unica purezza possibile della rabbia<br />

rock e al computer il frac algido che gli avevano messo<br />

addosso i Kraftwerk e il synth pop anni ‘80.<br />

C’è tutto questo in un d<strong>is</strong>co che mostra un uso da maestro<br />

delle dinamiche forte/piano: dalla furia con aperture<br />

ambient dell’iniziale autoritratto di Mr. Self Destruct al<br />

dub inquietante di Piggy, dal techno-pop che struttura<br />

inizialmente Heresy al technopunk di Big Man With A<br />

Gun, dall’apparente tranquillità venata di inquietudine<br />

sempre meno trattenuta di Closer e Eraser alle frenesie<br />

quasi Pixies del breve singolo March Of The Pigs col<br />

suo sorprendente stacco melodico di piano, dalla <strong>house</strong><br />

frammentata con interludio folk di The Becoming agli<br />

intermezzi strumentali da colonna sonora della title<br />

track e di A Warm Place, fino alla sorprendente ballatacapolavoro<br />

Hurt, che chiude il d<strong>is</strong>co allo stesso tempo<br />

in modo coerente e inatteso.<br />

Il d<strong>is</strong>co venderà parecchio, rafforzando l’influenza che<br />

Reznor esercitava già dagli esordi e confermando che<br />

il pubblico era pronto da tempo per un suono che il<br />

d<strong>is</strong>co stesso contribu<strong>is</strong>ce a diffondere: vedi i Prodigy<br />

in classifica di lì a poco, l’uso di certe batterie scorticate<br />

da parte di Bjork in Homogenic, l’influenza su Outside<br />

di un Bowie che con Low era stato una delle muse dichiarate<br />

di Reznor (ne seguirà anche un tour insieme) e<br />

soprattutto l’apocalittico concerto a Woodstock 94 coi<br />

nostri coperti di fango nel bel mezzo di una consacrazione<br />

ufficiale.<br />

Alcuni preferiranno poi lo sviluppo realizzato nell’altro<br />

capolavoro The Fragile: accademia, v<strong>is</strong>to il livello delle<br />

due opere.<br />

giulio pASquAli<br />

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