bob mould john cale house is the temptation - Sentireascoltare
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BoB <strong>mould</strong><br />
John Cale<br />
<strong>house</strong> Is<br />
The TempTaTIon<br />
digital magazine | dicembre 2012 | n. 98<br />
a<br />
Sco<br />
l k e r<br />
tt
turn on – p. 4<br />
Mimes Of Wine<br />
Ronin<br />
The Soft Moon<br />
Yousef<br />
recensioni – p. 44<br />
tune in – p. 12<br />
John Cale<br />
gimme some inches – p. 100<br />
classic album – p. 116<br />
drop out – p. 16<br />
Scott Walker<br />
House Is The Temptation<br />
Santo Barbaro<br />
rearview mirror – p. 102<br />
Bob Mould<br />
sentireascoltare<br />
#98<br />
dicembre<br />
Direttore<br />
Edoardo Bridda<br />
Direttore Responsabile<br />
Antonello Comunale<br />
Ufficio Stampa<br />
Alberto Lepri, Teresa Greco<br />
Coordinamento<br />
Gaspare Caliri<br />
Progetto Grafico<br />
Nicolas Campagnari<br />
Redazione<br />
Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda,<br />
Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion,<br />
Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia,<br />
Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco<br />
Staff<br />
Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia,<br />
Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante,<br />
Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere,<br />
Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo,<br />
Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri<br />
Copertina<br />
Scott Walker (foto © Jamie Hawkesworth)<br />
Guida spirituale<br />
Adriano Trauber (1966-2004)<br />
SentireAscoltare<br />
online music magazine<br />
Reg<strong>is</strong>trazione Trib.BO N° 7590<br />
del 28/10/05<br />
Editore: Edoardo Bridda<br />
Provider NGI S.p.A.<br />
Copyright © 2012 Edoardo Bridda.<br />
Tutti i diritti r<strong>is</strong>ervati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con<br />
qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Canzoni che diventano memorie. La Spoon River dei Mimes Of Wine, forte di un<br />
romantic<strong>is</strong>mo in parte lunare e sin<strong>is</strong>tro, in parte solare ed aspro.<br />
MiMes Of Wine Giro di Vite<br />
La musica ha la capacità di prendersi il proprio spazio,<br />
di sottolineare un attimo, di farsi firma per un evento,<br />
un pensiero, finanche per un’opinione. La buona musica<br />
può addirittura trascendere e farsi memoria. Come<br />
Haruki Murakami che cita i Beatles in Tokyo Blues e le<br />
diverse Penny Lane, Julia, Nowhere Man più che siglare<br />
semplicemente uno stacco, un passaggio, un dialogo, si<br />
fanno sostanza stessa del libro. Canzoni che diventano<br />
memorie. Quelle di Memories For The Unseen hanno lo<br />
stesso spirito confidenziale, r<strong>is</strong>ervato, intimo del sussurro<br />
notturno degli amanti, delle lettere sporche dal fronte, di<br />
una carezza inaspettata. E’ il Giro di Vite secondo i Mimes<br />
Of Wine, la loro Spoon River, forte di un romantic<strong>is</strong>mo in<br />
alcune parti lunare e sin<strong>is</strong>tro, in altre solare ed aspro. In<br />
definitiva uno spirito molto “rock”, come dovrebbe essere<br />
il rock nel 2012: tagliente, colto, pieno di una passionalità<br />
che si è persa da tempo.<br />
Come fosse una medium che parla per i suoi fantasmi,<br />
Laura Loriga si incarica di trasmettere ai posteri le opinioni<br />
degli inv<strong>is</strong>ibili: «l’ album raccoglie le storie di dodici<br />
voci che ritornano per parlare a qualcuno di importante,<br />
per riaprire un momento del passato, legate da un’idea<br />
piuttosto variegata di ritorno. A volte è l’immagine di un<br />
ricordo ad essere descritta, a volte le immagini vengono<br />
inventate per dare concretezza a quello che viene detto e<br />
chiesto. In tutti i brani, chi parla tramite la mia voce, lo fa<br />
sempre dal retro della scena (per tre volte sono personaggi<br />
vivi solo nei libri), ma si tratta sempre di una presenza<br />
centrale, che guarda da molto tempo ciò di cui è parte silenziosa,<br />
mossa da un desiderio di essere infine, v<strong>is</strong>ta. Si<br />
tratta di dialoghi tra fantasmi veri, di battaglie, preghiere,<br />
scherzi e amori, dietro ai quali a volte mi nascondo anche<br />
io stessa.» Memories For The Unseen, secondo d<strong>is</strong>co<br />
firmato Mimes Of Wine ha il carattere intimo del diario<br />
personale, enfatizzando sotto questo aspetto l’intim<strong>is</strong>mo<br />
pian<strong>is</strong>tico di Apocalypse Sets In.<br />
Eppure, se il merito di Laura Loriga fosse stato solo quello<br />
di buttar giù un abile secondo capitolo, non avremmo<br />
avuto una collezione di canzoni così coesa e dinamica,<br />
marchiata da quell’umore agrodolce che è ormai un trademark.<br />
Sottolineato da un parterre strumentale assai<br />
più ricco, Memories For The Unseen è la testimonianza<br />
di una music<strong>is</strong>ta che si conqu<strong>is</strong>ta il proprio spazio e<br />
diventa cosciente delle proprie capacità: «L’approccio in<br />
sé è rimasto lo stesso, ma crescendo e cambiando i miei<br />
ascolti e le esperienze fatte nei due anni che mi separano<br />
dal primo d<strong>is</strong>co, i r<strong>is</strong>ultati si sono sicuramente a loro volta<br />
trasformati. Ho semplificato i brani per concentrarmi di<br />
più sullo sviluppare idee definite, e il concetto che li un<strong>is</strong>ce<br />
mi ha guidato nel dare ad ognuno di essi il suo posto e il<br />
suo colore». In questo senso, più di una mano arriva dai<br />
music<strong>is</strong>ti che gravitano attorno alla sigla Mimes Of Wine<br />
fin dall’inizio e dal rodaggio dal vivo: «In realtà i live del<br />
d<strong>is</strong>co scorso sono stati fatti con music<strong>is</strong>ti diversi e molte<br />
variazioni di formazione. Questa volta la band che ha reg<strong>is</strong>trato<br />
sarà anche quella al mio fianco sul palco. Tutti i suoi<br />
componenti hanno influito molt<strong>is</strong>simo sugli arrangiamenti<br />
e il suono finale dell’album: Stefano Michelotti, Luca Guglielmino,<br />
Matteo Zucconi, Riccardo Fr<strong>is</strong>ari, Helen Belangie.<br />
Altre due persone, il cui contributo è stato fondamentale,<br />
sono Adam Moseley (con cui ho lavorato sul mix e il master<br />
a Los Angeles) e Enzo Cimino. Quest’ultimo si è preso cura<br />
delle reg<strong>is</strong>trazioni e ha colto in pieno le idee che avevamo<br />
in mente per il r<strong>is</strong>ultato finale».<br />
La vicenda si fa poi del tutto personale. Laura ha ormai<br />
una capacità di scrittura autonoma, individuale. Le canzoni<br />
dei Mimes Of Wine hanno un respiro e uno sviluppo<br />
sufficientemente caratter<strong>is</strong>tici per svincolarsi, di volta in<br />
volta, dai variegati riferimenti della stampa. Paragoni che<br />
vanno dai più ovvi come Tori Amos, L<strong>is</strong>a Germano e PJ<br />
Harvey a quelli più strambi come Dead Can Dance e<br />
Diamanda Galas. Interrogata sulle possibili assonanze<br />
della propria musica, Laura non si fa pregare: «E’ buffo<br />
perchè quasi mai chi fa confronti cita le cose che ascolto di<br />
più, ma è anche interessante e un buon segno, perchè altrimenti<br />
vorrebbe dire che sono una seria vittima di che quello<br />
a cui accenni, il problema di creare cose simili a quello che<br />
si sente. Quando capita di sentire l’eco di qualcosa, credo<br />
che stia a noi decidere se crediamo di poterlo fare nostro o<br />
se è meglio lasciar perdere. Mi piace molto L<strong>is</strong>a Germano<br />
e il suo modo di scrivere sincero e forte, come mi piacciono<br />
la maggior parte degli art<strong>is</strong>ti prodotti da Michael Gira e<br />
Young God Records. Non ascolto Tori Amos da molt<strong>is</strong>simi<br />
anni perciò non so dire ora se mi si sia vicina o meno, ma<br />
rimane sicuramente un complimento».<br />
I Mimes Of Wine, complice anche il tour con i Giardini di<br />
Mirò, sono destinati a marchiare a fuoco questo strano<br />
autunno 2012, che non sa decidersi se diluire i postumi<br />
di un’estate torrida o flirtare timoroso con il minaccioso<br />
inverno all’orizzonte<br />
Antonello ComunAle<br />
4 5
La scusa è l’anteprima del nuovo video dei Ronin “Fenice”. Ottima occasione per<br />
parlare con Bruno Dorella dell’ultimo periodo della band, ma anche degli innumerevoli<br />
progetti collaterali<br />
ROnin Narrare senza parole<br />
La scelta di fare un video per la title track di un album<br />
dal titolo così pieno di significati non può essere<br />
casuale. In più l’idea alla base del girato di Fenice,<br />
pur essendo semplice, è anche piuttosto evocativa<br />
e adatta alla musica. Ti va di raccontarci il dietro le<br />
quinte?<br />
Il primo video tratto da Fenice è stato Selce, girato da<br />
una donna (Fatima Bianchi) che fa parte del mondo della<br />
videoart. In mezzo c’è stato il gustoso dono di Angelo<br />
Puzzutiello per Gentlemen Only, una sorta di Romanzo<br />
Criminale in chiave Roma Underground che ho gradito<br />
molto. Si trattava però di un pezzo ironico, il “divert<strong>is</strong>sement”<br />
del d<strong>is</strong>co. Tornando ai pezzi di matrice “epica<br />
Ronin”, Fenice è stato affidato di nuovo ad una donna<br />
(Natalia Saurin), anch’essa riconducibile al mondo della<br />
videoart. Questa duplice caratter<strong>is</strong>tica (donna + videoarte)<br />
dà ai video dei Ronin una chiave di lettura veramente<br />
unica. Lungi dall’essere melensa, lontana anni luce<br />
dall’esigenza di “ritmo” e appeal del videoclip. Ecco, se<br />
qualcuno volesse capire la differenza tra videoclip e videoart<br />
applicata alla musica, potrebbe guardarsi i video di<br />
Selce o Fenice, e poi guardare un qualsiasi altro videoclip.<br />
Per quanto riguarda il canovaccio di partenza, abbiamo<br />
dato a Natalia piena libertà, anche perché la mia v<strong>is</strong>ione<br />
estetica dell’epica dei Ronin (l’eroe sconfitto, eccetera) è<br />
piuttosto maschia e invece volevo lasciare emergere la<br />
personalità della reg<strong>is</strong>ta.<br />
Narrare senza parole rende impegnativo decrittare il<br />
significato del video: ci si legge inquietudine, solitudine,<br />
aspettative d<strong>is</strong>illuse, rimasugli del passato, su<br />
cui aleggia la costante presenza della morte. Gli archi<br />
di Manzan sul finale, insieme agli stormi di uccelli in<br />
volo libero, arricch<strong>is</strong>cono le suggestioni musicali, ma<br />
c’è sempre un forte senso di malinconia..<br />
E’ quello che volevo: la v<strong>is</strong>ione dell’epica Ronin virata al<br />
femminile. L’intro è di un’angoscia quasi insostenibile,<br />
perché non ne capiamo il motivo. Quando poi ho letto<br />
che Natalia voleva girare delle immagini in un Luna<br />
Park, ho subito capito che ne avrebbe colto l’aspetto<br />
decadente. Questo vale anche per me: mettetemi a una<br />
festa e vedrete la versione più solitaria e malinconica di<br />
Bruno Dorella. La sensazione di <strong>is</strong>olamento in situazioni<br />
di euforia collettiva mi appartiene in pieno. Infine, il volo<br />
finale abbinato agli archi di Nicola Manzan è di grande<br />
forza evocativa e il nesso narrativo con la pesca dei cigni<br />
di plastica al Luna Park è geniale.<br />
A quasi un anno dall’uscita dall’omonimo CD da cui<br />
il brano è tratto, quale credi sia il pregio maggiore<br />
dell’ultima produzione targata Ronin?<br />
La reg<strong>is</strong>trazione casalinga, il sapore sanguigno dei pezzi<br />
che ricade anche sul suono, l’urgenza espressiva che<br />
è stata colta da critica e pubblico. Abbiamo voluto far<br />
passare il messaggio che si trattava di un d<strong>is</strong>co “vero” e<br />
sentito. Non che gli altri non lo fossero, ma la produzione<br />
patinata forse prevaricava il sentimento. Non so. Ma<br />
sono contento invece che su Fenice la gente abbia colto<br />
il messaggio.<br />
Com’è portare un d<strong>is</strong>co così “difficile” - dal punto di<br />
v<strong>is</strong>ta dell’impegno con cui l’hai scritto e reg<strong>is</strong>trato e<br />
del significato che ha per l’intera esperienza Ronin -<br />
in tour? Avete fatto un bel numero di date...<br />
Non so se fosse più o meno difficile degli altri. C’erano<br />
due brani che, a causa dei contributi esterni di grande<br />
spessore (la voce di Emma Tricca in It Was a Very Good<br />
Year ed i fiati di Enrico Gabrielli in Conjure Man) non<br />
potevano essere riproposti live. Ma questo è successo<br />
per ogni d<strong>is</strong>co. Mi tengo sempre un paio di brani che<br />
esulano dal set chitarre-basso-batteria, ben sapendo<br />
che poi, probabilmente, non potrò riproporli dal vivo.<br />
Suonare il d<strong>is</strong>co ogni sera ci ha permesso di migliorare<br />
e cementare l’unione anche col nuovo batter<strong>is</strong>ta Paolo<br />
Mongardi. La prima sera del tour, a Torino, mi ricordo che<br />
ero emozionat<strong>is</strong>simo.<br />
Abbiamo saputo dell’uscita di Chet dalla formazione.<br />
Il commiato dev’essere stato tra lo struggente e<br />
il cazzone, da quanto si è letto sulla vostra pagina<br />
facebook. Nel frattempo è arrivato Diego Pasini.<br />
Cambierà qualcosa nello stile del gruppo?<br />
Nel Luglio 2011, quando stavo per sciogliere il gruppo,<br />
Chet e Nicola vennero a Ravenna e mi convinsero a ripensarci.<br />
Da lì nacque Fenice. Ho dec<strong>is</strong>o di ritrovarci ogni<br />
anno a Luglio, per fare un bilancio dell’annata e capire<br />
chi c’è e chi non c’è. I Ronin non devono essere un cappio<br />
per nessuno. Chet ha dec<strong>is</strong>o che aveva dato e ricevuto<br />
dal gruppo quello che c’era da dare e ricevere. Siamo<br />
amici come prima e così dovrebbe essere sempre, se i<br />
rapporti sono limpidi e corretti. Gli auguro ogni bene<br />
coi Quasiviri. Diego è appena arrivato, abbiamo fatto un<br />
paio di reg<strong>is</strong>trazioni e un solo concerto. E’ giovane e ha<br />
una gran voglia di suonare. Ha portato nel gruppo una<br />
bella energia e una sana dose di tensione propedeutica.<br />
Ovo, Ronin, Bachi da Pietra sono i progetti che ti vedono<br />
impegnato attualmente. Cosa ti piace di ognu-<br />
no di essi e come cambia il tuo approccio - in termini<br />
strettamente musicali ma anche di attitudine - passando<br />
da una formazione all’altra?<br />
Cambia tutto in ogni gruppo: genere, strumento, attitudine.<br />
Negli OvO suono la batteria, il genere è in qualche<br />
modo riconducibile al no<strong>is</strong>e-rock, io e Stefania Pedretti<br />
ci dividiamo equamente le responsabilità compositive<br />
e organizzative. Nei Ronin suono la chitarra, scrivo io i<br />
pezzi e dirigo il gruppo e il genere è strumentale/cinematografico.<br />
Nei Bachi da pietra scrive e dirige Giovanni<br />
Succi, io suono la batteria in un ruolo di gregario d’oro<br />
che mi piace molto e il genere è più o meno affine alla<br />
canzone. Come vedi è tutto molto diverso, non corro il<br />
r<strong>is</strong>chio di m<strong>is</strong>chiare troppo o confondermi....<br />
Ultimamente il tuo alter ego nei Bachi da Pietra, Giovanni<br />
Succi, ha lavorato sul progetto La Morte con<br />
Rico di Uochi Toki. Come lo giudichi? Che ti pare del<br />
suo impegno nell’ambito dei reading inaugurato con<br />
Il Conte di Kevenhüller?<br />
A me sembra straordinario. In questo momento sono<br />
davvero pochi in Italia a scrivere e leggere con la sua<br />
intensità, nel mondo della musica. Il Conte di Kevenhüller<br />
mi ha coinvolto oltre ogni aspettativa, tanto che ora<br />
sto seguendo il blog (caproni.org) come se fosse un’avvincente<br />
serie TV. Ho v<strong>is</strong>to La Morte Dal Vivo al suo esordio,<br />
pochi giorni fa, e ne sono entusiasta, sono riusciti ad<br />
inventarsi un modo convincente di affrontare la lettura<br />
in musica, ed hanno margini di miglioramento tali che<br />
non mi stupirei se diventassero un “caso” nazionale. Se<br />
poi aggiungi che Rico Uochi Toki è anche il fonico degli<br />
OvO dal vivo, ecco che le mie sorti sono legate a doppio<br />
filo a La Morte. Ma non pensare che il mio giudizio su di<br />
essa sia ammorbidito da ciò, anzi... Sono severo censore<br />
di Rico e Giovanni, e loro lo sono per me. Ci diciamo<br />
sempre cosa ci piace e cosa no di quello che facciamo, è<br />
il modo migliore di aiutarsi a vicenda.<br />
Domanda inevitabile e certamente fuori tema, considerato<br />
l’argomento principale di questa interv<strong>is</strong>ta:<br />
puoi darci qualche anticipazione sul nuovo d<strong>is</strong>co dei<br />
Bachi da Pietra in uscita a Gennaio 2013?<br />
Sarà un d<strong>is</strong>co hard rock. Non scherzo.<br />
FAbrizio zAmpighi, SteFAno piFFeri<br />
6 7
Arriva Halloween e puntualmente torna The Soft Moon, questa volta con il secondo<br />
LP, Zeros. Nell’interv<strong>is</strong>ta esclusiva ci racconta l’evoluzione del progetto e del processo<br />
creativo, la collaborazione con John Foxx ed i retroscena dello scorso tour in Italia...<br />
The sOfT MOOn<br />
Adult, focused darkness<br />
The Soft Moon è nato come progetto estremamente<br />
introspettivo. A livello di reg<strong>is</strong>trazione, hai fatto nuovamente<br />
più o meno tutto per conto tuo anche per<br />
il nuovo album, Zeros? O questa volta hai preferito<br />
spostarti dalla tua “cameretta” allo studio?<br />
Ho scelto di scrivere anche il grosso di Zeros per conto<br />
mio e a porte chiuse, eppure questa volta ho finito per<br />
portare tutto il materiale che avevo reg<strong>is</strong>trato e prodotto<br />
(a metà) in uno studio professionale per espanderlo<br />
ulteriormente. The Soft Moon resta un progetto intro-<br />
spettivo e sempre lo sarà, in quanto le mie intenzioni<br />
sono tuttora quelle di guardarmi dentro per ragioni terapeutiche,<br />
così come di esprimere la mia creatività e le<br />
mie sensazioni.<br />
Che diresti della tua nuova musica? Dalle due canzoni<br />
di lancio, Die Life e Insides, mi è parso che dal punto<br />
di v<strong>is</strong>ta sonico tu abbia voluto prenderti un altro<br />
d<strong>is</strong>co per portare ancora avanti il tuo d<strong>is</strong>corso. Ma<br />
qualcosa è cambiato in termini di mood o punto di<br />
v<strong>is</strong>ta magari?<br />
Credo la differenza principale sia che Zeros tratta di prospettive<br />
della vita attraverso gli occhi e le orecchie del<br />
me stesso adulto, mentre invece il primo d<strong>is</strong>co puntava<br />
alla r<strong>is</strong>coperta dell’infanzia che mi sembrava di avere rimosso,<br />
oscurato. Approcciarmi a Zeros come adulto mi<br />
ha portato ad essere molto più focalizzato e prec<strong>is</strong>o. Ho<br />
sentito di avere molto più controllo che in precedenza<br />
nello sviluppo di questo d<strong>is</strong>co ed allo stesso tempo di<br />
poter continuare a lasciare che le cose semplicemente<br />
ven<strong>is</strong>sero da sè.<br />
Hai collaborato con l’ex-cantante degli Ultravox John<br />
Foxx e la sua band, <strong>the</strong> Maths, per il 7” Evidence che è<br />
uscito sempre per Captured Tracks lo scorso giugno.<br />
Come sei finito a lavorare con lui? Come è stato? Che<br />
hai ricevuto da questa collab in termini di esperienza/trucchi<br />
del mestiere?<br />
John Foxx mi ha contattato un paio d’anni fa proponendomi<br />
una possibile collaborazione. Tutt’oggi non so bene<br />
come avesse scoperto The Soft Moon. In ogni caso, poco<br />
dopo che mi contattò, io e la band avevamo uno show<br />
f<strong>is</strong>sato a Londra, così lo m<strong>is</strong>i in l<strong>is</strong>ta per d<strong>is</strong>cuterne nel<br />
backstage. Pochi mesi dopo il nostro incontro mi mandò<br />
qualcosa su cui lavorare: una sequenza interessant<strong>is</strong>sima<br />
che aveva creato usando uno dei miei sintetizzatori<br />
preferiti, l’Arp Odyssey. Dal canto mio, avendo amato alla<br />
follia il suo primo album, ho dec<strong>is</strong>o di spingere in quella<br />
direzione, sperando di echeggiare un qualche tipo di nostalgia<br />
per entrambi e allo stesso tempo di creare qualcosa<br />
di fresco. Dopo una serie di back and forth di r<strong>is</strong>pettive<br />
idée siamo alla fine arrivati ad aver per le mani un pezzo<br />
incredibile. Ciò che ho guadagnato da questa esperienza<br />
è stata la realizzazione di non essere poi davvero il lupo<br />
solitario che pensavo e quindi effettivamente di poter<br />
lavorar bene con altre persone.<br />
Ho notato che il nuovo album uscirà il giorno prima di<br />
Halloween, esattamente come fu per l’EP dello scorso<br />
anno, Total Decay. Questo non è altrettanto valido per<br />
il tuo s/t del 2010 ma immagino possa magari essere<br />
perchè all’epoca non avevi lo stesso controllo del tuo<br />
progetto che puoi vantare ora. Per cui ti chiedo: è una<br />
sorta di via figurata che ti sei scelto per incanalare e<br />
rilasciare le atmosfere tetre, l’oscurità e le paure che<br />
stanno in piedi con la tua musica dove popolarmente<br />
appergono?<br />
Total Decay doveva in realtà uscire esattamente per<br />
Halloween. Per qualche ragione non ho preso l’EP tanto<br />
seriamente quanto i full-lenght ed è per questo che<br />
mi è stato bene ven<strong>is</strong>se rilasciato in corr<strong>is</strong>pondenza di<br />
tale festività, mentre in un’altra situazione tale mossa<br />
mi avrebbe fatto sentire piuttosto “fasullo”. In ogni caso<br />
per quella release il timing era corretto e mi sembrò una<br />
buona idea. Il fatto che Zeros esca in data similare è una<br />
coincidenza. La scelta riguarda piuttosto il lanciarlo in<br />
autunno, in quanto sento le sue sonorità come particolarmente<br />
adatte per questa stagione. Ma hai ragione:<br />
ironicamente [quella delle uscite sotto Halloween] potrebbe<br />
diventare una vera e propria tradizione per The<br />
Soft Moon.<br />
Parlando di touring, dobbiamo onestamente ammettere<br />
che il tuo concerto dello scorso anno a Bologna<br />
fu ben lungi dall’essere pubblicizzato a dovere. È andato<br />
così male in termini di r<strong>is</strong>posta del pubblico da<br />
averti convinto a saltare a piedi pari l’Italia nella tua<br />
prossima tour-leg europea? O hai in programma di<br />
tornare comunque presto a farci v<strong>is</strong>ita?<br />
A dir la verità, quella data mi piacque molto e anzi finì<br />
per diventare uno dei miei personali highlight di quel<br />
tour. L’affluenza è stata persino migliore di quanto mi<br />
aspettassi, considerando che prima di allora non avevo<br />
mai sentito parlare di Bologna. Inoltre, nonostante sia<br />
vero che i sold-out si fecero a Milano e Roma, fu effettivamente<br />
in occasione di quella performance che ho<br />
percepito la connessione più forte col pubblico. Sarò di<br />
ritorno in Italia a Marzo 2013!<br />
mASSimo rAnCAti,<br />
8 9
L’interv<strong>is</strong>ta esclusiva al leader di uno dei club più importanti al mondo, il Circus di<br />
Liverpool. Arrivato al suo secondo album, Yousef vuol andare oltre la consolle.<br />
YOusef<br />
The Importance Of Being (more than) a DJ<br />
Ha compiuto a Settembre 10 anni di gloriosa attività, il<br />
Circus Club di Liverpool, e non vogliamo immaginare<br />
cosa devono essere stati i festeggiamenti con dietro la<br />
consolle Sasha, Seth Troxler, Maceo Plex, David Squillace<br />
e Lew<strong>is</strong> Boardman. Ovviamente c’era anche lui,<br />
Yousef, il fondatore del club, il responsabile del prestigio<br />
degli eventi Circus, che negli anni passati hanno ospitato<br />
nomi come Laurent Garnier, Luciano, Richie Hawtin,<br />
Ricardo Villalobos, Sven Vath, Carl Cox e avviato le<br />
carriere DJ degli allora giovan<strong>is</strong>simi Jamie Jones, Seth<br />
Troxler e Loco Dice. Era dietro alla consolle, preso come<br />
sempre a offrire al pubblico il più elettrizzante evento<br />
<strong>house</strong> di cui è capace, ma alemo una volta la sua mente<br />
sarà andata al suo nuovo album A Product Of Your<br />
Environment, al suo sottile smarcamento dalla dimensione<br />
club e alle recenti, nuove ambizioni di producer.<br />
Una differenza che si nota, se rapportata al primo A Collection<br />
Of Scars And Situations. Se quello era l’album<br />
fatto per il suo pubblico, che raccoglieva pezzi già noti<br />
ai frequentatori del club, il nuovo album ha voglia di<br />
offrire anche una differente prospettiva d’ascolto. Accanto<br />
a hit da dancefloor come Think Twice o In Fear Of<br />
Dusk, che restano comunque il marchio di fedeltà del<br />
producer britannico, compaiono anche pezzi più lenti<br />
e densi di suggestioni esotiche come What Is Revolution<br />
o una prova di coraggio dall’ambizione pop come I<br />
See, arricchita dalla sezione cantata di Chari Taft. Anche<br />
Yousef, insomma, vuole un orizzonte più ampio del solo<br />
ambiente club, ambizione che prima o poi coinvolge<br />
tutti i DJ dotati di capacità di producing.<br />
L’obiettivo, come dice lui stesso, è invogliare la gente<br />
ad ascoltare ed apprezzare l’album anche in cuffia, una<br />
mossa importante anche quando non riesce alla perfezione,<br />
volta ad evolvere un rapporto consolidato DJpubblico<br />
oltre la p<strong>is</strong>ta e trasformarlo in un legame più<br />
profondo e affezionato. È per questo che Yousef appare<br />
così entusiasta nell’interv<strong>is</strong>ta che segue: sta scoprendo<br />
di essere qualcosa in più che solo un DJ, e vedere che<br />
sono in molti ad accorgersene significa che sta andando<br />
nella giusta direzione.<br />
Ciao Yousef,parlaci dello spirito di A Product Of Your<br />
Environment e di come si differenzi r<strong>is</strong>petto all’album<br />
precedente.<br />
Il nuovo album era pensato come produzione in studio<br />
fin dall’inizio, mentre l’altro alla fine era una serie di tracce<br />
precedenti messe insieme. A Product Of Your Evnironment<br />
vuole raccontare una storia, essere ascoltato<br />
dall’inizio alla fine. Ha molti momenti club ma è più che<br />
una serie di tracce da dancefloor, ho voluto mettermi<br />
alla prova lato <strong>house</strong> e techno, coinvolgendo anche elementi<br />
live.<br />
Possiamo dire che il nuovo album ha un maggiore<br />
appeal d’ascolto? Penso a tracce come What Is Revolution<br />
o I See...<br />
Sì, l’idea era quella, farmi conoscere anche come producer<br />
e art<strong>is</strong>ta, non solo come DJ. Sono sempre un DJ prima<br />
di tutto, ma so bene che tanti album fatti dai DJ si fin<strong>is</strong>ce<br />
per non ascoltarli mai fino alla fine. Mi sono sforzato di<br />
fare un lavoro che vale il tempo speso dall’ascoltatore,<br />
e poi magari dopo l’ascolto il DJ può tirar fuori le tracce<br />
più forti per il club. Il progetto è in equilibrio tra l’ascolto<br />
in casa o in macchina e i momenti in p<strong>is</strong>ta. Pezzi come<br />
Feel The Same Thing, For The Terraces, In Fear Of Dusk son<br />
già finite nei set di Marco Carola, Loco Dice, Carl Cox,<br />
Magda, Nic Fanciulli e altri.<br />
Cosa si aspetta la gente da un album del leader del<br />
Circus? Ti senti forzato a far musica che rifletta le notti<br />
nel club, o sei libero di provare quello che vuoi?<br />
Al Circus c’è sempre <strong>house</strong> e techno di qualità, chiamiamo<br />
i migliori DJ ma li incoraggiamo anche a prendere<br />
iniziativa e mettere nuova musica. Come DJ e come capo<br />
del Circus ovviamente voglio sempre spaccare nel dancefloor,<br />
ma stavolta ho voluto spingermi oltre. Molti dei<br />
pezzi dell’album sono già degli inni al Circus, intendiamoci,<br />
ma l’album è pensato come qualcosa in più della<br />
semplice dimensione club, ho voluto una maggiore<br />
libertà.<br />
In quest’album ho sentito suoni meno urbani. Qualcosa<br />
di più jazzy, esotico, come serate estive ballando<br />
in spiaggia. È il tuo modo di evadere?<br />
Grazie. Ascolto ogni tipo di musica e ho viaggato molto<br />
quindi sono aperto a ogni influenza. Mi piace pensare<br />
che la musica porti l’ascoltatore alla deriva e lo spinga<br />
ad ascoltare le melodie e i testi (che scrivo anch’io da<br />
me). Ogni traccia è una storia che ho voluto raccontare.<br />
Quest’album mette in mostra tutte le potenzialità<br />
della <strong>house</strong>: la melodia, l’immaginazione, il movimento,<br />
l’orientamento pop, il clubbing... es<strong>is</strong>te uno<br />
stile più flessibile di questo?<br />
Grazie di nuovo, son contento che tu abbia compreso<br />
cosa ho tentato di fare. È stato un progetto molto personale,<br />
per me. I pezzi sono mixati in modo da suonare<br />
gentili all’orecchio e forti nel club. Concordo, la <strong>house</strong> è<br />
molto flessibile. Dicono che la <strong>house</strong> è musica di sensazione<br />
e se sono riuscito a infondere sensazioni alla gente,<br />
allora posso ritenermi sodd<strong>is</strong>fatto.<br />
Il tuo club ha celebrato da poco dieci anni di attività.<br />
Com’è stata la festa?<br />
Sì, è stato un viaggio folle. Dagli inizi umili al diventare<br />
club UK dell’anno a ospitare il 500esimo Essential mix<br />
party di BBC Radio. Ormai abbiamo chiamato chiunque,<br />
Hawtin, Cox, Villalobos, Carola, offerto a DJ come<br />
Loco Dice e David Squillace i loro primi concerti in UK,<br />
ospitato gente sconosciuta come Seth Troxler e Jamie<br />
Jones nei loro primi set di r<strong>is</strong>caldamento tanti anni fa.<br />
Cerchiamo sempre di fare il party più divertente possibile.<br />
Il sabato del nostro decimo compleanno è stato incredibile,<br />
Seth, Sasha, Davide, Maceo Plex e ovviamente<br />
anch’io. È bell<strong>is</strong>simo aver raggiunto dieci anni.<br />
Quali sono i tuoi producer preferiti al momento?<br />
Ci son molti stili che apprezzo, Maceo Plex, Davide<br />
Squillace, Nicole Mouderber, Just Be, Tom Flynn,<br />
Lew<strong>is</strong> Boardman, Dj Sneak, Hot Since 82, Butch, etichette<br />
come Cadenza, Desolat, Intec, Ellum Audio e Cecille.<br />
Chiunque produca un buon sound, la cui music sia<br />
interessante, abbia sentimento, spacchi in p<strong>is</strong>ta e sia più<br />
originale possibile.<br />
Prossimi obiettivi?<br />
Sto già lavorando ad alcune tracce per clubbing. Più<br />
tagliate del mio album, studiate per far ballare e stare<br />
bene. Ne ho già pronte 5, le farò uscire dopo l’album.<br />
Continuo a organizzare eventi Circus a Liverpool, Londra<br />
e New York e penso ancora di allargare il raggio d’azione<br />
(forse Italia?). L’etichetta Circus è presa a bloccare nuovi<br />
talenti. Sono sempre al lavoro e in viaggio. Ora comincia<br />
anche il tour dell’album, America, Sud America, Asia,<br />
Australia e un’infinità di concerti in Europa.<br />
Il DJing è la mia passione, e così anche far musica.<br />
CArlo AFFAtigAto<br />
10 11
John Cale<br />
Le shifty adventures di un giovane settantenne<br />
Un nuovo album, una r<strong>is</strong>tampa celebrativa del debutto dei Velvet<br />
Underground, un imminente tributo live a Nico a Brooklyn e altri<br />
ottimi motivi per parlare oggi dell’eclettico pioniere del rock<br />
Ci sono molti buoni motivi per tornare a parlare, nel<br />
2012, di mr. John Davies Cale. Certo, questo è l’anno<br />
della riedizione celebrativa (anche in veste super deluxe)<br />
di The Velvet Underground and Nico, ma anche quello che<br />
segna il suo ritorno d<strong>is</strong>cografico - anticipato lo scorso<br />
anno dall’Ep Extra Playful, primo tassello della collaborazione<br />
con l’etichetta Domino - con l’album Shifty<br />
Adventures In Nookie Wood. I più fortunati lo vedranno<br />
anche alla BAM Howard Gilman Opera House di Brooklyn,<br />
il prossimo gennaio, alle prese con Life Along <strong>the</strong><br />
Borderline: A Tribute To Nico insieme ad altri ospiti e con<br />
la riv<strong>is</strong>itazione integrale del già riproposto Par<strong>is</strong>, 1919<br />
(ancora oggi tra i suoi lavori più accessibili), che festeggerà<br />
quaranta primavere.<br />
Shifty Adventures in Nookie Wood, dicevamo. In Inghilterra<br />
possono vederci un riferimento allusivo all’amplesso<br />
(“Do you wanna have some nookie?” sembra sia<br />
un’espressione che lascia poco spazio all’immaginazione),<br />
eppure il senso del titolo è più complesso, tetro<br />
e stravagante: l’<strong>is</strong>pirazione arriva nientemeno che<br />
dal Giappone, dalla foresta Aokigahara (“Il mare degli<br />
testo: Alessandro Liccardo<br />
alberi”), resa famosa nei primi anni Sessanta da Seicho<br />
Matsumoto e celebre ancora oggi in tutto il mondo per<br />
l’incredibile tasso di suicidi (si parla di una media di trenta<br />
all’anno) che si verificano da quelle parti.<br />
Nato nel Galles ma arrivato a New York a ventun anni,<br />
Cale attirò le attenzioni di Aaron Copland e fu attivo<br />
nell’avanguardia prima di fondare insieme a Lou Reed<br />
(col quale si è ricongiunto tanti anni più tardi per Songs<br />
For Drella) una delle band più influenti di tutti i tempi.<br />
Sebbene di solito si associ l’immagine ad altri art<strong>is</strong>ti<br />
come David Bowie e Madonna, quella del “camaleonte”<br />
gli si addice particolarmente: se Par<strong>is</strong>, 1919 è la sua<br />
v<strong>is</strong>ione del chamber pop, è anche vero che si deve a<br />
lui la produzione del debutto proto-punk degli Stooges<br />
datato 1969 e di Horses di Patti Smith, tanto per<br />
citare due d<strong>is</strong>chi passati alla storia. Amante del r<strong>is</strong>chio,<br />
delle novità, ci ha insegnato come anche il suono della<br />
viola può “dronare” e, prima di Jeff Buckley, k.d. lang e<br />
un’infinità di colleghi che l’hanno aggiunta al proprio<br />
repertorio, ha riconosciuto la bellezza di Hallelujah di<br />
Leonard Cohen, che interpretò per il tribute album I’m<br />
12 13
Your Fan. La recente, interessante compilation Conflict<br />
& Catalys<strong>is</strong>: Productions & Arrangements 1966-2006 ben<br />
incapsula il suo ampio e variegato curriculum art<strong>is</strong>tico<br />
(tra i suoi partner di lusso ci sono i Modern Lovers, gli<br />
Squeeze, gli Happy Mondays e i Jesus Lizards); dopo<br />
esserre sempre stato avanti nelle intuizioni, negli anni<br />
Novanta si è crogiolato un po’ con art<strong>is</strong>ti-simbolo della<br />
new wave del decennio precedente come Siouxsie (The<br />
Rapture) e Marc Almond (è lui a suonare il piano in Love<br />
To Die For e Come In Sweet Assassin, quest’ultimo uno dei<br />
pochi momenti davvero riusciti nel farraginoso Fantastic<br />
Star dell’ex cantante dei Soft Cell). Ora ci racconta che la<br />
sua passione è l’hip-hop - cita Erykah Badu, Dr. Dre, Eminem<br />
- ma è difficile non intuire che nella sua proposta<br />
c’è anche molta nu-new wave.<br />
Nookie Wood è un d<strong>is</strong>co di contrasti, mescola mood diversi,<br />
con coraggio e il più delle volte con successo. Per<br />
il precedente blackAcetate del 2005 John Cale compose<br />
le canzoni al piano e alla chitarra, ma stavolta - racconta<br />
- ha scelto un approccio meno ortodosso. C’è molto<br />
studio, ma anche molta improvv<strong>is</strong>azione (Cale qui suona<br />
quasi tutti gli strumenti). C’è l’AutoTune che fa capolino,<br />
per esempio, in December Rain (più Pet Shop Boys<br />
dei Pet Shop Boys stessi!). Poi c’è Danger Mouse (Gnarls<br />
Barkley, ma anche i Broken Bells con James Mercer degli<br />
Shins), già all’opera con i Black Keys, Norah Jones (Little<br />
Broken Hearts), i Gorillaz e Beck, che si diverte in una<br />
jam session con l’eterno ragazzo settantenne dal ciuffo<br />
improbabile.<br />
John Cale non ama parlare del proprio passato (“lo riv<strong>is</strong>ito<br />
giusto quando devo creare setl<strong>is</strong>t per i miei concerti”),<br />
ma a ripercorrerlo oggi ci pensano, con riverenza,<br />
art<strong>is</strong>ti come Agnes Obel (che ha riletto Close Watch per<br />
Philharmonics) e gli Awesome New Republic (Fear Is<br />
A Man’s Best Friend). L’art<strong>is</strong>ta ha smesso da tempo di<br />
assumere droghe (quella più forte adesso, rivela, è il<br />
caffè) ma non ha perso la voglia di stupire, di stare attento<br />
alla nuova musica che lo circonda, perfettamente<br />
sintonizzato con gli umori del nostro tempo (già in<br />
Hobosapiens del 2003 si respirava aria di Beta Band,<br />
Elbow e Radiohead).<br />
Com’è nato questo nuovo lavoro? C’è qualcosa di<br />
radicalmente nuovo, in termini di produzione e soprattutto<br />
di songwriting, r<strong>is</strong>petto a quanto già inc<strong>is</strong>o<br />
negli ultimi dieci anni?<br />
Sì, spero lo si possa avvertire chiaramente. E’ quello che<br />
cerco di fare ogni volta, creare qualcosa di totalmente<br />
nuovo, perché non mi piace ripetermi quando compongo<br />
nuova musica. L’elemento dell’electronica è molto<br />
importante - non ho scritto i nuovi brani al piano o alla<br />
chitarra, stavolta; spesso si è partiti da una linea di basso,<br />
dalla batteria, da un hook.<br />
Quando entri in studio hai già qualche idea o molto<br />
nasce durante le jam session? Mi rifer<strong>is</strong>co in particolare<br />
al brano con Danger Mouse, I Wanna Talk 2 U..<br />
Con Danger Mouse è nato tutto esattamente così, improvv<strong>is</strong>ando,<br />
sviluppando un’idea strada facendo. Un<br />
processo compositivo bottom-up, come potremmo definirlo.<br />
Ho ascoltato Shifty Adventures In Nookie Wood e lo<br />
trovo straordinariamente vicino alla nu-new wave<br />
che abbiamo ascoltato nel corso del decennio precedente.<br />
Questo lo rende classico e, allo stesso tempo,<br />
“fresco”. Che tipo di musica ascolti oggi? Quale ti<br />
influenza di più?<br />
Dunque.. direi Dr. Dre.. mi piace molto Eminem, per<br />
come stende i propri testi, delle vere storie “estese”. C’è<br />
molta black music tra i miei ascolti, è un qualcosa che ho<br />
cercato di fare mio (lo si può notare nel brano Vampire<br />
Cafe..). Mi piacciono molto certe tracce ritmiche sloppy,<br />
ecco. Nell’era del digitale sembra tutto più semplice, ma<br />
c’è ancora spazio per l’inusuale: ho scritto la parte del<br />
piano di Face To The Sky sull’iPad, che però non ha configurazione<br />
Midi.. C’è molta elettronica in questo d<strong>is</strong>co,<br />
ma non sostitu<strong>is</strong>ce del tutto gli altri strumenti. Semmai<br />
li completa: il batter<strong>is</strong>ta (Michael Jerome Moore, ndr) ha<br />
il proprio spazio nella scena sonora.<br />
Spesso quando pensiamo a John Cale ci viene in<br />
mente il music<strong>is</strong>ta sperimentatore, avanguard<strong>is</strong>ta.<br />
Eppure qui emerge molto il tuo lato di storyteller..<br />
Anche di vero e proprio “commentatore sociale”, per<br />
esempio in Mary in cui affronti con delicatezza il tema<br />
del bull<strong>is</strong>mo omofobico, ahimé sempre attuale.<br />
È sempre stato così. Non interessa cosa fai: sei sempre,<br />
inevitabilmente, un commentatore sociale. Poi chiaro,<br />
cantautore “di protesta” non lo sono stato mai, però di<br />
tanto in tanto sento il b<strong>is</strong>ogno di dire la mia su argomenti<br />
che ritengo importanti.<br />
Come scegli i pezzi per i tuoi concerti?<br />
Non ho una regola prec<strong>is</strong>a, tutto dipende da come si<br />
inser<strong>is</strong>cono nel contesto - specie se il set contiene molt<strong>is</strong>simo<br />
nuovo materiale. Anche come d<strong>is</strong>pongo i brani<br />
in s<strong>cale</strong>tta dipende dal mood e da cosa voglio trasmettere<br />
al pubblico - quindi con quale pezzo partire, quali<br />
inserire a metà e quali eseguire in chiusura.<br />
Recentemente hai suonato dal vivo a Chicago insie-<br />
me ad art<strong>is</strong>ti come Bobby Womack e Zola Jesus. Trovo<br />
interessante che quest’ultima richiami Siouxsie<br />
e Patti Smith, due art<strong>is</strong>te rock con una personalità<br />
molto forte con cui hai lavorato nel corso della tua<br />
carriera. Come vedi, oggi, il ruolo delle donne nel<br />
rock e nel cantautorato?<br />
Trovo che Zola sia fantastica! Le donne oggi sono più<br />
presenti che in passato, emergono ottimi talenti, il loro<br />
ruolo è più forte, più energico. Tutto questo non può<br />
che essere positivo.<br />
Pochi mesi fa è uscito un documentario nel Regno<br />
Unito, Last Shop Standing, sul boom e sull’attuale cr<strong>is</strong>i<br />
dei record shop indipendenti. Se da una parte notiamo<br />
che sempre meno persone acqu<strong>is</strong>tano cd nei<br />
negozi, dall’altra c’è il grande ritorno del vinile. Che<br />
ne pensi?<br />
Non so.. oggi esce un d<strong>is</strong>co, si fa il CD, il vinile, poi ci<br />
sono i download... a me tutte queste edizioni sembrano<br />
il più delle volte strategie volte a confondere l’attenzione<br />
della gente. Però ritengo ancora importante il ruolo<br />
dei record shop indipendenti: non solo sono luoghi in<br />
cui è ancora possibile confrontarsi con appassionati, ma<br />
c’è un legame speciale tra questi e le band emergenti<br />
che giungono, per esempio, a proporre il loro primo Ep..<br />
Quest’anno abbiamo celebrato il centenario della<br />
nascita di John Cage. Un tuo ricordo particolare del<br />
maestro?<br />
Di Cage ricorderò sempre l’approccio peculiare alla performance,<br />
mai eguagliato dai suoi epigoni. Va fatta attenzione<br />
ai suoi Pieces, al modo in cui sono organizzati.<br />
John, inoltre, non era proprio il tipo di persona cui si<br />
poteva dare ordini.<br />
Ti vedremo dal vivo in Italia?<br />
È ancora tutto da definire. Penso che ci vedremo nel<br />
2013.<br />
14 15
Scott<br />
Walker<br />
La parabola art<strong>is</strong>tica di un genio<br />
musi<strong>cale</strong> contemporaneo che si<br />
spinge continuamente al di là dei<br />
propri limiti. Un outsider assoluto<br />
e una ind<strong>is</strong>cutibile lezione di stile.<br />
Testo: Teresa Greco<br />
Ant<strong>is</strong>tAr<br />
16 17
Due flash, in ordine sparso. Q Awards 2003, apparizione assolutamente rara:<br />
uno Scott Walker spaurito, dimesso ma dall’inarrivabile car<strong>is</strong>ma riceve un<br />
premio speciale alla carriera dalle mani del fan Jarv<strong>is</strong> Cocker, pronunciando<br />
un brev<strong>is</strong>simo ringraziamento, contornato per la maggior parte da stelline<br />
in una scontata fiera delle vanità. 8 gennaio 1997, in occasione del suo cinquantesimo<br />
compleanno in diretta alla BBC, David Bowie viene omaggiato<br />
da una serie di d<strong>is</strong>cepoli-fan, tra i quali Brett Anderson, Damon Albarn e<br />
Bono. Sicuramente inaspettata è la telefonata di Scott: “Come tutti, anch’io<br />
allora vorrei ringraziarti per quello che hai fatto in questi anni, in particolar<br />
modo per la generosità d’animo che hai mostrato verso i tuoi colleghi. Ne sono<br />
stato il beneficiario in più di una occasione, lasciatelo dire”. La commovente<br />
dedica del maestro all’allievo testimonia dei rapporti di stima profondi tra<br />
i due e di come in verità quanto detto da Walker al Duca Bianco valga in<br />
realtà per se stesso, assoluto pioniere e <strong>is</strong>piratore negli anni per decine di<br />
art<strong>is</strong>ti, che da un certo punto in poi della sua carriera gli hanno riconosciuto<br />
i meriti dovuti. Si veda anche a questo proposito il documentario di Stephen<br />
Kijak uscito nel 2006, Scott Walker 30 Century Man, con le sue numerose<br />
testimonianze, da Brian Eno a Bowie, dai Radiohead a Johnny Marr, da<br />
Neil Hannon dei Divine Comedy a Simon Raymonde (Cocteau Twins) fino<br />
a Jarv<strong>is</strong> e Marc Almond.<br />
Ant<strong>is</strong>tar per eccellenza, l’art<strong>is</strong>ta americano ha l’assoluto merito di avere una<br />
carriera qualitativamente straordinaria che dura ormai da diversi decenni, di<br />
essere sopravv<strong>is</strong>suto a fama e celebrità giovanili negli anni ‘60 con la gabbia<br />
dorata dei Walker Bro<strong>the</strong>rs, sorta di r<strong>is</strong>posta ai Beatles nonché in un certo<br />
senso precursori raffinati delle boy-band che sarebbero venute, di aver avuto<br />
il coraggio di annullarsi e ripartire più volte e di aver intrapreso, a un certo<br />
punto della carriera sin da metà ‘80, un percorso “altro” di musica sperimentale<br />
coraggioso e inarrivabile, da outsider al di fuori di mode e v<strong>is</strong>ibilità, per<br />
andare continuamente al di là dei propri limiti, perseguendo in tal modo<br />
un d<strong>is</strong>egno coerente e alto. E riuscendo in pieno a scomparire progressiva-<br />
mente come persona pubblica, per rifondarsi ed esprimersi art<strong>is</strong>ticamente<br />
al meglio.<br />
WALker fAme<br />
Ovvero come un ragazzo di Hamilton, Ohio riesce ad arrivare a Londra negli<br />
anni Sessanta con la deflagrante esplosione pop dei Walker Bro<strong>the</strong>rs.<br />
Il ragazzo in questione nasce il 9 gennaio 1943 come Noel Scott Engel da<br />
una famiglia benestante di origine tedesca, figlio unico di una coppia che<br />
non durerà a lungo. Il nomad<strong>is</strong>mo, l’essere solitario per natura e a quanto<br />
pare una vena ribelle caratterizzerà la sua infanzia, fino al trasferimento da<br />
Dallas a New York, dove avviene l’incontro con la musica, che lo segnerà. Ha<br />
meno di dodici anni quando accompagna un amico per un’audizione e viene<br />
scelto lui, nella più classica delle circostanze. Si ritrova così ad avere una<br />
parte, faccia d’angelo dai biondi capelli, nel musical Pipedream di Rodgers<br />
& Hammerstein; vi partecipa per un anno e mezzo non troppo volentieri<br />
e questo gli consente l’ingresso nello show biz. Scotty Engel, “baritono da<br />
Denver” come viene ormai presentato, ha per modelli Elv<strong>is</strong> Presley e Frankie<br />
Lymon ed esord<strong>is</strong>ce nel ‘57 per la RKO con il 45 When Is A Boy A Man /<br />
Steady As A Rock, a cui seguirà altro materiale abbastanza trascurabile in<br />
stile rockabilly e doo-wop, cantato con una voce da adolescente che non è<br />
ancora quella che ben si conosce.<br />
Si trasfer<strong>is</strong>ce a Los Angeles nel ‘59 dove però non va come prev<strong>is</strong>to e qui<br />
conosce precocemente le delusioni di una mancata affermazione. A poco<br />
più di 18 anni comincia intanto a prendere forma il suo gusto estetico ed<br />
intellettuale, fatto di fascinazione per l’Europa, a base di Federico Fellini,<br />
Ingmar Bergman, Jean-Paul Sartre, Albert Camus.<br />
Ci riprova allora con il contrabbasso, abbandonando per il momento il canto,<br />
diventando un ricercato sessionman, per poi continuare facendosi le ossa<br />
nell’ambiente. Più o meno a questo punto incontra un certo John Maus,<br />
biondo chitarr<strong>is</strong>ta californiano che avrebbe impartito, secondo la leggenda,<br />
lezioni a un giovan<strong>is</strong>simo Carl Wilson. Scott entra come bass<strong>is</strong>ta nella<br />
sua band, Walker Family, che dopo la fuoriuscita della sorella di John, Judy,<br />
prende il nome di Walker Bro<strong>the</strong>rs. Non sono ancora quei Walker Bro<strong>the</strong>rs,<br />
canta John e perlopiù fanno i sessionmen. Nel giro di un anno si esib<strong>is</strong>cono<br />
nel giro che conta e ottengono alla fine del ‘64 un contratto con la Mercury,<br />
per cui pubblicano un deludente singolo di debutto, Pretty Girls Everywhere<br />
(cover di una hit r’n’b del ‘58 di Eugene Church); intanto Scott ha sviluppato<br />
una passione per crooner quali Frank Sinatra e Tony Bennett. L’occasione<br />
giusta arriva al secondo singolo su Mercury, Love Her (firmato Mann / Weil),<br />
la cui produzione va ai veterani Nick Venet e Jack Nitzche; trattasi di superballad<br />
per la cui voce non va bene quella di John, ed ecco come nascono<br />
i veri Walker Bro<strong>the</strong>rs con la voce cald<strong>is</strong>sima di Scott. Il pezzo ha il wall of<br />
sound spectoriano, le armonie al loro posto e finalmente la formula adatta.<br />
E di lì a non molto progettano una Brit<strong>is</strong>h Invasion, emigrando a Londra nel<br />
febbraio ‘65. L’idea è del nuovo batter<strong>is</strong>ta, Gary Leeds, un breve passaggio<br />
negli Standells, del quale più che le doti musicali (non partecipò a nessuna<br />
inc<strong>is</strong>ione del gruppo negli anni ‘60 e dal vivo era doppiato..) contano<br />
quelle organizzative. L’idea è quella di far diventare i Walkers più famosi dei<br />
Beatles e con questo progetto in mente tentano la strada d’oltreoceano. Ci<br />
riescono di lì a non molto, raggiungendo il #1 con il terzo singolo, Make It<br />
Easy On Yourself (Bacharach / David). Ed è Walkermania, con il personaggio<br />
18 19
m<strong>is</strong>terioso e fascinoso di Scott, biondo e occhiali scuri, es<strong>is</strong>tenzial<strong>is</strong>ta ed<br />
europeo ma dal caldo crooning americano, ed intorno l’industria del pop<br />
aureo degli anni ‘60, con grandi autori, arrangiatori ed interpreti. Trattasi di<br />
ballad melodrammatiche, perlopiù, come My Ship Is Coming In e The Sun Ain’t<br />
Gonna Shine Anymore, che fece strage di classifiche nell’estate ‘66. Il bilancio<br />
è di tre LP realizzati in tre anni più alcuni singoli, la cui qualità è variegata,<br />
che hanno dietro Scott soprattutto dal punto di v<strong>is</strong>ta art<strong>is</strong>tico, insieme al<br />
produttore Johnny Franz e ad arrangiatori come Ivor Raymonde (il papà di<br />
Simon dei Cocteau Twins e della Bella Union) e Reg Guest (gli stessi dietro<br />
a Dusty Springfield). Take It Easy With The Walker Bro<strong>the</strong>rs (Philips, 1965) è<br />
il debutto sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, una sorta di versione più lucidata del wall of<br />
sound spectoriano; Portrait (Philips, 1966) è più drammatico e lascia spazio ai<br />
singoli membri, Scott con Saturday’s Child (una sorta di River Deep Mountain<br />
High) e Where’s The Girl di Leiber / Stoller; seguono alcune sue ottime b-side,<br />
come Archangel e Mrs. Murphy. Scott comincia intanto a stare sempre più<br />
per conto suo d<strong>is</strong>taccandosi dagli eccessi da popstar degli altri Walkers. E<br />
prendendone sideralmente le d<strong>is</strong>tanze. Come si evince in Images (Philips,<br />
1967) ultimo d<strong>is</strong>co dei “fratelli”, dove i suoi pezzi svettano: la drammatica<br />
Orpheus, la stramba Experience e la romantica Genevieve. L’esperienza Walker<br />
Bro<strong>the</strong>rs è ormai agli sgoccioli, poco successo dei singoli e le ambizioni di<br />
John verso una carriera sol<strong>is</strong>ta fanno il resto.<br />
four soLos<br />
1967, 1968, 1969: sono i tre anni che vedono l’uscita dei primi quattro d<strong>is</strong>chi<br />
sol<strong>is</strong>ti del Nostro e il suo affermarsi come songwriter raffinato; da un lato il lascito<br />
“commerciale” dei Walkers e il personaggio, l’idolo delle ragazzine, dall’altro<br />
l’emergere della personalità poliedrica di Scott, il decadente interprete<br />
dello chansonnier francese Jacques Brel nelle empatiche traduzioni inglesi<br />
di Mort Shuman, e infine l’intellettuale curios<strong>is</strong>simo che divora classica, avanguardia,<br />
letteratura e cinema. E tutto va allora a confluire nella produzione di<br />
questi anni. Il primo Scott (Philips, 1967) viene premiato commercialmente da<br />
un terzo posto in classifica e vede la presenza di una serie di cover di Brel, la<br />
drammatica Mathilde e le siderali My Death e Amsterdam, verso le quali Bowie<br />
si rivolgerà presto, nonché Jackie. Non mancano le originali di qualità, come la<br />
Montague Terrace (In Blue), song orchestrale e alcune canzoni più vicine a un<br />
gusto popolare. Il successivo Scott 2 (Philips, 1968) fin<strong>is</strong>ce al primo posto delle<br />
classifiche, trainato dal singolo abbastanza facile Joanna, mentre si segnala<br />
un gioiellino del calibro della psichedelica Plastic Palace People.<br />
È a questo punto che, al culmine della popolarità, la BBC gli offre una serie<br />
TV: possiamo solo immaginare come fossero andati quei sei ep<strong>is</strong>odi trasmessi<br />
, non essendone rimasto niente, a causa del riutilizzo dei nastri. Certo è<br />
che il suo desiderio di privacy mal si concilia, con il passare del tempo, con<br />
le esigenze del music biz, come si sarebbe v<strong>is</strong>to di lì a poco. Il seguente Scott<br />
3 (Philips, 1969) è quasi tutto suo, a parte tre cover breliane in coda (Sons<br />
Of, Funeral Tango e If You Go Away); un preludio di quello che sarebbe stato<br />
il sublime Scott 4, il terzo Scott ha dalla sua un’unità di stile che va verso il<br />
lir<strong>is</strong>mo, si vedano gli arrangiamenti di Wally Stott. Con tocchi d<strong>is</strong>sonanti che<br />
preannunciano un futuro prossimo a venire. Copenhagen, Rosemary, Two<br />
Ragged Soldiers ma anche Big Lou<strong>is</strong>e, It’s Raining Today. Ottiene un terzo posto<br />
in classifica, mentre di lì a poco esce anche Scott - Scott Walker Sing Songs<br />
From H<strong>is</strong> Tv Series (Philips, 1969), un estratto di alcuni standard presentati<br />
nello show TV. Si avverte lo stridore con la produzione corrente, dato che<br />
trattasi di Walker virato mainstream.<br />
E a questo punto la scelta si fa radi<strong>cale</strong>: abbandonata la sua identità, il seguente<br />
Scott 4 (Philips, 1969) è pubblicato a nome di Noel Scott Engel. Solo<br />
pezzi originali per questo capolavoro siderale: lirico e drammatico, malinconico<br />
e umorale, mescola love songs tinte di folk, rock e perfino country,<br />
in cui si respira davvero un’aria rarefatta e impalpabile; le <strong>is</strong>pirazioni sono<br />
palesi e vanno da Albert Camus, citato in copertina a Ingmar Bergman,<br />
il cui Settimo Sigillo diventa una canzone (The Seventh Seal), fino a Ennio<br />
Morricone e in generale a tutta la musica sin lì espressa, che sia Brel o il<br />
crooning classico che adorava o Phil Spector o Burt Bacharach o la musica<br />
contemporanea. Tutto è filtrato secondo il suo gusto alto e reso proprio.<br />
Dieci pezzi ineguagliabili da ascoltare di seguito. Perdendosi.<br />
Non c’è troppo da stupirsi però se questa perfezionenon fosse da classifica,<br />
infatti Scott 4 non vi entrò, anzi fu accompagnato da recensioni alquanto<br />
negative.<br />
Lost..<br />
E allora Scott ne prende atto, ritorna al vecchio nome e ci riprova ancora<br />
con la Philips. Che impone un album bizzarro come ‘Til The Band Comes In<br />
(Philips, 1970), con originali, co-firmati dal nuovo manager Ady Semel, e<br />
cover; r<strong>is</strong>ultato altalenante con qualche chicca (Prologue / Little Things, la<br />
title track e The War Is Over) che il pubblico ignora completamente.<br />
Decide di scomparire per qualche anno, dal ‘71 al ‘75, non senza aver tenuto<br />
fede agli impegni presi con la casa d<strong>is</strong>cografica. Escono The Moviegoer (Philips,<br />
1972) e Any Day Now (Philips, 1973), il primo una selezione di musica<br />
da film, il secondo una serie di pezzi leggeri, musica senza infamia né lode<br />
20 21
cantata in modo scialbo. Amen. Si avvicina allora alla CBS e ancora una volta<br />
la speranza di poter incidere la sua musica svan<strong>is</strong>ce: Stretch (CBS, 1973) e We<br />
Had It All (CBS, 1974) sono album country & western oggi d<strong>is</strong>ponibili in una<br />
r<strong>is</strong>tampa unica, del tutto privi di mordente. Un’altra fase sta per chiudersi<br />
su un presente meditabondo, con un effetto sorpresa ..<br />
<strong>the</strong> eLectriciAn<br />
Il passo successivo, il comeback dei tre “fratelli” Walker, sembra il tentativo<br />
ultimo di riacciuffare un treno perduto, e in fondo cos’hanno da perdere a<br />
questo punto gli americani? Non si erano avute notizie rilevanti sugli altri due,<br />
se non su John Maus, il quale aveva persino tentato un ritorno fotocopia selfmade<br />
del gruppo, ribattezzato New Walker Bro<strong>the</strong>rs con un epigono di Scott ..<br />
A dare manforte ai tre c’è una nuova etichetta indipendente, la GTO di Dick<br />
Leahy, che dà loro la possibilità di incidere tre album, con Scott come produttore.<br />
Si ripropongono ora ad un pubblico adulto come è diventato ormai<br />
il loro, e il singolo No Regrets (ballata folk di Tom Rush) fa il resto: riarrangiato<br />
pomposamente in mainstream style seventies, entra in classifica al settimo<br />
posto e segna il loro ritorno. L’album che seguirà, No Regrets (GTO, 1975)<br />
allinea una serie di cover piuttosto innocue (Curt<strong>is</strong> Mayfield, Emmylou Harr<strong>is</strong>,<br />
Kr<strong>is</strong> Kr<strong>is</strong>tofferson, Dionne Warwick ..) ma soprattutto mostra la voglia di<br />
tornare a presentarsi al loro pubblico; l’immagine è mutuata dall’immaginario<br />
di ragazzoni “californiani” tutti sorr<strong>is</strong>i e ottim<strong>is</strong>mo.. e Scott fa buon v<strong>is</strong>o<br />
a cattivo gioco. Il successivo Lines (GTO, 1976) ancora di cover, segna ancor<br />
più il passo verso il mainstream, passando del tutto inosservato, mentre la<br />
casa d<strong>is</strong>cografica sta ormai per essere venduta. L’ultima chance resta allora<br />
quella di scrivere il proprio materiale e così Nite Flights (GTO, 1978) si materializza.<br />
Ora, non ci vuole molto a capire che il livello delle composizioni<br />
di Scott, finalmente lasciato libero di esprimersi, sia pure in un contesto<br />
come questo, superi stellarmente quelle degli altri due. I pezzi infatti (Shutout,<br />
Fat Mama Kick, Nite Flights e soprattutto The Electrician) parlano un<br />
linguaggio che poco ha a che vedere con il mainstream pop dei “fratelli”, tra<br />
wave di qualità e oscuri ab<strong>is</strong>si come The Electrician, sospeso com’è tra incubi<br />
industrial e orchestrazioni. La musica che verrà parte anche da qua, con il<br />
music<strong>is</strong>ta che ha ormai attraversato il presente ed è entrato in uno spazio<br />
altro, scomparendo e rinascendo a nuova vita art<strong>is</strong>tica. Nite Flights segna il<br />
canto del cigno dei Walkers e pur avendo ricevuto recensioni positive per<br />
l’apporto di Scott, fall<strong>is</strong>ce l’obiettivo vendite.<br />
th<strong>is</strong> <strong>is</strong> hoW you d<strong>is</strong>AppeAr..<br />
Mentre il Nostro vive un periodo tormentato dopo lo scioglimento dei Walker<br />
Bro<strong>the</strong>rs, come riferirà a Alan Bangs (si paragona ad Orson Welles, “un<br />
grande che tutti volevano incontrare ma di cui nessuno era d<strong>is</strong>posto a finanziarne<br />
i progetti”), il suo nome da inizi ‘80 comincia a diventare un punto di<br />
riferimento per altri music<strong>is</strong>ti, David Bowie e Brian Eno in prim<strong>is</strong>; quest’ultimo<br />
ne aveva ampiamente tessuto le lodi sul Melody Maker ai tempi di Nite<br />
Flights, e Bowie farà conoscere il pezzo omonimo grazie a una cover nel ‘93,<br />
mentre nell’81 veniva pubblicata una compilation di editi, Fire Escape In The<br />
Sky: The Godlike Genius of Scott Walker, a cura del fan Julian Cope, senza<br />
contare che nello stesso anno la Philips aveva raccolto le cover breliane in<br />
Scott Sings Jacques Brel.<br />
Questo “hype” gli favorirà quindi un contratto con la Virgin, per cui nel 1984<br />
esce Climate Of Hunter. L’album segna il definitivo spartiacque tra il Walker #<br />
1 e quello successivo, marcando definitivamente un punto di non ritorno con<br />
l’art<strong>is</strong>ta più pop in senso lato. Raccogliendo tutte le sue migliori esperienze,<br />
da quelle orchestrali e crooning di Scott 1,2, 3, e soprattutto 4 e le avv<strong>is</strong>aglie<br />
più futur<strong>is</strong>tiche v<strong>is</strong>te in Nite Flights, con la fida produzione di Peter Walsh,<br />
l’art<strong>is</strong>ta americano riduce al minimo la strumentazione: poch<strong>is</strong>sima orchestrazione<br />
ed arrangiamenti, permane formalmente la forma canzone, che<br />
qua e là si sgretola e riduce (Dealer, Sleepwalkers Woman, Track Six), sembra<br />
ritornare a tratti (Rawhide, il singolo Track 3) per farsi d<strong>is</strong>sonanza e rarefazione.<br />
Walsh spiegherà nel citato documentario Scott Walker 30 Century Man che<br />
nelle session del d<strong>is</strong>co i music<strong>is</strong>ti reg<strong>is</strong>travano le loro parti senza conoscere<br />
la melodia dei pezzi, sia perché Walker non aveva fatto alcun demo ma semplicemente<br />
perché la melodia era un “segreto gelosamente custodito”. Engel<br />
intendeva dire che se si fosse conosciuta la melodia, questo avrebbe portato<br />
ogni pezzo lontano da dove doveva stare secondo la sua concezione; vale a<br />
dire che “tutto doveva essere tenuto un po’ d<strong>is</strong>giunto” per “evitare che ci fosse<br />
la possibilità di andare tutti a tempo”. L’effetto è allora straniante e segna un<br />
al di là da cui non si può più fare ritorno. Il tutto accompagnato da testi non<br />
facili che permarranno in tutta la successiva produzione di Scott. E ancora<br />
non si era v<strong>is</strong>to abbastanza. Th<strong>is</strong> Is How To D<strong>is</strong>appear..<br />
fArmer in <strong>the</strong> city<br />
Come scomparire appunto .. Così come il precedente, Climate passa inosservato<br />
commercialmente. Un secondo album per la Virgin era prev<strong>is</strong>to, con la<br />
22 23
produzione di Brian Eno e Daniel Lano<strong>is</strong>, ma non se ne fece niente. Da qui in<br />
poi le notizie su Walker si fanno sempre più rade, e se già poche erano state<br />
le interv<strong>is</strong>te promozionali nel corso del 1984, ora il buio assoluto. B<strong>is</strong>ogna<br />
aspettare addirittura il 1993, quindi quasi un decennio, per un singolo (di<br />
cui firma il testo) con Goran Bregovic, Man From Reno / Indecent Sacrifice,<br />
uscito in Francia per il film Toxic Affair di Philoméne Esposito, con Isabelle<br />
Adjani e per cui Bregovic compone la colonna sonora. Una ballad non propriamente<br />
oscura.<br />
E infine due anni dopo il ritorno con Tilt (Fontana, 1995), coprodotto con<br />
Peter Walsh. L’album prosegue in parte sulla scia del precedente, facendosi<br />
però incubo sonoro tout court. Una m<strong>is</strong>cellanea di elementi, in cui coes<strong>is</strong>tono<br />
classica, avanguardia, sperimental<strong>is</strong>mo, minimal<strong>is</strong>mo, industrial, per un<br />
marchio di fabbrica che comincia ora a diventare “riconoscibile”. Via del tutto<br />
la forma-canzone, la poca melodia sia pur presente non è ingabbiata ma<br />
d<strong>is</strong>sonante insieme al resto, il cantato si fa espression<strong>is</strong>tico, declamatorio,<br />
come un lieder sui gener<strong>is</strong>, le atmosfere sono claustrofobiche e morbose,<br />
cinematograficamente efficaci sia nelle immagini evocate, sia dal punto di<br />
v<strong>is</strong>ta sonoro (l’uso narrativo dell’orchestra, della strumentazione minimale,<br />
l’utilizzo funzionale degli effetti sonori, delle d<strong>is</strong>sonanze). Alienazione,<br />
d<strong>is</strong>agio es<strong>is</strong>tenziale ma anche sarcasmo e ironia gli elementi presenti. I<br />
testi stessi sono evocativi più che letterari, sono parte musi<strong>cale</strong>, effetto<br />
sonoro che procede per immagini, sia quando rievocano la morte di Pier<br />
Paolo Pasolini (la incalzante Farmer In The City, <strong>is</strong>pirata dalla poesia Uno dei<br />
tanti epiloghi, dedicata nel 1969 all’attore Ninetto Davoli), sia nel processo<br />
all’ufficiale SS Adolf Eichmann (The Cockfighter), negli orrori delle guerre<br />
americane (Patriot), nel narcotraffico sudamericano (Bolivia ‘95). Come detto<br />
dall’autore, sono le liriche che dettano il suono all’intera canzone. La compiutezza<br />
dell’album rivela le ambizioni di Walker, che nelle interv<strong>is</strong>te non<br />
concede molt<strong>is</strong>simo seguendo la sua indole. E d’altra parte un lavoro art<strong>is</strong>tico<br />
dovrebbe parlare di per se stesso, crediamo. E come in tutte le prove<br />
che verranno dopo, il fascino malato avvince e si riesce a entrare penetrare<br />
compiutamente nell’opera se si ha la pazienza e l’umiltà di addentrarv<strong>is</strong>i, di<br />
aspettare, di ins<strong>is</strong>tere.<br />
cossAcks Are chArging in ..<br />
Dopo Tilt Walker esce relativamente dall’<strong>is</strong>olamento, con diverse collaborazioni.<br />
Nel 1996 reg<strong>is</strong>tra I Threw It All Away di Bob Dylan, sotto la direzione<br />
di Nick Cave, per la colonna sonora del film To Have and to Hold; nel 1998<br />
coverizza Only Myself to Blame di David Arnold, per lo score del bondiano<br />
The World Is Not Enough (Il mondo non basta). Nello stesso anno scrive e<br />
produce la maggior parte della colonna sonora del controverso Pola X di<br />
Léos Carax, che contiene contribuiti anche di Smog e Sonic Youth. Trattasi<br />
di strumentali, orchestrati o sperimentali/industrial, e l’unica volta che si<br />
sente la sua voce, è in un estratto di Cockfighter, da Tilt.<br />
Nel 2000 è il curatore del prestigioso Meltdown Festival, dove non suona<br />
ma scrive un pezzo, Thimble Rigging per The Richard Alston Dance Project;<br />
nello stesso anno collabora a Pun<strong>is</strong>hing K<strong>is</strong>s, album della performer tedesca<br />
Ute Lemper, con due pezzi articolati e d<strong>is</strong>sonanti nello stile di Tilt. Nel 2001<br />
produce l’album dei Pulp, We Love Life, ovvero di uno dei suoi più grandi<br />
fan, Jarv<strong>is</strong> Cocker, traghettandone la transizione, con un album raffinato,<br />
verso una fase più adulta e preparando il Jarv<strong>is</strong> sol<strong>is</strong>ta.<br />
A fine 2003 esce un importante e corposo box set, Five Easy Pieces (Mercury),<br />
suddiv<strong>is</strong>o in 5 CD tematici e un booklet; l’arduo compito di antologizzare<br />
la carriera di Walker viene così bypassato dalla div<strong>is</strong>ione per argomenti e in<br />
modo cronologico, racchiudendo numerosi brani rari e fuori stampa.<br />
La firma con la 4AD nel 2004, sua etichetta attuale, preannuncia l’uscita di<br />
The Drift (2006). Walker continua il suo percorso art<strong>is</strong>tico altro, tassello dopo<br />
tassello, ogni volta destrutturando, togliendo o modificando gli elementi<br />
costitutivi della sua musica. Di Tilt restano il mood e l’ambientazione sonora:<br />
il cantato è parimenti espression<strong>is</strong>ta, declamatorio, lirico, con poca melodia;<br />
è ancora più claustrofobico, morboso, oscuro, cinematografico (si vedano<br />
l’uso narrativo dell’orchestra , la strumentazione minimale, gli effetti sonori<br />
funzionali, le d<strong>is</strong>sonanze). Si ass<strong>is</strong>te a un’ulteriore d<strong>is</strong>gregazione delle “canzoni”,<br />
che già nel precedente avevano perso la loro forma: qui diventano<br />
momenti di flusso ininterrotto, uno stream assoluto di suoni e parole.<br />
I brani cons<strong>is</strong>tono in “blocchi di suono”, come vengono definiti dall’autore,<br />
che si susseguono per giustapposizioni e contrapposizioni, assenze di ritmo<br />
seguite da accelerazioni (Hand Me Ups), incubi sonorizzati (Jolson and Jones,<br />
Cue), brevi attimi di calma (A Lover Loves). Fanno eco le liriche astratte e in<br />
apparenza casuali, unite tra loro (Cossacks Are, Jolson And Jones), colme di<br />
v<strong>is</strong>ioni horror, f<strong>is</strong>iche, attualità (la scomparsa di Woytila, in Cossacks Are, o<br />
l’11/9 in Jesse) e Storia (la vicenda Benito Mussolini / Claretta Petacci in Clara,<br />
Milosevic in Cue).<br />
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In The Drift dominano la cognizione del dolore e la tragicità estrema della<br />
condizione umana, come osservate al microscopio da un narratore, senza<br />
darne alcun giudizio. Lo specchio dei tempi oscuri che stiamo vivendo e un<br />
punto di non ritorno. Ancora un passo oltre i propri limiti.<br />
Appena un anno dopo, nel 2007, Walker pubblica sempre su 4AD in edizione<br />
limitata And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una<br />
suite strumentale in quattro movimenti per una pièce di danza contemporanea<br />
della compagnia CandoCo (con ballerini anche d<strong>is</strong>abili) del coreografo<br />
Rafael Bonachela. L’americano qui è molto vicino alle sperimentazioni di The<br />
Drift, tra sottrazioni ed implosioni, strappi ed improvv<strong>is</strong>e esplosioni, sinfonie<br />
irregolari per archi (con la London Sinfonietta) e percussioni sincopate,<br />
fughe improvv<strong>is</strong>e ed esplosioni di archi, con rari momenti di quiete. Inoltre<br />
droni leggeri, sovrapposizioni alla Philip Glass, orchestrazioni che per alcuni<br />
momenti possono ricordare quelle di Bernard Herrmann. Sal<strong>is</strong>cendi che<br />
richiamano un sottile gioco di equilibri/d<strong>is</strong>equilibri. Il concept espresso da<br />
musica e danza riflette la vita dell’uomo in un mondo meccanizzato, con la<br />
dicotomia profonda tra corpo e mente, e viene trasmessa ai movimenti irregolari<br />
dei danzatori, anche d<strong>is</strong>abili, che sono come prigionieri in uno spazio<br />
chiuso. Ancora una volta, la musica trasmette il d<strong>is</strong>agio e la d<strong>is</strong>perazione di<br />
una condizione alienata e spezzata.<br />
Due anni dopo, nel 2009, ritroviamo Scott ad occuparsi ancora di musica per<br />
balletto, alla Royal Opera House di Londra, con una r<strong>is</strong>crittura del monologo<br />
Duet For One di Jean Cocteau, coreografato da Aletta Collins; e sempre<br />
nello stesso anno, una collaborazione con Bat For Lashes in un pezzo del<br />
suo Two Suns.<br />
B<strong>is</strong>h Bosh ending<br />
Le sorprese non sono finite e Scott continua ancora a lasciare senza fiato. A<br />
sei anni da The Drift, senza contare gli intermezzi susseguit<strong>is</strong>i nel frattempo,<br />
fa un altro centro, riuscendo a mutare ulteriormente le variabili a sua d<strong>is</strong>posizione,<br />
senza alcun segno di cedimento, anzi proseguendo con una classe<br />
infinita, spanne sopra tutti. In finale d’anno, il 2012 vede B<strong>is</strong>h Bosch (in spazio<br />
recensioni) svettare e offrirsi come ennesimo capolavoro. In sintesi, ritroviamo<br />
la struttura che abbiamo imparato a conoscere con gli album dell’ultima<br />
parte della sua carriera, destrutturata e con voce narrante-cantante, con alcuni<br />
significativi cambiamenti. Più ricco di sfumature e meno oscuro r<strong>is</strong>petto<br />
al precedente, con una pienezza di suono, vi si trovano chitarre, tastiere e<br />
fiati, una novità assoluta. Il mood è meno claustrofobico e morboso, e le<br />
storie raccontate e cantate conflu<strong>is</strong>cono in un unicum organico, un fluire<br />
ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Il narratore Walker si fa<br />
guida in un Inferno dantesco, una sorta di dipinto v<strong>is</strong>ionario di Hieronymus<br />
Bosch, citato nel titolo in un gioco di parole - dove b<strong>is</strong>h bosh significa “job<br />
done, sorted” - per esprimere l’ordine delle parti, apparentemente messe<br />
accanto ma in realtà unite fluidamente in un tutto organico.<br />
B<strong>is</strong>h Bosch è quindi un’esperienza totalizzante che ripaga ascolto dopo ascolto,<br />
confermando Walker come genio musi<strong>cale</strong> contemporaneo e outsider<br />
al di fuori di mode e tempi. Un osservatore acuto della contemporaneità<br />
e della condizione umana sempre più lacerata e dolorosa. Uno di quei rari<br />
art<strong>is</strong>ti concentrato totalmente sulle sue espressioni art<strong>is</strong>tiche. Si può andare<br />
ancora più in là?<br />
“I’m for permanence” (Scott Walker, TV tedesca, 1969).<br />
26 27
House Is THe<br />
TempTaTIon<br />
Testo: Carlo Affatigato<br />
Da qualche tempo alla Rinse tira<br />
una nuova, sorprendente aria.<br />
È la <strong>house</strong>, propugnata da un<br />
poker di personaggi car<strong>is</strong>matici<br />
lungo quattro punti cardinali:<br />
energia, rigore, eleganza e<br />
grooves.<br />
Ha compiuto 18 anni giusto lo scorso settembre, Rinse FM, festeggiando con una doppia data tra Manchester e<br />
Londra e una line up che comprendeva non solo la propria crew ma tutti i membri dell’unit<strong>is</strong>sima élite UK che va<br />
da Skream, Joker e J:Kenzo a Pearson Sound, Jamie George e Kode 9. 18 anni di alacre attività e continui rapporti<br />
con pezzi grossi e giovani emergenti della scena, dopo i quali puoi permetterti oggi di avere una timeline di<br />
lusso ogni giorno della settimana, d<strong>is</strong>tribuita tra forze giovani come Monki o Sian Anderson e veri pezzi di storia<br />
della scena elettronica londinese come Plastician o D<strong>is</strong>tance, più una folta scuderia di soggetti amat<strong>is</strong>simi dal<br />
pubblico che con la Rinse son legati a doppio filo: Roska, Redlight, Zinc, Brackles, Youngsta, Elijah & Skilliam,<br />
tutti protagon<strong>is</strong>ti di un continuo inseguimento delle espressioni dance underground più divertenti del momento.<br />
Come label d<strong>is</strong>cografica, invece, da circa un lustro s’è imposta in una scena vivace e ricca di fermenti affermandosi<br />
come una delle realtà più cool della Londra musi<strong>cale</strong>. Ha inseguito i trend ma sempre prendendo una prec<strong>is</strong>a posizione<br />
estetica a riguardo: quando s’è trattato di affrontare il dubstep lo si è fatto tramite i Rinse Mix di Skream,<br />
Plastician e N-Type, che com’è noto hanno di quel mondo un proprio personale punto di v<strong>is</strong>ta, per molti versi<br />
lontano dallo schema offerto intanto su Tempa; nel frattempo, il funky e il grime diventavano ufficialmente concreti<br />
terreni di indagine di casa e iniziavano a sparigliare le carte, dando l’ass<strong>is</strong>t a uscite crossover frizzanti come quelle di<br />
Skepta, Oneman e più recentemente Roska. Una costellazione di inziative e direzioni che restitu<strong>is</strong>cono l’immagine<br />
non di un gruppo gerarchico con una linea adottata dall’alto (come invece - e ce ne siamo accorti più volte - può<br />
essere la Planet Mu di Paradinas), ma di un team fresco e fortemente unito dall’esperienza in radio, che condivide<br />
la voglia di esprimere il vero fun londinese in tutte le sue forme.<br />
Da qualche tempo, poi, alla Rinse sembra esser arrivato un nuovo vento di passione che viene da lontano: la <strong>house</strong>.<br />
Qualcosa che non si credeva pienamente fittable col sound di casa, sempre eclettico, estroso e attento alla vivacità<br />
del pubblico giovane, ma che proprio per questo diventa ufficialmente la nuova sfida. Perché se i soggetti in questione<br />
iniziano ad appassionarsi allo schema 4/4, ovviamente lo fanno con prec<strong>is</strong>e direttive caratteriali, plasmando<br />
una forma trasversale che un<strong>is</strong>ca movimento e rigore. E se si erano già avute certe avv<strong>is</strong>aglie del passaggio a una<br />
nuova fase di rev<strong>is</strong>ion<strong>is</strong>mo interno (vedi la Rinse:15 di Roska o l’arrivo di Katy B), oggi abbiamo una manciata<br />
di nomi vecchi e nuovi da tenere d’occhio, che stan portando avanti alcune teorie originali sotto schema quadro.<br />
Nessuno di loro è ancora esploso definitvamente in questo senso, quindi gustatevi questa d<strong>is</strong>amina come un’anticipazione<br />
su quel che potrebbe fare il botto di qui a qualche mese.<br />
Zinc: LA “crAck”<br />
Se è vero che i nuovi trend hanno origine dalle influenze reciproche, in questo caso l’inizio di tutto va ricondotto a<br />
28 29
zinc<br />
Zinc. O meglio, al volto che Zinc ha mostrato grossomodo nell’ultimo lustro,<br />
rileggendo in maniera drasticamente diversa i frutti di un’esperienza lunga<br />
ormai vent’anni: lui è quello di pezzi storici dell’era jungle e drum’n’bass<br />
come 138 Trek e Super Sharp Shooter, uno dei più affezionati sodali di DJ<br />
Hype (i due hanno collaborato più volte, D<strong>is</strong>appear, Six Millions Ways To Die,<br />
Show Me The Lovin) e per lungo tempo impegnato a indagare i presupposti<br />
evolutivi del continuum verso l’hip-hop e quel precursore del dubstep che<br />
fu il breakstep. Fino a fine 2000, quando si sedette a tavolino e si inventò un<br />
suo modo di rendere i groove, gli inserti sintetici e tutti quei meccan<strong>is</strong>mi<br />
dance di pancia figli di anni di DJing e produzioni rave/UK garage su un più<br />
elastico e irriverente tessuto in 4/4. Crack <strong>house</strong>, la battezzò, e fu l’intuizione<br />
che lo fece rinascere a nuova vita.<br />
Nel 2009 pubblica sulla propria Bingo Bass il primo Crack House EP, seguito<br />
pochi mesi dopo da Crack House Vol. 2, venti tracce per circa due ore di ascolto<br />
inedito. Ed è subito chiaro che la <strong>house</strong> non è solo segno di svecchiamento<br />
(attenzione, non è un controsenso) ma vera e propria tentazione: quello<br />
adottato è un pattern più universale, sul quale riversare i frutti consolidati<br />
dello sballo sperimentato con le produzioni dnb. Tecnicamente parlando, i<br />
genitori più diretti sono la deep <strong>house</strong> e l’acid, dove la prima viene spogliata<br />
delle sue forme più eleganti e soul e la seconda viene traslata su un piano<br />
meno hardcore e più popolare. Un pezzo come Killa Sound spiega tutto, lo<br />
spazio importante dei loop vocali che catalizzano gli effetti dance e l’ind<strong>is</strong>pensabile<br />
groove sintetico killer, il vero elemento di scarto tra la normale<br />
tech-<strong>house</strong> e la crack di Zinc, più le sirene à la Kill Bill che lanciano un<br />
parallelo concreto con quel che Quentin Tarantino fa del cinema: riciclo<br />
sfrenato (qui prevalentemente dai ‘90) e ricerca ossessiva del piacere esplicito,<br />
con una determinazione e una pressocché totale assenza di d<strong>is</strong>trazioni<br />
intellettuali che colloca il prodotto finale proprio sopra la sottile linea di<br />
separazione tra erot<strong>is</strong>mo e pornografia. Pezzi come 128 Trek (il crack <strong>house</strong><br />
remix della sua stessa hit dnb) e soprattutoo Wyle Out (con Ms. Dynamite)<br />
rappresentano invece l’anello di congiunzione diretto con la rave culture,<br />
gli elementi sono esattamente gli stessi (luci, bleeps e droghe) e quel che<br />
cambia è solo la recettibilità di tempi e strutture ritmiche.<br />
L’impatto sulla scena è enorme. I pezzi migliori del Crack House Vol. 2, Love<br />
To Feel Th<strong>is</strong> Way e Nexx, fin<strong>is</strong>cono nelle compilation più estroverse (I Love<br />
Techno dei Cassius e ancora Rinse:15 di Roska, che resta ascolto imprescindibile<br />
per chi si appassiona al tema corrente) e il nome di Zinc riacqu<strong>is</strong>ta<br />
lo spolvero di un tempo. La formula giovane e elettrizzante fin<strong>is</strong>ce per conqu<strong>is</strong>tare<br />
un palco prestigioso come la Rinse (che dei nuovi modi per esaltare<br />
il pubblico dance non se ne lascia scappare nessuno), Zinc inizia ad essere<br />
presenza f<strong>is</strong>sa nella programmazione e sarà uno dei producers dietro l’album<br />
di Katy B (l’altro è Geeneus). L’anno scorso, lo step successivo alla serie crack<br />
<strong>house</strong> è Sprung, stavolta proprio su Rinse, un EP di 4 pezzi ancora più dritti e<br />
tagliati per l’eccitazione collettiva (nonché perfetti come dj tools): Unlike Me<br />
e Juicy Fruit son le due mosse di stile per la clubbing fashion, mentre Sprung<br />
e Recovered son due vere gemme di energia esplosiva che spinge verso l’aggressivo<br />
e può cambiarti la serata in un attimo. Le ultime tappe del percorso<br />
arrivano quest’anno, prima Goin’ In e poi Like The Dancefloor con A-Trak, e<br />
portano la crack <strong>house</strong> verso un’immagine più radiofonica e commerciale<br />
(si parla di successo, of course), ma con Zinc c’è sempre da stare in allerta e<br />
ch<strong>is</strong>sà che presto non arrivi la sua crack release definitiva. Per dicembre è<br />
già pronto il nuovo EP, Only For Tonight, e i primi ascolti sembrano volgere<br />
a un’immagine <strong>house</strong> pop compiuta. Terremo gli occhi aperti.<br />
mArk rAdford: iL rigore<br />
Quando a marzo il Rinse:18 di Mark Radford è stato recensito su ResidentAdv<strong>is</strong>or,<br />
Andrew Ryce esordiva chiedendosi furbescamente: “Che diavolo<br />
ci fanno Alex Niggemann e Steve Bug in una compilation Rinse?”. Quello<br />
è stato in effetti il primo squarcio del velo, la prima incursione della <strong>house</strong><br />
tra le release ufficiali della Rinse. Radford era entrato a far parte della crew<br />
da un annetto circa, con una finestra settimanale f<strong>is</strong>sa nella timeline radio<br />
(adesso ha la prestigios<strong>is</strong>sima prima serata del sabato), ma si era fatto notare<br />
dai talent scout già qualche tempo prima, grazie a una serie di serate underground<br />
londinesi in cui il ragazzo sembrava star dando un nuovo slancio di<br />
euforia alla scena UK <strong>house</strong> live (cosa non facile per un pubblico esigente<br />
come quello di Londra, soprattutto se parliamo di un genere così altamente<br />
storicizzato).<br />
E che <strong>house</strong>, poi. Parliamo del lato più rigoroso e old-fashioned del filone,<br />
quello che d<strong>is</strong>cende direttamente dalla prima fase deep di Chicago e che<br />
oggi è ancora vivo grazie al lavoro di etichette come la Poker Flat, che teoricamente<br />
della Rinse sarebbero concorrenti in piena regola (aspetto, questo,<br />
che fa riflettere su quanto sia editorialmente r<strong>is</strong>chiosa la mossa di cui stiam<br />
parlando). Più che la fresca gioventù di nomi caldi UK come potevano essere<br />
i D<strong>is</strong>closure o Benjamin Damage, i set di Radford prefer<strong>is</strong>cono r<strong>is</strong>coprire<br />
il classic<strong>is</strong>mo e l’eleganza della <strong>house</strong> recente, e infatti il suo mix includex<br />
lavori come la Speechless della coppia Agoria-Carl Craig o il John Tejada<br />
remixer, stando ovviamente sempre attenti ai nuovi nomi della scena underground<br />
come James What, No Artificial Colours o A1 Bassline.<br />
Eppure anche Radford veniva da un background e un bacino d’esperienza<br />
jungle/drum’n’bass e solo recentemente è scoppiato l’amore <strong>house</strong>. In una<br />
recente interv<strong>is</strong>ta su Pulseradio la racconta come la sua vera fase di maturazione,<br />
spiegando che “col tempo è cambiato il tipo di party a cui andavo, dalla<br />
30 31
mark radford t. williams<br />
UK garage a una <strong>house</strong> più funky e soulful. La mia attenzione si è spostata verso<br />
groove più morbidi e lontano dalle aggressioni dnb, e quando ho iniziato ad<br />
appassionarmi ai bassi dark e profondi della deep, ho trovato il mix davvero<br />
sexy”. Se in Zinc parlavamo di mossa di rinnovamento, in Radford i 4/4 sono<br />
l’effetto della crescita estetica. Prerogative niente male per un genere che<br />
si appresta a compiere 30 anni di vita. E non è finita...<br />
t WiLLiAms: L’eLegAnZA<br />
Tesfa Williams è un altro che proviene da un punto di partenza stil<strong>is</strong>ticamente<br />
lontan<strong>is</strong>simo. Per tutti gli anni ‘00 lui è DJ Dread D, giovan<strong>is</strong>simo<br />
produttore grime partito per gioco all’età di 13 anni e arrivato alle prime<br />
produzioni ufficiali al giro di boa della maggiore età, con un bel pezzo di<br />
cattiveria ossuta come Invasion e una serie di interessanti 12’’ usciti sulla<br />
Black Ops di Jon E Cash. Poi una pausa riflessiva durante gli anni della laurea,<br />
alcuni anni di silenzio serviti a focalizzare bene la migliore direzione<br />
e prendere la rincorsa per poi partire in velocità. Spinto da una costante<br />
voglia di cimentarsi in nuovi orizzonti, prima fonda la Deep Teknologi, label<br />
dichiaratamente orientata verso influenze world music legate in particolare<br />
all’India e al Nord Africa (il padre è dei Caraibi e gli ha trasmesso la passione<br />
per i vinili) e poi incide come T Williams un paio di EP (Chop And Screw<br />
sulla sua Teknologi e T Williams sulla Local Action del collaboratore di FACT<br />
Tom Lea) che compiono la svolta dec<strong>is</strong>iva verso un sound <strong>house</strong> dal carattere<br />
tribale più o meno marcato.<br />
La <strong>house</strong> entra in punta di piedi nell’universo sonoro di Williams. Sempre su<br />
Pulseradio l’interv<strong>is</strong>ta più interessante sul web, dove il producer racconta:<br />
“C’era un rave di old-skool garage a Londra, il Liberty. Alle 6 di mattina si trasformava<br />
in un rave <strong>house</strong>, e mi ritrovai anch’io, da appassionato di garage,<br />
ad ascoltare <strong>house</strong>. Insieme a un amico iniziammo ad ascoltarla prima per<br />
mezz’ora, poi per un’ora, poi per due e finché ci passavamo intere notti. Venendo<br />
dal grime non amavo particolarmente la <strong>house</strong>, alla fine di ogni sessione<br />
d’ascolto ci dicevamo, un po’ per sentirci più a nostro agio, ‘è come la garage,<br />
vero?’. Poi alcuni dj bravi a guardare oltre come Wig Man mi hanno introdotto<br />
alla <strong>house</strong> più afro/soulful di Quentin Harr<strong>is</strong>, DJ Gregory e Denn<strong>is</strong> Ferrer.<br />
Fu lì che scoprii il vero vibe <strong>house</strong>, nel suo momento storico migliore in UK.”<br />
Accolto alla Rinse con grande entusiasmo, la sua v<strong>is</strong>ione <strong>house</strong> ve l’abbiamo<br />
raccontata all’uscita di Rinse 21: il four-on-<strong>the</strong>-floor di Williams è denso di<br />
umori e amante dell’eleganza, ragiona su mood deep e sulla puntuale presenza<br />
di sezioni cantate a rendere il tutto più easy all’ascolto, estendendone<br />
l’efficacia anche fuori dalla p<strong>is</strong>ta. I quattro pezzi del suo ultimo EP Pain &<br />
Love raccontano meglio di mille parole le armonie di cui il ragazzo è capace,<br />
in particolare con due brani di spicco come Can’t Get Enough (la voce funky<br />
è di Himal e serve tutta al movimento clubbing) e Think Of You (capolavoro<br />
di raffinatezza deep/soul con la voce femminile di Tendai a raddoppiare la<br />
sensualità di una formula erotica a priori). T Williams oggi non è solo “uno<br />
dei bass producers più interessanti della scena londinese”, come dicono ormai<br />
tutti. Lui è la perfezione in carne ed ossa della cosiddetta <strong>house</strong> sensation<br />
del momento, e la speranza è che venga fuori l’album-capolavoro a tema<br />
prima che la spinta al cambiamento lo faccia spostare altrove.<br />
moscA: LA groove science<br />
Giovan<strong>is</strong>simo ma dotato di un sorprendente bagaglio di conoscenze musicali,<br />
Mosca è finito sulla bocca di tutti a fine 2011 grazie alla super hit Bax,<br />
un tessuto ritmico tech-<strong>house</strong> di grande energia con tanto di inserto tribale<br />
seminascosto nell’ombra e un giro acid ipnotico da fase finale di una notte in<br />
d<strong>is</strong>co, tutto apparentemente semplice ma irres<strong>is</strong>tibile. In precedenza, erano<br />
già usciti per Night Slugs e Fat City una manciata di pezzi che avevano fatto<br />
breccia sugli intenditori di nuove intuizioni, così che prima l’esplorazione<br />
degli spazi tra afrobeat e west dance di Square One, poi il giro slow <strong>house</strong><br />
groove-addicted di Tilt Shift si son beccati i remix di Roska, Julio Bashmore,<br />
Bok Bok e L-V<strong>is</strong> 1990. I frutti dolci del successo però Mosca li ha raccolti da<br />
fine 2011 in poi, coi tre pezzi di garage sghemba contenuti nel Wavey EP<br />
che ricevono consenso unanime in tutte le riv<strong>is</strong>te specializzate e l’altro eppì<br />
di quest’anno Eva Mendes, contenente la collaborazione eccellente di un<br />
semidio come Robert Owens, Accidentally.<br />
Più che il cambio di rotta che abbiam v<strong>is</strong>to per i tre qui sopra, per Mosca la<br />
<strong>house</strong> è la forma sposata con convinzione per la sua flessibilità, che permette<br />
32 33
mosca<br />
di tirare in ballo ogni sorta di influenza derivante dal crate digging senza<br />
per questo rinunciare all’appeal di prima mano. Il profilo più interessante del<br />
producer londinese lo d<strong>is</strong>egna stavolta Fact Magazine, in una lunga interv<strong>is</strong>ta<br />
che ben rende lo spirito compositivo dietro ai suoi pezzi: appassionato da<br />
sempre di world music proveniente da ogni parte del mondo, per lungo<br />
tempo il ragazzo è conqu<strong>is</strong>tato dai fermenti ritmici del terzo mondo (kuduro,<br />
kwaito, zouk, cumbia, reggaeton) senza però riuscire a integrarli al meglio<br />
in un dj set (“quella roba proprio non era mixabile, a meno che tu non sia un dj<br />
fenomenale come DJ Rupture. E io non lo sono.”). Successivamente scopre il<br />
lato urbano della world music (il pezzo illuminante è stato Vem Nha Nha del<br />
brasiliano Mr. Catra, che infatti fa da fulcro per l’intera interv<strong>is</strong>ta) e inizia a<br />
farsi attrarre dalle sue prerogative dance per il mondo occidentale.<br />
Niente in Mosca può prescindere dal groove. Qualsiasi sia la componente<br />
esterofila dei suoi pezzi, c’è sempre il gancio infallibile del giro melodico che<br />
rende ogni conqu<strong>is</strong>ta più facile. Eva Mendes è il suo cavallo di battaglia metropolitano,<br />
atmosfera elegante ma taglio netto e concreto che comanda in<br />
p<strong>is</strong>ta, mentre la coppia Dom Perignon / Orange Jack sfoggia l’estro che si può<br />
mettere in gioco nello schema <strong>house</strong> e un pezzo sulla carta minore come<br />
Murderous è una gemma di equilibrio fashion+beat che trasuda Londra da<br />
ogni poro. Qui in fondo non c’è molta filosofia da fare, i 4/4 sono il mezzo<br />
maestro per catturare il pubblico in modo immediato ed esaustivo, ed è<br />
questo un fine per cui si è d<strong>is</strong>posti a giocarsi qualsiasi carta, persino quella<br />
patinata di What You Came For, il rework di Bax fatto con una Katy B ormai<br />
popstar, nonché l’esordio ufficiale di Mosca su Rinse. Ci vuole anche faccia<br />
tosta, e alla Rinse nessuno può dar lezioni in merito.<br />
Quattro linee direttrici che raccontano una rinnovata attenzione verso la<br />
musica <strong>house</strong>, capace più di ogni altro genere di flettersi ed evolversi per<br />
qualsiasi esigenza. Che sia voglia di r<strong>is</strong>coprire la vecchia scuola delle emozioni<br />
oppure determinazione a ricreare energia clubbing per più pratiche<br />
necessità d’evasione, il movimento intorno alla cassa in quattro, regina incontrastata<br />
della p<strong>is</strong>ta praticamente da quand’è nata, è una delle tendenze<br />
più interessanti del momento. E non è un caso infatti che quattro dei nomi<br />
londinesi più sul pezzo in questo senso siano finiti nella crew storicamente<br />
più attenta all’underground UK. Tutti sembrano completamente d’accordo<br />
nel dire che non c’è mai stato momento migliore per la UK <strong>house</strong> di questo.<br />
Il bello è che lo si dice da alcuni anni ormai, ed c’è sempre una release che<br />
stabil<strong>is</strong>ce un nuovo apice.<br />
Tra la New Wave Of Techno che vi abbiamo raccontato e l’escalation <strong>house</strong> di<br />
cui sopra, sembra non esserci più spazio per altro negli ambienti veramente<br />
cool: col funky in declino, il footwork che sembra preferire la dimensione<br />
intellettuale, il dubstep che ormai è storia e la tangente modern beats<br />
ricch<strong>is</strong>sima di inventiva ma ancora poco apprezzata in p<strong>is</strong>ta, sembra che<br />
lo scettro dance l’abbiano ancora gli stili storici. Retromania? No, questa è<br />
voglia di ripartire, e i livelli di energia son troppo evidenti per considerarla<br />
semplicemente una fase di transizione. Fai tanto l’hipster sof<strong>is</strong>ticato sempre<br />
in cerca della dimensione alternativa e intanto non passa notte in questo<br />
2012 senza che un DJ europeo mandi Child.<br />
//HOUSE TEMPTATION: THE ESSENTIALS//<br />
Zinc - Sprung<br />
T Williams feat. Tendai - Think Of You<br />
Mosca - Eva Mendes<br />
George FitzGerald - Child<br />
D<strong>is</strong>closure feat. Sam Smith - Latch<br />
Julio Bashmore - Au Seve<br />
Gerry Read - Roomland (Youandewan Remix)<br />
Cooly G - Love Dub<br />
Maceo Plex - Fr<strong>is</strong>ky<br />
Maya Jane Coles - Nobody Else<br />
34 35
sanTo<br />
BarBaro<br />
Testo: Fabrizio Zampighi<br />
cAntAutorAto mutAnte<br />
Esce “Navi”, terzo d<strong>is</strong>co dei Santo<br />
Barbaro. Una buona occasione<br />
per ricostruire le vic<strong>is</strong>situdini<br />
di una formazione che del<br />
cantautorato sta facendo un<br />
linguaggio inedito e affascinante<br />
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LA notte è un muro<br />
Al Cosabeat si arriva percorrendo una strada strett<strong>is</strong>sima che passa per la<br />
campagna forlivese. Da fuori, lo studio di reg<strong>is</strong>trazione di Franco Naddei ha<br />
l’aspetto di una vecchia casa colonica, confinata in un’area verde piuttosto<br />
rustica che sembra quasi fare da filtro naturale tra l’edificio e l’ambiente<br />
esterno. Il pomeriggio d’ottobre in cui arriviamo c’è un consapevole silenzio<br />
autunnale ad accoglierci nel giardino che circonda lo stabile. Una pace quasi<br />
irreale che sa di <strong>is</strong>olamento, nonostante il primo centro abitato sia solo a<br />
pochi minuti di macchina. Vien quasi da pensare che un d<strong>is</strong>co di artigianato<br />
autarchico come Navi, i Santo Barbaro, potessero concepirlo soltanto tra<br />
queste mura: dieci brani slegati da un’attualità musi<strong>cale</strong> che v<strong>is</strong>ta da qui<br />
sembra ancora più aliena, capaci indirettamente di rappresentare un viaggio<br />
nell’io più recondito di chi li ha partoriti. «Nel cantare ci metto me stesso,<br />
la mia vita, la mia incompiutezza. Non me vergogno. Dalla bocca esce ciò che<br />
sono» dichiarava qualche tempo fa a E20 Romagna l’altra metà del progetto<br />
Pieralberto Valli riferendosi alla peculiarità della sua voce e dei suoi testi.<br />
Eppure il d<strong>is</strong>corso potrebbe valere per tutta la poetica del gruppo, che incompiuta<br />
non è, ma certo procede senza freni in una ricerca formale febbrile,<br />
personale, mutevole, che non porta quasi mai dove ci si potrebbe aspettare.<br />
L’ultimo Navi è un chiaro esempio in questo senso, anche se a ben vedere è<br />
così fin dagli esordi per i Santo Barbaro. Quando esce Mare Morto, nel 2008,<br />
in formazione ci sono lo stesso Valli, Marco Frattini (batteria), Francesco Tappi<br />
(basso e contrabbasso) e Giacomo Toni (pianoforte e f<strong>is</strong>armonica) ma la<br />
sostanza non cambia. Già allora il linguaggio è composito, letterario, v<strong>is</strong>ivo<br />
e musi<strong>cale</strong> al tempo stesso (il CD esce inizialmente inserito in un libretto<br />
con i testi e accompagnato dalle foto di Francesco Fantini, per poi essere<br />
r<strong>is</strong>tampato dalla Ribess Records assieme a un libro di racconti - Un giorno<br />
passo e ti libero - indipendente dal d<strong>is</strong>co), per un lavoro che sanc<strong>is</strong>ce le linee<br />
guida del progetto su un ventaglio stil<strong>is</strong>tico comunque ricercato: «Il primo<br />
d<strong>is</strong>co era incentrato sul concetto di straniero, una sorta di concept involontario<br />
se vogliamo. Una riflessione sulla diversità, sui viaggi da una realtà all’altra, data<br />
anche da esperienze personali. In questo senso, la dicotomia Santo Barbaro ci<br />
piaceva e ci piace tutt’ora. Questo concetto rimane il cuore di tutto il d<strong>is</strong>corso:<br />
dove c’è una diversità, dove c’è anche d<strong>is</strong>accordo, c’è la possibilità che nasca<br />
qualcosa di nuovo».<br />
Il “barbaro” come personificazione della diversità, quest’ultima da santificare<br />
ed eleggere a manifesto programmatico. Sembra una banalità e invece<br />
non lo è, soprattutto in un mercato veloce e caotico come quello in cui ci<br />
troviamo ad operare, a suo modo spietato nel non dare v<strong>is</strong>ibilità a tutto ciò<br />
che non sia immediatamente targetizzabile e in linea con i tempi di assimilazione<br />
ridott<strong>is</strong>simi del web. Nel caso di Mare Morto l’universo musi<strong>cale</strong> di<br />
riferimento è una canzone d’autore elegante, parente alla lontana del jazz<br />
ma anche piacevolmente d<strong>is</strong>tesa nella r<strong>is</strong>coperta di un esotico che parte<br />
da certi accenni al Sud America per arrivare fino al Medio Oriente (Occhi<br />
immensi). In mezzo, riferimenti a esponenti di primo piano di un certo cantautorato<br />
moderno come Giancarlo Onorato (Santo Barbaro, Nuovi schiavi)<br />
e Marco Parente (Nero deserto), ma anche il Nick Drake di Three Hours<br />
(Guerre), certo blues in orbita Hugo Race (Cecità), pianoforti in stile Black<br />
Heart Procession (Noir) e persino post-rock (Mare morto). «Volevamo ridestare<br />
la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere allo stomaco di<br />
un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per scavare nella nostra coscienza e<br />
mettere in d<strong>is</strong>cussione la nostra percezione delle cose» dichiarava il gruppo al<br />
nostro Luca Barachetti ai tempi del primo d<strong>is</strong>co. Segno di una scrittura che<br />
prima di tutto è ricerca interiore e poi parto ad uso e consumo di terzi. Nei<br />
testi non c’è l’eleganza d<strong>is</strong>taccata di un Tenco o il narrare puntuale di un De<br />
Andrè - anche se Valli è un estimatore della produzione del genovese -, piuttosto<br />
una serie di input capace di aprire delle porte, comunicare sensazioni,<br />
lasciando all’ascoltatore la responsabilità di interpretare. Un procedere per<br />
immagini montate in ordine sparso e date in pasto attraverso una calligrafia<br />
in parte già riconoscibile e senza sbavature.<br />
Lorna, arriva l’anno successivo e fin<strong>is</strong>ce - immeritatamente, lasciatemelo<br />
dire - per passare quasi sotto silenzio. E’ sufficiente fare una breve ricerca<br />
su Google per rendersene conto: nel momento in cui scriviamo il celebre<br />
motore di ricerca dà come r<strong>is</strong>ultato sei recensioni in tutto - tra cui la nostra<br />
- e molte di queste non stanno sui principali siti internet di informazione<br />
38 39
musi<strong>cale</strong>. Un delitto, se si pensa a tutto il ben di Dio che c’è all’interno del<br />
d<strong>is</strong>co. Il secondo lavoro dei Santo Barbaro è una mezza rivoluzione, sia dal<br />
punto di v<strong>is</strong>ta musi<strong>cale</strong> che della line-up: della formazione originale rimane il<br />
solo Valli e tra i crediti, questa volta, troviamo Franco Naddei (Francobeat) e<br />
il pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta Diego Sapignoli (già Aidoru, Hugo Race, Sacri cuori, Pan<br />
del Diavolo, Vinicio Capossela). Il trio si dimostra la scelta migliore, vuoi per<br />
la caratura dei nuovi arrivati, vuoi per un’idea di canzone d’autore che qui<br />
si fa ancora più imprevedibile nei richiami. A dimostrazione un brano come<br />
Naufragio, vicino per indole all’ultimo Fabrizio De Andrè nella parte iniziale<br />
e poi inghiottito dalle chitarre elettriche o magari un Non balla nessuno<br />
voce-chitarra nei primi minuti e delirio di batteria ed elettronica in chiusura.<br />
Giusto, l’elettronica. Compare qui per la prima volta ed è una svolta piuttosto<br />
importante nell’ottica dell’evoluzione del gruppo. Come sottolinea del resto<br />
anche Naddei: «Lorna è stato una sorta di terra di mezzo. Su quel d<strong>is</strong>co io sono<br />
entrato a gamba tesa facendo comparire le prime cose elettroniche, elettronica<br />
che, alla fine, è un linguaggio che comunque possiede anche Pieralberto. In<br />
realtà, ho cercato di far venir fuori Pieralberto in un contesto diverso da quel<br />
cantautorato a cui si rifer<strong>is</strong>ce di solito, portandolo su altro pianeta. I brani di<br />
Lorna, alla fine, hanno comunque mantenuto un’identità basata su chitarravoce<br />
al centro e l’impianto strumentale attorno». Nel nostro caso due sono gli<br />
elementi che sottolineano uno scarto dec<strong>is</strong>ivo r<strong>is</strong>petto al primo d<strong>is</strong>co: da<br />
un lato un impianto musi<strong>cale</strong> flessibile, volutamente sfilacciato e mutante<br />
(ascoltatevi L’uomo del sogno) nel suo toccare l’ambient, il folk, la canzone<br />
d’autore, i ritmi sintetici con la stessa efficacia; dall’altro i testi di Pieralberto<br />
Valli, perfettamente adagiati negli spazi ampi concessi dalla musica, peculiari<br />
nella metrica e molto più evocativi r<strong>is</strong>petto agli esordi. O per meglio dire,<br />
poetici. Del resto in quale altra maniera potremmo definire versi come Lei<br />
incide i giorni sulle vene di un bosco / rincorre la neve sui camini fumanti / lei<br />
che ascolta le foglie vagare nomadi sulle colline / tu non sai le carovane di lupi<br />
che si nascondono nei silenzi dei vespri (Il vuoto) oppure Potrebbero mancare<br />
forse anche millenni / per chi mendica su croci improvv<strong>is</strong>ate / maledico l’uomo<br />
che sorride al mio specchio / il dolore che diventa passatempo /e se tu sei il<br />
padre perché non mi somigli / se tu sei il padre perché non premi il grilletto /<br />
che a me tremano un poco le gambe / nel vedere il destino che giunge su una<br />
scia di polvere (Su una scia di polvere)? E dire che lo stesso Valli, interrogato<br />
a proposito del suo stile nella scrittura, si scherm<strong>is</strong>ce dietro un «In realtà<br />
detesto scrivere i testi. Mi piace scrivere in libertà, senza vincoli, ma quando si<br />
tratta di calcolare le metriche e adattarle alla musica, faccio fatica. Di base, mi<br />
piacciono più la musica e la melodia».<br />
Lorna è il d<strong>is</strong>co che, in un mondo ideale, avrebbe dovuto sbancare alle Targhe<br />
Tenco. E invece passa veloce come l’acqua per finire presto nel dimenticatoio,<br />
lasciando tuttavia in eredità ai diretti interessati una serie di concerti<br />
utile per riflettere sulla direzione da imprimere al progetto. E’ ancora Naddei<br />
a parlare: «Portando in giro Lorna, ci siamo accorti che i concerti diventavano<br />
delle performance che cambiavano in continuazione. Se per esempio eravamo<br />
in un lo<strong>cale</strong> in cui prima di noi suonavano dub, poteva succedere che anche<br />
il nostro concerto guadagnasse qualche elemento dub. Qualsiasi brano,<br />
se è efficacie, lo si può girare in tutti i modi. Noi cerchiamo sempre di tendere<br />
a un’evoluzione. Se Pieralberto domani ven<strong>is</strong>se fuori con l’intenzione di fare il<br />
prossimo d<strong>is</strong>co con un gruppo di africani e senza di me, quelli sarebbero i nuovi<br />
Santo Barbaro».<br />
Senti la tempesta che cresce<br />
Ricerca formale, dicevamo. Per Navi, il terzo d<strong>is</strong>co della formazione romagnola,<br />
sarebbe meglio parlare di direzioni potenziali, attracchi possibili, futuri<br />
incerti. Come quelli suggeriti dal brano Nove navi, chiusura di s<strong>cale</strong>tta<br />
che lo stesso Valli elegge in realtà a manifesto del nuovo corso: «Il d<strong>is</strong>co è<br />
fondamentalmente autobiografico. Tutto parte dalla numerologia: nove sono<br />
le personalità, i destini. Le nove navi sono quindi i futuri potenziali, tra cui un<br />
individuo deve scegliere. Fuor di metafora, la direzione che deve prendere nella<br />
vita. Non ci sono appigli o consiglieri che ti dicano come muoverti, tutto dipende<br />
da te e la scelta ovviamente non è facile». Si parla di elettronica nei<br />
dieci brani del d<strong>is</strong>co: teutonica, razionale, ma anche aperta a ogni tipo di<br />
contaminazione. Con la canzone d’autore a far da filo conduttore, da chiave<br />
interpretativa, tanto che considerare Navi come un d<strong>is</strong>co di elettronica pura<br />
sarebbe quantomeno riduttivo, se non proprio un errore. I testi si fanno<br />
ancora più essenziali e r<strong>is</strong>icati r<strong>is</strong>petto al passato, in una fusione a freddo<br />
40 41
con la musica che cerca di privilegiare le fascinazioni suggerite dall’insieme,<br />
dai brani nella loro interezza. Lontani, per una volta, dalle inutili e vetuste -<br />
anche se spesso inevitabili, quando si parla di canzone d’autore - viv<strong>is</strong>ezioni<br />
tra parole e musica.<br />
Il d<strong>is</strong>co è un parto estenuante, iniziato da semplici demo chitarra e voce e<br />
arrivato, tra rimpalli e riletture infinite, a ciò si ascolta nel prodotto finito.<br />
Indice, quanto meno, della libertà creativa alla base del progetto. «Per me è<br />
stata una grande fatica» ci dice Pieralberto Valli «Sono arrivato in studio solo<br />
con i provini e abbiamo passato il tempo a smontare pezzo per pezzo quello<br />
che era stato fatto per costruire tutto il d<strong>is</strong>co sulla voce. Per Urania per esempio,<br />
abbiamo fatto quattro versioni finite e poi ne abbiamo scelta una. In tutto<br />
ci abbiamo lavorato un anno, con le pause inevitabili tra una reg<strong>is</strong>trazione e<br />
l’altra. La cosa difficile, quando lavori molto in studio, è che puoi fare qualsiasi<br />
cosa con i suoni». E’ Naddei il “barbaro” della situazione. Sua è buona parte<br />
della responsabilità per le macchine utilizzate nella parte più elettronica del<br />
lavoro. E infatti si procede sui binari atipici e creativi tipici del personaggio,<br />
lontan<strong>is</strong>simi dalle ultime tendenze e certamente poco interessati a sancire<br />
un’appartenenza stil<strong>is</strong>tica o ideologica certa. Anzi, si va esattamente nella<br />
direzione opposta, privilegiando il significato e lo svolgersi dei contenuti,<br />
piuttosto che una forma ment<strong>is</strong> riconoscibile e aggiornata: «Io [Franco Naddei,<br />
ndr] vengo dall’elettronica dei Depeche Mode in giù e ho quaranta anni.<br />
Non mi andava di competere con ragazzi giovani - su cui tra l’altro sarebbe stato<br />
molto difficile avere la meglio - che utilizzano il computer e due plug-in. Il mio<br />
linguaggio è semplicemente diverso. All’interno del d<strong>is</strong>co ci sono comunque<br />
riferimenti prec<strong>is</strong>i, come i Talk Talk e i Massive Attack ad esempio. Però è anche<br />
vero che nel momento in cui, in fase di scrittura, ci sembrava di essere troppo<br />
derivativi, abbiamo subito cambiato direzione cercando di suonare più originali<br />
possibili».<br />
Nulla che appaia d<strong>is</strong>persivo o raffazzonato - come del resto era già accaduto<br />
in Lorna -, piuttosto una v<strong>is</strong>ione della musica come linguaggio tout court, a<br />
trecentosessanta gradi, e non come atto strategico. L’obiettivo è raggiunto, a<br />
giudicare da un d<strong>is</strong>co che colleziona archi, pianoforte e basso, che concede<br />
enorme spazio ai synth e alle drum machine e che, nel contempo, mostra in<br />
alcuni dettagli un’indole sperimentale da coltivare. Nello specifico, i suoni<br />
percussivi in odore Einstürzende Neubauten ricavati dalle lamiere autocostruite<br />
di Jessica Stenta e perfettamente integrati nel tessuto sonoro. «Questo<br />
d<strong>is</strong>co è un po’ una scommessa, un parto travagliato, perché ognuno di noi<br />
due ha voluto osare qualcosa in più seguendo il suo linguaggio e stimolando<br />
l’altro a fare altrettanto».<br />
Chiudo gli occhi e non ricordo più<br />
Resta infine da chiedersi in che termini la proposta dei Santo Barbaro sia<br />
riconducibile o meno al mondo della canzone d’autore. Lo è per la profondità<br />
degli argomenti, per la vena poetica dei contenuti e per la sensibilità;<br />
non lo è (soprattutto ora) se il termine di paragone è l’estetica dei classici<br />
o dei figliocci copia carbone dei classici. Qui siamo a duemila anni luce da<br />
casa, con una band che si dimostra abile nel ridefinire un linguaggio, non<br />
solo a frequentarlo. Un elemento che si spiega con le dichiarazioni di un Valli<br />
debitore solo in parte - e in tempi recenti - verso l’immaginario condiv<strong>is</strong>o<br />
(«In realtà fino a Mare Morto non ho mai avuto nulla a che fare col cantautorato.<br />
Prima suonavo punk, elettronica, trip hop, post rock. Quando ho dec<strong>is</strong>o di<br />
passare ai testi in italiano mi sono guardato un po’ intorno e ho cominciato ad<br />
ascoltare i cantautori, in particolare De Andrè») e ancor più con quelle di Franco<br />
Naddei: «Tra i cantautori apprezzo soprattutto Lucio Dalla, che era davvero<br />
avanti. Le riv<strong>is</strong>itazioni moderne di cantautorato mi lasciano piuttosto freddo.<br />
Le trovo eccessivamente ripetitive r<strong>is</strong>petto ai modelli originali. In generale, il<br />
cantautorato l’ho sempre v<strong>is</strong>to come un binario morto, in cui a spiccare sono<br />
in poch<strong>is</strong>simi. Anche i tentativi di svecchiamento del genere non sono sempre<br />
efficaci, come dimostrano produzioni di gente come Leonard Cohen negli anni<br />
Ottanta. Credo che il linguaggio cantautorale debba essere reso potente e originale<br />
da quello che sei tu, non tanto prendendo ad esempio qualche modello<br />
precedente a cui per forza di cose si fin<strong>is</strong>ce per rimanere troppo attaccati».<br />
Un ragionamento che non fa un piega, se ci pensate, ma quanti lo mettono<br />
davvero in pratica? Soprattutto negli ultimi tempi, da quando la new wave<br />
del cantautorato si è riguadagnata uno spazio notevole negli ascolti del<br />
pubblico e, proprio per questo, è forse capitolata in una sclerotizzazione<br />
(per quanto spesso gradevole) dal punto di v<strong>is</strong>ta estetico e delle finalità.<br />
Da quel Vasco Brondi/Le luci della centrale elettrica - tanto b<strong>is</strong>trattato ma<br />
alla fine fondamentale nell’aprire un varco negli appetiti cantautorali del<br />
nuovo pubblico con il suo Canzoni da spiaggia deturpata - in poi, è tutto un<br />
ritorno di sonorità nostalgiche pensato per ascoltatori forse non del tutto<br />
consapevoli, talvolta fin troppo accond<strong>is</strong>cendenti. E allora non si sfugge<br />
nemmeno alla domanda inevitabile sullo stato di salute della cosiddetta<br />
“scena italiana”, a cui Naddei r<strong>is</strong>ponde con una chiosa che idealmente chiude<br />
il nostro percorso: «Di sicuro ora c’è più libertà. E la libertà ha lati positivi e negativi.<br />
Fare d<strong>is</strong>chi oggi costa poch<strong>is</strong>simo e questo ovviamente permette a molte<br />
cose belle di emergere ma anche a molte cose brutte. Il giudizio sulla proposta<br />
musi<strong>cale</strong> ormai lo dà la fruizione del pubblico. A volte il mondo indipendente è<br />
schiavo dell’estetica molto più del mondo major. Ci sono molti gruppi che sono<br />
nella posizione in cui sono perché se lo meritano e molti altri per cui invece<br />
questo ragionamento non vale. Non so. Senti certi testi che citano “You Tube” o<br />
“Berlusconi” e se da un lato identifichi tutto questo in un meccan<strong>is</strong>mo generazionale,<br />
dall’altro ti rendi conto che questo tipo di musica è destinata a invecchiare<br />
all’<strong>is</strong>tante. E’ musica morta, scaduta in partenza. Io ho seguito il sogno “pop”<br />
per anni facendo pali e traverse per etichette anche grosse. Alla fine non se ne<br />
è fatto nulla, però nel momento in cui ho dec<strong>is</strong>o di smettere di voler piacere a<br />
tutti i costi, musicalmente sono rinato».<br />
42 43
— cd&lp<br />
Recensioni<br />
dicembre<br />
(etre) - AbitAColo oStile (2006-2001)<br />
(privileged to FAil, novembre 2012)<br />
Genere: abstract<br />
Una vera e propria parata di all-star, Abitacolo Ostile. Con<br />
un incipit del genere però, si corre il r<strong>is</strong>chio di spostare<br />
l’attenzione, guadagnat<strong>is</strong>sima nel corso degli anni e<br />
degli album, da (etre), sigla dietro cui si cela Salvatore<br />
Borrelli, uno dei music<strong>is</strong>ti più sensibili e meno valutati<br />
del panorama non solo nazionale.<br />
Dieci composizioni in ensemble (con una pletora di<br />
ospiti nazionali e internazionali) reg<strong>is</strong>trate qualche anno<br />
addietro e confezionate solo ora, in cui (etre) omaggia<br />
altrettanti cap<strong>is</strong>aldi della cultura più trasversale e<br />
ricercata. Ognuna delle quali rende appieno lo spirito<br />
dell’omaggiato, rielaborando sensazioni e suggestioni<br />
provenienti dall’arte, filmica, pittorica, letteraria o musi<strong>cale</strong>,<br />
di ognuno di essi.<br />
La d<strong>is</strong>gregazione del non-suono che rimanda alla filosofia<br />
dell’”eternità di tutti gli essenti” di Severino (L’Avenir Se<br />
Prend-il Dans L’Origin con Zero Centigrade, The North<br />
Sea e Sascha Neudeck); la fratturata ritmica del jazz rimanda<br />
all’infrazione ayleriana (Goodbye Dragon Hymn<br />
insieme a Zavoloka, Valerio Cosi, Xabier Iriondo, Elio<br />
Martusciello e Donato Epiro); l’accumulo bambinesco<br />
e parodico di voci infantili su tappeti cinematici che tira<br />
in ballo lo humour nero di Todd Solondz (Unquiet Night<br />
In The Intermediary D<strong>is</strong>tance col supporto di Lucky Dragons,<br />
My Jazzy Child e Nobuko Hori); la stasi estatica fatta<br />
di fruscii e piccole rifrazioni in omaggio all’arte filmica<br />
di Kiyoshi Kurosawa (Petrified By The Sun In Convalescence<br />
And The Long Departed Lover, insieme a Midori Hirano<br />
e Moskitoo) non solo che esempi di un procedere che è<br />
prima “ideologico” che strettamente musi<strong>cale</strong> e che trova<br />
nella controparte sonora - collag<strong>is</strong>tica, astratta, deviata<br />
e mutante - una sua definizione totalizzante.<br />
Ascoltatelo con la richiesta e dovuta attenzione e lasciatevi<br />
trascinare dalle volute architettate da Borrelli. Dopo<br />
di che sbrigatevi ad accaparrarvi una delle purtroppo<br />
sole 150 copie.<br />
(7.2/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
A C newmAn - Shut down <strong>the</strong> StreetS<br />
(mAtAdor, ottobre 2012)<br />
Genere: pop rock<br />
Nel terzo lavoro sol<strong>is</strong>ta di A.C. Newman - due anni abbondanti<br />
dopo il buon Get Guilty - avverti una specie<br />
di entusiastica rassegnazione. Il buon Carl sembra infatti<br />
arrendersi all’inevitabile: per quanto genuinamente tenti<br />
di abbozzare un percorso sol<strong>is</strong>tico, è innanzitutto il leader<br />
dei New Pornographers, quella la cifra espressiva<br />
e l’orizzonte stil<strong>is</strong>tico. D’altro canto, si muove in questa<br />
falsariga senza pigrizia, fa perno sulla padronanza per<br />
approfondire e svariare, con generosità. Nelle dieci tracce<br />
di Shut Down The Streets non azzecca mai l’impasto<br />
killer, però riesce sempre a mantenersi su un livello di<br />
piacevolezza arguta, vivace, a tratti persino raffinata.<br />
Accanto ai consueti pedaggi Beach Boys (lo slancio frugale<br />
di Do Your Own Time, le trovate e gli struggimenti a<br />
fuoco lento di They Should Have Shut Down The Streets), ai<br />
divert<strong>is</strong>sement power-pop (l’incalzante Encyclopedia Of<br />
Classic Takedowns, ospite Neko Case ai cori), alle glasse<br />
60s (There’s Money In New Wave, I’m Not Talking) e alle<br />
gelatine remmiane (Hostages), capita infatti d’incontrare<br />
miraggi desertici come Wasted Engl<strong>is</strong>h, valzerini sghembi<br />
punteggiati di loop sintetici (You Could Get Lost Out Here)<br />
oppure trepidazioni traditional (mandolino, clarinetto,<br />
tuba...) come The Troubadour.<br />
Ok, Newman non sarà un grand<strong>is</strong>simo e tende un po’ a<br />
ripetersi ormai, ma una cosa possiamo sostenerla senza<br />
remore: la sua proverbiale immediatezza è una trama<br />
di complessità r<strong>is</strong>olte grazie ad una fervida m<strong>is</strong>cela di<br />
attitudine e talento. Appena un gradino sotto al genio.<br />
(7/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
AdriAn Crowley - i See three birdS<br />
Flying (ChemikAl underground reCordS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: folk sonGwritinG<br />
Il sodalizio tra Chemikal Underground e Adrain Crowley<br />
iniziato nel 2009 continua con il sesto d<strong>is</strong>co del cantautore<br />
di origine maltesi ma cresciuto a Galway, una delle<br />
mille capitali del folk irlandese. Della voce si è già scritto<br />
tutto, basta leggere la recensione di Season of <strong>the</strong><br />
Andrew bird - hAndS oF glory (mom And pop, novembre 2012)<br />
Genere: folk rock<br />
Un d<strong>is</strong>co così non te lo aspetteresti da quel meditabondo perfezion<strong>is</strong>ta che r<strong>is</strong>ponde al<br />
nome di Andrew Bird. Appena otto mesi sono passati dalla pubblicazione di Break It<br />
Yourself, del quale il qui presente Hands Of Glory rappresenta una sorta di appendice<br />
basale. Il materiale proviene dalle stesse sessioni, ma lo spirito è rilassato, amichevole,<br />
ruspante. Scosso da slanci appalachiani, scorticato d’irrequietezza errebì e indolenzito<br />
di trasporto gospel. Riuscendo comunque - anzi forse proprio per questo - ad azzeccare<br />
inedite combinazioni di profondità e rarefazione.<br />
Quattro le cover, il rodeo zompettante del traditional Railroad Bill (dove Bird sbriglia<br />
l’estro al fiddle), l’ombrosa When The Helicopter Comes dei The Handsome Family, una<br />
agrodolce Spirograph dal repertorio degli Alpha Consumer e quella If I Needed You firmata Townes Van Zandt il<br />
cui lir<strong>is</strong>mo stratificato ci ricorda i Byrds del riflusso spiritual/country: sembrano dichiarazioni di non appartenenza<br />
alle rapide del presente, come il passo dell’amico che resta indietro e che ti mette una mano sulla spalla facendoti<br />
sussultare. Non si tratta però di abbracciare la causa del passato per smarcarsi snob<strong>is</strong>ticamente dall’attualità,<br />
semmai di sposare una dimensione espressiva che sia tanto più avulsa quanto più stringente. E per farlo non c’è<br />
una formula, una ricetta, un manuale d’<strong>is</strong>truzioni: somiglia più ad un sortilegio, che in qualche modo ti fa toccare<br />
le corde di un archetipo. Lo stesso che miracolava la Band nella casa rosa e marezzava d’entusiasmo il primo Tim<br />
Buckley: l’inspiegabile capacità evocativa d’una m<strong>is</strong>tura folk, errebì e gospel lasciata fermentare in un caldo, fiero,<br />
spontaneo <strong>is</strong>olamento art<strong>is</strong>tico.<br />
E’ quello che senti nella prosciugata rilettura di Orpheo Looks Back (qui semplicemente Orpheo) e nei notevoli inediti:<br />
una Something Biblical che procede con garbo commovente e tenace, l’iniziale Three White Horses con le caligini<br />
country e le vibrazioni Arcade Fire, la conclusiva chiusura del cerchio di Beyond <strong>the</strong> Valley Of The Three White Horses,<br />
col suo lungo crepuscolo di suggestioni camer<strong>is</strong>tiche e fatamorgane di celluloide. Questo d<strong>is</strong>co ribad<strong>is</strong>ce la statura<br />
di Andrew Bird mettendo sul piatto nuovi indizi e prospettive inattese. Ed è solo un’appendice.<br />
(7.4/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
Sparks firmata da Teresa Greco. Qui basti aggiungere<br />
che l’attacco dell’iniziale Alice Among The Pines fa pensare<br />
immediatamente a Charlie Fink dei Noah And The<br />
Whale, che vengono richiamati anche per altre particolarità<br />
stil<strong>is</strong>tiche.<br />
Il percorso intim<strong>is</strong>tico e bucolico già segno di fabbrica<br />
di un autore che si è oramai rassegnato a essere definito<br />
“serio” dalla stampa irlandese e britannica (“è impossibile<br />
toglierti di dosso un’etichetta quando te la mettono<br />
addosso all’inizio della carriera”), qui si fa più umbratile,<br />
come sottolineato anche dalla brughiera al confine tra<br />
il magico e il tragico ritratta in copertina. Le canzoni di<br />
Crowley sono fatte di poco o niente: qualche accordo<br />
di chitarra, qualche raro fiato (The Mock Wedding), pochi<br />
tocchi di tastiera (The Morning Bells) e su tutto un canto<br />
che non lascia indifferenti, specialmente se ascoltato in<br />
un pomeriggio invernale.<br />
I quadri bucolici, ma soprattutto la personale descrizione<br />
di Dublino (From Champion Avenue to M<strong>is</strong>ery Hill) fanno<br />
pensare a Dickens o, per meglio rimanere in territorio<br />
irlandese, il Joyce di The Dubliners. Allora i riferimenti<br />
si fanno chiari (irlandesità profonda e sofferta, povertà,<br />
campagna e pioggia, il folk) per un gemello di Neil<br />
Hannon che ha scelto la brughiera e la riflessione alla<br />
città e all’ironia. La materia che trattano, però, è la stessa:<br />
l’animo umano di fronte al precipizio della vita.<br />
(7.1/10)<br />
mArCo boSColo<br />
AdriAno modiCA - lA SediA (CArdio A<br />
dinAmo, novembre 2012)<br />
Genere: canzone d’autore<br />
E’ un d<strong>is</strong>co che colp<strong>is</strong>ce senza far rumore, il nuovo di<br />
Adriano Modica. Diversamente da quanto accadeva nei<br />
due ep<strong>is</strong>odi precedenti, La sedia rinuncia a un approccio<br />
immediato e diretto (pop?), delegando al secondo<br />
o al terzo ascolto (almeno) il compito di d<strong>is</strong>tricare tutti<br />
i fili. Non che la materia sia ostica, tutt’altro. La ragione<br />
è da ricercare invece nelle aspirazioni di un lavoro a<br />
suo modo “orchestrale”, allentato, capace di rinsaldare<br />
44 45
il legame profondo di Modica con la canzone d’autore<br />
ma anche di esplorare una dimensione nuova per<br />
quella psichedelia sognante ormai marchio di fabbrica<br />
del music<strong>is</strong>ta. «La sedia è fermarsi, darsi una calmata e<br />
guardare al passato per non dimenticarsi di essere stati<br />
vivi, al presente per preoccuparsi e chiedersi il perché e al<br />
futuro per ricordarsi che c’è sempre un’altra possibilità per<br />
fare meno schifo. Considero il coltivare la memoria come la<br />
base di un progresso sano, sottintendendo per progresso la<br />
rielaborazione delle cose in funzione del benessere e non la<br />
manipolazione del concetto di benessere in funzione delle<br />
cose. Non imparare dagli sbagli è al di sotto persino delle<br />
bestie».<br />
La trilogia inaugurata dai due lavori pubblicati in passato<br />
trova quindi compimento: dall’infanzia (la stoffa<br />
morbida e confortevole di Annanna), all’adolescenza<br />
(la pietra dura della realtà esemplificata da Il fantasma<br />
ha paura), all’età matura qui rappresentata dal legno,<br />
materiale caldo e comunque vivo. Si fa pace con i mostri<br />
della vita reale, insomma, affrontandoli finalmente con<br />
occhi diversi.<br />
Un concept sui tempi moderni? Probabilmente si, ma<br />
alla maniera di Modica. Il che significa d<strong>is</strong>torcere il punto<br />
di v<strong>is</strong>ta fino a interiorizzarlo in un grandangolo autobiografico<br />
sfumato, grazie soprattutto a una musica<br />
che gioca con gli spazi vuoti, le pause, gli arrangiamenti<br />
articolati. Con la poetica dei testi che segue a ruota: non<br />
più le fotografie oniriche ma essenzialmente descrittive<br />
dei “cassetti chiusi a chiave” di qualche anno fa, piuttosto<br />
suggestioni da cogliere, espression<strong>is</strong>mo slegato dalla<br />
consecutio temporum. Se Che mi dai è il brano più cinematografico<br />
e l<strong>is</strong>ergico del lotto con i suoi cerchi concentrici<br />
di fagotto, mellotron e voci, l’iniziale Alieni è il<br />
Modica più familiare, Almeno il cielo è sempre uguale è<br />
l’Italia musi<strong>cale</strong> in bianco e nero di cinquanta anni fa, Il<br />
divano mescola Syd Barrett e un’indole da brass band,<br />
L’albero delle mollette è cabaret in stile Liza Minnelli traviato<br />
dai Beatles (con la chiusura affidata agli intrecci<br />
vocali del “Coro acrobatico delle voci nell’armadio”).<br />
Quel che rimane di un d<strong>is</strong>co reg<strong>is</strong>trato in analogico,<br />
ambizioso (numeros<strong>is</strong>simi i contributi strumentali, dal<br />
timpano al vibrafono, dal clavicembalo agli ottoni, dal<br />
flauto dolce agli archi) e a cui partecipa con un cameo<br />
anche quel Duggie Fields nel ‘69 coinquilino del Barrett<br />
già citato, è il m<strong>is</strong>to paradossale di classic<strong>is</strong>mo ed<br />
estrema libertà formale che si respira al suo interno. A<br />
dimostrazione che la personalità, quando c’è, non ha<br />
b<strong>is</strong>ogno di effetti speciali o di trucchi da imbonitore.<br />
(7.2/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
AeroSmith - muSiC From Ano<strong>the</strong>r<br />
dimenSion! (ColumbiA reCordS, novembre<br />
2012)<br />
Genere: tamarrock+ballads<br />
Nati ad inizio anni ‘70 come band di culto all’ombra dei<br />
giganti del rock (dai Led Zeppelin ai Rolling Stones),<br />
gli Aerosmith riuscirono a lasciare una traccia importante<br />
(Toys In The Attic e Rocks) appena prima dell’arrivo<br />
dello spazzino chiamato punk. Letteralmente a pezzi<br />
e autori di prove indecorose nella prima metà degli<br />
anni ‘80, Steven Tyler e compagni (all’epoca i chitarr<strong>is</strong>ti<br />
Perry e Whitford abbandonarono la causa per qualche<br />
anno) tornarono sulla cresta dell’onda, aggrappandosi<br />
alle spalle dell’esplosione glam/hair (e di MTV), con<br />
gli album Permanent Vacation e Pump, prima tuffarsi<br />
nei ‘90 con ballate strappalacrime di successo (Amazing,<br />
Cryin’ e poi I Don’t Want to M<strong>is</strong>s a Thing).<br />
Anni zero praticamente nulli, tanto che l’ultimo album<br />
vero e proprio (il dimenticabil<strong>is</strong>simo Just Push Play) r<strong>is</strong>ale<br />
addirittura ad undici anni fa, seguito poi da problemi<br />
di varia natura, cover e uscite minori. Si ripresenano<br />
nel 2012 con Music from Ano<strong>the</strong>r Dimension!, album<br />
che sulla carte avrebbe dovuto rappresentare il grande<br />
comeback sulla scena mondiale.<br />
Purtroppo per loro, partendo dall’artwork old-style (e<br />
dec<strong>is</strong>amente primi-883), è chiaro fin da subito che gli<br />
Aerosmith non riescono a b<strong>is</strong>sare quanto fatto dagli<br />
AC/DC qualche anno fa: la riproposizione, quasi caricaturale,<br />
di se stessi è la medesima, ma manca il tiro<br />
giusto... e non solo.<br />
L’album infatti si apre con LUV XXX, introdotta da un d<strong>is</strong>corso<br />
da datato sci-fi movie è il classico riff-orama hard<br />
bello ritmato con chorus che rimanda a Love In a Elevator,<br />
Steven però appare d<strong>is</strong>tante e fiacco, protagon<strong>is</strong>ta<br />
- un po’ come su tutto il d<strong>is</strong>co - di una ricercata energia<br />
ormai persa (si pensi all’ultimo Kied<strong>is</strong>).<br />
Rock-blues tamarro (tra Stones e AC/DC) come Oh Yeah<br />
o la decente Legendary Chid (ad un certo punto è impossibile<br />
non pensare a Sweet Emotion), aperture corali<br />
insensate (Beautiful, dove Tyler insegue Mat<strong>the</strong>ws Shadows<br />
degli Avenged Sevenfold), autocitazion<strong>is</strong>mi vari<br />
(le chitarre+fiati di Out Go The Lights) e tentativi speed<br />
che non vanno da nessuna parte (Street Jesus)<br />
Poi ci sono loro, ovviamente, le cheesy-ballads languide<br />
da rimorchio: la semiacustica Tell Me, We All Fall Down, la<br />
pacchian<strong>is</strong>sima (telefilm anni ‘90 dietro l’angolo) What<br />
Could Have Been Love? e il d<strong>is</strong>astro annunciato di Can’t<br />
Stop Loving You, un pezzo alla ultimo Kid Rock in compagnia<br />
dell’ex-reginetta del country-pop Carrie Underwood,<br />
negli anni soppiantata da Taylor Swift. Chiude<br />
Ano<strong>the</strong>r Last Goodbye (co-scritta da Desmond Child,<br />
eAgle twin - <strong>the</strong> FeA<strong>the</strong>r tipped <strong>the</strong> Serpent’S SCAle (Sou<strong>the</strong>rn lord, ottobre 2012)<br />
Genere: post stoner<br />
Non è dato sapere se il messaggio criptico (e non avrebbe potuto essere altrimenti)<br />
rilasciato dagli Eagle Twin al termine delle reg<strong>is</strong>trazioni di The Fea<strong>the</strong>r Tipped <strong>the</strong> Serpent’s<br />
S<strong>cale</strong> - “questo d<strong>is</strong>co segna il termine di un lungo e oscuro processo di ricerca, per<br />
tutte le persone coinvolte nel progetto..” - significhi la fine di un’era (o la fine del tutto).<br />
Ipotizziamo che loro, sconfortati dalla poca considerazione a fronte di una carriera sinceramente<br />
titanica, abbiano optato per una legittima riflessione: continuare o dichiarare<br />
terminato il proprio excursus musi<strong>cale</strong>? Gli eventi ce lo diranno ma, nel frattempo,<br />
non possiamo non rilevare come quest’ultimo lavoro del gruppo sia uno dei d<strong>is</strong>chi di<br />
metal estremo più interessante degli ultimi anni.<br />
Una radice ultra core e doom nella loro storia (provengono dai seminali Iceburn e Ascend) e la forza di <strong>is</strong>olarsi<br />
dall’universo per penetrare i m<strong>is</strong>teri dell’occulto, hanno permesso al duo di Salt Lake City di sviluppare un concept<br />
a partire dal già significativo debutto The Unkindness of Crows, che oggi esplode in tutta la sua soffocante meraviglia.<br />
E per l’occasione, la produzione di Rundall Dunn ha significato l’aggiunta di un terzo uomo, di un concepteur<br />
d’elite, in grado di trasmettere alla band le regole soniche già applicate ai Wolves In The Throne Room, agli Earth<br />
e ai Bor<strong>is</strong>.<br />
Descrivere gli Eagle Twin oggi è praticamente impossibile se non partendo proprio dai Wolves In The Throne<br />
Room dai quali la band eredita, non tanto il caos pagano della radice black metal, quanto la violenza oscurant<strong>is</strong>ta<br />
del doom estremo. Ma sarebbe limitativo definirli una doom band. Anzi, sarebbe fuorviante. Provate ad immaginare<br />
la fusione di Earth, Slayer e Pentagram, polverizzare il r<strong>is</strong>ultato in una macina composta dalle mole monolitiche<br />
di Mayhem e Saint Vitus e, infine, immaginare il r<strong>is</strong>ultato soffiato nell’oscurità del cosmo. Sarete vicini alla poetica<br />
maledetta di una Ballad Of Job Cain div<strong>is</strong>a in due parti, continuamente altalenate tra drumming epici, spoken<br />
gutturali, lastre di doom siderurgico e stomp gong alla Bongripper.<br />
Ancor di più in Lorca, sembra di avvicinarsi nuovamente alle prime note del debutto dei Black Sabbath, ma sconvolto<br />
dall’ascet<strong>is</strong>mo malefico dei Bong e dalla marzialità neuros<strong>is</strong>iana. Gli Eagle Twin non solo hanno coraggio,<br />
ma anche un progetto musi<strong>cale</strong> solido e inattaccabile che sublima nell’apocal<strong>is</strong>se Coleridgiana di Snake Hymn, in<br />
cui si materializza l’incubo dronico dei Sunn O))) prima che il break tipico degli Slayer di Angel Of Death squarci<br />
il velo e apra a una danza sacrifi<strong>cale</strong> violent<strong>is</strong>sima. Niente da dire, gli Eagle Twin hanno scritto una delle migliori<br />
pagine di doom core degli ultimi anni.<br />
(8/10)<br />
mArio ruggeri<br />
storico filo conduttore tra Aerosmith e Bon Jovi).<br />
Considerando il livello di Music from Ano<strong>the</strong>r Dimension!<br />
speriamo sia davvero un sincero “last goodbye”:<br />
gli Aerosmith del 2012 hanno tutti i sintomi di una <strong>is</strong>pirazione<br />
che non c’è e di un attaccamento mania<strong>cale</strong> a<br />
certi stereotipi (loro, in prim<strong>is</strong>) legati inevitabilmente al<br />
passato e forzatamente riproposti fino allo sfinimento<br />
(l’album, tra le altre cose, è fin troppo lungo) nel segno<br />
dell’obsolescenza.<br />
(4.4/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
AllAh-lAS - AllAh-lAS (innovAtive leiSure,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: 60’ GaraGe<br />
Il debutto di questo quartetto losangelino per Innovative<br />
le<strong>is</strong>ure è un’esperienza totalizzante. Come chiudere<br />
gli occhi ed entrare nella macchina del tempo destinazione<br />
West Coast, la San Franc<strong>is</strong>co garage e surf dei ‘60<br />
e di Greg Shawn: Nuggets, Bomp, tutta quella roba lì. Ci<br />
siamo arrivati alla fine, un retrò completamente identico<br />
al vintage.<br />
Viene da chiedersi come faccia a piacere un d<strong>is</strong>co così<br />
nel 2012, perché indubbiamente piace. La r<strong>is</strong>posta è in<br />
realtà abbastanza semplice, gli Allah-Las hanno trovato<br />
la ricetta perfetta: evirare il garage di cui sopra della sua<br />
componente rock’n’roll, sostituendola con il jingle jangle<br />
46 47
dei Byrds e il surf dei Beach Boys. D’altronde fare garage<br />
oggi pare davvero diventato sinonimo di saccheggio,<br />
quindi tanto vale razziare dai Byrds e dai Beach boys che<br />
piacciono a tutti giusto? E se due più due fa quattro, un<br />
fac-simile con sapore alla Youger than Yesterday dovrebbe<br />
quantomeno essere gradevole, fosse anche solo<br />
un quarto dell’originale andrebbe ben<strong>is</strong>simo. Ragionamento<br />
perfetto, funziona proprio così.<br />
Gli Allah las hanno il merito di padroneggiare bene la<br />
materia, di far scorrere queste dodici tracce senza intoppi,<br />
di far vorticare di atmosfere svagate, leggere psichedelie<br />
e spiaggie in salsa lounge con assoluta naturalezza,<br />
permettendosi anche di uscire dai binari con la bossa<br />
nova di Ela Navega. Qualcosa di simile l’avevano fatto un<br />
paio d’anni fa i Fresh & onlys con Play it strange, ma<br />
qui la copia è di fedeltà assoluta. Si fin<strong>is</strong>ce col rimuginare<br />
il ritornello “beh cosa ci vuole, lo potevo fare anch’io”. E<br />
invece l’hanno fatto loro, onore al merito.<br />
(6.8/10)<br />
SteFAno gAz<br />
Anthony phillipS - City oF dreAmS<br />
(voiCeprint, diCembre 2012)<br />
Genere: musica elettronica<br />
Confacendosi a meraviglia col significato della collana<br />
Private Parts and Pieces, anche l’undicesima edizione della<br />
raccolta si rivela espletazione di spunti e annotazioni<br />
dec<strong>is</strong>amente privati; la musica elettronica qui affrontata<br />
da Phillips è - più che in passato - soliloquio d<strong>is</strong>interessato<br />
a considerare l’es<strong>is</strong>tenza di un qualsiasi sottogenere<br />
nato e cresciuto negli ultimi quarant’anni (da quando<br />
cioè, l’elettronica fece breccia sul mercato popolare grazie<br />
ai vari Morton Subotnick e Walter Carlos).<br />
City Of Dreams rinuncia momentaneamente al mood<br />
acustico delle opere più note di Ant d<strong>is</strong>costandosi pure<br />
dalle recenti dolcezze orchestrali in coppia con Andrew<br />
Skeet in Seventh Heaven. R<strong>is</strong>ultato di queste investigazioni<br />
sono trentuno acquerelli che alternano pacificazioni<br />
ambient (Watching While You Sleep, Coral Island, Astral<br />
Bath) a soluzioni strumentali vicine per enfasi v<strong>is</strong>iva al<br />
mondo delle colonne sonore, a cui si aggiungono alcuni<br />
ep<strong>is</strong>odi di scherzoso stordimento (la titletrack).<br />
Nei momenti più riusciti si gioca seriamente alla sottrazione,<br />
evocando paesaggi di indubbia profondità come<br />
nel caso di Desert Flower. Nella mancanza di un filo conduttore<br />
che leghi insieme una canzone alla successiva<br />
c’è spazio anche per uno scampolo tastier<strong>is</strong>tico più convenzionale<br />
e lì il profession<strong>is</strong>ta sa commuovere con una<br />
progressione di accordi di meticolosa semplicità (Air &<br />
Grace). King Of The Mountains parte con l’enfasi fluida<br />
del tipico Vangel<strong>is</strong> cinematografico per sovraincidere<br />
un assolo di chitarra elettrica che rimanda al Göttsching<br />
di fine Anni ‘70. I guai si odorano quando è selezionato<br />
sul synth un timbro oltremodo datato (Piledriver) o<br />
nell’azzardo di frenesie robotiche sprovv<strong>is</strong>te del giusto<br />
ingranaggio (lo schizzo jungle Night Train To Novrogod).<br />
Il tutto - va ribadito senza che questa voglia r<strong>is</strong>ultare<br />
necessariamente un merito - senza il benché minimo<br />
criterio commerciale.<br />
Se ce ne fosse b<strong>is</strong>ogno, Phillips ribad<strong>is</strong>ce al mercato e<br />
ai suoi fedel<strong>is</strong>simi l’assoluto d<strong>is</strong>interesse nel dare alle<br />
stampe un prodotto che non riproduca tale e quale il<br />
suo estro del momento. Davvero indipendente, a tutto<br />
e a tutti.<br />
(6.9/10)<br />
Filippo bordignon<br />
AntibAlAS - AntibAlAS (dAptone reCordS,<br />
AgoSto 2012)<br />
Genere: afrobeat<br />
Sono passati 5 anni dal precedente Security nel quale il<br />
collettivo di Brooklyn aveva spinto i propri limiti stil<strong>is</strong>tici<br />
fin quasi oltre l’afrobeat nel cui ritorno in auge aveva<br />
giocato un ruolo non secondario e al quale qui torna,<br />
<strong>is</strong>pirato in parte dall’aver lavorato al musical Fela!, in parte<br />
dal ritorno al banco della produzione dell’ex-membro<br />
Gabe Roth (anche produttore dei primi 3 d<strong>is</strong>chi).<br />
Il gruppo infatti ricompatta le linee tornando ad una più<br />
stretta osservanza del manuale, dalla quale però riparte<br />
cercando la novità altrove, quasi più dall’interno che non<br />
nella contaminazione.<br />
I riff di chitarra e di organo acqu<strong>is</strong>tano infatti maggiore<br />
centralità r<strong>is</strong>petto a prima, guidando il flusso musi<strong>cale</strong><br />
ampiamente d<strong>is</strong>piegato nella durata lunga dei brani e<br />
sostenuto dalla forza poliritmica dell’ensemble, questa<br />
affidata anche a fiati in contrappunto e ricamo ritmico:<br />
vedi l’apertura subito in ballo di Dirty Money, che rallenta<br />
solo leggermente in The Ratcatcher ma arriva vicino<br />
al reggae in Him Belly No Go Sweet, viaggia d<strong>is</strong>pari sulle<br />
stratificazioni ritmiche di Ari Degbe e Ibéji prima di ripartire<br />
nella frenetica apoteosi finale di Sáré Kon Kon col sax<br />
che si riprende il centro della scena tirando il tutto senza<br />
nessuna voglia di smettere.<br />
Per qualcuno è un paradosso che un gruppo occidentale<br />
sia così calato dentro una musica che nella terra e negli<br />
anni d’origine veniva suonata con un orecchio agli strumenti<br />
e l’altro alla porta da cui potevano irrompere militari,<br />
e vede in ciò la causa dell’assenza della tensione che<br />
animava i d<strong>is</strong>chi di Fela Kuti; ma i testi, che esprimono<br />
talvolta sotto metafora talvolta direttamente temi cari al<br />
movimento Occupy (per il quale hanno anche suonato,<br />
e si guardi anche il video della suddetta Dirty Money),<br />
holly herndon - movement (rvng intl., novembre 2012)<br />
Genere: experimental<br />
Movement, l’esordio di Holly Herndon, è una sorta di saggio anatomico: il corpo in relazione alla tecnologia e la<br />
decostruzione dello stesso allo stato pre-codificato. Più in generale è d<strong>is</strong>co ultra-concettuale, che passa in rassegna<br />
vari nerd<strong>is</strong>mi 90s (realtà virtuale, post-umanesimo, cyborg manifestoes e cyber-femmin<strong>is</strong>mo)<br />
per poi incasellarsi, estremamente contemporaneo, nel dual<strong>is</strong>mo fra tecnofobia<br />
e tecnofilia. Un dual<strong>is</strong>mo che in musica viene steso attraverso il doppio binario curriculare<br />
della nostra: da una parte il club come appreso dagli anni spesi in consolle a<br />
Berlino, dall’altra l’accademia come da laurea in Electronic Music and Recording Media<br />
al Mills College di San Franc<strong>is</strong>co e attuale dottorato a Stanford.<br />
Si parla quindi di laptop e composizione vo<strong>cale</strong> processat<strong>is</strong>sima, di combinazione fra<br />
gelide astrazioni avant-garde e techno v<strong>is</strong>cerale, di blend fra cerebrale e f<strong>is</strong>ico. Eppure<br />
i paragoni - logici ed immediati - con gli ultimi lavori di Actress e Laurel Halo sono<br />
riduttivi: la proposta della Herndon è ben più coraggiosa ed intenzionata ad abbattere muri e nozioni assodate. La<br />
stessa concezione di elettronica come “intrattenimento” è limitata in Movement a due ep<strong>is</strong>odi su sette, ovvero la<br />
cavernosa Fade - che suona come il r<strong>is</strong>ultato di una collab fra Ellen Allien, Andy Stott e i Knife dopo una v<strong>is</strong>ione<br />
di Ghost In The Shell - e l’acida, kinetica, Aphex Twin-esca titletrack. Ep<strong>is</strong>odi che non possono che essere letti come<br />
concessioni all’accessibilità, come antri in cui sciogliere la tensione.<br />
La maggior parte del d<strong>is</strong>corso è infatti estrema, ansiolitica, tenuta per <strong>is</strong>olamenti drastici degli elementi essenziali<br />
del grottesco, a tratti deliberatamente d<strong>is</strong>gustosa. È il caso di Brea<strong>the</strong>, in cui respiri, sospiri e ansimi sono microprocessati,<br />
tritati e deformati per il massimo d<strong>is</strong>agio; ancora di Dilato, controparte ideale dell’I Am Sitting In A Room<br />
di Alvin Lucier e della Numb di Stott, con la ripetizione del titolo affidata ad una bella voce outsider - quella del<br />
baritono classico Bruce Rameker - e condotta per via di time-stretching e pitch-shifting dal gutturale all’angelico,<br />
fino al totale, inquietante spoglio dei ruoli di genere.<br />
Movement è breve e d<strong>is</strong>giunto, ma non l’ennesima residenza per la sperimentazione incons<strong>is</strong>tente. La Herndon<br />
crede davvero nelle sue idee, la perseveranza che ci mette per realizzarle è palpabile e fa struttura da sè. Non solo:<br />
all’ascolto ripetuto vengono rivelati diversi livelli di profondità, tanto che dall’attrazione inconscia per l’orrorifico si<br />
arriva a rovescio alla sfera intima, quasi-sessuale. Come da concept, dalla antica (ma del tutto superata?) diffidenza<br />
e timore per tutto ciò che è tech, all’oggi dei device come estensione di noi stessi e della nostra espressione. Il lato<br />
sintetico della voce umana e quello organico della “musica fatta al computer” sono qui entrambi legittimati. Non<br />
è un d<strong>is</strong>co facile e non può esserlo, ma alla dedizione si rivela per ciò che è: arte.<br />
(7.5/10)<br />
mASSimo rAnCAti<br />
mostrano che si può guardare comunque il mondo sfruttando<br />
la prospettiva, certo più sicura ma diversa, offerta<br />
dal vivere al centro dell’Impero. Magari senza senso di<br />
pericolo, ma con “tiro” e <strong>is</strong>pirazione.<br />
(7.2/10)<br />
giulio pASquAli<br />
AtlAS geniuS - through <strong>the</strong> glASS ep<br />
(wArner muSiC group, novembre 2012)<br />
Genere: pop rock<br />
Ennesimo nome nuovo destinato al successo? Gli Atlas<br />
Genius sono tra le “next big things” della scena Australiana<br />
(recentemente vi abbiamo parlato dei Gypsy & The<br />
Cat e dei Collarbones) ed hanno tutte le caratter<strong>is</strong>tiche<br />
per fare breccia tra il pubblico figlio di O.C..<br />
La band è formata da Keith Jeffrey, Steven Jeffrey, Michael<br />
Jeffrey e Darren Sell e se siete stati abbastanza attenti<br />
vi starete chiedendo “ma sono fratelli?”. R<strong>is</strong>posta affermativa,<br />
tanto che qualcuno li ha già etichettati come i Kings<br />
Of Leon australiani, non solo per alcune sfaccettature<br />
vocali di Keith.<br />
Gli Atlas Genius escono per la Warner Bros e non sorprende<br />
quindi che stiano già iniziando a ricevere un d<strong>is</strong>creto<br />
airplay radiofonico negli States grazie al brano<br />
Trojans ed il suo appicicoso chorus “Your trojan’s in my<br />
head”. Detto questo, la formazione guidata da Keith Jeffrey<br />
non eccelle in nulla e lo dimostra senza troppi veli<br />
nell’EP di debutto Through The Glass.<br />
48 49
Più un assaggio che un vero e proprio EP considerato<br />
l’esile contenuto, il quattro tracce Through The Glass<br />
si apre con la sopracitata Trojans, brano in cui le particolarità<br />
vanno ricercate in alcune e vaghe inflessioni<br />
alla Foals, probabilmente più evidenti nella successiva<br />
Back Seat: pulizia sonora, giochetti in direzione mathpop<br />
e andazzo svogliato ma trascinante. Il terzo brano<br />
in s<strong>cale</strong>tta, Symptoms, rimedia un innocuo incrocio tra<br />
Temper Trap, Phoenix e un Miike Snow svuotato della<br />
componente electro prima di lasciare spazio ad una<br />
versione acustica di Trojans, probabilmente progettata<br />
per finire in una scena conclusiva di qualche telefilm<br />
americano.<br />
La musica contenuta in Through The Glass e gli altri<br />
brani d<strong>is</strong>ponibili su internet, tra cui If So presente nella<br />
soundtrack del videogioco Fifa 13, per il momento non<br />
ci permettono di sbilanciarci più di tanto. Attendiamo<br />
l’album, con aspettative piuttosto tiepide.<br />
(6/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
bAbA SiSSoko - AFriCAn griot groove<br />
(AFrodiSiA, giugno 2012)<br />
Genere: amandran<br />
Come ci spiegano le note di copertina, S<strong>is</strong>soko appartiene<br />
ad un’illustre dinastia di griot: figura centrale nella<br />
cultura dell’africa subsahariana, un po’ saggio, un po’<br />
cantastorie, un po’ memoria collettiva della comunità,<br />
come ai tempi in cui i ruoli di sacerdote, poeta, sciamano<br />
degli elementi e filosofo non erano così d<strong>is</strong>tinti.<br />
Un’eredità ancestrale protrattasi però anche oltre i tempi<br />
del colonial<strong>is</strong>mo e delle varie diaspore africane, grazie<br />
a un adattamento alle nuove circostanze che, specie in<br />
situazioni di emigrazione, continuano a vedere necessaria<br />
la presenza di qualcuno che interpreti e trasmetta<br />
la cultura di un popolo (e lo stesso S<strong>is</strong>soko si è trasferito<br />
da tempo in Calabria). Nella pratica dei griot musica e<br />
aspetto scenico hanno sempre rivestito un ruolo centrale:<br />
non stup<strong>is</strong>ce quindi vedere alcuni di essi avere<br />
successo nello spettacolo.<br />
Baba porta avanti da anni una ricerca sull’amandran<br />
e sulla musica tradizionale del suo paese d’origine, in<br />
un’ottica di contaminazione che lo ha portato a suonare<br />
i suoi strumenti tradizionali (lo ‘ngoni, a corda, e i tamani,<br />
tamburi parlanti) con gruppi piuttosto lontani tra di<br />
loro (Art Ensemble of Chicago e Buena V<strong>is</strong>ta Social<br />
Club per dirne due), o a metter su collaborazioni che<br />
portavano a mescolare il suo patrimonio musi<strong>cale</strong> col<br />
jazz o col folk rock (vedi il progetto con Aka Moon e<br />
Black Machine, o quello con Il pozzo di san Patrizio).<br />
Stavolta la scelta è diversa: si torna all’essenzialità ori-<br />
ginaria, drums and wires per davvero, a mostrare come<br />
l’amandran sia davvero l’origine del blues, sia per l’affinità<br />
tra lo ‘ngoni e la chitarra, sia per i call and response,<br />
sia per raccontare il quotidiano e gli umori profondi di<br />
una cultura (emblematica Afrika/Afro blues, ma anche le<br />
venature fusion di So/Fanzia).<br />
Ma nell’arte come in biologia è la mescolanza che rende<br />
più forti: così i 4 membri del gruppo che lo accompagna<br />
provengono da zone diverse del centroafrica (Senegal,<br />
Costa d’Avorio, Camerun) più un cubano, e tra il groove<br />
del titolo, un’aria diffusa da canti tradizionali e frequenti<br />
assonanze afrobeat, la musica esce dall’ortodossia trovando<br />
uno dei momenti più alti nel funk di Ambita/<br />
Bakadaji o nei ricordi d’India col basso in evidenza di<br />
Yala (ma non solo, vedi Mama Don) mentre il manifesto<br />
Donnya oscilla tra swing e blues (e dal vivo prende una<br />
in perfetta naturalezza una piega reggae).<br />
A questo punto della carriera S<strong>is</strong>soko ha ormai la mano<br />
sicura per essere se stesso mentre rilegge la tradizione.<br />
(7.1/10)<br />
giulio pASquAli<br />
bAlmorheA - StrAnger (weStern vinyl,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: chamber post rock<br />
Con il quinto d<strong>is</strong>co, il duo di Austin (benché ormai f<strong>is</strong>icamente<br />
separato) prova a cambiare direzione: con<br />
calma, com’è nelle loro corde, ma il camer<strong>is</strong>mo dei d<strong>is</strong>chi<br />
precedenti qui accoglie variazioni di suono e dinamica<br />
dovute ad una paletta strumentale che adesso include<br />
anche, tra le altre cose, inserti elettronici, chitarre elettriche,<br />
oltre a una maggiore presenza delle percussioni.<br />
Siamo sempre lungo le onde di strumentali sereni, ottimamente<br />
prodotti, che flu<strong>is</strong>cono piacevoli e atmosferici<br />
l’uno nell’altro (i due brani iniziali), ma già nel terzo Fake<br />
Fealty le dinamiche portano a momenti di grinta ritmica<br />
che proseguono anche nella successiva Dived. Archi e<br />
piano sono qui come al solito, ma le chitarre effettate<br />
richiamano in Jubi certo Me<strong>the</strong>ny anni ‘80, tracciano<br />
etereità in Shore e nel bozzetto Islet (ma anche in Pyrakantha,<br />
prima del crescendo con elettronica, steel drum<br />
e infine batteria tradizionale), mentre la più strana del<br />
lotto, Artifact, giustifica gli accostamenti precedenti al<br />
post-rock coi suoi arpeggi da Fripp primi anni ‘80 (e anche<br />
certi controtempi si collocano tra i King Crimson di<br />
quel periodo e i suoi d<strong>is</strong>chi con Andy Summers).<br />
Passi avanti, forse ancora da focalizzare del tutto, ma<br />
intrapresi con l’eleganza consueta.<br />
(6.9/10)<br />
giulio pASquAli<br />
king dude - burning dAylight (dAiS, novembre 2012)<br />
Genere: dark folk<br />
Parlavamo poco tempo fa dei Cult of youth ed ecco arrivare l’illustre compare, TJ Cowgill aka King Dude, altra punta<br />
di diamante del neofolk americano. Un po’ cantante un po’ imprenditore (si è inventato uno marchio streetwear a<br />
croce in giù dal nome Actual Pain, di cui cura personalmente accessori magliette eccetera) Cowgill l’anno scorso<br />
aveva sorpreso con Love, d<strong>is</strong>co struggente che rileggeva in chiave nera e scarnificata parecchia della tradizione<br />
folk a stelle e str<strong>is</strong>ce scomodando i vari Dylan e Cash.<br />
Come i suoi predecessori anche questo nuovo d<strong>is</strong>co è intr<strong>is</strong>o di sacralità, invocazioni<br />
a Dio e al Diavolo, personaggi rassegnati allo scorrere del tempo e quindi al sopraggiungere<br />
della morte (i drive my hearse in reverese coz’ i know when i die o ancora <strong>the</strong>re’s<br />
no use in lying cuz’ i know that i’m dying my friend/ my body <strong>is</strong> leaving and i know Death<br />
<strong>is</strong> reeling me in). Tutto gira intorno a voce e chitarra, gli elementi essenziali del King<br />
Dude pensiero. Temi morriconiani a sfondo western, ballate per cuori spezzati, Cowgill<br />
che gioca a fare il crooner con la sua voce greve e baritonale. Ed è proprio la voce il<br />
topos più indagato, un canto estremo e quasi parod<strong>is</strong>tico nei timbri funerari (Barbara<br />
Anne) o nell’esaltazione del vibrato (Lorraine), in ogni caso alla ricerca di nuove forme<br />
e soluzioni senza rinunciare a un pizzico di ironia.<br />
Anche la musica allarga il respiro, agguanta la rabbia del blues (I’m Cold), vede assimilata la lezione Dirty Beaches<br />
(Holy Land che rilegge in chiave polverosa i Suicide, You can break my heart che già dal titolo bussa alla porta di<br />
papà Elv<strong>is</strong>) e soprattutto pone molta più attenzione negli arrangiamenti, finalmente inc<strong>is</strong>ivi in un fiorire di strepitii<br />
tenui e altezzosi. Così Burning Daylight riesce a avanzare con maggior complessità quella dicotomia tra dolcezza<br />
e oscurità che è il vero tratto d<strong>is</strong>tintivo della poesia Cowgilliana.<br />
I detrattori potrebbero dire che è uno un po’ finto il Dude, uno pronto a marciare nell’hype del ritual<strong>is</strong>mo stile<br />
chitarra e passamontagna, eppure sotto la maschera c’è un songwriting <strong>is</strong>pirato, capace di emozionare e centrare<br />
sempre il bersaglio (Jesus in <strong>the</strong> countryard). Il dark folk 2012 è marchiato col suo nome.<br />
(7.5/10)<br />
SteFAno gAz<br />
bAmbounou - orbiting (50 weAponS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: techno<br />
Che la techno sia il vero, nuovo terreno di conqu<strong>is</strong>ta<br />
dei producer votati all’inventiva non lo dimostra solo<br />
quel che abbiamo raccontato su speciale e osservato dal<br />
vivo, ma anche quel che stan facendo due delle label<br />
più dinamiche e originali che si son v<strong>is</strong>te quest’anno,<br />
Monkeytown e 50 Weapons. Entrambe dirette con mano<br />
caparbia e dec<strong>is</strong>a dai Modeselektor, d’estrazione intellettuale<br />
la prima e più club-oriented la seconda, nel 2012<br />
le due etichette han saputo offrirci uno spaccato affascinante<br />
delle direzioni più prolifiche recitate dal verbo<br />
techno, passando dalla rigidità da club di Shed e Benjamin<br />
Damage/Doc Daneeka alle aperture garage ben<br />
orchestrate da Phon.o e Lazer Sword, senza contare le<br />
teorie personali più caratter<strong>is</strong>tiche di Otto Von Schirach<br />
o Anstam e le mosse da fuoriclasse di Mouse On Mars<br />
e Add<strong>is</strong>on Groove.<br />
Coi Modeselektor a dettare i tempi, tutto avviene sem-<br />
pre a gran velocità. Il giovane produttore parigino Bambounou,<br />
ad esempio, non ha fatto nemmeno in tempo<br />
l’anno scorso a venir fuori da etichette underground<br />
come Youngunz e Sound Pellegrino che già questo agosto<br />
era al primo EP su 50 Weapons, poi un altro paio di<br />
mesi e arriva l’album che fa impazzire diversi addetti al<br />
settore, tra cui una garanzia di qualità come Laurent Garnier.<br />
Facile pensare che le esitazioni spar<strong>is</strong>cono quando<br />
non si hanno dubbi, perché il ragazzo in effetti sembra<br />
tutto tranne che un principiante in cerca del proprio<br />
nord: Orbiting mostra sicurezza e autorevolezza in ogni<br />
r<strong>is</strong>volto, componendo un mosaico di sfumature piantate<br />
tra le derive moderne a partire da un midollo osseo fatto<br />
di tensione minimal techno e aggressività urbana.<br />
Da una parte Mass e Let Me Get che esaltano i loop<br />
stretti del juke, con scoppi di energia dancey che il<br />
ghetto difficilmente avrebbe replicato, dall’altra Splaz,<br />
Great Escape e Any O<strong>the</strong>r Service che riprendono le fascinazioni<br />
future-garage con rinnovato spirito melodico<br />
e una punta di sana invidia verso la coppia Jimmy<br />
50 51
mArthA wAinwright - Come home to mAmA (v2 muSiC, ottobre 2012)<br />
Genere: pop<br />
La nascita di un figlio, la morte della madre. La ruota gira e sono carezze e ceffoni, il togliere e il dare della vita<br />
che spesso riverberano sul versante pop-rock come invasive infusioni di concretezza. Con Martha Wainwright,<br />
invece, le cose non vanno così. Forse meno addicted alla messinscena r<strong>is</strong>petto al fratello Rufus, è comunque uno<br />
spettacolo d’arte varia quello che allest<strong>is</strong>ce con questa terza prova d’inediti (a quattro<br />
anni dal buon I Know You’re Married But I’ve Got Feelings Too). Se nel frattempo lo<br />
splendido live dedicato ad Édith Piaf faceva supporre un rinculo verso territori nobili<br />
dell’arte canzonett<strong>is</strong>tica, questo Come Home To Mama - reg<strong>is</strong>trato nello studio di Sean<br />
Lennon - cala sul piatto una rinnovata voglia di sparigliare le carte.<br />
Dec<strong>is</strong>iva è stata la mossa d’affidare la produzione a Yuka C Honda delle Cibo Matto,<br />
che ha portato in dote ghiribizzi elettronici e il prurito della m<strong>is</strong>ticanza stil<strong>is</strong>tica, oltre<br />
al di lei marito Nels Cline, ospite pregiato alla chitarra. Ne r<strong>is</strong>ulta un album poliedrico<br />
e vivace, croccante d’intelligenza e sensibilità. Il reg<strong>is</strong>tro svaria dalla spersa malinconia<br />
bluesy di All Your Clo<strong>the</strong>s alla piacioneria folk-errebì di Can You Believe It, passando da spasmi ed esot<strong>is</strong>mi David<br />
Byrne (la tesa I Wanna Make an Arrest, una Radio Star irrorata glam), solennità crepuscolari (la gravità à la Sandy<br />
Denny di Everything Wrong) e altri approcci diversamente arty (le impalpabili arguzie di Leave Behind, la wave<br />
acidula di I Am Sorry, lo pseudo trip-hop di Some People...).<br />
Quanto a Proserpina, pezzo scritto dalla madre Kate McGarrigle nei suoi ultimi giorni, è un melò camer<strong>is</strong>tico corale<br />
che per quanto suoni avulso dal resto del programma sembra esserne l’ombra luminosa, il momento di massimo<br />
artificio che va a coincidere col massimo di (struggente) verità. Del resto con Martha la messinscena è solo un altro<br />
modo in cui il vero può (rap)presentarsi, prassi che ne potrebbe mettere a r<strong>is</strong>chio la credibilità se la caratura di<br />
autrice ed interprete non fosse a livelli (oramai) alt<strong>is</strong>simi.<br />
(7.2/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
Edgar+Machinedrum: sono le direttive che lasciano<br />
più il segno durante l’ascolto, strappi intelligenti a una<br />
regola base che invece affonda i colpi in Data o Off The<br />
Motion, svelando il retaggio minimal da club underground<br />
di Bambounou. È un suono abrasivo e votato<br />
alla notte, che però sa esibirsi in slanci electro d’impatto<br />
pià cerebrale, come in Capsule Process e EX06. Orbiting<br />
è l’album giusto per riassumere lo stato di forma della<br />
techno 2012 e presentare un autore con le mani in pasta<br />
nella scena che conta. Le scimmie di Berlino non ne<br />
sbagliano più una.<br />
(7/10)<br />
CArlo AFFAtigAto<br />
bettye lAvette - thAnkFul n’ thoughtFul<br />
(Anti-, Settembre 2012)<br />
Genere: soul, r’n’b<br />
50 anni di carriera accidentata che da qualche anno<br />
ottiene i meritati riconoscimenti: le nozze d’oro con la<br />
d<strong>is</strong>cografia arrivano nel momento migliore per questa<br />
signora del soul old style. Per festeggiare, dunque,<br />
autobiografia e d<strong>is</strong>co nuovo che, dopo Interpretations<br />
costruito su firme UK, stavolta pesca il repertorio dagli<br />
USA (con significativa eccezione).<br />
Con la produzione di Craig Street (già con Norah Jones,<br />
tra gli altri) che fa tessere al gruppo una trama sonora<br />
notturna, fremente di d<strong>is</strong>torsioni e di un occasionale<br />
tremolo sulla chitarra (calzante, benché dai Calexico e<br />
da Tarantino in poi sia diventato quasi più inflazionato<br />
del flanger negli anni ‘80), la nostra sfodera tutte le arti<br />
che ben le conosciamo: graffi e passione, ruvidità e cuore,<br />
e la profondità sensuale di una voce che ha cinque<br />
decenni di lezioni soul da impartire.<br />
Anche troppo, però: il repertorio di vocalizzi, ricami, rubati,<br />
variazioni melodiche che Bettye conosce in tutti i<br />
suoi recessi viene squadernato in m<strong>is</strong>ura forse eccessiva,<br />
quasi senza interruzione e, invece di essere utilizzato<br />
come decorazione e abbellimento al momento giusto,<br />
spesso diventa una spezia che prende il posto di qualsiasi<br />
altro sapore.<br />
Certo, Everything’s Broken di Dylan che aveva già una<br />
struttura blues funziona, come I’m Not The One dei classic<strong>is</strong>ti<br />
Black Keys che r<strong>is</strong>ulta personale pur senza esagerare<br />
in d<strong>is</strong>tanza dall’originale; la title track era di Sly<br />
& The Family Stone quindi ci siamo (e la versione ha<br />
tutti i pregi e nessuno dei difetti del d<strong>is</strong>co) e Everybody<br />
Knows Th<strong>is</strong> Is Nowhere è la conclusione che scioglie la<br />
tensione su una nota lieve.<br />
Ma, pur senza pretendere filologia fuori luogo, altre<br />
volte d<strong>is</strong>piace veder sparire le belle melodie originali:<br />
vedi Yesterday Is Here di Tom Waits (retta da un piano<br />
che sembra uscire da un grammofono), o il classico Dirty<br />
Old Town (l’eccezione di cui dicevamo, ma col testo riportato<br />
negli USA delle tensioni razziali) presente in due<br />
versioni (un mid tempo vibrante la prima, un blues rilassato<br />
intorno a una bella figura di batteria la seconda).<br />
Crazy degli Gnarls Barkley, invece, era nell’originale che<br />
soffriva di qualche sguaiatezza, e qui migliora sia nell’arrangiamento<br />
rarefatto che nell’interpretazione vo<strong>cale</strong>,<br />
più m<strong>is</strong>urata r<strong>is</strong>petto al resto; ma rimane il fatto che,<br />
come nelle due precedenti, se avesse cantato un altro<br />
testo e cambiato il titolo non l’avrebbero riconosciuta<br />
neanche gli stessi autori.<br />
Ma non si può certo chiedere a Bettye di rinnegare la<br />
sua natura e la sua storia, o un genere che vive più di<br />
cuore che di osservanze e per il quale tutto ciò va ben<strong>is</strong>simo:<br />
anche un po’ meno, però.<br />
(7/10)<br />
giulio pASquAli<br />
biSon b.C. - loveleSSneSS (metAl blAde,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: heavy metal<br />
Quiet Earth. Dark Ages. Infine Loveleness. Ovvero,<br />
un pianeta terra quieto, un’era oscura e infine una vita<br />
senza amore. In pratica, la trilogia della d<strong>is</strong>perazione,<br />
secondo i B<strong>is</strong>on B.C. che, nel breve giro di tre d<strong>is</strong>chi,<br />
sono passati da band metal emergente (e parzialmente<br />
grezza) a gruppo di riferimento nella scena heavy nordamericana.<br />
Vengono da Vancouver e hanno allineato la<br />
loro carriera a quella della Metal Blade che ne ha patrocinato<br />
gli ultimi lavori, credendo ampiamente nelle loro<br />
possibilità. Ebbene Loveleness è la r<strong>is</strong>posta più concreta<br />
a questo atto di fede e racconta perfettamente origini<br />
e sviluppi dei B<strong>is</strong>on B.C.<br />
Fondamentale conoscere le loro radici, per entrare perfettamente<br />
nel quadro apocalittico di uno dei migliori<br />
d<strong>is</strong>chi metal dell’anno; e quindi è doveroso ricordare<br />
come la prima incarnazione della formazione congiungesse<br />
le partiture aggressive e secche del thrash<br />
metal, la greve cadenza del doom con lo state of <strong>the</strong><br />
art dell’Heavy Metal inglese. Tutta la loro vita si è concentrata<br />
sullo sviluppo di un tema fatto di tre elementi<br />
ben d<strong>is</strong>tinti e, se prima il punto di caduta della band era<br />
la difficile amalgama fra i generi oggi, trovata la qua-<br />
dratura del cerchio, diventa l’arma vincente. Tutto ha<br />
inizio con An Old Friend in cui James Farwell, cantante e<br />
chitarr<strong>is</strong>ta, dimostra una versatilità non comune, danzando<br />
(metaforicamente) tra il power metal ortodosso<br />
degli High On Fire, il chitarr<strong>is</strong>mo degli Iron Maiden e<br />
l’incedere tipico dei Black Sabbath, spezzato da una<br />
marcia speed chiaramente thrash metal, alla Forbidden.<br />
La forza sta nel tema di fondo, lanciato con la prima canzone<br />
del d<strong>is</strong>co e poi mai abbandonato, come dimostra<br />
il gioco a intarsi di Last and First Thing, tutta sviluppata<br />
sul classico intreccio di “guitar twin” Judas Priest, che<br />
si aprono solo con un sottile gioco di armoniche vicino<br />
ai primi Machine Head: ed eccolo il thrash evoluto che<br />
ritorna in una scarica di watt che il Logan Mader di Davidian<br />
ha consacrato a status metal.<br />
Metal, metal, sempre più metal in Blood Music, ma ribadiamo,<br />
è nell’insieme, nell’omogeneità, nel trademark<br />
musi<strong>cale</strong>, che i B<strong>is</strong>on B.C. si giocano le frecce migliori. E<br />
centrano il bersaglio. Una band sicuramente non innovativa,<br />
ma nel conservator<strong>is</strong>mo tipico del metal di ogni<br />
tempo, sfavillante.<br />
(7.2/10)<br />
mArio ruggeri<br />
blood CommAnd - FunerAl beACh (FySiSk<br />
FormAt, diCembre 2012)<br />
Genere: post metal<br />
Bergen, Norvegia, crocevia culturale del Nord Europa.<br />
Terra silenziosa ma così importante per la storia della<br />
musica. Bergen, la città di Grieg, del Peer Gynnt Ibseniano,<br />
landa desolata di atrocità Black Metal, dance<br />
(Royksopp) e NAM (Kings Of Convenience). Bergen:<br />
confine delle sperimentazioni e dei Blood Command<br />
che gettano i semi nel 2008 e, dopo un paio di lavori<br />
sotto m<strong>is</strong>ura, raccolgono i frutti, nel 2012, con Funeral<br />
Beach.<br />
Non si gridi al capolavoro, non ancora, perché i Blood<br />
Command devono ancora chiarire a loro stessi alcuni<br />
punti fondamentali, come ad esempio l’equilibrio da<br />
tenere in fase di composizione, però il dato di partenza<br />
è interessant<strong>is</strong>simo, Funeral Beach nasce dall’esigenza<br />
di fondere la club music (loro passione) con il punk<br />
hardcore (loro provenienza art<strong>is</strong>tica). Un esperimento<br />
che, letto da un altro punto di v<strong>is</strong>ta, ricorda quello degli<br />
ultimi Justice che partendo dall’elettro pop, sfociavano<br />
nel rock. I Blood Command si prendono il r<strong>is</strong>chio di<br />
tentare una strada di fusione, di comm<strong>is</strong>tione, fra generi<br />
apparentemente in conflitto tra loro e, come già detto, a<br />
volte non si cap<strong>is</strong>ce dove vogliano andare esattamente,<br />
soprattutto quando si concedono al pop o alla tentazione<br />
di un bel singolo da classifica (Wolves At The Door).<br />
52 53
Aime - quArter turnS over A living line (blACkeSt ever blACk, novembre 2012)<br />
Genere: post-industrial<br />
Erano attesi per il battesimo sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, Joe Andrews e Tom Halstead, in arte Raime, dopo che la trilogia<br />
su Blackest Ever Black degli Ep - Raime Ep / If Anywhere was here we would know where we are / Hennail<br />
aveva preparato il terreno dando ampie indicazioni sul tipo di sonorità che i due volevano v<strong>is</strong>itare. Più che musica,<br />
quella dei Raime è una scenografia, uno studio d’ambiente, una forma di soundtrack<br />
della notte metropolitana. Il r<strong>is</strong>ultato finale si traduce in un design profondamente<br />
noir: paranoico, inquieto, d<strong>is</strong>turbato. I Raime abitano le ore della notte con la stessa<br />
sicurezza con cui i colletti bianchi si affollano intorno alle 8.00 del mattino. Arriva da<br />
qui l’evidenza proclamata con cui seguono una tradizione prettamente britannica. Da<br />
un lato il flirt, quasi <strong>is</strong>tintivo, con la corrente dubstep, che viene trattata come indole<br />
di fondo, come materiale grezzo, privato dei suoi riflessi più carnali.<br />
I due brutalizzano di fatto il sound Hyperdub con una lama minimal<strong>is</strong>ta che stacca<br />
letteralmente la sostanza delle cose dalle notti più lussuriose di Burial, Scuba e Kode9<br />
lasciandone solo uno scheletro esanime. Dall’altro il tributo alla tradizione post-industrial e dark-ambient, di cui si<br />
pongono evidentemente come gli ultimi profeti. Lo scontro tra la ritmica algida, digitale, inumana che sa di dub<br />
androide e la saggezza dei sample concreti e metallici che si stendono come nebbia nelle strade, apre un varco<br />
sensibile con l’<strong>is</strong>olazion<strong>is</strong>mo di metà ‘90: Scorn soprattutto, ma anche Main, :Zoviet*France:*, Thomas Köner,<br />
Techno Animal e tutti i nomi catalogati nella seminale Ambient 4: Isolation<strong>is</strong>m.<br />
Nascono così i brani di Quarter Turns Over A Living Line, che asciugano se possibile una tavolozza di suoni, mostrata<br />
negli ep, già estremamente austera di suo. Ne è un esempio The Last Foundry, che riprende la Th<strong>is</strong> Foundry<br />
del Raime Ep, riletta poi mag<strong>is</strong>tralmente da Reg<strong>is</strong>, dove l’elettronica aveva ancora un taglio concreto e nell’ordine<br />
delle cose. Il confronto con quella contenuta nel d<strong>is</strong>co di debutto, non potrebbe dare indicazioni più chiare su<br />
dove stanno andando a parare Andrews e Halstead. Il mimal<strong>is</strong>mo mania<strong>cale</strong> della ritmica di Soil And Colts segna<br />
evidentemente un ulteriore stato del degrado costante verso cui tendono le composizioni dei Raime. Sempre<br />
più vuote, con gli echi sempre più profondi e i suoni sempre più d<strong>is</strong>tanti. La catastrofe sceneggiata in Ex<strong>is</strong>t In The<br />
Repeat Of Practice non nasconde per altro l’ossessiva d<strong>is</strong>posizione dei suoni e dei campionamenti. C’è sempre una<br />
forma di eleganza molto inglese nel modo in cui i Raime mandano in rotazione e giocano con la circolarità, si veda<br />
la fragranza blues di Your Cast Will Tire che riprende il taglio urbano post-Neubauten degli Heaven And, o ancora<br />
la maestria con cui si mette mano al lato più “aereo”, con i campioni di archi e strumenti a corda di The Dimming<br />
Of Road And Rights che mandano in gloria il d<strong>is</strong>co e chiudono malinconicamente sui i titoli di coda per quella che<br />
potrebbe essere la soundtrack ideale di La Fin absolue du monde.<br />
(7.5/10)<br />
Antonello ComunAle<br />
Eppure, quando rimangono concentrati, i ragazzi di<br />
Bergen riescono a tirare fuori dal cilindro qualcosa di<br />
paradossalmente vicino agli At The Drive In, solo che<br />
in versione più ballabile. Un hardcore <strong>is</strong>terico, quello<br />
di Funeral Beach, ma anche saltellante come March<br />
of <strong>the</strong> Swan Elite, tra i pezzi più convincenti di tutto il<br />
d<strong>is</strong>co.<br />
Non per portarla sempre sul rock, ma i Blood Command<br />
convincono maggiormente quando l’ago della<br />
bilancia si sposta sull’hardcore. E’ lì che la loro reinterpretazione<br />
di Orange 9mm, Refused e Justice diventa<br />
materia indubbiamente interessante. I numeri ci<br />
sono, l’idea pure. Ora, spazio alla chiarezza. E il gioco<br />
è fatto.<br />
(6.7/10)<br />
mArio ruggeri<br />
born blonde - whAt <strong>the</strong> deSert tAught<br />
you (moriArty <strong>the</strong> CAt reCordS, novembre<br />
2012)<br />
Genere: britpop / psy<br />
Nell’ultimo decennio in tanti hanno provato - invano -<br />
a far resuscitare la scena britpop: i residui post-britpop<br />
brevemente fagocitati dai Coldplay, un ramo della scena<br />
indie-UK mid-00 (dai Ka<strong>is</strong>er Chiefs ai Kasabian, passando<br />
per i Jet), progetti paralleli/sol<strong>is</strong>ti minori e gruppi da<br />
facepalm come i Viva Bro<strong>the</strong>r.<br />
Le recenti live reunion (Stone Roses, Blur, Suede e<br />
Pulp) da una parte dimostrano che la nostalgia di quel<br />
periodo oggi è diffus<strong>is</strong>sima, dall’altra hanno la f<strong>is</strong>ionomia<br />
di chi ha il compito di celebrare il passato, tarpando<br />
ulteriormente le ali ad un’ipotetica rinascita.<br />
Nonostante le premesse, cinque londinesi capitanati<br />
da Arthur Delaney da un paio d’anni girano per le terre<br />
albioniche armati di buona volontà e sostegno alla<br />
causa. Si chiamano Born Blonde e per la Moriarty <strong>the</strong><br />
Cat Records pubblicano il loro album di debutto What<br />
<strong>the</strong> Desert Taught You, uscito dopo una serie di singoli<br />
piuttosto promettenti.<br />
Il tocco dei Born Blonde è spesso influenzato da una<br />
psichedelia spacey, più cullante che acida (l’iniziale Solar)<br />
e da sonorità puramente anni ‘90. Si prenda I Just<br />
Wanna Be: intenti fluttuanti (“I just want to fly. I don’t<br />
want to fall”), pattern di batteria collaudato, strofa vagamente<br />
Oas<strong>is</strong> e ritornello abbastanza an<strong>the</strong>mico per riaccendere<br />
le speranze del popolo brit. Certi The Verve e<br />
The Charlatans rivivono in brani come Light On, sorretto<br />
da un basso bello corposo.Dopo una parte centrale<br />
del d<strong>is</strong>co più radiofonica (Signs Of Fear), con These Days<br />
I Dream of Pyramids si torna ad ondeggiare lentamente.<br />
La voce melodica e sognante di Arthur è perennemente<br />
protagon<strong>is</strong>ta e tende ad assumere una connotazione<br />
più roca quando aumenta i giri. A livello strumentale<br />
b<strong>is</strong>ogna riconoscere alla band il coraggio di smarcarsi<br />
da qualsiasi moda del momento (d<strong>is</strong>torsioni shoegaze<br />
o hip-hyped sounds ad esempio), cercando una soluzione<br />
di derivazione brit ‘90s che va ad attingere da varie<br />
fonti, senza necessariamente clonare. In questo senso<br />
importante un utilizzo di piano/tastiere mai invadenti<br />
ma quasi sempre presenti (Dreamland, Radio Bl<strong>is</strong>s).<br />
What <strong>the</strong> Desert Taught You non brilla di originalità e<br />
presenta qualche filler di troppo (dovuti probabilmente<br />
ad una capacità compositiva ancora da rodare), ma nel<br />
complesso si fa più che apprezzare, soprattutto se si è<br />
alla ricerca di un ascolto poco impegnativo.<br />
(6.4/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
briAn eno - lux (wArp reCordS, novembre<br />
2012)<br />
Genere: ambient<br />
Lux è inequivocabilmente un album di musica d<strong>is</strong>creta.<br />
E perché farne oggi, nel 2012, di musica d<strong>is</strong>creta?<br />
Impossibile comprenderlo se non si pensa a Scape,<br />
l’applicazione per iPad che Eno ha rilasciato da poco.<br />
Niente a che vedere con il caso Cage-iano, se pensiamo<br />
che le due cose (d<strong>is</strong>co e app) sono state raccontate in<br />
un’interv<strong>is</strong>ta unica (che potete ascoltare qui). “Abbiamo<br />
molte più chance di scegliere come ascoltare oggi”. E<br />
abbiamo molte più chance di scrivere per i fatti nostri<br />
l’album che vogliamo ascoltare. Come ha detto Brian<br />
al Guardian: “A partire da D<strong>is</strong>creet Music e da Music For<br />
Airports, ho mostrato il processo della musica generativa<br />
in azione. Con Scape, quello che voglio fare ora è vendere il<br />
processo a chiunque, e non il mio output di quel processo”.<br />
Lux è esattamente un’altra versione di quel “process in<br />
action”. Una composizione di 75 minuti in 12 sezioni che<br />
porta a compimento la sonorizzazione delll’<strong>is</strong>tallazione,<br />
Music for <strong>the</strong> Great Gallery of <strong>the</strong> Palace of Venaria,<br />
realizzata l’estate appena passata alla Galleria Grande<br />
della Venaria Reale di Torino. Un’ora e un quarto in quattro<br />
parti, suddiv<strong>is</strong>ione che ricorda subito Music For Airports,<br />
r<strong>is</strong>petto al quale è un po’ più “dramatic” (soprattutto<br />
per i picchi dinamici sulle note alte nella seconda<br />
e terza parte), con un uso degli strumenti che ricordano<br />
On Land. Più estatico di D<strong>is</strong>creet Music (diciamo più<br />
vicino - ma con meno “m<strong>is</strong>tero” - a Neroli). Lo stesso<br />
mattoncino-tema minimal<strong>is</strong>ta è rilasciato piano piano,<br />
in vena, per tutta la durata dell’album, con un’ins<strong>is</strong>tenza<br />
e un effetto ipnosi che ricordano Morton Feldman per<br />
pianoforte.<br />
C’è un ragionamento in più da fare. La musica ambientale<br />
nasce come musica per rassenerare le ansie<br />
dei fruitori degli ascensori dei primi grattacieli, grazie<br />
all’opera della Muzak. Musica industriale per calmierare<br />
psicodrammi standard. Brian è colui che ha rigirato<br />
la frittata, e l’ha pensata come musica come supporto,<br />
superficie di <strong>is</strong>crizione personale. Musica “per”, da far<br />
abitare ai rumori della giornata, del momento in cui la<br />
si ascolta. Oppure - ma allora è thinking music - il supporto<br />
di <strong>is</strong>crizione è per i nostri pensieri. Con Lux viene<br />
da domandarsi da che parte stiamo. Da che parte sia<br />
oggi la musica generativa di Eno.<br />
La questione non è tra music<strong>is</strong>ta e non-music<strong>is</strong>ta, ma<br />
l’eterna tensione tra ascoltatore e non-ascoltatore. È<br />
una questione davvero peculiare alla musica generativa.<br />
Nell’ascensore oggi ci stiamo con le nostre cuffie<br />
che abbattono il rumore di fondo. Siamo <strong>is</strong>olati. Eppure<br />
i pensieri sono più roboanti del rumore meccanico del<br />
contrappeso dell’elevator che va su e giù. E i picchi minimal<strong>is</strong>ti<br />
delle tastiere di Eno interag<strong>is</strong>cono con i nostri<br />
neuroni. Li influenzano in definitiva molto di più che nel<br />
passato, e quindi sono subdoli, se fruiti dentro il manifesto<br />
Eno-iano di una vita. Non è una forma di meditazione:<br />
Eno si scarta in modo assertivo e definitorio<br />
dall’ambientale m<strong>is</strong>tico-new age-iana di compositori<br />
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come Steve Roach (da noi interv<strong>is</strong>tato qui e con mille<br />
rigagnoli di acqua santa di Palo Alto ancora da esplorare<br />
nelle dune del deserto). Brian è dentro il presente.<br />
E cap<strong>is</strong>ce bene che rifare la stessa cosa non vuol dire<br />
davvero riproporla, dato che i requ<strong>is</strong>iti a contesto (noi)<br />
sono (siamo) cambiati.<br />
(7/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
brokebACk - brokebACk And <strong>the</strong> blACk<br />
roCk (thrill JoCkey, novembre 2012)<br />
Genere: rock<br />
I Brokeback sono lo sfizio che Doug McCombs si concede<br />
dall’ormai lontano 1995. Un combo mutante che<br />
dal 2010 si è consolidato in quartetto: assieme al bass<strong>is</strong>ta<br />
(qui anche chitarr<strong>is</strong>ta) dei Torto<strong>is</strong>e ci sono music<strong>is</strong>ti<br />
dell’area chicagoana come James Elkington degli<br />
ex-inglesi The Zincs (chitarra, organo e batteria), Pete<br />
Croke (basso) e Chr<strong>is</strong> Hansen (chitarra), questi ultimi<br />
assieme nei tosti Head Of Skulls. Reg<strong>is</strong>trato negli studi<br />
dell’amico John McEntire, Brokeback And The Black<br />
Rock è il quinto titolo del progetto e r<strong>is</strong>petto all’ormai<br />
lontano predecessore Looks at <strong>the</strong> Bird (Thrill Jockey,<br />
2003) suona potente e rilassato, un divert<strong>is</strong>sement da<br />
profession<strong>is</strong>ti con la fiammella della passione ancora<br />
accesa.<br />
Otto strumentali che m<strong>is</strong>celano brume desertiche, retaggi<br />
prog-psych (in senso torto<strong>is</strong>iano, vedi Don’t Worry<br />
Pigeon) e un pizzico di peregrinazioni post, in una<br />
forma estremamente fruibile, a tratti persino radiofonica<br />
(come i Calexico in estasi l<strong>is</strong>ergica di Tonight At<br />
Ten e Will Be Arriving). A sorreggere il tutto c’è un piglio<br />
friendly che nei titoli diventa persino umor<strong>is</strong>tico, come<br />
a stemperare la naturale attitudine ad un eccesso di epicità:<br />
vedi la drammatica Colossus Of Roads o i miraggi<br />
morriconiani che pervadono Gold! e The Wire, The Rag,<br />
And The Payoff. Va sottolineata una eccessiva attenzione<br />
nel suonare per suonare (esercizi sulle strutture, calligrafie<br />
strumentali...) che sposta il baricentro emotivo sul<br />
sentire (che in effetti è un bel sentire, McEntire sa il fatto<br />
suo) determinando di contro un ascolto appagante ma<br />
poco evocativo, senza m<strong>is</strong>tero. Mi verrebbe da definirla<br />
una raccolta di brevi soundtrack per gratificanti chill-out<br />
salottieri. Mah. Fate voi.<br />
(6/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
CAlvin hArriS - 18 monthS (ColumbiA<br />
reCordS, ottobre 2012)<br />
Genere: trance pop<br />
Non deve stupire se Calvin Harr<strong>is</strong> prima lo selezionia-<br />
mo nella summer compilation mainstream e poi finiamo<br />
in sede di recensione per dirne tutto il male possibile. La<br />
compilation estiva rappresenta la classica selezione goliardica<br />
che sporge la testa oltre il davanzale ad osservare<br />
cosa succede “fuori”, a scorrere i pezzi con la massima<br />
spensieratezza senza spendere tempo in anal<strong>is</strong>i o solidità<br />
di stile, aspetti sotto i quali invece la preferibilità della<br />
musica del soggetto in questione crolla m<strong>is</strong>eramente.<br />
Ed è qualcosa che in Harr<strong>is</strong> si è accentuata soprattutto in<br />
tempi recenti, perché in fondo il primo album I Created<br />
D<strong>is</strong>co riusciva ancora a mantenere una propria dignità,<br />
grazie soprattutto all’autoironia e all’esplicito richiamo<br />
dei meccan<strong>is</strong>mi classici di catalizzazione dance ereditati<br />
dai 70/80.<br />
Ora invece è tutto diverso. Lo scozzese ha furbamente<br />
assorbito lo spirito di quelli con cui condivide i piani alti<br />
della DJ Mag top 100 (quest’anno ha raggiunto il 31°<br />
posto) e ha gettato il solito fumo negli occhi con un album<br />
alla David Guetta, pieno di collaborazioni illustri e<br />
singoli già di ampio successo, dandosi con convinzione<br />
nella trance, che non è solo il genere che storicamente<br />
s’è svenduto ai meccan<strong>is</strong>mi commerciali peggio di tutti<br />
gli altri, ma anche l’unico col quale puoi ancora produrre<br />
un pezzo piatto come pochi e r<strong>is</strong>cuotere comunque gli<br />
applausi degli affezionati della scena. Che poi è proprio<br />
il caso di Bounce con Kel<strong>is</strong> - giro melodico di sconfortante<br />
monotonia, n. 2 nella UK chart - e di Sweet Nothing,<br />
cordiale ma banale nella struttura, con in più il demerito<br />
di ridurre Florence Welch ad anonima voce femminile<br />
di genere.<br />
Con dieci featuring eccellenti su tredici brani veri totali<br />
c’è poco da d<strong>is</strong>cutere sulla nuova piega stil<strong>is</strong>tica dell’autore,<br />
dell’happy pop di Feel So Close (una manna per<br />
radio e negozi d’abbigliamento) o della scelta electro<br />
<strong>house</strong> di Awooga (il modo più facile per far massa in<br />
un album dance). Come sempre in questi casi contano<br />
i nomi e l’immagine adottata, e la scelta di un profilo<br />
danzereccio così povero di spunti e omologato a<br />
schemi vecchi di dieci anni (Drinking From The Bottle,<br />
Let’s Go) non fa altro che rivolgersi sulle file di ascoltatori<br />
meno esigenti e caratterizzate da una fruizione di<br />
massa e “ignorante” (ci scusino i fan ma è così: qualsiasi<br />
altro dance act d<strong>is</strong>ponibile oggi, compresi Deadmau5,<br />
Zedd o Madonna, offrono energie e stimoli più solidi<br />
di 18 Months).<br />
Mettici anche il brutto di vedere art<strong>is</strong>ti di differente<br />
estrazione che rinunciano ai propri caratteri d<strong>is</strong>tintivi<br />
per appiattirsi sullo stile imposto (I Need Your Love e We’ll<br />
Be Coming Back, prove di car<strong>is</strong>ma fallite per Ellie Goulding<br />
ed Example) e le delusioni si accatastano. Alla fine<br />
gli unici a fare una minima figura sono Rihanna (la hit<br />
SCott wAlker - biSh boSCh (4Ad, diCembre 2012)<br />
Genere: contemporanea<br />
Riesce molto difficile racchiudere nello spazio limitato di una recensione l’ennesima opera compiuta di quel genio<br />
musi<strong>cale</strong> contemporaneo che conosciamo sotto il nome di Scott Walker. A d<strong>is</strong>tanza di sei anni dall’oscuro ed<br />
estremo The Drift e intrapresa sin da metà anni Ottanta una strada che lo ha definitivamente separato dalla prima<br />
parte della sua carriera “pop”, l’art<strong>is</strong>ta americano procede senza minimamente guardarsi<br />
indietro, andando continuamente al di là dei propri limiti.<br />
In questo cons<strong>is</strong>te la sua sfida, effettuata con autentica passione art<strong>is</strong>tica e un sottile<br />
e crudo sense of humour: superare la forma musi<strong>cale</strong>, mescolando generi e modi,<br />
attitudini, umori e materiali più d<strong>is</strong>parati, di cui la musica è solo una parte. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />
anche e soprattutto in questo caso, è un patchwork che trascende le singole parti, per<br />
farsi r<strong>is</strong>ultato art<strong>is</strong>tico a tutto tondo, capolavoro.<br />
“Lavoro fatto, in ordine”, recitano le note stampa a proposito del significato dell’espressione<br />
B<strong>is</strong>h bosh, che nel titolo dell’album diventa B<strong>is</strong>h Bosch, citando il v<strong>is</strong>ionario e<br />
simbolico pittore fiammingo Hieronymus Bosch. L’’ordine’ è quello derivante dalla giustapposizione delle parti. In<br />
questo caso l’album non è un vero e proprio concept ma cons<strong>is</strong>te in tante piccole narrazioni che nel d<strong>is</strong>egno del<br />
music<strong>is</strong>ta diventano un unicum organico, un fluire ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Lirica e<br />
drammatica, tesa e liberatoria, più ricca di sfumature e meno oscura r<strong>is</strong>petto al precedente d<strong>is</strong>co, l’opera segue il<br />
filo della voce narrante Walker, che si fa guida attraverso l’humus figurativo e sonoro, iterativo e cinematico. Come<br />
un dipinto di Bosch, si scoprono sempre nuovi tasselli e angolazioni che ne completano il senso, mescolando bene<br />
e male, senza dare alcun giudizio.<br />
Musicalmente B<strong>is</strong>h Bosch è abbastanza affine a The Drift per quanto riguarda l’aspetto formale: abolita quasi del<br />
tutto la forma canzone, il cantato-recitato, lirico ed espression<strong>is</strong>ta procede liberamente come un flusso, accompagnato<br />
dall’onnipresente ritmo, e dall’uso di chitarre, tastiere e fiati, che ne contrappuntano il narrato. Tutti elementi,<br />
questi ultimi, che rappresentano una novità assoluta. L’orchestra è usata soprattutto funzionalmente per gli effetti<br />
sonori; l’effetto è quello di una pienezza assoluta di suono ed è lasciato totale campo libero alla sperimentazione<br />
e alle soluzioni di arrangiamento: fra gli “strumenti” usati è presente perfino un machete.<br />
Testi e suoni procedono di pari passo, intersecandosi gli uni negli altri, in un procedimento cinematografico che<br />
richiama molto una danza sonorizzata, più che un album sperimentale tout court. E non a caso dopo The Drift<br />
Scott Walker aveva composto And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una suite strumentale<br />
per una pièce di danza contemporanea del coreografo Rafael Bonachela pubblicata in edizione limitata nel 2007,<br />
mentre nel 2009 si era occupato delle musiche di un altro balletto, Duet For One, coreografato da Aletta Collins ed<br />
<strong>is</strong>pirato a Jean Cocteau.<br />
I testi di B<strong>is</strong>h Bosch un<strong>is</strong>cono tante piccole e grandi storie, flash e narrazioni che comprendono vicende storiche<br />
(l’esecuzione del dittatore rumeno Ceausescu e di sua moglie Elena in The Day The ‘Conducator’ Died, un buffone<br />
della corte di Attila e la recente scoperta astronomica di corpi substellari freddi fuori dal S<strong>is</strong>tema Solare nella lunga<br />
suite SDSS1416 + 13B (Zercon, A Flagpole Sitter), Gorbacev, Reagan, i naz<strong>is</strong>ti, il Ku Klux Klan..), ambientazioni geografiche<br />
(Danimarca, Alpi, Hawai (Hepizootics!), antica Roma e Grecia..), metafore prese dalla medicina e dalla biologia<br />
molecolare, citazioni bibliche, cinematografiche e quant’altro. Il tutto unito in un procedimento che un<strong>is</strong>ce cut-up,<br />
reinvenzione storica, sci-fi e spesso mescolamento di più di una storia in uno stesso pezzo (come nel caso della<br />
suite citata), con termini ricercati di inglese colto e vocaboli specifici di genere.<br />
Non è un d<strong>is</strong>co facile, B<strong>is</strong>h Bosch, ma l’ascolto ripetuto ripaga ampiamente, rivelando via via sempre nuovi indizi,<br />
in un’esperienza sonica totalizzante e immersiva.<br />
(8.5/10)<br />
tereSA greCo<br />
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We Found Love sarà anche facile e leggera, ma almeno la<br />
popstar tiene le redini di stile sui binari a lei funzionali)<br />
e Dizzee Rascal (l’unico che in Here 2 China è capace<br />
di mettere all’angolo Calvin Harr<strong>is</strong> e far valere senza<br />
compromessi il suo grime inossidabile). Ma non bastano<br />
a tenere a galla una barca in cui tutti sembrano volersi<br />
fiondare sul fondale per vedere l’effetto che fa. Tanto<br />
il r<strong>is</strong>ultato si sa già: vendite alle stelle e sorr<strong>is</strong>i da ogni<br />
parte tranne che dalla critica. In quella condizione da<br />
summer compilation di cui sopra ci vive mezzo mondo,<br />
e questo d<strong>is</strong>co se lo meritano tutto.<br />
(3.8/10)<br />
CArlo AFFAtigAto<br />
CemeterieS - <strong>the</strong> wilderneSS (leFSe,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: bedroom dream-pop<br />
A dimostrare che la scena newyorkese non è tutta brookl-hip<br />
e feste ci pensa il solitario Kyle J. Reigle, mente<br />
e creatore del progetto Cemeteries.<br />
Nel leggere la sua bio, che descrive il suo appartamento<br />
situato nella desolante zona industriale di Buffalo, mi<br />
sono immaginato Kyle recluso all’interno di un loculo,<br />
unico avamposto abitativo in un grigio panorama, composto<br />
da ciminiere ed industrie perennemente al lavoro<br />
sotto al cielo plumbeo.<br />
E’ tutta questione di immaginazione, come quella che<br />
porta facilmente ad associare il nome Cemeteries a stili<br />
musicali (black metal o darkwave) piuttosto lontani da<br />
quelli proposti nell’album di debutto The Wilderness,<br />
pubblicato per la Lefse, da sempre brava a coprire tutte<br />
le sfumature della musica indipendente, spaziando tra<br />
post-r&b (how to dress well), chillwave (Neon Indian,<br />
Teen Daze) e chitarre (i nostri A Classic Education) con<br />
un occhio sempre puntato al futuro (attenzione a M<strong>is</strong>ter<br />
Lies) e all’attitudine DIY (Youth Lagoon).<br />
Il progetto Cemeteries può essere considerato come il<br />
corr<strong>is</strong>pettivo dream-pop (e probabilmente meno <strong>is</strong>pirato)<br />
del fragile Youth Lagoon. In The Wilderness l’atmosfera<br />
è perennemente ovattata al limite del subacqueo<br />
(Deerhunter, Atlas Sound i riferimenti), sia quando a<br />
dirigere sono accordi acustici (Young Blood), sia quando<br />
invece sono arpeggi dal DNA 100% dreamy (What Did<br />
You See) o tappeti di tastiera (In The Trees).<br />
Kyle cede alle tentazioni eighties di scuola Wild Nothing<br />
nella titletrack, uno degli ep<strong>is</strong>odi musicalmente<br />
meno cupi di un d<strong>is</strong>co caratterizzato da una tavolozza<br />
dalle tonalità crepuscolari che se diluite portano a situazioni<br />
dec<strong>is</strong>amente fluttuanti (in Summer Smoke gioca<br />
con i Pink Floyd).<br />
The Wilderness pur regalando qualche picco emozio-<br />
nale, è il classico lavoro destinato quasi esclusivamente<br />
agli appassionati del genere, soffre infatti di un’eccessiva<br />
staticità di fondo che va a braccetto con una mancanza<br />
di coraggio che ben si sposa con la figura timida di Kyle.<br />
(6.4/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
ChAd vAlley - young hunger (CASCine,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: balearic dance-pop<br />
Non è un caso che ogni release a firma Chad Valley<br />
fin<strong>is</strong>ca s<strong>is</strong>tematicamente ai vertici della sezione popular<br />
del celebre aggregatore Hype Machine. L’oxfordiano ha,<br />
infatti, sempre avuto intuito nel far fremere la blogosfera,<br />
a partire dall’ingresso nel business con un EP (selftitled,<br />
2010) che aveva dato al web esattamente ciò che<br />
domandava: variazioni più smaccatamente tropical-pop<br />
al tabù chillwave sull’onda della ripresa della balearic.<br />
Equatorial Ultravox (2011) aveva battuto il medesimo<br />
sentiero, mentre per questo Young Hunger la virata dec<strong>is</strong>a<br />
è per un revival ultra-patinato tra citazion<strong>is</strong>mo billionario<br />
di 80s e 90s (“If you wanna be my girl/Then you<br />
gotta get with my friends” in My Girl, tributo diretto alle<br />
Spice Girls).<br />
Il nostro - che all’anagrafe fa Hugo Manuel - non può,<br />
è chiaro, puntare nuovamente sul temp<strong>is</strong>mo perchè il<br />
trend è già strabordante; gioca quindi duro, scorretto se<br />
volete, imbracciando un parco ospitate che va da Twin<br />
Shadow ad Active Child, passando per Glasser, El Perro<br />
del Mar e Totally Enormous Extinct Dinosaurs.<br />
Ne vien fuori una piccola sintesi-manifesto di un genere<br />
minore, di quella che lo stesso Chad Valley chiama “pop<br />
music for people who don’t l<strong>is</strong>ten to pop music”, ovvero che<br />
possa essere legittimata anche dal pubblico, che dir si<br />
voglia, alt o hipster. Gli ingredienti ci sono tutti: chattering<br />
drums e d<strong>is</strong>co beats, armonie auto-tuned (My Girl), la<br />
tavolozza che spazia dal minimal<strong>is</strong>mo atmosferico (Fa<strong>the</strong>ring<br />
Mo<strong>the</strong>ring, con Anne L<strong>is</strong>e Frøkedal) al synth bass<br />
del glo più nostalgico (titletrack), il ponte con l’indie-R&B<br />
bianco che sta definendo il roster - altrettanto a favor di<br />
blog - della stessa Cascine (Evening Surrender), la posa da<br />
frontman che non offusca il trademark - col solito occhio<br />
di riguardo alla balearic nordica - da producer.<br />
Perdonati un paio di gestioni restrittive (I Owe You Th<strong>is</strong>,<br />
Manimals) delle controparti vocali (egomania?) per altrettanti<br />
ep<strong>is</strong>odi che in mano a nomi da milioni di click ci<br />
avrebbero già bombardato le radio (Fall 4 U e Tell All Your<br />
Friends), Young Hunger si rivela un album immediato,<br />
divertente, infettivo.<br />
(6.9/10)<br />
mASSimo rAnCAti<br />
SpACCAmombu - in <strong>the</strong> kennel vol. 2 (goAtmAn, novembre 2012)<br />
Genere: metal<br />
Incontrarsi su un terreno di mezzo. Questo il senso della collana In The Kennel, parente stretta dell’ormai mitizzata<br />
In The F<strong>is</strong>htank olandese ma ben radicata in quella provincia italiana sempre vigile e irrequieta. Nello specifico,<br />
quella Provincia piemontese che molto spesso ci siamo ritrovati a trattare qui, col Canalese no<strong>is</strong>e prima e con le<br />
singole uscite, poi.<br />
Ora, il secondo volume della collana compie già qualche passo dec<strong>is</strong>ivo in più r<strong>is</strong>petto<br />
al primo numero. Non più cd, bensì bell<strong>is</strong>sima edizione in vinile; non più una collaborazione<br />
in studio tra entità diverse quanto una fusione di due progetti in una nuova<br />
vita. Il nome dei protagon<strong>is</strong>ti si cela poco dietro l’intellegibile a.k.a. Spaccamombu<br />
a dimostrazione della fusione “a caldo” tra esperienze in apparenza lontane ma che,<br />
nell’accogliente studio Blue Rec di Mondovì e cullati dalla GoatMan Records, si sono<br />
dimostrate in grado di stupire. Da un lato Paolo Spaccamonti, chitarr<strong>is</strong>ta silenzioso<br />
e solitario, dal taglio cinematico e umorale; dall’altro i due Mombu (Luca T. Mai degli<br />
Zu e Antonio Zitarelli dei Neo), rumorosi e afro-addicted in formazione atipica. Nel mezzo i cinque pezzi del vinile<br />
totalmente immolati al verbo del metal sabbathiano e post-.<br />
Sorpresi? Beh, se per il versante Mombu, il trafficare con le musiche estreme era piuttosto comprensibile (vedi alla<br />
voce Tom Araya Is Our Elv<strong>is</strong> di Zuiana memoria), per Spaccamonti è una vera sorpresa trovarcelo accanito fan dei<br />
quattro in nero. E, dall’ascolto delle cinque tracce del vinile, nemmeno in soggezione. Che si tratti di rinverdire fasti<br />
doomy (Antro) col supporto dello stravolto sax di Mai, di tirate metallone con break da urlo e stop’n’go assassini<br />
(Mountains Crashing Sound) o catacombali incroci tra sludge straniante e jazz-metal alieno (Idemortos), la potenza<br />
di fuoco è fatale.<br />
Quando poi il trio libera i fantasmi afro - una Assufa<strong>is</strong> veramente notevole e la conclusiva The Altar Of Iommi che<br />
racchiude molti mondi - allora la fusione riesce al massimo. Centrifugando il percussiv<strong>is</strong>mo tribale di Zitarelli (sempre<br />
più influenzato dalle poliritmie africane), l’attitudine ipnotica degli ultimi Ex (quelli più afro), la follia cosmica e libera<br />
di Sun Ra, certo jazz nordico limitrofo al no<strong>is</strong>e made in Rune Grammofon (i Noxagt, per esempio), la devozione a<br />
Tony Iommi che riecheggia anche in progetti particolari (gli Om meno devozionali), sfilacciamenti ambient-fusion<br />
e ch<strong>is</strong>sà quant’altro. Centro pieno? Dec<strong>is</strong>amente. In alto le corna.<br />
(7.5/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
ChriStinA AguilerA - lotuS (rCA, novembre<br />
2012)<br />
Genere: voci sprecate<br />
Quando le attenzioni dell’universo girl-pop si spostarono<br />
dalla sfida Spice Girls-All Saints alla sfida Britney<br />
Spears-Chr<strong>is</strong>tina Aguilera, dovevano ancora scoccare<br />
i rintocchi del nuovo millennio e per le due teen-diva i<br />
più prevedevano un destino effimero similare a quelle di<br />
tante altre star usa&getta. Invece (purtroppo? Malauguratamente?<br />
Sfortunatamente?) ancora oggi, nel 2012, il<br />
music business sembra non riuscire a farne a meno, nonostante<br />
successo e vendite in calo più o meno costante.<br />
Se Britney Spears ha toccato il fondo (art<strong>is</strong>tico e non<br />
solo) abbastanza presto per poi, in parte, riprendersi,<br />
Chr<strong>is</strong>tina Aguilera l’ha raggiunto negli ultimi anni,<br />
dando vita ad un album destinato alla der<strong>is</strong>ione (Bionic)<br />
e attirando il gossip più cinico e di bassa lega. Prima<br />
di Bionic una carriera partita a livello d<strong>is</strong>ney-teen pop,<br />
mutata prima in un porno-pop dirtyzzato di r&b e poi<br />
nel revival retro-pop di Back to Basics, probabilmente ad<br />
oggi il d<strong>is</strong>co a suo nome più coraggioso (ed è tutto dire).<br />
Bionic è stato un d<strong>is</strong>astro perchè i suoi stessi fan avevano<br />
intuito la fregatura: era un d<strong>is</strong>co realizzato con la<br />
sola necessità di seguire la moda del momento (l’electrodance-pop<br />
di Lady Gaga). Veniamo a Lotus, ritorno d<strong>is</strong>cografico<br />
successivo alla parentesi cinematografica - in<br />
compagnia di Cher - del consigliat<strong>is</strong>simo (...) Burlesque<br />
e alla fastidios<strong>is</strong>sima Moves Like Jagger con i Maroon 5.<br />
Avvio affidato alle velleità arty di Lotus Intro, dove il produttore<br />
Alex Da Kid manipola il sample della sdoganat<strong>is</strong>sima<br />
Midnight City: una Chr<strong>is</strong>tina Aguilera per certi<br />
versi inedita. L’illusione termina qui: Army Of Me rigurgita<br />
sonorità dance radiofoniche (leggasi Katy Perry) su cui<br />
piazzare il solito potente vocione, Red Hot Kinda Love è<br />
58 59
semplicemente impresentabile e il singolo trash-pop Your<br />
Body debole (qui producono Max Martin e Shellback,<br />
come nella successiva e wannabe d<strong>is</strong>co-hit Let There Be<br />
Love). Chi si fa incantare dall’innegabile talento canoro<br />
apprezzerà maggiormente l’accoppiata balladry Sing For<br />
Me-Blank Page (quest’ultima in compagnia di Sia).<br />
L’assenza di una direzione prec<strong>is</strong>a è evidente in Around<br />
The World - a metà tra Rihanna e la Lady Marmaladecitazione<br />
“voulez-vous coucher avec moi ce soir” - e<br />
nella finta naughtytudine di Circles. A rendere ancora<br />
più chiara la situazione “proviamole tutte pur di salvare<br />
il salvabile” ci pensano i feat con i due colleghi telev<strong>is</strong>ivi<br />
- come lei giudici nel talent show The Voice - Cee Lo<br />
Green (presenza quasi impalpabile in Make The World<br />
Move) e il divo contry Blake Shelton, nell’arrangiamento<br />
pessimo di Just a Fool.<br />
Unica nota positiva: nessun tentativo brostep.<br />
(3.3/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
CollArboneS - die young (two bright<br />
lAkeS, novembre 2012)<br />
Genere: nu r&b / elettronica<br />
All’interno della recensione del debutto degli Stubborn<br />
Heart avevamo descritto la contaminazione tra black music<br />
e le ultime tendenze elettroniche come un “movimento<br />
in pericolo saturazione”. Negli ultimi due anni tra James<br />
Blake, Jamie Woon, How To Dress Well, The Weeknd e<br />
la dimensione clubby di SBTRKT (solo per citare i nomi<br />
più noti) si è ass<strong>is</strong>tito ad una vera e propria rinascita di un<br />
contesto black - spesso inglobato da art<strong>is</strong>ti bianchi - che in<br />
questi giorni sembra non conoscere limiti. Con un 2013 già<br />
spianato tra inc., Brolin, Autre Ne Veut e - si spera - Twigs,<br />
il 2012 post-r&b ha ancora da sparare qualche cartuccia.<br />
Una di queste r<strong>is</strong>ponde al nome Collarbones.<br />
Collarbones è un progetto australiano composto da<br />
Marcus Whale e Trav<strong>is</strong> Cook - i quali vivono più di 1000<br />
km di d<strong>is</strong>tanza l’uno dall’altro - con già all’attivo un<br />
album, Iconography dello scorso anno, passato pressochè<br />
inosservato. A meno di un anno di d<strong>is</strong>tanza da<br />
Iconography i Collarbones ci riprovano - sempre per la<br />
Two Bright Lakes - con il sophomore album Die Young,<br />
un d<strong>is</strong>co tributo alla gioventù spenta crudelmente troppo<br />
presto, tanto che tra le note del booklet troviamo<br />
frasi come “RIP River, Aaliyah, Lefteye” e “Thanks to all<br />
our teen crushes”.<br />
Marcus (stanziato a Sydney) e Trav<strong>is</strong> (di casa ad Adelaide)<br />
nelle interv<strong>is</strong>te esprimono apprezzamenti per R.Kelly e<br />
Miguel ma sono ben consapevoli di porsi sopra ad un piano<br />
mediatico e concettuale totalmente differente e maggiormente<br />
legato all’elettronica. L’iniziale Hypo<strong>the</strong>rmia (in<br />
feat con Guerre) mette le cose in chiaro impastando ritmi<br />
‘90s - 2step&bass - con linee e timbri soul. La titletrack è<br />
settata maggiormente su tonalità pop&rap (qui il guest è<br />
HTML Flowers), ma poi i due tornano a mettersi i guanti<br />
vellutati che non avrebbero stonato addosso a Frank<br />
Ocean, nella successiva Too Much e nella più ritmata - ma<br />
comunque sinuosa - M<strong>is</strong>sing.<br />
Se pensate che lo slow-minimal soul di Cocooned sia<br />
dec<strong>is</strong>ament deep, aspettate di sentire l’apertura di Teenage<br />
Dream (l’obiettivo dei due era collaborare con<br />
How to Dress Well su questa traccia), sviluppata poi su<br />
variazioni che possono riportare alla mente certe cose<br />
di The Weeknd. Ottimo lavoro dietro ai tasti sia in One<br />
Day che nel chill-sound di Losing, prima di approdare<br />
alla conclusiva e vagamente spettrale Red.<br />
Die Young difficilmente può competere con i pesi massimi,<br />
ma si contestualizza perfettamente e si muove con<br />
grande gusto all’interno del movimento nu r&b.<br />
(6.9/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
Corin tuCker - kill my blueS (kill roCk<br />
StArS, Settembre 2012)<br />
Genere: indie rock<br />
Al secondo album sol<strong>is</strong>ta, Corin Tucker lascia da parte<br />
le interessanti esplorazioni semi-acustiche dell’esordio<br />
1000 Years, per far tornare le chitarre elettriche in primo<br />
piano. Una scelta che certo non sorprende, considerata<br />
la reazione tiepida r<strong>is</strong>ervata al d<strong>is</strong>co precedente, ma che<br />
sembra essere una diretta reazione al successo delle altre<br />
due Sleater-Kinney Carrie Brownstein e Janet We<strong>is</strong>s,<br />
ormai lanciate nelle Wild Flag.<br />
“Eccomi, sono tornata” esord<strong>is</strong>ce la cantante nell’inno<br />
post-femmin<strong>is</strong>ta Groundhog Day che apre l’album, mettendo<br />
da subito in primo piano la sua voce inimitabile,<br />
per niente segnata dagli anni che passano. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />
grazie anche al drumming frenetico dell’ex Unwound<br />
Sara Lund, non sfigura r<strong>is</strong>petto ai momenti migliori delle<br />
Sleater-Kinney nei brani più movimentati (Kill My<br />
Blues, I Don’t Wanna Go, No Bad News Tonight), mentre<br />
r<strong>is</strong>petto all’album precedente convincono maggiormente<br />
anche i pezzi più lenti, dall’esperimento quasi<br />
psichedelico None Like You alle chitarre schiaffeggiate<br />
di Outgoing Message, forse l’apice emotivo dell’album.<br />
Come ai tempi di Call <strong>the</strong> Doctor conmuove l’omaggio<br />
a Joey Ramone Joey, mentre le noti dolenti arrivano<br />
invece con il singolo Neskowin, un malriuscito tentativo<br />
di trasformare il sound del d<strong>is</strong>co in chiave dance-rock.<br />
In generale, ci troviamo di fronte ad un buon seguito,<br />
lontano come ci si poteva aspettare dagli apici emotivi<br />
del trio di Olympia, ma che mostra un’art<strong>is</strong>ta di nuovo<br />
wAlking mountAinS - wAlking mountAinS (40033 reCordS, diCembre 2012)<br />
Genere: ambient, psych<br />
Walking Mountains è Bartolomeo Sailer, sound art<strong>is</strong>t di stanza a Bologna. Il suo nuovo<br />
progetto segue l’epopea Wang Inc., marchio di culto che lo ha fatto conosce alla scena<br />
elettronica internazionale fin dal 1999 - sulla Sonig dei Mouse On Mars - nonché progetto<br />
ideale per comprendere il passaggio che, tra i Novanta e i Duemila, ha portato la<br />
comunità elettronica verso sonorità concrete e un approccio maggiormente “suonato”<br />
(un nome di punta? Matmos). Da allora, Bart approfond<strong>is</strong>ce queste tematiche in un<br />
frame di musica (pop)olare e non solo. Negli ultimi anni ha ampliato particolarmente<br />
lo spettro d’anal<strong>is</strong>i nelle musiche per v<strong>is</strong>uals con video art<strong>is</strong>ti come Saguatti, Federico<br />
Pepe, Yuri Ancarani, mentre recentemente si è cimentato in Toilet Paper - progetto in<br />
condiv<strong>is</strong>ione con Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan - e in una mastodontica maratona per l’etichetta digitale<br />
40033 records che lo ha portato alla realizzazione di una ottantina di tracce minimal dance in un anno.<br />
Sempre per quest’ultima label, grazie al crowd founding, esce l’atteso debutto omonimo Walking Mountains, un<br />
album che ha richiesto più di un anno di lavoro e che si presenta come un melting pot degli ascolti di una vita,<br />
oltre che di ripescaggi mirati di psych, rock, kraut, prog e di tutte le pietre miliari 70s (da cui eredita lunghezza e<br />
suggestioni). Al centro il concetto di rivoluzione, gesto che sottintende una forte (e meditabonda) componente<br />
di res<strong>is</strong>tenza passiva sviluppata sia a partire da un mondo familiare e interconesso (e mai del tutto decifrabile),<br />
sia all’interno di mura domestiche che liberano ma anche asf<strong>is</strong>siano. Il taglio potrebbe richiamare il concetto di<br />
broadcasting dal mondo che sappiamo ha intrigato gli Animal Collective nella realizzazione dell’ultimo album,<br />
qui sotto la lente di ingrandimento dell’open v<strong>is</strong>ion liquida dei Mouse On Mars e degli incastri acustico elettronici<br />
dei Matmos (al netto di humor).<br />
Molto attento, Bart, a vestirsi delle miriadi di band che hanno influenzato il d<strong>is</strong>co: Amon Düül e (a)simmetrie Can,<br />
cosmica Cluster, la psichedelia più marcia dei Throbbing Gr<strong>is</strong>tle (Ὀδύσσε&i<br />
ota;α Book XII), l’influenza dichiarata capitale di ESKMO (guarda caso un mouseonmarsiano doc), il free-jazz di<br />
Peter Brotzmann e il trip hop più esoterico e black di Tricky. Molto a fuoco il taglio sonico, dove ambientazioni di<br />
cielo (ambient e psych) e terra (l’etno) oculatamente s’affidano a rock (chitarre) e hip e hop (campioni, filtri, break).<br />
Interessante anche la scelta di sondare dicotomie quali l’intim<strong>is</strong>mo (e la sofferenza) del solo (No Poetry) vs la forza<br />
(e la propulsione) della moltitudine. Altrettanto importante la resa delle tracce, lungamente lavorate e soggette<br />
al continuo feedback della community di Bandcamp (dove sono state originariamente pubblicate). Materiale che<br />
nel master finale a cura di Mauro Andreolli (presso Das Ende Der Dinge), ha goduto di un sound all’altezza degli<br />
immaginari di riferimento.<br />
Molto suonato (e percosso), ma pur sempre frutto di una sensibilità elettronica, Walking Mountains è un album a<br />
cui si ritorna sapendo di scoprirci sempre qualcosa di nuovo e ben cesellato. Certo prog via King Crimson (Holding<br />
Back), i Nine Inch Nails (My Revolution), lo status facebook di Umberto Palazzo e il sax di Enzo Casucci (The Dominant<br />
Class), la voce di Vincenzo Vasi (Ⓐ) on and on e mai nulla che sia una banale citazione.<br />
(7.3/10)<br />
edoArdo briddA<br />
pronta a tirare fuori i denti e ormai avviata da protagon<strong>is</strong>ta<br />
anche in questa carriera sol<strong>is</strong>ta. Se era lecito<br />
aspettarsi forse qualcosa di più dopo gli esperimenti<br />
dell’album precedente, è anche vero che il formato da<br />
rock band è quello che si addice di più alla bionda cantante<br />
dell’Oregon, che non è mai sembrata così a suo<br />
agio dai tempi di The Woods.<br />
(6.5/10)<br />
giorgio bonomi<br />
dAniel mAloSo - in And out (kompAkt,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: latin body music<br />
Dopo il grande interesse suscitato negli addetti ai lavori,<br />
forte dell’esperienza alla Cómeme e del successo ottenuto<br />
con la hit Ritmo Especial, non stup<strong>is</strong>ce più di tanto<br />
vedere su Kompakt il messicano Daniel Maloso, sostanzialmente<br />
per tre buoni motivi: primo, la label di Michael<br />
Mayer & co. resta sempre ottimo trampolino di lancio<br />
60 61
e traguardo di consolidamento nello stesso tempo (a<br />
dirlo sono i nomi passati e presenti della scuderia, Oxia,<br />
Steve Bug, Popnoname, Jürgen Paape, SCSI-9, The<br />
Field); secondo, la scena minimal o comunque techno<br />
sud-americana vanta ancora ottimi ascendenti tra le release<br />
Kompakt (vedi anche Gui Boratto e Matias Aguayo);<br />
ultimo, il sound di Maloso, così attento all’intreccio<br />
ritmo/groove, non poteva trovare che trovare naturale<br />
delta e foce nella casa di Colonia, che a questa maniera<br />
di massaggiare e coccolare i bassi modulati da synth ha<br />
dedicato parte pressochè totalitaria delle proprie uscite,<br />
peccando quasi di settar<strong>is</strong>mo.<br />
Per In And Out quindi c’è stato uno scambio quanto<br />
meno alla pari, con la Kompakt che ha messo a d<strong>is</strong>posizione<br />
tutta la propria caratter<strong>is</strong>tica libreria di suoni<br />
(quelli sentiti in toto da Superpitcher a Jürgen Paape<br />
a Rex The Dog) e Maloso che nel goderne ha offerto il<br />
proprio mestiere, manipolando secondo voglie, usi e<br />
costumi non soltanto germanici ma genuinamente latini,<br />
che ripartono dalle sensazioni di producer di classe<br />
amanti di una techno (Aguayo) e di una micro-<strong>house</strong><br />
(Boratto) dai sapori dolci e meldiosi.<br />
Non stup<strong>is</strong>cono e non d<strong>is</strong>piacciono dunque certi salti a<br />
gravità zero nella spacey di Lindstrøm prima maniera<br />
(Boney, Right Kind, sono le stesse, lunghe levitazioni in<br />
salsa norvegese) e divertono anche le esibizioni muscolari<br />
di Body Music e Cafe Obscuro, vigorose ma brave a<br />
non trascendere nel kitsch e nemmeno nel rozzo già<br />
v<strong>is</strong>to in Rebolledo. Il marchio di fabbrica della label ovviamente<br />
è ben presente in tutte le tracce, anche con<br />
una certa ridondanza: le lunghe armonie panoramiche<br />
micro <strong>house</strong> di They Came At Night le adottava Superpitcher<br />
già nel 2004, ma va detto che lo stile di Maloso<br />
è maturo e sicuro, d<strong>is</strong>tinguendosi per la notevole cura<br />
dell’estetica e della produzione.<br />
L’unico limite, purtroppo invasivo e penetrante, è frutto<br />
del vortice imbalsamatore orchestrato da Mayer e<br />
Voigt, che ormai fanno album col limitatore di fantasia<br />
in mode ON. E Daniel Maloso qui ci fin<strong>is</strong>ce dentro a<br />
piedi uniti.<br />
L’innovazione in casa Kompakt è finita con Supermayer<br />
nel 2007, da li è solo un rielaborare secondo varianti<br />
di stile e piacere differenti. Fortuna vuole che<br />
a Maloso l’esercizio riesca piuttosto bene, anche perché<br />
trattasi di prima prova, ma per il secondo album<br />
urgono innovazione e novità, tenendo bene a mente<br />
anche le scelte fatte dai predecessori: chi ha voluto<br />
innovare, anche solo parzialmente, ha allargato i suoi<br />
orizzonti (SCSI-9 e Oxia, che han pubblicato gli ultimi<br />
album altrove) e nel frattempo a Colonia vanno in<br />
onda solo repliche, benché recitate alla perfezione e<br />
capaci ancora di non annoiare. Le evoluzioni non si<br />
faranno attendere.<br />
(6.5/10)<br />
mirko CArerA<br />
de mAgiA veterum - deiFiCAtion<br />
(trASCendentAl CreAtionS, novembre<br />
2012)<br />
Genere: black metal<br />
Che cos’è black metal oggi? O, un passo in avanti, cosa<br />
possiamo considerare “pure black metal” oggi? Chiediamolo<br />
a Maurice De Jong, olandese con un passato<br />
e un presente nel suo progetto più famoso, gli Gnaw<br />
Their Tongues, ma autore del miglior d<strong>is</strong>co black metal<br />
radi<strong>cale</strong> dell’ultimo quinquennio grazie al suo side<br />
project De Magia Veterum. Il potenziale nervoso del<br />
gruppo si era già intuito nel predecessore The Divine<br />
Anti<strong>the</strong>s<strong>is</strong>, ma nessuno si sarebbe mai aspettato un<br />
d<strong>is</strong>co così fulminante come Deification.<br />
Il black metal, nel corso dell’ultimo decennio, ha attraversato<br />
fasi particolari, spesso diverse fra loro e si è<br />
decomposto in tante correnti: dal black ortodosso di<br />
scuola norvegese, al black progressivo poi sfociato in<br />
prog puro (penso agli Opeth), al black ammantato di<br />
oscurità dark e industrial (penso ai Blunt Aus Nord), per<br />
arrivare al black sperimentale e spirituale di un gruppo<br />
come i Wolves In The Throne Room. Ma ciò che<br />
è, insieme, nuova teoria del caos e continuazione della<br />
specie, oggi è solo nei De Magia Veterum. Non è tanto<br />
il vortice horror della strumentale di apertura, Eradication,<br />
liberamente <strong>is</strong>pirata agli Entombed di Left Hand<br />
Path e al King Diamond di Abigail ad essere il centro<br />
nevralgico di un ottimo d<strong>is</strong>co, quanto il delirio <strong>is</strong>terico<br />
di Thorns (la polverizzazione degli Emperor e dei D<strong>is</strong>section<br />
degli esordi).<br />
Thorns è un catacl<strong>is</strong>ma, la convergenza di ferocia e satan<strong>is</strong>mo.<br />
Una lunga serie di scosse nervose che diventano<br />
quasi il grindcore applicato al black metal. Passage riprende<br />
i passaggi Zorniani dei Painkiller, r<strong>is</strong>crivendoli<br />
secondo le teorie di Burzum. Ecco, immaginate Filosofem<br />
se fosse scritto con il sangue e spogliato di tutte<br />
le concezioni elettroniche. Ci potremmo avvicinare a<br />
Deification. C’è qualcosa di veramente malvagio in<br />
De Jong e nella sua v<strong>is</strong>ione della musica. Qualcosa che<br />
in Evoked in Passion espolode in un vortice di ferocia<br />
insopportabile: oltre certi livelli di suono, il rapporto<br />
con l’ascoltatore diventa sofferenza f<strong>is</strong>ica. De Jong, che<br />
scrive e produce tutti i suoi lavori - e anche in questo è<br />
vicino a Burzum - ancora in Shall Not Take Form applica<br />
al free jazz schizoide il black metal e produce qualcosa<br />
di impenetrabile. Come se tutto fosse un messaggio<br />
subliminale. Resta il fatto che Deification oggi si pone<br />
come un d<strong>is</strong>co di riferimento per il black a venire.<br />
(7.5/10)<br />
mArio ruggeri<br />
deFtoneS - koi no yokAn (repriSe,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: alternative metal<br />
Anche se questo album fosse stato meno convincente,<br />
i Deftones sarebbero da considerare senza dubbio il<br />
gruppo più interessante compreso nel d<strong>is</strong>cusso fenomeno<br />
nu-metal, se non altro perché la qualità media e la<br />
longevità art<strong>is</strong>tica della loro produzione superano, per<br />
ragioni differenti, sia i Korn sia i System Of A Down (fermo<br />
restando che lavori come l’omonimo dei Korn o Toxicity<br />
dei SOAD sono d<strong>is</strong>chi fondamentali per il genere<br />
e per una certa idea di metal alternativo e contaminato).<br />
Ko No Yokan lo dimostra “solo” una volta di più. Che<br />
la band di Sacramento possieda più elasticità creativa<br />
di molti complessi a lei contemporanei non è una novità.<br />
Oltre a quel muro chitarr<strong>is</strong>tico così potente e allo<br />
stesso tempo quasi volatile nella sua molecolarità, e alla<br />
voce calda ed emotiva di Moreno, il segreto sono le doti<br />
melodiche superiori che quest’album non si astiene dal<br />
d<strong>is</strong>pensare a piene mani e che permettono di apprezzare<br />
meglio la ricchezza di sfumature presente nel loro<br />
stile. Niente cr<strong>is</strong>i, il settimo LP li restitu<strong>is</strong>ce oltretutto in<br />
forma come non li ricordavo dai tempi dell’omonimo del<br />
2003, dopo qualche lieve ma comprensibile flessione.<br />
Il dittico iniziale lascia pochi dubbi: Swerve City, con il<br />
suo insieme di Black Sabbath, Nirvana, new wave e<br />
emocore, e Romantic Dreams hanno il pregio di suonare<br />
tanto classiche (cioè “deftoniane” fino al midollo) quanto<br />
fresche. Lea<strong>the</strong>rs, che aveva anticipato il d<strong>is</strong>co, è addirittura<br />
più inc<strong>is</strong>iva nel contesto dell’album. Polterge<strong>is</strong>t<br />
r<strong>is</strong>polvera tutti i trucchi preferiti dei quattro californiani,<br />
a partire dal canto melodico sui controtempi.<br />
I Deftones sono tuttora uno dei complessi rock che usa<br />
meglio il dj, e nonostante l’assenza di Chi Cheng (che sta<br />
ancora recuperando dopo il terribile incidente d’auto<br />
del 2008) la scelta di Sergio Vega, ex Quicksand, al basso<br />
è sembrata da subito la più naturale. Tutto al posto<br />
giusto, e anche se alcuni riff li avevamo già sentiti, è<br />
difficile domandare di più a una band del genere dopo<br />
quasi vent’anni di carriera.<br />
(7.2/10)<br />
tommASo iAnnini<br />
deniSe - univerSe (Al-kemi reCordS,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: Glitch pop<br />
Universe è il d<strong>is</strong>co della presunta maturità di Den<strong>is</strong>e<br />
Galdo, autrice salernitana di spiccata sensibilità dreamypop,<br />
fantasiosa, favol<strong>is</strong>tica, rediviva Alice in un paese che<br />
non è mai stanco di meraviglie. Lasciatasi alle spalle l’ala<br />
salvifica e lungimirante di Gianni Maroccolo (già produttore<br />
del primo d<strong>is</strong>co), la music<strong>is</strong>ta si affida a Roberto<br />
Vernetti, Cr<strong>is</strong>tian Milani e Michele Clivati. L’intento, ça va<br />
sans dire, è quello di superare il clima bambinesco e ingenuo<br />
che caratterizzava Dodo, do! e che, in un modo o<br />
nell’altro, era riuscito a conqu<strong>is</strong>tare l’ammirazione della<br />
critica (passando ovviamente per le varie Trl, Radio Dj e<br />
quant’altro, mai sazie di ritornelli e stornelli prêt-à-porter)<br />
Eppure l’ingresso nel mondo degli adulti non è così facile,<br />
quando manca la leva militare. Se da un lato è palese<br />
l’approccio a sonorità più emancipate r<strong>is</strong>petto alla parte<br />
glitterata degli Eighties (il suono di Mantra of The Universe<br />
e Halfman può essere cifra di ciò) e c’è il tentativo<br />
- per quanto solo accennato - di accostarsi a una tradizione<br />
che parte dal jazz-folk passando per Kate Bush e<br />
Regina Spektor (Sailors è una bella, ma troppo classica<br />
ballad), dall’altro la zampata del manier<strong>is</strong>mo “pascoliano”<br />
è dietro l’angolo. C’est-à-dire: ben venga questo<br />
mondo di meraviglia v<strong>is</strong>to dall’art<strong>is</strong>ta con gli occhi di<br />
un fanciullino e condito di sincopati ritmi pop e accenni<br />
elettronici di natura squ<strong>is</strong>itamente sognante (e quindi<br />
archi, archetti, stelle e stelline, giocattoli e giocattolini),<br />
ma attenzione a non farsi prendere troppo la mano. E<br />
quale miglior testimone di questa indole manier<strong>is</strong>tica<br />
se non proprio l’accanimento sull’onomatopea (ancora<br />
in Rain e Piggy Poggy), la faciloneria gigiona storpiata<br />
nell’electro-indie-pop di Superpop o la strozzatura forzata<br />
di una bella (è doveroso dirlo) vocalità?.<br />
Rimangono gli spunti programmatici finalizzati a uscire<br />
dal Baby Den<strong>is</strong>e Universe e che, salvo gli ep<strong>is</strong>odi indicati<br />
sopra, si sporgono appena in dirittura d’arrivo (Light<strong>house</strong><br />
Keeper). Troppo contaminati, tuttavia, da un immaginario<br />
che in tempi come i nostri ha smesso di affascinare.<br />
(5.8/10)<br />
nino Ciglio<br />
dJ bAlli - tweet it! (extrAtone mix) (SoniC<br />
belligerAnzA, novembre 2012)<br />
Genere: extravaGanza concept<br />
DJ Balli + Ralph Brown manipolano tweet. Concept a<br />
140 bpm: electrocabala della comunicazione 2.0 (14<br />
brani x 1:40 min) in picture d<strong>is</strong>c.<br />
(7/10)<br />
mArCo boSColo<br />
62 63
egyptiAn hip hop - good don’t Sleep (r & S<br />
reCordS, ottobre 2012)<br />
Genere: art pop, psychedelia<br />
Li si era dati per desaparecidos, un po’ come i Late Of The<br />
Pier del loro primo collaboratore, Sam Eastgate (Wild Human<br />
Child, 2010). Invece, a d<strong>is</strong>tanza di due anni dall’acclamat<strong>is</strong>simo<br />
EP Some Reptiles Grew Wings (prodotto<br />
da Hudson Mohawke), rieccoli gli Egyptian Hip Hop,<br />
quattro mancuniani neanche ventenni che ritorviamo<br />
maturati sia tecnicamente (il frontman Alex Hewett è<br />
stato touring member per Connan Mockasin e Charlotte<br />
Gainsbourg), sia art<strong>is</strong>ticamente.<br />
R<strong>is</strong>petto al progressive synth-pop di stampo “upbeat” (e<br />
a favor di NME) v<strong>is</strong>to in precedenza, Good Don’t Sleep si<br />
rivela fin da subito un album dalla lenta combustione,<br />
dalle qualità espansive e sorprendentemente coeso. Un<br />
unico mood dai tanti blend esplorati in dodici tracce scritte<br />
su una prosa psichedelia narcolettica, contradd<strong>is</strong>tinte<br />
cioé dalla diversa intensità di movimento e scandite da<br />
una attiva, pulsante e vagamente esotica sezione ritmica.<br />
I richiami vanno dai 90s alternative agli 80s gothpop;<br />
ci troviamo sapori Warpaintiani (The White Falls)<br />
e - d’altronde in cabina di regia c’è il medesimo Richard<br />
Formby - dei Wild Beasts di Smo<strong>the</strong>r (Tobago, Strange<br />
Vale), per un suono che è già piuttosto caratterizzato:<br />
synth e torbide bassline a far da fondale nebbioso ad<br />
effetto “wall of sound”, in grado di esaltare al massimo le<br />
intricate trame chitarr<strong>is</strong>tiche che dai citati 80s di genere<br />
possono sorprendere in calibrate e scientificizzate pose<br />
Talking Heads.<br />
Complice inoltre una sensibilità tutta chorus che torna a<br />
rompere la quiete ripetitiva (Yoro Diallo, SYH), Good Don’t<br />
Sleep scaccia il r<strong>is</strong>chio noia, r<strong>is</strong>ultando, anzi, intrigante ed<br />
immersivo. Comodità da stereotipo indie incluse nella<br />
scatola (leggi: vocalità “shoegazey”) ma tutto il potenziale<br />
a d<strong>is</strong>posizione per il classico debutto da qualche<br />
culto, come fu quello dei Wu Lyf lo scorso anno. Merita.<br />
(7.2/10)<br />
mASSimo rAnCAti<br />
el perro del mAr - pAle Fire (memphiS<br />
induStrieS, ottobre 2012)<br />
Genere: folk<br />
Preceduto in estate da un sorprendente singolo Innosence<br />
Is Sense, che lasciava presagire una svolta goth-pop,<br />
efficace ma fin troppo anonima in un territorio a metà<br />
tra Zola Jesus e Esben And The Witch dove perdeva<br />
su tutti i punti, Sarah Assbring consegna finalmente alle<br />
stampe l’atteso ritorno sulla lunga d<strong>is</strong>tanza, sgombrando<br />
il campo dagli equivoci. El Perro Del Mar non traffica<br />
con l’oscurità. Sarah, anche se gli anni passano, resta la<br />
ragazza bionda con i capelli da marinaretto che sogna<br />
una forma di amore impossibile, tra Liala e un romanzo<br />
Harmony. Esattamente quel profilo anni ‘60, leggero e<br />
soffice come le nuvole estive che ce l’ha fatta amare fin<br />
dall’esordio.<br />
Pale Fire si colloca come l’ultimo tassello di questo personal<strong>is</strong>simo<br />
mosaico pop. Parla la stessa lingua di brani<br />
storici del suo catalogo come Change Of Heart, Th<strong>is</strong> Loliness,<br />
Candy, Let Me In, eppure non conserva un grammo<br />
della magia di quest’ultime, colpa soprattutto del<br />
pesante corredo elettro, che se pure si era intrav<strong>is</strong>to in<br />
Love Is Not Pop, stavolta domina su tutte le canzoni. Una<br />
soluzione che aiuta l’omaggio verso la dance pop anni<br />
‘90 che Sarah afferma voler fare con questo d<strong>is</strong>co. Brani<br />
come Hold Off The Dawn, Home Is To Feel Like That e I<br />
Carry The Fire, in questo senso riescono a stabilire una<br />
relazione con i vecchi Ace Of Base o Cardigans, in un<br />
modo sicuramente più efficace di Maria Minerva, che<br />
sostanzialmente fa la stessa cosa. Il singolo, con quell’irres<strong>is</strong>tible<br />
refrain “Solitude <strong>is</strong> my best friend..” e gli ancheggiamenti<br />
pop-funk riesce finanche a farci ricordare<br />
gente come Luscious Jackson, Soul Coughing e il Beck<br />
di Odelay. Sostanzialmente i brani da best of ci sono<br />
anche stavolta, soprattutto I Was A Boy, ma la scelta di<br />
adeguarsi all’andazzo digitale quando lei, da sola con<br />
la sua chitarra, evocava mondi interi e si rivelava come<br />
l’unica degna erede di Claudine Longet, toglie parecchi<br />
punti al d<strong>is</strong>co. (6/10)<br />
Antonello ComunAle<br />
emptySet - CollApSed (rASter noton de,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: elettronica<br />
Emptyset sono James Ginzburg, producer americano<br />
di Washington ma di stanza a Br<strong>is</strong>tol che durante due<br />
lustri ha suonato praticamene di tutto sotto svariati alias<br />
(30Hz, P Dutty), dalla dubstep ai break, passando per<br />
grime, acid e tech-<strong>house</strong> (tra gli altri ha collaborato con<br />
Pinch fondando con lui il Multiverse, un network d’etichette).<br />
E l’art<strong>is</strong>ta Paul Purgas, attivo in solo soltanto<br />
con un 12’’ di quest’anno, Dual Capacity co-firmato Shelley<br />
Parker, in area ambient scura, post-industrial, no<strong>is</strong>e<br />
e paraggi (non a caso la giovane etichetta dell’eppì, la<br />
WCEC, ha ospitato Mick Harr<strong>is</strong>).<br />
Assieme dal 2007, James e Paul producono costantemente<br />
per svariate label specializzate e di genere tra cui<br />
Caravan e Future Days su album e eppì. Collapsed è il<br />
loro biglietto da v<strong>is</strong>ita Rasten Noton: smussati i looping<br />
più grezzi e accantonato il 4/4 in area Minus per pulseprogramming,<br />
minimal<strong>is</strong>mo e no<strong>is</strong>e effect (Core, Wire)<br />
rigorosamente analogico, il duo si posiziona sulla scia di<br />
Byetone, ovvero sul lato più muscolare della faccenda<br />
abstract techno iniziata dai Pan Sonic e proseguita con<br />
rigore dai mastermind dell’etichetta tedesca (Armature).<br />
Tra i nuovi ingressi della label, sicuramente più interessante<br />
la giapponese Kyoka.<br />
(6.2/10)<br />
edoArdo briddA<br />
FAuSto bAlbo - login (SnowdoniA, ottobre<br />
2012)<br />
Genere: kraut / Glitch<br />
Pubblicato dalla solita ammirevole stoica Snowdonia<br />
in coproduzione con Afe Records (il d<strong>is</strong>co è apparso in<br />
streaming su bandcamp a luglio, la d<strong>is</strong>tribuzione Audioglobe<br />
è di ottobre), ecco la quinta release maggiore<br />
in 12 anni di attività d<strong>is</strong>cografica per il cuneese classe<br />
1970 Fausto Balbo, a due anni da quel Detrimental<br />
Dialogue smezzato con Andrea Marutti che ci era<br />
molto piaciuto. Fausto fa stavolta con la sua elettronica<br />
glitch di <strong>is</strong>pirazione metà krauta metà industriale - ma<br />
dal taglio artiginale e fragrante - una specie di concept<br />
pessim<strong>is</strong>ta sul web e sul web 2.0 dei social e dei login<br />
appunto, con lo spirito di chi dopo un giro circospetto e<br />
attento corre prima possibile a fare logout, agli antipodi<br />
insomma dell’ottim<strong>is</strong>mo modern<strong>is</strong>ta, yuppie e fintoingenuamente<br />
pro-tecnologico del James Ferraro di<br />
Far Side Virtual.<br />
L’elettronica di Balbo è rabdomantica nel senso che si<br />
aggira zoppa alla ricerca di una forma propriamente<br />
musi<strong>cale</strong>, e te la fa intuire, te la fa immaginare, restando<br />
sempre orgoliosamente al confine tra concreta pura e<br />
suono orientato/organizzato. Come già abbiamo avuto<br />
occasione di sottolineare, è questo un ambito inflazionato<br />
e r<strong>is</strong>chioso, ma il nostro sa bene come costruire i<br />
suoi materiali e il r<strong>is</strong>ultato, per quanto apparentemente<br />
anche di base, riesce a suonare fresch<strong>is</strong>simo e godibile.<br />
E’ un viaggio nella rete non consolatorio da un punto di<br />
v<strong>is</strong>ta della dimensione sociale-comunicativa, tutto grumi,<br />
inciampi, interdizioni; più appagante forse per chi<br />
cerca davanti allo schermo la sublimazione di un’esperienza<br />
individuale/individual<strong>is</strong>tica di ritiro appartato, di<br />
meditazione.<br />
Dal romantic<strong>is</strong>mo austero subito ricondotto a un algido<br />
inciampare di bit di Harvester of Bits appunto, all’effetto<br />
didgeridoo di aphextwiniana memoria di Virus Scan,<br />
dalla illbient arabeggiante e m<strong>is</strong>teriosa - poi addensantesi<br />
in figure quasi gobliniane - di Hardmysticmeeting, ai<br />
suoni al limite dell’infrasuono che fanno agghiacciare il<br />
gatto di Hi Mr. Kemp, dalla mimesi natural<strong>is</strong>tica e dalle<br />
krauterie di Bird’s Room, al melmoso drone dub di Clozier<br />
e allo sfarfallio spacey di Walkin’ with Klaus (il pezzo più<br />
formato - nel senso di musi<strong>cale</strong> - del lotto). Fino ai quasi<br />
diciotto minuti conclusivi di Will Future Man Develop a<br />
Third Ear?, che stimolano lo spuntare di questo famoso<br />
terzo orecchio con un fantastico concertino di ciguettii<br />
- f<strong>is</strong>chi, rumori e rumorini - che diventa poi un muro<br />
di micro-contrappunti come di grilli in trance, diciotto<br />
minuti che passano ipnotici e l<strong>is</strong>ci come fossero manco<br />
cinque.<br />
Login by Fausto Balbo<br />
(7.1/10)<br />
gAbriele mArino<br />
FAuve! gegen A rhino - polemoS (bedevil,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: avant<br />
Avevamo v<strong>is</strong>to giusto puntando sulla formazione toscana<br />
Fauve! Gegen A Rhino. Per modalità compositive e<br />
di d<strong>is</strong>tribuzione si dimostrano sempre più emancipati,<br />
figli di una generazione “liquida” per manegevolezza del<br />
medium e impatto libero, ma accesi dal sacro fuoco del<br />
furore conoscitivo intragenere. Un atteggiamento che<br />
li porta a mostrarsi come epigoni di nessuno e originali<br />
compositori, pur nella trafficata ampiezza della tavolozza<br />
di colori usata.<br />
Polemos è la collezione, uscita in formato digitale, dei tre<br />
Ep a concetto rilasciati dall’un tempo trio e ora duo (da<br />
segnalare la defezione di Matteo Moca avvenuta dopo<br />
la reg<strong>is</strong>trazione del primo ep) nei mesi scorsi, e incentrati<br />
sulla riflessione sulla lotta come “modalità di origine<br />
dell’evento”. In When You’re Dancing, You’re Struggling,<br />
When You’re Struggling You’re Winning e When You’re<br />
Winning You’re Losing c’è un intero universo di forme e<br />
modalità sonore agile e scomposto tra heavy rhythm,<br />
ambient malsana, techno atipica, destrutturazione acidrock,<br />
devianze trip-hop, perversioni Liars e increspature<br />
Fennesziane, trance da droga sintetica e mantra dal<br />
futuro.<br />
Roba che è a tempo stesso minimale e massimal<strong>is</strong>ta, che<br />
costru<strong>is</strong>ce orizzonti rimescolando input da ogni dove,<br />
che frantuma generi e preconcetti, convogliando in sé<br />
la migliore accezione del termine “musica liquida”. La tavolozza<br />
di colori dei Fauve è orizzontale sul piano dello<br />
spazio-tempo e condita di ogni ben di dio musi<strong>cale</strong>. In<br />
essa infilano le manine per dipingere paesaggi sonori<br />
nuovi e sporcare quelli evidenti e riconoscibili, col sostegno<br />
di una impalcatura progettuale e ideologica di<br />
grand<strong>is</strong>simo spessore. Leggere e guardare il video di<br />
Serse per averne conferma.<br />
(7.5/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
64 65
FeAr - <strong>the</strong> FeAr reCordS (em reCordS,<br />
diCembre 2012)<br />
Genere: punk<br />
Personalmente, non ho mai nutrito per i remake di nessun<br />
genere. Prefer<strong>is</strong>co gli originali o almeno, accetto le<br />
riproposizioni se fatte con arte e intelligenza, con gusto,<br />
r<strong>is</strong>petto e con (addirittura) magari qualche idea innovativa.<br />
Ma le autocelebrazioni no. Soprattutto quando<br />
si tratta di celebrare un culto totale, d<strong>is</strong>truggendolo.<br />
Sarebbe interessante chiedere ai The Fear, motivazioni<br />
economiche a parte, perché incidere nuovamente un<br />
d<strong>is</strong>co, trent’anni dopo, dopo aver perso giocoforza tutto<br />
lo smalto e la rabbia del revolt punk dei prim<strong>is</strong>simi anni<br />
‘80. E torniamo, non si scappa, al ragionamento di sempre:<br />
Debord, McLuhan, la storia si ripete. Prendete una<br />
musica, estrapolatela dal suo habitat originario e allora,<br />
solo allora, capirete quanto la storia, l’ambiente, la società<br />
nella quale è stata composta siano importanti tanto<br />
quanto l’idea creativa. Soprattutto se parliamo di punk.<br />
I Fear, per gli amanti del rock, sono un’<strong>is</strong>tituzione. Per<br />
tutti gli altri sono quelli che hanno copiato i Guns’n’Roses<br />
rifacendo I Don’t Care (da The Spaghetti Incident!?)<br />
senza sapere, loro malgrado, che furono i G’n’R a coverizzare<br />
il manifesto del gruppo che faceva paura: Fear<br />
appunto. The Fear Album, edito nel 1982, fu una sorta<br />
di elegia del caos rivoluzionario, da mettere in fila con<br />
i Germs di G.I., i D<strong>is</strong>charge di Hear Nothing, See Nothing,<br />
Say Nothing, i Po<strong>is</strong>on Idea di The Fear E.P.,<br />
i Gbh e bande armate non troppo d<strong>is</strong>simili; un d<strong>is</strong>co<br />
violento, fastidioso, pericoloso, scomodo, una sorta di<br />
blitz sonoro effettuato a colpi di We Destroy The Family,<br />
Let’s Have a War, Gimme Some Action. Più che canzoni,<br />
manifesti sociali.<br />
Ed oggi? Ecco, provate ad immaginare una canzone ingrassata,<br />
imbolsita, pigra, senza più rabbia ma con la<br />
voglia di rappresentare la rabbia. Come una proiezione<br />
di un tempo che è stato. Ecco, il r<strong>is</strong>ultato, senza cattiveria,<br />
non può che essere pericolosamente tragico. Perché<br />
se al punk togli il suo contesto di rabbia giovanile, o ti<br />
chiami Jello Biafra, oppure r<strong>is</strong>chi di fare magre figure:<br />
e se sei un simbolo del punk, allora l’affare si complica.<br />
Certo, i The Fear anche oggi si fanno ascoltare ma qualcuno<br />
dovrà anche spiegarci il senso di un’operazione<br />
del genere.<br />
(5/10)<br />
mArio ruggeri<br />
FerguS & geronimo - Funky wAS <strong>the</strong> StAte<br />
oF AFFAirS (hArdly Art, luglio 2012)<br />
Genere: GaraGe soul<br />
Rieccoli, i Fergus & Geronimo, quel duo di folli garage<br />
boys tanto promettenti usciti con il loro buon primo<br />
d<strong>is</strong>co poco più di un anno fa. Funky was <strong>the</strong> state of affairs<br />
è un titolo dec<strong>is</strong>amente adatto a sedici canzoni che<br />
vanno a comporre un mix delirante di parlato (The strange<br />
one speaketh, My phone’s bene tappe, baby), rumor<strong>is</strong>mi<br />
(The Uncanny Valley) rock’n’roll, garage (Spies) e parecchi<br />
residui (post)punk (Roman nvmerals, Drones). R<strong>is</strong>petto<br />
all’esordio i passi avanti sono molt<strong>is</strong>simi. Si riconferma<br />
soprattutto l’eterogeneità delle <strong>is</strong>pirazioni, in particolar<br />
modo aggiungendo i deliri funky tutti basso, tromba e<br />
synth che vanno a chiudere l’album.<br />
Funky was <strong>the</strong> state of affairs ha a tratti perfino la<br />
forza di un concept che non si presta a una facil<strong>is</strong>sima<br />
interpretazione, anche a causa di scelte stil<strong>is</strong>tiche d<strong>is</strong>parate<br />
che comunque vanno a dare al d<strong>is</strong>co una forma<br />
unitaria. Un buon lavoro, insomma, pieno di slanci low-fi<br />
e ricco di estemporaneità.<br />
(7/10)<br />
giuliA CAvAliere<br />
FrAnCo bAttiAto - Apriti SeSAmo<br />
(univerSAl, ottobre 2012)<br />
Genere: cantautorato<br />
Capire Battiato, avrebbe detto il buon Castoldi, non è<br />
affatto un’operazione scontata. Tanto più se, dopo cinque<br />
anni e mezzo, l’attesa (l’ultimo lavoro di inediti fu Il<br />
Vuoto, 2007) ha divorato i fans, che, trepidanti, hanno<br />
guardato con mal celata malizia le opere cinematografiche,<br />
teatrali e sperimentali del maestro. Apriti Sesamo<br />
arriva in una stagione inattesa della vita di Battiato, in<br />
cui, di certo non nel silenzio assoluto, il cantautore catanese<br />
sta affrontando la sperimentazione su vari fronti.<br />
Rimarrà deluso, dunque, chi si aspettava da questo<br />
ventottesimo album un’opera di indagine e di ricerca sul<br />
suono. Essa non è stata abbandonata, quanto piuttosto<br />
relegata al campo di altre arti non meno nobili come il<br />
melodramma (recent<strong>is</strong>sima è l’opera di ologrammi, balletto<br />
e lirica dedicata alla figura di Bernardino Telesio).<br />
Si può dire che, sul fronte del sound, Apriti Sesamo<br />
poco si d<strong>is</strong>tacca dall’esperienza de Il Vuoto o, meglio<br />
ancora, dei Fleurs.<br />
Ma nessuno aveva aspettative diverse. Gli strumenti<br />
dell’artigiano pop sono maneggiati con la perfezione<br />
che si confà a chi è maestro assoluto nel genere. Con<br />
l’immancabile ausilio del fido Sgalambro e di un cast<br />
d’eccezione come Faso (Elio e le storie tese), Gavin<br />
Harr<strong>is</strong>on (King Crimson), Simon Tong (Verve), Battiato<br />
cuce dieci ep<strong>is</strong>odi di vita, fra nostalgie e indignazione,<br />
echi sacri e mitologia pagana. Il tutto sapientemente<br />
d<strong>is</strong>tribuito nel consueto pastiche di citazion<strong>is</strong>mo: si va<br />
da Santa Teresa d’Avilia (Un irres<strong>is</strong>tibile richiamo) a Dan-<br />
te (Testamento), da Stefano Landi (Passacaglia) al poeta<br />
arabo Ibn Hamd<strong>is</strong> (Aurora), da Sheherazade di Nikolai<br />
Rimsky-Korsakov (Apriti Sesamo) ai sempreverdi Vangeli.<br />
L’impressione è quella di un Battiato per nulla stanco e<br />
per nulla sazio di novità liriche. Se si eccettua un po’ di<br />
moral<strong>is</strong>mo di troppo nel singolo Passacaglia (“La gente<br />
è crudele e spesso è infedele” et similia), il ritornello ridondante<br />
e a marcetta di Eri con me e il cantato femminile<br />
(pur pregno di significato politico) in stile pubblicità della<br />
Lines di Caliti Junku, il d<strong>is</strong>co presenta svariati momenti<br />
in cui l’orecchio corre ad opere dec<strong>is</strong>amente fortunate<br />
di Battiato: Testamento suona molto alla maniera di<br />
F<strong>is</strong>iognomica, La polvere del branco ricorda alcune cose<br />
di Gommalacca, il tutto in un’operazione che nei due<br />
precedenti d<strong>is</strong>chi di inediti non era avvenuta. Il richiamo<br />
alla gioventù e la nostalgia di essa porta con sé anche un<br />
auspicio militante per le nuove generazioni (in Quand’ero<br />
giovane si canta “Viva la gioventù che fortunatamente<br />
passa senza troppi problemi”), ridimensiona gli spazi<br />
bucolici investendoli di una saggezza popolare ormai<br />
dimenticata (Caliti junku) che diventa critica sociale (“The<br />
world outside <strong>is</strong> insane”), s’allarga, infine, in atmosfere<br />
favol<strong>is</strong>tiche, da Mille e Una Notte, con il finale di Apriti<br />
Sesamo, che, come la roccia della favola, sembra quasi<br />
spalancare un’aspettativa di speranza, di rinascita e reincarnazione<br />
(non a caso la parola torna spesso nel d<strong>is</strong>co).<br />
Se dunque l’impegno del cantautore è sconfinato in altri<br />
fronti estetici e la ricerca sul suono non progred<strong>is</strong>ce in<br />
maniera evidente (non si pensi però che gli arrangiamenti<br />
siano deboli), nulla si può certo contestare all’accanimento<br />
e all’ardore di questo signore di sessantasette<br />
anni che ancora non smette di deliziarci.<br />
(6.9/10)<br />
nino Ciglio<br />
gAry ClArk Jr - blAk And blu (wArner<br />
muSiC group, ottobre 2012)<br />
Genere: blues-soul-rock-pop<br />
Etichettato dai soliti noti come “il nuovo Hendrix” o “il<br />
salvatore del blues”, il ventottenne texano Gary Clark<br />
Jr. ha passato gli ultimi anni tra lo studio (alcuni album<br />
introvabili e un paio di EP) e il palco.<br />
Il nuovo Hendrix, il salvatore del blues... ma qualcuno<br />
oggi sente veramente il b<strong>is</strong>ogno di un nuovo Hendrix<br />
(non lo doveva già essere Lenny Kravitz? Ecco...) o del<br />
salvatore del blues? La musica, fortunatamente, evolve<br />
e per farlo spesso lo fa passando anche dal revival, senza<br />
però che ci sia per forza la necessità di avere un nuovo<br />
qualcuno o colui in grado di salvare un genere che negli<br />
anni ha perso parte del suo fascino, forse proprio perchè<br />
fin troppo legato ai cliché del passato e spesso incapace<br />
di contaminarsi con concetti musicali contemporanei.<br />
Blak and Blu per Gary Clark Jr. è l’album d’esordio su<br />
Warner, la quale ha evidentemente individuato in lui<br />
un potenziale tornaconto economico: Gary ha div<strong>is</strong>o<br />
lo stage con alcuni dei nomi più prestigiosi del blues,<br />
ha presenziato all’evento Red, White and Blues alla Casa<br />
Bianca, ha recitato nel film Honeydripper, è stato nominato<br />
“Best Young Gun” dal Rolling Stone (eh beh...) ed<br />
ha collaborato a più riprese con Alicia Keys. Insomma,<br />
in un periodo in cui in USA la tradizione (dai Mumford<br />
& Sons a Taylor Swift) è tornata a dominare, uno come<br />
Gary Clark Jr. la vince facile.<br />
Gary Clark Jr è sicuramente un music<strong>is</strong>ta abile quanto<br />
furbo e lo si può intuire dalla linfa, sapientemente<br />
impostata sul gusto vintage, che scorre lungo le tredici<br />
tracce - alcune già presentate in passato - di Blak and<br />
Blu. L’iniziale Ain’t Messin’ ‘Round ha il compito di catturare<br />
l’attenzione con il suo trascinate soul-rock bello tirato,<br />
sorretto egregiamente dalla grana grossa del blues<br />
cattivo e ‘60s della successiva When My train Pulls In. Altrove<br />
troviamo tentativi soul (la titletrack), scie Prince,<br />
modernizzazioni vicine all’r&b (The Life) contrapposte a<br />
stereotipati retro boogie-roll (Trav<strong>is</strong> County), la vecchia<br />
black sixties (Please Come Home) e gli ancora più vecchi<br />
blues delle paludi (Next Door Neighbor Blues).<br />
Blak and Blu è una sorta di mini guida tascabile “For<br />
Dummies” sulla storia della musica nera dell’ultimo<br />
secolo. L’autore, Gary Clark Jr, conosce molto bene la<br />
materia e i suoi riferimenti principali ma non si è sforzato<br />
abbastanza da rendere l’opera interessante, inoltre la<br />
produzione affidata a Mike Elizondo e Rob Cavallo (mr.<br />
rock patinato) fin<strong>is</strong>ce per appesantire il tutto.<br />
(5.7/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
gentleSS3 - SpeAk to <strong>the</strong> boneS (viCeverSA,<br />
diCembre 2012)<br />
Genere: folk rock<br />
Sono tanti i motivi d’interesse per questo sophomore dei<br />
Gentless3. Alcune arrivano dalla cartella stampa, dove<br />
ad esempio si narra che le inc<strong>is</strong>ioni sono state effettuate<br />
anche al Teatro Coppola, della cui occupazione vi abbiamo<br />
parlato qualche mese fa, esperienza che prosegue<br />
e cui rinnoviamo il nostro più cordiale in bocca al lupo.<br />
Inoltre, veniamo a sapere che la produzione art<strong>is</strong>tica di<br />
questo Speak To The Bones è di Joe Lally nientemeno,<br />
e che anche un altro tipo poco raccomandabile (si fa per<br />
dire) come Cesare Basile ci ha messo lo zampino.<br />
E’ però alla prova dell’ascolto che arrivano le notizie più<br />
gustose, v<strong>is</strong>to che il trio ragusano pare essersi affrancato<br />
quasi del tutto dai fantasmi post-rock per abbracciare<br />
66 67
una forma canzone matura ma non supina, cupa e calda,<br />
elaborata seppure diretta al cuore. Il banjo e le tastiere<br />
cambiano gli scenari intrecciando trame tradizionali e<br />
inquietudini 90s, ma ad indicare la rotta è la scrittura, di<br />
un’intensità duttile ed espansa, capace d’impastare con<br />
d<strong>is</strong>involtura la palpitazione tenue Mark Kozelek ed il<br />
ciondolare afflitto Black Heart Procession (Destinations<br />
Unknown), il lir<strong>is</strong>mo essenziale Karate ed il malanimo<br />
Alice In Chains (V For Vittoria), ugge Willard Grant Conspiracy<br />
(Letters From A New Form) e paturnie Lanegan<br />
(My Fa<strong>the</strong>r Moved Through Dooms Of Love).<br />
Un pan<strong>the</strong>on d’influenze che pure sa tenere al centro<br />
la propria voce, densa e febbrile in Speak To My Bones,<br />
struggente nella dedica ad Elliott Smith buonanima<br />
di Ell<strong>is</strong> Island, bieca ma venata di tenerezza speranzosa<br />
nella conclusiva Saved, come dire che c’è uno spiraglio<br />
di luce alla fine del tunnel noir.<br />
(7.1/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
giAnCArlo Frigieri - togliAmoCi il<br />
penSiero (Contro reCordS, ottobre 2012)<br />
Genere: canzone d’autore<br />
Si defin<strong>is</strong>ce un cantante “povero”, Giancarlo Frigieri, facendo<br />
torto a sé stesso. Anche se un mood involontariamente<br />
scompigliato lo cogli davvero in una poetica che<br />
rimane comunque riconoscibile, per certi versi tradizionale,<br />
innegabilmente autarchica. Quinto d<strong>is</strong>co in carniere<br />
e un immaginario sonoro in bilico tra rock ad ampio<br />
spettro e Giorgio Gaber, Francesco Guccini e Pierangelo<br />
Bertoli, ma anche, per dire, un Mauro Mercatanti<br />
dei tempi di Infedele alla linea. Tanto per sottolineare<br />
che qui di laccature ordinarie e ben codificabili legate<br />
a una r<strong>is</strong>coperta à la page della canzone all’italiana ne<br />
troverete ben poche. Al massimo una sensibilità d’autore<br />
che mira al quotidiano, a una dimensione lo<strong>cale</strong><br />
e da essere umano con tutti i pregi e i difetti del caso.<br />
Del resto l’ex Love Flower/Julie’s Haircut/Joe Leaman<br />
ci ha abituati a un punto di v<strong>is</strong>ta tutto suo sul mondo e<br />
sulla la vita, rinnovato con stile ad ogni passaggio d<strong>is</strong>cografico.<br />
Anche con un Togliamoci il pensiero che non fa<br />
eccezione in questo senso, adottando il linguaggio della<br />
semplicità folk-rock (la title-track) e mescolandolo, di<br />
volta in volta, a richiami tra i più d<strong>is</strong>parati: il Messico di<br />
frontiera de Il nemico, la chiusa quasi hardcore del L’altra,<br />
il blues-funk di Senza canditi. Con quel valore aggiunto<br />
di cui si diceva poche righe più su, ovvero la capacità<br />
di scrivere su un attualità semplice e legata a filo doppio<br />
alle umane solitudini. Quel che accade soprattutto<br />
in una La pol<strong>is</strong>portiva che nei suoi cinque minuti riesce<br />
a dipingere un universo r<strong>is</strong>tretto, contestualizzato, ma<br />
anche commovente e con le sue regole, tra badanti e<br />
pensionati, gnocco fritto e balli di gruppo.<br />
(6.8/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
giovAnni mArton - ogni SguArdo non è<br />
perSo (SeAhorSe reCordingS, novembre<br />
2012)<br />
Genere: dark pop d’autore<br />
Cresciuto a pane e studi musicali - soprattutto chitarra<br />
classica, ma anche solfeggio, armonia e composizione -,<br />
il ventitreenne Giovanni Marton esord<strong>is</strong>ce sulla lunga<br />
d<strong>is</strong>tanza con Ogni sguardo non è perso (sottotitolo: Formulario<br />
di estetica stagionale), album che arriva dopo<br />
l’EP del 2011 Non sogno l’estate. Il giovane pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta<br />
si presenta con un debutto convincente sotto<br />
diversi aspetti, grazie a una personalità cantautorale già<br />
matura che, seppur orientata principalmente verso sonorità<br />
dark pop, riesce comunque a costruire brani eterogenei.<br />
Un campionario di suoni caratterizzato da una<br />
scrittura sottile, m<strong>is</strong>urata, che di volta in volta rimanda<br />
a paesaggi fuori dal tempo e dallo spazio, in bilico tra<br />
d<strong>is</strong>solvenze barocche ed eclett<strong>is</strong>mi camer<strong>is</strong>tici.<br />
Tormenta estiva, il brano che apre il d<strong>is</strong>co, introduce<br />
l’ascoltatore a un songwriting che per i suoi giochi di<br />
luce e ombra fa pensare al lato intim<strong>is</strong>ta e v<strong>is</strong>ionario<br />
del Morgan migliore, come anche L’ultimo sole, pezzo<br />
che vira verso territori maggiormente synth senza però<br />
rinunciare alla linearità della forma-canzone tradizionale.<br />
Perdersi tra gli sguardi, con la sua tenue melodia<br />
impression<strong>is</strong>ta, immerge in uno scenario da Parigi in<br />
bianco e nero, dove la suggestione chamber non è più<br />
solo musi<strong>cale</strong> ma anche cinematografica, mentre Il tuo<br />
mondo non è perso è un ipnosi electro rock à la Bluvertigo.<br />
Nel d<strong>is</strong>co c’è spazio anche per due ospiti illustri: Fabio<br />
Cinti in Nuovi s<strong>is</strong>temi stellari (un synth d’autore in<br />
aria Battiato) e Lele Batt<strong>is</strong>ta in Idillio Borghese (ottimo<br />
esempio di artigianato pop, per uno dei brani più riusciti<br />
del lotto). Tanto per sottolineare ancora una volta i<br />
legami di Marton con tutto il revival 80s connesso a una<br />
certa canzone d’autore all’italiana.<br />
Nel complesso, il pregio maggiore di Ogni sguardo non<br />
è perso è la voglia di sperimentare soluzioni musicali<br />
insolite e personali, pur nell’ottica di un songwriting<br />
sempre riconoscibile. Un buon esordio di un autore da<br />
tenere d’occhio.<br />
(7/10)<br />
giuliA Antelli<br />
green dAy - ¡doS! (repriSe, novembre 2012)<br />
Genere: GaraGe pop<br />
Non staremo qui a parlarvi degli attuali tormenti di<br />
Billy Joe, quarantenne ragazzaccio in rehab reduce da<br />
bravate come quello sfogo anti-Bieber all’iHeart Radio<br />
Music Festival (dai, ché su Facebook l’avete cliccato e<br />
pure condiv<strong>is</strong>o). E nemmeno a ribadirvi chi, anzi che cosa<br />
siano i Green Day oggi come ieri (macchina da soldi per<br />
teenager lo erano già ai tempi di Dookie e di Woodstock<br />
‘94, le indignazioni dei pur<strong>is</strong>ti “punk” lasciano il tempo<br />
che trovano).<br />
Essì, neanche l’arte della preterizione ci salva da questo<br />
¡Dos!, seconda installazione dell’annunciata trilogia aperta<br />
dall’invero innocuo (e a tratti fastidioso) ¡Uno! e chiusa<br />
ovviamente dal venturo ¡Tré! (indovinate chi ci sarà in<br />
copertina?). Freddure a parte - chi conosce i nomi della<br />
band l’avrà capita, nemmeno a spiegarla -, la scelta di<br />
tre album sparati a breve d<strong>is</strong>tanza riflette una - per loro<br />
- audace diversificazione stil<strong>is</strong>tica: il d<strong>is</strong>co precedente era<br />
dedicato alle canzoncine punk pop, il prossimo sarà dedicato<br />
alle canzoncione in stile rock opera (alla American<br />
Idiot, per capirci), mentre questo vede i tre californiarni<br />
alle prese con le - si fa per dire - canzonacce garage.<br />
Operazione per certi versi gustosa, anzitutto perché richiama<br />
palesemente il loro side-project Foxboro Hot<br />
Tubs (ne hanno pure semiriciclato una canzone, Mo<strong>the</strong>r<br />
Mary, per il singolo Stray Heart, peraltro parente melodica<br />
di Everybody’s Happy Nowadays dei Buzzcocks) e poi<br />
perché certe dinamiche riescono ai nostri meglio della<br />
solita roba. La voce di BJ è ovviamente sempre - sin<br />
troppo - riconoscibile per indurci nell’illusione che non<br />
si tratti dei Green Day, però cose come il bridge di Fuck<br />
Time e Wild One - puro Weezer - hanno il loro bel sapore<br />
bubblegum (appena sporcato di ruggine e di testi inevitabilmente<br />
adolescenziali), laddove l’evidente strizzata<br />
d’occhio agli Strokes di Lazy Bones fa quasi tenerezza; e<br />
se la scontat<strong>is</strong>sima dedica a Amy Wine<strong>house</strong> (Amy, appunto)<br />
nasconde una melodia che più beatlesiana non<br />
si può, Nightlife è l’inevitabile concessione poppettara<br />
(scivolone pari alla ruffian<strong>is</strong>sima Kill The DJ del d<strong>is</strong>co prima),<br />
con l’ospitata della rapper Lady Cobra. Uno, due,<br />
massimo tré ascolti: impossibile chiedere di più a un d<strong>is</strong>co<br />
così. Non è poco, eh.<br />
(6.3/10)<br />
Antonio pAnCAmopugliA<br />
gypSy & <strong>the</strong> CAt - <strong>the</strong> lAte blue (AlSAtiAn<br />
muSiC, novembre 2012)<br />
Genere: indiepop+psichedelia<br />
I Gypsy and The Cat sono due ex DJ australiani, Xavier<br />
Bacash e Lionel Towers, votati alla causa dell’indie pop.<br />
Un album d’esordio, Gilgamesh del 2010, capace di ricevere<br />
- soprattutto nella terra dei canguri e nei territori<br />
mitteleuropei - consensi ad ampio spettro, grazie ad una<br />
proposta tanto fresca quanto azzeccata.<br />
Se in Gilgamesh il duo proponeva un pop di derivazione<br />
eighties (che la scena electropop australiana sia ai vertici<br />
ormai da anni non è un caso) che li ha portati ad aprire<br />
per Kylie Minogue, nel sophomore The Late Blue Xavier<br />
e Lionel si sono tuffati tra le variopinte onde sixties.<br />
Scritto in tour e reg<strong>is</strong>trato in una fattoria, The Late Blue,<br />
può far vanto della produzione del guru della new psichedelia<br />
Dave Fridmann. Ed è proprio Dave Fridmann<br />
(recentemente dietro all’acclamato Loner<strong>is</strong>m dei Tame<br />
Impala) il nome chiave di una sterzata sonora che va a<br />
rafforzare la scena acida made in Australia. L’obiettivo<br />
dei musicalmente rinnovati Gypsy & The Cat sembra<br />
essere quello di portare il d<strong>is</strong>corso psichedelia+pop di<br />
Loner<strong>is</strong>m su livelli ancora più radiofonici e vendibili,<br />
lasciando quindi da parte tutte le contaminazioni jamoriented<br />
anni’70.All’interno delle dieci tracce di The Late<br />
Blue è il singolo di lancio Bloom a svettare: prendete<br />
un po’ di Cure, un po’ di The Drums, tocchi jangly (non<br />
lontana Every Beat Of The Heart dei The Railway Children),<br />
infarcite il tutto in un’atmosfera surf/estiva e avete<br />
l’indiepop-hit perfetta.<br />
Regnano melodie funzionali come quella di It’s a Fine<br />
Line (qui e in Soul K<strong>is</strong>s la mano di Fridmann è più evidente<br />
che mai), armonie The Zombies, qualche falsetto<br />
di troppo (nella MGMTiana Sorry), repliche Foster<br />
<strong>the</strong> People (Only In December) e un perenne senso di<br />
psichedelia annacquata evidente ad esempio negli accompagnamenti<br />
acustici di Broken Kites e della titletrack<br />
(impossibile non vedere arcobaleni ovunque).<br />
Furbi quanto volete, anche questa volta i Gypsy and<br />
The Cat zitti zitti hanno realizzato un bel d<strong>is</strong>chetto senza<br />
troppe pretese. Pubblicato in Australia tramite la propria<br />
label Alsatian Music, dovrebbe essere d<strong>is</strong>ponibile a livello<br />
internazionale ad inizio 2013.<br />
(6.6/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
how to deStroy AngelS - An omen ep (<strong>the</strong><br />
null CorporAtion, novembre 2012)<br />
Genere: soft postindustrial<br />
Il secondo EP degli How To Destroy Angels lascia aperte<br />
molte soluzioni. Può dare l’idea di una compagine molto<br />
eclettica, oppure che gioca un po’ a carte nascoste o che<br />
ha un progetto ancora in fase di sviluppo. Ogni ipotesi è<br />
valida. Anche se non si tratta di un vero album (per cui<br />
b<strong>is</strong>ogna aspettare l’anno prossimo), dal confronto tra An<br />
Omen, pubblicato solo in MP3 e vinile, e il precedente<br />
68 69
EP iniziano a delinearsi meglio i connotati della creatura<br />
di Trent Reznor, Maryqueen Maandig e Atticus Ross. Di<br />
sicuro, il d<strong>is</strong>egno musi<strong>cale</strong> ha una sua personalità, sia<br />
r<strong>is</strong>petto ai Nine Inch Nails, sia r<strong>is</strong>petto alle colonne sonore,<br />
pur r<strong>is</strong>entendo come logico di entrambe le esperienze.<br />
Semmai le tracce di industrial sono più sfumate,<br />
il rock non abita più qui mentre le assonanze con il triphop<br />
diventano più di una suggestione in un pezzo come<br />
On <strong>the</strong> Wing, dalla melodia pigra e indolente.<br />
Una forma canzone piuttosto statica e dilatata e la voce<br />
di Maryqueen sono gli elementi principali dei primi due<br />
brani. L’idea di stile di Keep It Toge<strong>the</strong>r è piuttosto chiara:<br />
una specie di trance pop, una song elettronica avvolgente<br />
e minimale, che sfrutta in particolare la ripetitività<br />
delle parti strumentali e la circolarità della melodia vo<strong>cale</strong>.<br />
Sarebbe forse la direzione più interessante su cui<br />
lavorare, a giudicare anche dal duetto finale tra le voci<br />
di Maryqueen e Trent Reznor. La successiva Ice Age, il<br />
pezzo più curioso del d<strong>is</strong>co, parte dagli stessi motivi di<br />
fondo, ma ci troviamo al cospetto di un elegante etnofolk<br />
2.0, che ai bassi elettronici sostitu<strong>is</strong>ce percussioni<br />
analogiche e suoni di strumenti a corda.<br />
Gli altri pezzi, a prevalenza strumentale, spaziano tra<br />
diverse direzioni: con The Sleep of Reason Produces Monsters<br />
lambiamo i territori dell’ambient, The Loop Closes<br />
sembra un brano dei Nine Inch Nails senza le chitarre (la<br />
voce è soltanto di Trent) e Speaking In Tongues è il momento<br />
più sperimentale e indecifrabile, tra voci pesantemente<br />
filtrate, b<strong>is</strong>bigli, d<strong>is</strong>torsioni e suoni enigmatici.<br />
È ancora un lavoro di transizione, ma chi apprezza Trent<br />
Reznor può ascoltare con interesse.<br />
(6/10)<br />
tommASo iAnnini<br />
hugo rACe - we never hAd Control<br />
(interbAng reCordS, ottobre 2012)<br />
Genere: blues<br />
La musica di Hugo Race si potrebbe paragonare a un<br />
fiume: procede spedita e, pur sembrando a prima v<strong>is</strong>ta<br />
sempre uguale, di d<strong>is</strong>co in d<strong>is</strong>co cambia la portata, la<br />
velocità, la profondità dei fondali su cui scorre. Del resto<br />
l’australiano stesso è in perenne movimento: una vita<br />
pressoché nomade (si dice) in stile hobo contemporaneo,<br />
buona parte della quale spesa entro i patrii (nostri)<br />
confini. A f<strong>is</strong>sare su nastro un blues che, nonostante gli<br />
innamoramenti temporanei - il jazz dei tempi di Last<br />
Frontier o magari gli accenti più folk di questo We Never<br />
Had Control -, rimane l’architrave di tutta la sua produzione,<br />
oltre che la naturale espressione di un’es<strong>is</strong>tenza<br />
affascinata dai crepuscoli. Chi continua a vederlo come<br />
una filiazione del Nick Cave a cui prestò la chitarra ai<br />
tempi di From Her To Eternity dimostra di non aver capito<br />
molto del personaggio: Race al massimo può rientrare<br />
in quella vasta tradizione che parte da Leadbelly,<br />
passa per Robert Johnson e Son House e arriva fino a<br />
Howlin’ Wolf. Con una puntatina, magari, verso l’ultimo<br />
Mark Lanegan, a cui il Nostro assomiglia sempre più<br />
nel timbro vo<strong>cale</strong> ruvido e polveroso (ma chi dei due è<br />
l’uovo e chi la gallina?).<br />
In We Never Had Control ritroviamo il nucleo dei Sacri<br />
Cuori Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli già<br />
all’opera nel precedente Fatal<strong>is</strong>ts, oltre al “guastatore”<br />
Franco Naddei (Francobeat, Santo Barbaro) addetto ai<br />
synth. Una presenza importante, quest’ultima, perché<br />
se il duo citato poc’anzi lavora sulle più classiche atmosfere<br />
desertiche (Snowblind), Naddei si occupa di creare<br />
sfondi sintetici che staccano un po’ lo stile raceiano dai<br />
soliti canoni. Quelli, per dire, che nell’electro-boogie<br />
di Ghostwriter lucidano le scarpe a John Lee Hooker<br />
chiamando a supporto vaghe atmosfere à la Depeche<br />
Mode. Se Dopefiends ricorda la Ghost Riders In The Sky<br />
cantata da Johnny Cash, No Stereotype è a metà strada<br />
tra la State Trooper di Springsteen e una Peggy Sue in<br />
stile Hellra<strong>is</strong>er, Shining Light sembra fare il verso, col suo<br />
violino ancestrale, al duo Nick Cave-Warren Ell<strong>is</strong> mentre<br />
Meaning Gone è puro blues tra west e M<strong>is</strong>s<strong>is</strong>sipi.<br />
We Never Had Control non stravolge l’universo di riferimento<br />
del chitarr<strong>is</strong>ta australiano - chi lo conosce già, ci<br />
si ritroverà ampiamente - ma riesce a costruire un immaginario<br />
credibile e maledettamente affascinante, grazie<br />
anche alla collaborazione di Francesco Giampaoli, Vicky<br />
Brown, Ca<strong>the</strong>rine Graindorge, Violetta DelConte Race e<br />
Hellhound Brown.<br />
(7/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
indiAn Jewelry - peel it (reverberAtion<br />
AppreCiAtion SoCiety, novembre 2012)<br />
Genere: no<strong>is</strong>e-psych<br />
Li avevamo lasciati con la “psichedelia nera sempre più<br />
industriale” ma in assetto variabile di Totaled - e li ritroviamo<br />
con uno psych post-punk che certo tra cupo<br />
e chiaro sceglie le ore notturne. La musica di Indian<br />
Jewelry è scorticata, nomen omen da titolo dell’album,<br />
e nondimeno l’effetto sull’ascolto è come fare uno scivolo<br />
su carta vetrata. Con una novità r<strong>is</strong>petto al passato<br />
che tanto abbiamo celebrato: la fine della scivolata è<br />
nota (See Forever), l’abrasione costante, senza picchi e<br />
imprevedibili cambi di direzione.<br />
Ciò che è intatto è la capacità di fare forse ottimamente<br />
ciò che oggi viene fatto già bene da altri - vedi le remin<strong>is</strong>cenze<br />
tra Peaking Lights e Fabulous Diamonds in Eva<br />
Cherie. Indian Jewelry nel 2012 vuol dire però principalmente<br />
essere punto di riferimento nel genere “bad trip<br />
psichedelico in formato canzone”. Musica psych fatta di<br />
spazzatura, come direbbero i diretti interessati.<br />
Le undici tracce di Peel It - d<strong>is</strong>ponibili in full streaming<br />
- sono tali - ossia canzoni - quantomeno per durata e<br />
per riconoscibilità; non comportano sconquassi stil<strong>is</strong>tici,<br />
lavorano sulla formula, ne cesellano una serie di varianti<br />
di medio-alta se non alta qualità (come nella dritt<strong>is</strong>sima<br />
ma perforante Heart Of A Dog). Il lavorìo ritmico è ipnotico<br />
eppure sempre in primo piano, come in Unknown<br />
Pleasures, la voce di Tex Kerschen (e a volte di Erika<br />
Thrasher, nomen omen part. II) riverbera con eco cose<br />
indicibili. Le pennate di chitarra sono moltiplicate per<br />
le x virgola volte delle dimensioni frattali, il basso un<br />
binario da cui non si sfugge. La sporca cinquina di Houston<br />
si è fermata a pensare e scrivere. Tutto se non altro<br />
apprezzabile, ma noi li preferiamo quando camminano<br />
sballati al buio.<br />
(7/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
JAh wobble/keith levene - yin & yAng<br />
(Cherry red reCordS, novembre 2012)<br />
Genere: cockney dub rock<br />
Quando nel 2006 Mark Stewart ci dichiarò che stava<br />
reg<strong>is</strong>trando con il chitarr<strong>is</strong>ta dei PiL tracce per il nuovo<br />
album, il nome di Keith Levene sembrava il più improbabile<br />
tra i chitarr<strong>is</strong>ti delle varie line-up della formazione<br />
di John Lydon. Non che Keith fosse morto, lo avevamo<br />
avv<strong>is</strong>tato nell’album del 2004 dei Pigface per esempio,<br />
ma sicuramente rimaneva un eroinomane dai tempi dai<br />
tempi di First Edition, perso nei meandri della propria<br />
dipendenza da almeno due decadi.<br />
Contrariamente ad ogni pronostico, il mitico chitarr<strong>is</strong>ta<br />
c’è finito veramente su un album di Stewart e non parliamo<br />
di Edit, uscito a un paio d’anni di d<strong>is</strong>tanza dalla<br />
nostra interv<strong>is</strong>ta, ma del recente, deludente, The Politics<br />
Of Envy, album del 2012 che fa coppia, in negativo, con<br />
l’attess<strong>is</strong>simo ritorno d<strong>is</strong>cografico dei PiL. La faccenda<br />
è curiosa perché negli ultimi anni Levene, non solo ha<br />
provato a uscire da una dipendenza trentennale ma, a<br />
quanto pare, da un paio d’anni è pulito e in forma sufficiente<br />
da imbracciare lo strumento. Jah Wobble lo ha<br />
voluto prima in un paio di tracce di Psychic Life con<br />
Julie Cambpell, poi in un mini tour che negli scorsi mesi<br />
ha riproposto il mitologico Metal Box (Metal Box In Dub<br />
Tour). Secondo quanto dichiarato da NME, John Lydon<br />
aveva chiesto pochi mesi prima al bass<strong>is</strong>ta di riunirsi ai<br />
PiL e s’era v<strong>is</strong>to sventolare un cachet piuttosto salato.<br />
Ch<strong>is</strong>sà che invece non sia stato l’egomaniaco frontman<br />
ad aver voluto l’ex amico unicamente come turn<strong>is</strong>ta e<br />
non come parte integrante della band. Sia come sia Levene<br />
ne è stato fuori a priori. Le sue skill chitarr<strong>is</strong>tiche<br />
sono indubbiamente compromesse e questo Yin & Yang,<br />
come il precedente eppì firmato dalla coppia, lo dimostra<br />
ampiamente.<br />
La seicorde che tagliava vetro e fregava il metallo è ancora<br />
lì, sepolta sotto le macerie e, non senza sorpresa,<br />
può ancora regalare notevoli colpi al cuore (Vampires).<br />
Eppure, l’uomo, spesso d<strong>is</strong>tratto e slabbrato negli arrangiamenti<br />
(Black On The Block) è, in definitiva, dolorosamente<br />
non paragonabile agli ep<strong>is</strong>odi maggiori<br />
della d<strong>is</strong>cografia della Public Image Ltd. Oltre al fatto<br />
che l’ombra lunga dell’ex band dei due amici si d<strong>is</strong>tende<br />
lungo tutta l’avventura. Il recitato cockeny holligan di<br />
Jags And Staffs richiama quello di Religion, mentre in<br />
Understand al canto troviamo Nathan Maverick conosciuto<br />
come Johnny Rotter, cantante di una P<strong>is</strong>tols Tribute<br />
band che ha contribuito in alcuni show del Metal<br />
Box In Dub (e che qui canta come se i Blur fossero scesi<br />
a Gunter Grove).<br />
D’altro canto, la quarantecinquesima (?) prova wobbliana,<br />
pur con il buon trattamento alla harr<strong>is</strong>oniana Within<br />
You Without You, i gustosi gli inserti jazzati al sapor di<br />
Miles Dav<strong>is</strong> (grazie alla tromba di Sean Corby, collaboratore<br />
di lungo corso di Wobble), l’onesto taglio 60s<br />
psych e il dub di Jah, è a pieno titolo annoverbile tra<br />
le classiche jam trasportate su album del Nostro, pro e<br />
contro compresi. Levene nel mezzo.<br />
(6.8/10)<br />
edoArdo briddA<br />
JAmeS FerrAro - SuShi (hippoS in tAnkS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: electro / wonky<br />
Sempre concettuale James Ferraro, anche quando<br />
non si dà a una personale possibile s<strong>is</strong>tematizzazione<br />
estetica della hauntology - il controverso ma comunque<br />
importante Far Side Virtual - o non si cimenta - situazion<strong>is</strong>ta?<br />
- con la tradizione della musica corale. Sempre<br />
concettuale: anche quando sulla testa fa vincere l’orecchio<br />
e per una volta si concentra - sempre fedele però<br />
al proprio immaginario - sui suoni di oggi. Copertina<br />
ner<strong>is</strong>sima e minimale, la scritta Sushi appena d<strong>is</strong>tinguibile<br />
in toni di grigio, stile finto bassorilievo, e dentro<br />
una musica decorativa e golosa, proprio come i piatti<br />
di pesce crudo giapponese: ma una musica, sotto sotto,<br />
a ben sentire, rigorosa e monocroma, fredda sotto la<br />
superficie calda di nowness electro/wonky.<br />
Anche se il singolo SO N2U ha un gusto break/downtempo<br />
innegabilmente primi anni Novanta (e l’incipi-<br />
70 71
taria Powder ha in trasparenza un’anima praticamente<br />
drill, altro fantasmatico richiamo quindi a quel decennio),<br />
il focus è sempre e comunque sugli anni Ottanta,<br />
stanza degli specchi dalla quale Ferraro non ha la benché<br />
minima intenzione di uscire: Ottanta non più però<br />
concentrati in forma di ultralucidi acquerelli elettronici<br />
miniaturizzati - Far Side Virtual appunto - ma aggiornati<br />
ai nostri giorni e quindi declinati, strato su strato, con<br />
tutti i trick che la cosmesi produttiva anni Dieci mette a<br />
d<strong>is</strong>posizione, vedere i sapori addirittura juke/footwork<br />
spalmati tra le tracce (specialmente i cut vocali di Jump<br />
Shot Earth, Flamboyant e della soulrappusa Lovesick).<br />
Laddove Far Side era naif e lineare, Sushi è grumoso e<br />
barocco: un guazzabuglio di suoni che per svagatezza e<br />
formato può anche far pensare a un update degli Psychic<br />
Chasms di Neon Indian (altro d<strong>is</strong>co controverso<br />
e importante), ma con tutt’altra capacità costruttiva e<br />
di sintesi (Baby Mitsub<strong>is</strong>hi, con sotto l’<strong>house</strong> che cova;<br />
Condom; Bootycall), cosa questa che ci piace ascrivere<br />
alle basi - occhio - alla fine hip hop di tutto (E 7; appunto<br />
e di nuovo, Lovesick). Ancora un buon d<strong>is</strong>co per Ferraro,<br />
che non sment<strong>is</strong>ce la sua anima di giocherellone cervellotico,<br />
perfettamente a metà tra genio incompreso (o al<br />
contrario sovrastimato) e slacker elettronico.<br />
Qui sotto lo streaming integrale dell’album, attraverso il<br />
canale Soundcloud di Dazed Digital.<br />
(6.9/10)<br />
gAbriele mArino<br />
JAmeS yorkSton - i wAS A CAt From A book<br />
(domino, AgoSto 2012)<br />
Genere: folk<br />
James Yorkston non è più una sorpresa. E’ la sua d<strong>is</strong>cografia<br />
a parlare per lui, esemplare nel delineare una<br />
scrittura folk elegante, sensibile, legata a filo doppio alla<br />
tradizione inglese quanto personale in certi passaggi. Ai<br />
tempi del buon esordio Moving Up Country (r<strong>is</strong>tampato<br />
di recente), di Yorkston si accorsero Bert Jansch, un<br />
John Peel che lo chiamò a partecipare ad una delle sue<br />
celeberrime session e persino John Martyn, quest’ultimo<br />
talmente impressionato dai suoi brani da volerlo<br />
con lui in tour. Tanto per dire che al Nostro è bastato un<br />
pugno di buone canzoni per ritrovarsi in un batter d’occhio<br />
- e meritatamente - ad attraversare la storia della<br />
musica anglosassone. Da allora sei album pubblicati, tra<br />
materiale inedito, raccolte e cover (ad esempio le Folk<br />
Songs in condiv<strong>is</strong>ione con i The Big Eyes Family Players),<br />
utili a definire i canoni di uno stile sempre in bilico tra<br />
intim<strong>is</strong>mo e melodia.<br />
Paradigmatico, in questo senso, I Was A Cat From A Book,<br />
un lavoro che in termini di immaginario non cambia pra-<br />
ticamente nulla ma riesce comunque a suonare fresco.<br />
Reg<strong>is</strong>trato per buona parte in presa diretta, il d<strong>is</strong>co snocciola<br />
undici brani tra il Nick Drake altezza Bryter Layter<br />
di Catch e i violini in stile Hurricane di Border Song, le<br />
malinconie chitarra, voce e poco più di The Fire And The<br />
Flames (i primi Radiohead non sono poi così lontani) e<br />
le atmosfere vagamente Belle & Sebastian di Sometimes<br />
The Act Of Giving Love. In generale il mood varia, tra<br />
suoni riconducibili alla tradizione irlandese/scozzese - un<br />
immaginario che Yorkston si porta appresso anche solo<br />
per ragioni biografiche - e una morbidezza d’insieme<br />
garantita soprattutto dalle tastiere e dal contrabbasso<br />
(quello del Lamb John Thorne). Tutto suona estremamente<br />
rassicurante e i toni “caldi” della reg<strong>is</strong>trazione danno<br />
cons<strong>is</strong>tenza a una musica che riconferma il talento<br />
cr<strong>is</strong>tallino del music<strong>is</strong>ta scozzese.<br />
(7/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
Jello biAFrA/Jello biAFrA & <strong>the</strong><br />
guAntAnAmo SChool oF mediCine - ShoCk-upy<br />
(AlternAtive tentACleS, novembre 2012)<br />
Genere: punk<br />
Il fatto che Jello Biafra non avesse ancora allungato il suo<br />
sguardo caustico sul movimento Occupy, era una sorta<br />
di cattivo presagio. Di quelli che fanno pensare cose che<br />
non si vorrebbero mai pensare, tipo “vuoi vedere che il<br />
vecchio leone è diventato veramente vecchio?”. La r<strong>is</strong>posta<br />
alla domanda oziosa non ha tardato ad arrivare ed è<br />
affidata a questo 10”. Tre soli pezzi, e questo è male, di<br />
infinito punk in opposition, e questo è bene.<br />
Si parte con l’hard-rock cafon<strong>is</strong>simo della title track, 30<br />
secondi che sembrano gli ac/dc, e poi via di sarabanda<br />
jellobiafresca tra hardcore evoluto e punk da bava alla<br />
bocca: bassone infinito e drumming ins<strong>is</strong>tito col santone<br />
della controcultura a sciorinare i suoi versi caustici e velenosi<br />
a creare un ponte tra grande depressione e attualità<br />
in cr<strong>is</strong>i, a dimostrazione della lucida v<strong>is</strong>ione del grande<br />
vecchio from Fr<strong>is</strong>co. Barackstar O’ Bummer r<strong>is</strong>polvera il<br />
tiro dei migliori Dead Kennedys mentre dimostra, se<br />
ce ne fosse ancora b<strong>is</strong>ogno, di che pasta è fatto il nostro:<br />
riottoso, punk al midollo e contro ogni s<strong>is</strong>tema: il<br />
target stesso, quell’Obama osannato a destra e sin<strong>is</strong>tra<br />
(Barackstar O’ Bummer / outta nowhere to save <strong>the</strong> day<br />
/ what a package / marketing hope and change / never<br />
seen / so much excitement and faith / since MLK / where’ve<br />
I heard th<strong>is</strong> before? 1992 / called him <strong>the</strong> “Man From Hope”<br />
/ a “New beginning” was h<strong>is</strong> tune / signed our sovereignty<br />
/ over to Wall Street / he should have been impeached / for<br />
treason), da la m<strong>is</strong>ura delle mire di un leone mai domo.<br />
Nemmeno a cinquant’anni suonati.<br />
A concludere We Occupy, già edita nel 7” in cui Biafra<br />
prestava la sua voce incazzata a quei loschi figuri dei<br />
D.O.A. per un inno all’occupazione che supera il tempo.<br />
We occupy, gonna occupy. E se lo dice il quasi sindaco di<br />
Fr<strong>is</strong>co, c’è da credergli.<br />
(6.5/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
Jimi tenor - <strong>the</strong> myStery oF Ae<strong>the</strong>r (Sähkö<br />
reCordingS, novembre 2012)<br />
Genere: etno<br />
Figlio un po’ del fortunato sodalizio con Tony Allen (l’Inspiration/Information<br />
del 2009) e di una lunga collaborazione<br />
con i sodali Kabu Kabu, il nuovo The Mystery Of<br />
Ae<strong>the</strong>r di Jimi Tenor è l’ennesima tappa di un viaggio nel<br />
mondo afro-lounge-jazz-exotico-blaxploitation per big<br />
band e fiati. Un trip che il Nostro ha intrapreso con forza<br />
prima con Beyond <strong>the</strong> Stars e poi con l’afro ensemble di<br />
stanza a Berlino in Joystone.<br />
Calato perfettamente in un immaginario vintage tra<br />
Strut, Fantastic Voyage e Vamp<strong>is</strong>oul, ora come ora il<br />
Tenor elettronico su Warp non è neppure più un ricordo.<br />
Inforcando la direttrice afro-jazz cinematografica, il<br />
finalandese continua a testa bassa su un immaginario<br />
testardamente retrò a cui, b<strong>is</strong>ogna ammetterlo, non<br />
manca più nulla in termini di sfumature (le soundtrack<br />
fantascientifica di fine Sessanta, la psychedelia bucolica<br />
dei primi 70s, il jazz-rock più esoterico, il mambo, suoni<br />
da balera latina ecc.), smalti (questa volta Jimi si costru<strong>is</strong>ce<br />
anche gli strumenti da solo) e influenze (Martin<br />
Denny, Sun Ra e ovviamente gli Africa 70 di Allen, ma<br />
anche tante chicce come scampoli di folk-prog sempre<br />
primi Seventies).<br />
Come nelle migliori parabole da world hyppie, quest’album<br />
parla d’esplorare il cosmo per il nostro bene materiale<br />
e spirituale. In brani cantati come Universal Love,<br />
Eternal Mystery, Dance Of The Planets e Resonate And Be<br />
ci si rifer<strong>is</strong>ce addirittura alle particelle di noi umani che<br />
r<strong>is</strong>uonano nella canzone suprema del cosmo. Tutto il<br />
folklore è ovviamente parte del gioco (certi passaggi da<br />
Pantera Rosa à la Lounge Lizard - Africa Kingdom - lo<br />
confermano) e di un d<strong>is</strong>co svagato e generoso. Il perfetto<br />
album per chi si trova nella fase di scoperta di questo<br />
tipo d’eclet<strong>is</strong>mo dalle parti di Strut e co.<br />
(6.8/10)<br />
edoArdo briddA<br />
kAki king - glow (, ottobre 2012)<br />
Genere: instrumental<br />
Kaki King, chitarr<strong>is</strong>ta da Atlanta classe ‘79, sforna il sesto<br />
lavoro lungo a suggello di un periodo di cr<strong>is</strong>i creativa<br />
che ne aveva messo in dubbio prospettive e direzione.<br />
A sentire la dozzina di tracce che compongono questo<br />
Glow, sembra tornato tutto a posto. La ragazza è dinamica<br />
e intensa sulle sei corde spalleggiata dal quartetto<br />
d’archi ETHEL nella d<strong>is</strong>creta ma evocativa trama sonica<br />
apparecchiata dal producer newyorkese D. James Goodwin<br />
(già al lavoro per Devo e Murder By Death). C’è<br />
lei e la sua ossessione folk con digressioni psych-blues<br />
e svalvolate jazzy che governa con padronanza febbricitante<br />
(se il fingerpicking è notevole, l’abilità con percussivi<br />
e tapping è impressionante), mediando apprensioni<br />
e furore, incantesimi traditional e astrazioni avanguard<strong>is</strong>te,<br />
senza farsi mancare una presenza di spirito in bilico<br />
tra gioco e autoironia.<br />
La scrittura è sorretta da una buona <strong>is</strong>pirazione però<br />
sempre chiaramente al servizio dell’impatto timbrico,<br />
mirata cioè a creare la scena nella quale il suono suonato<br />
possa consumarsi in apprensioni meditabonde (le<br />
atmosferiche Skimming <strong>the</strong> Fractured Surface to a Place<br />
of Endless Light e Fences con quel un gioco di armonici<br />
da nipotina acustica di Jimmy Page), frenesia noir<br />
(Streetlight In The Egg) o incendi mercuriali (Great Round<br />
Burn, The Fire Eater), con tutto ciò che sta nel mezzo (la<br />
trama arty di Cargo Cult, la pseudo bossa di Kelvinator<br />
Kelvinator, gli esot<strong>is</strong>mi di Bowen Island...). Ok, siamo di<br />
fronte ad un prodotto che aspira a mediare il massimo<br />
dell’espressività col massimo della vendibilità, ma tutto<br />
sommato ci riesce bene, senza mai suonare eccessivamente<br />
patinato o - peggio - artefatto. Ka<strong>the</strong>rine possiede<br />
del talento vero. La sua carriera d’ora in avanti probabilmente<br />
somiglierà ad una sfida per mantenerlo tale.<br />
(6.9/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
kelly hogAn - i like to keep mySelF in pAin<br />
(Anti-, luglio 2012)<br />
Genere: country pop<br />
Mentre la grande d<strong>is</strong>cografia arranca impelagata nel paradosso<br />
di politiche sempre meno attente alla qualità<br />
art<strong>is</strong>tica (per non usare la parolaccia “commerciali”) con<br />
le quali - retromanie a parte - poi invece vende sempre<br />
meno, un’etichetta come la Anti- continua la caccia ai<br />
più o meno grandi esodati del rock e dintorni.<br />
Stavolta va a prendere una cantante dalla lunga carriera<br />
che, dopo un inizio che l’aveva v<strong>is</strong>ta militare in vari gruppi,<br />
si era indirizzata verso un ruolo da seconda voce di<br />
lusso per un gran numero di colleghi (Dylan, Torto<strong>is</strong>e,<br />
Neko Case...), e le propone di fare un nuovo d<strong>is</strong>co suo<br />
dopo undici anni.<br />
Lei allora si rivolge agli amici/colleghi di una carriera e<br />
loro le inviano le canzoni che vanno a comporre la sca-<br />
72 73
letta di quello che è solo il quarto d<strong>is</strong>co sol<strong>is</strong>ta. Il quale<br />
nonostante le grandi firme non si d<strong>is</strong>costa granché dal<br />
lontano predecessore, v<strong>is</strong>to che la cantante di Atlanta<br />
riporta tutto al suo tipico stile country pop venato soul,<br />
col r<strong>is</strong>ultato che l’eterogenesi delle scritture fin<strong>is</strong>ce per<br />
lo più per dare al d<strong>is</strong>co semplicemente le giuste dinamiche<br />
di s<strong>cale</strong>tta - e anche una band piena di nomi illustri<br />
(Booker T., per dirne uno) si limita ad assecondare il<br />
d<strong>is</strong>egno generale (in questo, il contributo come autore<br />
di Andrew Bird ci sta anche bene, ma Plant White Roses<br />
fin<strong>is</strong>ce per nascondere l’ironia con cui Stephin Merritt<br />
scrive questo tipo di canzoni).<br />
Non che il d<strong>is</strong>co sia monotono: la generale impressione<br />
Emmylou Harr<strong>is</strong> dell’iniziale Dusty Groove ma anche<br />
della title-track (dono di un Robyn Hitchcock mascherato<br />
da cowboy) o le rimembranze Eddie Brickell di We<br />
Can’t Have Nice Things e Haunted, si stemperano in testi<br />
che affrontano temi che a Nashville non sono proprio<br />
il pane quotidiano, o nel dolore di Ways of Th<strong>is</strong> World<br />
(lascito del compianto Vic Chesnutt e presumibilmente<br />
uno degli ultimi frutti della sua penna).<br />
Rimane una generale coerenza stil<strong>is</strong>tica, elegante, che<br />
forse è un pregio (anche come potenzialità commerciale,<br />
volendo), forse smorza possibili, interessanti deviazioni.<br />
(6.8/10)<br />
giulio pASquAli<br />
kevin drumm - relieF (editionS mego,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: drone<br />
Un ritorno formale alla materia no<strong>is</strong>e era ampiamente<br />
prevedibile per Kevin Drumm. Si era capito che i due<br />
capitoli su Hospital, Imperial D<strong>is</strong>torsion e Imperial<br />
Horizon, altro non erano che fenomenali deviazioni da<br />
una strada abbastanza integral<strong>is</strong>ta, fatta di rumore, caos,<br />
scontro di frequenze.<br />
Relief è l’atteso comeback alle maniere di Sheer Hell<strong>is</strong>h<br />
Miasma, ergo grand<strong>is</strong>simo lavoro di stratificazione su<br />
multitraccia e caos predominante per tutti o quasi i<br />
37 minuti dell’unico brano di cui è fatto il d<strong>is</strong>co. I due<br />
ep<strong>is</strong>odi ambient oriented della Hospital non sono però<br />
passati del tutto senza lasciar traccia. Si avverte in alcuni<br />
frangenti una vena maggiormente meditata che<br />
va ad insinuarsi nel dens<strong>is</strong>simo layer cacofonico delle<br />
d<strong>is</strong>torsioni.<br />
Eppure la forma finale che assume Relief è quella di un<br />
lungh<strong>is</strong>simo quanto inutile torrente sonoro con variazioni<br />
di reg<strong>is</strong>tro scars<strong>is</strong>sime se non proprio nulle. Una<br />
sorta di fiume guadato a metà e per questo fondamentalmente<br />
inconcludente. Di fatto siamo di fronte ad un<br />
d<strong>is</strong>co di passaggio in attesa di capire dove voglia andare<br />
a parare il music<strong>is</strong>ta.<br />
(5/10)<br />
Antonello ComunAle<br />
kid roCk - rebel Soul (AtlAntiC reCordS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: redneck rock<br />
Il primo approccio con il termine “redneck” lo ebbi in<br />
adolescenza grazie al videogioco Redneck Rampage,<br />
ironicamente ambientato nel Sud degli Stati Uniti e<br />
pieno di tutti gli stereotipi che ruotano attorno ad un<br />
universo ben rappresentato da personaggi come Cletus<br />
dei Simpson o Ansel Smith del recente film Killer Joe.<br />
Nell’ambiente musi<strong>cale</strong> probabilmente nessuno - provenienza<br />
geografica a parte - incorpora tutte le caratter<strong>is</strong>tiche<br />
redneck meglio di Kid Rock: rozzo, ignorantone,<br />
conservatore e amante dei motori tanto da autodefinirsi<br />
un “redneck, rock and roll son of Detroit”.<br />
Nato come rapper di serie z e successivamente convertito<br />
con grande fortuna (Devil Without a Cause del 1998<br />
raggiunse cifre di vendita clamorose) in MTV rap-zarrrocker,<br />
Robert James Ritchie/Kid Rock nell’ultimo decennio<br />
ha intrapreso un processo di countryzzazione che<br />
gli ha regalato parecchie sodd<strong>is</strong>fazioni (prima dell’agghiacciante<br />
tormentone All Summer Long per l’italiano<br />
medio era solo “uno che è stato con Pamela Anderson”).<br />
A due anni di d<strong>is</strong>tanza da Born Free, Mr.Rock in compagnia<br />
della sua fedele - e piuttosto preparata - Tw<strong>is</strong>ted<br />
Brown Trucker Band, torna con quello che è il nono album<br />
in carriera: Rebel Soul. Dopo due lavori che hanno<br />
v<strong>is</strong>to due guru del plastic-rock come Rob Cavallo e Rick<br />
Rubin in cabina di regia, Robert - in copertina ritratto in<br />
modalità pappone - questa volta ha preferito accantonare<br />
big producers e fare tutto, o quasi, da solo.<br />
Il concentrato di country-rock, blues e atmosfera sou<strong>the</strong>rn<br />
affiora già nell’iniziale Chickens In The Pen seguita<br />
dal singolo di lancio Let’s Ride, che oltre ad essere un<br />
pasticcio assoluto tra riff AC/DC e chorus late-RHCP è<br />
contemporaneamente sia un tributo alle truppe militari<br />
statunitensi, sia uno dei brani manifesto della campagna<br />
elettorale di Mitt Romney. Esplicativo il commento<br />
su Youtube “Th<strong>is</strong> song made me PROUD to be an AME-<br />
RICAN! Mitt would have won <strong>the</strong> election, hands down<br />
if th<strong>is</strong> would have been h<strong>is</strong> <strong>the</strong>me song!!!!!”: in una mano<br />
la Stars & Stripes, nell’altra il fucile.<br />
Kid Rock sa bene dove colpire e non c’è dubbio che<br />
il - suo - pubblico apprezzerà anche questa nuova scorpacciata<br />
di riferimenti ad Uncle Sam, a Detroit (Detroit,<br />
Michigan) e alla glorificazione del ruuuock (God Save<br />
Rock & Roll, Mr.Rock annd Roll). Musicalmente insegue<br />
ancora Bob Seger e un certo swamp rock anni ‘70 prendendo<br />
in prestito (da C.C.R e dintorni) più o meno velatamente<br />
melodie e giri chitarr<strong>is</strong>tici. Fanno eccezione<br />
il comeback in territori rap-rock (comunque sporcati di<br />
fango sou<strong>the</strong>rn-soul) di Cucci Galore e l’oscena ballad<br />
in autotune The Mirror. Il re dei redneck è lui e ci tiene<br />
a prec<strong>is</strong>arlo in Redneck Parad<strong>is</strong>e, an<strong>the</strong>m campagnolo<br />
per eccellenza (“And when you’re here you’re free and<br />
clear to drink beer and dance all night, that’s right. Cuz<br />
no one’s uptight in Redneck Parad<strong>is</strong>e”).<br />
Il problema di Rebel Soul, e più in generale di qualsiasi<br />
cosa uscita a suo nome, non è tanto l’aspetto musi<strong>cale</strong><br />
(il d<strong>is</strong>co è derivativo e obsoleto ma a tratti si fa anche<br />
ascoltare) quanto quel m<strong>is</strong>to di patriott<strong>is</strong>mo e di superficialità<br />
spicciola che caratterizza in lungo e in largo i suoi<br />
prevedibili quanto ripetitivi testi.<br />
(3.4/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
kk null/CriS x - proto plAnet (Cx reCordS,<br />
diCembre 2012)<br />
Genere: noizu<br />
Da un po’ di tempo in qua il romano Cr<strong>is</strong>tiano Luciani aka<br />
Cr<strong>is</strong> X sembra aver conosciuto una seconda giovinezza,<br />
nonostante la giovane età. Dopo la dipartita dell’esperienza<br />
Lendormin il nostro ha intrapreso una carriera in<br />
solo con la nuova sigla e a suggellare questa scelta sono<br />
uscite in rapida successione una serie di collaborazioni<br />
con nomi alt<strong>is</strong>onanti del no<strong>is</strong>e e dell’industrial mondiale,<br />
quasi a stabilire padri putativi, omaggi sentiti e totale<br />
mancanza di timore reverenziale.<br />
Dopo gli split con Maurizio Bianchi (Heczplaser/Black<br />
Pulse) e con sua santità Merzbow (Guya/Greed), ecco ora<br />
il turno di un altro peso massimo della sperimentazione<br />
noizu. A segnare un punto d’interesse nella geografia<br />
rumorosa di Cr<strong>is</strong> Xè la volta di Kazuyuki K<strong>is</strong>hino Null noto<br />
come KK Null e già leader degli important<strong>is</strong>simi Zeni<br />
Geva.<br />
Proto Planet (o Genshi Wakusei in lingua nippo) vede i<br />
due non dividersi i lati del limitato 12” quanto collaborare<br />
in nome di un no<strong>is</strong>e-impro che spesso e volentieri<br />
oscilla tra deflagrazioni white no<strong>is</strong>e (il gioco di d<strong>is</strong>torsioni<br />
incrociate di 1, le folate al calor bianco di 4, le asperità<br />
“materiche” quasi Z’ev di 5) e momenti di stasi ambientale<br />
(il cuore di 2, il piano post-atomico della parte centrale<br />
di 1) non meno oscure e minacciose. Tra elettronica<br />
primitiva, loops assassini, cut-up estremo e cupezza<br />
(post)industrial a go-go emerge tutta la maestria con cui<br />
il duo plasma una materia incandescente, giocando di<br />
cesello e clava, tanto che non mancano i momenti più<br />
ipnotici ed ossessivi (3), costruiti sulla rielaborazione di<br />
field recordings come si trattasse di una architettura di<br />
origami, prima di venire spazzata via da uno tsunami di<br />
cancrene sonore. Musica in tensione, mai doma, sempre<br />
alla ricerca della mutevolezza e dell’equilibrio, figlia di<br />
due art<strong>is</strong>ti che prefer<strong>is</strong>cono far parlare la propria arte<br />
piuttosto che altro. Chapeau.<br />
(7/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
klippA kloppA - Siren (ChArity preSS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: kraut / electro<br />
Una prolificità imbarazzante e una altrettanto straordinaria<br />
qualità media garantita. Il tutto in free download.<br />
Questi in due parole i Klippa Kloppa, il collettivo casertano<br />
guidato da Prete Criminale e Dino Draghen già ampiamente<br />
- ma mai abbastanza - magnificato su queste<br />
pagine, nel loro oramai più che decennale armeggiare<br />
pop/sperimentale a doppia mandata ‘ncòppa alla musica<br />
italiana indipendente, anzi proprio autarchica. Poche<br />
parole qui giusto per dare le coordinate di un nuovo<br />
bell<strong>is</strong>simo lavoro, uscito l’8 novembre per la loro Charity<br />
Press (come a dire: autoproduzione, do it yourself e zappiana<br />
cheepn<strong>is</strong>), uno dei loro più rigorosi ed eleganti,<br />
fin dalla evocativa copertina d<strong>is</strong>egnata da Daniela (In)<br />
Stabile.<br />
Siren sono 9 tracce strumentali tutte nebulose di tastiere,<br />
oscillazioni e pulsazioni che un<strong>is</strong>cono cardiaco e<br />
siderale, tra Kraut, electro e ambient elettronica ma analogica.<br />
Un lavoro lineare, luminoso, ar<strong>is</strong>tocratico, ma immediatamente<br />
godibile, notevole nella sua interezza ma<br />
di cui dobbiamo lodare particolarmente la dance anni<br />
Novanta di Union, la terza traccia, il dub funk minimale<br />
di Loving God, la sette, e la solenne zampogna venusiana<br />
di Life, l’ultimo pezzo. La musica dei Klippa Kloppa è un<br />
diamante neanche poi tanto grezzo. La sfida è riuscire<br />
sul serio a stare appresso a tutte le cose che sfornano.<br />
Siren by klippa kloppa<br />
(7.3/10)<br />
gAbriele mArino<br />
lAnA del rey - pArAdiSe ep (interSCope<br />
reCordS, novembre 2012)<br />
Genere: bored pop<br />
Un successo di massa annunciato quello di Lana Del<br />
Rey, arrivata - dopo mesi di hip-blogosfera - nelle case<br />
di chiunque grazie anche (o soprattutto?) a vicende di<br />
extra-musicali come prime pagine, ospitate telev<strong>is</strong>ive e<br />
spot pubblicitari.<br />
A livello di classifiche, Lana Del Rey è stato il “nuovo”<br />
nome femminile del 2012 (nonostante la sua fama sia re-<br />
74 75
taggio del 2011): il d<strong>is</strong>creto Born To Die è infatti, ad oggi,<br />
il terzo album più venduto dell’anno a livello globale con<br />
due milioni e mezzo di copie ed è la perfetta fotografia<br />
di un universo mainstream pop - e ci mettiamo in mezzo<br />
anche Gotye - che ha nuovamente virato verso la melodia,<br />
dopo un periodo di estremizzazioni electro-trashy.<br />
La figura di Lana Del Rey (ovviamente sommersa da<br />
qualsiasi tipo di opinioni, speculazioni e rumors) oggi<br />
appare sicuramente più definita di un anno fa, ma è ancora<br />
difficile stabilire realmente quanto ci sia e quanto<br />
ci faccia. Com’è ancora difficile riconoscere le indubbie<br />
qualità sotto a uno strato così spesso di furbizia business-oriented:<br />
Lana è una bambola in mano ai produttori<br />
come le altre dive pop, ma è abil<strong>is</strong>sima a fare il doppio<br />
gioco.<br />
Che sia ormai in balia del commercio è evidente anche<br />
dalla scelta di pubblicare la classica deluxe edition<br />
dell’album in prossimità del periodo pre-natalizio per<br />
sfruttare il boom del mercato. Come la Lady Gaga del<br />
primo d<strong>is</strong>co, la deluxe di Born To Die cons<strong>is</strong>te nell’inclusione<br />
di un vero e proprio EP aggiuntivo, intitolato<br />
Parad<strong>is</strong>e (da cui il titolo complessivo The Parad<strong>is</strong>e Edition).<br />
Otto tracce aperte dal singolo Ride (prodotto da<br />
Rick Rubin) che mostra la corda a livello d’<strong>is</strong>pirazione<br />
e, tra una strofa sicuramente evocativa e un chorus in<br />
cui avrebbe potuto duettare con Brandon Flowers, la<br />
naturalezza di una Video Games sembra lontana. Lana<br />
continua a portare alta la bandiera a stelle e str<strong>is</strong>ce nelle<br />
successive American e Cola: la prima piuttosto anonima<br />
e con un chorus leggermente fuori dai suoi standard e la<br />
seconda, già famigerata (“my pussy tastes like Pepsi Cola”).<br />
Più interessante il taglio melodico di Body Electric (“I sing<br />
<strong>the</strong> body electric” è un tributo al poeta trascendental<strong>is</strong>ta<br />
Walt Whitman), la ricerca di redenzione di Gods and Monsters<br />
(“In <strong>the</strong> land of gods and monsters, I was an angel,<br />
Lookin’ to get fucked hard. Like a groupie, incognito,<br />
posing as a real singer”), e soprattutto la conclusiva Bel<br />
Air, tra i soliti tappeti orchestrali e certe melodie dreamy<br />
di scuola Cocteau Twins. La cover di Blue Velvet non fa<br />
gridare al miracolo ma Lana Del Rey ha saputo adattarla<br />
abilmente alle proprie caratter<strong>is</strong>tiche, rievocando alcune<br />
atmosfere - ovviamente e non a caso - lynchiane, ancora<br />
più forti nella jazz-Badalamentiana Yayo.<br />
Abbandonati (momentaneamente?) quasi del tutto i<br />
tentativi di avvicinarsi al mondo dell’hip hop, il Parad<strong>is</strong>e<br />
EP non è altro che una breve raccolta di variazioni<br />
sul tema.<br />
(6.4/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
lebowSki - lebowSki & niCo - propAgAndA<br />
(bloody Sound FuCktory, novembre 2012)<br />
Genere: post punk-wave<br />
Quando in mezzo ci sono i Lebowski il citazion<strong>is</strong>mo è<br />
d’obbligo, seppur mediato da una cazzonaggine di fondo<br />
quasi irres<strong>is</strong>tibile. Prendete Propaganda: foto di copertina<br />
in puro stile Devo (versione Ken di Barbie e con<br />
qualche accento demenziale garantito dal David Gnomo<br />
e parentado ritratti di spalle); la partnership con Nicola<br />
Amici sancita da una ragione sociale opportunamente<br />
corretta in Lebowski & Nico (il nome Velvet Underground<br />
vi dice nulla?); brani come Giovanni citofon<strong>is</strong>ta<br />
che sembrano una versione ancor più da loser del Giovanni<br />
telegraf<strong>is</strong>ta di Jannacci (il che è tutto un programma).<br />
Poi c’è il suono, incasellato perfettamente tra i Devo<br />
di cui sopra, i Talking Heads e le stilettate dei Gang<br />
Of Four. Synth e chitarre elettriche formalmente riconoscibili<br />
ma abbastanza flessibili da evitare pericolosi<br />
vicoli ciechi, grazie anche al sax no wave del già citato<br />
Amici (Mattia Pascal, Mutat<strong>is</strong> Mutande, (A dicembre una<br />
tombola) rosso shocking).<br />
Ch<strong>is</strong>sà che non sia proprio l’immaginario surreale del<br />
gruppo, oltre alle ottime capacità tecniche, a rendere<br />
impeccabile e in qualche maniera necessaria una formula<br />
che comunque pesca a piene mani da un revival<br />
fin troppo inflazionato. Certo è che trovarsi di fronte a<br />
brani come Sei uno sprovveduto (una rapina finita male<br />
raccontata in un italiano strascicato), Kansas City (electro-funk-rock<br />
piantato sul mantra Oggi ho fatto veramente<br />
niente / però l’ho fatto veramente bene / oggi ho detto<br />
veramente niente / però l’ho detto molto chiaramente) o<br />
Avevo un sogno nel cassonetto (fusion-no wave robotica<br />
a suon di Chi voleva fare il dottore e invece resta a casa<br />
malato / chi l’esploratore spaziale ed ora si ritrova alienato)<br />
fa dec<strong>is</strong>amente apprezzare l’approccio del gruppo.<br />
Fresco, sempre sul pezzo, blindato nelle geometrie, ma<br />
anche d<strong>is</strong>sacrante, in un m<strong>is</strong>to di leggerezza e ironico<br />
d<strong>is</strong>incanto che non crederesti possibile.<br />
A produrre ci sono Giulio Ragno Favero e Andrea Cajelli,<br />
per un lavoro che suona più compatto r<strong>is</strong>petto al precedente<br />
e già ottimo The Best Love Songs Of The Love For<br />
The Songs And Best. Anzi detto tra noi, i Lebowski se ne<br />
escono proprio bene, fortunati - e forse involontari - continuatori<br />
di quella intelligente irriverenza che in passato<br />
ha caratterizzato (pur con le dovute differenze formali<br />
e di approccio) formazioni come gli Elio e le storie tese.<br />
(7.2/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
lino CoStA - miniAnimAli (4miqe,<br />
Settembre 2012)<br />
Genere: jazz-fusion<br />
Se brani come Insonnia o Chimera sugger<strong>is</strong>cono, per<br />
Lino Costa, parentele che vanno dal padre Wes Montgomery<br />
fino al figliol prodigo (e altolocato) Bill Fr<strong>is</strong>ell<br />
- lo avrete capito, parliamo di chitarra jazz e dintorni<br />
-, il resto della s<strong>cale</strong>tta di Minianimali fa di tutto<br />
per confondere le idee. O quantomeno, procede senza<br />
troppe esitazioni in una fusion virtuos<strong>is</strong>tica e pulita che<br />
conferma ancora una volta come il jazz possa essere un<br />
linguaggio totalizzante e aperto a mille contaminazioni.<br />
Tanto che in questo d<strong>is</strong>co d’esordio, concepito tra il<br />
1998 e il 2011, si azzardano comm<strong>is</strong>tioni singolari con<br />
il progressive (Orange Trip), ci si trova proiettati in medioriente<br />
sulle note del sax (Oud), si apprezza uno stile<br />
monkiano d’annata su base ritmica funk (The Elephant<br />
Jump), si fin<strong>is</strong>ce per frequentare persino un avant-rock<br />
elettrico sfilacciato ma credibile (Minianimali).<br />
Il tutto fatto col rigore tipico di un music<strong>is</strong>ta con una<br />
buona esperienza alle spalle - tra i tanti progetti a cui<br />
Costa ha prestato lo strumento ci sono Ivan Segreto e i<br />
Tinturia - e grazie a collaboratori di primo piano (Domenico<br />
Cacciatore al basso e Roberto P<strong>is</strong>toiesi alla batteria,<br />
con in più Gianni Gebbia, Stefano D’anna e Gianpiero<br />
R<strong>is</strong>ico ai fiati e Mauro Schiavone al piano). Ne vien fuori<br />
un album soprattutto elegante, destinato a un ascolto<br />
generalizzato e a tutte le latitudini. Nulla di apparentemente<br />
rivoluzionario alla maniera di Improvv<strong>is</strong>atore<br />
Involontario, per intenderci, eppure materiale tutt’altro<br />
che banale.<br />
(6.7/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
lorenzo lAmbiASe - lupi e vergini (modern<br />
liFe, novembre 2012)<br />
Genere: pop cantautorale<br />
Romano, classe 1981, Lorenzo Lambiase ha esordito<br />
nel 2009 con un La Cena in cui si immaginava una “cena<br />
ideale intesa come momento di condiv<strong>is</strong>ione, in cui le tematiche<br />
siano quelle del viaggio, del sogno, della città,<br />
dell’amore, del tempo, dello smarrimento”.Dopo tre anni<br />
il music<strong>is</strong>ta torna per l’etichetta Modern Life con Lupi<br />
e vergini, un d<strong>is</strong>co il cui filo conduttore è, già dal titolo,<br />
quello della sincerità e della fragilità poste all’interno<br />
di una prospettiva universale dell’amore. Il tentativo<br />
pare quello di volersi mettere completamente a nudo<br />
attraverso undici canzoni che, pur cercando di muoversi<br />
in più direzioni - soprattutto elettronica e post-rock,<br />
ma non mancano neppure suggestioni psichedeliche<br />
-, fin<strong>is</strong>cono per costruire un pop-rock cantautorale ben<br />
curato nella produzione, ma monocorde nella sostanza<br />
delle singole canzoni.Non bastano gli arpeggi à la Bon<br />
Iver (si ascolti l’attacco di Perth) dell’iniziale Le mani né<br />
l’attacco in ipnosi electro della title-track per esaltare<br />
un lir<strong>is</strong>mo che, nonostante le buone intenzioni, sembra<br />
forse un troppo scontato: è il caso del pop elettrificato<br />
di Sulla riva o dell’intro acoustic di Gospel. Brani, quelli<br />
citati, in cui il pol<strong>is</strong>trument<strong>is</strong>ta pecca per la troppa voglia<br />
di raccontarsi, senza riuscire a immergere l’ascoltatore<br />
nel proprio ab<strong>is</strong>so emotivo. Non mancano ep<strong>is</strong>odi di<br />
scrittura più convincenti come in Periferia - altro brano<br />
costruito su rimandi ambient/pop e giocato sui controcanti<br />
soul della voce - o un La stanza di Winston e<br />
Julia dai riferimenti letterari ed esempio di cantautorato<br />
- seppur declinato in toni electro beat - non troppo<br />
d<strong>is</strong>tante dal Mol<strong>the</strong>ni più d<strong>is</strong>incantato ed es<strong>is</strong>tenziale.<br />
La conclusione è affidata agli inserti rock di La grande<br />
rivolta, brano di oltre sette minuti che chiude un d<strong>is</strong>co<br />
certo interessato a sondare nuove direzioni ma pure<br />
troppo attento allo stile e meno al contenuto. Intuizioni<br />
e mestiere ci sono, ma manca ancora la maturità per<br />
consegnare un album che riesca ad esprimere appieno<br />
una personalità per il momento ancora troppo legata ai<br />
grandi nomi della tradizione cantautorale.<br />
(5.8/10)<br />
giuliA Antelli<br />
luCAS SAnttAnA - o deuS que devAStA mAS<br />
tAmbém CurA (mAiS um diSCoS, ottobre<br />
2012)<br />
Genere: post-tropical<strong>is</strong>ta<br />
Fa un certo effetto recensire Lucas Santtana, dopo<br />
averlo incontrato e ascoltato in concerto prima della<br />
proiezione dell’abbagliante documentario Tropicália<br />
(andatelo a vedere). Non per questioni squ<strong>is</strong>itamente<br />
personali, d<strong>is</strong>corsi ep<strong>is</strong>odici aneddotici esperienze inenarrabili<br />
di condiv<strong>is</strong>ione, ma perché ora che l’associazione<br />
con quella linfa vitale è fatta, iacta est: è operazione<br />
chirurgica <strong>is</strong>olare la musica del Lucas dal tropical<strong>is</strong>mo,<br />
da quella gioia ed energia trascinante, e dalla leggerezza<br />
romantica che la persona comunica. Ci proviamo<br />
quanto meno - è nelle nostre corde - per posizionare<br />
O Deus Que Devasta Mas Também Cura r<strong>is</strong>petto agli<br />
ep<strong>is</strong>odi precedenti di Santtana, e specialmente al più<br />
significativo di essi, Sem Nostalgia, perfetto set di scritture<br />
post-tropical<strong>is</strong>te, con melodie e arrangiamenti direttamente<br />
provenienti da quell’approccio sincretico<br />
che Caetano, Gil, Mutantes tra gli altri esercitavano<br />
con la nonchalance del talento di una comunità intera.<br />
Lucas sorprende per la stessa d<strong>is</strong>involtura con cui ci colpivano<br />
i protagon<strong>is</strong>ti dell’onda tropi<strong>cale</strong>. Con O Deus<br />
76 77
Que Devasta... tenta però meno la strada della bossa<br />
(tranne in casi quali Dia de Furar Onda no Mar, sciolti<br />
in produzione con elaborata stanza dei bottoni) e più<br />
la ricchezza dell’arrangiamento, dell’orchestrazione, e<br />
della canzone (e della figura del cantautore) in tutta<br />
la sua variabilità transoceanica che porta poi alla tradizione<br />
del rondò, pur con le inconfondibili note che<br />
escono solo a chi profer<strong>is</strong>ce portoghese brasiliano (la<br />
title-track). Allo stesso Santtana, parole sue, un brano<br />
come É Sempre Bom Se Lembrar sembra musica italiana<br />
(dei nostri sessanta, aggiungeremmo noi, e mai più del<br />
cantautorato odierno).<br />
Mancano forse i momenti avvincenti di Sem Nostalgia<br />
(come quelli strumentali, da heavy rotation, vedi Super<br />
Violão Mashup o Recado Para Pio Lobato) ma la penna è<br />
in assoluta evidenza, pronta a essere agghindata senza<br />
perdere la propria natura. Altra chiave - per chiudere - di<br />
lettura. Lucas Santtana sa fare cose semplici che semplici<br />
poi non sono (scrivere canzoni) e attorno allo scheletro<br />
pulsante metterci carne e pelli colorate, senza però<br />
far perdere di v<strong>is</strong>ta le ossa che si dimenano.<br />
(7/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
mAdneSS - oui, oui, Si, Si, JA, JA, dA, dA<br />
(Cooking vinyl uk, ottobre 2012)<br />
Genere: pop<br />
A tre anni (abbondanti) dall’apprezzabile The Liberty of<br />
Norton Folgate, i Madness tornano a dimostrarci come<br />
la seconda giovinezza non sia solo un bolso luogo comune<br />
ma un’eventualità possibile, anche e soprattutto<br />
nel supergiovanil<strong>is</strong>tico mondo del pop-rock. Certo, vale<br />
la regola che è difficile ascoltarli e scriverne senza voltarsi<br />
indietro, nella fatt<strong>is</strong>pecie a quegli 80s che li videro<br />
rappresentare una via di fuga tanto cazzona quanto intelligente<br />
all’oppressione tatcheriana. Un vero e proprio<br />
esercizio di dada<strong>is</strong>mo caricaturale dai r<strong>is</strong>volti umani il<br />
loro, che nella sinergia tra videoclip e canzone li proponeva<br />
come dei nipotini scellerati (e a tratti gratuiti)<br />
dei Monty Python, ad uso e consumo dei post-punk<br />
alla ricerca di un d<strong>is</strong>impegno che non d<strong>is</strong>impegnasse<br />
troppo i neuroni.<br />
Nevrotici, folli, allegri, ma con sotto un cuore che pulsava<br />
tra gli ska, i vaudeville e gli errebì. La loro eredità si è<br />
d<strong>is</strong>persa tra le tante band che hanno tentato di tenere<br />
vivo il mix senza mai azzeccare la sintonia col presente,<br />
a meno che non si voglia annoverare tra gli epigoni certi<br />
Blur (e in parte ci può stare). Quindi oggi McPherson e<br />
soci si ritrovano con un capitale mitologico pressoché<br />
intatto da proporre ai nostalgici di mezza età e di rimbalzo<br />
ai più giovani, b<strong>is</strong>ognosi di nuove dosi di cazzoni-<br />
smo come antalgico per nuove e sempre più pressanti<br />
oppressioni (e infatti vedi il successo che r<strong>is</strong>cuotono i<br />
vari circhi radiofonici e il solitoidiot<strong>is</strong>mo cinetelev<strong>is</strong>ivo).<br />
Però i Madness non stanno al gioco, non cadono nell’errore<br />
di fare la trita rifrittura dei Madness r<strong>is</strong>chiando il<br />
ridicolo. Ovvero, ci marciano eccome sulla loro fama -<br />
e ci mancherebbe - ma sanno bene di non poter più<br />
interpretare quel ruolo, per cui chiamano a raccolta il<br />
mestiere e la maturità sfornando un songwriting - come<br />
dire? - post-Madness, ovvero pop gradevole, guizzante,<br />
a tratti denso, guarnito di espedienti ad hoc.<br />
Capace d’ingegnarsi agrodolce (il doo wop in salsa reggae<br />
di M<strong>is</strong>ery) e cotonarsi d<strong>is</strong>co (la vagamente inquieta<br />
Never Knew Your Name), d’imbronciarsi trip-hop (una<br />
Death Of A Rude Boy che sfoggia trovate futur<strong>is</strong>tico/fumett<strong>is</strong>tiche<br />
quasi Gorillaz - il che chiude uno strano,<br />
intrigante cerchio) ed incalzare power pop (Leon). E’ un<br />
d<strong>is</strong>co che non aggiunge virgole significative alla loro<br />
vicenda e neppure paragrafi sul libro del pop rock contemporaneo,<br />
ma che si fa forte della sua inessenzialità<br />
rendendola l’alibi perfetto per sbrigliare estro d<strong>is</strong>incantato<br />
(il reggaettino slavato di How Can I Tell You?), a costo<br />
di svariare tra improbabili siparietti mariachi (La Luna),<br />
piacion<strong>is</strong>mo errebì (My Girl 2) o malinconie noir (la invero<br />
un po’ didascalica Powder Blue). Quanto allo ska, è<br />
ingrediente quasi omeopatico che quando viene a galla<br />
sembra una caramellina che si scioglie subito (So Alive,<br />
Black And Blue). Ed è meglio così.<br />
(6.7/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
mAmA roSin - bye bye bAyou (moi J ConnAiS,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: trash’n’roll, zydeco<br />
Quantomeno era difficile da pronosticare: tre svizzeri<br />
che direttamente dal lago di Ginevra si mettono a fare<br />
zydeco e cajun, musica tradizionale della minoranza<br />
creola francese in Lou<strong>is</strong>iana. Poteri della globalizzazione?<br />
Ch<strong>is</strong>sà, certo è che non te lo aspetteresti e invece...<br />
Partiti con un paio di d<strong>is</strong>chi rilasciati per il culto svizzero<br />
Voodoo Rhythm, si sono finalmente dec<strong>is</strong>i a sbarcare in<br />
America per saggiare con mano luoghi e tradizioni della<br />
zona, e la traversata atlantica ha portato con sè anche<br />
un mentore d’eccezione, Jon Spencer, produttore di<br />
Bye bye Bayou.<br />
Diciamolo senza mezzi termini: il party - o la sagra? -<br />
rock’n’roll dell’anno si consuma qui, con buona pace<br />
dei vari Blues Explosion e Jim Jones Revue. Bye bye<br />
Bayou è uno di quei d<strong>is</strong>chi che ti esplode nelle orecchie.<br />
Parte rock’n’roll, si incurva nel trash punk rock, inverte<br />
la rotta verso lo zydeco salvo fare subito marcia<br />
indietro in territori punk, e fin<strong>is</strong>ce per scratchare una<br />
comm<strong>is</strong>tione cajun trash’n’roll. Prime cinque tracce. Va<br />
bene non inventano la luna, ma il mix tra tradizione e<br />
innovazione trova l’equilibrio perfetto, supportato da<br />
un cantato div<strong>is</strong>o equamente tra francese e inglese. E<br />
poi le cose continuano a evolvere anche nella seconda<br />
parte con qualche filtro psichedelico in Black Samedi<br />
e nella polverosa Seco e Molhado, del vecchio country<br />
western, con la ballad malinconica di I don’t fell home e il<br />
surf rock svagato di Story of love and hate, un po’ Beach<br />
boys e un po’ Byrds.<br />
E’ un d<strong>is</strong>co pieno di energia e buone vibrazioni ma non<br />
si commetta l’errore di rilegarlo con superficialità alla<br />
voce happy songs. I Mama Rosin offrono una narrazione<br />
che prevede incontro di culture, studio della storia e capacità<br />
interpretativa. Metteteci lo zampino di Spencer a<br />
tenere unite le parti ed ecco spiegato il piccolo miracolo.<br />
(7.3/10)<br />
SteFAno gAz<br />
mArA - dotS (brutture moderne,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: pop<br />
Una mezz’ora spesa tra certi Velvet Underground puliti<br />
e fuori contesto (Way Out), frammenti pop di Fifties<br />
americani (Your Lies), i Doors più brechtiani (Not You),<br />
qualche parentesi folk à la Le-Li (Hitch), divert<strong>is</strong>sement<br />
strumentali senza pretese (Afternoon Here, Close) e cover<br />
plausibili (i dEUS di Nine Threads). La scrittura di Mara<br />
Luzietti - ravennate all’esordio - per quanto minimale<br />
e, a suo modo, solitaria, regge il peso delle aspirazioni<br />
sciorinando un pop-folk da cameretta asciutto nella<br />
strumentazione, ma comunicativo come non crederesti<br />
possibile. Il tutto grazie anche a una voce ancora un po’<br />
timida - o forse dovremmo dire algida - ma adatt<strong>is</strong>sima<br />
a far da battitrice libera in mezzo a bozzetti musicali da<br />
un paio di minuti o poco più.<br />
La formula scelta per Dots qualche naso lo farà storcere,<br />
anche solo per il fatto di rappresentare un modello estetico<br />
dec<strong>is</strong>amente inflazionato. Eppure c’è una certa freschezza<br />
nelle nove tracce della trackl<strong>is</strong>t che non sai bene a cosa<br />
ricondurre: se alle inquadrature effettivamente sghembe<br />
della Luzietti o al buon lavoro di arrangiamento e produzione<br />
di Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra<br />
Afrobeat, Quartetto Klez, Sur). Probabilmente a<br />
entrambe le cose, fatto salvo che Dots rimane comunque<br />
un buon modo per iniziare un percorso d<strong>is</strong>cografico che,<br />
con la dovuta costanza e un po’ di coraggio in più, potrebbe<br />
rivelarsi dec<strong>is</strong>amente intrigante.<br />
(6.5/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
mASCArA - tutti uSCiAmo di CASA (eCleCtiC<br />
CirCuS, Aprile 2012)<br />
Genere: indie<br />
Dopo l’EP del 2010 L’amore e la filosofia, i varesini MasCara<br />
approdano al primo album e lo fanno in grande.<br />
La produzione è sontuosa, così come una cura per<br />
i dettagli profonda e attenta. Il d<strong>is</strong>co, un concept sul<br />
passaggio dalla giovinezza all’età adulta - quella in cui<br />
appunto si esce di casa -, è stato anticipato da un trailer<br />
a puntate atto a introdurci ai suoni e alle atmosfere di<br />
questa storia. Grande produzione, grande attenzione<br />
alla forma, per un sound che si divide tra una contemporaneità<br />
tutta riverbero di Editors e Bloc Party (con<br />
inserti in stile Muse e Coldplay) e un passato dal quale<br />
emergono richiami Cure (Le città da costruire) e Depeche<br />
Mode (I giorni di Urano contro).<br />
Nonostante gli antecedenti illustri e un abito che si<br />
allontana dall’universo indie rivolgendosi a un pubblico<br />
più vasto, sembra che a questo d<strong>is</strong>co manchi però<br />
una dec<strong>is</strong>iva spinta emotiva, soprattutto per un lavoro<br />
sui testi che non svetta mai. Se a livello compositivo il<br />
suono della band ha una connotazione comunque rilevante,<br />
soprattutto in termini di commerciabilità, i testi<br />
sfuggono, banalizzano e in qualche caso annoiano. Per<br />
un concept album, a ben vedere, non è cosa da poco.<br />
Monumenti sonori in esplosione tra l’elettronico e il baroccheggiante<br />
(Da uomo a uomo, La stanza) ma racconti<br />
le cui immagini non spiccano.<br />
(6/10)<br />
giuliA CAvAliere<br />
miChele mArAglino - i medioCri (lA FAme<br />
diSChi, novembre 2012)<br />
Genere: cantautorato indie<br />
Cantautorato indie post-anni Zero, quindi un grado<br />
(quasi) zero di pancia e nervi che ti arrivano al cervello<br />
per dare la scossa alla matassa di neuroni generazionali<br />
anestetizzati. Non chiamatelo impegno, ma il b<strong>is</strong>ogno<br />
impellente di dare voce allo sconcerto per una prassi<br />
sociale dalle molte, troppe sfaccettature tragicomiche.<br />
Sferzate che possono assumere la forma del lir<strong>is</strong>mo slogan<strong>is</strong>tico<br />
à la Vasco Brondi o del sarcasmo urticante<br />
tipo I Cani, con tutto ciò che ti ritrovi nel mezzo, dai<br />
laconici quadretti di Dimartino alla d<strong>is</strong>amina umorale<br />
dei Numero 6 passando dal cin<strong>is</strong>mo outsider de Lo<br />
Stato Sociale. Ecco, appunto, dal mazzo spunta anche<br />
Michele Maraglino, classe ‘84 da Perugia, fondatore de<br />
La Fame D<strong>is</strong>chi, un ep d’esordio targato 2011 (Vogliono<br />
solo che ti diverti) e finalmente questo debutto su lunga<br />
d<strong>is</strong>tanza che ne conferma l’attitudine per la calligrafia<br />
diretta, nessun volo pindarico ma congetture essenziali<br />
78 79
che arrivano al punto senza tappe intermedie.<br />
Una triangolazione basale di testi, melodia e arrangiamenti<br />
(chitarre, basso, batteria) che non inventa nulla<br />
se non il senso di urgenza hic et nunc, quello che ti fa<br />
ascoltare canzoni come L’aperitivo, Taranto o Verranno<br />
a dirti che c’è un muro sopra come reportage dal cuore<br />
stesso del d<strong>is</strong>agio. Canzoni che sembrano circostanze<br />
sul punto di accaderti, o appena accadute, comunque<br />
fatti che ti riguardano da vicino, empatia innescata più<br />
dall’approccio ad altezza marciapiede - un po’ busker e<br />
un po’ punk da cameretta - di Maraglino che non dall’efficacia<br />
delle pur apprezzabili intuizioni (c’è arguzia da<br />
vendere nel ritornello di Umida, mentre l’innodia di Vita<br />
mediocre e Vienimi a cercare è meno facilona di quel che<br />
può sembrare).<br />
Manca appunto la ricchezza delle tappe intermedie, la<br />
capacità di avventurarsi e svariare nei contesti, l’<strong>is</strong>pessimento<br />
e la problematicità del punto di v<strong>is</strong>ta, l’additivo di<br />
astrazioni e v<strong>is</strong>ioni, tutto ciò insomma che possa conferire<br />
alla cronaca emotiva dimensione “poetica”, come invece<br />
fa ad esempio ben<strong>is</strong>simo un Paolo Zanardi. Tuttavia,<br />
come accennavamo in apertura, più che di mancanza<br />
dovremmo parlare di necessità storica, fors’anche di una<br />
ben ponderata scelta espressiva. Quanto fruttuosa oltre<br />
la contingenza, lo scopriremo ovviamente solo vivendo.<br />
(6.8/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
mikA vAinio - mAgnetite (touCh muSiC uk,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: ambient-no<strong>is</strong>e<br />
Mika Vainio ha sicuramente un approccio in qualche<br />
modo stoico. Non solo per il significato che questa parola<br />
assume nel senso comune, ma anche per l’originario<br />
senso filosofico e per le connotazioni a esso associato.<br />
Ossia, stoico è colui che desidera ciò che ha. Una questione<br />
di consapevolezza della propria volontà e dei<br />
propri mezzi, insomma. Fe3o4 - Magnetite è non solo<br />
l’ennesimo d<strong>is</strong>co analogic<strong>is</strong>simo dell’ex metà pansonica<br />
ma ulteriore prova provata di questo atteggiamento.<br />
Non vale la pena cercare innovazione, piuttosto coinvolgimento,<br />
da un esperimento come questo. E forse per<br />
dare complessità alla faccenda si può ipotizzare qualche<br />
dettaglio in più sul concept, derivato dal minerale che<br />
in natura più di ogni altro (e prima di ogni altro, nella<br />
storia delle scoperte umane) ha proprietà magnetiche,<br />
e lì balla l’aprezzamento o meno dell’album: un gioco<br />
di polarità.<br />
Punto di partenza è la sospensione dello stato d’animo,<br />
che Vainio attira a sua d<strong>is</strong>crezione verso toni più o meno<br />
luminosi - e quindi meno scontati dell’oscurescenza a cui<br />
il nome di Mika è abbastanza drammaticamente ormai<br />
associato. Magnetotactic ne è perfetta espressione, anzi<br />
una successione il cui netto tra scuro e bianco è pari. Lo<br />
switch è anche tra materia analogica e materia sintetizzata<br />
da suoni radiofonici a basso fuoco di frequenza di<br />
hertz - e funziona finchè da padroni li fanno gli oscillatori,<br />
pur con continue soluzioni di continuità, all’opposto<br />
di come fa per esempio Keith Fullerton Whitman.<br />
Il bipolar<strong>is</strong>mo scende anche nel giudizio. I suoni, il vero<br />
prodotto su cui dare un giudizio aldilà dell’epochè, convincono<br />
solo a metà, ossia quando se ne sente la materia<br />
viva. E purché non generino automat<strong>is</strong>mi alla Pan Sonic<br />
come nella conclusiva Elv<strong>is</strong>’s TV Room (con frequenza<br />
acuta finale che sembra autoironica, ma sappiamo che<br />
non lo potrà mai essere).<br />
(6.5/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
moCk & tooF - temporAry hAppineSS (tiny<br />
StiCkS, ottobre 2012)<br />
Genere: deepest <strong>house</strong><br />
Quando un paio d’anni fa vennero pubblicati una serie<br />
di articoli sui danni permanenti all’udito provocati dal<br />
clubbing, sembrò solo l’ultima riflessione, in ordine di<br />
tempo, da parte della dance sull’estemporaneità ed il<br />
costo dello stile di vita che propone.<br />
La <strong>house</strong> poi, proprio in quanto offshoot tecnologico,<br />
non-umano, della d<strong>is</strong>co è sempre stata consapevole<br />
della d<strong>is</strong>foria e dell’autod<strong>is</strong>truzione che stanno al cuore<br />
dei suoi incalzanti inviti a gioire e ballare. Una consapevolezza<br />
che, nell’essere presente sin dagli inizi, ne ha<br />
fatto un genere maturo, riflessivo, raramente naive. Per<br />
esempio Adon<strong>is</strong>, solo due anni dopo avere suonato coi<br />
Clockwork la melensa I’m Your Candy Girl, confesserà la<br />
sua d<strong>is</strong>perazione con No Way Back. Ancora prima On and<br />
On di Jesse Saunders, lo stesso groove madre, includevea<br />
in sé tutti gli elementi che sarebbero andati a comporre<br />
la futura <strong>house</strong> music suonando allo stesso tempo<br />
come l’espressione di un profondo malessere.<br />
L’intera carriera dei Mock & Toof potrebbe essere considerata<br />
come un lungo commento a On and On: gli stessi<br />
ritmi che si sfaldano meccanici in uno spazio assolutamete<br />
vuoto, con percussioni dedicate a f<strong>is</strong>sare l’attenzione<br />
dell’ascoltatore sulla cassa quarti, tesa a sostenere pad<br />
d<strong>is</strong>sonanti e synth corpuscolari. Resta al basso e al vocal<strong>is</strong>t<br />
il compito di ricordare la parentela, tramite studiati accenni,<br />
con il funk ed il dub. Confusion Time, traccia che apre<br />
l’LP, evoca addirittura la strofa di Saunders quando canta<br />
Th<strong>is</strong> things inside in my soul, <strong>the</strong>y make me lose control.<br />
Per poi essere seguita a ruota da My Head che continua<br />
ad esplorare il tema della possessione e dell’ossessione<br />
nella loro connessione con desideri di plastica e lattice.<br />
La produzione ha qulla cura che ci si aspetta, ormai, da<br />
ogni art<strong>is</strong>ta uscito dalla scuola DFA e si incanala nel solco<br />
di quella <strong>house</strong> adulta, anche nelle tematiche, insieme ai<br />
più recenti esempi di Chelon<strong>is</strong> e Wolf+Lamb.<br />
Temporary Happiness non è la proposta di un breve<br />
parad<strong>is</strong>o nel quale fuggire per la durata del d<strong>is</strong>co. Così<br />
come Don’t Work, Don’t Care, che si avvia con un cut up<br />
vo<strong>cale</strong> che ricorda gli Art of No<strong>is</strong>e, l’intera opera è un’inno<br />
all’apatia drogata e allo stesso tempo espressione<br />
dell’insodd<strong>is</strong>fazione per queste routine che si basano,<br />
schiettamente, sul perdere tempo. I Mock & Toof stressano<br />
quindi l’accento su quel Temporality per spingerci<br />
a ricordare, ancora una volta, la vanità e la fragilità dello<br />
stesso progetto <strong>house</strong>.<br />
(7.2/10)<br />
Antonio CuCCu<br />
mouSe on mArS - wow (monkeytown<br />
reCordS, novembre 2012)<br />
Genere: wonky<br />
A pochi mesi da Parastrophics, album che segnava il ritorno<br />
sulle scene dopo svariati anni d’attività parallele<br />
e collaborazioni, i Mouse On Mars si riaffacciano sulla<br />
Monkeytown dei Modeselektor con una sorta di spinoff<br />
di quella prova, WOW.<br />
Se il predente lavoro cercava d’aggiornare il caratter<strong>is</strong>tico<br />
massimal<strong>is</strong>mo sonico del duo, quest’ultimo sforzo,<br />
prodotto seguendo un approccio il più possibile spontaneo<br />
e di petto, vede i tedeschi posizionarsi in area wonky<br />
con tutto il corollario di beat, bit e filtri derivati. I contribuiti<br />
dichiarati da parte di Eric D. Clarke, l’art<strong>is</strong>ta Dao Anh<br />
Khanh (gli sparuti urletti inc<strong>is</strong>i all’Hanoi studio sono suoi)<br />
e la punk band argentina Las Kellies sono giusto delle<br />
note di folclore. La trackl<strong>is</strong>t è al 100% figlia di un marchio<br />
che, ancora una volta, tenta lo svecchiamento anche con<br />
APP musi<strong>cale</strong> (Wretchup) d’imminente commecializzazione<br />
su ITunes e, di fatto, usata per la composizione<br />
delle tracce.<br />
Con MYH a piazzarsi con successo tra Bibio e Hudson<br />
Mohawke sotto lente vintage-balearic, PUN a giocare<br />
stancamente con gli acquerelli post-glo, APE a trafficare<br />
con l’afosità meticcia delle produzioni Flying Lotus e<br />
altre tracce a pasturare il lato tech di Parastrophics (la micro<br />
acid da videogame di ACD con tanto di 303 filtrate),<br />
WOW non si divincolerà dai difetti dell’ultima fase dei<br />
Mouse On Mars (CAN) eppure un minimo di freschezza<br />
e genuinità lo dimostra. Per la serie, Jan e Andi in studio<br />
si divertono e divertono.<br />
(6.4/10)<br />
edoArdo briddA<br />
nAomi punk - <strong>the</strong> Feeling (CAptured<br />
trACkS, novembre 2012)<br />
Genere: psy-GaraGrunGe<br />
In ambito musi<strong>cale</strong> ho sempre sostenuto l’importanza<br />
delle idee. Puoi aver studiato per trent’anni pianoforte,<br />
puoi sparare assoli hyper-speed di 10 minuti o cambiare<br />
tre tempi nel giro di 5 secondi, ma se mancano le idee<br />
ai miei occhi vali zero. In poche parole, se ci fossero piú<br />
Kevin Shields e meno John Petrucci sarebbe un mondo<br />
(d<strong>is</strong>cografico) migliore.<br />
Anche per questo motivo apprezzo il lavoro della Captured<br />
Tracks, protagon<strong>is</strong>ta di un 2012 di grande valore e<br />
capace di crearsi un roster di art<strong>is</strong>ti che tendenzialmete<br />
mettono davanti l’urgenza espressiva o il tocco personale<br />
alla mera tecnica. Art<strong>is</strong>ti forse ancora un po’ acerbi<br />
ma già in grado di portare avanti un d<strong>is</strong>corso tanto di<br />
difficile collocazione quanto facilmente riconoscibile.<br />
Il primo approccio dell’ascoltatore medio con The Feeling<br />
dei Naomi Punk può variare dal “cosa è questa<br />
roba?” al “per piacere abbassa”. L’album, uscito originariamente<br />
in 300 copie su Couple Skate Records e caratterizzato<br />
da un artwork dalle tendenze cromatiche presenti<br />
in molte delle ultime uscite Captured Tracks, è infatti un<br />
tuffo in un mondo malato, dove però il rifiuto iniziale si<br />
tramuta ben presto in assuefazione.<br />
The Feeling, che è il secondo d<strong>is</strong>co della band, non trad<strong>is</strong>ce<br />
le origini - Seattle e dintorni - del trio capitanato<br />
da Trav<strong>is</strong> Benjamin Coster: si respirano dosi di abrasioni<br />
proto-grunge lungo le dieci tracce del d<strong>is</strong>co, soprattutto<br />
in brani garage oriented come l’ottima Burned Body o<br />
nell’estrema v<strong>is</strong>ceralità di The Buzz.<br />
Tra la sguaiatezza di chitarre maltrattate, riff sorretti<br />
da potenti crash e melodie capaci di entrare in testa in<br />
modo subdolo, il sin<strong>is</strong>tro The Feeling è un lavoro che si<br />
concentra in prim<strong>is</strong> sul suono e poi, con un po’ di fortuna,<br />
sulle canzoni: dietro alla loro proposta musi<strong>cale</strong> è facile<br />
intuire infatti delle scelte stil<strong>is</strong>tiche ben prec<strong>is</strong>e, come<br />
ad esempio il settaggio della d<strong>is</strong>torsione della chitarra<br />
o l’effetto omnipresente sulla voce.Tra i momenti più<br />
alti troviamo l’iniziale Voodoo Trust con una strofa non<br />
troppo lontana dal chorus della sopracitata Burned Body<br />
ed un ritornello dec<strong>is</strong>amente killer e la struttura ciclica<br />
di Trashworld.<br />
Niente male pure l’instrumental (uno dei tre presenti<br />
nell’album) vagamente gaze di Gentle Movement Toward<br />
Sensual Liberation, esplicativo della sensazione<br />
“inside <strong>the</strong> bell” che torna a più riprese lungo la durata<br />
del d<strong>is</strong>co e il retrogusto art/no della conclusiva Linoleum<br />
Tryst.<br />
Si potrebbero trovare decine di aspetti negativi, debolezze<br />
compositive o di possibili migliorie, ma a conti fatti<br />
80 81
- e non è poco - non es<strong>is</strong>te nessun d<strong>is</strong>co che suoni come<br />
questo. Alienato e alienante.<br />
(7/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
nAturAl ASSembly - ArmS oF depArture<br />
(AvAnt!, ottobre 2012)<br />
Genere: synth-wave<br />
Torbido e oscuro. Eppure a suo modo attraversato da<br />
bagliori “glamour”. Elegante, insomma. Ma pur sempre<br />
apocalittico. Il primo (mini) Lp del duo londinese Natural<br />
Assembly raccoglie frammenti di electro, industrial ed<br />
ebm, per creare una scultura di ferro, plastica e velluto,<br />
creatura squ<strong>is</strong>itamente “cold”, come tutta la wave più o<br />
meno sotterranea che ha saputo farsi apprezzare nelle<br />
ultime due o tre stagioni.<br />
Ritmiche aliene e riverberate, sintetizzatori a pervadere<br />
l’aria, voci lontane, filtrate e trasfigurate nel processo di<br />
de-umanizzazione che vuole la macchina a sostituire la<br />
coscienza di un’umanità alla deriva, fanno di Arms of<br />
Departure un album ricco di variazioni sul tema, nonostante<br />
la breve durata.<br />
Piace quindi l’incontro tra groove incalzante e oscurità<br />
soffocante in 19.03.12, così come la d<strong>is</strong>tensione synthpop<br />
di Sunr<strong>is</strong>e e i fitti tappeti su battiti mid-tempo di<br />
Wretched Burden. Certamente perfettibili, ma già ampiamente<br />
a fuoco.<br />
(7/10)<br />
Antonio lAudAzi<br />
niCo muhly - droneS (bedroom Community,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: contemporanea<br />
Nico Muhly è uno fedele a quello che dice. E alle metafore<br />
con cui titola le proprie composizioni. Mo<strong>the</strong>rtongue<br />
era un <strong>cale</strong>mbour di vocal<strong>is</strong>mi, l’allestimento di una<br />
scena di parole e timbri d’ugola pennellati da mamma<br />
lingua. Drones - che raccoglie tre EP del compositore<br />
(Drones & Piano, Drones & Viola, Drones & Violin) unendoli<br />
con la finale Drones & Violin - Drones in Large Cycles - non<br />
solo riflette i mezzi usati (gli strumenti), ma li impasta<br />
dando a uno o all’altro il protagon<strong>is</strong>to e al restante l’ambientazione<br />
dronica. Il gioco è non cadere nel tranello:<br />
non ci sono droni - come siamo abituati a pensarli - ma<br />
ipotesi strumentali di traduzione della sospensione del<br />
velivolo senza conducente, non un ronzio ma un veicolo<br />
- un mezzo, appunto.<br />
Il tutto resta molto legato a Philip Glass, con il quale<br />
Nico ha collaborato in diverse occasioni e che del resto<br />
forse è stato mentore indiretto. Si rimpallano pianoforte,<br />
viola e violino. Drones & Piano (comm<strong>is</strong>sionata in origine<br />
dal Gilmore International Keyboard Festival, per il pian<strong>is</strong>ta<br />
Bruce Brubaker) è la parte migliore del lotto. La<br />
pianizzazione di un bipolar<strong>is</strong>mo. Ci racconta una storia<br />
musi<strong>cale</strong> di schizofrenia. Da un lato il pianoforte assume<br />
una personalità antitonale, d<strong>is</strong>sonante e dinamica.<br />
Dall’altro una personalità docile, quasi pensierosa. Con<br />
soluzioni di continuità raramente prevedibili. A volte<br />
(Drones & Piano Part 3 - The 8th Tune) quel nervos<strong>is</strong>mo<br />
è una composizione veloce, che sa che i minuti contati<br />
sono preziosi per mantenere un barlume di lucidità.<br />
La viola di sottofondo è l’ambiente ideale per questa<br />
dialogica tragedia quotidiana, allo stesso modo il piano<br />
in reverse dovrebbe essere tappeto perfetto per il<br />
protagon<strong>is</strong>mo degli archi nelle due serie successive<br />
(Drones & Viola e Drones & Violin), ma perde efficacia. La<br />
viola dronica ricorda John Cale, se non Tony Conrad;<br />
il piano statico il Terry Riley di In C, come se fosse suonato<br />
nell’altra stanza, e quindi come se gli fosse negato<br />
il protagon<strong>is</strong>mo solo per una questione di piani di fuoco.<br />
Per lo stesso motivo, gli switch / glitch di Drones &<br />
Violin - Drones in Large Cycles sono - seppur più “strutturanti”<br />
- meno adatti a dare luce alla metafora del d<strong>is</strong>co:<br />
monologhi interiori su suoni dronici della quotidianità<br />
tradotti in strumento musi<strong>cale</strong>. Funziona quando lavora<br />
sull’ossatura, Nico Muhly, in Drones. Per un compositore<br />
di fatto camer<strong>is</strong>ta, è una posizione di vantaggio.<br />
(7.1/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
odd Future wolF gAng kill <strong>the</strong>m All - <strong>the</strong><br />
oF tApe vol. 2 (odd Future reCordS, mArzo<br />
2012)<br />
Genere: hip hop<br />
Il collettivo hip hop Odd Future confeziona una compilation<br />
per fare bella mostra di tutti i piccoli e grandi<br />
talenti che si sono raggruppati attorno al leader Tyler<br />
<strong>the</strong> Creator, art<strong>is</strong>ti quali Earl Sweatshirt, Frank Ocean,<br />
Hodgy Beat, Domo Genes<strong>is</strong>, The internet. L’impressione<br />
è che questo d<strong>is</strong>co immortali una momento difficile<br />
per la crew: da normal<strong>is</strong>simi ragazzini malati di hip<br />
hop gli Odd Future si sono trovati in un baleno, grazie<br />
ai tempi iper-veloci di internet, al centro dell’attenzione<br />
della scena musi<strong>cale</strong> grazie all’immediato successo<br />
r<strong>is</strong>cosso da Earl e Tyler. Gran parte del merito dei due è<br />
stato quello di portare una ventata di aria fresca nella<br />
scena hip hop con una musica estrema e perversa (con<br />
basi che pescano tanto da Waka Flocka Flame che da<br />
Hudson Mohawke) ma al contempo adolescenziale<br />
e spensierata, sempre però concentrata sull’autocelebrazione<br />
di sé stessi come giovan<strong>is</strong>simi V.I.P. Purtroppo<br />
però non si rimane adolescenti a vita e le debolezze di<br />
questo d<strong>is</strong>co ci mostrano come ciò è vero anche per la<br />
gang del lupo, che forse dovrebbe iniziare a ricalibrare<br />
la propria proposta. L’album è incentrato su una formula<br />
semplice: lo storico membro e produttore Left<br />
Brain (aiutato da Tyler) siede in consolle e sforna basi<br />
su cui andranno a lavorare più art<strong>is</strong>ti. Purtroppo r<strong>is</strong>petto<br />
agli anni passati è proprio questo meccan<strong>is</strong>mo che si è<br />
inceppato. Se l’adolescenza è il momento della vita comune,<br />
la maturazione impone la solitudine degli adulti<br />
e di conseguenza è divenuto difficile per i nostri lavorare<br />
insieme senza schiacciarsi l’uno con l’altro. Così da una<br />
parte ci sono un gruppetto di big che per lavorare assieme<br />
avrebbero b<strong>is</strong>ogno almeno di un terreno neutro,<br />
laddove invece la produzione di Left Brain gioca quasi<br />
sempre a favore di Tyler. Un esempio tra tutti: in Snow<br />
White Frank Ocean sembra capitato per caso in un pezzo<br />
di Tyler <strong>the</strong> Creator.<br />
Dall’altra ci sono invece Hodgy Beat e Domo Genes<strong>is</strong> i<br />
quali sono ancora incerti tra adagiarsi sugli stereotipi<br />
Odd Future, ma rimanere sempre personaggi di secondo<br />
piano r<strong>is</strong>petto ai più car<strong>is</strong>matici, oppure azzardare un<br />
percorso di maturazione che li porti verso una propria<br />
proposta art<strong>is</strong>tica, come cercano di fare nei loro buoni<br />
d<strong>is</strong>chi sol<strong>is</strong>ti grazie a produzioni più classiche (l’Ep di<br />
Hodgy e No idols di Domo). Paradossalmente le<br />
tracce migliori sono quelle più inaspettate come White,<br />
con Ocean questa volta libero di fare Frank Ocean<br />
(accompagnato dal piano). Belle anche la funkeggiante<br />
Ya Know dei The Internet con The Internet stessi in consolle<br />
e Forest Green by Mike G, che ci presenta un flow<br />
assolutamente di livello. Fortunatamente a redimere<br />
tanti brutti momenti arriva, in chiusura, il singolo allstar<br />
Oldie, dalla produzione finalmente poco ingrombrante<br />
e 90s che ci lascia godere della varietà di stili e reg<strong>is</strong>tri<br />
vocali. Da notare - e non senza amarezza - come Ocean<br />
si dimostri il più maturo del gruppo anche nel rappato<br />
e come il ritorno nel finale di Earl (che non aveva potuto<br />
presenziare alle session) ci faccia pentire di aver ascoltato<br />
finora quasi solo brani di Domo Genes<strong>is</strong> e Hodgy<br />
Beat. Un fatto curioso è che il più grande difetto del<br />
d<strong>is</strong>co, quello di fare un pasticciaccio di art<strong>is</strong>ti così diversi,<br />
va in realtà a vantaggio della crew: viene voglia di sentire<br />
i d<strong>is</strong>chi sol<strong>is</strong>ti, dove ognuno avrà lo spazio per esprimersi<br />
al meglio. Forse una mossa di marketing geniale?<br />
(6.5/10)<br />
giAnluCA CArletti<br />
pAul kAlkbrenner - guten tAg (pAul<br />
kAlkbrenner muSik, novembre 2012)<br />
Genere: berlin techno<br />
Giusto questo mese riprendevamo il Kalkbrenner affair<br />
in occasione dell’uscita del sophomore di Fritz, col quale<br />
tornava alta l’evidenza di una scienza del perfezionamento,<br />
l’elevazione di un sound in fondo proprietario<br />
e amat<strong>is</strong>simo per armonie e umori difficilmente replicabili.<br />
E se questo nel fratello minore raggiunge l’apice<br />
con Sick Travellin’, la d<strong>is</strong>cografia della star Paul aveva<br />
già raccolto tutto il possibile negli ultimi due (vendut<strong>is</strong>simi)<br />
album, Berlin Calling e Icke Wieder, ponendolo<br />
di fronte a un bivio per questo Guten Tag: ins<strong>is</strong>tere su<br />
quel che vogliono i fan col r<strong>is</strong>chio di apparire narc<strong>is</strong><strong>is</strong>ta,<br />
o liberare il movimento verso una nuova fase stil<strong>is</strong>tica?<br />
La r<strong>is</strong>posta la dà subito in apertura Der Stabsvörnern,<br />
parziale messa in d<strong>is</strong>cussione di quel caratter<strong>is</strong>tico mix<br />
di atmosfera e ritmo che aveva fatto innamorare nelle<br />
opener dei due d<strong>is</strong>chi precedenti, Aaron e Böxig Le<strong>is</strong>e.<br />
Stavolta i bpm sono accelerati e il mood è più duro, più<br />
vicino alle ossessioni della Berlin techno (i loop autoritari<br />
di Trümmerung) e all’impatto per il club (Hinrich Zur See,<br />
siam dalle parti della minimal), interpretando una certa<br />
tendenza europea recente che punta verso territori più<br />
aggressivi e intransigenti e che stiamo osservando sotto<br />
fronti diversi, che siano lo Scuba berlinese lanciat<strong>is</strong>simo<br />
con Sigha o persino l’ultimo urlo hardcore di Vitalic (che<br />
- guarda caso, troviamo qui campionato in Kernspalte, il<br />
sample è della Polkamatic di OK Cowboy e adesso suona<br />
come la fase di respirazione preliminare all’agon<strong>is</strong>mo).<br />
Nonostante il singolo Das Gezabel sia di quelli fedeli al<br />
ben noto Kalkbrenner style e l’album lasci comunque<br />
spazio a momenti melodici liberatori (ottima Der Buhold<br />
che ci mette anche la grinta), gran parte della trackl<strong>is</strong>t<br />
si rivolge, in realtà, agli aficionados delle notti in p<strong>is</strong>ta.<br />
Il pezzo più rappresentativo è Spitz-Auge, che riesce a<br />
riversare la sapienza della star di Berlino sui meccan<strong>is</strong>mi<br />
del club buio, farcendo con bassi electro industriali<br />
che accompagnano ogni battuta nel segno di un groove<br />
meccanizzato. Così Guten Tag diventa album meno propenso<br />
all’accettazione globale e più orientato a un pubblico<br />
di appassionati di nicchia (se così possiam vedere<br />
la techno nello scacchiere complessivo). Mossa più che<br />
lecita: dopo Icke Wieder d’altronde era controproducente<br />
tentare ancora repliche, e il ritorno alla dimensione DJ<br />
è un modo per ribadire l’identità di Paul Kalkbrenner.<br />
Da oggi un po’ meno divo, un po’ più umano e genuino.<br />
(6.7/10)<br />
CArlo AFFAtigAto<br />
phillip phillipS - <strong>the</strong> world From <strong>the</strong><br />
Side oF <strong>the</strong> moon (interSCope reCordS,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: mumford&mat<strong>the</strong>ws<br />
Nel 2012 dove vai se il mandolino non ce l’hai? Il succes-<br />
82 83
so - assolutamente clamoroso - dei Mumford & Sons e<br />
dei loro nipoti (dai The Lumineers agli Of Monsters and<br />
Men) recentemente è arrivato fino al melmoso e putrido<br />
mercato italiano. Semplice, le armonie dilatate e a volte<br />
articolate dei Fleet Foxes funzionano ma non sono<br />
abbastanza spensierate per il nostro pubblico e non potrebbero<br />
di certo finire nel trailer del cinepanettone con<br />
De Sica (come è successo a Little Talks).<br />
Negli Stati Uniti il ricambio è continuo e il fenomeno è<br />
probabilmente all’apice dell’esposizione mediatica, tanto<br />
che l’ultima edizione del talent show American Idol,<br />
in passato trampolino di lancio per teen-idols, divette<br />
mtv, country-boys o pseudorocker, ha v<strong>is</strong>to trionfare un<br />
cantautore folk-pop armato di chitarra acustica: Phillip<br />
Phillips.<br />
Il brano che che lo accompagna da qualche mese si intitola<br />
Home e potrebbe trovare - rarità per i prodotti usciti<br />
da talent show statunitensi - consensi anche da noi, magari<br />
sotto ad un albero di Natale radicato in frasi come<br />
“because I’m gonna make th<strong>is</strong> place your home”. Home,<br />
manco a dirlo, sembra un clone - anche ben riuscito - di<br />
un qualsiasi (tanto per sottolineare nuovamente la poca<br />
varietà presente in Babel) brano dei Mumford & Sons<br />
con la partecipazione degli Arcade Fire a fare la coda.<br />
L’album di debutto di Phillip Phillips, pubblicato via Interscope<br />
e 19 Entertainment, si intitola The World from<br />
<strong>the</strong> Side of <strong>the</strong> Moon e parte certamente dai r<strong>is</strong>volti<br />
trad di Marcus Mumford&co ma va a toccare corde - anche<br />
vocali - più vicine a certe cose (private dei tecnic<strong>is</strong>mi<br />
free-jam del caso) della Dave Mat<strong>the</strong>ws Band come in<br />
Hold On, in Get Up Get Down e in una Drive Me a r<strong>is</strong>chio<br />
plagio concettuale.<br />
Realizzato con la collaborazione di Gregg Wattenberg<br />
(non a caso già con roots pop-rockers quali Train, Five<br />
For Fighting e O.A.R.), The World from <strong>the</strong> Side of <strong>the</strong><br />
Moon è il classico prodotto di chi punta dritto all’obiettivo<br />
- le classifiche - mettendo in secondo piano tutto<br />
il resto. I pro sono quindi quasi tutti da ricercare nella<br />
facilità con cui Phillip trova gli hook melodici mentre tra<br />
i - tanti - contro abbiamo cori quasi parrocchiali (Where<br />
We Came From, la probabile hit Gone, Gone, Gone), produzioni<br />
da blockbusters OST (Tell Me A Story), eccessi<br />
zuccherosi e alcuni ritornelli talmente stucchevoli (So<br />
Easy) da generare l’effetto contrario.<br />
The World from <strong>the</strong> Side of <strong>the</strong> Moon è un album bidirezionale:<br />
da una parte Mumford e dall’altra<br />
Mat<strong>the</strong>ws.M&M’s e tutto torna.<br />
(5.3/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
pinCh - miSSing in ACtion (teCtoniC,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: dubstep<br />
Mentre oggi uno come Skream inizia a generare casi<br />
di malcontento tra i fan per abbandono del tetto coniugale,<br />
Pinch aveva iniziato un’inesorabile deriva verso<br />
la New Wave Of Techno già due anni fa con le varie<br />
Croydon House, Retribution e Paranormal Activity, tracce<br />
che ridefinivano certi contorni dance con equilibrio<br />
e autorità, senza crear troppo scompiglio. Un percorso<br />
di rinnovamento che ha trovato espressione definitva<br />
proprio quest’anno (l’ottimo FabricLive.61) ma che non<br />
ha mai completamente d<strong>is</strong>tolto il producer br<strong>is</strong>toliano<br />
dalle genuine profondità del dubstep. In questo senso<br />
vanno il valido album in collaborazione con Shackleton<br />
e questo M<strong>is</strong>sing In Action, che segna il ritorno nei luoghi<br />
del delitto sotto forma di raccolta di rarità e inediti<br />
prodotti dal 2006 al 2010.Rob Ell<strong>is</strong> rinvia dunque a data<br />
da destinarsi il seguito in studio di Underwater Dancehall,<br />
e si ripresenta nelle vesti di label manager attento ai desideri<br />
del pubblico, mantenendo alto il profilo tecnico e<br />
preferendo evitare certe versioni/v<strong>is</strong>ioni personali che,<br />
Mala insegna, richiedono coraggio e sforzo mediatico.<br />
Meglio agire con cautela dunque, mettendo sì in gioco<br />
le r<strong>is</strong>poste nu soul al giro post-Blake & SBTRKT (nel personale<br />
approccio esotico di Dil Da Rog Muka Ja Maha,<br />
ovvero dell’arab-soul) ma lasciando il centro del palco<br />
ai personali fondamenti, mai sconfessati, del producing<br />
elettronico 00s e all’arte del remixing.<br />
In 12 tracce, dal 2006 al 2010, M.I.A. presenta il biglietto<br />
da v<strong>is</strong>ita di una vecchia volpe che puntella ai fianchi il monolite<br />
dubstep: materia giocata per raffinazioni successive<br />
(la spendida 136 Trek tutto stepping in chiaroscuro +<br />
polveri di stelle old skool <strong>house</strong>), curata a livello tattile del<br />
campione ritmico come da tradizione trip-hop (Motion<br />
Sickness, E.Motive), chiara (reggae/dancehall) come scura.<br />
Con il wobble nelle vene (Cave Dream). Dal cuore tech<br />
che batte per Detroit (Mutate(d), ovvero il rework di 30Hz,<br />
ovvero il citato Ginzburg) senza che lo sguardo si neghi<br />
ai tagli ambient (ancora la citata E.Motive, Attack Of The<br />
Giant Robot Spiders!) oltre che ai tocchi soul (via 2 step),<br />
<strong>house</strong> (ancora Mutate(d)), fondamenti reggae (la versione<br />
di R<strong>is</strong>e Up di Henry & Lu<strong>is</strong> con il feat. in ragammuffin di<br />
Steve Harper), dancehall (Chamber Dub) e pop (Qawwali<br />
VIP, il remix di Emika Double Edge).<br />
Ancora una volta, assieme alle compile Dubstep Allstars, i<br />
nostalgici del genere avranno un paladino da osannare,<br />
del resto questa è anche materia destinata ai cultori di<br />
ogni categoria elettronica.<br />
(7.2/10)<br />
edoArdo briddA<br />
prinCe rAmA - top ten hitS oF <strong>the</strong> end oF<br />
<strong>the</strong> world (pAw trACkS, novembre 2012)<br />
Genere: now-aGe<br />
Tanto erano credibili i paralleli fra le assurde personalità<br />
- background in una comune Hare Kr<strong>is</strong>hna, letture e manifesti<br />
prodigati da pozze di sangue, esorc<strong>is</strong>mi di gruppo<br />
su VHS - e le rotelle altrettanto fuori posto rinvenibili nel<br />
melt di psych, raga/free-folk e now-age, fino a Shadow<br />
Temple (2010) di dubbi ne avevamo pochi: il trio dietro al<br />
progetto Prince Rama c’era ben più di quanto ci facesse,<br />
nel senso che faceva quel che faceva perchè quella era<br />
la natura alla base.<br />
Soltanto un anno dopo, ecco la fuoriuscita di Michael<br />
Collins, con la band che diventa appannaggio esclusivo<br />
delle sorelle Larson e il deludente Trust Now a farci annusare<br />
una deriva terzo/quartomond<strong>is</strong>ta da freak sfattone<br />
che di colpo appariva un po’ forzata. Ora, infine,<br />
il terzo lavoro su Paw Tracks a consolidare tale deriva,<br />
con l’aggravante di un’apertura ad uso e consumo di un<br />
pubblico sempre più vasto (e modaiolo) che affossa ogni<br />
parvenza di attitudine del tutto non calcolata.<br />
Tops 10 Hits Of The End Of The World è concepito come<br />
un souvenir post-apocalittico, ovvero una pseudo-compilation<br />
di singoli firmati dalle dieci band (fittizie) che<br />
stavano ai vertici delle chart prima di perire allo scoccare<br />
del giorno del giudizio. Il concept non è nuovo (Sonny<br />
Smith aveva già gestito art<strong>is</strong>ti immaginari nel suo 100<br />
Records) ma r<strong>is</strong>ulta comunque interessante e di grande<br />
potenziale, specie se messo in prossimità del responso<br />
della profezia Maya e in balia di due menti malate come<br />
quelle di Taraka e Nimai.<br />
E infatti tutto il corredo del d<strong>is</strong>co è un capolavoro demenziale:<br />
cover ultra-goofy a parte, per ogni band<br />
- tra cui spiccano nomi come Taohaus, Hyparxia e<br />
I.M.M.O.R.T.A.L.I.F.E che già di per sè meritano - ci sono<br />
anche le press photos, i tag di genere - motorcycle rock,<br />
new-wave grunge, ghost-modern glam, etc - e delle<br />
bios che, fra culti erotici infiltrati nelle d<strong>is</strong>co underground<br />
ed act generati al computer, sono tra le cose più divertenti<br />
ci siano capitate per le mani di recente.<br />
Lo stesso non si può dire del contenuto musi<strong>cale</strong>. La<br />
buona resa della mossa volta all’immediata appetibilità<br />
attraverso la diluizione dei tratti ricorrenti - droni arabeggianti<br />
e new-age, blend di cheesy-d<strong>is</strong>co e goth-rock,<br />
percussioni tribal<strong>is</strong>sime e riverbero cosmico - regge soltanto<br />
per quattro pezzi, scadendo poi in un pasticcio di<br />
generico, scarsamente <strong>is</strong>pirato retro synth-pop, tra imbarazzi<br />
bollywoodiani (Radhamadhava) e nostalgie lato<br />
Bananarama (Exerc<strong>is</strong>e Ecstacy). Non solo: col volgere al<br />
termine di So Destroyed - appunto la traccia #4 - va a<br />
perdersi anche un qualsiasi contatto con l’idea di fondo,<br />
sia per la varietà di proposta - ben inferiore a quanto<br />
implicitamente richiesto -, sia per la assenza di ulteriori<br />
ep<strong>is</strong>odi che ne rinnovino il “panico concettuale”. Per intenderci,<br />
quanto egregiamente fatto dai canti meta-rituali<br />
dell’opener Blade Of Austerity e della contigua Those<br />
Who Live For Love Will Live Forever. Per le Prince Rama è<br />
un’altra occasione sprecata.<br />
(6/10)<br />
mASSimo rAnCAti<br />
produCerS - mAde in bASing Street (<strong>the</strong><br />
lASt lAbel, novembre 2012)<br />
Genere: aor/aaa<br />
Sono in quattro, arrivano da Londra, si fanno chiamare<br />
Producers ma non sono l’ennesima nuova band destinata<br />
alle copertine di NME, tutt’altro. Suonano insieme<br />
da sei anni e all’anagrafe sono Lol Creme, Trevor Horn,<br />
Steve Lipson e Ash Soan.<br />
Un progetto guidato da due assi del pop inglese, music<strong>is</strong>ti<br />
di fama mondiale prima ancora di dedicarsi in primo<br />
luogo alla produzione: l’occhialuto Trevor Horn - nei<br />
Baggles di Video Killed <strong>the</strong> Radio Star, negli Yes di Owner<br />
of a Lonely Heart e negli Art Of No<strong>is</strong>e del superclassico<br />
Moments in Love - e il sessantacinquenne Lol Creme,<br />
già negli Art Of No<strong>is</strong>e della reunion di fine millennio e<br />
presenza storica dei 10cc di (compresa I’m Not in Love).<br />
Stephen Lipson è stato v<strong>is</strong>to spesso a fianco di Horn (ad<br />
esempio per Slave to <strong>the</strong> Rhythm di Grace Jones), mentre<br />
l’ex Del Amitri Ash Soan - il più giovane del gruppo - ha<br />
recentemente lavorato come sessionman dietro alle pelli<br />
per molte star dell’UK pop.<br />
L’album di debutto Made In Basing Street esce per<br />
la The LAST Label, branchia della ZTT Records fondata<br />
trent’anni fa dallo stesso Horn, dopo mesi passati - guestate<br />
di Will Young e Jamie Cullum comprese - sui palchi<br />
di mezzo mondo. Nonostante siano producer, la dimensione<br />
ideale della band è infatti quella live, situazione<br />
perfetta per sfoggiare anni e anni di esperienza e una<br />
perizia tecnica sopraffina, davanti ad un pubblico nostalgico<br />
dell’AOR-era.<br />
Made in Basing Street - così intitolato in quanto reg<strong>is</strong>trato<br />
ai SARM/Basing Street Studios - inizia con quell’incrocio<br />
tra Live And Let Die e i TOTO più leziosi che è Freeway.<br />
Soft rock (Waiting For The Right Time) e cori che<br />
rimandano a quella che a cavallo tra ‘70 e ‘80 era probabilmente<br />
la scena meno interessante che l’industria musi<strong>cale</strong><br />
aveva da offrire: tappeti di tastiere, arrangiamenti<br />
e guizzi chitarr<strong>is</strong>tici che sembrano uscire a seconda dei<br />
casi da Sanremo 1980 (o anche 2012, cambia poco) o dai<br />
cd di Beppe Maniglia (Your Life). Qualche riffetto accennato<br />
(You And I) e una parte centrale del d<strong>is</strong>co pseudo-<br />
84 85
acustica (Stay Elaine, Barking Up The Right Tree) che alza<br />
ulteriormente un livello di glucosio già molto elevato.<br />
Dieci tracce costruite su struttre di layer, strumentali e<br />
vocali, impilati da una mano dolce e inoffensiva. Pacchiana.<br />
Anche dai titoli dei brani (l’onesta Every Single Night in<br />
Jamaica ad esempio) è chiaro che i quattro Producers<br />
puntino tutto sull’effetto nostalgia, ma non siamo né di<br />
fronte ad una nascita di un revival prog-soft-aor (fortunatamente),<br />
né di fronte ad un prodotto in grado di<br />
trovare nuovi adepti alla causa. Made in Basing Street<br />
sarebbe stato un arcaico d<strong>is</strong>co da cestino automatico già<br />
trent’anni fa, figuriamoci oggi.<br />
(3.5/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
rihAnnA - unApologetiC (deF JAm<br />
reCordingS, novembre 2012)<br />
Genere: pop / r’n’b<br />
Per ben tre album, dal primo Music Of The Sun a Good<br />
Girl Gone Bad, Rihanna era riuscita a gestire con una<br />
certa dignità la propria figura di star pop/r’n’b dalle diverse<br />
influenze, e se pensiamo a quanto aggressiva e<br />
invadente sia l’industria musi<strong>cale</strong> USA degli ultimi anni,<br />
non è poco. Ma col mainstream, si sa, la genuinità non<br />
dura mai e dal 2009 l’art<strong>is</strong>ta caraibica è diventata una<br />
specie di carrozzone carnevalesco sul quale tutti vogliono<br />
salire (il tasso di v<strong>is</strong>ibilità è troppo allettante), così<br />
che tutti i d<strong>is</strong>chi da Rater R in avanti son finiti per essere<br />
dei puzzle eterogenei studiati a tavolino che non si son<br />
lasciati scappare nessuna delle mode intercorse nel frattempo:<br />
dal dubstep al Gaga style fino al danzereccio pop,<br />
e mai nessuno a chiedersi sul serio se fossero mosse perfettamente<br />
adatte alle qualità del soggetto manipolato.<br />
Per Unapologetic la situazione è ancora così (la svolta<br />
solitamente avviene causa colpo d’orgoglio dell’art<strong>is</strong>ta<br />
stesso, qui non pervenuto) e quel che qualcuno defin<strong>is</strong>ce<br />
“un gran bel mix di generi” in realtà è uno scontro in<br />
galleria di almeno 4-5 diverse traiettorie tra loro incompatibili.<br />
Peccato, perché i primi pezzi sembravano aver<br />
identificato un’immagine efficace da seguire e la stavano<br />
costruendo anche con stile. Fresh Off The Runaway pecca<br />
forse di leggerezza nel rivangare certe sonorità fidget<br />
da autoradio, ma almeno rid<strong>is</strong>egna un volto da bad girl,<br />
resosi necessario dopo il passaggio di Calvin Harr<strong>is</strong> e<br />
spendibile bene in più di un’occasione. Come in Numb,<br />
ad esempio, per riempire con carattere gli spazi abstract<br />
e compensare l’impalpabilità dell’intervento di Eminem.<br />
E molto meglio sono Power It Up e Loveeeee Song, che<br />
finalmente tirano in ballo qualcosa di veramente underground<br />
come la trap music e le sue filettature ritmiche:<br />
mentre sullo sfondo corrono proprio quelle che presumibilmente<br />
saranno le colonne sonore della dance<br />
d’avanguardia dei prossimi anni, il ruolo di Rihanna è<br />
di addolcirne l’effetto con un r’n’b essenziale e black, riportandole<br />
a una dimensione più ascoltabile e fruibile,<br />
sinuosa nella prima e malinconica nella seconda. Mossa<br />
coraggiosa al di là delle ragioni che ci stanno dietro, soprattutto<br />
perché si svincola dal solito schema caro a Mtv<br />
e anche da quello che i fan potevano aspettarsi.<br />
Il resto dell’album, ovviamente, non poteva correre<br />
dietro teoremi tanto r<strong>is</strong>chiosi e va quindi a cercarsi le<br />
proprie ricette appetibili secondo i canali classici, ballate<br />
pop sul mieloso andante come Stay e Get Over With It<br />
(che su un d<strong>is</strong>co r’n’b di un certo livello non dovrebbero<br />
starci), riciclo di suoni indie rock collaudati (Lost In Parad<strong>is</strong>e,<br />
Love Without Tragedy) e onoroficenze devote verso<br />
il pop che conta (Nobody’s Business con Chr<strong>is</strong> Brown, che<br />
trapela invidia stil<strong>is</strong>tica verso chi certe cose le ha dimostrate<br />
negli ‘80, Madonna e Pet Shop Boys). I momenti<br />
peggiori però son due: Jump prova a inseguire il nuovo<br />
dubstep insieme a due esperti del caso come i Chase &<br />
Status, che vedono di non esagerare ma di fatto creano<br />
un conflitto di compatibilità con le movenze di Rihanna<br />
(Katy B già c’è e non è necessario imitarla), mentre<br />
in Right Now - manco a dirlo - David Guetta è sempre<br />
abil<strong>is</strong>simo a far sbiadire ogni eleganza estetica, coprendo<br />
con quantità industriali di dj tools d<strong>is</strong>inibiti al limite<br />
dell’offensivo. Se togli la sostanza capace di d<strong>is</strong>tinguerti<br />
e lasci intatto il jet set, alla fine hai solo un contenitore<br />
luccicante riempito senza molto criterio. E con Rihanna<br />
sta diventando un’abitudine.<br />
(5/10)<br />
CArlo AFFAtigAto<br />
rio mezzAnino - love iS A rAdio (A buzz<br />
Supreme, novembre 2012)<br />
Genere: blues, desert<br />
Quattro anni fa, al loro esordio, i Rio Mezzanino convinsero<br />
un po’ tutti e si ritagliarono apprezzamenti e paragoni<br />
con un certo desert blues-rock di taglia grossa.<br />
La combriccola toscana torna a bomba su quello che<br />
aveva sapientemente costruito, cercando di equilibrare<br />
gli orizzonti e aggiungere solidità al sound.<br />
Love Is A Radio è un d<strong>is</strong>co cupo, granitico, sporcato dalla<br />
polvere di un country-blues deviato e sorretto dalla<br />
voce portante di Bacchiddu, suggestionato dalla ballad<br />
nera e mitologica dei Bad Seeds (Ghost Song, Get Me<br />
Down, Animal), influenzato dall’ombra degli Screaming<br />
Trees (Thorn, A Star), addolcito dagli smussamenti in stile<br />
Calexico (Mint And Holy Water, For Love). Fanno la loro<br />
dignitosa comparsata le ricostruzioni di sassofono e i rit-<br />
mi sbarazzini quando tutto sembra perdersi nella calma<br />
piatta e strasognante di Silver, le rifiniture di archi e il<br />
controcanto femminile in pieno stile western (la sedia<br />
a dondolo cigolante sotto il porticato) di My Enemy JR,<br />
le cattedrali di innovazione sonora in eco Radiohead di<br />
Sleep Togheter.<br />
Tutte le carte sono giocate ben<strong>is</strong>simo e i toni moderati<br />
da dieci ep<strong>is</strong>odi d’amore e non, paradigma affatto scontato<br />
per chi si avvicina al genere. Eppure il castello di<br />
sabbia viene via con un soffio, le canzoni non suggestionano,<br />
non smuovono gli animi (né di chi le esegue né di<br />
chi le fru<strong>is</strong>ce), come se l’apparato esterno fosse troppo<br />
facilmente penetrabile da allagamenti e sconfitte.<br />
(6/10)<br />
nino Ciglio<br />
robbie williAmS - tAke <strong>the</strong> Crown (iSlAnd,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: pop<br />
A luglio 2006, al termine di una sudata esibizione in quel<br />
catino chiamato stadio San Siro, Robbie Williams deteneva<br />
e custodiva lo scettro di Re ind<strong>is</strong>cusso del pop di<br />
tutta Europa. Gradasso e adorato sex simbol, negli anni<br />
precedenti aveva sfanculato i Take That per andarsene<br />
da solo e litigato con un Liam Gallagher che gli dava<br />
del ciccione; si era drogato e alcolizzato; aveva superato<br />
indenne la maledizione dei 27 anni pubblicando singoli<br />
capaci di fare la storia del pop inglese moderno (Angels);<br />
aveva sfornato pupazzate stilos<strong>is</strong>sime (Millenium, che<br />
quasi ruba il posto a Daniel Craig per 007) e confezionato<br />
duetti swing (Something Stupid, cover di Mr. Frankie<br />
Sinatra - e figlia - in compagnia di Nicole Kidman fresca<br />
di oscar); aveva b<strong>is</strong>ticciato furiosamente contro il bigott<strong>is</strong>mo<br />
a stelle e str<strong>is</strong>ce precludendosi definitivamente<br />
il mercato USA (i famosi 10 secondi tolti al videoclip di<br />
Rock DJ). Il concerto meneghino e il tour di quell’anno riuscirono<br />
abilmente a mascherare i primi passi falsi di un<br />
Williams che, staccatosi dal produttore Guy Chamber,<br />
pubblicava prima Rudebox (album dal taglio elettronico<br />
con, tra le altre, la collaborazione dei Pet Shop Boys) e<br />
poi, tre anni più tardi, l’imbarazzante Reality Killed The<br />
Video Stars, con un parterre di produttori quali Trevor<br />
Horn e Mark Ronson (oltre al rientrato Chambers).<br />
Tra i fatti recenti: una reunion con i Take That (Progress)<br />
che si commenta da sola, un fidanzamento con prole,<br />
l’ossessione per gli UFO che quasi gli costa un TSO, e un<br />
“buen” ritiro nei prima odiati e poi amati USA. E dunque<br />
Take The Crown, l’ultima wild card che lasciava presagire<br />
un’amm<strong>is</strong>sione di colpa e, invece, non esaud<strong>is</strong>ce né i<br />
desideri del pubblico general<strong>is</strong>ta né quelli dei fan.<br />
Robbie, che tra le attitudini non ha mai avuto il rock,<br />
decide d’affidarsi a Jacknife Lee, che in curriculum può<br />
vantare gente come U2 e R.E.M. (di cui ha cercato di<br />
ringiovanire il sound) ma anche The Drums e Two Door<br />
Cinema Club. Il r<strong>is</strong>ultato? The Killers che coverizzano gli<br />
U2 (All That I Want, Hunting For You, Not Like The O<strong>the</strong>rs).<br />
Un minestrone r<strong>is</strong>caldato e sciapo in cui, con l’aiuto (?) di<br />
due p<strong>is</strong>chelli provienienti dagli Undercolours troviamo<br />
un bolso papà Williams a d<strong>is</strong>pensare, tra gli uuh e gli ooh,<br />
consigli di saggezza per le giovani generazioni (Be A Boy).<br />
Into The Silence o il singolone Candy - bannato dalla BBC1<br />
perché non in linea con il palinsesto e scritta a quattro<br />
mani con Gary Barlow - dimostrano ancora quanto il<br />
Take That ci sappia fare, ma nel resto della trackl<strong>is</strong>t c’è<br />
troppa svogliatezza e stanchezza.<br />
Con un giro da X-Factor, Robbie i conti li farà ancora tornare,<br />
ma sono lontani i tempi degli stadi e delle ballad<br />
con l’accendino. Take The Crown non r<strong>is</strong>parmia nulla,<br />
neppure le paternali. I sudditi stiano tranquilli, a Buckingam<br />
Palace non sono prev<strong>is</strong>ti smoking rosa e sneakers<br />
blu.<br />
(4/10)<br />
mirko CArerA<br />
roberto “FreAk” Antoni & AleSSAndrA<br />
moStACCi - però quASi ep (Cni, ottobre 2012)<br />
Genere: rock demenziale<br />
Dopo il clamoroso abbandono degli Skiantos (il secondo,<br />
dopo quello dell’80) l’incontenibile Freak Antoni<br />
prosegue i progetti cui aveva già dato vita da un po’ di<br />
tempo insieme alla pian<strong>is</strong>ta Alessandra Mostacci: il duo<br />
di Ironikontemporaneo e il rock della Freak Antoni Band.<br />
Questo EP anticipa un album prev<strong>is</strong>to in primavera e dà<br />
anche l’idea di come i pezzi dei vari repertori passino da<br />
un progetto all’altro (le serate voce e piano che includono<br />
anche brani Skiantos e altri suonati con la Band, e<br />
idem i concerti di questa).<br />
Non si tratta infatti un nuovo volume di Ironikontemporaneo<br />
ma il passaggio al “rock”, almeno su d<strong>is</strong>co, anche<br />
del duo, che allo scopo recluta music<strong>is</strong>ti diversi da quelli<br />
della FAB. Però quasi, melodia che arguta e leggera segue<br />
i movimenti di un testo d’amore apparentemente<br />
classico, riesce dove il pop dei tentativi di mandare la<br />
Buconi a Sanremo realizzati con la FAB r<strong>is</strong>ultavano fuori<br />
contesto (troppo festivalieri e lontani dal resto), cioè riequilibrando<br />
l’elemento pop italiano con l’ironia che Freak<br />
ha già nel timbro vo<strong>cale</strong> e con immagini notevoli quali<br />
“Baciami, fammi passeggiare sulla porcellana dei tuoi denti”<br />
- in Liguria poteva finirci davvero e fare un figurone.<br />
La natura composita dell’approccio recente si vede però<br />
anche nelle collaborazioni: la canzone del titolo ospita<br />
un Luca Carboni evidentemente stufo del pop, mentre<br />
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J-Ax, dopo averla ripresa in un suo live, aggiunge le sue<br />
rime a I gelati sono buoni (la classica Gelati), brano le cui<br />
varie versioni negli anni ne hanno dimostrato una duttilità<br />
inattesa. Dove sei è uno dei pezzi “sanremesi” di cui<br />
sopra (in origine Dove sei stato), arrangiamento diverso e<br />
bello come l’originale ma che non scaccia le perplessità,<br />
Sono un ribelle mamma le toglie gli anni ‘80 della versione<br />
originale animandola di samples nel finale mentre Lettera<br />
alla madre è la Filastrocca della mamma della FAB che<br />
musicava una lettera di Mozart (sboccata come Freak non<br />
è mai stato), qui resa con carillon e scalpitii campionati.<br />
Ottima la title track, buon souvenir per i divertenti concerti<br />
il resto, ma perché cambiare i titoli alle canzoni?<br />
(6.8/10)<br />
giulio pASquAli<br />
ruSko - kApow ep (ruSko reCordingS,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: mainstream dubstep<br />
Dopo la joint venture con i Cypress Hill nell’estivo eppì<br />
Cypressxrusko, Rusko torna sulla media d<strong>is</strong>tanza con un<br />
lavoro in free download di 4 tracce, Kapow.<br />
In un periodo d’oro per il brostep - e l’Owsla con i fari<br />
più che mai puntati addosso - era chiaro che il furbone<br />
di Songs non potesse mancare all’appello. Se condividi<br />
sulla tua bacheca il post facebook, in cambio scarichi<br />
quattro tracce tra il potente e il tamarro con meno attenzione<br />
verso i drop e più enfasi sulle power rhythm<br />
che strizzano l’occhio a Krewella (Yeah), alla trance cara<br />
a Van Bureen (numero uno di dj mag per il 2012, gran<br />
temp<strong>is</strong>mo), a jingle degni di Deadmau5 e Guetta (Bring<br />
It Back), condendo con rigurgiti hardcore/techno europea<br />
come Booyakasha, il pezzo più valido del lotto, forte<br />
anche del tipico Rusko sound.<br />
Vale lo stesso d<strong>is</strong>corso fatto ai tempi dell’album dei Nero:<br />
mainstream dubstep per il general<strong>is</strong>mo di MTV.<br />
(5.4/10)<br />
mirko CArerA<br />
SCott & ChArlene’S wedding - pArA viStA<br />
SoCiAl Club (CritiCAl heightS, ottobre<br />
2012)<br />
Genere: low fi<br />
Basta con questa robetta suonata male e reg<strong>is</strong>trata<br />
peggio, forzatamente sdrucita come i jeans degli adolescenti,<br />
retrograda, con la carica eversiva di un mozzicone<br />
gettato per terra. Tanto i Velvet Underground<br />
erano i Velvet Underground, e comunque non ci sono<br />
più. Punto. Non ci sono più gli Stooges, né i Telev<strong>is</strong>ion.<br />
Non c’è più l’epoca che ne legittimava la poetica. Tutto<br />
il resto, o quasi, è revival, sovente fastidioso.<br />
Craig Dermody, l’australiano trapiantato a New York<br />
sotto il moniker di Scott and Charlene’s Wedding, se<br />
ne esce appunto con un d<strong>is</strong>co derivativo e fuori m<strong>is</strong>ura,<br />
sporco come un divano abbandonato accanto a un cassonetto<br />
dell’immondizia, molesto come un ubriaco che<br />
ti viene addosso sul marciapiede alle quattro di notte,<br />
ma scarico di poesia, tensione, tormento e <strong>is</strong>pirazione.<br />
Incentrato su chitarre slabbrate e voce a cazzo di cane,<br />
tra melodie stonate e chiacchiericcio proto punk, Parav<strong>is</strong>ta<br />
Social Club è un d<strong>is</strong>co noioso e pretestuoso, il quale,<br />
più che rievocare i numi tutelari di cui sopra, ne azzarda<br />
una floscia ripresa stil<strong>is</strong>tica.<br />
Unica nota positiva è il packaging, che al di là del r<strong>is</strong>ultato<br />
sonoro denota con tutta probabilità la buona fede del progetto.<br />
Il d<strong>is</strong>co, infatti, fu originariamente stampato in sole<br />
200 copie oggi sold out, ciascuna con una copertina diversa<br />
dipinta a mano dall’autore, e in questa re<strong>is</strong>sue la londinese<br />
Critical Heights ne sceglie 38 che l’appassionato o (sventurato)<br />
ascoltatore potrà intercambiare a suo piacimento.<br />
(4.5/10)<br />
Antonio lAudAzi<br />
SighA - living with ghoStS (hotFluSh<br />
reCordingS, novembre 2012)<br />
Genere: techno<br />
Quel che ha spinto Scuba ad accaparrarsi il giovane<br />
Sigha e tirarselo in quel di Berlino non è dato saperlo,<br />
ma di certo il boss Hotflush negli ultimi tempi ha dimostrato<br />
lungimiranza, giocando, se non in anticipo, almeno<br />
alla pari con i desideri del club teutonico. Lui, con<br />
Triangulation prima e col DJ-Kicks poi, è stato il primo<br />
a smarcarsi dal pantano dubstep e ora il pupillo spinge<br />
a tavoletta sulla autobahn.<br />
La sua è techno sudata e cerebrale, paranoica e senza<br />
fronzoli, fatta di strati programmati, pause and repr<strong>is</strong>e,<br />
dove le ossessioni per la p<strong>is</strong>ta hanno un posto più importante<br />
di stimoli intellettivi che comunque non vengono<br />
trascurati. Mirror e Ascention ricordano l’ultimo<br />
Andy Stott al netto di rassicurazioni soul, ed è qui che<br />
r<strong>is</strong>iedono le angosce e i fantasmi con cui Sigha sembra<br />
convivere. Il d<strong>is</strong>co, del resto, gioca su alienazioni mentali<br />
dur<strong>is</strong>sime e intermittenti come la luce di un neon rotto:<br />
Puritan suona come un avvertimento prima d’intraprendere<br />
il viaggio, è un rito sciamanico sotto cassa dritta che<br />
trasmette rigore al ballo e all’ascolto. Lo stesso basso killer<br />
che ritroviamo in Scenecouple tra ripetizione in levare<br />
e sapienti manipolazioni no<strong>is</strong>e.<br />
A colpire, e in maniera l<strong>is</strong>ergica, sono ancora le iniezioni<br />
di ambient asettica, vicine a quelle usate da Redshape<br />
nell’ultimo Square: i cali di tensione sono indotti e<br />
studiati (She Kills In Ecstasy), il cattedral<strong>is</strong>mo dronico e<br />
incensante (Aokigahara richiama persino Tim Hecker).<br />
Un peccato che questa vena venga sacrificata sull’altare<br />
dell’ortodossia techno. Living With Ghosts, infatti, resuscita<br />
la durezza e le simmetrie care alla minimal (Hatwin,<br />
M_nus o Bar 25 che sia) e d<strong>is</strong>egna uno affresco<br />
dai contorni netti e paranoidi (leggi Shed, Ben Klock<br />
e Marcel Dettmann, quest’ultimo non a caso feticcio<br />
dichiarato dello stesso Scuba). E’ un album funzionale<br />
al club techno di nicchia. 8 euro all’ingresso e buio pesto<br />
in sala. Prendere o lasciare.<br />
(7/10)<br />
mirko CArerA<br />
SikitikiS - le belle CoSe (Autoprodotto,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: electro rock<br />
I Sikitik<strong>is</strong> tornano dopo due anni di assenza con un d<strong>is</strong>co,<br />
Le belle cose, che riprende il d<strong>is</strong>corso là dove il precedente<br />
D<strong>is</strong>chi fuori moda lo aveva lasciato. Una ricerca<br />
in continua evoluzione, che prosegue spedita intorno<br />
a quei territori rock/psych che caratterizzano il gruppo<br />
fin dall’esordio (Fuga dal deserto del Tiki) e che si ritrova,<br />
declinata in più soluzioni - elettronica in prim<strong>is</strong> -, anche<br />
in questo terzo album. Come a dire: la sostanza, l’essenza<br />
vera della musica dei Sikitik<strong>is</strong> è soprattutto nel riuscire a<br />
far convivere - rigorosamente senza chitarre - gli aspetti<br />
più contorti e straripanti del rock con un mix di generi<br />
che varia dal jazz al funk, dal punk al prog, senza mai<br />
tener conto delle categorie precostuite.<br />
Il cocktail lo ritroviamo anche in Le belle cose, a cominciare<br />
dalla title-track, introduzione afrobeat trascinata<br />
dall’incedere funky dei synth, mentre La mia piccola rivoluzione<br />
continua su toni electro 80s uniti all’orecchiabilità<br />
del ritornello. La divertente marcetta di Soli, a cui<br />
partecipa la cantante reggae S<strong>is</strong>ta Namely, è un surfpop<br />
in acido subito rovesciato dalle pulsazioni ambient<br />
di un Aria in cui riecheggia la lezione dei Radiohead di<br />
Kid A. Si procede poi con La casa sull’albero e Hey tu!, altri<br />
ep<strong>is</strong>odi in bilico tra spensieratezza anni ‘60 e tastiere,<br />
con la chiusa affidata all’anima latina di Amori stupidi,<br />
perfetto retro-pop italiano unito alla vocalità sempre<br />
incalzante di Alessandro “Diablo” Spedicati.<br />
Le belle cose è un album che vive di citazioni - dichiarate,<br />
esplicite, riconoscibili - e che passa con grande<br />
d<strong>is</strong>involtura dal cantautorato blues di Bennato e Rino<br />
Gaetano, ai classici di Celentano, alla f<strong>is</strong>icità del punk<br />
unita all’eclett<strong>is</strong>mo del jazz. Il tutto legato, rimasticato e<br />
buttato fuori da quella massiccia dose di ironia e sberleffo<br />
che da sempre contradd<strong>is</strong>tingue la band.<br />
(7.1/10)<br />
giuliA Antelli<br />
Snow pAlmS - intervAlS (villAge green,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: modern classical<br />
Un carillon impazzito di marimbas, xilofoni, vibrafoni e<br />
glockenspiel che tratteggia mini-suite tra minimali orchestrazioni<br />
da camera, folk stranito e cantilene afone su<br />
cui si stratificano elettronica scarna, nebulose di suoni e<br />
corde pizzicate in punta di dita.<br />
Intervals è tutto questo, niente più, niente meno. Piccoli<br />
sketch di romantic<strong>is</strong>mo algido e sognante (post)elettronica<br />
appannaggio della sigla dietro cui si nasconde David<br />
Sheppard - titolare del progetto - e il collaboratore,<br />
non si sa quanto occasionale a questo punto, Chr<strong>is</strong> Leary<br />
aka Ochre.<br />
Musica minima che gioca di stratificazione e accumulo<br />
senza mai r<strong>is</strong>ultare eccessiva, che prende da mondi<br />
diversi - Yann Tiersen e Reich, Moondog e Riley, poliritmie<br />
esotiche e le musiche filmiche di Philipp Glass<br />
- per amalgamare il tutto in un concentrato umorale e<br />
ondivago, a tratti melanconico, spesso giocoso, che si<br />
sviluppa quasi sempre con tonalità soffuse e tinte tenui.<br />
Un album che passerà inosservato per la sua inclassificabile<br />
stravaganza, ma che non mancherà di lasciare un<br />
segno nei coraggiosi che ci si cimenteranno. In <strong>the</strong> night<br />
time, ovviamente.<br />
(6.8/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
SoundgArden - king AnimAl (univerSAl,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: GrunGe<br />
Quando Chr<strong>is</strong> Cornell e compagni si sono sciolti negli<br />
anni ‘90, in fondo non avevano lasciato nulla d’intentato.<br />
La loro parabola creativa era giunta al termine per naturale<br />
esaurimento. A un ascolto attento, e non influenzato<br />
dall’entusiasmo per quello che era stato Superunknown,<br />
in Down On The Upside r<strong>is</strong>ultava evidente una certa usura<br />
del loro armamentario musi<strong>cale</strong>, che poi era quello di<br />
tutto il genere che avevano contribuito a <strong>is</strong>pirare. Piuttosto<br />
che fare altri d<strong>is</strong>chi di routine scelsero di sciogliersi,<br />
una dec<strong>is</strong>ione saggia e di una certa onestà intellettuale.<br />
Come si fa a riaprire, quindici anni dopo, un d<strong>is</strong>corso<br />
chiuso in questo modo?<br />
Se escludiamo ragioni essenzialmente economiche che<br />
ci possono stare, l’operazione comeback più ancora che<br />
di revival sa di commemorazione, se non altro perché il<br />
ritorno dei Soundgarden si è sovrapposto al ventennale<br />
di Nevermind dei Nirvana e ai vent’anni di carriera dei<br />
Pearl Jam. Un modo per dire che c’erano anche loro,<br />
oppure la dimostrazione che il grunge è ormai un genere<br />
storicizzato; al di là di una breve stagione e dei suoi<br />
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interpreti originari non ha saputo produrre una degna<br />
continuazione.<br />
Tranne in casi di nadir estremo, e questo non lo è, spesso<br />
i “ritorni” d<strong>is</strong>cografici non aggiungono e non tolgono<br />
nulla alla carriera dei titolari. Di fatto, sono d<strong>is</strong>chi superflui.<br />
King Animal è un album troppo lungo, alcuni brani<br />
si potevano tranquillamente sforbiciare. Per il resto, i<br />
Soundgarden ci provano. B<strong>is</strong>ogna riconoscerlo. Provano<br />
a fare cosa? Ad aggiornarsi, o meglio a riproporsi in<br />
modo credibile.<br />
Il loro sound era già di per sé il frutto di un’operazione<br />
di aggiornamento dell’hard rock degli anni ‘70 r<strong>is</strong>petto<br />
a ciò che era venuto dopo: il punk, la new wave e l’indie<br />
rock americano degli anni ‘80. In Screaming Life i riff<br />
cavernosi dei Black Sabbath e il dinam<strong>is</strong>mo ritmico/chitarr<strong>is</strong>tico<br />
dei Led Zeppelin andavano a braccetto con un<br />
art rock abrasivo, derivato dal dark punk britannico e<br />
dalle tossiche riv<strong>is</strong>itazioni post-punk di scuola SST (Black<br />
Flag) e Touch And Go (Die Kreuzen, Killdozer, Butthole<br />
Surfers). Ultramega OK metteva curiosamente in evidenza<br />
le radici blues dello stesso sound, Louder Than Love<br />
era una sorta di d<strong>is</strong>co a doppio taglio, che giocava in<br />
modo ambiguo con gli stereotipi del metal, quanto Badmotorfinger<br />
plasmava in una direzione più psichedelica<br />
e progressiva il loro stile ormai maturo: un power rock<br />
alternativo di cui Superunknown incarna invece il classico,<br />
apogeo di un tardo suono di Seattle prossimo alla<br />
fine. Da dove si riparte quindici anni dopo?<br />
Le premesse non sono granché. La copertina è un funesto<br />
presagio, anche se le scelte di grafica e videoclip<br />
del gruppo sono state spesso brutte e kitsch: è un<br />
elemento di continuità con il passato di cui avremmo<br />
fatto a meno, ma per altri versi è un tratto familiare da<br />
cui riconosciamo in filigrana la vecchia e cara band. Il<br />
singolo pomposetto e autoindulgente, Been Away Too<br />
Long, concessione al riff troppo facile e al boogie metal<br />
più dozzinale, è una parentesi fortunatamente chiusa<br />
già al secondo pezzo. Non-state Actor e By Crooked Steps<br />
sono due brani molto più dinamici e interessanti, specialmente<br />
sotto il profilo strumentale, intendendo anche<br />
la voce tenorile di Cornell come uno strumento insieme<br />
alla chitarra di Thayil e alla fondamentale sezione ritmica<br />
di Cameron e Shepherd. Sono anche i pezzi in cui i<br />
Soundgarden sembrano rendere meglio come band e<br />
reinventarsi partendo dal loro versante più progressivo<br />
e psichedelico. Su questa falsariga, A Thousand Days<br />
Before è la canzone più piacevole e sorprendente: il suo<br />
raga-rock suona come un omaggio alle indimenticate<br />
origine indiane di Thayil ma anche al lato più curioso e<br />
l<strong>is</strong>ergico dei Soundgarden. Il dinosauro si è scrollato un<br />
po’ d’anni dal groppone? Sarebbe bello.<br />
In realtà, nel blocco centrale del d<strong>is</strong>co le cose vanno<br />
meno bene, anche se si naviga a v<strong>is</strong>ta senza veri scivoloni.<br />
Il quartetto specula sul proprio stile classico e maturo<br />
in Blood on <strong>the</strong> Valley Floor, Bones of Birds e Taree. È<br />
un ep<strong>is</strong>odio estemporaneo ma gradevole Attrition, un<br />
ibrido indie rock che ricorda i Dinosaur Jr. La parte conclusiva<br />
è quella che, francamente, ci convince di meno.<br />
Nel grunge semiacustico di Black Saturday e nel folk pop<br />
di Halfway There sembra di ascoltare un d<strong>is</strong>co sol<strong>is</strong>ta di<br />
Cornell con gli altri ridotti a backing band. Worse Dreams<br />
si salva in corner con il rovente finale psichedelico. Gli<br />
ultimi due pezzi, no: parliamo dei Black Sabbath virati<br />
soul (in verità, un mezzo pasticcio) di Eyelids Mouth e di<br />
Rowing, una specie di mantra-blues tirato troppo per le<br />
lunghe. Nel complesso, basta per sfiorare una sufficienza<br />
r<strong>is</strong>icata, peccato per i buoni spunti che la prima parte<br />
lasciava intravedere.<br />
(5.9/10)<br />
tommASo iAnnini<br />
StArred - priSon to priSon ep (pendu<br />
Sound, novembre 2012)<br />
Genere: narcotic-dreamfolk<br />
Ennesima coppia uomo-donna a r<strong>is</strong>chio hype? Ennesimo<br />
progetto con base a Brooklyn? Sì, ma non solo.<br />
Il progetto Starred ruota attorno alla figura di Liza Thorn<br />
e alle intuizioni di Mat<strong>the</strong>w Koshak. Liza, californiana,<br />
cresciuta a San Franc<strong>is</strong>co ed emblema di eccessi autod<strong>is</strong>truttivi,<br />
per un periodo è stata la Courtney Love<br />
dell’ex-Girls Chr<strong>is</strong>topher Owens (quando i due si facevano<br />
chiamare Curls).<br />
L’EP Pr<strong>is</strong>on To Pr<strong>is</strong>on arriva dopo il singolo (escluso dalla<br />
trackl<strong>is</strong>t) No Good, accompagnato da un video che rende<br />
bene l’idea delle suggestioni che il duo è in grado di<br />
creare. Sei tracce per circa venticinque minuti di musica,<br />
Pr<strong>is</strong>on To Pr<strong>is</strong>on EP si apre con l’ottimo biglietto da v<strong>is</strong>ita<br />
Call From Par<strong>is</strong>: chitarra acustica ed echi dream... un<br />
incrocio tra desolazione country-folk<strong>is</strong>h e statiche atmosfere<br />
narcoticho/funeree. Pensate alla EMA di California<br />
che gioca con i Mazzy Star.<br />
La successiva e spiazzante Sure Bet muove le carte in tavola<br />
portando drum beats incalzanti e riff elettrici che<br />
forse stonano all’interno di un set che torna sulle lande<br />
desertico-oniriche già con la successiva La Drugs: tappeto<br />
di organi, lullaby-piano e una chitarra che a metà<br />
del brano sfocia in un lancinante e spettrale mini assolo.<br />
Aperture vicine al fuzz-pop (hanno aperto per le Dum<br />
Dum Girls di recente) in Commitee, e lento e lugubre<br />
crescendo dream-folk - con intro Badalamentiana - in<br />
direzione spazio in Cemetery. Chiude Light, ipnotica meditazione<br />
strimpellata.<br />
Evocativa e senza tempo, la musica contenuta in Pr<strong>is</strong>on<br />
To Pr<strong>is</strong>on EP non lascia indifferenti: uno di quegli esordi<br />
in grado di attirare l’attenzione all’<strong>is</strong>tante.<br />
(7/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
Submotion orCheStrA - FrAgmentS<br />
(exCeptionAl, diCembre 2012)<br />
Genere: downstep / nu jazz<br />
Finest Hour - l’album di debutto della Submotion Orchestra<br />
- lo scorso anno non è stato incluso nelle yearend<br />
charts più quotate, ma più o meno tutti quelli che<br />
lo hanno ascoltato ne hanno tessuto le lodi.<br />
Nata nel 2009 a Leeds su comm<strong>is</strong>sione della Arts Council,<br />
la band è formata dal batter<strong>is</strong>ta jazz Tommy Evans, dal<br />
percussion<strong>is</strong>ta dal tocco latino Danny Templeman, dal<br />
bass<strong>is</strong>ta Chr<strong>is</strong> Hargreaves, dal tastier<strong>is</strong>ta Taz Modi, dai fiati<br />
di Simon Beddoe e dalla voce di Ruby Wood, laureata<br />
al Leeds College of Music’s con formazione jazz. Dirige<br />
l’orchestra m<strong>is</strong>ter Dom Howard aka Ruckspin, ovvero<br />
metà del progetto chillstep Author. Detta così è facile<br />
pensare alla cocktail music da Buddah Bar.<br />
In un certo senso è così: la Submotion Orchestra parte<br />
dalle diramazioni cool-chic anni ‘90 e le modernizza<br />
con sonorità contemporanee. Nel secondo album Fragments<br />
abbiamo infatti un concentrato di frammenti vellutati<br />
figli dell’acid e del nu jazz, battute lente tra downtempo<br />
(Zero 7) e certe cose trip hop (Morcheeba) e la<br />
profondita dei bassi dubstep. E’ chillstep che non d<strong>is</strong>degna<br />
il drop: provate ad togliere mentalmente tutta la<br />
componente beat e wub-centrica da brani come Fallen,<br />
rimane un pop da lo<strong>cale</strong> jazz, con tutti i pro e i contro<br />
del caso.<br />
It’s Not Me, It’s You è un m<strong>is</strong>to tra trance-voices, SBTRKT e<br />
impianto jazzy di chitarra e tromba, Thousand Yard Stare<br />
è puro dubstep, privo dell’aurea dui Ruby Wood ma arricchito<br />
da fiati sbilenchi, impro pian<strong>is</strong>itici ed archi, mentre<br />
ad ampliare ulteriormente la contaminazione temporale<br />
ci pensa lo spokern-rap di Rider Shafique che sul finale<br />
di Times Strange riporta la mente ad alcune cose di Roni<br />
Size & Reprazent senza ritmiche d&b. Nella conclusiva<br />
Coming Up For Air troviamo infine anche sonorità orchestrali<br />
con crescendo quasi post-rock (vagamente The Cinematic<br />
Orchestra se vogliamo). Il brano simbolo del<br />
set è probabilmente Blind Spot con Roby protagon<strong>is</strong>ta<br />
(ma sempre in bilico tra sublime diva soul e vocal<strong>is</strong>t da X<br />
Factor), basso che cresce sottopelle, giri che aumentano<br />
ed esplosione droppata con l’arrivo della batteria.<br />
Quando tutto torna ed è calibrato nel modo giusto la<br />
Submotion Orchestra riesce a creare un gioco di atmosfere<br />
piuttosto intrigante, il r<strong>is</strong>chio stucchevolezza<br />
però è spesso dietro l’angolo ed è un peccato, soprattutto<br />
considerate le qualità dei singoli e la produzione<br />
di Ruckspin, che speriamo essere più presente in futuro.<br />
(6.5/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
tAylor deupree - FAint (12k, novembre<br />
2012)<br />
Genere: ambient / field recs<br />
Deupree ha dimostrato con Nor<strong>the</strong>rn di saper trattare<br />
le sostanze musicali sottil<strong>is</strong>sime e delicate. E di avere la<br />
competenza per far abitare il “minimal<strong>is</strong>mo digitale” con<br />
la musica concreta. Sono passati sei anni e la pasta della<br />
musica dell’elettroacustico di New York non ricerca molte<br />
differenze: i suoni sono trovati, il retroscena riecheggia<br />
Brian Eno e il ciclo di passaggio da musica da ambienti<br />
/ musica da pensiero / generativa. Faint è “ontologicamente”,<br />
per usare un termine speso dallo stesso autore,<br />
fatto di quella cons<strong>is</strong>tenza dell’incapacità di capire se si<br />
è nella veglia o nel sonno.<br />
Quello stato ha una peculiare sostanza e l’ultimo album<br />
di Taylor ne va in cerca. Sarebbe molto comodo fare<br />
scorrere le metafore, cosiccome Taylor fa scorrere i field<br />
recording sul tappeto pseudo-generativo dell’ambiente<br />
musi<strong>cale</strong>. E dato che il music<strong>is</strong>ta non ne r<strong>is</strong>parmia nella<br />
descrizione testuale del d<strong>is</strong>co, né usando altri supporti:<br />
la versione Deluxe di Faint è un box che comprende<br />
anche un bonus CD contenente la versione estesa (38<br />
minuti) di Thaw - uno dei brani originariamente sviluppantesi<br />
in 11 minuti e mezzo di classica ambientale - ma<br />
soprattutto un set di riproduzioni di 12 foto che Deupree<br />
in persona ha scattato con una macchina fotografica di<br />
plastica.<br />
Anziché cedere alle metafore e agli aggettiv<strong>is</strong>mi, citiamo<br />
una similitudine: chi ha mai fatto un esercizio di campionamento,<br />
magari di quelli scientifici, da archeologo,<br />
strappi da parete o cogliere da terra un pezzo di arbusto<br />
o una ceramica da catalogare e categorizzare, sa ben<strong>is</strong>simo<br />
che la sostanza che ci si trova in mano appare,<br />
un <strong>is</strong>tante dopo averla “rubata”, fragil<strong>is</strong>sima. Come se si<br />
rompesse al solo sguardo. Così l’ambientazione elettronica<br />
che Deupree allest<strong>is</strong>ce per i suoi suoni: è come se<br />
cercassero di contenerne l’indole a scomparire. Come in<br />
una campana di vetro.<br />
(7/10)<br />
gASpAre CAliri<br />
<strong>the</strong> 1975 - Sex ep (vAgrAnt, novembre 2012)<br />
Genere: post r&b o pop-rock<br />
L’attuale scena mancuniana ha b<strong>is</strong>ogno di almeno due<br />
o tre nomi in grado di portare nuovamente Manchester<br />
90 91
tra le grandi capitali della musica. Secondo alcuni uno di<br />
questi potrebbe essere quello dei The 1975, quartetto<br />
guidato da Matt Healy che sembra destinato a generare<br />
un d<strong>is</strong>creto buzz nei prossimi mesi.<br />
Il progetto di realizzare tre EP prima del debutto lungo<br />
atteso per il 2013, ha già dato alla luce gli extended play<br />
Facedown (uscito questo agosto) e il recente Sex. Due<br />
EP sicuramente non ancora abbastanza esplicativi e non<br />
ancora in grado di definire la loro direzione musi<strong>cale</strong>:<br />
in poche parole, in tutta onestà, non ci ho capito nulla.<br />
Sex EP propone ad inizio trackl<strong>is</strong>t Intro/Set 3, un liquido<br />
e sospeso battito elettronico sulle quali si armonizzano<br />
diverse voci e loops a creare qualcosa di non troppo lontano<br />
dal concetto di post-r&b. Undo, la seconda traccia,<br />
sembra confermare una proposta sonora che propende<br />
verso un pop piuttosto slow, filtrato da un comparto di<br />
beats che ruota attorno all’universo nu r&b. Il r<strong>is</strong>ultato,<br />
nel complesso, convince.<br />
Proprio quando sembra di essere di fronte ad una versione<br />
radiofonica di How To Dress Well, arriva l’uptempo<br />
power-pop Sex e pensi di aver inserito per sbaglio un cd<br />
dei Bloc Party (nell’attacco), un cd dei Jimmy Eat World<br />
(nella strofa) o di qualche pagliaccio “emo”-pop (nel ritornello):<br />
Sex è praticamente l’opposto musi<strong>cale</strong> di Undo,<br />
sotto tutti i punti di v<strong>is</strong>ta (approccio, influenze, strumenti<br />
e vocalità). La conclusiva You invece va a parare su coordinate<br />
pop rock in zona Snow Patrol/Coldplay.<br />
Attualmente in studio con Mike Crossey (Arctic Monkeys,<br />
Foals, Razorlight), a questo punto per i giovan<strong>is</strong>simi The<br />
1975 le strade percorribili sono due: tentare di seguire<br />
la scia della scena alt-r&b o buttarsi completamente sul<br />
pop-rock da classifica. Scopriremo presto quale sceglieranno,<br />
ora come ora siamo al cospetto di una grande<br />
incognita.<br />
(6/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
<strong>the</strong> ex/getAtChew mekuriA - y’AnbeSSAw<br />
tezetA (terp, novembre 2012)<br />
Genere: world<br />
Non ti guadagni il titolo di “negus del sax” a caso. Te lo<br />
guadagni perché hai più di 75 anni e un sacro fuoco che<br />
arde dentro. Che ti porta a scrivere musica nonostante<br />
l’età, nonostante un passato burrascoso, nonostante<br />
il (metaforico) bastone che porti per sostenerti. E per<br />
fare la tua musica, che è un messaggio universale senza<br />
tempo né spazio, riesci perfino ad unirti ad un gruppo<br />
di punk anarchici olandesi, per un clash of <strong>the</strong> titans, per<br />
non dire di culture, storie, mondi, che ha dell’incredibile.<br />
Così come dell’incredibile ha la musica che fuoriesce da<br />
questa ennesima perla di un mondo trasversale, globale<br />
nel senso più puro e genuino del termine, figlio di quel<br />
melting pot culturale che tanto apprezziamo e che invece<br />
spesso se non sempre viene sacrificato sull’altare<br />
del mercimonio.<br />
Jazz etiope, malinconico e corale, furioso a tratti e delicato<br />
sempre più spesso, etnico senza essere popular<br />
e avanguard<strong>is</strong>tico senza perdere in immediatezza,<br />
world nel senso più sano, come se il neolog<strong>is</strong>mo glocal<br />
prendesse finalmente un senso in forma musi<strong>cale</strong>. È un<br />
mondo in apparenza a noi alieno, d<strong>is</strong>tante nello spaziotempo<br />
ma vicino antropologicamente. Un mondo in cui<br />
convivono tracce di “blues etiope”, tezeta e jazz spirituale<br />
della prima ora in forme rielaborate e personali, ma che<br />
siamo in grado di apprezzare e decodificare, poiché ci<br />
dimostra come la musica sia un linguaggio universale<br />
che solo le sovrastrutture ci hanno insegnato a suddividere<br />
e recintare. Noi e loro, occidente e oriente, di là e di<br />
qua diventano ad un tratto, mentre si ascolta e si sfoglia<br />
il corpos<strong>is</strong>simo booklet con foto e interv<strong>is</strong>te, mere speculazioni<br />
prive di senso, specie quando in un folgorante<br />
b/n di Matìas Corral ti ritrovi sul palco quattro anarcopunk<br />
olandesi in posa a gambe aperte e chitarre altezza<br />
ginocchio e il negus lì con loro, fasciato nei vestiti della<br />
sua tradizione e inforcato il sax come fosse una chitarra,<br />
nella più totale normalità.<br />
Gente che non comunica a parole (Getatchew speaks<br />
Amharic and a tiny bit of Engl<strong>is</strong>h and we speak engl<strong>is</strong>h<br />
and dutch and a tiny bit Amharic. Th<strong>is</strong> made work in <strong>the</strong><br />
rehearsal space a interesting challenge, Andy dixit) ma col<br />
linguaggio atavico della musica. Ed è lì che il miracolo<br />
avviene di nuovo, come sempre. Che assuma le forme<br />
della wedding song, del tradizionale folk, del canto guerresco,<br />
della marcia funebre arricchita di tant<strong>is</strong>simi fiati,<br />
dell’incontro tra bianchi e neri poco cambia. La musica<br />
è un messaggio universale, specie se proviene dalla sapiente<br />
saggezza di un vecchio figlio della grande madre<br />
Africa da dove tutto parte.<br />
(7.8/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
<strong>the</strong> herbAliSer - <strong>the</strong>re were Seven<br />
(depArtment h, ottobre 2012)<br />
Genere: hip hop / jazz funk<br />
Torna dopo quattro anni l’hip hop suonato dei londinesi<br />
Herbal<strong>is</strong>er, Jake Wherry e Ollie Teeba. Storicamente accasati<br />
Ninja Tune, dopo il passaggio su !K7 di Same As It<br />
Never Was, pubblicano questo There Were Seven in odore<br />
di celebrazioni sulla personale Department H, settimo<br />
album in studio in diciassette anni di attività e settima<br />
release, la prima maggiore, della label (attiva dal 2000<br />
ma con uscite centellinate).<br />
La m<strong>is</strong>cela è la solita: calchi di colonne sonore black/<br />
Blaxploitation (e tutto il d<strong>is</strong>co è intr<strong>is</strong>o di omaggi e ammicchi<br />
cinematografici, vedere anche solo la penultima<br />
traccia Danny Glover), cremosità downtempo, densi fiati<br />
e robuste sezioni ritmiche jazzfunk. Titoli di testa e di<br />
coda epici che piacerebbero tanto a Tarantino e RZA,<br />
l’ottimo esperimento reggae/dub di Welcome to Extravagance,<br />
le atmosfere da trip hop felino di The Lost Boy, il<br />
basso pulsante e gli scratch di Crimes & M<strong>is</strong>demeanours,<br />
l’afrofunk/noir di Deep in <strong>the</strong> Woods, il tutto elegantemente<br />
e orgogliosamente - le note stampa parlano di<br />
un time-out from <strong>the</strong> tinny, uninspiring, auto-tune-infected<br />
world of today - fuori dal tempo, diciamo anche datato,<br />
ma in senso buono. Ottimi tutti i feat (Hannah Clive, George<br />
<strong>the</strong> Poet, Teenburger, il duo canadese Twin Peaks),<br />
per un d<strong>is</strong>co di genere classico, condotto con equilibrio<br />
e mestiere, ma sorprendentemente fresco e succoso.<br />
(7/10)<br />
gAbriele mArino<br />
<strong>the</strong> neighbourhood - i’m Sorry... ep<br />
(ColumbiA reCordS, novembre 2012)<br />
Genere: pop rock / hip&b<br />
Continuiamo il focus sulla scena indie->mainstream<br />
della costa ovest degli USA. Dopo Imagine Dragons,<br />
Youngblood Hawk e The New Electric Sound è il momento<br />
di parlare dei The Neighbourhood.<br />
Guidati dal pseudo-attore Jesse James Ru<strong>the</strong>rford, i<br />
cinque giovani californiani hanno saputo in breve tempo<br />
catalizzare l’attenzione di un certo tipo di pubblico<br />
ed i favori delle emittenti radio sia al di qua che al di là<br />
dell’oceano.<br />
Ru<strong>the</strong>rford non nasconde la propria passione per l’hip<br />
hop (prima dei The Neigbourhood faceva parte di un<br />
gruppo rap) all’interno dell’EP di debutto I’m Sorry... nel<br />
quale cercano di presentarsi al mondo attraverso cinque<br />
tracce piuttosto esplicative delle peculiarità e delle velleità<br />
della band.<br />
La linea dei The Neigbourhood insegue quelle band in<br />
grado contemporaneamente di proporsi con sonorità<br />
tanto personali quanto astute a livello di music business.<br />
Un po’ come degli Alt-J deturpati della credibilità art<strong>is</strong>tica,<br />
la band ci consegna cinque tracce sospese tra “indie”<br />
pop-rock, calore r&b-soul e cadenze hip hop.<br />
Female Robbery, accompagnata da un video Hitchcockiano,<br />
evidenzia la produzione di Emile Haynie, tanto<br />
che r<strong>is</strong>ulta facile ritrovare suoni (le bells per esempio)<br />
e scelte stil<strong>is</strong>tiche già cucite addosso a Lana Del Rey.<br />
Batteria a scandire il ritmo del chill-rock vagamente late<br />
‘90s di Leaving Tonight e delle battute downtempo della<br />
strofa di una Baby Come Home che fin<strong>is</strong>ce per riversarsi<br />
in un assolo psy-blues di derivazione sixties. Le aperture<br />
al pop sono maggiormente evidenti nella patinat<strong>is</strong>sima<br />
Sweater Wea<strong>the</strong>r (nella strofa il r<strong>is</strong>chio è quello di avvicinarsi<br />
pericolosamente The Script), graziata da suggestioni<br />
acustiche affogate in un mare di “ouh-ouh-ooohh”.<br />
Chiude l’orecchiabile Wires: voce filtrata, ritmica hip hop<br />
da movimento cranico e chorus appicicoso (“If he said<br />
help me kill <strong>the</strong> president, I’d say he needs medicine”).<br />
I’m Sorry... è un biglietto da v<strong>is</strong>ita dal contenuto anche<br />
interessante - probabile che fin<strong>is</strong>cano in qualche l<strong>is</strong>ta<br />
“new acts 2013” - ma tipografato su del materiale da<br />
centro commerciale.<br />
(5.8/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
<strong>the</strong> ruSt And <strong>the</strong> Fury - mAy <strong>the</strong> Sun hit<br />
your eyeS (lA FAme diSChi, Settembre 2012)<br />
Genere: GaraGe/roots rock<br />
Eccoli i The Rust And The Fury, formazione umbra con<br />
alle spalle quasi dieci anni di attività ma con un esordio,<br />
appunto May The Sun Hit Your Eyes, uscito solo a settembre<br />
scorso per La Fame D<strong>is</strong>chi/Cura Domestica. Un percorso<br />
inconsueto quello dei cinque ragazzi di Perugia,<br />
caratterizzato da diversi cambi di formazione e dalla<br />
volontà di staccarsi dal repertorio originario, virando<br />
dec<strong>is</strong>amente verso i territori più schietti del rock.<br />
Siamo infatti dalle parti di un d<strong>is</strong>co che si rifà tanto al<br />
blues elettrico di Neil Young (e al suo nutrito esercito<br />
di eredi/epigoni) quanto al revival<strong>is</strong>mo garage-wave<br />
di inizio secolo. Gli otto brani della trackl<strong>is</strong>t si reggono<br />
su una volontà cantautorale consapevolmente tenuta<br />
sottopelle e immersa nell’adrenalinica tensione delle<br />
chitarre: quello che succede nell’iniziale Roundabouts,<br />
buona melodia ben amalgamata all’incedere noir del<br />
pezzo, o nella successiva Franc<strong>is</strong> With God, con il suo refrain<br />
catchy (Arcade Fire?) intrecciato alle voci di Daniele<br />
Rotella e Francesca L<strong>is</strong>etto. Voce femminile protagon<strong>is</strong>ta<br />
anche in Laughing For Nothing, con il suo synth-wave in<br />
aria psych in cui il controcanto fra le due chitarre tesse il<br />
crescendo finale del pezzo. C’è anche spazio per accenti<br />
maggiormente sou<strong>the</strong>rn come in Keep On e She Was<br />
Too Late, con un intim<strong>is</strong>mo (espressamente debitore al<br />
sopracitato Young) che rimanda al classic rock dei Band<br />
Of Horses.<br />
May The Sun Hit Your Eyes è un album che vive di stratificazioni<br />
sonore, variazioni dark e riverberi accuratamente<br />
elettrificati che si rivelano ascolto dopo ascolto. Un<br />
esordio nel complesso piuttosto maturo che, pur non<br />
presentando niente che non sia stato già v<strong>is</strong>to e sentito,<br />
r<strong>is</strong>ulta comunque godibile. (6.7/10)<br />
giuliA Antelli<br />
92 93
three SeCond kiSS - tAStyville<br />
(AFriCAntApe, novembre 2012)<br />
Genere: mathrock<br />
Si potrebbe riaprire l’infinito casus belli della “morte del<br />
(math)rock” parlando dell’album numero cinque (e mezzo)<br />
del trio italiano. Riproposizione di uno standard ormai<br />
storicizzato o necessità di sorprendenti svolte a gomito?<br />
Nessuna delle due ed entrambe, perché nel caso<br />
dei bolognesi Three Second K<strong>is</strong>s la classe non è mai stata<br />
acqua e i tempi geologici che Sergio Carlini, Massimo<br />
Mosca e Sasha Tilotta mettono tra una uscita e l’altra -<br />
ne sono già passati quattro di anni da Long D<strong>is</strong>tance, per<br />
dire - stanno a significare riflessione e approfondimento,<br />
lavoro incessante sulla propria materia musi<strong>cale</strong> e continuità.<br />
E così se per incensare l’album precedente ne<br />
parlavamo come dei nuovi Shellac, non per paragonare<br />
i tre al trio americano, quanto per dimostrarne coerenza<br />
e spessore, ora ci ritroviamo nel mezzo del guado.<br />
I TSK sono quelli che conoscevamo: nervosi, ma<strong>the</strong>matici,<br />
accesi dal sacro fuoco dell’irrequietezza e della spigolosità,<br />
ma questa volta sono anche altro. Più ragionati, a<br />
volte melodici, si direbbe, di sicuro meno irruenti e affilati,<br />
specie nelle timbriche delle chitarre di Carlini (che<br />
c’entri l’esordio in solo con Jowjo?). Sempre alla ricerca<br />
di una quadratura ormai nota tra pancia e cervello, tensione<br />
e rilascio, ma che stavolta tende verso lande più<br />
evocative e meno dirette. Arzigogoli e melodie che si<br />
rifrangono e ricompongono appoggiati su una sezione<br />
ritmica mai come ora all’un<strong>is</strong>ono, con connaturate tracce<br />
di un qualcosa di sognante e romantico.<br />
L’opener Caterpillar Tracks Haircut con quell’organo che<br />
più datato e fuori fase non si può, mette già sull’avv<strong>is</strong>o:<br />
gli intarsi chitarr<strong>is</strong>tici e l’indolenza vo<strong>cale</strong> di The Sky Is<br />
Mine a far da presagio al crescendo tempestoso della<br />
parte centrale o le tessiture a incastro dei migliori June<br />
Of 44 rese sotto la lente dell’indolenza, prima, e della<br />
cavalcata tempestosa, poi (A Catastrophe Outside), la<br />
sad-mathy-song In Winter, The Sun Shines Over The Bridge,<br />
sono alcuni esempi di un lavoro prezioso e elaborat<strong>is</strong>simo.<br />
Che sceglie la via della ricerca e mai si adagia sul<br />
già fatto ma allunga lo sguardo verso nuove modalità.<br />
La “convocazione” per l’ATP festival di fine mese non è<br />
che l’ennesima dimostrazione di una stima guadagnata<br />
senza sbandierare nulla, a parte la propria classe.<br />
(7.3/10)<br />
SteFAno piFFeri<br />
throbbing griStle/x-tg - deSertShore - <strong>the</strong><br />
FinAl report (induStriAl reCordS ltd.,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: industrial<br />
È doloroso tornare sulla vicenda Throbbing Gr<strong>is</strong>tle, innanzitutto<br />
perché è la storia della band ad essere caratterizzata<br />
da profonde lacerazioni sia umane che musicali.<br />
Nei TG, vita, morte e musica sono sempre stati un<br />
tutt’uno, così come le scelte dei componenti della band,<br />
sempre urgenti, estreme, massacranti. L’intera vicenda<br />
della formazione britannica si può così riassumere in un<br />
grande taglio sulla tela. Una storia di final report, m<strong>is</strong>sioni<br />
di anime morte, scelte radicali dalle quali non si può<br />
tornare indietro. E nondimeno la vicenda di quattro persone<br />
umanamente e art<strong>is</strong>ticamente mosse da altrettanto<br />
vital<strong>is</strong>tiche scelte di res<strong>is</strong>tenza e des<strong>is</strong>tenza.L’abbandono<br />
di Genes<strong>is</strong> P. Orridge durante la final leg del tour del<br />
2010 - d<strong>is</strong>trutto da tre anni di lutto per morte di Lady<br />
Jaye - che chiuse definitivamente il capitolo reunion<br />
della band, è stata una mossa in tal senso. È servita<br />
per salvaguardare il progetto dal peggio, tanto quanto<br />
quella di Chr<strong>is</strong> Carter, Peter “Sleazy” Chr<strong>is</strong>topherson e<br />
Cosey Fanni Tutti di tenere in vita il cadavere. Dopo l’annullamento<br />
della gig di Praga e la conferma al Festival<br />
Gender Bender di Bologna, la nuova formazione si battezzava<br />
quell’anno X-TG, lo stesso nome sotto il quale<br />
esce questo doppio album inizialmente - ed erroneamente<br />
- accreditato alla sigla Throbbing Gr<strong>is</strong>tle. Quella<br />
sera, all’Arena del Sole, c’eravamo, e abbiamo ass<strong>is</strong>tito a<br />
un concerto con Carter e Fanni Tutti ai 4/4 e droni, e con<br />
un Chr<strong>is</strong>topherson attrezzato di <strong>the</strong>remin, voci filtrate e<br />
altri strumenti a fiato autocostruiti. Uno show musicalmente<br />
vario e d’esperienza, con rigurgiti di D.O.A., già a<br />
suo tempo “bollettino finale”, eppur privo degli strappi<br />
e delle lacerazioni psycho-horror-thrilling che le gig a<br />
quattro erano in grado di garantire con lancinante - e<br />
quasi masoch<strong>is</strong>tica - prec<strong>is</strong>ione (zenit puntualmente<br />
raggiunto durante la trasm<strong>is</strong>sione dei vecchi filmati del<br />
COUM Transm<strong>is</strong>sion).L’affresco della data bolognese era<br />
stata una sintesi delle recenti evoluzioni dell’industrial<br />
originaria con le varie correnti art-techno, <strong>is</strong>olazion<strong>is</strong>te,<br />
elettroacustiche, no<strong>is</strong>e, drone ottimamente metabolizzate,<br />
ma anche un bel film senza reali presupposti. Lo<br />
stesso lungometraggio a cui ass<strong>is</strong>tiamo oggi nel commiato<br />
The Final Report, inc<strong>is</strong>o tra il 2009 e il 2010 negli<br />
studi di Norfolk, e nell’omaggio al Desertshore di Nico,<br />
diverso per formato (canzone), approccio (industrialtechno-pop-rock)<br />
e ospiti al canto (Antony di Antony<br />
and <strong>the</strong> Johnsons, Marc Almond, Blixa Bargeld degli<br />
Einstürzende Neubauten, l’attrice Sasha Grey e il reg<strong>is</strong>ta<br />
Gaspar Noé) ma pressoché identico nei r<strong>is</strong>ultati<br />
art<strong>is</strong>tici.Come i Battles di Gloss Drop, ovvero la band<br />
al netto del sol<strong>is</strong>ta ad apparecchiare le scenografie e i<br />
cantanti/guest star ad interpetare se stessi, gli X-Tg del<br />
cover album allest<strong>is</strong>cono un all star set industriale per il<br />
pubblico industriale di ieri e di oggi. L’idea del lavoro era<br />
nata dal solo Chr<strong>is</strong>topherson nel 2006 a Berlino e doveva<br />
trovare attuazione nel dicembre di quel fatidico anno<br />
con le musiche che Chr<strong>is</strong> & Cosey preparono alla fine del<br />
tour. Morto Sleazy, la coppia ha concluso il lavoro chiamando<br />
gli amici di una vita a omaggiarlo. A conti fatti,<br />
il lavoro non sfugge ai limiti delle operazioni di questo<br />
tipo. La performance di Bargeld r<strong>is</strong>ulta la più intensa e<br />
car<strong>is</strong>matica (Abschied, Mutterlein), Marc Almond è bolso<br />
(The Falconer), Antony, al solito, bravo, ma nessuno di<br />
loro ha cantato Nico come se non ci fosse un domani.<br />
Gen lo avrebbe fatto.<br />
(6.8/10)<br />
edoArdo briddA<br />
tre Allegri rAgAzzi morti - nel giArdino<br />
dei FAntASmi (lA tempeStA diSChi, diCembre<br />
2012)<br />
Genere: dub-etnico<br />
Ci era piaciuto e non poco, I primitivi del futuro, soprattutto<br />
perché sanciva la svolta reggae-dub del gruppo<br />
di Pordenone - a suo modo storica, se pensiamo alla<br />
produzione precedente - pur mantenendo integro il<br />
DNA originale della band. Diversi eppure sempre riconoscibili,<br />
i TARM, come ben sottolineava anche un Enrico<br />
Molteni interv<strong>is</strong>tato in quei giorni: «È come cambiare abbigliamento<br />
a una persona. La persona è sempre la stessa,<br />
anche se con colori e taglie nuove. I Tre allegri ragazzi<br />
morti rimangono (anti)eroi nemici delle convenzioni anche<br />
quando suonano in levare». Quel d<strong>is</strong>co sparigliava le carte<br />
in maniera consapevole, affiancando ritmiche giamaicane<br />
e bassi corposi a uno stile essenziale ma sufficientemente<br />
elastico da poter accogliere senza cr<strong>is</strong>i di rigetto<br />
i nuovi input.<br />
Nel giardino dei fantasmi, nonostante quanto si dice<br />
in giro, non è l’ennesima inversione di marcia della formazione.<br />
L’etnico di cui si parla nei comunicati stampa<br />
o nelle anticipazioni web è meno di una rivoluzione, al<br />
massimo un aggiustare il tiro che arricch<strong>is</strong>ce di nuove<br />
sfumature un suono già fatto e finito (nel d<strong>is</strong>co precedente).<br />
Quel che accade, ad esempio, in una Come mi<br />
guardi tu fondamentalmente dub nelle atmosfere - seppur<br />
con una ritmica peculiare - ma attorcigliata a un riff<br />
ripetuto di mandolino. Se di etnico si deve parlare, allora,<br />
lo si deve fare chiamando in causa più un’attitudine generalizzata,<br />
che uno stravolgimento estetico palpabile:<br />
quella, si, presente e rintracciabile nella scansione dei<br />
tempi legata al sound africano, in strutture musicali circolari<br />
e soprattutto in testi basati su un call and response<br />
di stampo quasi blues-tribale (la già citata Come mi<br />
guardi tu, Alle anime perse, Bene che sia, E poi si canta, Il<br />
nuovo ordine).<br />
Semplicità concettuale da un lato, produzione efficac<strong>is</strong>sima<br />
- quella del Paolo Baldini già in regia per I primitivi<br />
del futuro - dall’altro: queste le due direttive principali<br />
lungo cui ci si muove. Per un lavoro che, oltretutto,<br />
mette in mostra più TARM “tradizionali” r<strong>is</strong>petto al d<strong>is</strong>co<br />
precedente, seppur aggiornandoli al nuovo corso: l’adolescenza<br />
d<strong>is</strong>sotterrata a suon di chitarre elettriche ne I<br />
cacciatori, una Bugiardo che monta un punk sui gener<strong>is</strong><br />
su basi ritmiche d<strong>is</strong>pari, il rock un po’ Violent Femmes/<br />
Zen Circus de La via di casa, il sound vagamente beatlesiano<br />
di Di che cosa parla veramente una canzone?.<br />
Innegabilmente pop, al cento per cento TARM, apparentemente<br />
meno ideologico e schierato r<strong>is</strong>petto al precedente,<br />
Nel giardino dei fantasmi è un d<strong>is</strong>co solido, ben<br />
suonato e che cresce con gli ascolti, pur non rappresentando,<br />
nell’ottica della storia del gruppo, un passaggio<br />
epo<strong>cale</strong>.<br />
(6.9/10)<br />
FAbrizio zAmpighi<br />
two FingerS - Stunt rhythmS (big dAdA<br />
reCordingS, ottobre 2012)<br />
Genere: bass-hop<br />
Amon Tobin si rimette a fare le cose da solo nel secondo<br />
d<strong>is</strong>co Two Fingers, abbandonando il compagno di<br />
ventura Joe Chapman aka Doubleclick, che collaborava<br />
al progetto nelle sue prime fasi, r<strong>is</strong>alenti al 2006 e sfociate<br />
nell’omonimo e interessante esordio del 2009. L’act<br />
dovrebbe mostrare il Tobin che punta alle sonorità declinate<br />
nel più ampio spettro UK Bass, il “lato continuum”<br />
della proposta più seria e di ricerca che il music<strong>is</strong>ta professa<br />
con il vero nome.<br />
Se fosse per la prima metà del d<strong>is</strong>co (per lo meno fino<br />
a Razorback) si potrebbe anche pensare di avere per le<br />
mani un d<strong>is</strong>co importante: Stripe Rhythm è slow motion<br />
fidget per i Chemical, Snap una teoria decostruzion<strong>is</strong>ta<br />
del vocoder<strong>is</strong>mo hip-hop, Defender Rhythm viaggia in eccellenza<br />
sulle acidità di Kid 606 e Bok Bok, Fools Rhythm<br />
è puro an<strong>the</strong>m post-hop (il pezzo era già stato inserito<br />
nella compila celebrativa del ventennale della Ninja Tune),<br />
Lock86 e Sweden sono Amon in smascellamento ‘90, 101<br />
South mesh-hop con anima e stile.<br />
Poi purtroppo Tobin cede al rimpianto e si mette a r<strong>is</strong>uonare<br />
le cose di vent’anni fa - quando ancora girava con il<br />
moniker di Cujo. Un trip-hop sì curato, ma che richiama<br />
un’epoca ormai storicizzata (vedi alla voce Mantronix e J<br />
94 95
Dilla). L’hip-hop strumentale va anche bene ma quando<br />
si vuole strafare e scimmiottare i Beastie Boys (Problem)<br />
od il Mochipet più massiccio e meno breakcore si cade<br />
quasi nel ridicolo.<br />
(6.2/10)<br />
mArCo brAggion<br />
tyvek - on triple beAmS (in <strong>the</strong> red<br />
reCordS, ottobre 2012)<br />
Genere: GaraGe punk<br />
Si è già detto in queste pagine come i Tyvek, nel giro di<br />
pochi anni, abbiano mostrato due anime d<strong>is</strong>tinte: una<br />
weird e abrasiva r<strong>is</strong>alente agli esordi (Tyvek e Fast Metabol<strong>is</strong>m),<br />
con singoli fluttuanti tra punk post punk shitgaze<br />
e garage, un’altra più noiosa come punkers prec<strong>is</strong>ini,<br />
tutti an<strong>the</strong>m e zero fuochi d’artificio (Nothing fits). A<br />
questo punto On triple Beam, terzo d<strong>is</strong>co, ancora su In<br />
The Red, ne è la prova del nove.<br />
Non essendo cuori impavidi, i quattro se ne escono con<br />
la mossa del pot-pourri: prendono un po’ di questo un<br />
po’ di quello speziando con qualcosa di nuovo, ovvero<br />
un’ambientazione ossessiva e reiterante. Le chitarre<br />
spigolano sempre gli stessi giri e per una volta sferragliano<br />
senza esagerare con brutture shit/lo-fi, mentre le<br />
ritmiche marciano asf<strong>is</strong>sianti a conferma di una tensione<br />
sempre presente e temperata. Pezzo chiave: l’ingranaggio<br />
a ciclo continuo Efficency con echi no wave. E poi<br />
guardare indietro è sinonimo di varietà. A momenti torna<br />
una scrittura originale (Little Richard e il suo riuscito<br />
gioco pieno/vuoto), nervosa, sgangherata, con un paio<br />
di immancabili standard punk (al grido di don’t say/don’t<br />
say/don’t say no/just say yeah/yeah yeah yeah) e garage<br />
ricamati a dovere.<br />
Nuovo punto di partenza, On triple Beams non fa gridare<br />
al miracolo. Si riorganizzano le idee prima di decidere<br />
cosa fare da grandi. Per fortuna, le fondamenta reggono.<br />
(6.9/10)<br />
SteFAno gAz<br />
underdog - keep CAlm (AltipiAni,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: art jazz<br />
Ci hanno messo tre anni a dare un seguito all’esordio<br />
Keine Psicho<strong>the</strong>rapie, segno che questo settetto basato<br />
a Roma è di quelli che prefer<strong>is</strong>cono fare le cose per<br />
bene, malgrado l’estro tracotante e l’attitudine impro<br />
che sprizza dai pori del loro sound. Nel quale in effetti<br />
non manchi mai d’avvertire la competizione tra il cerebrale<br />
e l’animalesco, tra sfuriata e sfumatura. Anche in<br />
questo Keep Calm - pubblicato in joint venture da Altipiani<br />
e MArte Label - si parte da un’impostazione jazz, di<br />
quello più selvatico ed aperto a qualsivoglia digressione<br />
(come insegna la loro guida spirituale Charles Mingus,<br />
alla cui biografia si sono <strong>is</strong>pirati per la ragione sociale),<br />
in particolare blues <strong>is</strong>pido da crogiolo Bad Seeds, l’impudenza<br />
crossover dei Primus e il vaudeville desolato<br />
d’un Tom Waits. Non fin<strong>is</strong>ce qui però la l<strong>is</strong>ta degli ingredienti<br />
e delle suggestioni, talvolta così stranianti che un<br />
po’ hai timore di citarli, tipo certo lir<strong>is</strong>mo astruso Jefferson<br />
Airplane tra le scorie psych e i fremiti noir di Lundi<br />
Massacre o il rapimento Nico che mette in standby la<br />
nevrastenia post-bop di Revolution Is Subject To Delay.<br />
Aspettatevi quindi un po’ di tutto, in primo luogo una<br />
bravura quasi irritante sugli strumenti (di certo una spanna<br />
sopra la media del tipico indie rocker) tra le pataf<strong>is</strong>iche<br />
circensi di Empty Stomach, i velluti mitteleuropei di<br />
Soul Coffee, l’incubo rumba di Macaronar. Gli strumenti,<br />
a proposito, sono: trombone, piano, chitarre, violino,<br />
basso, batteria, più le voci opposte e complementari di<br />
Diego e Barbara. Da segnalare inoltre una cover schizoide<br />
(tra understatement e <strong>is</strong>teria) di Cuore Matto, curiosa<br />
ma non imprescindibile, mentre invece è notevole la rilettura<br />
di Berlin, come un balocco atavico smontato nei<br />
suoi elementi basali senza perdere il polso di una tenera,<br />
decadente malinconia (stupendo il crescendo band<strong>is</strong>tico<br />
conclusivo).<br />
Bel sophomore quindi, al quale possiamo rimproverare<br />
solo un pizzico di spirito goliardico di troppo, frutto forse<br />
dell’attitudine alla performance, sensat<strong>is</strong>sima sul palco,<br />
un po’ meno su d<strong>is</strong>co.<br />
(7/10)<br />
SteFAno Solventi<br />
unSolved problemS oF noiSe - l ‘ombrA<br />
delle FormiChe (SnowdoniA, novembre<br />
2012)<br />
Genere: jazzcore / metal<br />
Quando eravamo giovani ci siamo letteralmente ammazzati<br />
di tutto quello che veniva dal post-hardcore,<br />
e quindi tutto l’albero di band di Lou<strong>is</strong>ville figlio degli<br />
Squirrel Bait (Slint, Bastro, Bitch Magnet, For Carnation)<br />
e non (Rodan, June Of 44), Don Caballero (e Storm &<br />
Stress), Blind Idiot God, Dazzling Killmen e Laddio Bolocko,<br />
i Rapeman/Big Black/Shellac di Steve Albini, Fugazi,<br />
NoMeansNo, Jesus Lizard, il jazzcore (Saccharine<br />
Trust, Sabot, la scena italiana con Zu, Demodè/Squartet,<br />
gli Splatterpink/Testadeporcu di Diego D’Agata), ma anche<br />
gli Uzeda, i Primus, e su indietro fino a The Process Of<br />
Weeding Out dei Black Flag o a quello che insieme a poco<br />
altro con pari efficacia profetica ci sembrava il big bang<br />
della d<strong>is</strong>integrazione della forma rock/blues classica in<br />
senso appunto post-rock (almeno di tutto quel post-rock<br />
non elettronicofilo), ovvero il Beefheart strumentale (per<br />
esempio quello semplicemente sorprendente delle outtake<br />
di Safe As Milk).<br />
Bene. Tutto questo per dire che abbiamo le orecchie vaccinate<br />
ed è proprio cosa rara ormai che no<strong>is</strong>e, jazzcore,<br />
math, post o tantomeno metal tecnico, matematico e<br />
progressivo - abbiamo in testa gli A<strong>the</strong><strong>is</strong>t, ma anche<br />
Dillinger Escape Plan, Commit Suicide e via dicendo tra<br />
mathcore e brutal - riescano a sorprenderci o almeno<br />
avvincerci davvero. E qui arrivano i tre genovesi David<br />
Avanzini, Matteo Orlandi e Mattia Prando, gli Unsolved<br />
Problems of No<strong>is</strong>e (dal nome di un congresso di matematica<br />
applicata ai problemi del rumore), chitarra-batteria-basso<br />
ma anche saxtenore-batteria-basso. Sono nati<br />
nel 2005 ma debuttano adesso su Snowdonia in coproduzione<br />
con TeslaD<strong>is</strong>chi. Loro dicono di fare post-atomic<br />
instrumental no<strong>is</strong>e e in effetti dietro l’artwork entomologico<br />
e geologico come in un mix tra Il Silenzio degli Innocenti<br />
e i Ruins di Tatsuya Yoshida (aggiungere prego alla<br />
l<strong>is</strong>ta) troviamo qualcosa del genere, ovvero una m<strong>is</strong>cela<br />
di molto di quanto sopra elencato.<br />
Le filiazioni, i riferimenti o almeno i parallel<strong>is</strong>mi sono tutti<br />
in bella mostra (Formicazione Parte 1 sembra un pezzo<br />
degli Shellac; la Parte 2, dopo una intro death/prog/freejazz-metal,<br />
coi suoi stomp secchi ricorda gli Zu di Tom<br />
Araya Is Our Elv<strong>is</strong>; riferimento questo obbligato anche per<br />
la successiva Le Pecore Elettriche Sognano gli Androidi?; e<br />
così via), chiaro, ma i ragazzi li conducono e mescolano<br />
ottimamente, con un dec<strong>is</strong>o tocco psichedelico e una<br />
dose di emotività epica che deriva sicuramente da certi<br />
ascolti metal. Non solo assalti hardcore quindi, tra intro<br />
arpeggiate, controtempi, tempi d<strong>is</strong>pari, riff meccanici,<br />
rullat<strong>is</strong>sime a doppiare eccetera che dominano la prima<br />
metà del d<strong>is</strong>co, ma anche la ambience cinematografica,<br />
quasi camer<strong>is</strong>tica, di Una Formica Da Marciapiede; il fumoso<br />
jazzblues, quasi morphineano, di L’ultimo Grido in<br />
fatto di Silenzio; l’epico/tragico arpeggio di Dromofobia<br />
Parte 1, che ci ha ricordato tanto - ma proprio tanto - la<br />
Tragic del supertrio Bozzio Levin Stevens; le sognanti<br />
sv<strong>is</strong>ate di chitarra di Il Diavolo A4; la bell<strong>is</strong>sima avvincente<br />
jam di fusion psichedelica All Jazz Hera, con sfoghi di<br />
jazzcore circense alla Bromio sul finale. Bravi: 7+.<br />
L ‘ombra delle Formiche by Unsolved Problems of No<strong>is</strong>e<br />
(7.3/10)<br />
gAbriele mArino<br />
vlAdiSlAv delAy - kuopio (rASter noton de,<br />
novembre 2012)<br />
Genere: ambient-tech<br />
Il d<strong>is</strong>corso in solitaria di pure electronic iniziato con Vantaa<br />
continua con Kuopio via Espoo, eppì di transizione tra<br />
la prima e la seconda prova sull’etichetta di Alva Noto. E<br />
Sasu Ripatti su Raster Noton non l’abbiamo mai sentito<br />
così avvincente, sia perché questo lavoro rappresenta un<br />
autorevole punto di continuità all’interno delle fila concrete-conceptual-techno<br />
della label, sia per la capacità<br />
del finnico di rinnovare il proprio repertorio partendo<br />
dall’assorbimento/superamento dei canoni architettonici<br />
dell’etichetta stessa.<br />
Attraverso le lenti della natia Finlandia e dal solito avamposto<br />
fuori dal mondo di Hailuoto, Sasu si sposta su<br />
un’anal<strong>is</strong>i urban<strong>is</strong>tico sonica osservando Kuopio - una<br />
paradigmatica città finlandese - da un punto di v<strong>is</strong>ta organizzativo<br />
e di interazione con l’ambiente circostante.<br />
Abbiamo così un lavoro che, pur tenendoli ovattati, aumenta<br />
l’intensità nei ritmi e, in continuità con l’approccio<br />
organico del recente corso, presta ancor più attenzione<br />
all’addensamento/dipanamento dei layer sonici.<br />
Sulla spinta subliminare degli stepping della New Wave<br />
Of Techno e della pulsante battuta Footwork troviamo<br />
gli ep<strong>is</strong>odi migliori, tutti caratterizzati da serrati loop<br />
ritmici: Marsila porta Alva Noto a Ibiza, Hitto serializza<br />
gli an<strong>the</strong>m-tamburello di Plastikman, Osottava, traccia<br />
manifesto del d<strong>is</strong>co, svecchia efficacemente alcuni standard<br />
del Dalay sound. Le trasfigurazioni tech-<strong>house</strong> in<br />
salsa artica di Avanne rappresentano senz’altro la parte<br />
più prevedibile. Del resto, già le rienterpretazioni dinamiche<br />
dell’esperienza del trio di Von Oswald (Kellute)<br />
godono degli scarti necessari per tenere ben alta l’attenzione<br />
come, in generale, le potenzialità e la libertà data<br />
dall’utilizzo dei microfoni a contatto confer<strong>is</strong>ce all’opera<br />
un bilanciamento ottimale tra la severa v<strong>is</strong>ione sonica e<br />
l’impro sul 4/4 e oltre.<br />
R<strong>is</strong>petto alle possibilità e alle problematiche dei lavori<br />
collettivi del finnico (Vainio personalità troppo forte per<br />
il Quartet?), la nuova fase di Vlad<strong>is</strong>lav Delay restitu<strong>is</strong>ce<br />
un music<strong>is</strong>ta fieramente finnico, coerente e perciò libero,<br />
preparato. Un adulto che ha trovato una propria ecologia<br />
elettronica. Un habitat noto dove non accade mai<br />
quello che veramente ti aspetti che accada.<br />
(7.2/10)<br />
edoArdo briddA<br />
wolF + lAmb - verSuS (wolF + lAmb muSiC,<br />
ottobre 2012)<br />
Genere: electro funk<br />
Wolf + Lamb, il duo di Brooklyn mecenate assoluto del<br />
rinascimento <strong>house</strong> anni 2006/2007 e forte dell’esperienza<br />
del Marcy Hotel (come for <strong>the</strong> music stay for <strong>the</strong><br />
life), torna a d<strong>is</strong>tanza di due anni dal debut album Love<br />
Someone - accolto con favore da pubblico e critica - e<br />
ad uno da un’ ottima prova su Dj Kicks. In mezzo, live<br />
96 97
di alta scuola che hanno toccato un paio di volte anche<br />
l’Italia (la Wolf+Lamb night in chiusura al roBOt festival<br />
5 di Bologna) e last but not least pregiate produzioni al<br />
banco mixer per la label che porta lo stesso nome di cui<br />
Soul Clap, sorpresa del 2012, Deniz Kurtel di cui ha prodotto<br />
l’ultimo album e, più indietro negli anni, Nicolas<br />
Jaar (Mi mujer l’hanno prodotta loro)<br />
Riunendo in otto tracce amici e componenti della label<br />
newyorchese (Pillow talk, Soul Clap e Voices of Black)<br />
Versus Lp diventa vero un statuto del love movement<br />
promulgato dal duo, una corrente di pensiero nata al<br />
tempo della produzione del sopraccitato lavoro della<br />
Kurtel e di cui dicono “<strong>is</strong> <strong>the</strong> evolution of our family, not<br />
only affiliated by name, but constantly working with<br />
each o<strong>the</strong>r to grow, produce new sounds and evolve<br />
toge<strong>the</strong>r” .<br />
L’album riprende e costru<strong>is</strong>ce uno sguardo su pop, soul<br />
e jazz in continuità con le basi <strong>house</strong> del primo d<strong>is</strong>co.<br />
E quel che ne esce è un suono corposo e conviviale, di<br />
un’eleganza scintillante (ma non fatta di lustrini) che si<br />
tiene ben lontana dal glamour rosa e patinato della 5th<br />
avenue. I ritmi compassati e spezzettati consentono d’inserire<br />
più divert<strong>is</strong>sement arricchendo il sound di calde<br />
provocazioni, un humus che attraversa l’album partendo<br />
dalla traccia d’apertura con l’auto-tune (Kanye West dia<br />
un’ascoltatina) e una bassline sospesa tra Prince e Kruder<br />
& Dorfme<strong>is</strong>ter (Real Life), ai profumi del Bronx e allo<br />
spoken so eighties di Weekend Affair.<br />
Molte idee sono figlie dell’hip hop pre 2k che ricordano<br />
il funk di George Clinton smussato d’angoli e ovvietà.<br />
Le stesse che fecero da testimone alla nascita del g-funk<br />
di Dr. Dre e di tutto il suono rap West Coast. Inoltre, le<br />
suggestioni depechemodiane di World Turning, sempre<br />
in continuità con il primo album, raccolgono quanto Gahan<br />
e soci hanno elaborando fino ad oggi ed, infine, il<br />
tocco deep dai sapori Little Luie Vega e Master At Work,<br />
tra il latino e il balearico, lo ritroviamo in In The Morning.<br />
Il club riposa mentre il Marcy Hotel, l’Hotel vero e proprio<br />
gestito dalla coppia, è protagon<strong>is</strong>ta, avvolto, magari, dal<br />
jazz della closing track Close To You che l’ultimo Miles Dav<strong>is</strong>,<br />
avrebbe adorato. Wolf+lamb decantano ogni forma<br />
di eleganza in musica, guardando a un pubblico sempre<br />
più maturo. Lo stesso target che ritroviamo nell’ultimo<br />
Temporary Happiness di Mock & Toof, coppia con la<br />
quale Zev e Gadi avevano collaborato in Love Someone.<br />
It’s A Famly Thing.<br />
(7.2/10)<br />
mirko CArerA<br />
young wonder - young wonder ep (Feel<br />
good loSt, novembre 2012)<br />
Genere: future pop<br />
Giochiamo ad indovina chi. Primo indizio: “duo ragazzaragazzo<br />
in zona future-pop con un Ring di mezzo”. Ok, so<br />
già a chi state pensando, ma il secondo indizio vi spiazzerà:<br />
“non sono canadesi”. La r<strong>is</strong>posta infatti non è Purity<br />
Ring ma Young Wonder, progetto con base a Cork in<br />
Irlanda, r<strong>is</strong>ultato dell’unione tra il beat maker Ian Ring e<br />
la vocal<strong>is</strong>t Rachel Koeman.<br />
L’omonimo EP di debutto, uscito ormai da qualche mese<br />
per la Feel Good Lost Records (che cura anche i numerosi<br />
videoclip), ha l’obiettivo primario di presentare al mondo<br />
il microcosmo sonoro dei due irlandesi e contemporaneamente<br />
di farli emergere tra una folta selva di art<strong>is</strong>ti<br />
sotto alcuni aspetti abbastanza simili. L’apertura è affidata<br />
completamente a Ian Ring che confeziona un crescendo<br />
di due minuti e quaranta (A Live Mystery) prima<br />
di lasciare spazio alla voce di Rachel (come timbro siamo<br />
su coordinate nordiche via Fever Rey/Niki & The Dove/<br />
Karin Park), protagon<strong>is</strong>ta in Orange.<br />
In Flesh riescono nell’impresa di utilizzare a loro volta<br />
un sample dei masters of samples The Avalanches (il<br />
classicone Since I Left You) costruendoci attorno un contesto<br />
piuttosto interessante. Sono invece beats e bassi<br />
più corposi a sorreggere la strofa, dec<strong>is</strong>amente melodica,<br />
di Tumbling Backwards e le atmosfere piuttosto spettrali<br />
di Pulse che portano a pensare che la vera mente degli<br />
Young Wonder sia Ian, abile nell’impastare pitch-shifted<br />
vocals, tratti glo-fi e intuizioni glitch-hop sotto il segno<br />
delle quattro S (Slow Magic, Sun Glitters, Stumbleine<br />
e Shlohmo). Chiudono l’EP tre remix di Orange, Flesh e<br />
Tumbling Backwards a cura r<strong>is</strong>pettivamente del sopracitato<br />
Sun Glitters, Sertone e Daìthi.<br />
Recentemente in Italia per il Club To Club, i poco più<br />
che ventenni Young Wonder hanno già pubblicato in<br />
rete due nuovi brani che dovrebbero anticipare l’uscita<br />
di nuovo materiale: Lucky One (qui aleggia lo spettro di<br />
James Blake) e To You, caratterizzato da aperture pop<br />
non indifferenti.<br />
(6.7/10)<br />
riCCArdo zAgAgliA<br />
sentireascoltare.com<br />
98 99
Gimme Some<br />
Inches #32<br />
Mp3, cassette, vinili a 10 e 12 pollici, split, cd-r...anche questo mese<br />
non ci facciamo mancare nessuno dei formati “minori”. Con Morose,<br />
HTRK, Holy Hole, Sonic Jesus, D<strong>is</strong>po and so on<br />
Partiamo dall’impalpabile, questo<br />
mese, per passare via via in rassegna<br />
una serie di uscite in formati come<br />
cassette e 12” considerati “minori”<br />
ma non per questo meno intriganti.<br />
Affidano alla volatilità dell’mp3 il<br />
loro esordio gli Holy Hole, duo italico<br />
di cervelli in fuga verso Berlino.<br />
Chitarre e loop montanti per una<br />
drone music virata al nero che ha i<br />
suoi buoni momenti ritual<strong>is</strong>tici (Excerpt<br />
#3) ed evocativi, senza perdere<br />
di v<strong>is</strong>ta la materialità del suono alla<br />
maniera di un BJ Nielsen. Dote mai<br />
abbastanza apprezzata.<br />
Salendo sul versante delle cassette,<br />
incontriamo una vecchia conoscenza.<br />
Nicola Giunta, prima con<br />
summerTales, poi in solo, è ormai<br />
presenza f<strong>is</strong>sa qui da noi. Ora è il<br />
turno di The Lay Llamas, ennesima<br />
incarnazione in cui il siciliano mette<br />
la crescente dimestichezza sonora<br />
al servizio di una sensibilità psichedelica<br />
che si mostra sempre più ipnotica<br />
(African Spacecraft 2092 AD)<br />
e “altra” (il tribal<strong>is</strong>mo droning di Rite<br />
Of Passage). Il tasso di weird<strong>is</strong>mo è<br />
assicurato anche dal concept alla<br />
base del tutto, ossia le avventure<br />
della tribù nigeriana dei Lay Llamas<br />
che nel 2092 si avventura a bordo di<br />
una astronave su un pianeta lontano<br />
e in cui raggiungono la purificazione<br />
e l’innalzamento dello stato di<br />
coscienza una volta incontrato un<br />
totem chiamato Grande Serpente.<br />
Una narrazione in 4 momenti cruciali<br />
per altrettante tracce di un trip<br />
sonico da psych sci-fi.<br />
Sempre per la Jozik, in una manciata<br />
di ottime tapes appena sfornate,<br />
ritroviamo Olli Aarni, il finlandese<br />
che aveva condiv<strong>is</strong>o una split-tape<br />
proprio coi summerTales. Non differ<strong>is</strong>ce<br />
di molto il contenuto di Pohjo<strong>is</strong>en<br />
Kesä: due lunghe estatiche<br />
tracce di ambient rilassante tra suoni<br />
trovati, rielaborazione di nastri e<br />
frequenze radio che non può non<br />
far tornare in mente le lande innevate<br />
e silenziose della terra d’origine.<br />
Salendo ancora di gerarchia dei<br />
mezzi di riproduzione,tocca ora ai<br />
vinili. Partiamo dal 10” d’esordio<br />
dei Sonic Jesus, quartetto laziale<br />
totalmente devoto alla psichedelia<br />
citar<strong>is</strong>tica della perfida Albione. Se<br />
prendi <strong>is</strong>pirazione da Sonic Boom<br />
e dalla Jesus dei Velvet hai segnato<br />
bene i paletti entro cui ti muovi. Se<br />
poi lo fai col giusto grado di reiteratezza<br />
ipnotica (It’s Time To Hear),<br />
weirdness (Monkey On My Back) e<br />
malattia mentale (Underground) e<br />
ci metti pure la firma di Nonni Dead<br />
dei Dead Skeletons (responsabile<br />
dell’ottimo artwork) allora dimostri<br />
di avere le idee ben chiare. E, cosa<br />
non altrettanto scontata, di saperle<br />
mettere perfettamente su pentagramma.<br />
Dec<strong>is</strong>amente ottimi.<br />
Saliamo poi ai 12” del vinile con l’ultima<br />
uscita targata Brigad<strong>is</strong>co con<br />
protagon<strong>is</strong>ti i romani D<strong>is</strong>po e gli<br />
(italo)inglesi Barberos. Split nato da<br />
circostanze da live condiv<strong>is</strong>o, ossia<br />
quando affiatamento e lunghezza<br />
d’onda sono simili ecco che i frutti<br />
fin<strong>is</strong>cono su preziosi d<strong>is</strong>chetti. Da un<br />
lato, i romani con la loro ormai ben<br />
nota follia math&no<strong>is</strong>e tra cambi di<br />
tempi, elaborazioni ritmiche, strappi<br />
muscolari e ritmi spezzati, sempre<br />
conditi da autoironia e sprezzo del<br />
pericolo. Della serie, un frullatore di<br />
cui non ci si annoia.R<strong>is</strong>pondono a<br />
tono i Barberos, forti di doppia batteria<br />
e synth creano grovigli avantelectro-no<strong>is</strong>e<br />
(Buffalo Biffle) spesso<br />
dilatati oltrem<strong>is</strong>ura (In The Mouth<br />
Of The Madness) in ipnotici deliri<br />
space-ipno-horror.<br />
Scendendo verso atmosfere scure,<br />
segnaliamo un altro split a 12”<br />
uscito per Ghostly con protagon<strong>is</strong>ti<br />
HTRK e Tropic Of Cancer. Il 12” racchiude<br />
6 tracce figlie delle Part Time<br />
Punks Radio Sessions, una specie<br />
di Peel Sessions losangeline virate<br />
dark. Luogo della mente dove le<br />
due formazioni si ritrovano a pieno<br />
agio, condividendo immaginario e<br />
sonorità: più sognanti ed elettronici<br />
i primi, completamente ripres<strong>is</strong>i dalla<br />
tragedia di un paio di anni fa che<br />
sembrava interromperne la carriera.<br />
Più inchiodati ad una forma postpunk<strong>is</strong>h<br />
dreamy e quasi shoegaze<br />
i secondi, in realtà progetto ormai<br />
solitario di Camella Lobo. Tutte o<br />
quasi trace già pubblicate sui r<strong>is</strong>pettivi<br />
album, ma la menzione d’onore<br />
va all’inedito More Alone dei TOC:<br />
beat sintetici e nuvole di sognanti<br />
riverberi, come un arcobaleno neropece<br />
dentro a una caverna.<br />
Cambiando dec<strong>is</strong>amente atmosfera,<br />
giusta segnalazione se la merita<br />
anche Backslash, nuovo progetto<br />
in <strong>the</strong> vein of M16 per Alessandro<br />
Bocci già Starfuckers/Sin<strong>is</strong>tri. Due<br />
lunghe tracce d<strong>is</strong>tanti dall’incomprom<strong>is</strong>soria<br />
formula di M16 e più dj<br />
friendly grazie ad una impostazione<br />
classicamente detroitiana. Musica<br />
che induce alla trance grazie alla<br />
reiterazione delle frasi sonore (Cold<br />
Fusion Technology), al ricorso a stilemi<br />
techno dub e all’introduzione<br />
di ritmiche esotiche di matrice afrotech<br />
(The End Of The Weekenders).<br />
Non esattamente la mia cup of tea,<br />
ma gli amanti avranno di che essere<br />
felici.<br />
Concludiamo arrivando al cd e inab<strong>is</strong>sandoci<br />
su dimensioni più intim<strong>is</strong>te,<br />
tiriamo in ballo il volume 4 della<br />
serie Cinque Pezzi Facili edita dalla<br />
Under My Bed. Dell’Amore E Dei Suoi<br />
Fallimenti è il titolo indicativo delle<br />
atmosfere che i Morose rilasciano<br />
sul “lato A” di questo cd-r, rievocando<br />
quelle dell’ottimo La Vedova<br />
D’Un Uomo Vivo: struggenti, malinconiche,<br />
notturne, di una bellezza<br />
conturbante e insieme d<strong>is</strong>turbante.<br />
Roba che prende al cuore e lo stringe<br />
forte fino a farlo sanguinare.<br />
Non ce n’è di simili in Italia, almeno<br />
oggigiorno. E purtroppo, non si sa<br />
nemmeno troppo in giro.<br />
Dall’altro, il quartetto parmigiano<br />
Campofame d<strong>is</strong>piega un armamentario<br />
meno diretto in Deleted<br />
Scenes, ma pur sempre evocativo.<br />
Composizioni in punta di plettro ed<br />
elettronica non invasiva, senza necessità<br />
di parole per d<strong>is</strong>egnare paesaggi<br />
astratti e sinestetici, e ipotizzare<br />
geografie dell’animo. Promossi,<br />
ovviamente.<br />
SteFAno piFFeri<br />
100 101
BoB Life &<br />
times<br />
<strong>mould</strong><br />
Mentre la sua autobiografia ci<br />
restitu<strong>is</strong>ce l’immagine di un<br />
personaggio complesso, l’album<br />
Silver Age lo riporta agli anni ‘90.<br />
Il nuovo (e il vecchio) Bob Mould.<br />
LA rABBiA, LA meLodiA<br />
«Da bambino la musica era la mia via di fuga, il mio mondo<br />
di fantasia. Appena ho capito il suo valore e il suo significato,<br />
ho cominciato a comporre». Parole - e musica,<br />
naturalmente - sono di Bob Mould, dalla prefazione alla<br />
sua autobiografia See A Little Light - The Trail of Rage and<br />
Melody, scritta con la collaborazione di Michael Azerrad.<br />
È sicuramente “la versione di Bob”, nel senso che restitu<strong>is</strong>ce<br />
il suo punto di v<strong>is</strong>ta anche su fatti controversi come<br />
la fine della sua storica prima band, ma aiuta a capire<br />
meglio il music<strong>is</strong>ta insieme all’uomo, tra i suoi slanci e le<br />
sue contraddizioni. Preparatevi a una lettura torrenziale<br />
(non è ancora uscito in versione italiana): prima ancora<br />
che di trentacinque anni di carriera, il libro traccia un<br />
bilancio di cinquant’anni di vita.<br />
Spesso, però, proprio i ricordi personali e il racconto privato<br />
sugger<strong>is</strong>cono nuove prospettive da cui inquadrare<br />
le sue vicende art<strong>is</strong>tiche. Bob racconta di avere scritto i<br />
testi di Zen Arcade nel furgone regalatogli dal padre, la<br />
persona che più lo ha influenzato in negativo e che pure<br />
ha assecondato più di altre la sua passione per la musica.<br />
La presenza di questo padre autoritario e frustrato sembra<br />
rivelare molto della parabola creativa e umana di<br />
uno dei più intensi songwriter degli ultimi trent’anni di<br />
rock. Th<strong>is</strong> Is Not Your Parents World è la frase che compare<br />
al termine del video di If I Can’t Change Your Mind degli<br />
Sugar. Il clip, più della canzone in sé, aveva il valore di un<br />
metaforico coming out, un paio d’anni prima che Mould<br />
Testo: Tommaso Iannini<br />
rivelasse dettagli della sua vita privata in un’interv<strong>is</strong>ta a<br />
Denn<strong>is</strong> Cooper. La stessa frase può riassumere lo spirito<br />
del movimento hardcore, di cui gli Hüsker Dü hanno<br />
fatto parte, ma anche il senso sempiterno della contestazione<br />
giovanile. Il trio di Minneapol<strong>is</strong> ha gettato un<br />
ponte tra lo spirito degli anni ‘60 per chiudere con il post<br />
hardcore il cerchio aperto del ‘77 e preparare il terreno<br />
per il rock alternativo degli anni ‘90. Bob Mould ha creato<br />
un nuovo modello di punk rock, proponendo una<br />
rivoluzione che iniziava da casa, di fronte allo specchio<br />
del bagno. Punto di partenza, le emozioni. E la musica:<br />
un rapido flusso dai toni lirici, epici e l<strong>is</strong>ergici, dagli accenti<br />
aspri e toccanti, capace di raffiche rabbiose come<br />
di estatici deliri. Alla base, il concetto di catarsi, su cui si<br />
sofferma a un certo punto del libro. Con quel muro di<br />
rumore chitarr<strong>is</strong>tico era la valvola di sfogo della rabbia<br />
e dell’angoscia di chi viveva dentro di sé una lacerazione<br />
profonda e con il wall of sound non cercava solo un<br />
metodo per scrivere grande musica pop. Cercava il suo<br />
nirvana acustico. Lo ha trovato, più ancora che per se,<br />
per i tanti che in quei solchi ci hanno lasciato le vibrazioni<br />
della loro anima.<br />
Broken home, Broken heArt<br />
Robert Mould nasce a Malone, nello stato di New York, il<br />
16 ottobre 1960, ultimo di quattro fratelli, il più grande<br />
dei quali muore di cancro pochi giorni dopo che lui è<br />
venuto al mondo. La Broken Home della quale parlerà<br />
102 103
in una canzone era probabilmente casa sua. Nel suo libro<br />
Bob non è tenero con il padre, ne ricorda gli eccessi<br />
quando beveva ma soprattutto il clima di terrore psicologico<br />
che aveva creato in famiglia. Le cose non vanno<br />
molto meglio neppure dopo che i suoi genitori rilevano<br />
un piccolo negozio. Nonostante tutto, i familiari assecondano<br />
il suo interesse per la musica fin da quando<br />
è un bambino. La nonna cura a domicilio una persona<br />
d<strong>is</strong>abile e lo porta spesso con sé, lasciandogli suonare<br />
il pianoforte a casa della persona che ass<strong>is</strong>te. Il padre<br />
compra per pochi centesimi da un d<strong>is</strong>tributore i 45 giri<br />
usati di un juke-box, facendogli scoprire Who, Beatles e<br />
Beach Boys. Il r<strong>is</strong>ultato è che il piccolo Bob a nove anni<br />
compone le sue prime canzoni su una tastiera giocattolo<br />
e le incide con tanto di overdubs, usando due reg<strong>is</strong>tratori<br />
a <strong>bob</strong>ine.<br />
Negli anni della prima adolescenza, che per lui significano<br />
la scoperta della sessualità e della sua “diversità”,<br />
Bob è più preso dallo sport che dalla musica. In seguito<br />
si lascia conqu<strong>is</strong>tare dall’hard rock di K<strong>is</strong>s, Aerosmith e<br />
Ted Nugent. Forma anche una band e torna a scrivere<br />
canzoni, poco più che fotocopie di successi heavy metal.<br />
Niente di paragonabile alla “folgorazione” per i 45<br />
giri degli anni ‘60 che hanno segnato la sua infanzia.<br />
Nella vita succede, tuttavia, che cercando qualcosa, si<br />
raggiunga qualcos’altro. Attirato dalle cover story dei<br />
propri idoli, sulle pagine di una riv<strong>is</strong>ta il nostro scopre<br />
i fermenti sotterranei del rock americano degli anni ‘70:<br />
la scena punk di New York, l’underground di Cleveland<br />
e i Suicide Commandos, un gruppo di Saint Paul, la città<br />
gemella di Minneapol<strong>is</strong> («un altro posto in cui si gelava a<br />
200 miglia da Malone»), che avrà una forte influenza non<br />
solo sul suo modo di scrivere, ma anche sulla dec<strong>is</strong>ione<br />
di trasferirsi nel Minnesota.<br />
E poi la vera “epifania”, i Ramones, «la prima gang di cui<br />
volevo fare parte». Nel giorno del sedicesimo compleanno,<br />
Bob si fa accompagnare dal padre nel negozio di<br />
d<strong>is</strong>chi di una città vicina e torna con il loro primo album.<br />
Appena s<strong>is</strong>tema il vinile sul piatto e appoggia la puntina,<br />
si accorge di avere in mano qualcosa di diverso, di controcorrente,<br />
di unico. Primitivo, nel bianco e nero della<br />
copertina, Ramones è mixato con la chitarra su un canale,<br />
il basso sull’altro e la batteria e la voce nel mezzo, come<br />
gli adorati singoli degli anni ‘60. Le canzoni sono brevi,<br />
veloci, intense. Lo conqu<strong>is</strong>tano le figure semplici ma suonate<br />
con veemenza della chitarra di Johnny Ramone, il<br />
suo stile elementare, aggressivo e pieno di energia, le<br />
sequenze di accordi scandite con le pennate in giù invece<br />
che con le classiche alternate, un altro tassello del salutare<br />
shock di questa seconda iniziazione musi<strong>cale</strong>. Poi<br />
sarà il turno del punk inglese e dei New York Dolls, sorta<br />
di anello mancante tra i K<strong>is</strong>s e i Ramones. Bob sceglie la<br />
Flying V della Ibanez come prima chitarra in omaggio a<br />
Sylvain Sylvain. Altrettanto dec<strong>is</strong>ive in prospettiva, saranno<br />
due formazioni del Midwest, i Cheap Trick e i già citati<br />
Suicide Commandos, con la loro combinazione di punk,<br />
hard rock e guitar pop anni ‘60. «Ero cresciuto ascoltando<br />
tutte quelle cose e mi riconoscevo nel loro sound».<br />
Per un ragazzo punk e gay una città di provincia come<br />
Malone è soltanto un luogo da cui fuggire al più presto.<br />
Bob va a studiare al Ma<strong>cale</strong>ster di Saint Paul, un college<br />
progress<strong>is</strong>ta che ha una retta sostenibile dalla famiglia.<br />
Nel 1978, in un negozio di d<strong>is</strong>chi di Minneapol<strong>is</strong> fa<br />
amicizia con il commesso, di un anno più giovane di lui.<br />
Iniziano a parlare di musica, poi il d<strong>is</strong>corso cade sulla marijuana,<br />
e Grant Hart - così si chiama il ragazzo - chiude il<br />
negozio per andare a fumare insieme al suo nuovo amico.<br />
La seconda volta che tirerà giù le serrande sarà per<br />
sentirlo suonare la chitarra. Grant conosce un bass<strong>is</strong>ta<br />
appassionato di jazz, anche lui commesso in un negozio<br />
di d<strong>is</strong>chi. Con Greg Norton prende forma il nucleo degli<br />
Hüsker Dü che rimarrà immutato fino allo scioglimento,<br />
quasi dieci anni dopo.<br />
uLtrAcore<br />
Se la prima sala prove è lo scantinato del Nor<strong>the</strong>rn Lights<br />
(sempre un negozio di d<strong>is</strong>chi), la prima <strong>is</strong>pirazione è ovviamente<br />
il punk rock americano: dai Ramones all’avantgarage<br />
dei Pere Ubu fino ai Germs (fondamentali nel<br />
passaggio dal punk all’hardcore), ma emerge anche un<br />
lato più dark e sin<strong>is</strong>tro, <strong>is</strong>pirato dai Joy Div<strong>is</strong>ion e dal<br />
post-punk inglese. Gli Hüsker Dü dovevano tra l’altro<br />
aprire uno dei concerti americani del gruppo di Manchester<br />
- show che non ci sono mai stati perché Ian Curt<strong>is</strong> si<br />
ucc<strong>is</strong>e alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti. Dopo<br />
aver cercato invano di essere ingaggiati dalla Twin/Tone,<br />
la più importante etichetta di Minneapol<strong>is</strong> - e, incidentalmente,<br />
dove si sono accasati gli amici/rivali Replacements<br />
- pubblicano il singolo per la loro etichetta Reflex,<br />
che non avrà vita molto lunga ma contribuirà non poco<br />
ai fasti della scena lo<strong>cale</strong> (sotto la sua ala protettrice usciranno<br />
i primi d<strong>is</strong>chi dei Soul Asylum). La lunga Statues,<br />
lato A del 45 giri (il retro è Amusement, un altro brano<br />
lungo e d<strong>is</strong>solto), deve tutto ai Public Image Ltd.; la voce<br />
salmodia delirando come quella di John Lydon e la chitarra<br />
clona lo stile di Keith Levene.<br />
Da questo primo bozzolo post-punk il gruppo (a proposito<br />
il nome Hüsker Dü in danese significa “Ti ricordi” ed<br />
era il nome di un popolare gioco da tavolo) si trasforma<br />
nella cr<strong>is</strong>alide hardcore. Nel 1981 il terzetto suona due<br />
concerti a Chicago e qui conosce Greg Ginn, che rimane<br />
conqu<strong>is</strong>tato dalla loro performance, nonostante Mould<br />
fosse completamente fatto di speed e a un certo punto<br />
del concerto avessero imbrattato il palco di vernice<br />
blu. Per molti aspetti gli Hüsker Dü sono sulla stessa<br />
lunghezza d’onda dei Black Flag e dei Minutemen: li<br />
accomunano l’etica del lavoro, l’attitudine do it yourself e<br />
lo stakanov<strong>is</strong>mo da palco. Un po’ per la necessità di<br />
concentrare più canzoni possibili nei brevi set a d<strong>is</strong>posizione,<br />
un po’ per inclinazione naturale, il trio esaspera<br />
l’approccio hardcore accentuandolo fino al paross<strong>is</strong>mo.<br />
Una canzone dell’epoca ha un titolo eloquente, quasi<br />
una dichiarazione di intenti: Ultracore. Il brano fa parte<br />
dell’album di debutto Land Speed Record, un grezzo live<br />
pubblicato agli inizi del 1982 dalla New Alliance, etichetta<br />
di proprietà dei Minutemen. Diciassette brani in vent<strong>is</strong>ei<br />
minuti, per un punk frenetico al limite del rumore<br />
bianco. Per certi versi, una sorta di rockblues tirat<strong>is</strong>simo,<br />
talmente esasperato da diventare una sorta di astrazione<br />
psichedelica, favorita da un’inc<strong>is</strong>ione economica e<br />
dec<strong>is</strong>amente lo-fi. Reg<strong>is</strong>trato in presa diretta, è la fedele<br />
riproposizione del loro set dal vivo; senza un attimo di<br />
tregua - non c’è praticamente soluzione di continuità da<br />
un brano all’altro - la band cerca i nervi scoperti degli<br />
spettatori spingendo al limite f<strong>is</strong>ico la propria veemenza<br />
sonora, ammantata di un’eco l<strong>is</strong>ergica.<br />
Inarrestabili nel loro hardcore veloce, gli Hüsker Dü iniziano<br />
a infonderlo di una struttura dec<strong>is</strong>amente più melodica<br />
nel singolo In A Free Land. Non è un caso se Everything<br />
Falls Apart, prodotto dalla Reflex nel 1982, ha un<br />
respiro più ampio del predecessore, non soltanto perché<br />
è reg<strong>is</strong>trato in studio e ha una resa sonora migliore (per<br />
quanto si tratta pur sempre di brani autoprodotti, inc<strong>is</strong>i<br />
in una sola take o comunque in maniera diretta e veloce).<br />
Parte del repertorio è un intreccio di anfetamine,<br />
nichil<strong>is</strong>mo e ambizione, ma in questo sound claustrofobico<br />
si fanno spazio una piccola “eresia” come la cover<br />
di Sunshine Superman di Donovan e la title-track, che<br />
tra una melodia in stile bubblegum-punk e i rintocchi<br />
psichedelici del ritornello preannuncia sostanziali novità<br />
in arrivo.<br />
Reg<strong>is</strong>trato alla fine del 1982, il mini album Metal Circus<br />
(1983) contiene sette brani in diciannove minuti<br />
scarsi ma f<strong>is</strong>sa una tappa fondamentale nell’evoluzione<br />
della band. La durata media di fatto raddoppia r<strong>is</strong>petto<br />
a Land Speed Record, e i brani hanno il tempo di svilupparsi<br />
in trame di più ampio respiro, senza stemperare<br />
però l’energia e i volumi da tregenda a cui suona la band.<br />
Si tratta a tutti gli effetti di un avvicinamento, certo non<br />
solo temporale, a quello che i più considerano il loro<br />
capolavoro. Deadly Skies e On A Limb mostrano tutte le<br />
r<strong>is</strong>pettive assonanze con Black Flag e Flipper e Out On A<br />
Line è una tirata hardcore. Tuttavia gli altri quattro bra-<br />
104 105
ni, due di Bob Mould e due di Grant Hart, d<strong>is</strong>piegano il<br />
ventaglio di possibilità che può offrire la loro scrittura<br />
una volta maturata. Real World di Mould inaugura un<br />
turning point nella poetica del terzetto e di una fetta non<br />
indifferente del post-punk americano. Se emo non fosse<br />
diventata una parolaccia di questi tempi, cercheremo qui<br />
le radici di un’attitudine lirica nuova; Bob esprime con<br />
chiarezza il rifiuto della retorica hardcore e la volontà di<br />
toccare temi più profondi, intimi e personali. C’è voglia<br />
di sporcarsi le mani con il mondo reale dei sentimenti.<br />
La musica segue di pari passo; al di là del canto a squarciagola,<br />
la chitarra cerca nuove armonie in un’esecuzione<br />
dal timing serrato. Ai power chords, tipici del rock duro,<br />
che costruivano l’ossatura dei brani del primo periodo,<br />
Mould affianca ora volentieri accordi aperti, di cui sfrutta<br />
le corde vuote per creare bordoni, secondo una tecnica<br />
cara al folk e alla psichedelia. «Il suono di chitarra degli<br />
Hüskers nasceva per buona parte dal fatto che cercassi<br />
di suonare due parti di chitarra in un colpo solo - tenendo<br />
una nota, usando i bordoni e sviluppando sequenze<br />
di accordi su quella singola nota - il tutto combinato<br />
con la “scatoletta gialla” il pedale MXR D<strong>is</strong>tortion» e un<br />
harmonizer collegato al banco del mixer per creare un<br />
suono saturo con la densità di un gas più che del metallo<br />
pesante, un wall of sound quasi spectoriano ottenuto<br />
con una sola chitarra. Da parte sua, Grant Hart è molto<br />
più versatile r<strong>is</strong>petto ai batter<strong>is</strong>ti hardcore che si limitavano<br />
a tenere il solito tempo in stile polka. Ascoltando<br />
bene si può notare, per esempio, il lavoro sui piatti, dai<br />
rintocchi a un lungo sciabordio, parallelo ai drones della<br />
chitarra di Mould. Con il basso di Norton a fungere da<br />
essenziale collante, e a ritagliarsi qualche momento da<br />
protagon<strong>is</strong>ta, gli Hüsker Dü rappresentano un power trio<br />
essenziale quanto dinamico. First Of The Last Calls annuncia<br />
con enfasi che la direzione musi<strong>cale</strong> del gruppo sarà<br />
più orientata alla melodia. È comunque di Hart la firma<br />
sul numero più melodico, It’s Not Funny Anymore, memore<br />
del pop d<strong>is</strong>sonante dei M<strong>is</strong>sion Of Burma (quegli<br />
armonici..), e sul vero pezzo forte del mini LP: Diane, una<br />
murder ballad <strong>is</strong>pirata da un ep<strong>is</strong>odio di cronaca nera e<br />
cadenzata da un giro di basso che ricorda i Joy Div<strong>is</strong>ion.<br />
Splendida la progressione del pezzo, tra il controcanto<br />
sul ritornello e un arrangiamento di chitarra da pelle<br />
d’oca: sembra di sentire un anticipo di Big Black via PIL<br />
e Throbbing Gr<strong>is</strong>tle (una grande passione di Mould),<br />
negli accordi acuti simili a lamine di metallo che scivo-<br />
lano uno sull’altro, soprattutto nel ritornello e nell’assolo.<br />
Metal Circus esce per i tipi della SST, affidato alle cure<br />
del produttore di casa, Spot.<br />
chArtered trips<br />
La collaborazione con l’etichetta californiana segna uno<br />
dei momenti più alti di tutto l’indie rock. A cavallo della<br />
metà degli anni ‘80, infatti, il terzetto del Minnesota vive<br />
una fase di notevole <strong>is</strong>pirazione, segnata da rapidi cambiamenti<br />
e da una produttività ai limiti dell’inaudito. Il<br />
centro della loro attività rimangono i concerti, dove la<br />
band si lancia in show nervosi ed esaltanti, senza soluzione<br />
di continuità tra un pezzo e l’altro, come nei loro<br />
primi live. Le s<strong>cale</strong>tte comprendono abitualmente brani<br />
inediti su d<strong>is</strong>co: mentre sono in tour per promuovere<br />
un album, gli Hüskers suonano già le canzoni del 33 giri<br />
successivo, mesi prima di inciderlo. In questo modo, i<br />
pezzi sono già rodati per la reg<strong>is</strong>trazione in tempi rapidi<br />
e con poca spesa che è la norma delle produzioni SST.<br />
La prima dimostrazione di questo stato di grazia sono i<br />
ventiquattro brani di Zen Arcade (1984) reg<strong>is</strong>trati in una<br />
settimana e mixati in 48 ore. L’uscita del doppio album<br />
sarà poi posticipata di qualche mese per permettere la<br />
pubblicazione in contemporanea con Double Nickels<br />
On The Dime dei Minutemen. Tenendo conto che nello<br />
stesso periodo usciva Meat Puppets II, il 1984 è un anno<br />
cruciale per la SST e per tutto il rock indipendente americano.<br />
Questi tre lavori costitu<strong>is</strong>cono uno spartiacque storico<br />
e stil<strong>is</strong>tico dec<strong>is</strong>ivo, alla luce di quello che succederà<br />
tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. La mossa<br />
di un doppio LP non è solo coraggiosa dal punto di v<strong>is</strong>ta<br />
estetico, ma anche economico, considerando i mezzi limitati<br />
con cui operavano le etichette indipendenti.<br />
L’antipasto di Zen Arcade è un singolo che sul lato B presenta<br />
una versione di Masoch<strong>is</strong>m World mentre sul lato A<br />
c’è una vera chicca: uno dei nomi di punta dell’hardcore<br />
a stelle e str<strong>is</strong>ce interpreta a modo suo il brano simbolo<br />
dell’era psichedelica, Eight Miles High dei Byrds. Quello<br />
che poteva sembrare un controsenso appena pochi<br />
mesi prima è una sorta di passaggio di consegne generazionale<br />
che apre l’hardcore e il rock del dopo punk a<br />
nuove contaminazioni. Non si può parlare di revival o di<br />
neopsichedelia ma di un cambio di passo sotto il profilo<br />
musi<strong>cale</strong>. Gli Hüsker Dü non imitano i Byrds; interpretano<br />
lo spirito di quel brano alla luce del loro stile. I 45 giri<br />
degli anni ‘60 sono stati il primo amore di Bob e sono<br />
anche la guida della sua rivoluzione musi<strong>cale</strong>.<br />
Se Zen Arcade ha rappresentato per l’hardcore quello<br />
che London Calling è stato per il punk, il suo riferimento<br />
ideale è piuttosto un White Album meets Tommy (o Quadrophenia).<br />
L’idea del concept è nata probabilmente in<br />
un secondo tempo, fatto sta che gli Hüsker Dü allargano<br />
il quadro abbastanza da farci entrare una storia. I<br />
contorni non sono molto chiari, l’idea è forse quella di<br />
«un ragazzo lascia la sua famiglia devastata e va a cercar<br />
fortuna nella Silicon Valley dove crea un videogioco<br />
intitolato Search», oppure semplicemente il racconto di<br />
un’iniziazione alla vita indipendente.<br />
L’hardcore es<strong>is</strong>tenziale del gruppo ha acqu<strong>is</strong>tato una propria<br />
identità e una coesione formale che gli permette di<br />
essere riconoscibile al primo ascolto. L’iniziale Something<br />
I Learned Today parte con il ritmo incalzante di basso e<br />
batteria e prende quota con il vespaio sollevato dalla chitarra<br />
di Mould. In Broken Home, Broken Heart e Chartered<br />
Trips il tempo veloce ma più sincopato di Hart e gli interventi<br />
melodici di Norton d<strong>is</strong>egnano una trama di più<br />
ampio respiro che la chitarra satura completa con bordoni<br />
d<strong>is</strong>torti e fills armonici aprendo nuove dimensioni<br />
alla musicalità del gruppo, restando sempre nel campo<br />
di un punk rock veloce. Il paross<strong>is</strong>mo hardcore tocca<br />
vertici di frenesia unici in Beyond The Treshold, Pride, I’ll<br />
Never Forget You con sciabolate ai limiti dell’heavy metal.<br />
The Biggest Lie, Somewhere, Pink Turns To Blue (Hart)<br />
e Newest Industry con un suono più soft anticipano il<br />
pop core sviluppato nei d<strong>is</strong>chi successivi. Lo spettro si<br />
allarga in maniera quasi vertiginosa se si considerano<br />
i nastri al contrario e il maelstrom psichedelico di Hare<br />
Kr<strong>is</strong>hna, Dreams Reoccurring e Reoccurring Dreams, il folk<br />
acustico di Never Talking To You Again (Hart), il boogie<br />
di What’s Going On (Hart), la ballata elettrica Standing By<br />
The Sea (Hart) e interludi pian<strong>is</strong>tici creati apposta come<br />
passaggi tra diverse tonalità. Stil<strong>is</strong>ticamente è una delle<br />
opere più mature e complesse del punk, cui infonde<br />
un lir<strong>is</strong>mo di rara intensità oltre ad allargarne l’orizzonte<br />
compositivo.<br />
L’hardcore es<strong>is</strong>tenzial<strong>is</strong>ta degli Hüsker Dü è arrivato a<br />
una dimensione quasi trascendentale, che ha forzato<br />
nettamente i confini del genere. New Day R<strong>is</strong>ing (1985)<br />
è un d<strong>is</strong>co abbastanza diverso da Zen Arcade. I testi affrontano<br />
temi più adulti: «Prima prendevo le frasi dai<br />
quaderni, le radunavo insieme, le compattavo, ci sputavo<br />
sopra e le tiravo in faccia agli ascoltatori come se fossero<br />
palle di neve. Erano esplosioni di confusione, parlavano<br />
soltanto di problemi e non offrivano mai delle r<strong>is</strong>poste.<br />
Le nuove canzoni avevano tutto un altro immaginario,<br />
parlavano del tempo, della natura transitoria delle emozioni<br />
e del trascorrere delle stagioni». Bob lo defin<strong>is</strong>ce il<br />
suo drinking album, mentre per Zen Arcade aveva carburato<br />
a caffè e metedrina. Anche dal punto di v<strong>is</strong>ta musi<strong>cale</strong>,<br />
l’evoluzione è costante. Se la produzione di questo<br />
d<strong>is</strong>co (di Spot) è stata spesso criticata, non c’è dubbio<br />
che New Day R<strong>is</strong>ing contenga alcuni dei migliori brani<br />
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degli Hüsker Dü. Perle assolute di Mould sono Celebrated<br />
Summer e I Apologize. La prima un<strong>is</strong>ce il folk rock<br />
cr<strong>is</strong>tallino in stile Sixties con la d<strong>is</strong>perazione ultrasonica<br />
dell’hardcore (stessa cosa fa anche Folklore): Mould ha<br />
iniziato a scrivere canzoni sulla dodici corde acustica, a<br />
usare di più gli arpeggi e le variazioni di intensità sonora,<br />
e mette a frutto quello che imparato in uno dei suoi<br />
classici. A cavallo tra garage rock e neomod settantasettino<br />
in stile Jam, I Apologize è una delle sue melodie<br />
più ricche di pathos e dimostra come il nostro sappia<br />
caricare di ipertoni psichedelici anche il più semplice<br />
di giro di accordi. Questo genere di canzoni melodiche<br />
e veloci, suonate con un muro di d<strong>is</strong>torsioni e sterzate<br />
dinamiche, è una conqu<strong>is</strong>ta fondamentale alla luce del<br />
successivo alternative rock: un tipo di scrittura analoga,<br />
per fare un nome, a quella di J Masc<strong>is</strong>, che quell’anno<br />
debutta con i Dinosaur Jr. L’accoppiata rumor<strong>is</strong>mo/melodia<br />
stabil<strong>is</strong>ce una delle grandi linee guida dell’indie<br />
rock. Il power pop punk acido degli Hüsker Dü è l’altra<br />
faccia della medaglia che oltreoceano propone Psychocandy<br />
dei Jesus And Mary Chain. Il d<strong>is</strong>corso su New Day<br />
R<strong>is</strong>ing non si esaur<strong>is</strong>ce qui. Dei brani scritti da Grant Hart,<br />
è d’obbligo citare The Girl Who Leaves On Heaven Hill e il<br />
divert<strong>is</strong>sement di Books About UFOs. La tavolozza di stili<br />
si allarga anche al jazz e all’honky tonk, dimostrando una<br />
libertà creativa quasi sorprendente.<br />
<strong>the</strong>se importAnt yeArs<br />
Nessuno parla ancora di alternative, un termine che<br />
diventerà d’uso comune soltanto negli anni ‘90, per<br />
indicare il new rock nel periodo post Nevermind, ma<br />
l’ascendente esercitato dal complesso di Minneapol<strong>is</strong><br />
sulla m<strong>is</strong>cela di stili rock del passato, riletti alla luce di<br />
quanto è successo dopo il punk, è innegabile. Saranno<br />
poi le major a sdoganare un suono nato nell’ambito delle<br />
etichette indipendenti e portarlo alle masse. Appunto,<br />
le major. Anche da questo punto di v<strong>is</strong>ta, gli Hüsker<br />
Dü sono stati un po’ pionieri e un po’ profeti. Flip Your<br />
Wig (1985) sarà l’ultimo d<strong>is</strong>co pubblicato per la SST. Karen<br />
Berg, una d<strong>is</strong>cografica della Warner Bro<strong>the</strong>rs che in<br />
passato aveva lavorato anche per Joni Mitchell e i Telev<strong>is</strong>ion,<br />
vola a Minneapol<strong>is</strong> per convincere la band a firmare.<br />
Nonostante i problemi con l’etichetta di Greg Ginn, gli<br />
Hüsker Dü in segno di lealtà le concedono di pubblicare<br />
l’album che hanno già reg<strong>is</strong>trato. In compenso, sono il<br />
primo gruppo della scena indie rock a firmare per una<br />
multinazionale (addirittura prima dei REM, che però già<br />
pubblicavano per una semi-indipendente, la Enigma).<br />
«Speravamo di avere successo senza compromettere<br />
la nostra integrità, e che questo avrebbe potuto aprire<br />
la porta per altre band. Non eravamo il primo gruppo<br />
alternativo a firmare per una major, ma tenevamo più<br />
degli altri alla libertà e all’autonomia art<strong>is</strong>tica. Volevamo<br />
raggiungere un pubblico più numeroso, sapevamo che<br />
la Warner ci avrebbe garantito una struttura con cui poterlo<br />
fare, e avevamo fiducia nel fatto che non avrebbe<br />
cercato di cambiare la nostra immagine, la nostra musica<br />
o il nostro messaggio». In effetti la Warner accetta la loro<br />
dec<strong>is</strong>ione di prodursi da soli e non interfer<strong>is</strong>ce nel loro<br />
processo creativo.<br />
Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose<br />
se Flip Your Wig fosse uscito già per la Warner. Di sicuro<br />
era l’album più accessibile pubblicato fino a quel momento<br />
con almeno due potenziali hit: Makes No Sense<br />
At All, firmata da Bob, e l’irres<strong>is</strong>tibile Green Eyes di Grant<br />
Hart.<br />
«Con Metal Circus ci eravamo d<strong>is</strong>tanziati dai suoni e dai<br />
dogmi dell’hardcore, Zen Arcade era un concept album<br />
che si proiettava ben oltre i confini e le convenzioni del<br />
punk, con New Day R<strong>is</strong>ing avevamo cominciato a privile-<br />
giare la melodia r<strong>is</strong>petto al rumore. Ora volevamo creare<br />
un d<strong>is</strong>co pop a tutti gli effetti e quello abbiamo fatto». Il<br />
no<strong>is</strong>e pop non è l’unica freccia dell’arco di questo LP, in<br />
cui l’immediatezza delle canzoni va di pari passo con una<br />
produzione che porta più in primo piano la voce r<strong>is</strong>petto<br />
ai d<strong>is</strong>chi precedenti.<br />
Fino a questo momento, la presenza di due menti creative<br />
in seno alla band è stata la sua carta vincente. Bob<br />
è il principale songwriter, ma Grant ha dato un contributo<br />
fondamentale sia per il suono e le armonie vocali,<br />
sia come compositore e cantante. In Candy Apple<br />
Grey (1986) le canzoni più rappresentative, scelte come<br />
singoli, sono entrambe di Hart: Don’t Want To Know If<br />
You Are Lonely e Sorry Somehow. Mould da parte sua<br />
conqu<strong>is</strong>ta una dimensione più riflessiva, nella delicata<br />
veste cantautoriale dei brani acustici, Too Far Down e la<br />
struggente Hardly Getting Over It. Le sue ballate più mag<strong>is</strong>trali.<br />
Tra i brani elettrici che portano la sua firma, si<br />
fa preferire la sfuriata finale di All Th<strong>is</strong> I’ve Done For You,<br />
mentre I Don’t Know For Sure è una replica in tono minore<br />
di Makes No Sense At All. Il debutto per la Warner non<br />
ottiene il successo sperato, tuttavia, il problema di fondo<br />
è un altro. Le tensioni all’interno del gruppo crescono di<br />
giorno in giorno. Too Far Down e No Prom<strong>is</strong>e I’ve Made di<br />
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Hart sono due brani sol<strong>is</strong>ti a tutti gli effetti, a cui soltanto<br />
i titolari hanno messo mano.<br />
Per cercare di bilanciare di più gli apporti di entrambi,<br />
Ware<strong>house</strong>: Songs And Stories (1987) diventa il secondo<br />
doppio LP della storia degli Hüsker Dü. Mentre Zen<br />
Arcade mette d’accordo quasi tutti, l’ultimo album suscita<br />
reazioni contrastanti: c’è chi lo considera l’apoteosi<br />
e uno dei migliori d<strong>is</strong>chi non solo del complesso,<br />
ma dell’intero decennio, e chi addirittura lo considera<br />
il peggior capitolo di tutta la loro carriera d<strong>is</strong>cografica.<br />
Per quanto mi riguarda, sono più vicino alla prima<br />
ipotesi. Per motivi anagrafici sono arrivato a Ware<strong>house</strong><br />
andando a ritroso da Nevermind e Doolittle e la linea<br />
di d<strong>is</strong>cendenza si sente, eccome. Il doppio del 1987 fa<br />
da contraltare a Zen Arcade e rappresenta il perfezionamento<br />
di quel sound. Meglio ancora, l’album del 1984<br />
rappresentava l’uscita dai confini, questo è la chiusura<br />
del cerchio. Un loop che riavvolge tutto il percorso del<br />
gruppo e lo sintetizza nella sua formula canzone “definitiva”,<br />
replicandola all’infinito con una sorta di virtuos<strong>is</strong>mo<br />
solips<strong>is</strong>tico. Sublime o stucchevole? In realtà, se<br />
si esclude un calo naturale nell’ultima parte, la tensione<br />
creativa almeno della prima metà è alt<strong>is</strong>sima. Dal punto<br />
di v<strong>is</strong>ta compositivo, l’album funziona come i poli di<br />
una batteria: a un brano di Mould ne segue uno di Hart,<br />
come se fosse uno schema voluto. Bob firma gli an<strong>the</strong>m<br />
più appassionati, These Important Years, Standing In The<br />
Rain, Ice Cold Ice, Could You Be The One, melodie mozzafiato<br />
e squarci v<strong>is</strong>ionari, rifinendo un nuovo genere di<br />
ballata elettrica che piacerà a tanto college rock (ricambiando<br />
perché V<strong>is</strong>ionary è una versione punk dei REM).<br />
Di Grant sono le melodie più insidiose e uno degli standouts<br />
del d<strong>is</strong>co, She Floated Away. Ware<strong>house</strong> contiene<br />
tutti gli elementi del sound degli Hüsker Dü - la progressione<br />
hardcore con il ritornello beat, il feedback e il fuzz<br />
del garage rock con la grinta bubblegum dei Ramones,<br />
la m<strong>is</strong>tica hippie con l’irrequietezza sovreccitata del<br />
punk, le d<strong>is</strong>torsioni timbriche del rock hendrixiano con<br />
gli assoli paross<strong>is</strong>tici dell’heavy metal e la delicatezza<br />
del folk rock con il rumor<strong>is</strong>mo esasperato - a un livello<br />
di raffinatezza superiore e definitivo. Quando è finito il<br />
gruppo non è ancora sciolto ma di fatto non es<strong>is</strong>te più.<br />
Greg Norton d<strong>is</strong>erta parte delle sessioni e Mould e Hart<br />
non lavorano quasi mai insieme. Vivranno da separati in<br />
casa i mesi successivi fino allo scioglimento della band.<br />
È interessante notare come Bob nel suo libro attribu<strong>is</strong>ca<br />
velatamente la scelta di reg<strong>is</strong>trare Ware<strong>house</strong> come un<br />
doppio album al fatto che Hart avesse voluto avere più<br />
pezzi suoi sul d<strong>is</strong>co, mentre Grant, dal canto suo, sostiene<br />
che Mould non gli avrebbe mai concesso di firmare<br />
lo stesso numero di brani r<strong>is</strong>petto a lui. La fine degli<br />
Hüsker Dü è tuttora fonte di polemiche e rancori mai<br />
sopiti. La verità è che la situazione prima o poi era destinata<br />
a precipitare per lo scontro tra ego, e i problemi<br />
di droga di Grant Hart non hanno fatto che accelerare la<br />
conclusione. Attore non protagon<strong>is</strong>ta in buona parte di<br />
questa vicenda, Greg Norton, come noto, si è creato una<br />
seconda vita come chef, poi ha dovuto chiudere il lo<strong>cale</strong><br />
e ora fa il rappresentante di vini. Le altre sue avventure<br />
musicali non hanno lasciato il segno.<br />
Dopo la fine della band, Bob Mould si trasfer<strong>is</strong>ce con il<br />
suo partner di allora, Michael, in una grande casa fuori<br />
città per staccare da tutto. A Pine City vive come in <strong>is</strong>olamento<br />
e inizia a comporre di nuovo, ma da una prospettiva<br />
diversa. Anche gli strumenti sono nuovi: una<br />
Strato blu e una Yamaha a dodici corde con un suono<br />
che paragona a un “sacco di dadi fruscianti”. Scrive spesso<br />
improvv<strong>is</strong>ando, in maniera più spirituale e libera. Ha<br />
un modo curioso di raccontarlo nel suo libro: «Facevo<br />
sempre più attenzione al suono delle sibilanti e alle consonanze<br />
tra musica e parole, a come le sibilanti somigliavano<br />
a percussioni, e a come la ‘s’ si accordava al suono<br />
dei piatti o la ‘t’ e le consonanti occlusive o percussive<br />
formavano gruppi di suoni che cadevano perfettamente<br />
sulle note di chitarra. Adesso capivo meglio i piccoli<br />
dettagli, gli spazi tra i suoni e le parole. Questo nuovo<br />
approccio non c’entrava nulla con quello che facevo prima,<br />
e sembrava arrivare dal nulla. Di certo non mi sono<br />
seduto con l’idea di lavorare su bordoni, accordature<br />
alternative, parole in libertà e di pensare al suono delle<br />
consonanti come a un elemento ritmico».<br />
W<strong>is</strong>hing WeLL<br />
Il r<strong>is</strong>ultato di questo anno sabbatico, passato a ricaricare<br />
le batterie e scrivere canzoni, è il suo primo album<br />
sol<strong>is</strong>ta, Workbook, pubblicato dalla Virgin nel 1989. Lo<br />
strumentale Sunspots apre l’album con il suo arpeggio<br />
fingerstyle (in questo caso, più vicino al folk rock britannico<br />
che a quello americano). La cesura r<strong>is</strong>petto agli Hüsker<br />
Dü è marcata con dec<strong>is</strong>ione. È evidente la volontà di<br />
emanciparsi dal passato e di assumere una dimensione<br />
espressiva diversa, da cantautore, anche se non si tratta<br />
di un semplice d<strong>is</strong>co voce/chitarra e non si tratta di un<br />
d<strong>is</strong>co semplice in generale. Anzi, è molto arrangiato ed<br />
enfatico. Per quanto la chitarra acustica a sei o dodici<br />
corde o al massimo l’elettrica pulita siano le vere protagon<strong>is</strong>te<br />
delle canzoni, il sound d’insieme è ovviamente<br />
meno saturo ma più spazioso, “arioso” nel senso che i<br />
suoni sembrano sviluppare più volume e le stesse com-<br />
posizioni tendono a gonfiarsi, a crescere a lievitare come<br />
accade a W<strong>is</strong>hing Well. Nel parco strumentale, Mould può<br />
contare su una sezione ritmica importante, formata da<br />
Anton Fier e Tony Maimone, e sul violoncello di Jane<br />
Scarpantoni, un elemento fondamentale per l’atmosfera<br />
di Workbook. «Per anni avevo v<strong>is</strong>suto circondato da un<br />
muro di suono d<strong>is</strong>torto, ora pensavo agli arrangiamenti<br />
d’archi su questi sonanti accordi aperti che producevano<br />
bordoni (huge open droning chords)». Huge è proprio la<br />
parola adatta: con la sua scioltezza See A Little Light, uno<br />
dei brani più amati tanto da intitolare la biografia del<br />
nostro, rappresenta quasi una parentesi r<strong>is</strong>petto all’epica<br />
drammaticità di una Po<strong>is</strong>on Years o alla pomposa classicità<br />
tra il melò e il pastorale di Sinners and Repeantances,<br />
per non parlare del ruggito hard blues di Whichever <strong>the</strong><br />
Wind Blows (a sua volta uno stacco piuttosto marcato dal<br />
tono generale). D<strong>is</strong>co di un’intensità stordente e che r<strong>is</strong>ente<br />
di una messa a punto quasi mania<strong>cale</strong>, Workbook è<br />
inserito dall’autore nel trittico dei suoi preferiti, insieme<br />
a Flip Your Wig degli Hüsker Dü e a Copper Blue degli<br />
Sugar.<br />
Anton Fier alla batteria e Tony Maimone al basso sono<br />
un duo di music<strong>is</strong>ti esperti, che Mould sfrutterà anche<br />
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in tour. La musica degli Hüsker Dü era un unico flusso di<br />
energia in cui i contorni spesso si perdevano; invece il<br />
batter<strong>is</strong>ta (un passato con i Golden Palominos ma anche<br />
Lounge Lizards e Feelies) e l’ex bass<strong>is</strong>ta dei Pere Ubu<br />
formano una sezione ritmica più tecnica e sincronizzata.<br />
Mould stesso riconosce quanto la loro professionalità<br />
abbia aiutato il suo orecchio di music<strong>is</strong>ta. Il seguito della<br />
prima avventura da solo è il rovente e cup<strong>is</strong>simo Black<br />
Sheets Of Rain (1990). Le ballate di Workbook diventano<br />
una marziale sinfonia elettrica, da cui emergono composizioni<br />
cadenzate e potenti. Stop Your Crying, Hanging<br />
Tree e It’s Too Late, tra Neil Young e quello che tutti di lì<br />
a poco chiameranno grunge, la byrdsiana Hear Me Calling<br />
o Out Of Your Life sono la sintesi che ci si sarebbe<br />
aspettati tra l’eredità degli Hüsker Dü , la nuova cifra di<br />
cantautore, l’amore per il melod<strong>is</strong>mo anni ‘60 e una r<strong>is</strong>coperta<br />
del rock dopo il folk-core da camera di Workbook.<br />
Anche se l’unica canzone nello stile della vecchia band,<br />
il pop-punk di D<strong>is</strong>appointed, non è un omaggio ma una<br />
frecciata agli ex compagni. Lo shouter dell’hardcore ritorna<br />
in Sacrifice, in una sorta di blues trasformato in un<br />
tour de force vo<strong>cale</strong> con tanto di sdoppiamento tra call<br />
and response. La title track è uno dei migliori brani di<br />
Bob Mould sol<strong>is</strong>ta e anche il d<strong>is</strong>co, di una compattezza<br />
invidiabile, si colloca ai vertici della sua produzione, nonostante<br />
la sua avversione a posteriori per le atmosfere<br />
claustrofobiche di questa seconda prova en solitaire.<br />
thAt’s A good ideA<br />
Tuttavia, le cose non si mettono bene per il nostro: la<br />
successiva tournée è un flop, non tanto per i concerti<br />
in sé quanto per il fatto che, per la prima volta nella sua<br />
carriera, si trova a chiudere un tour in perdita, per i costi<br />
di due turn<strong>is</strong>ti di lusso e di tutto l’apparato. La Virgin e il<br />
suo management avevano oltretutto ceduto i suoi diritti<br />
di edizione. «All’inizio del 1991 stavo facendo i conti. Perché<br />
anche se avevo un ricco contratto con la Virgin ero<br />
sempre al verde?». Su consiglio di un legale, Bob r<strong>is</strong>olve<br />
il contratto e si lancia in un tour acustico senza band.<br />
Un’esperienza che sotto certi aspetti lo riavvicina alle<br />
origini, al punto da ricondurlo anche a formare un vero<br />
gruppo e a riabbracciare il mondo delle indie. Dopo aver<br />
fatto ascoltare i suoi demo a diverse case d<strong>is</strong>cografiche,<br />
trova infatti un accordo con la Creation in Gran Bretagna<br />
e la Rykod<strong>is</strong>c in America. I prescelti per il nuovo trio<br />
sono il bass<strong>is</strong>ta David Barbe, un vecchio amico del suo<br />
compagno Kevin O’Neill, e Malcolm Trav<strong>is</strong>, l’ex batter<strong>is</strong>ta<br />
degli Zulus, di cui Mould aveva prodotto nel 1988 l’album<br />
Down On The Floor.<br />
Copper Blue (1992) è uno dei suoi migliori d<strong>is</strong>chi. Esce nel<br />
momento giusto per farlo conoscere al nuovo pubblico<br />
“alternativo”, appena sedotto dai Nirvana (di cui Mould<br />
ha potuto vedere da vicino l’ascesa partecipando allo<br />
stesso tour insieme a Sonic Youth e Dinosaur Jr. documentato<br />
nel video The Year Punk Broke). Non a caso, sarà<br />
il suo bestseller. Privo di un contraltare quale Grant Hart<br />
negli Hüsker Dü , Bob dirige la band come se fosse una<br />
sua creatura. Mentre il muro chitarr<strong>is</strong>tico degli Hüskers<br />
aveva un valore assoluto, una trascendenza che andava<br />
oltre l’armonia stessa, quello degli Sugar è più corposo<br />
ma più quadrato e funzionale. Composizione e arrangiamento<br />
mostrano una grande attenzione alla dinamica,<br />
sull’esempio di Workbook ma in maniera più diretta e rumorosa.<br />
Come nell’iniziale The Act We Act, tra i momenti<br />
clou del d<strong>is</strong>co, un aspro rock mid-tempo quasi grunge,<br />
che parte da un riff compresso coronato da un breve<br />
ricamo di chitarra per decollare verso una luminosa armonia<br />
sostenuta da un melodioso assolo sottotraccia.<br />
Come in Good Idea, con un ritornello che si pianta in<br />
testa al primo ascolto, ma che assorbe tutta l’influenza<br />
di ritorno dei Pixies: la struttura è proprio quella di un<br />
brano dei folletti (file under: Debaser), dal giro di basso<br />
iniziale alla progressione di accordi che supportano il<br />
ritornello e il finale. Tracce di Huskers in Fortune Teller,<br />
ma anche molta melodia, lo psych pop frizzante di Helpless<br />
e Hoover Dam e la perla di una canzone folk-rock<br />
super orecchiabile, If I Can’t Change Your Mind.<br />
Pochi mesi dopo Copper Blue, è la volta di Beaster (1993),<br />
un mini album composto da canzoni reg<strong>is</strong>trate nello<br />
stesso periodo, ma dal mood molto più cupo. Esce la<br />
settimana di Pasqua e rappresenta una sorta di passione<br />
tutta personale di Bob Mould. Le sonorità - come in JC<br />
Auto - sono a volte più vicine al grunge che al pop-core<br />
o a certe frange dell’indie inglese. Feeling Better ha addirittura<br />
uno strano sapore baggy. Walking Away ricorda<br />
invece i My Bloody Valentine, compagni di etichetta alla<br />
Creation, anche se sono le tastiere a prendere il posto<br />
della chitarra. Il titolo dell’ultimo d<strong>is</strong>co degli Sugar, File<br />
Under: Easy L<strong>is</strong>tening (1994), non è poi così ironico come<br />
sembra. Brani come Your Favorite Thing (che echeggia<br />
un titolo dei Replacements), Gee Angel, Can’t Help You<br />
Anymore rielaborano il consolidato stile di Mould e del<br />
suo gruppo in maniera più facile e scanzonata. È il d<strong>is</strong>co<br />
più pop del nostro so far, e se Gift potrebbe ricordare i<br />
Dinosaur Jr., Believe What You’re Saying la sua nenia più<br />
dolce, è ancora un velato omaggio agli amati Byrds. È<br />
l’ultimo album del trio, di cui due anni dopo uscirà una<br />
raccolta di rarità.<br />
Il 1994 è anche l’anno in cui esce il live degli Hüsker<br />
Dü, The Living End, che il nostro si rifiuta perentoriamente<br />
di ascoltare. Sempre nel 1994, un’interv<strong>is</strong>ta con<br />
Denn<strong>is</strong> Cooper per Spin rende di pubblico dominio alcuni<br />
aspetti della sua vita privata, a cominciare dal suo<br />
orientamento sessuale. Se di coming out si tratta, è un<br />
po’ forzato e detto fra i denti, con il timore di finire ingabbiato<br />
in uno stereotipo. Alcune radio si rifiutano di<br />
trasmettere la musica degli Sugar, ma a mettere d<strong>is</strong>agio<br />
il music<strong>is</strong>ta e l’uomo sono probabilmente le critiche ricevute<br />
in seno alla stessa comunità gay.<br />
BoB mouLd <strong>is</strong> BoB mouLd<br />
Gli Sugar si sciolgono all’inizio del 1995, e Bob ritorna<br />
alla carriera sol<strong>is</strong>ta nel 1996 con uno spartano senza titolo<br />
(Bob Mould) in cui canta e suona tutti gli strumenti.<br />
È l’ennesimo segnale di un’indole creativa irrequieta e<br />
mai accomodante. Accomodante non lo è neppure con<br />
se stesso, il buon Bob: I’m sick of myself, ripete nel primo<br />
pezzo, Anymore Time Between. Con lo stesso sarcasmo<br />
con cui parlava di easy l<strong>is</strong>tening per il d<strong>is</strong>co degli Sugar,<br />
intitola il brano chiave del suo ritorno sol<strong>is</strong>ta IHate Alternative<br />
Rock. È una specie di parodia (un po’ come in D<strong>is</strong>appointed<br />
il nostro parodiava gli Hüsker Dü) per un atto<br />
d’accusa nei confronti delle case d<strong>is</strong>cografiche, colpevoli<br />
ai suoi occhi di avere trasformato in una moda il genere<br />
di musica che lui aveva contribuito a creare. In questo<br />
caso è difficile dargli torto; per il resto, uno dei punti<br />
deboli conclamati dell’album è la rigidità dovuta all’utilizzo,<br />
non molto fantasioso, della batteria elettronica,<br />
insieme a una produzione dallo spiacevole retrogusto<br />
meccanico. Il modello che Mould sembra avere in mente<br />
è quello di Lou Barlow e dei suoi Sebadoh; per accorgersene<br />
è sufficiente ascoltare l’incipit (sempre Anymore<br />
Time Between). Qualche zampata non manca (il turbinio<br />
elettrico di Egøverride), ma è penalizzata dalle scelte<br />
sonore, in una prova al di sotto degli standard a cui ci<br />
aveva abituati.<br />
The Last Dog and Pony Show (1998) è quello che spesso si<br />
defin<strong>is</strong>ce un d<strong>is</strong>co di transizione. Non è <strong>is</strong>pirato quanto<br />
i migliori d<strong>is</strong>chi del suo autore, ma trova un suo equilibrio,<br />
tra il ritorno alle atmosfere di Workbook, sonorità<br />
rock aggressive o il panning elettroacustico (Who Was<br />
Around) che sono ormai un marchio di fabbrica. Si sentono<br />
anche le avv<strong>is</strong>aglie di qualcosa di diverso, nel primo<br />
flirt con i sintetizzatori di Megamanic, una specie di<br />
sgorbio rap che parte con una base drum and bass e non<br />
si cap<strong>is</strong>ce bene dove vada a parare. Bob avrebbe provato<br />
molte altre soluzioni ma alcuni nastri di esperimenti<br />
sono rimasti cancellati per sbaglio perché dimenticati<br />
in studio. Se i r<strong>is</strong>ultati erano simili a Megamanic, forse è<br />
meglio che sia andata così. LiveDog98 (2004), venduto<br />
ai concerti e su internet, è una testimonianza del tour<br />
che lo vede, per la prima e ultima volta, affiancato da un<br />
secondo chitarr<strong>is</strong>ta.<br />
Nel giro di un paio di d<strong>is</strong>chi i riferimenti passano dai<br />
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Sebadoh e dalla scena lo-fi a Believe di Cher e a Xpander<br />
di Sasha. Modulate (2002) è il progetto a nome Loudbomb<br />
(l’album Long Playing Grooves,2004) sono per<br />
molti critici la pietra dello scandalo. Nessuno dei fans<br />
storici si sarebbe probabilmente aspettato che da qualche<br />
esperimento estemporaneo sarebbe nata la svolta<br />
più clamorosa della carriera. Mould diventato dj di musica<br />
dance poteva sorprendere quanto, per chi non lo<br />
monitorava da un po’, scoprire che per un anno aveva<br />
fatto lo sceneggiatore per gli incontri di wrestling (e<br />
prima ancora aveva fornito la colonna sonora per una<br />
campagna pubblicitaria della American Express). Tutte e<br />
due le cose, anzi tutte e tre, sono vere. L’abiura del rock e<br />
l’improvv<strong>is</strong>a metamorfosi si spiegano anche con la new<br />
gay life di cui racconta esplicitamente nella sua autobiografia.<br />
Bob si appassiona alla musica da ballo elettronica<br />
da club nel momento in cui si trasfer<strong>is</strong>ce a New York e<br />
insieme al suo compagno conosce per la prima volta da<br />
vicino la cultura gay della Grande Mela. Anche considerando<br />
che questa folgorazione sulla via del dancefloor<br />
può avere una sua contestualizzazione es<strong>is</strong>tenziale e la<br />
necessità di liberarsi dallo stereotipo del rocker depresso<br />
e arrabbiato abbia ragioni al di là di quelle strettamente<br />
art<strong>is</strong>tiche, a un ascolto senza pregiudizi Modulate rimane<br />
un d<strong>is</strong>co goffo. Il buon Mould soffre del difetto<br />
di molti neofiti, che si lasciano incautamente prendere<br />
la mano senza filtro e, soprattutto, senza la necessaria<br />
padronanza del linguaggio in cui si avventurano per la<br />
prima volta. Il r<strong>is</strong>ultato sono pacchianate a ripetizione,<br />
che fin<strong>is</strong>cono per sabotare anche quelle poche idee fluttuanti<br />
in una serie di inutili orpelli.<br />
Body Of Song (2005) contiene in parte l’hangover dalla<br />
sbornia electro-danzereccia, con rimasugli di suoni sintetici<br />
e qualche fastidioso effetto vo<strong>cale</strong>, ma la REMiana<br />
Circles sembra tornare ai tempi di Black Sheets Of Rain,<br />
e il pop punk tinto di psichedelia di M<strong>is</strong>sin’ You anche<br />
qualche anno più indietro. La malinconica Days Of Rain è<br />
il viatico per i d<strong>is</strong>chi successivi. Per il tour, Mould può<br />
contare su una band di tutto r<strong>is</strong>petto in cui oltre al sodale<br />
elettronico Richard Morel (l’altra metà di Loudbomb),<br />
milita Brendan Canty dei Fugazi. Con il quartetto di cui<br />
fa parte anche il bass<strong>is</strong>ta Jason Narducy, l’ex Hüsker Dü<br />
ritorna ad esibirsi dal vivo con un gruppo elettrico dopo<br />
più di un lustro. Per l’occasione r<strong>is</strong>polvera i classici di<br />
tutta la sua carriera che finiranno anche sul suo primo<br />
DVD, Circle Of Friends.<br />
<strong>the</strong> descent<br />
In D<strong>is</strong>trict Line (2007) l’anima del cantautore torna in<br />
primo piano. L’influenza che salta per prima all’orecchio<br />
sono curiosamente i REM (in parte, si tratta anche qui di<br />
un’<strong>is</strong>pirazione di ritorno). Il modo di cantare di Bob nei<br />
primi pezzi ricalca da vicino quello di Michael Stipe; Old<br />
Highs New Lows rivela piuttosto un’affinità con Mark<br />
Eitzel. Il trascorrere dei pezzi segna un ritorno del rock<br />
(Return To Dust, The Silence Between Us) e dell’elettronica<br />
(Shelter Me), che fa capolino con qualche moderata introm<strong>is</strong>sione<br />
anche nei brani di impianto chitarr<strong>is</strong>tico. Di<br />
apprezzabile c’è che il nostro non ricalchi i soliti schemi<br />
di un tempo anche nel momento in cui la sua produzione<br />
è più di routine e meno <strong>is</strong>pirata. Più o meno sulla<br />
stessa linea si colloca Life and Times (2009). Anche il<br />
power pop di Argos e Spiraling Down e il ritorno (uno<br />
dei tanti) alle architetture di Workbook in Bad Blood Better<br />
stavolta sanno di routine. Nel 2009 esce Live At ATP,<br />
reg<strong>is</strong>trato all’All Tomorrow’s Parties: la seconda metà del<br />
set è quasi tutta occupata da classici degli Hüsker Dü (I<br />
Apologize, Chartered Trips, Celebrated Summer, Makes No<br />
Sense At All, New Day R<strong>is</strong>ing). Se si è riconciliato con il suo<br />
passato, Mould, non lo è affatto con i suoi ex compagni,<br />
trattati ancora con un certo astio nelle pagine del libro.<br />
Il più recente LP, Silver Age (2012), sembra un d<strong>is</strong>co più<br />
“leggero” di molte sue opere del passato, non nel sound<br />
ma nello stato d’animo. È l’album più fragorosamente<br />
rock dai tempi degli Sugar e il migliore degli ultimi dieci<br />
anni (in cui non ha certamente brillato). Dove il nostro,<br />
almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni, si abbandona<br />
al piacere di suonare musica elettrica e liberatoria.<br />
Un d<strong>is</strong>co compatto e che dà certezze: solidità in fase di<br />
scrittura, un sound grintoso e le melodie con i giri giusti.<br />
Oltre che con il passato, Mould sembra più a suo agio<br />
con se stesso e con il suo ruolo di icona, un ruolo che lui<br />
stesso ha intenzione di rivendicare e promuovere, senza<br />
la conflittualità del passato. Non è un caso l’intenzione<br />
di pubblicare See A Little Light, stesso titolo del libro per<br />
un concerto che dovrebbe diventare un film e in cui l’ex<br />
Hüsker Dü duetta con suoi d<strong>is</strong>cepoli dichiarati come<br />
Dave Grohl e i No Age. «Finalmente inizio a godermi la<br />
vita come viene» è una delle ultime frasi della biografia.<br />
Contenti per lui oggi, e meglio per noi che in passato sia<br />
appartenuto alla schiera dei non riconciliati e abbia scritto<br />
alcune delle migliori pagine di indie rock di sempre.<br />
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classic album<br />
Dire Straits<br />
dire StrAitS (vertigo, ottobre 1978)<br />
Credo di aver conosciuto i Dire Straits assieme ai principali<br />
rimproveri che da sempre vengono mossi nei loro<br />
confronti: derivativi, e quel che è peggio out-of-time.<br />
Quanto alla prima accusa, penso sia abbastanza incontestabile,<br />
per quanto non mi sembra che debbano scontare<br />
più debiti di quanto il rock non abbia contratto prima<br />
e dopo la loro venuta. Senza scordare poi come siano<br />
comunque riusciti a sviluppare un sound estremamente<br />
riconoscibile, soprattutto grazie alla chitarra (e alla voce)<br />
di Mark Knopfler. Quanto al secondo “peccato”, credo<br />
sia il caso di soffermarsi un attimo. Di ripartire dall’inizio.<br />
La band prese forma a metà dei 70s proponendo una<br />
m<strong>is</strong>tura di rock’n’roll venato country e blues nel circuito<br />
dei pub londinesi. A muovere i fratelli Knopfler, il bass<strong>is</strong>ta<br />
John Illsley ed il batter<strong>is</strong>ta Pick Wi<strong>the</strong>rs (quest’ultimo con<br />
un passato abbastanza importante nei The Primitives di<br />
Mal) pareva essere innanzitutto la voglia di allestire un<br />
sottofondo tanto suggestivo quanto divertente, nel quale<br />
la componente folk-blues - seppur mutuata in una sorta<br />
di fantasia western ad alto tasso cinematico - predominava<br />
tenendo ancorato il messaggio ad altezza d’uomo.<br />
In un certo senso, possiamo interpretare la proposta dei<br />
Dire Straits come un controcanto escap<strong>is</strong>ta tanto all’iconoclastia<br />
punk dominante quanto alla sua alternativa arty<br />
rappresentata dalla parimenti pervasiva new wave. Ne<br />
r<strong>is</strong>ultò un crescente successo di pubblico (a partire dal<br />
terzo album addirittura clamoroso) e la d<strong>is</strong><strong>is</strong>tima imperitura<br />
proprio da parte di chi vedeva nel verbo di P<strong>is</strong>tols,<br />
Clash, Suicide e Telev<strong>is</strong>ion il codice che avrebbe salvato le<br />
sorti del rock. Un’avversione che ancora oggi dura.<br />
Penso tuttavia sia il caso di tenere presente quanto le<br />
schematizzazioni storiografiche siano solo necessarie<br />
approssimazioni. Nella realtà in ogni momento convivono,<br />
si sfiorano e sovrappongono situazioni diverse,<br />
ognuna diretta volente o nolente verso lo stesso domani.<br />
I Dire Straits insomma, che ci piaccia o meno,<br />
sono figli perfetti del loro tempo. Prendete ad esempio<br />
il nome della band, che tradotto vuol dire più o meno<br />
“gravi r<strong>is</strong>trettezze”: non sarà una delle ragioni sociali più<br />
punk che si possano immaginare, ma ci va abbastanza<br />
vicino. Detto questo, non si può negare che la loro comparsa<br />
sulla scena fu v<strong>is</strong>suta con sollievo e persino con<br />
entusiasmo proprio dai reduci del folk-rock e persino di<br />
certo prog (ne ho conosciuti in tempo reale). Alla fine di<br />
tutti questi d<strong>is</strong>corsi, e passiamo a quello che conta, c’è<br />
un album d’esordio omonimo uscito nell’ottobre del ‘78:<br />
periodo tragico che il quartetto britannico (con sede a<br />
Londra, anche se i Knopfler erano originari di Glasgow)<br />
volle sublimare inventandosi una dimensione epica.<br />
Fu un po’ come fondere il piombo di quegli anni per farne<br />
proiettili simbolici, vaganti in una specie di scenario<br />
post-western, tutto un gioco di astrazioni al sapor di<br />
celluloide condotte con un gradevole mix di entusiasmo<br />
e gravità. Lo stile del chitarr<strong>is</strong>ta-cantante-compositore<br />
si esalta tra le insidie bluesy di Six Blade Knife e quelle<br />
funky di Southbound Again, nella blandizie errebì di<br />
Lions (tipo gli Steely Dan in fregola Tom Petty), nelle latinerie<br />
languide di Water Of Love e in quelle smerigliate<br />
di Down To The Waterline, nel deserto carezzevole di Wild<br />
West End. Soprattutto, è ovvio, nella trascinante celebrazione<br />
di un mondo sul punto d’estinguersi (“...And an<br />
old guitar <strong>is</strong> all he can afford/When he gets up under <strong>the</strong><br />
lights to play h<strong>is</strong> thing”) di Sultans Of Swing, nella quale<br />
c’è tutta intera la loro poetica, né più né meno.<br />
Col suo lir<strong>is</strong>mo liquido e denso, dalla v<strong>is</strong>ionarietà prepsichedelica,<br />
la chitarra di Knopfler sembra un archetipo<br />
rurale di Tom Verlaine, lo stilo di un sognatore che<br />
allest<strong>is</strong>ce sogni senza additivi, trasformando cupezze &<br />
amarezze in un melò crepuscolare. Troppo caratterizzato<br />
per lasciare epigoni, il d<strong>is</strong>corso dei Dire Straits è<br />
evaporato in una nuvola mainstream prima che sembrasse<br />
in grado di scrivere pagine davvero profonde. Un<br />
percorso così simile seppur così diverso nella sostanza<br />
a quello dei coevi Police. In questo senso, il sodalizio<br />
stretto da Sting e Knopfler per la scrittura e l’interpretazione<br />
della celeberrima Money For Nothing - anno 1985<br />
- assume l’aspetto di un paradigma. O di un punto di<br />
non ritorno, fate voi.<br />
SteFAno Solventi<br />
classic album<br />
Nine Inch Nails<br />
<strong>the</strong> downwArd SpirAl (tvt reCordS, mArzo 1994)<br />
“I ragazzi sono curiosi di noi, ci chiedono di Rebirth,<br />
ma non sanno cosa c’è di sporco in quel programma,<br />
di BASTARDO DENTRO”, diceva Cr<strong>is</strong>tina dei Kr<strong>is</strong>ma<br />
tempo fa dopo un concerto.<br />
Reznor invece lo sapeva sicuramente, cresciuto com’era<br />
in un contesto nel quale i losers anni ‘90 avevano preso<br />
da un decennio di metal il gusto per apocal<strong>is</strong>se, atrocità<br />
e violenza, nonché attento allievo di Min<strong>is</strong>try e Skinny<br />
Puppy sui lati oscuri dell’elettronica e conscio della svolta<br />
industrial presa da una buona corrente del suo amato<br />
gothic rock (amore che lo porterà alla cover di Dead<br />
Souls per la colonna sonora de Il Corvo e alle collaborazioni<br />
con Peter Murphy). D’altronde nel ‘91 Nirvana<br />
e Red Hot Chili Peppers avevano ribadito in classifica,<br />
per chi non lo sapesse, che il rock es<strong>is</strong>teva ed era rumoroso,<br />
violento e meticcio (e dunque punk e metal<br />
potevano abbandonare parecchie diffidenze reciproche),<br />
aprendo la strada per MTV a Vitalogy, agli Alice In<br />
Chains o ai Min<strong>is</strong>try di Psalm 69.<br />
Così Trent, che aveva esordito con due lavori ottimi ma<br />
ancora non del tutto autonomi dai maestri suddetti<br />
(Pretty Hate Machine, deviatamente pop, e l’EP Broken)<br />
e che partecipava al Lollapalooza fin dall’inizio, va a raccogliere<br />
numerose suggestioni sia da una fase musi<strong>cale</strong><br />
eclettica capace di sdoganare il rumore, sia da tendenze<br />
sotterranee che r<strong>is</strong>alivano ai Suicide e dintorni, sintetizzandole<br />
in una nuova musica davvero 90s e in grado<br />
di dare indicazioni per il futuro: creare il capolavoro /<br />
colonna sonora per la nuova generazione.<br />
Attent<strong>is</strong>simo manipolatore del suono, chiuso nel suo<br />
studio (costruito nella villa in cui Sharon Tate fu ucc<strong>is</strong>a<br />
da Manson e accoliti, tanto per ribadire la moda<br />
dell’atrocità) insieme a Flood a combattere contro tecniche<br />
pionier<strong>is</strong>tiche di hard d<strong>is</strong>k recording, Reznor costru<strong>is</strong>ce<br />
un edificio di violenza sonora strutturato come<br />
un film, dove l’introspezione d<strong>is</strong>perata e l’immaginario<br />
tra splatter, apocal<strong>is</strong>se e cyberpunk dei testi sanno raccontare<br />
le ansie di una modernità sempre meno umana.<br />
Tanto quanto le narra un suono che toglie alla chitarra<br />
elettrica l’aura di unica purezza possibile della rabbia<br />
rock e al computer il frac algido che gli avevano messo<br />
addosso i Kraftwerk e il synth pop anni ‘80.<br />
C’è tutto questo in un d<strong>is</strong>co che mostra un uso da maestro<br />
delle dinamiche forte/piano: dalla furia con aperture<br />
ambient dell’iniziale autoritratto di Mr. Self Destruct al<br />
dub inquietante di Piggy, dal techno-pop che struttura<br />
inizialmente Heresy al technopunk di Big Man With A<br />
Gun, dall’apparente tranquillità venata di inquietudine<br />
sempre meno trattenuta di Closer e Eraser alle frenesie<br />
quasi Pixies del breve singolo March Of The Pigs col<br />
suo sorprendente stacco melodico di piano, dalla <strong>house</strong><br />
frammentata con interludio folk di The Becoming agli<br />
intermezzi strumentali da colonna sonora della title<br />
track e di A Warm Place, fino alla sorprendente ballatacapolavoro<br />
Hurt, che chiude il d<strong>is</strong>co allo stesso tempo<br />
in modo coerente e inatteso.<br />
Il d<strong>is</strong>co venderà parecchio, rafforzando l’influenza che<br />
Reznor esercitava già dagli esordi e confermando che<br />
il pubblico era pronto da tempo per un suono che il<br />
d<strong>is</strong>co stesso contribu<strong>is</strong>ce a diffondere: vedi i Prodigy<br />
in classifica di lì a poco, l’uso di certe batterie scorticate<br />
da parte di Bjork in Homogenic, l’influenza su Outside<br />
di un Bowie che con Low era stato una delle muse dichiarate<br />
di Reznor (ne seguirà anche un tour insieme) e<br />
soprattutto l’apocalittico concerto a Woodstock 94 coi<br />
nostri coperti di fango nel bel mezzo di una consacrazione<br />
ufficiale.<br />
Alcuni preferiranno poi lo sviluppo realizzato nell’altro<br />
capolavoro The Fragile: accademia, v<strong>is</strong>to il livello delle<br />
due opere.<br />
giulio pASquAli<br />
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sentireascoltare.com