napoletano Duca di Broglio. Essendomi abbando<strong>nat</strong>o, più del consueto, ai piaceri dell'alcool, l'atmosfera soffocante delle sale da ballo, gremite d'una folla variopinta, mi esasperò fino al punto d'essere incapace di sopportarla oltre. Anche la difficoltà d'aprirmi una via tra la calca irritava vieppiù il mio umore. Giacché ansiosamente ricercavo - e ne tacerò l'indegno motivo - la giovane, allegra e bella sposa del vecchio e stravagante Duca di Broglio. Ella m'aveva rivelato - dando prova d'eccessiva leggerezza, a dire il vero - il segreto della mascheratura che avrebbe indossata per quella sera, così che, non appena l'ebbi vista da lungi, già ismaniavo di raggiungerla. Ed ecco una mano posarsi lievemente sulla mia spalla, ed ecco il dan<strong>nat</strong>o mormorio - potrò mai dimenticarlo? - penetrare sommesso alle mie orecchie. Mi volsi, posseduto da un impeto di furia ed afferrai violentemente colui pel suo bavero. Egli aveva indosso, come, del resto, m'attendevo, un costume del tutto identico al mio: un costume spagnuolo in velluto azzurro, con una cintura cremisina stretta attorno alla vita, da cui pendeva una spada. E sul viso una maschera di seta nera. «Ribaldo!», esclamai con voce arrochita dallo sdegno, che era vieppiù aumentato da ogni sillaba che mi lasciavo sfuggire. «Impostore! Dan<strong>nat</strong>o furfante! Quando finirai di seguirmi come un cane? Vien fuori, ch'io ti passi da parte a parte, sul luogo!». E, trascinandomelo dietro, traversai la sala delle danze e lo condussi in un gabinetto attiguo. Entrando, gli diedi una forte spinta, accecato com'ero dall'ira, ed egli andò a battere contro il muro nello stesso momento in cui, mentre chiudevo, con una bestemmia, la porta, gli comandavo di mettersi in guardia. Sembrò che esitasse. Ma fu l'impressione d'un attimo. Emise un leggero sospiro, trasse la spada fuor della guaina e obbedì all'ingiunzione. Il duello fu assai breve, per la verità. Sovreccitato com'ero per la sfre<strong>nat</strong>a esasperazione dell'animo mio, serbavo nel braccio il vigore e la potenza di tutt'intera una folla. Lo ridussi contro una parete, in pochi minuti e, una volta a mia discrezione, lo trafissi ripetutamente, nel petto, con ferocia. In quello stesso istante, qualcuno, di fuori, tentò d'aprire la porta. Per impedire un'invasione, io m'accanii con furia crescente sul mio nemico, per finirlo. E quali parole, tuttavia, potrebbero rappresentar la maraviglia e la paura che in quel punto s'impadronirono di me? L'istante in cui m'ero volto a guardare istintivamente verso la porta, era stato sufficiente perché, nella stanza, si producesse un cotale mutamento nella disposizione dei mobili. Dove un momento innanzi non v'era se non il legno della parete, vedevo, ora, un gigantesco specchio. E come io avanzavo in preda al terrore verso di esso, vedevo venirmi innanzi la mia immagine, pallida nel volto, lorda di sangue, ed il suo incedere era fiacco e malfermo. Così mi parve che fosse, ma così non era. Era Wilson, era il mio nemico che mi stava ritto davanti, mentre agonizzava. Egli aveva buttato il suo mantello ed ecco, io vidi che non v'era un solo filo nella trama del suo abito, non un sol tratto dei suoi lineamenti tanto caratteristici e originali che non fosse, nel modo più assoluto, mio! Egli era Wilson. Ma le sue parole non giunsero più al mio orecchio filtrate dal suo agghiacciante mormorio e mentr'egli parlava, io avrei giurato di sentir parlare me stesso. «Tu hai vinto», egli disse, «ed io cedo. Ma anche tu, fin da questo istante, sei morto ... morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza. Tu esistevi in me ... ed ora... ora che sono morto, guarda in questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassi<strong>nat</strong>o te stesso».
HOP-FROG Non ebbi mai a conoscere alcuno che avesse disposizione alla beffa quanto quel Re. Sembrava che vivesse soltanto per scherzare. E il modo più infallibile per ottenere i suoi favori era di raccontargli una storiella da ridere e soprattutto di raccontargliela bene. Era, così, <strong>nat</strong>urale che tutt'e sette i suoi ministri si distinguessero per il loro ingegno di buffoni e non fossero da meno del loro Re, non soltanto per quel che riguarda l'adiposa opulenza dell'addome, ma anche nell'impareggiabile attitudine allo scherzo. Che siano le buffonerie a ingrassar la gente, ovvero che nel grasso vi sia qualcosa che disponga all'allegria, io non sono ancora riuscito a stabilire: è un fatto incontrovertibile, nondimeno, che un buffone magro è rara avis in terris. Il Re poco curava quelle ch'egli usava chiamare le raffi<strong>nat</strong>ezze, ovvero gli «spiriti» di quella comica scienza e aveva, per contro, un'ammirazione tutta particolare per la «larghezza» delle buffo<strong>nat</strong>e, e, per amor di questa, sopportava, talvolta, anche quella che potremmo chiamare la loro «lunghezza». Le delicatezze, invece, lo annoiavano e non v'è alcun dubbio che avrebbe preferito il Gargantua allo Zadig, e, d'altro canto, è pur vero ch'egli preferiva le beffe in azione a quelle meramente riferite a parole. Al tempo in cui ha luogo l'odierno racconto, i buffoni di Corte non eran del tutto passati di moda. Numerose grandi potenze del continente, infatti, mantenevano ancora di cotesti «buffoni» i quali portavano livrea di toppe e berretto a sonagli, e avevan da esser sempre pronti a guadagnarsi, con le loro facezie, le briciole offerte dalla mensa regale. Il nostro Re, com'è <strong>nat</strong>urale, aveva anch'egli il suo bravo buffone. E, a onor del vero, aveva bisogno d'alcunché di ammattito che avesse, se non altro, a compensarlo della grave saggezza dei sette che fungevan da ministri, a non mettere nel conto, <strong>nat</strong>uralmente la sua propria. Cotesto buffone, però, non era soltanto un buffone, dacché egli aveva la sua considerazione triplicata, agli occhi del Re, per il fatto che era anche nano e sciancato. I nani erano, a quel tempo, tanto comuni, nelle Corti, quanto i buffoni, e più d'un sovrano sarebbe stato indeciso sul modo di passar la sua gior<strong>nat</strong>a - le gior<strong>nat</strong>e, infatti, sono più lunghe alla Corte che altrove - senza un buffone che lo facesse ridere, ovvero un nano per riderne. Ma come ho già avuto modo di osservare, le persone burlevoli, novantanove volte su cento, sono grosse, grasse e massicce, per modo che non era picciol motivo di soddisfazione al nostro Re che Hop-Frog - questo era, infatti, il nome del suo buffone, come a dire Ranocchio Saltatore - custodisse, in una sola persona, un triplice tesoro. Non sono sicuro che il nome di Hop-Frog fosse stato imposto a costui dai suoi padroni al momento di battezzarlo, ma sospetto, piuttosto, che fossero stati i sette ministri, all'unanimità, a conferirglielo, per il fatto che non poteva camminare come gli altri uomini. Ed in effetti, Hop-Frog non era capace di muoversi, altro che a sbalzi - qualcosa tra il salto e la giravolta - e quel movimento era, per il Re, un perpetuo divertimento, ed anche una gran consolazione, dacché - nonostante l'eccessivo sporgere della sua pancia ed un gonfiore costituzionale alla testa - il Re aveva, agli occhi di tutta la Corte, un gran bel personale. Sebbene, a causa delle sue gambe distorte, Hop-Frog non potesse muoversi che a gran fatica, in istrada, ovvero sull'impiantito del palazzo, la forza muscolare delle braccia, che la <strong>nat</strong>ura, quasi a compensarlo d'averlo tanto malamente dotato negli arti inferiori, gli aveva concessa in prodigiosa misura, lo rendeva capace di atti ai quali sarebbe stata richiesta una meravigliosa destrezza, allorché si trattava di arrampicarsi su alberi, cordami, o su qualsivoglia altro oggetto fosse stato necessario. Ed è doveroso riconoscere che in quegli esercizi, molto meglio che a un ranocchio, si sarebbe potuto paragonarlo a uno scoiattolo, ovvero a una scimmia. Donde venisse e dove fosse propriamente <strong>nat</strong>o, non so dire con esattezza; era però indubitato che appartenesse a una qualche barbara regione della quale nessuno aveva mai avuto sentore e, comunque, a grande distanza dai domini del nostro Re. Hop-Frog e una giovinetta, la quale era di poco meno nana di lui - e squisitamente proporzio<strong>nat</strong>a, nonostante tutto, ed eccellente ballerina - erano stati rapiti, a forza, dalle loro case, nelle province limitrofe, e spediti in dono al Re, da uno dei suoi generali che era stato favorito dalla vittoria. In tali circostanze, non potrà stupire che, tra i due, nascesse e si stringesse una grande intimità. Essi, infatti, divennero ben presto amici per la vita. Hop-Frog, a dire il vero, nonostante le sue amabili facezie, era piuttosto inviso alla gente, e quindi non poteva rendersi gran che utile a Trippetta, ma essa, per contro, con la sua grazia e la sua squisita bellezza di nana, era da tutti amata ed ammirata, e possedeva, quindi, molta influenza, e non mancava mai di servirsene, quando capitava, per giovare all'amico suo. Per l'occasione di non so qual solennità, il Re indisse un gran ballo in maschera, ed ogni volta che a Corte aveva luogo una mascheratura o altra cosa del genere, non si poteva fare a meno di ricorrere al genio di Hop-Frog e di Trippetta. Hop-Frog, in modo particolare, era così pieno di fantasia nel suggerire nuovi tipi e nell'apprestare nuovi travestimenti per balli in maschera, che proprio pareva non si potesse far niente senza il suo aiuto. Si arrivò, quindi, alla notte stabilita per la festa. Una magnifica sala, sotto la direzione di Trippetta, era stata addobbata senza che fosse trascurato alcun artifizio tra quelli che avrebbero dato lustro alla serata. L'intera Corte era in preda a una febbre d'attesa, e ognuno, come si può supporre, aveva già fatta la sua scelta per quel che concerne i costumi e i travestimenti. Parecchi avevano deciso da settimane e persino da mesi i rôles che avrebbero assunti, e non c'era, ormai, più alcuna indecisione, salvo che per il Re e i suoi sette ministri. Non saprei dire, veramente, per quale ragione essi indugiassero tanto, ed è anche probabile che la causa ne fosse solo il progetto di nuovi scherzi, come è anche possibile che non riuscissero a decidersi a motivo della loro eccessiva corpulenza. Il tempo, ad ogni modo, volava e, come ultima risorsa, non sapendo a quale altro santo votarsi, il Re ordinò d'andare a chiamare Trippetta e Hop-Frog. I due piccoli amici trovarono il Re assiso a tavola, a trincare coi sette ministri del consiglio, e nondimeno
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