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RACCONTI DEL MISTERO E DEL RAZIOCINIO.pdf - nat russo

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modo d'agire. Copiò così la foggia dei miei abiti, la mia andatura, il mio generale portamento e, nonostante la difficoltà<br />

di quella sua minorazione costituzionale, persino la voce. È chiaro, tuttavia, che, quanto alla voce, egli non tentava i toni<br />

elevati ma ne aveva afferrato, comunque, quale che fosse, il segreto e, a patto di parlar basso, egli riusciva ad ottenere<br />

che il suo bisbiglio fosse l'eco perfetto della mia voce.<br />

Quale alto grado di tormentosa angoscia non provocasse in me questo ritratto singolare ch'egli mi era uso<br />

porgere - e che io non potrei chiamare, onestamente, una caricatura - non arrivo a esprimere. Non avevo che una<br />

consolazione soltanto: e cioè che quella contraffazione, per quanto almeno mi riuscì di sapere, ero io soltanto ad<br />

avvertirla, per modo che non ne dovevo sopportare nulla all'infuori dei misteriosi sorrisi del mio omonimo, i quali non<br />

erano mai disgiunti da alcun sarcasmo. Pago d'aver prodotto l'effetto da lui voluto sul mio cuore, egli pareva soddisfatto<br />

di gioire segretamente della tortura medesima che m'infliggeva e sdegnava gli applausi che pure il successo per la sua<br />

bravura gli avrebbe procurato. Perché mai i nostri condiscepoli non indovinassero i suoi piani e non ne osservassero<br />

l'esecuzione, come pure non dividessero, assieme a lui, il piacere di quella turlupi<strong>nat</strong>ura, io non riuscii mai a discoprire,<br />

nonostante quel lunghi mesi d'inquietudine. È probabile che rendesse problematica l'osservazione dei suoi modi,<br />

l'estrema e graduale lentezza onde egli era uso portare innanzi la sua contraffazione. Ovvero io ero debitore della mia<br />

salvezza soltanto all'abilità del copista, il quale scartava ciò che suol dirsi la lettera - e questa è, pure, tutto ciò che le<br />

menti ottuse san riconoscere - badando a rendere solo lo spirito dell'originale, combinando assieme, così, la mia<br />

smisurata ammirazione e il mio cocente dispetto?<br />

Ho già ripetutamente accen<strong>nat</strong>o all'aria - tanto fastidiosa per me - di protezione che egli aveva assunta nel miei<br />

riguardi, come pure al suo frequente e ufficioso interferire coi miei propositi. Tale interferenza assumeva sovente lo<br />

sgradito carattere d'un ammonimento, il quale, seppur non era apertamente dichiarato, nondimeno era sottilmente<br />

suggerito, perfidamente insinuato. Ed io dovevo ridurmi ad accoglierlo con una ripugnanza la quale si faceva sempre<br />

più gremita col proceder del tempo. E tuttavia, ora che quell'epoca è del tutto trascorsa, desidero rendergli la doverosa<br />

giustizia di riconoscere che non m'è possibile rammentare soltanto un caso in cui quei suoi ammonimenti si rivelassero<br />

partecipi dell'errore e della stravaganza che pure sarebbe stata del tutto giustificabile alla sua età, immatura, per solito,<br />

ed inesperta; e ancora che il suo senso morale, come la sua avvedutezza e il suo talento erano molto più esercitati dei<br />

miei e, infine, che io sarei adesso un uomo assai migliore, e per conseguenza più felice, ove meno avessi sdeg<strong>nat</strong>i i<br />

suggerimenti di quel suo mormorio così pieno di significato, che pure allora m'ispirava un odio tanto tenace, un tanto<br />

amaro dispregio.<br />

Così ch'io, col tempo, divenni del tutto insofferente della sua osti<strong>nat</strong>a e odiosa sorveglianza, e cominciai a<br />

detestare apertamente ciò che consideravo un'insoffribile soperchieria. Ho detto che durante i primi tempi della nostra<br />

vita in comune, i miei sentimenti a suo riguardo avrebbero potuto anche volgere in amicizia; ma negli ultimi mesi del<br />

mio soggiorno nella scuola, sebbene il fastidio di quella sua persecuzione fosse - e non dico poco - diminuito, i miei<br />

sentimenti, per contro, avevan preso, quasi con la stessa progressione, l'avvio ad un odio aperto e pronto a incrudelire.<br />

Ho la presunzione, infatti, ch'egli dovette accorgersene, in una certa circostanza, e ne è la riprova il suo venir meno alle<br />

assiduità della mia persona o, se non altro, l'atteggiarvisi.<br />

Attorno a quel tempo, se la memoria mi soccorre, durante un violento alterco nel quale egli sembrò smarrire il<br />

suo abituale ritegno con parole ed atti contrari alla sua <strong>nat</strong>ura, io discoprii - ovvero mi parve - nel suo accento, nella sua<br />

espressione, in tutto l'insieme, insomma, della sua fisionomia, un qualche cosa che, dapprima, mi fece trasalire e<br />

m'affascinò poi fin nel profondo, col risveglio, nell'animo mio, d'alcune oscure visioni della mia prima infanzia,<br />

rimasugli strani e scomposti di memorie andate, al tempo in cui io non ero neppur <strong>nat</strong>o al pensiero e alle persistenti<br />

immagini di esso. Non saprei definire quella sensazione in maniera più acconcia se non col dire che m'era difficile<br />

liberarmi dall'idea d'aver già conosciuto quegli che m'era dinanzi in un'epoca remotissima, in un passato estremamente<br />

lontano e nebuloso. E nondimeno quell'impressione svanì colla rapidità medesima con la quale la mia mente eccitata<br />

l'aveva prodotta, ed io qui la ricordo solamente per sottolineare quale fu il carattere dell'ultima disputa che ebbi, per<br />

allora, col mio singolarissimo omonimo.<br />

L'antica e vasta costruzione della scuola comprendeva, nelle sue innumerevoli suddivisioni, una infinità di<br />

enormi camere comunicanti tra loro, le quali servivano da dormitori alla maggior parte degli allievi. V'erano poi - e non<br />

potevan mancare, infatti, in una costruzione così bizzarramente immagi<strong>nat</strong>a - angoli e cantucci in gran numero, ritagliati<br />

in vario modo, a seconda che il fabbricato suggeriva, e che l'utilitaria ingegnosità del reverendo Bransby aveva<br />

trasformati, ancor essi, in altrettanti dormitori, i quali - è evidente - da semplici sgabuzzini che erano, potevano servire,<br />

al massimo, a un solo individuo. Wilson occupava uno di cotesti stambugi.<br />

Una notte, allo spirar dell'ultimo anno ch'io trascorsi alla scuola, immediatamente dopo l'alterco che ho già<br />

detto, mentre tutti erano immersi nel sonno, mi levai dal mio giaciglio e, con un lume in mano, attraverso un intrico<br />

d'angusti passaggi, scivolai fino allo stambugio del mio rivale. Avevo a lungo preparato, contro di lui, un altro di quei<br />

tiri maligni nei quali, fino a quel momento, avevo sempre e completamente fallito. Deciso com'ero a porre quella volta<br />

il mio piano in atto, intendevo che egli provasse tutta la forza della malvagità che mi traboccava nell'animo. Giunto che<br />

fui nel suo stanzino, lasciai il lume sulla soglia, e stornando la luce con una ventola, entrai senza fare il minimo rumore.<br />

Avanzai un passo e udii ch'egli respirava tranquillo. Ben persuaso, in tal modo, che fosse addormentato pienamente e<br />

profondamente, tornai alla porta, presi su il mio lume e, con esso nella mano, mi avvicinai di nuovo al letto. Le cortine<br />

eran chiuse; ed io le discostai lievemente per effettuare il mio piano: ma cadendo il vivo lume, in pieno, sul dormiente, i<br />

miei occhi furori portati, un istante, a soffermarsi sulla sua fisionomia. Lo guardai e mi sentii, nel contempo,<br />

agghiacciare in tutto l'essere mio. Mi sussultò il cuore, mi vacillarono le ginocchia e un insoffribile e inspiegabile orrore

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