RACCONTI DEL MISTERO E DEL RAZIOCINIO.pdf - nat russo

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31.05.2013 Views

ai suoi piedi e assieme con l'anima appestata rese un urlo così orribile ed aspro ma anche così penetrante, che Ethelred dovette turar l'orecchie coll'intere mani per non esser atterrito da quel suono, il quale era il più agghiacciante che mai udisse». E qui, di nuovo, dovetti interrompermi. E mi smarrii anche. Poiché non c'era dubbio, adesso, che non avessi udito - e tuttavia non avrei saputo dire donde esso mi venisse - un suono basso e apparentemente da lungi, ma insistente e aspro, simile a un prolungato stridore, in rispondenza perfetta, peraltro, con quello che avevo immaginato del soprannaturale urlo del drago. Turbato, come certamente ero, per la seconda e ancor più straordinaria coincidenza, da una folla di contrastanti sensazioni, nelle quali predominavano tuttavia la meraviglia e il terrore, ritenni sufficiente presenza di spirito da consentirmi di non eccitare, con alcun rilievo attorno alla bizzarria del fenomeno, la mente stravolta del mio sensibilissimo compagno. Non ero ben sicuro che avesse udito quei suoni: e tuttavia egli aveva, da qualche minuto, assunto una posizione diversa e aveva spostato, man mano, la poltrona dove sedeva, dal luogo dov'era, di fronte a me, in altro che gli consentisse d'appuntare gli sguardi alla porta della stanza. Il tremore delle sue labbra, che mormoravano parole inafferrabili, era tutto ciò che potevo vedere di lui. Il capo gli pendeva sul petto, eppure, per quei suoi occhi spalancati e immobili ch'io gli vedevo di profilo, era evidente che non dormiva. E ancora escludeva ch'egli dormisse una sorta di leggero dondolio che aveva come impresso al suo corpo. Notato le ebbi tutto questo, ripresi la lettura. «Ed ora il campione, scampato alla ferocia del drago, tornando colla mente allo scudo bronzeo e avvedutosi che l'incantesimo era infranto, sgomberò la carcassa del mostro, pose piede sull'impiantito d'argento del castello e mosse verso lo scudo appeso. E questo non attese propriamente d'esser raggiunto, e da sé medesimo si spiccò e precipitò ai piedi del cavaliere suscitando, col terribile fragore del metallo, gli echi vasti e potenti del palazzo». Non appena tali parole, nelle loro sillabe precipitate, m'ebbero attraversate le labbra, io intesi distintamente un rumore metallico, profondo, risonante, eppure soffocato, simile a quello che avrebbe prodotto uno scudo di bronzo che fosse caduto pesantemente su una lastra d'argento. Mi levai dritto, preda d'un acceso nervosismo. Usher continuava ininterrottamente a dondolare sulla poltrona. Mi buttai su di lui. I suoi occhi fissavano spalancati la porta: tutto il suo viso aveva l'immobilità del marmo. Eppure bastò ch'io gli sfiorassi la spalla con una mano, perché egli si scotesse da capo a piedi con un tremito improvviso. Un sorriso malato vacillò sul suo labbro. Ma riguardando con maggiore attenzione m'avvidi ch'egli bisbigliava alcune parole precipitate, disarticolate, come se non fosse propriamente avvertito della mia presenza. Mi piegai, accanto a quelle sue labbra, in ascolto e pervenni infine a dare un senso alle sue frasi. «Non odi? Io sì... io odo... io ho già udito ... a lungo... a lungo... per minuti... per ore... per intere giornate ... ho udito eppure non osavo... oh! pietà di me... miserabile ch'io sono... non osavo... non osavo parlare! Noi l'abbiamo chiusa ancor viva nella tomba! Non ti ho forse detto, più volte, che i miei sensi sono estremamente acutizzati? Ed ora io ti dico che ho avvertiti i suoi primi deboli movimenti nella bara! Da molti... da molti giorni io li avevo avvertiti ... ma non osavo... non osavo parlare! E adesso, stanotte, Ethelred ... ah!... ah!... La porta dell'Eremita che si schianta in mille pezzi! Il terribile rantolo del drago! Il fragore dello scudo! Dirai piuttosto lo squarciarsi della cassa e lo stridore dei cardini di ferro e la marcia disperata per il corridoio foderato di rame! Oh! Dove sarà scampo alla mia fuga? Non è certo, ormai, ch'ella sarà qui tra qualche istante? Non accorrerà a rimproverare la mia fretta? Non ho già forse uditi i suoi passi trascinarsi su per la scala? Non odo, forse, ora il battito orribile e pesante del suo cuore? Insensato!». Ed egli si levò, a questo punto, con uno scatto, e urlò, scandendo le sillabe con tale sforzo che l'anima sembrava esalarsi nelle parole: «Insensato! Io ti dico che essa è là, là, essa sta ritta là, dietro la porta!». E quasi che la sovrumana carica d'energia dovuta alla sua esaltazione potesse come opera d'incantesimo parlare, i grandi battenti d'ebano antico che Usher indicava, schiusero lentamente le loro pesanti mascelle. Entrò una folata di vento infuriato. Ma dietro la porta, ravvolta nel sudario, stava l'alta figura di Lady Madeline Usher. Le sue vesti bianche erano lorde di sangue e per ogni punto della sua persona si scorgevano le tracce d'un combattimento atroce. Ella rimase un attimo, vacillando, anelante, sulla soglia. Poi emise un profondo lamento e nel contempo cadde pesantemente in avanti addosso alla persona del fratello, trascinando, nell'agonia suprema, il corpo di quella vittima del terrore che rotolò fulminato al suolo. Fuggii al colmo dell'orrore da quella stanza, da quella casa. La tempesta disfogava ancor tutta la sua ira allorché mi trovai sul terrapieno. Una livida luce inondò all'improvviso la mia via ed io mi volsi a veder donde venisse, incuriosito dal suo stravagante splendore, dal momento che, alle mie spalle, io sospettavo soltanto l'immane ombra del castello. Era la luna nel suo pieno, che splendeva, insanguinata, attraverso la fessura - appena visibile una volta - che correva a zig-zag lungo la facciata, dal tetto alle fondamenta. Nel mentre che io riguardavo, quella spaccatura s'allargava rapidamente. Un turbine di vento discopriva in quel punto l'intero disco della luna ed io vidi - mentre sentivo mancarmi - crollar le possenti muraglie del castello. Uno strepito grandioso e tumultuante rispose, con la voce di mille cateratte, e la buia palude al miei piedi si richiuse in un tetro silenzio, sulle rovine della CASA USHER.

WILLIAM WILSON Che dir di ciò? che dir della COSCIENZA austera, Spettro sulla mia strada? Chamberlaine, Pharronida Lasciate che io mi chiami, pel momento, William Wilson. La pagina che mi s'apre bianca dinanzi non dev'essere insudiciata dal mio vero nome il quale è stato troppo spesso oggetto di spregio, d'orrore e d'abbominio per la mia famiglia. Non ne hanno forse divulgata l'incomparabile infamia i venti sdegnati, fin nelle più remote contrade del mondo? Ahimè, il più abbandonato fra tutti i proscritti! Non sei tu dunque morto per sempre a questo mondo? Ai suoi onori, ai suoi fiori, alle sue aurate ambizioni? E non s'è forse frapposta per l'eternità, tra le tue speranze e il cielo, una sinistra e spessa nube della quale non è consentito scorgere dove finisca? Non vorrei, quand'anche fosse in mio potere, affidare a queste pagine le memorie dei miei ultimi anni di innominabile miseria, di imperdonabili delitti. Quest'ultimo periodo della mia vita m'ha condotto a un'altezza di turpitudine della quale non voglio che determinare l'origine. Questo e nessun altro è, nella presente occasione, il mio scopo. Gli uomini, di solito, diventano vili poco alla volta: quanto a me, ho perduta tutt'intera la mia virtù, in uno stesso istante, d'un sol colpo, al modo stesso che si perde un mantello. Da una perversità relativamente comune, sono pervenuto, con un solo passo da gigante, a tali enormità che nemmeno Ellogabalo ne sarebbe stato degno. Consentite così che vi narri minuziosamente qual caso, quale unico accidente m'abbia addotto a tanta maledizione. Si sta avvicinando la Morte e l'ombra che la precede ha reso più mite il mio cuore. Così, passando per la triste valle, io ricerco la compassione e la pietà - stavo per dire - dei miei simili, elevando un fiotto di sospiri. Vorrei che si persuadessero com'io non sono stato se non lo strumento di circostanze indipendenti da ogni umano controllo. Vorrei che discoprissero, fra mezzo al Sahara di errori che si contempla in ciò che imprendo a narrare, una qualche oasi di fatalità. E che riconoscessero, infine, quanto non potranno rifiutarsi di riconoscere e che cioè non esistette mai uomo - quantunque questo mondo conosca le più grandi tentazioni - che ne subisse di tal sorta né, tanto meno, che per quelle dovesse tanto abbassarsi. Sarebbe forse proprio a causa di questo che nessuno ebbe a soffrire ciò che io invece soffersi? Ovvero io avrei abitato, finora, dentro a un sogno e mi trovo, ora, a morir vittima dell'orrore e del mistero della più stravagante fra tutte le visioni sublunari? Io discendo da una stirpe che s'è distinta, nei tempi, per l'indole fantasiosa e proclive all'eccitazione. I miei primi anni provarono che avevo ereditato, dai miei avi, quel carattere in pieno. Col passar del tempo, nondimeno, questo carattere si fece in me più spiccato e per numerosi motivi fu causa d'inquietudine tra i miei amici e un fornite di positivo pregiudizio per me. Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli nello spirito, e anch'essi torturati dai miei stessi difetti, poco fecero - come poco avrebbero potuto fare - per reprimere le mie riprovevoli tendenze. Tentarono - è vero - qualcosa, ma assai fiaccamente e del tutto fuor di proposito. Così che non approdarono a nulla, mentre io trionfavo assoluto. Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a un'età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni. Le mie prime impressioni di scolaro fan tutt'uno col ricordo d'una vasta e bizzarra costruzione in stile elisabettiano in un lugubre villaggio inglese, pieno di alberi giganteschi e nodosi, e dove tutti gli edifici erano contraddistinti da una secolare antichità. Quella veneranda cittadina era, per la verità, un luogo di sogno, fatto apposta per affascinare lo spirito. E persino, al ripensarvi ora, mi sovviene della fresca sensazione delle fonde ombre dei suoi viali, mi par di respirare l'odore dei suoi mille tigli e trasalisco, compreso d'infinito piacere, al momento in cui mi par d'udire il rintocco sordo e grave della campana che rompeva sinistramente, d'ora in ora, l'atmosfera quieta e oscura nella quale era immerso, addormentato in tutti i suoi pinnacoli, il campanile gotico. Questi minuti ricordi della scuola e, comunque, delle fantasticherie che accompagnarono quel tempo, son tutto quello che resta a testimoniare e a convogliarmi seco, talvolta, di quei piaceri andati. Preda qual io mi sono, ahimè, della sciagura - la quale è soltanto anche troppo reale - mi si perdoni s'io cerco un lieve ed effimero conforto nel riandare quei teneri svaghi infantili. Minimi e ridevoli di per se stessi, essi acquistano, d'altro canto, una loro importanza nella mia fantasia per l'intima connessione che hanno coi luoghi e con l'epoca nei quali sono costretto a rinvenire le prime ambigue avvisaglie del Destino che proiettò, sul mio cammino, la sua ombra intensa e devastatrice fin da quel tempo beato. Consentite, dunque, che io ricordi. La casa, secondo ho già detto, era antica e di costruzione irregolare. Le terre attorno erano ampie e un alto e saldo muraglione di mattoni, incoronato da uno strato di malta con suvvi incastrati frammenti di bottiglie e di altri oggetti di vetro, lo recingeva d'ogni banda. Tale cinta - la quale era invero degna d'un carcere - segnava i confini del nostro dominio. Noi non portavamo il nostro sguardo oltre di essa se non tre volte per settimana. Una volta, al pomeriggio del sabato, allorché ci era consentito di fare delle brevi passeggiate collettive per la campagna circostante, in custodia dei prefetti, e due volte alla domenica, allorché venivamo condotti, incolonnati come soldati, ad assistere agli uffizi della mattina e della sera nell'unica chiesa del villaggio. Il direttore della nostra scuola era, nel contempo, pastore di quella chiesa. Con quali profondi sensi di timore e di reverenza io non lo contemplavo dai nostri banchi relegati su in alto, nelle tribune, quando egli saliva sul pulpito a passi lenti e solenni! Mi chiedevo come quel personaggio venerabile, dall'aspetto tanto umile e benevolo, dall'abito così ben spazzolato e ondeggiante alla maniera degli ecclesiastici e dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale, con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano, le draconiane leggi della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva qualsiasi soluzione.

WILLIAM WILSON<br />

Che dir di ciò? che dir della COSCIENZA austera,<br />

Spettro sulla mia strada?<br />

Chamberlaine, Pharronida<br />

Lasciate che io mi chiami, pel momento, William Wilson. La pagina che mi s'apre bianca dinanzi non<br />

dev'essere insudiciata dal mio vero nome il quale è stato troppo spesso oggetto di spregio, d'orrore e d'abbominio per la<br />

mia famiglia. Non ne hanno forse divulgata l'incomparabile infamia i venti sdeg<strong>nat</strong>i, fin nelle più remote contrade del<br />

mondo? Ahimè, il più abbando<strong>nat</strong>o fra tutti i proscritti! Non sei tu dunque morto per sempre a questo mondo? Ai suoi<br />

onori, ai suoi fiori, alle sue aurate ambizioni? E non s'è forse frapposta per l'eternità, tra le tue speranze e il cielo, una<br />

sinistra e spessa nube della quale non è consentito scorgere dove finisca?<br />

Non vorrei, quand'anche fosse in mio potere, affidare a queste pagine le memorie dei miei ultimi anni di<br />

innominabile miseria, di imperdonabili delitti. Quest'ultimo periodo della mia vita m'ha condotto a un'altezza di<br />

turpitudine della quale non voglio che determinare l'origine. Questo e nessun altro è, nella presente occasione, il mio<br />

scopo. Gli uomini, di solito, diventano vili poco alla volta: quanto a me, ho perduta tutt'intera la mia virtù, in uno stesso<br />

istante, d'un sol colpo, al modo stesso che si perde un mantello. Da una perversità relativamente comune, sono<br />

pervenuto, con un solo passo da gigante, a tali enormità che nemmeno Ellogabalo ne sarebbe stato degno. Consentite<br />

così che vi narri minuziosamente qual caso, quale unico accidente m'abbia addotto a tanta maledizione. Si sta<br />

avvicinando la Morte e l'ombra che la precede ha reso più mite il mio cuore. Così, passando per la triste valle, io ricerco<br />

la compassione e la pietà - stavo per dire - dei miei simili, elevando un fiotto di sospiri. Vorrei che si persuadessero<br />

com'io non sono stato se non lo strumento di circostanze indipendenti da ogni umano controllo. Vorrei che<br />

discoprissero, fra mezzo al Sahara di errori che si contempla in ciò che imprendo a narrare, una qualche oasi di fatalità.<br />

E che riconoscessero, infine, quanto non potranno rifiutarsi di riconoscere e che cioè non esistette mai uomo -<br />

quantunque questo mondo conosca le più grandi tentazioni - che ne subisse di tal sorta né, tanto meno, che per quelle<br />

dovesse tanto abbassarsi. Sarebbe forse proprio a causa di questo che nessuno ebbe a soffrire ciò che io invece soffersi?<br />

Ovvero io avrei abitato, finora, dentro a un sogno e mi trovo, ora, a morir vittima dell'orrore e del mistero della più<br />

stravagante fra tutte le visioni sublunari?<br />

Io discendo da una stirpe che s'è distinta, nei tempi, per l'indole fantasiosa e proclive all'eccitazione. I miei<br />

primi anni provarono che avevo ereditato, dai miei avi, quel carattere in pieno. Col passar del tempo, nondimeno, questo<br />

carattere si fece in me più spiccato e per numerosi motivi fu causa d'inquietudine tra i miei amici e un fornite di positivo<br />

pregiudizio per me. Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli<br />

nello spirito, e anch'essi torturati dai miei stessi difetti, poco fecero - come poco avrebbero potuto fare - per reprimere le<br />

mie riprovevoli tendenze. Tentarono - è vero - qualcosa, ma assai fiaccamente e del tutto fuor di proposito. Così che non<br />

approdarono a nulla, mentre io trionfavo assoluto. Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a<br />

un'età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai<br />

padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni.<br />

Le mie prime impressioni di scolaro fan tutt'uno col ricordo d'una vasta e bizzarra costruzione in stile<br />

elisabettiano in un lugubre villaggio inglese, pieno di alberi giganteschi e nodosi, e dove tutti gli edifici erano<br />

contraddistinti da una secolare antichità. Quella veneranda cittadina era, per la verità, un luogo di sogno, fatto apposta<br />

per affascinare lo spirito. E persino, al ripensarvi ora, mi sovviene della fresca sensazione delle fonde ombre dei suoi<br />

viali, mi par di respirare l'odore dei suoi mille tigli e trasalisco, compreso d'infinito piacere, al momento in cui mi par<br />

d'udire il rintocco sordo e grave della campana che rompeva sinistramente, d'ora in ora, l'atmosfera quieta e oscura nella<br />

quale era immerso, addormentato in tutti i suoi pinnacoli, il campanile gotico.<br />

Questi minuti ricordi della scuola e, comunque, delle fantasticherie che accompagnarono quel tempo, son tutto<br />

quello che resta a testimoniare e a convogliarmi seco, talvolta, di quei piaceri andati. Preda qual io mi sono, ahimè, della<br />

sciagura - la quale è soltanto anche troppo reale - mi si perdoni s'io cerco un lieve ed effimero conforto nel riandare quei<br />

teneri svaghi infantili. Minimi e ridevoli di per se stessi, essi acquistano, d'altro canto, una loro importanza nella mia<br />

fantasia per l'intima connessione che hanno coi luoghi e con l'epoca nei quali sono costretto a rinvenire le prime<br />

ambigue avvisaglie del Destino che proiettò, sul mio cammino, la sua ombra intensa e devastatrice fin da quel tempo<br />

beato. Consentite, dunque, che io ricordi.<br />

La casa, secondo ho già detto, era antica e di costruzione irregolare. Le terre attorno erano ampie e un alto e<br />

saldo muraglione di mattoni, incoro<strong>nat</strong>o da uno strato di malta con suvvi incastrati frammenti di bottiglie e di altri<br />

oggetti di vetro, lo recingeva d'ogni banda. Tale cinta - la quale era invero degna d'un carcere - segnava i confini del<br />

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pomeriggio del sabato, allorché ci era consentito di fare delle brevi passeggiate collettive per la campagna circostante,<br />

in custodia dei prefetti, e due volte alla domenica, allorché venivamo condotti, incolon<strong>nat</strong>i come soldati, ad assistere<br />

agli uffizi della mattina e della sera nell'unica chiesa del villaggio. Il direttore della nostra scuola era, nel contempo,<br />

pastore di quella chiesa. Con quali profondi sensi di timore e di reverenza io non lo contemplavo dai nostri banchi<br />

relegati su in alto, nelle tribune, quando egli saliva sul pulpito a passi lenti e solenni! Mi chiedevo come quel<br />

personaggio venerabile, dall'aspetto tanto umile e benevolo, dall'abito così ben spazzolato e ondeggiante alla maniera<br />

degli ecclesiastici e dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale,<br />

con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano, le draconiane leggi<br />

della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva qualsiasi soluzione.

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