RACCONTI DEL MISTERO E DEL RAZIOCINIO.pdf - nat russo

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31.05.2013 Views

la fierezza della resistenza ch'ella dispiegò nella sua lotta con l'Ombra. Io gemevo, angosciato, al pietoso spettacolo. Avrei voluto calmarla e ragionare secolei, ma nell'intensità del suo sfrenato anelito alla vita, a null'altro che alla vita, ogni raziocinante intervento per consolarla appariva al culmine della follia. E tuttavia, pur framezzo alle torture e alle convulsioni del suo spirito altero, la tranquillità esteriore dei suoi modi non l'abbandonò mai. La sua voce man mano cresceva di dolcezza e di risonanza, ed io, nondimeno, non potevo intrattenermi sul senso di quelle sue orribili e calme parole. Nel mentre che io ascoltavo mi cresceva una bruma nel cervello, frutto quasi dell'estasi per quella sovrumana melodia, per quelle ambizioni e aspirazioni che il mondo doveva, fino allora, ignorare. Non potevo dubitare ch'ella m'amasse e ancora che, in un seno come quello di lei, l'amore non potesse regnare come sentimento comune. Eppure acquistai conoscenza dell'impetuosa forza di quello soltanto nella circostanza della sua morte. Ella sfogava durante lunghe ore, colle mani nelle mie mani, la piena d'un cuore la cui devota passione suggeriva l'idolatria. Che cosa m'aveva meritate le beatitudini di tali confessioni? E che cosa ancora la maledizione ch'io vedessi la mia adorata scomparire al momento stesso in cui me le porgeva? Ma non tollero di indugiare su questo punto. Dirò soltanto che nell'abbandono più che femmineo di Ligeia a un amore - che io, forse, non meritavo - senza motivo prodigato, riconobbi infine l'intima essenza del suo ardente, del suo selvaggio rimpianto della vita che la fuggiva, ormai, con tanta rapidità. È, tale ardore selvaggio, tale veemente struggimento di vita - e soltanto di vita - che io non so esprimere. Le parole si dibattono incapaci nel mio cervello. A mezzo della notte nella quale ella porse l'ultimo respiro, mi richiamò imperiosamente al suo capezzale e volle ch'io ripetessi alcune strofe da lei composte qualche giorno innanzi. Obbedii. Eran queste: È una notte di festa. Gli intristiti E desolati ultimi anni! Alato, Uno stuolo di angeli piangenti Da veli avvolto, in un teatro assiste A un dramma di speranze e di timori, Nel mentre che l'orchestra ne sospira La musica incantata delle sfere. Nel sembiante di Dio nei Cieli, i mimi Qua e là trasvolan, brontolando rochi, E vanno e vengon come burattini Al comando di tremoli fantasmi Che vari d'attorno per cangiar la scena, Versando, dalle loro immense ali Di Condor, l'invisibile Dolore. Quel variopinto dramma - siate certi! - Scordato non sarà, col suo Fantasma Inseguito per sempre da una folla Che non l'aggiunge mai, movendo in cerchio, E sempre torna nello stesso luogo, Colla molta Follia, con il Peccato Ed il Terror, ch'è il fulcro dell'intreccio. Ed ora attenti, ché tra i mimi in calca Una strisciante forma, ecco, s'intrude. È rossa come il sangue e si contorce Mentr'esce sulla scena desolata. Si torce, si contorce! in una angoscia Mortale! I mimi cadono in sua preda! Piangono i serafini, ché le zanne Attossicate del serpente han viste D'umano sangue rosse e scintillanti! Spente sono le luci! tutte spente! E sopra quelle abbrividenti forme Ecco! il velario, funebre lenzuolo, Precipita un rombo di tempesta. Gli angeli, tutti, pallidi e allibiti Si levano, svelandosi, e affermando Che la tragedia è intitolata «L'Uomo» E che il suo eroe è il Serpente Vittorioso. «Oh Dio!», urlò quasi Ligeia balzando dal letto e levando le braccia al cielo in un movimento di spasimo, non appena ebbi terminato di recitare quelle strofe. «Oh Dio! O Padre celeste! Ciò si deve compiere senza remissione? Il Serpente Vittorioso, non sarà mai dunque vinto a sua volta? Non formiamo, noi, forse, una parte integrante di Te? Chi è, chi è che sa i segreti e la potenza della volontà? L'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà». E allora, spossata da quella nuova eccitazione, ella abbandonò le bianche braccia e solennemente fece ritorno al

suo letto di morte. E nel mentre gli ultimi spiriti le passavano il labbro, io udii mescolarsi loro un rumore indistinto. Tesi allora, sottilmente intento, l'orecchio, e udii ancora una volta, le parole di Glanvill: «... l'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte, se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà ...». Essa era morta. Ed io, devastato dal dolore, non potei più a lungo sopportare l'abbandono e la desolazione della mia dimora in quell'antica città che cadeva in rovina sulle sponde del Reno. Io non avevo bisogno di ciò che al mondo ha nome di, ricchezza. E Ligeia me ne aveva apportata molta maggiore che non solitamente il Destino accorda ai mortali. In tal modo, dopo che fu scorso alcun mese di noiati vagabondaggi e peregrinazioni senza meta, entrai in possesso e restaurai un'antica abbazia - della quale, nondimeno, tacerò il nome e il sito - che sorgeva in una delle più incolte e abbandonate t regioni della bella Albione. La cupa e malinconica vastità dell'edificio, il selvaggio aspetto del suo fondo all'intorno, le venerabili e tristi memorie ch'erano legate al luogo, tutto, insomma, parve accordarsi al sentimento di completo abbandono che m'aveva condotto in quella remota e disabitata regione. E nondimeno, pur serbando, al di fuori dell'abbazia, il suo primitivo carattere e il cupo e desolato verde che l'attorniava, io mi studiai, con una perversione quasi fanciullesca, e fors'anche col proposito di alleviare la mia pena, di spiegare, all'interno, una magnificenza più che regale. Avevo alimentato, per la verità, il gusto di simili pazzie fin dall'infanzia, ma soltanto ora esse rinascevano in me, sorpreso nell'innocente meraviglia del Dolore. Io sento troppo bene, ahimè, che sarebbe stato possibile discoprire, infatti, un principio di follia, nello splendore di quei fantasiosi cortinaggi, nella maestà delle sculture egizie, nelle cornici e nei mobili, invero assai stravaganti, e soprattutto negli arabeschi dei tappeti trapunti d'oro. Ero divenuto schiavo dell'oppio che mi teneva incatenato ai suoi ordini, e tutti i miei lavori e le mie commissioni assumevano il colore dei miei sogni. Ma non indugerò a descrivere nei minimi particolari tali assurdità. Mi fermerò soltanto su quella camera, maledetta nell'eternità, nella quale, in un istante di smarrimento della ragione, dopo l'indimenticabile e indimenticata Ligeia, io condussi sposa Lady Rowena Trevanion of Tremaine, dalla bionda chioma e dagli occhi azzurri. Non v'è particolare architettonico o decorativo di quella camera nuziale ch'io non abbia presente agli occhi della memoria. Che cosa poteva aver mai, al posto del cuore, l'altera famiglia della sposa allorché, spinta dalla sete dell'oro, accettò che una fanciulla - tanto teneramente amata - oltrepassasse la soglia d'una stanza tanto stranamente costrutta e adorna? Ho già detto che ne rammentavo i particolari più minuti - sebbene io perda spesso la memoria anche a proposito d'argomenti della massima importanza - e nondimeno in quella fantasiosa ricchezza non v'era alcun ordine prestabilito, ovvero alcun sisterna che guidasse e potesse imporsi alle facoltà della memoria. La stanza era molto grande ed era tagliata secondo la forma di un pentagono. Essa era relegata nell'alta torre d'una estrema ala dell'abbazia e fortificata come uno spalto. Tutto il lato meridionale del pentagono era occupato da un'unica finestra, un immenso cristallo veneziano fuso in un'unico pezzo e d'un color grigio simile a quello del piombo, il quale filtrava i raggi del sole e della luna in modo tale che inondassero gli oggetti della stanza di lugubri riflessi. Al di sopra dell'enorme finestra, una vecchia vite fuorusciva in un intricato viluppo, dall'esterno delle mura della torre per finire d'arrampicarsi all'interno. Il soffitto di quercia era d'un lugubre color nero ed altissimo, costruito a volta e bizzarramente rabescato in stile gotico per metà e druidico per l'altra. Dal centro della volta pendeva, a mezzo di un'aurea catena di larghi anelli, un enorme incensiere, aureo anch'esso e capricciosamente traforato secondo un disegno di stile saraceno, entro il quale s'attorcigliava il vivo serpe d'una perpetua fiamma iridata. Divani e candelabri d'oro, di foggia orientale, erano sparsi qua e là, ed al centro, il letto. Un letto nuziale in stile indiano, basso, d'ebano massiccio, ornato di sculture e sormontato da un baldacchino simile a un pallio funebre. Sarcofaghi di granito nero si levavano giganteschi agli angoli della stanza: essi provenivano dalle tombe dei re di Luxor e i loro antichi coperchi erano istoriati d'immemorabili leggende. E nondimeno, la maggior libertà di fantasia era spiegata, ahimè, nel cortinaggi che pendevano torno torno alle pareti. Queste, oltre ogni proporzione alte, erano rivestite, dall'alto in basso, dalle ampie pieghe d'una pesante tappezzeria - del disegno medesimo di quella che fungeva sul pavimento da tappeto, e sui divani e sul letto da coperta e ancora da baldacchino e si torceva nelle tende alla finestra - ricchissimamente tessuta in oro e, secondo regolari intervalli, pezzata d'arabeschi d'un piede dall'incirca di diametro ognuno, i quali, tracciati in nero, spiccavano sinistramente sull'aureo sfondo. E quelle figure, nondimeno, si riconoscevano per arabeschi solo se guardati da un angolo particolare. A mezzo d'un processo divenuto ormai del tutto banale e di cui si trovano le tracce nelle antichità più remote, quegli arabeschi erano in guisa tracciati che mutassero a vista l'aspetto. Essi così, a chi entrava nella camera, parevano semplici figure di mostri, ma avanzando, quella caratteristica si trasformava man mano e, cambiando posizione nella stanza, si poteva vedere attorno una ininterrotta processione di quelle terrificanti immagini la cui invenzione risale alle superstizioni dei Normanni, ovvero ai sogni irriverenti delle comunità monastiche. Cotesto effetto era notevolmente accresciuto da una forte corrente di aria, introdotta per artificio dietro alla stoffa, la quale conferiva a quel popolo di forme stravaganti una paurosa e inquieta animazione. Tale la dimora e tale la camera nuziale dove io trascorsi le lunghe ore del primo mese di matrimonio colla signora di Tremaine. Ed invero esse non furono senza una cotale serenità. Non ch'io nascondessi a me stesso come mia moglie avesse in soggezione il mio terribile umore, ovvero come essa studiasse onde evitare di scontrarsi meco e, insomma, non m'amasse; ciò m'era causa, anzi, d'un segreto piacere, giacché io la odiavo e d'un odio degno dell'inferno più che di questo basso mondo. E con quanta, insieme, intensità di dolore! Io tornavo di continuo colla mia mente a Ligeia, l'idolatrata, l'augusta, la bella, la sepolta. E m'esaltavo al ricordo della sua purezza, della sua scienza, della sua eterea natura, del suo appassionato amore. Ed ora, nell'animo mio, ardeva una fiamma più libera e intensa di quanto non fosse stata la sua. Durante i miei sogni eccitati - ero abitualmente sotto l'impero dell'oppio - io mi chiamavo attraverso i

suo letto di morte. E nel mentre gli ultimi spiriti le passavano il labbro, io udii mescolarsi loro un rumore indistinto.<br />

Tesi allora, sottilmente intento, l'orecchio, e udii ancora una volta, le parole di Glanvill: «... l'uomo non cede agli angeli,<br />

né interamente alla morte, se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà ...».<br />

Essa era morta. Ed io, devastato dal dolore, non potei più a lungo sopportare l'abbandono e la desolazione della<br />

mia dimora in quell'antica città che cadeva in rovina sulle sponde del Reno. Io non avevo bisogno di ciò che al mondo<br />

ha nome di, ricchezza. E Ligeia me ne aveva apportata molta maggiore che non solitamente il Destino accorda ai<br />

mortali. In tal modo, dopo che fu scorso alcun mese di noiati vagabondaggi e peregrinazioni senza meta, entrai in<br />

possesso e restaurai un'antica abbazia - della quale, nondimeno, tacerò il nome e il sito - che sorgeva in una delle più<br />

incolte e abbando<strong>nat</strong>e t regioni della bella Albione. La cupa e malinconica vastità dell'edificio, il selvaggio aspetto del<br />

suo fondo all'intorno, le venerabili e tristi memorie ch'erano legate al luogo, tutto, insomma, parve accordarsi al<br />

sentimento di completo abbandono che m'aveva condotto in quella remota e disabitata regione. E nondimeno, pur<br />

serbando, al di fuori dell'abbazia, il suo primitivo carattere e il cupo e desolato verde che l'attorniava, io mi studiai, con<br />

una perversione quasi fanciullesca, e fors'anche col proposito di alleviare la mia pena, di spiegare, all'interno, una<br />

magnificenza più che regale. Avevo alimentato, per la verità, il gusto di simili pazzie fin dall'infanzia, ma soltanto ora<br />

esse rinascevano in me, sorpreso nell'innocente meraviglia del Dolore. Io sento troppo bene, ahimè, che sarebbe stato<br />

possibile discoprire, infatti, un principio di follia, nello splendore di quei fantasiosi cortinaggi, nella maestà delle<br />

sculture egizie, nelle cornici e nei mobili, invero assai stravaganti, e soprattutto negli arabeschi dei tappeti trapunti<br />

d'oro. Ero divenuto schiavo dell'oppio che mi teneva incate<strong>nat</strong>o ai suoi ordini, e tutti i miei lavori e le mie commissioni<br />

assumevano il colore dei miei sogni. Ma non indugerò a descrivere nei minimi particolari tali assurdità. Mi fermerò<br />

soltanto su quella camera, maledetta nell'eternità, nella quale, in un istante di smarrimento della ragione, dopo<br />

l'indimenticabile e indimenticata Ligeia, io condussi sposa Lady Rowena Trevanion of Tremaine, dalla bionda chioma e<br />

dagli occhi azzurri.<br />

Non v'è particolare architettonico o decorativo di quella camera nuziale ch'io non abbia presente agli occhi<br />

della memoria. Che cosa poteva aver mai, al posto del cuore, l'altera famiglia della sposa allorché, spinta dalla sete<br />

dell'oro, accettò che una fanciulla - tanto teneramente amata - oltrepassasse la soglia d'una stanza tanto stranamente<br />

costrutta e adorna? Ho già detto che ne rammentavo i particolari più minuti - sebbene io perda spesso la memoria anche<br />

a proposito d'argomenti della massima importanza - e nondimeno in quella fantasiosa ricchezza non v'era alcun ordine<br />

prestabilito, ovvero alcun sisterna che guidasse e potesse imporsi alle facoltà della memoria. La stanza era molto grande<br />

ed era tagliata secondo la forma di un pentagono. Essa era relegata nell'alta torre d'una estrema ala dell'abbazia e<br />

fortificata come uno spalto. Tutto il lato meridionale del pentagono era occupato da un'unica finestra, un immenso<br />

cristallo veneziano fuso in un'unico pezzo e d'un color grigio simile a quello del piombo, il quale filtrava i raggi del sole<br />

e della luna in modo tale che inondassero gli oggetti della stanza di lugubri riflessi. Al di sopra dell'enorme finestra, una<br />

vecchia vite fuorusciva in un intricato viluppo, dall'esterno delle mura della torre per finire d'arrampicarsi all'interno. Il<br />

soffitto di quercia era d'un lugubre color nero ed altissimo, costruito a volta e bizzarramente rabescato in stile gotico per<br />

metà e druidico per l'altra. Dal centro della volta pendeva, a mezzo di un'aurea catena di larghi anelli, un enorme<br />

incensiere, aureo anch'esso e capricciosamente traforato secondo un disegno di stile saraceno, entro il quale<br />

s'attorcigliava il vivo serpe d'una perpetua fiamma iridata.<br />

Divani e candelabri d'oro, di foggia orientale, erano sparsi qua e là, ed al centro, il letto. Un letto nuziale in<br />

stile indiano, basso, d'ebano massiccio, or<strong>nat</strong>o di sculture e sormontato da un baldacchino simile a un pallio funebre.<br />

Sarcofaghi di granito nero si levavano giganteschi agli angoli della stanza: essi provenivano dalle tombe dei re di Luxor<br />

e i loro antichi coperchi erano istoriati d'immemorabili leggende. E nondimeno, la maggior libertà di fantasia era<br />

spiegata, ahimè, nel cortinaggi che pendevano torno torno alle pareti. Queste, oltre ogni proporzione alte, erano<br />

rivestite, dall'alto in basso, dalle ampie pieghe d'una pesante tappezzeria - del disegno medesimo di quella che fungeva<br />

sul pavimento da tappeto, e sui divani e sul letto da coperta e ancora da baldacchino e si torceva nelle tende alla finestra<br />

- ricchissimamente tessuta in oro e, secondo regolari intervalli, pezzata d'arabeschi d'un piede dall'incirca di diametro<br />

ognuno, i quali, tracciati in nero, spiccavano sinistramente sull'aureo sfondo. E quelle figure, nondimeno, si<br />

riconoscevano per arabeschi solo se guardati da un angolo particolare. A mezzo d'un processo divenuto ormai del tutto<br />

banale e di cui si trovano le tracce nelle antichità più remote, quegli arabeschi erano in guisa tracciati che mutassero a<br />

vista l'aspetto. Essi così, a chi entrava nella camera, parevano semplici figure di mostri, ma avanzando, quella<br />

caratteristica si trasformava man mano e, cambiando posizione nella stanza, si poteva vedere attorno una ininterrotta<br />

processione di quelle terrificanti immagini la cui invenzione risale alle superstizioni dei Normanni, ovvero ai sogni<br />

irriverenti delle comunità monastiche. Cotesto effetto era notevolmente accresciuto da una forte corrente di aria,<br />

introdotta per artificio dietro alla stoffa, la quale conferiva a quel popolo di forme stravaganti una paurosa e inquieta<br />

animazione.<br />

Tale la dimora e tale la camera nuziale dove io trascorsi le lunghe ore del primo mese di matrimonio colla<br />

signora di Tremaine. Ed invero esse non furono senza una cotale serenità. Non ch'io nascondessi a me stesso come mia<br />

moglie avesse in soggezione il mio terribile umore, ovvero come essa studiasse onde evitare di scontrarsi meco e,<br />

insomma, non m'amasse; ciò m'era causa, anzi, d'un segreto piacere, giacché io la odiavo e d'un odio degno dell'inferno<br />

più che di questo basso mondo. E con quanta, insieme, intensità di dolore! Io tornavo di continuo colla mia mente a<br />

Ligeia, l'idolatrata, l'augusta, la bella, la sepolta. E m'esaltavo al ricordo della sua purezza, della sua scienza, della sua<br />

eterea <strong>nat</strong>ura, del suo appassio<strong>nat</strong>o amore. Ed ora, nell'animo mio, ardeva una fiamma più libera e intensa di quanto non<br />

fosse stata la sua. Durante i miei sogni eccitati - ero abitualmente sotto l'impero dell'oppio - io mi chiamavo attraverso i

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