di cui i presenti parlavano con reverenza, in sommessi bisbigli - e tu, una dolcissima, anelante, con alte grida. Mi vestirono per la bara - tre o quattro figure buie che senza posa mi svolavano attorno. Quando attraversavano direttamente il mio campo visivo, mi si rivelavano come forme: ma quando passavano al mio fianco, le loro immagini evocavano in me l'idea di urla e gemiti e altre lugubri espressioni di terrore, di orrore, o di cordoglio. Tu sola, vestita della tua veste bianca, dovunque muovessi attorno a me, eri musica: sempre. Smoriva il giorno; e, via via che la sua luce svaniva, si impadronì di me un senso di vago smarrimento - un'ansia, quale avverte il dormiente, quando i tristi orrori del reale ininterrottamente penetrano il suo orecchio: fiochi, remoti rintocchi di campane, solenni, a intervalli lunghi ma uguali, mescolati a sogni malinconici. Giunse la Notte; e, con le sue ombre, un greve sconforto. M'opprimeva le membra con l'oppressione di un peso sordo; era palpabile. E v'era un suono lamentoso, come eco lontana di flutti, eppure più continuo e che, iniziando col primo crepuscolo, col buio si era fatto più forte. Lumi vennero portati nella stanza, improvvisamente, e subito quell'eco si interruppe in scoppi frequenti, ineguali, dello stesso suono, ma meno tetro e meno nitido. S'alleviò in gran misura il senso di ponderosa oppressione; e, scaturendo dalla fiamma di ciascuna lampada (poiché molte ve n'erano) fluì al mio orecchio, dolcissima, ininterrotta, l'onda di una monodia. E quando, mia diletta Una, accostandoti al letto su cui giacevo, soavemente sedesti al mio fianco, e premesti le tue labbra dolceodorose sulla mia fronte, tremante mi si levò in petto, mescolato alle sensazioni puramente fisiche suscitate dalle circostanze, qualcosa di affine al sentimento, qualcosa che in parte sentiva, in parte rispondeva al tuo profondo amore, al tuo dolore; ma tale sentimento non mise radici nel cuore inerte; e pareva invero più ombra che realtà e rapidamente si dissolse, dapprima in estrema quiete, e poi, come per l'innanzi, in mero piacere dei sensi. E ora, dal naufragio e dal caos dei sensi consueti, parve che in me ne sorgesse un sesto, assolutamente perfetto. Nell'esercitarlo, provai un diletto strano, e pur sempre un piacere dei sensi, giacché in esso l'intelletto non aveva parte. Nella mia struttura animale era cessato ogni moto. Non un muscolo guizzava; non un nervo vibrava; non pulsava un'arteria. Ma dentro il cervello pareva fosse scaturito ciò di cui nessuna parola potrebbe dare una sia pur vaga idea a un intelletto meramente umano: la definirò una pendolare pulsazione mentale. Era il concretizzarsi, dentro la mente, dell'idea astratta che l'uomo ha del Tempo. Sulla compensazione perfetta di quel movimento - o di altro ad esso simile - erano state regolate le orbite dei globi celesti. Grazie ad esso misurai le inesattezze della pendola sopra il caminetto e degli orologi degli assistenti. Il loro ticchettio mi giungeva sonoro alle orecchie. La menoma deviazione - e tali deviazioni erano continue - mi feriva così come, sulla terra, le violazioni di una verità astratta sogliono ferire il senso morale. Sebbene non uno degli orologi che erano nella stanza scandisse i secondi esattamente e insieme, non avevo difficoltà a tenere a mente i suoni e i rispettivi, minimi scarti di ciascuno. E questo - questo senso della durata, acuto, autonomo e perfetto - questo senso che esisteva (come l'uomo mai avrebbe potuto concepire) indipendentemente da ogni successione di eventi - questa idea - questo sesto senso che scaturiva dalle ceneri degli altri, fu il primo passo evidente, decisivo dell'anima atemporale sulla soglia della Eternità temporale. Era mezzanotte, e tu sedevi ancora al mio fianco. Tutti gli altri avevano abbando<strong>nat</strong>o la camera della morte. Mi avevano deposto nella bara. Tremule ardevano le lampade: me ne accorgevo dal vibrato che interrompeva il fluire uguale dei suoni. Ma improvvisamente i suoni diminuirono di nettezza e volume. Infine cessarono. Svanì nelle mie narici il profumo. Le forme si dileguarono alla mia vista. L'oppressione della Tenebra si levò dal mio petto. Mi corse per tutto il corpo una scossa come di elettricità, sorda, opaca, seguita dalla perdita totale dell'idea di contatto. Tutto ciò che l'uomo definisce senso si dissolse nella sola consapevolezza dell'essere in quell'unico, permanente sentimento di durata. Il corpo mortale era stato alla fine colpito dalla mano del disfacimento di morte. E tuttavia la sensibilità non era completamente scomparsa; una letargica intuizione permetteva alla coscienza e al sentimento residui di adempiere ancora ad alcune delle loro funzioni. Percepivo ora lo spaventevole mutamento che si andava operando nella mia carne, e, come colui che sogna è talora consapevole della presenza corporea di qualcuno che si china su di lui, così, dolce Una, sentivo, ancora sordamente, che tu sedevi al mio fianco. E così, quando venne il mezzodì del secondo giorno, non fui inconsapevole dei gesti che ti staccarono da me, che mi imprigionarono nella bara, che mi deposero nel feretro, che mi trasportarono alla tomba, che in essa mi calarono, che greve ammassarono la terra smossa sopra di me, e che così mi abbandonarono nel buio e nella putredine al mio triste e solenne sonno in compagnia del verme. E lì, nel carcere che pochi segreti ha da svelare, trascorse l'onda dei giorni e delle settimane e dei mesi; e l'anima scrutava intenta ciascun secondo che s'involava, e senza sforzo registrava quel suo volo: senza sforzo e senza scopo. Passò un anno. La consapevolezza di essere si era fatta d'ora in ora più indistinta e il suo posto era stato in gran parte usurpato da quella dello spazio. l'idea di entità si dissolveva in quella di luogo. Lo spazio angusto che circondava quel che era stato il corpo stava ora diventando il corpo stesso. Alla fine, come spesso accade a chi dorme (poiché il sonno soltanto, e il suo mondo, è immagine della Morte) - alla fine, come spesso accadeva sulla Terra a chi, immerso in un sonno profondo, trasaliva, a metà destandosi, al guizzare d'una luce, eppure restava a metà avvolto nei sogni, - così a me, stretto nell'abbraccio dell'Ombra, venne quella luce che sola avrebbe potuto scuotermi: la luce dell'Amore eterno. Uomini faticavano alla tomba in cui io giacevo, buio nel buio. Smossero la terra umida. Sulle mie ossa infradicite discese la bara di Una. E di nuovo fu il vuoto. Quella luce nebulosa si era spenta. Quel tenue brivido aveva vibrato, si era placato. Molti lustri si susseguirono. La polvere era tor<strong>nat</strong>a alla polvere. Il verme non aveva più cibo. Ogni senso dell'essere era alfine completamente sparito, e in vece sua - in vece di tutte le cose - regnavano - assoluti, perpetui - gli autocrati
Spazio e Tempo. Per ciò che non era - per ciò che non aveva forma - per ciò che non aveva pensiero - per ciò che non aveva sensibilità - per ciò che era senz'anima e di cui tuttavia la materia non era parte - per tutto questo niente, e tutta questa immortalità, la tomba era una casa, ancora e sempre, e le ore che tutto corrodono amiche e sodali.
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