dalla voglia di dire una parola, una sola, in segno di trionfo, e rendere doppiamente certa la loro certezza della mia innocenza. «Signori», dissi alla fine, mentre il gruppo risaliva le scale, «sono lieto di aver placato i vostri sospetti. Auguro a tutti voi buona salute, e un po' più di cortesia. Tra parentesi, signori miei, questa - questa è una casa molto ben costruita» (nella smania di parlare con disinvoltura, quasi non sapevo quel che mi usciva di bocca), «potrei anzi dire costruita in modo eccellente. Questi muri - ve ne andate, signori? - questi muri sono solidamente fabbricati»; e qui, da nient'altro spinto che dal desiderio frenetico di fare una bravata, picchiai forte con un bastone che tenevo in mano proprio su quella parte dell'ammatto<strong>nat</strong>o dietro al quale stava il cadavere della mia diletta sposa. Ma possa Dio proteggermi e salvarmi dalle zanne del Grande Nemico! Non appena l'eco dei miei colpi si smorzò nel silenzio, mi rispose una voce dall'interno della tomba! Un lamento, dapprima soffocato e rotto come un singhiozzo di un bimbo, e che in breve salì di tono, divenne un grido lungo, altissimo, ininterrotto, assolutamente in<strong>nat</strong>urale, disumano: un ululato, uno strido lamentoso, metà d'orrore e metà di trionfo, quale avrebbe potuto levarsi solo dall'inferno, dalle gole dei dan<strong>nat</strong>i nelle loro torture, e insieme dalle gole dei demoni che esultano nella dannazione. Dei miei pensieri è follia parlare. Mi sentii mancare, barcollai verso il muro opposto. Per un istante, gli uomini sulle scale restarono immobili: attoniti, atterriti. Un istante dopo, una dozzina di solide braccia lavoravano al muro. Cadde di schianto. Il cadavere, già putrefatto in gran parte e imbrattato di grumi di sangue, apparve, ritto in piedi, agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, la bocca rossa spalancata e l'unico occhio di fiamma, stava appollaiata la bestia orrenda, le cui arti mi avevano sedotto all'assassinio, e la cui voce accusatrice mi consegnava al boia. Avevo murato il mostro dentro la tomba!
LA CASSA OBLUNGA Or sono alcuni anni, prenotai una cabina sul bel postale Independence, capitano Hardy, per la traversata da Charleston (Carolina del Sud) alla città di New York. Dovevamo salpare il quattordici di quel mese (giugno) tempo permettendo; e il quattordici mi recai sulla nave per sistemare alcune cose nella mia cabina. Avremmo avuto a bordo, così appresi, moltissimi passeggeri, e tra essi un numero inconsueto di signore. Sull'elenco figuravano parecchi miei conoscenti; e, fra gli altri nomi, fui felicissimo di scoprire quello di Mr. Cornelius Wyatt, giovane pittore al quale mi legavano sentimenti di calda amicizia. Era stato mio compagno di studi all'Università di C..., dove eravamo sempre insieme. Il suo era il tipico temperamento degli uomini geniali: un misto di misantropia, sensibilità ed entusiasmo. A tali qualità si univa poi il cuore più generoso e sincero che mai pulsò nel petto di un uomo. Notai che a suo nome erano intestate tre cabine e, scorrendo di nuovo la lista dei passeggeri, vidi che aveva prenotato per sé, la moglie e le due sorelle. Le cabine erano abbastanza spaziose, ciascuna dotata di due cuccette, una sopra l'altra. Certo, le cuccette erano tanto strette da non potere ospitare più di una persona: tuttavia, non riuscivo a capire perché, per queste quattro persone, ci fossero tre cabine. Attraversavo proprio allora uno di quel periodi di umor nero che rendono un uomo anormalmente curioso anche in fatto di inezie, e confesso, non senza vergogna, di aver formulato, a proposito di quella cabina in più, tutta una serie di indiscrete e assurde congetture. Ovvio che la cosa non mi riguardava; e tuttavia con non minore ostinazione compivo ogni tentativo per risolvere l'enigma. Alla fine giunsi a una conclusione che mi stupii di non aver tratto prima: «Ma è <strong>nat</strong>urale, sarà per una domestica», mi dissi; «che sciocco sono stato a non aver pensato subito a una soluzione così ovvia!». E scorsi di nuovo l'elenco, ma vidi chiaramente che nessuna domestica doveva accompagnare il gruppo, anche se, in realtà, il proposito originario ne comportava la presenza; infatti le parole «e domestica» erano state prima scritte e poi cancellate. «Oh, sarà certo per il bagaglio in eccedenza», mi dissi allora; «qualcosa che non vuole sia messo nella stiva, qualcosa che vuol tenere sott'occhio - ah, ecco, ci sono! - un dipinto, o qualcosa di simile, per cui era in trattative con Nicolino, l'ebreo italiano». L'idea mi quadrò, e, per il momento, pose fine alla mia curiosità. Conoscevo molto bene le sorelle di Wyatt, due ragazze amabilissime e intelligenti. La moglie, che egli aveva sposato da poco, non l'avevo mai vista. Comunque, ne aveva spesso parlato in mia presenza, con l'entusiasmo a lui consueto. L'aveva descritta come una donna eccezionale per bellezza, intelligenza e classe. Ero pertanto ansioso di farne la conoscenza. Il giorno in cui mi recai sulla nave (il quattordici), doveva recarvisi anche Wyatt con i suoi - così mi disse il capitano - e io attesi a bordo un'ora in più di quanto avevo stabilito, sperando di essere presentato alla sposa; giunse invece un biglietto di scuse: Mrs. Wyatt era leggermente indisposta e sarebbe salita a bordo solo l'indomani, all'ora della partenza. Ma l'indomani, mentre dal mio albergo mi dirigevo al molo, mi venne incontro il capitano Hardy, il quale mi disse che, «date le circostanze» (una frase stupida, ma comoda), riteneva che l'Independence non sarebbe salpata prima di un paio di giorni e che, quando tutto fosse stato pronto, mi avrebbe fatto avvertire. La cosa suonava un po' strana, giacché spirava una brezza costante da sud; ma poiché le circostanze rimasero oscure per quanto con molta perseveranza cercassi di cavargli qualcosa in proposito, non mi restò altro da fare che tornare sui miei passi e digerire la mia impazienza con tutto comodo. Passò quasi una settimana prima che ricevessi l'atteso messaggio del capitano. Quando infine giunse, mi recai immediatamente a bordo. I passeggeri affollavano la nave, e dappertutto v'era il trambusto che precede la partenza. Wyatt e i suoi arrivarono circa dieci minuti dopo di me. C'erano le due sorelle, la sposa, il pittore, quest'ultimo in preda a una delle sue consuete crisi di cupa misantropia. Ma ad esse ero troppo abituato per prestarvi speciale attenzione. Non mi presentò nemmeno alla moglie, sicché toccò a sua sorella Marian, una giovane mite e intelligente, assolvere questo dovere di cortesia; e con poche, frettolose parole, Marian fece le presentazioni. Mrs. Wyatt era fittamente velata; e quando sollevò il velo rispondendo al mio inchino, confesso di essere rimasto profondamente sorpreso. Lo sarei stato assai di più, tuttavia, se una lunga esperienza non mi avesse inseg<strong>nat</strong>o a non dare troppo incondizio<strong>nat</strong>o credito alle entusiastiche descrizioni del mio amico artista, quando egli prendeva a decantare le grazie femminili. Quando il tema era la bellezza, sapevo bene con quale facilità spiccasse il volo verso i cieli del puro ideale. La verità è che non potevo non considerare Mrs. Wyatt come una donna decisamente comune. Se non era proprio brutta, direi che poco ci mancava. Era però vestita con gusto squisito; e allora non dubitai che avesse conquistato il cuore del mio amico con le grazie più durature della mente e dell'anima. Disse poche parole, e subito entrò nella sua cabina con il marito. A questo punto, fui ripreso dalla curiosità. Non c'erano domestiche: questo era accertato. Pertanto, cercai il bagaglio in eccedenza. Dopo un po', giunse al molo un carro con sopra una cassa oblunga, di legno di pino, che sembrava l'unica cosa che si attendesse. Subito dopo il suo arrivo, infatti, salpammo e in breve, usciti dal porto, ci dirigemmo verso il mare aperto. La cassa in questione era, come ho detto, oblunga; misurava in lunghezza sei piedi, in larghezza due e mezzo. L'osservai attentamente, e mi piace essere preciso. Ora, quella forma era molto strana; e non appena l'ebbi vista, mi compiacqui con me stesso per l'esattezza delle mie congetture. Come si ricorderà, ero giunto alla conclusione che il bagaglio in eccedenza del mio amico artista sarebbe stato costituito di quadri, o almeno di un quadro, poiché sapevo che da parecchie settimane era in trattative con Nicolino; ed ecco qui, ora, una cassa che, a giudicare dalla forma, null'altro poteva contenere che una copia dell'Ultima Cena di Leonardo, eseguita a Firenze da Rubini il giovane, e da qualche
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