LA SCELTA GIUSTA - LICEO GIORGIONE

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31.05.2013 Views

Castellan Gianmarco classe 4° A scientifico LA SCELTA GIUSTA Prologo Era cominciata veramente male. Se è vero che, come recita un vecchio adagio, il buon giorno si vede dal mattino sarebbe stato me- glio rimettersi a letto in attesa della sera. Altro che buon giorno! In un attimo di disattenzione, mentre mi radevo, il rasoio mi lasciò un subdolo, sottilissimo, fasti- diosissimo taglio sul collo. Per riconciliarmi con la vita decisi di prepararmi un caffè. Ma mentre il flusso profumato della mia bevanda preferita scendeva lentamente nella tazzina, inavvertitamente la urtai, distratto alla finestra dal caos della città che si ridestava. Non riuscii ad allontanarmi per tem- po e così una scia nera mi segnò la camicia, la giacca e i bellissimi pantaloni, che oltretutto non a- vevo pagato poco. Chissà perché a George Clooney non succede mai! Mi cambiai, visibilmente innervosito. Per riacquistare un po’ di self control uscii sul terrazzino e mi accesi una sigaretta. So benissimo che quei pochi grammi di carta e tabacco non hanno a loro favore nessuna indicazione terapeutica, ma volevo credere, per una manciata di minuti, il contrario. Insie- me al fumo mi sembrava di sputare fuori anche tutta la bile che mi si era accumulata nel fegato, con un momentaneo senso di sollievo. Effetto Placebo lo chiamano. A me non interessa proprio niente, so solo che funziona. Rientrato, raccolsi da terra il libro lasciato aperto la sera prima e lo gettai sul divano: Nemesi di Jo Nesbø. Diedi uno sguardo all’orologio. Maledizione ero in ritardo! Lo sapevo che non sarebbe stata una buona giornata. -1- Sette e trentadue. L’orologio scandiva con lentezza e precisione il tempo, mentre il mio subconscio scandiva con altrettanta precisione le esatte parole dell’avvocato Rossani di qualche giorno prima, quando minacciava di licenziarmi dopo l’ennesimo ritardo. Un altro ritardo no, non lo avrebbe certo tollerato. Presi la mia ventiquattrore e mi fiondai verso il garage, saltando i gradini delle quattro rampe di sca- le a tre a tre. L’ascensore sarebbe stato troppo lento. Appena salito sulla mia Alfa Romeo Giulietta, di cui stavo ancora pagando le rate, misi in moto e con un paio di manovre alquanto sconsiderate mi tuffai nel traffico cittadino. 1

Castellan Gianmarco classe 4° A scientifico<br />

<strong>LA</strong> <strong>SCELTA</strong> <strong>GIUSTA</strong><br />

Prologo<br />

Era cominciata veramente male.<br />

Se è vero che, come recita un vecchio adagio, il buon giorno si vede dal mattino sarebbe stato me-<br />

glio rimettersi a letto in attesa della sera. Altro che buon giorno!<br />

In un attimo di disattenzione, mentre mi radevo, il rasoio mi lasciò un subdolo, sottilissimo, fasti-<br />

diosissimo taglio sul collo. Per riconciliarmi con la vita decisi di prepararmi un caffè. Ma mentre il<br />

flusso profumato della mia bevanda preferita scendeva lentamente nella tazzina, inavvertitamente la<br />

urtai, distratto alla finestra dal caos della città che si ridestava. Non riuscii ad allontanarmi per tem-<br />

po e così una scia nera mi segnò la camicia, la giacca e i bellissimi pantaloni, che oltretutto non a-<br />

vevo pagato poco. Chissà perché a George Clooney non succede mai!<br />

Mi cambiai, visibilmente innervosito. Per riacquistare un po’ di self control uscii sul terrazzino e mi<br />

accesi una sigaretta. So benissimo che quei pochi grammi di carta e tabacco non hanno a loro favore<br />

nessuna indicazione terapeutica, ma volevo credere, per una manciata di minuti, il contrario. Insie-<br />

me al fumo mi sembrava di sputare fuori anche tutta la bile che mi si era accumulata nel fegato, con<br />

un momentaneo senso di sollievo.<br />

Effetto Placebo lo chiamano. A me non interessa proprio niente, so solo che funziona.<br />

Rientrato, raccolsi da terra il libro lasciato aperto la sera prima e lo gettai sul divano: Nemesi di Jo<br />

Nesbø.<br />

Diedi uno sguardo all’orologio. Maledizione ero in ritardo! Lo sapevo che non sarebbe stata una<br />

buona giornata.<br />

-1-<br />

Sette e trentadue. L’orologio scandiva con lentezza e precisione il tempo, mentre il mio subconscio<br />

scandiva con altrettanta precisione le esatte parole dell’avvocato Rossani di qualche giorno prima,<br />

quando minacciava di licenziarmi dopo l’ennesimo ritardo. Un altro ritardo no, non lo avrebbe certo<br />

tollerato.<br />

Presi la mia ventiquattrore e mi fiondai verso il garage, saltando i gradini delle quattro rampe di sca-<br />

le a tre a tre. L’ascensore sarebbe stato troppo lento. Appena salito sulla mia Alfa Romeo Giulietta,<br />

di cui stavo ancora pagando le rate, misi in moto e con un paio di manovre alquanto sconsiderate mi<br />

tuffai nel traffico cittadino.<br />

1


Sette e trentasei. Il semaforo in Via Pasubio era rosso e il mio tragitto ancora abbastanza lungo, al-<br />

meno una decina di minuti di macchina, a cui andavano sommati i dieci minuti di anticipo per “or-<br />

ganizzarsi il piano di lavoro giornaliero” che il capo esigeva. Mi sembrava di sentirlo il vecchio.<br />

Dopo una trentina di secondi, il semaforo scattò e diede il via libera al flusso di auto.<br />

Sette e quarant’otto. Arrivai in ufficio trafelato e decisamente agitato. Sedetti alla mia scrivania,<br />

accesi il computer e iniziai a sistemare le mie carte mentre il processore, ronzando, iniziava a<br />

caricare i dati. Ebbi giusto il tempo di sistemarmi gli occhiali, che l’avvocato Rossani fece il suo<br />

ingresso dalla stanza attigua con il suo passo elegante, ma ormai affaticato, dovuto a una, ormai,<br />

avanzata età. Era in procinto di andare in pensione per lasciare spazio a me, che avrei dovuto<br />

assumere la gestione dello studio.<br />

Ero da pochi anni laureato in Giurisprudenza e Rossani è l’avvocato che mi aveva assunto nel suo<br />

studio per affrontare il mio praticantato e, dopo l’esame di ammissione all’Albo, i primi due anni di<br />

professione. L’avvocato di figli ne aveva due, Renzo e Francesca, ma nessuno dei due aveva seguito<br />

le orme del padre. La figlia, laureata in medicina, stava ancora ultimando la specializzazione in<br />

nefrologia. Il figlio invece, nonostante i malcelati desideri paterni, che lo avrebbero voluto come<br />

successore nella conduzione dello studio, aveva intrapreso una carriera da agente immobiliare. In<br />

pochissimo tempo si era trovato a dirigere una delle più importanti agenzie di Bologna. Così ero en-<br />

trato in scena io: un giovane laureato, di famiglia benestante, con alle spalle una tradizione senza<br />

fine di grandi avvocati.<br />

In tutta sincerità non amo il mio lavoro. Se non fosse stato per mio padre avrei optato più volentieri<br />

per una laurea in ingegneria o in biologia. Poco importa ormai. Nonostante non l’avessi desiderato<br />

per me, era un lavoro che mi aveva portato comunque delle soddisfazioni già nei primi anni di atti-<br />

vità. Di certo non grazie all’avvocato Rossani. Gli sarò sempre riconoscente per avermi accolto nel<br />

suo studio, naturalmente. Anche se la sua non è stata però una scelta spontanea, ma un ripiego detta-<br />

to dalla necessità. Credo di non essergli mai stato molto simpatico, o almeno questa era la sensazio-<br />

ne che traspariva dai suoi atteggiamenti. Quando il figlio scelse una professione diversa dalla sua,<br />

Antonio Rossani si è trovato con un buco da colmare. La prima e unica possibilità soddisfacente che<br />

gli si era presentata sono stato io: Emanuele Nardi.<br />

-2-<br />

Prima di diventare un profumato e occhialuto uomo di legge, sono stato un ragazzo decisamente vi-<br />

vace, uno scalmanato, come soleva ripetere spesso la mia catechista. A scuola ero uno di quei bam-<br />

bini che alcuni definiscono “capobranco”: carino, intelligente, spiritoso, carismatico, ma soprattutto,<br />

cosa non poco importante per un bimbetto di otto anni, pieno di soldi. Quando ero piccolo era per<br />

me motivo di vanto girare con la felpa della “Henry Cotton” nuova, così come mi dava molto lustro<br />

2


invitare mezza scuola alla festa di compleanno nell’immensa casa di papà. Ero maledettamente<br />

ricco e viziato e ciò mi rendeva simpatico al cinquanta per cento dei miei coetanei e insopportabile<br />

all’altra metà.<br />

Quando fui adolescente, a sedici, diciassette anni, i ragazzi invidiosi mi giravano attorno, non per-<br />

ché spontaneamente attirati dal mio carisma, ma per splendere un po’ almeno di luce riflessa, la<br />

mia. Speravano di attirare qualche ragazza del giro solo perché “amici di Ema”. E le ragazze, beh le<br />

ragazze non mancavano.<br />

In verità di tutti quelli che si spacciavano per miei amici, non ne è rimasto uno nel momento del bi-<br />

sogno, tranne Marco. Marco era l’opposto di me. Marco “topo”, Marco “quattr’occhi”, Marco<br />

“cerino” insomma uno sfigatello. Era un tipetto basso, magrissimo: al suo confronto uno scheletro<br />

avrebbe dovuto mettersi a dieta. Pallido, asmatico e insignificante, era il primo in tutte le materie.<br />

Forse è così che siamo diventati amici, per competizione. In genere infatti arrivavo sempre prima di<br />

tutti in tutto, ma non in classe. Già, perché in classe c’era Marco.<br />

Forse i primi anni neanche ci salutavamo. Non ricordo bene le circostanze in cui abbiamo comincia-<br />

to a frequentarci, ma deve essere successo alla festa di fine anno della terza liceo.<br />

Era la super festa dell’anno. Non c’era una ragazza o un ragazzo in tutta la scuola che non fosse an-<br />

sioso in attesa di quella serata.<br />

Marco non l’avevo neanche invitato personalmente, ma alla festa c’era. Un po’ in disparte, seduto<br />

su una seggiola con un’ assurda giacca due volte più grande di lui e con una cravatta decisamente<br />

orribile. Dopo averlo guardato per più di qualche secondo si doveva prendere un Alca Selzer. Mi<br />

avvicinai a lui, forse incuriosito da questa persona che in fondo non avevo mai conosciuto bene, di-<br />

versa dalle altre, innanzitutto perché non era venuto a salutarmi mentre ero circondato dalle ragazze.<br />

Mi sedetti vicino a lui e rimanemmo in silenzio. Se contiamo che per i successivi cinque minuti<br />

siamo rimasti a fissare una coppietta seduta sui divanetti adiacenti, che si esibiva in manovre degne<br />

dei più rinomati circensi possiamo dire che come primo approccio, beh è stato pessimo.<br />

“Moira Orfei sarebbe fiera di voi ragazzi!”<br />

La frase arrivò fredda e tagliente come una badilata di neve sul viso, resa ancora più comica dal fat-<br />

to che a pronunciarla era stato proprio Marco, proverbialmente poco dotato di sense of humor. La<br />

mia fragorosa risata scoppiò istantaneamente. Risi così tanto da procurarmi i crampi alla pancia e<br />

alla mandibola. La coppietta di ragazzini se ne andò tra un misto di indignazione e rassegnazione di<br />

fronte ad una scomoda verità, uscita inesorabile dalla bocca di un ragazzo che incarnava la<br />

quintessenza della sfiga. Penso di aver riso poche volte così. Quando mi ripresi, mi presentai e invi-<br />

tai Marco nella mia stanza, lontano dalla cagnara di qualche centinaio di persone che ballavano sul-<br />

le note dei “Backstreet Boys”. E’ così che ho conosciuto quello che poi, almeno per un anno, è stato<br />

il mio migliore amico.<br />

3


Nonostante le inesorabili frecciatine di molti ragazzi e ragazze sconcertati dal fatto che un tipo co-<br />

me me potesse perdersi con gente del rango di Marco, abbiamo trascorso momenti bellissimi. Con<br />

Marco ho passato pomeriggi interi a farmi spiegare i logaritmi e le funzioni, a giocare a rugby in<br />

giardino, a guardare film, soprattutto quel genere di horror che avrebbero fatto sudare freddo perfi-<br />

no Dario Argento. Abbiamo vissuto la nostra adolescenza tra lazzi e risa, litigi e frustrazioni, ma<br />

sapevamo entrambi che se ce ne fosse stato bisogno, potevamo fidarci l’uno dell’altro. Forse. O<br />

forse ero io che potevo fidarmi di lui.<br />

31 Ottobre 1998. Serata uggiosa. Nebbia, freddo, noia, strade deserte. Halloween.<br />

Chissà perché è proprio nelle serate di Ognissanti che si combinano le più grandi cazzate.<br />

-3-<br />

Forse gli ormoni fuori posto, forse il naufragio di una serata piena di attese, ma morta prima ancora<br />

di iniziare, forse perché avevamo visto troppi film idioti … forse, forse, forse … La verità è che e-<br />

ravamo due stupidi diciottenni non ancora cresciuti, ma già abbastanza grandi per la legge.<br />

Dopo una serata trascorsa senza slancio all’“Hemingway”, verso le due avevamo deciso di tornare a<br />

casa. Sulla strada del ritorno, in via Turati, fummo catturati dall’edificio dismesso del vecchio ma-<br />

cello Gasperini.<br />

La storia travagliata del proprietario, i suoi squilibri mentali che lo portarono ad accoltellare il pro-<br />

prio primogenito in un giorno in cui, in preda ai fumi dell’alcool, non aveva più sopportato gli ec-<br />

cessi del figlio, il suo stesso suicidio all’interno dello stabilimento, avevano fatto girare numerose<br />

voci sulla presenza del fantasma del povero Gasperini nel mattatoio. Probabilmente solo una<br />

storiella ben confezionata dalle anziane signore per spaventare a dovere i nipotini nelle fredde serate<br />

invernali, niente di più. La vicenda però, rievocata dalle nostre menti, ottenebrate dall’ora tarda e<br />

dalle birre, davanti all’edificio dove si erano consumati i tragici eventi, faceva accapponare la pelle.<br />

Lì, in quel preciso istante, partorii la folle idea che avrebbe segnato in modo indelebile la mia gio-<br />

vane vita e la nostra amicizia.<br />

“Entriamo Marco”.<br />

“Ma sei impazzito?” Piagnucolò lui.<br />

“Dai che ti costa?” Chiesi, assumendo un’aria baldanzosa che in quel momento proprio non avevo.<br />

“Ma hai visto sulla porta? Ci sono ancora i sigilli della Polizia.” Protestò Marco.<br />

Sul portone principale c’erano ancora, sbiaditi dal tempo, ma sopravvissuti a tutti quegli anni i na-<br />

stri bianchi e rossi della Polizia giudiziaria. Al centro campeggiava un foglio sbrindellato, che<br />

vietava a chiunque l’ingresso nel luogo posto sotto sequestro.<br />

4


“E allora? Dai Marco che te ne frega, chi vuoi che se ne accorga? Guarda come sono ridotti? Dopo<br />

tutti questi anni attribuiranno di sicuro il fatto al tempo e alle intemperie … Una folata di vento e …<br />

pufff … i sigilli sono volati via, assieme al fantasma. Dai, smettila di squittire!”<br />

Accompagnai la mia battuta con una sonora risata e l’eco del magazzino vuoto me la ributtò in fac-<br />

cia facendomi deglutire lentamente. Indietreggiai. Il cuore impazzito mi rimbalzò nella testa e<br />

nell’anima. Marco ormai era trasparente, tanto era pallido. Dal fabbricato si alzò il rumore sinistro<br />

di una catena che cigolava. Sembrava un monito a non entrare. Sicuramente scoraggiavano di più<br />

quei lugubri suoni, amplificati dal terrore e dal silenzio della notte più folle dell’anno, che i sigilli<br />

della Polizia. Ci voltammo di scatto nello stesso istante, paralizzati dalla nostra stessa paura. Forse<br />

io ero più bravo a nasconderla.<br />

“Troppa strizza eh?” Lo stuzzicai.<br />

“Non dire cretinate Ema! È che non voglio finire nei…”<br />

“Ma smettila che te la fai sotto. E via! Non lo dirò a nessuno.”<br />

“Basta Ema!” Fu uno scatto felino. Mentre mi chinavo per raccogliere un sasso e lanciarlo tra i vetri<br />

rotti, per sentirne echeggiare il tonfo nei gelidi stanzoni del vecchio macello, Marco si era già<br />

aggrappato all’imponente inferriata per scavalcarla. Si voltò a guardarmi con i suoi occhietti da<br />

roditore.<br />

“Sbrigati fighetta!” Mi sfidò, invertendo i ruoli.<br />

Lo fissai con un sorrisino. Scavalcammo la pesante cancellata stando bene attenti che nessuno ci<br />

avesse visto, neanche dalle finestre dei palazzi vicini. Altri cigolii dall’interno dell’edificio mi<br />

gelarono fino alle ossa. Sapevo che erano dovuti al vento che, infilandosi tra le grandi vetrate, rotte<br />

dalle sassate dei monelli, muoveva leggermente le vecchie porte che spostandosi sui pesanti cardini<br />

arrugginiti generavano una sinistra colonna sonora.<br />

Era puro panico quello che sentivamo pulsare nelle tempie e nel petto. Per lunghi momenti non ci<br />

guardammo in faccia per non rivelare all’altro che non era prudenza quella che ci impediva di<br />

procedere e nemmeno saggezza, ma terrore paralizzante.<br />

Aprire la porta si rivelò più facile del previsto. La serratura arrugginita e resa debole dal tempo<br />

cedette con una sola spallata. Fummo catapultati all’interno del macello e della sua macabra<br />

leggenda. Dentro era ancora più tetro. Entrambi dovemmo abituare gli occhi al buio, appena<br />

stenebrato dal pallido albedo lunare che filtrava timidamente dalle finestre infrante. L’odore diffuso<br />

di stantio e di muffa che regnava in quel posto ci colse improvviso, come una sberla in piena faccia<br />

e ci venne istintivo arrovesciare la testa all’indietro.<br />

L’enorme sala era divisa in cinque vani ognuno provvisto di un enorme tavolo d’acciaio pieno di<br />

polvere e intonaco scrostato, caduto dai soffitti umidi. Su dei lunghissimi binari fissati alle pareti<br />

erano ancora attaccati numerosi ganci dove venivano appese le bestie macellate. In fondo alla sala si<br />

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distingueva chiaramente un’apertura che, attraverso un corridoio, portava alle celle di<br />

refrigerazione.<br />

L’atmosfera era agghiacciante, forse anche perché la luce tremolante del lampione fuori<br />

dall’edificio proiettava in maniera sinistra le ombre dei ganci sul pavimento. Ci aggirammo per le<br />

varie stanze e raggiungemmo in breve quella che aveva scatenato tutte le leggende: il luogo dove si<br />

era consumata la tragedia. Sul pavimento erano ancora tracciati i rilevamenti in gesso della Polizia<br />

Scientifica e si distinguevano abbastanza chiaramente le macchie di sangue.<br />

“Ema,” sussurrò Marco “ti ho accontentato, ti prego adesso andiamocene”.<br />

“E dai, solo un altro giro”.<br />

Mi avviai senza fare rumore verso la più grande delle celle frigorifere. La porta era socchiusa.<br />

“Ema, non fare stupidaggini.”<br />

“Dai fifone vieni a farti un giro.” In quello stesso istante dalla cella uscì, veloce come una saetta, un<br />

pipistrello. Fu tale lo spavento che persi l’equilibrio. Inciampai su di una tavoletta di legno che te-<br />

neva bloccata la porta, la quale si chiuse con un tonfo sordo alle mie spalle. Non ho mai urlato così<br />

tanto in tutta la mia vita.<br />

“Marco ti prego tirami fuori di qui!” Il freddo, il buio più totale, l’odore di quella stanza, gli stridii<br />

di altri pipistrelli rimasti intrappolati con me mi stavano facendo impazzire<br />

“Ema! La serratura sembra bloccata … non riesco …”<br />

Quelle poche urla, rese sussurri dalla solida porta insonorizzata che mi separava dalla libertà mi<br />

gettarono nel panico più totale.<br />

“Ema! Ema vado a cercare aiuto!”<br />

Lo implorai di restare, ma non mi udì e se ne andò lasciandomi solo per un tempo interminabile, in<br />

quella enorme cella, nera come la pece, mentre andava a cercare qualcuno.<br />

Il resto non lo ricordo bene. Rammento solo che quando mi tirarono fuori ero sotto shock. Restai in<br />

osservazione una notte. Nei giorni seguenti si scatenò il putiferio. Avevamo infranto la legge. An-<br />

che se erano passati tanti anni dai terribili avvenimenti del macello Gasperini, l’edificio era ancora<br />

sotto sequestro giudiziario e noi, rompendo i sigilli, ci eravamo cacciati in un guaio molto grosso. Il<br />

reato era penale: violazione di sigilli. La nostra prospettiva andava dai due mesi ai tre anni di<br />

carcere. Questa però fu solo la prospettiva di Marco.<br />

Io ero un riccastro figlio di un avvocato molto noto e assai stimato, che non poteva assolutamente<br />

permettersi che per una “cavolata” del genere venisse infangato il buon nome della famiglia. Me la<br />

cavai con il risarcimento delle spese processuali e una ruvida lavata di capo, ma ne uscii con la<br />

fedina penale pulita. Serviva però un capro espiatorio e l’unico agnello rimasto era Marco. Non lo<br />

avrei mai voluto. Purtroppo però Marco Forlini era di famiglia modesta: un padre operaio e la ma-<br />

dre maestra d’asilo, con un mutuo sulla casa e tre figli. Inoltre l’avvocato che mi difese, uno dei mi-<br />

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gliori sulla piazza, orchestrò in modo che le responsabilità del misfatto ricadessero quasi interamen-<br />

te su Marco, dipinto come il vero regista della bravata. Io? Ero stato solo plagiato.<br />

I Forlini caddero in disgrazia nel quartiere dove risiedevano. Non so che fine abbiano fatto. Marco<br />

si beccò il minimo della pena, due mesi che poi vennero commutati in sei mesi di lavori socialmente<br />

utili presso una cooperativa per disabili in provincia di Ferrara. Lo persi di vista anche perché lui e<br />

la sua famiglia tagliarono i ponti con tutti. Ancora oggi mi ritengono un traditore e sinceramente<br />

non riesco a dar loro torto. Purtroppo secondo mio padre non c’erano strade diverse da poter<br />

percorrere ed io non rividi più il mio migliore amico.<br />

-4-<br />

Sette e quarantanove: è bastato un minuto per rivivere tutto questo, mentre l’avvocato Rossani mi<br />

fissava da dietro le lunette con i suoi occhi di ghiaccio, ma io non me ne ero accorto. Fu allora lui a<br />

svegliarmi dal mio torpore con i suoi modi bruschi.<br />

“Nardi! Pensi di portarti anche il cuscino domattina o preferisci stare nella poltrona del mio studio a<br />

dormire? Pensavo di regalarti un divano per il compleanno!”<br />

Maldestramente riacciuffato dal mondo dei ricordi, cercai delle scuse convincenti:<br />

“Sono mortificato, avvocato, mia moglie non si è sentita bene e abbiamo passato una brutta not…”<br />

“Sì, Nardi, certo Nardi sei molto dispiaciuto, ma ora vedi di ricollegare il cervello, sono praticamen-<br />

te le otto e ancora devi cominciare! Mi sembrava che io e te avessimo già discusso la settimana<br />

scorsa, non ho proprio voglia di tornare sull’argomento.”<br />

Quella frase lasciava trapelare un leggero sconforto nella voce del vecchio avvocato che mi fissò e,<br />

dopo aver sospirato, riprese: “Ascoltami Emanuele…”<br />

Oh Gesù mi ha chiamato Emanuele?<br />

“…in questi pochi anni con te sono stato molto rigido, non perché ti voglia del male, anzi, anche se<br />

poco te l’ho dimostrato sei una persona di cui nutro profonda stima nonostante i tuoi precedenti bur-<br />

rascosi. Solo volevo “allenarti” perché fossi pronto per questo giorno. È arrivato per me il momento<br />

di ritirarmi, e tu, dopo quattro anni di lavoro sotto la mia tutela, è ora che prenda in mano le redini<br />

dello studio.”<br />

Non sapevo cosa dire. Mi alzai in segno di deferenza e di gratitudine.<br />

“Avvocato Rossani, io non so che dire, le sono e le sarò sempre grato per tutta la fiducia che ha ri-<br />

posto in me negli anni e…”<br />

“Sì Nardi lo so, ma non è così facile.”<br />

Mai una volta che mi lasciasse concludere una frase!<br />

“Prima di lasciarti definitivamente lo studio voglio affidarti un’ultima causa, l’ultimo esame, met-<br />

tiamola così.”<br />

7


“Beh mi dica, di cosa si tratta?”<br />

Mi allungò una cartellina marrone che recava la scritta “Marianna Poletti”.<br />

“Ecco tieni, inizia subito.”<br />

Prima che potessi visionare con lui il contenuto della cartellina si rituffò nel suo ufficio e chiuse<br />

dietro di sé la grande porta di mogano.<br />

Aprii la cartellina, curioso di scoprire cosa mi aveva riservato questa volta il vecchio. Estrassi uno<br />

dei tanti fogli che ne costituivano il contenuto e iniziai a leggere. Era una denuncia sporta al Co-<br />

mando Generale Emilia Romagna di Via Leonetto Cipriani, quella vicino alla stazione ferroviaria.<br />

Nel foglio era indicata la persona che sporgeva denuncia, una certa Giuliana Maurizzi. L’accusa era<br />

di furto aggravato e riciclaggio e l’accusata tale Marianna Poletti.<br />

Sfogliando il resto del contenuto della cartellina trovai la richiesta di querela, il mandato di arresto<br />

della signora Poletti e la richiesta di assistenza legale al nostro studio, nella fattispecie a me.<br />

Furto e riciclaggio non sono certo una passeggiata, per cui decisi di mettermi al lavoro senza alcun<br />

indugio. Replicare al vecchio avvocato non avrebbe avuto senso né avrebbe sortito alcun risultato<br />

positivo.<br />

Prima però mi ci voleva un caffè, non sulla giacca ovviamente.<br />

-5-<br />

Il giorno seguente, dopo aver esaminato con calma i documenti del faldone, mi avviai verso la casa<br />

circondariale Dozza, in Via del Gomito 2, le carceri di Bologna insomma, che di recente erano state<br />

oggetto di critiche per la cattive condizioni in cui versavano i detenuti. Erano in grande sovraffol-<br />

lamento rispetto alla soglia regolamentare e tollerabile ed erano costretti a dividersi una cella di cir-<br />

ca dieci metri quadri in quattro.<br />

Mi scortarono fino alla sala dove si sarebbe tenuto il colloquio con la mia cliente. Mi sedetti ad un<br />

lungo tavolo dove aspettai l’arrivo della signora Poletti. Forse l’agitazione per le aspettative del<br />

Rossani, forse l’ambiente in cui mi trovavo, insomma l’attesa mi sembrò eterna.<br />

Alla fine la porta che avevo di fronte si aprì e, scortata da una guardia carceraria, entrò la signora.<br />

Me l’ero immaginata totalmente diversa. La signora Poletti era di media statura, con i capelli scuri,<br />

così come gli occhi, di un nero pece, cerchiati e appesantiti, forse dallo scarso riposo. Le spalle era-<br />

no curve, come se avesse voluto chiudersi a riccio. Dalla cartella che mi aveva dato l’avvocato Ros-<br />

sani risultava che la signora era di classe 1983, aveva quindi tre anni meno di me, eppure ne dimo-<br />

strava almeno cinque in più. Non so se poteva essere solo il carcere ad averla trasformata, proba-<br />

bilmente anche fuori non doveva avere avuto una vita agiata. Nonostante tutto era una bella donna.<br />

Quando si fu seduta mi presentai e inizia il mio colloquio:<br />

“Buongiorno signora Poletti, mi chiamo Emanuele Nardi e…”<br />

8


“Sì, so benissimo chi è lei, come so benissimo che prenderà le mie difese in Tribunale, mi dica<br />

quello che vuole sapere.”<br />

Perché cavolo nessuno mi lascia mai finire una frase?!<br />

“Certo, certo.” Soggiunsi. Lei mi guardava stanca e spazientita ad un tempo.<br />

Appoggiai la mia valigetta sopra il tavolo, estrassi un registratore ed il fascicolo e iniziai il collo-<br />

quio, che la signora sembrava non avesse molta voglia di portare avanti. Da regolamento avevo<br />

un’ora a disposizione, ma avevo l’impressione che sarebbe durato molto meno.<br />

“Allora signora, io ho esaminato il suo caso e se non le dispiace vorrei sentire direttamente da lei<br />

quel che è accaduto. Mi sono stancato di leggere fascicoli.” Dissi con un mezzo sorriso, cercando di<br />

alleggerire la situazione.<br />

“E io mi sono stancata di raccontare sempre la stessa storia.”<br />

La situazione iniziava a diventare poco gestibile.<br />

“Ascolti signora Poletti, mi rendo conto che lei si trova qui dentro già da parecchi giorni, ma io ho<br />

bisogno di sapere come sono andate le cose e preferirei sentirlo da lei.”<br />

“Lei , con il suo bel completo Zegna che odora ancora di nuovo, non si rende conto proprio di nien-<br />

te per cui io, se non le dispiace, me ne torno dentro! Guardia, abbiamo finito!”<br />

Si alzò in fretta e prima che io potessi fermarla la porta era già stata aperta e la stavano scortando<br />

verso la cella. Ottimo inizio, pensai. Riposi tutto nella valigetta e, rassegnato, decisi di andarmene.<br />

Sarei tornato l’indomani o un paio di giorni dopo, giusto il tempo necessario per lasciare che lei<br />

sbollisse e che la mia agitazione scemasse un poco. Sinceramente non mi andava di farmi trattare<br />

così da una mia assistita.<br />

Uscito dall’edificio mi diressi verso l’auto e scaraventai con stizza la valigetta sul sedile posteriore.<br />

Dopo essermi seduto al volante mi rasserenai contemplando il grosso disco del sole che, scivolando<br />

lentamente dietro la catena degli Appennini, si stava congedando da questo giorno e dalle sue pene,<br />

in uno spasimo rosso. E ogni volta mi lasciava la sensazione che si portasse via qualcosa che non<br />

avrei più rivisto. Stava finendo un’altra giornata, un’altra pessima giornata, giusto per essere chiari.<br />

Infilai le chiavi nel quadro elettrico, avviai il motore e decisi che avrei portato Cristina fuori a cena.<br />

Avevo bisogno di svuotare la testa e quale modo migliore se non andare a mangiare un buon piatto<br />

di pasta da Pietro?<br />

Con un paio di manovre diressi l’auto verso il centro. Ancora una volta il traffico cittadino cullò i<br />

miei pensieri: sulla giustizia terrena e su quella divina. Mi chiedevo spesso se noi uomini dessimo<br />

davvero un aiuto alla Nemesi o se invece le nostre azioni, anche di noi uomini di legge, fossero det-<br />

tate dalla convenienza o da strani equilibri che, invisibili come i fili di un burattinaio, conducono a<br />

strade che in fondo non avremmo percorso e a prendere decisioni che non ci appartengono vera-<br />

9


mente. Come quella che mi aveva spinto tanti anno or sono nel macello Gasperini e che mi aveva<br />

allontanato per sempre da Marco e come quella che mi aveva condotto oggi dalla signora Poletti.<br />

Il sole intanto schizzava velocemente le sue tempere arancioni e rosse sui colli, mentre la città si<br />

riempiva di nere silhouette. E mentre il mio sguardo indugiava ancora sull’ultimo raggio, il mio a-<br />

nimo inquieto si rasserenava e si svuotava un po’ di quella cupa solitudine che mi accompagnava<br />

sempre quando mi confrontavo con le miserie umane.<br />

Giunto a casa parcheggiai l’auto sul vialetto di ghiaia. Salii velocemente la tromba di scale fino al<br />

secondo piano, ansioso di abbracciare Cristina e di buttarmi alle spalle quella difficile giornata, con<br />

la speranza che all’indomani l’alba potesse salutare una giornata migliore.<br />

-6-<br />

Due giorni dopo, ancora innervosito dal comportamento della signora Poletti, tornai in carcere, con<br />

la speranza di riuscire a ricavare qualcosa di più. Come la prima volta fui scortato nella sala per il<br />

colloquio e attesi l’arrivo della signora. Appena entrata si sedette sulla sedia di fronte a me. Anche<br />

stavolta fui io a rompere il ghiaccio.<br />

“Buongiorno signora Poletti.”<br />

“Buongiorno.”<br />

“Allora riesaminando la sua…”<br />

“Ascolti.”<br />

Dannazione, riuscirò mai a concludere un discorso?<br />

Riprese: “Mi scuso per il comportamento dell’altro giorno, so di non avere un carattere facile e que-<br />

sto non è certo un posto dove si possa cambiare o migliorare. La prego di scusarmi.”<br />

La guardai un paio di secondi prima di ricominciare a parlare.<br />

“Acqua passata, ma è giusto fare una precisazione signora Poletti. L’unica regola che può governare<br />

il rapporto tra avvocato e assistito è assolutamente la fiducia. Io le assicuro che di me si può fidare,<br />

ora però voglio sapere, mi posso fidare di lei?”<br />

“Sì.” Un lieve cenno della testa sottolineò la sua risposta.<br />

“Bene, allora direi che possiamo cominciare.”<br />

Dopo essermi preparato avviai il registratore. “Allora signora Poletti, vuole raccontarmi come sono<br />

andate le cose?”<br />

Dopo qualche secondo di attesa la signora mi fissò, come in cerca di un incoraggiamento e io con<br />

un gesto delle mani ed un leggero sorriso cercai di infonderle quella fiducia che ancora non aveva e<br />

di farle capire che da me non aveva nulla da temere.<br />

“Era domenica sera o forse sabato. Lavoro per alcune famiglie come donna delle pulizie e, per ra-<br />

cimolare qualche soldo in più, spesso faccio la baby-sitter presso coppie con bambini piccoli. Come<br />

10


quella dei signori Maurizzi. Sabato dovevano uscire e mi avevano chiesto di tenere d’occhio i due<br />

gemelli in attesa del loro ritorno. Dopo aver cenato e aver guardato un film, li ho accompagnati a<br />

letto e …” Abbassò la testa, quasi si vergognasse di continuare.<br />

“E?” La incoraggiai io.<br />

“Non era la prima volta che rubavo: sempre oggetti di poco conto, chincaglieria, ma questa volta<br />

no. I signori sono di famiglia facoltosa e appassionati di antiquariato. Pensai che con tutti quegli<br />

oggetti sparsi per la casa, non si sarebbero mai accorti di quella piccola zuccheriera lasciata a pren-<br />

dere la polvere.”<br />

“Ma qualcosa è andato storto.”<br />

“Già. Purtroppo qualcosa si è messo di traverso. Gli oggetti non mi limitavo a rubarli, ma li piazza-<br />

vo sul mercato nero. Sono molti gli interessati a suppellettili del genere, anche se a noi sembrano<br />

insignificanti.”<br />

“Scusi a che oggetti si riferisce?”<br />

“Pezzi di antiquariato, come le ho già detto. C’è molta gente disposta a sborsare belle somme per<br />

averli, anche se spesso sono oggetti apparentemente di poco conto.”<br />

“Come per esempio la zuccheriera, giusto?”<br />

“Già. È un piccolo contenitore in ceramica cinese bianca e blu. Un oggetto così piccolo che potevo<br />

nascondere benissimo in tasca. Ed era praticamente già piazzato.”<br />

“Va bene. Torni a quella sera, poi cos’è successo?”<br />

“Ho infilato la zuccheriera nella tasca del paltò, come le ho detto. Quando i coniugi sono rientrati,<br />

dopo averli salutati, ho preso il cappotto, ma, estraendo le chiavi dell’auto, dalla tasca è uscito an-<br />

che il cucchiaino in ceramica ed è caduto sul pavimento frantumandosi. Il resto mi sembra evidente,<br />

mi hanno ordinato di vuotare le tasche e, dopo aver scoperto la zuccheriera, la signora è andata su<br />

tutte le furie e si è ricordata di altre “sparizioni”. Poi ha sporto denuncia.”<br />

Restammo lì ancora una buona mezz’ora ad analizzare i particolari e a fare il punto della situazione,<br />

fino a quando l’ora del colloquio fu terminata. Ci salutammo, entrambi visibilmente stanchi. Erano<br />

circa le sei. Decisi che sarei passato in ufficio giusto il tempo necessario per chiudere gli ultimi fa-<br />

scicoli e sarei tornato subito a casa.<br />

Rientrai a sera inoltrata, gettai giacca e valigetta sul divano e mi diressi in cucina a lunghi passi. Il<br />

bisogno di caffeina era impellente. Mentre sorseggiavo con calma il mio caffè, Cristina si affacciò<br />

in cucina tenendo in mano un piccolo oggetto.<br />

“Ciao tesoro, come è andata con la signora Pauletti?”<br />

“Poletti. Sicuramente meglio dell’ultima volta, pensa che si è anche scusata per la reazione<br />

dell’altro giorno. Mi ha raccontato tutto quello che è successo. È un bene, vuol dire che inizia a fi-<br />

darsi. Che cos’hai in mano?”<br />

11


“Ah sì, questo. Guarda cosa ho trovato dal signor Tavella. Hai presente quello che ha il negozio di<br />

oggetti d’epoca dall’altra parte della strada?”<br />

“Sì.”<br />

“È un piccolo tagliacarte. Guarda, il manico è in ebano intagliato. Non è bello?” Mi sorrise, cercan-<br />

do il mio consenso.<br />

“È bellissimo, ma … quanto l’hai pagato?”<br />

“Oh, come sei veniale! Quattrocento e trenta euro appena.”<br />

Mi mancò l’aria d’improvviso.<br />

“Quattrocento e trenta?! Tesoro, non ti sembra eccessivo per un tagliacarte?”<br />

“Sì lo so amore, ma è bellissimo, mi dispiaceva sul serio lasciarlo lì!”<br />

Cosa potevo fare, ormai l’aveva comprato, non volevo mortificarla per uno stupido tagliacarte.<br />

“Beh dai, in effetti bello è bello. Fammi dare un’occhiata.”<br />

Lei me lo passò con un sorriso. Mentre lo esaminavo disse: “Però chi può immaginare che un ogget-<br />

to così piccolo e insignificante possa valere certe cifre per un esperto?”<br />

In quel momento una saetta mi trapassò il cervello. I pensieri, spenti appena ero entrato in casa, tor-<br />

narono a girare vorticosamente ed uno in particolare si delineò nitido e preciso nella mia mente.<br />

Rimasi in contemplazione del frigorifero per qualche secondo fino a quando Cristina mi ridestò.<br />

“Amore tutto okay?”<br />

“ … che..? Sì, sì tranquilla! Scusa tesoro devo scappare in ufficio, mi hai appena illuminato.”<br />

“Ma sono le nove!”<br />

Prima che potesse fare domande le avevo schioccato un bacio e, senza infilarmi il giubbotto, mi ero<br />

già fiondato fuori della porta. Mentre scendevo le scale ripensai velocemente: come faceva la signo-<br />

ra Poletti, un’umile domestica, baby-sitter part-time, ad avere le conoscenze necessarie per poter<br />

piazzare da sola oggetti di quella portata sul mercato? Per il momento era solo una supposizione,<br />

ma mi suonava strano che una signora tanto dimessa potesse essere così informata da indicare il<br />

prezzo ai suoi acquirenti. Non ci avevo prestato attenzione, la signora non mi aveva fornito molti<br />

dettagli su quella zuccheriera, era stata abbastanza vaga. No, c’era qualcosa che non mi tornava.<br />

Dovevo verificare e avevo già in mente come. Dovevo solo aspettare l’indomani mattina.<br />

-7-<br />

Mi ero ripetuto più volte, mentalmente, le domande da porre alla signora Poletti, mentre attendevo<br />

nella sala dei colloqui. Dovevo prestare molta attenzione a non essere irruento per non farla chiude-<br />

re di nuovo.<br />

“Salve signora.” Salutai con un caldo sorriso.<br />

12


“Buongiorno. Scusi la franchezza, ma ci siamo visti meno di ventiquattro ore fa, come mai questo<br />

colloquio?”<br />

“Sarò breve signora, lo prometto, ma ho bisogno di un particolare. A quale dinastia ha detto che ap-<br />

parteneva quel vaso?”<br />

“Come scusi?” Mi guardò spaesata. Forse la mia intuizione era giusta.<br />

“La zuccheriera, a quale dinastia ha detto che apparteneva?”<br />

“Non l’ho detto.”<br />

“Ah no? Devo aver colto male io. Può dirmelo per favore?”<br />

“Che importanza ha?”<br />

“E’ molto importante invece. A quale dinastia apparteneva quella zuccheriera?”<br />

Lessi subito la preoccupazione nei suoi occhi. Stavo per ripetere la domanda, ma finalmente rispo-<br />

se.<br />

“Non lo so, ma che cosa vuole che conti adesso?” Chiese con un sorriso forzato.<br />

“Lei dice? Sa mi sono informato, potrebbe essere della dinastia Song, quella che va dal 900 al 1200<br />

circa. Su Internet vendono vasi cinesi di centocinquanta, duecento anni fa a due, tremila euro. Lei<br />

ha idea di quanto possa costare un oggetto del 900 dopo Cristo autentico? Io no e sono convinto che<br />

nemmeno lei possa saperlo. Adesso mi dica la verità, c’era un altro uomo che vendeva la merce che<br />

lei rubava, dico bene? Lei da sola non ha mai venduto un solo pezzo perché non ne conosce la storia<br />

e quindi il valore.”<br />

La sua faccia faceva trasparire una certa riluttanza a rivelare quello che fino a quel momento mi a-<br />

veva tenuto nascosto. Decisi di forzare la mano.<br />

“Signora se lei decide di collaborare ora il giudice ne terrà conto, altrimenti le conseguenze potran-<br />

no essere ben più pesanti. Le consiglio di pensarci bene e di fidarsi per davvero di me.”<br />

La testa china, le spalle curve e i capelli che le nascondevano il viso, credevo non avrebbe detto una<br />

parola.<br />

“Bene se è così, posso andare allora.” Stavo per alzarmi quando la signora scattò come una molla,<br />

mi afferrò le mani e mi pregò di tornare a sedere.<br />

“Aspetti! Aspetti la prego.”<br />

L’ascoltai con calma mentre in un taccuino cominciai ad annotare quello che di nuovo la signora mi<br />

stava raccontando.<br />

“È vero, non ho la più pallida idea di quanto possa valere un oggetto del genere ed è altrettanto vero<br />

che facevo affidamento su un’ altra persona per piazzare la merce sul mercato.”<br />

“Bene, penso sia venuto il momento di fare qualche nome, non trova?”<br />

“Avvocato Nardi io non…”<br />

13


“Se vuole me ne vado signora, non ho voglia di perdere tempo se non ha intenzione di parlare, tor-<br />

nerò se e quando ne sarà veramente convinta.”<br />

“Grigore”<br />

“Come scusi?”<br />

“Octavian Grigore” Sussurrò abbassando lo sguardo preoccupata.<br />

“Signora Poletti non le succederà niente, mi creda.”<br />

“Lo spero tanto.”<br />

“Glielo prometto. Ora mi scusi, ma ho veramente tanta fretta di andare a fare una chiacchieratina<br />

con questo egregio signor Octavian. Dove lo trovo?”<br />

“Ha una tabaccheria in Via San Lorenzo.”<br />

“Okay, grazie. Arrivederci signora.”<br />

Uscii dal carcere. Me la presi comoda, erano appena le tre e la tabaccheria prima delle tre e mezza<br />

non avrebbe sicuramente aperto. Avevo anche il tempo per una sigaretta. Estrassi il pacchetto di<br />

Marlboro rosse dal taschino interno del trench, ne infilai una in bocca e dopo averla accesa ne aspi-<br />

rai a pieni polmoni il fumo. Iniziarono a farsi largo nella testa alcune domande: cosa spingeva una<br />

donna come la signora Poletti a ridursi al furto? In fondo anche se la sua vita non era delle migliori,<br />

non era ridotta certo in miseria a giudicare dai commenti dei vicini che avevo incontrato in mattina-<br />

ta. E questo Octavian? Probabilmente la tabaccheria era solo un paravento.<br />

Finita la sigaretta interruppi il flusso di pensieri e mi infilai in auto.<br />

Dopo una quindicina di minuti di strada arrivai in Via San Lorenzo, la percorsi fino in fondo, ma<br />

della tabaccheria nessuna traccia. Probabilmente l’avevo lasciata indietro e non l’avevo notata, le<br />

tabaccherie non sono negozi molto grandi. Girai l’auto e ripercorsi la via, ma niente. La tabaccheria<br />

proprio non c’era. Qualcosa non mi tornava. Mi fermai sul ciglio della strada e spensi l’auto. Lì vi-<br />

cino notai una ferramenta, pensai di entrare a chiedere informazioni. Magari la signora Poletti aveva<br />

confuso la via. Il negozio era piccolo e ordinato e dietro il banco trafficava un uomo, più o meno<br />

sulla quarantina, alto, con i capelli brizzolati ed il fisico allenato di chi frequenta assiduamente la<br />

palestra.<br />

“Buongiorno.”<br />

“Salve, le serve qualcosa?”<br />

“Sì scusi, un’informazione. Sa indicarmi dove si trova la tabaccheria di Octavian?”<br />

L’uomo mi squadrò dalla testa ai piedi con aria perplessa.<br />

“Non c’è nessuna tabaccheria qui.”<br />

“Come scusi, mi è stato detto che Octavian ha una tabaccheria in via San Lorenzo.”<br />

“Octavian chi scusi?”<br />

“Octavian … oddio qual era il cognome? Octavian Grigore.”<br />

14


“Che scherzi sono? Sono io Octavian Grigore, ma come vede ho una ferramenta!”<br />

Mi trovai spiazzato, non sapevo più come gestire la situazione e così decisi di andare al sodo senza<br />

badare alle promesse che avevo fatto alla Poletti.<br />

“Mi deve scusare, evidentemente devono avermi fornito informazioni sbagliate. Signor Octavian mi<br />

scusi, sono stato scortese. Sono Emanuele Nardi, piacere.”<br />

Allungai la mano e lui fece lo stesso per stringere la mia. Parlava bene l’italiano e l’accento dell’Est<br />

non era nemmeno così evidente. Doveva essere in Italia da parecchio.<br />

“Piacere mio, le serve qualcosa in particolare?”<br />

“Qualcosa di molto particolare.”<br />

Lasciai volutamente la frase in sospeso per osservare le sue reazioni. Octavian si girò con circospe-<br />

zione, il suo sguardo era perplesso e allo stesso tempo stupito.<br />

“Quanto particolare?”<br />

“Diciamo che non si trova in una ferramenta o almeno non in vetrina.”<br />

Aveva afferrato al volo, perché, sempre più guardingo, chiuse la porta del negozio e girò il cartello<br />

da “Aperto” a “Chiuso”.<br />

“Di che cosa si tratta?”<br />

“Antichità, cinesi per l’esattezza. So di pezzi in ceramica della dinastia Song.”<br />

Il suo sguardo si faceva sempre più perplesso e preoccupato.<br />

“Avrebbe dovuto arrivarmi qualcosa del genere in questi giorni, ma nessuno si è più fatto vivo. Si-<br />

gnor…”<br />

“Nardi.”<br />

“Nardi, mi scusi, ma lei queste informazioni da chi le ha avute? Non sono cose che si origliano in<br />

bar.”<br />

Fino a quel momento ero rimasto nell’anonimato, ma era ora di calcare la mano altrimenti con tutta<br />

probabilità non avrei ottenuto niente. Octavian sembrava iniziare ad innervosirsi, e la prospettiva di<br />

un destro da un bicipite così ben strutturato non era tra i miei obiettivi.<br />

“Ho saputo tutto dalla signora Poletti.”<br />

Lo fissai stampandomi in faccia il ghigno di chi la sa molto lunga, credendo di avere la situazione in<br />

pugno.<br />

“Dovrei conoscerla?”<br />

“Grigore non fare il furbo con me, è stata la Poletti a farmi il tuo nome.”<br />

“E tu chi sei, uno della Pula?”<br />

Cominciava a scaldarsi e non era un buon segno, meglio sbollentarlo un po’.<br />

“Sono il suo avvocato e adesso che è finita nei casini, se non vuoi finirci anche tu, è meglio che col-<br />

labori un po’, Octavian.”<br />

15


“Aspetta, aspetta, io non so chi sia questa Poletti!”<br />

“Octavian sarà meglio che parli, se non vuoi che ti tiri in mezzo per ricettazione!”<br />

“Ehi, ehi calma ho moglie e figli! Che cosa vuoi sapere?”<br />

Ecco i primi segni di cedimento.<br />

“Se non era la Poletti, chi veniva a portarti la merce?”<br />

“Senti, io non conosco nessuna signora Poletti, lo giuro su tutto quello che ho!”<br />

“Ascoltami Octavian, lei mi ha detto che la merce rubata la portava a te e poi tu la piazzavi sul mer-<br />

cato nero!”<br />

“È vero, io vendo sul mercato la merce d’antiquariato rubata, ma non ho mai avuto a che fare con<br />

una signora Poletti. Anzi non c’è mai stata una donna nel giro!”<br />

È possibile che ci sia un terzo uomo? È possibile che la Poletti mi stia nascondendo ancora qualco-<br />

sa? Cosa diamine sta succedendo?<br />

“E allora chi cavolo ti vende la roba? Se non è la signora Poletti qualcuno ci sarà no? Non vorrai<br />

farmi credere che i vasi della dinastia Song e quant’altro ti vengono recapitati con il DHL!?”<br />

“Stick!”<br />

“Che cosa?”<br />

“Stick, me li vende Stick.”<br />

“Stick? Chi è Stick, avrà un nome, perdio!”<br />

“E chi l’ha mai saputo! È un tipo tutto sulle sue, ci si vede una volta al mese circa. Lui mi porta la<br />

merce, io gli do i soldi e addio!”<br />

“Dove lo posso trovare, sai dove abita?”<br />

“Chi Stick? Stick è come un topo, si nasconde nel buco e non si fa più vedere per un po’. Aspetta<br />

che si calmino le acque e poi, quando il gatto se n’è andato, sbuca fuori di nuovo e ricomincia. Nes-<br />

suno lo conosce. Parla poco. Dicono che venga da fuori. Io lo conosco solo di vista, non è molto al-<br />

to, magrissimo, quasi uno scheletro. Non so altro, lo giuro!”<br />

“Insomma non sai come trovarlo.”<br />

“Non perdere tempo a cercarlo, non lo troverai.”<br />

Ripensai a quello che mi aveva appena detto e mi balenò in testa un’idea che aveva dell’assurdo.<br />

Stick!<br />

No dai, non è possibile!<br />

“Va bene Octavian, per adesso finisce qui. Ricordati però che prima o poi la Polizia certi giri li fiu-<br />

ta, per quel che mi riguarda io con te ho chiuso. Fa’ attenzione a come ti muovi.”<br />

Mi avviai verso l’uscita col pacchetto di sigarette già in mano.<br />

Alle mie spalle giunse ancora la sua voce: “Ti devo un favore.”<br />

16


“Ah Octavian …” Mi girai verso di lui e lo guardai dritto negli occhi. “Io e te non abbiamo mai par-<br />

lato.”<br />

Il suo ghigno fu più eloquente di ogni risposta.<br />

Uscii dal negozio, accompagnato dal tintinnio di quei campanelli che si mettono all’ingresso per se-<br />

gnalare l’arrivo di un cliente.<br />

La faccenda si arricchiva di dettagli e quindi si ingarbugliava ancora di più. Avevo bisogno di svuo-<br />

tare la testa.<br />

Riposi le sigarette nel taschino e decisi di aspettare qualche minuto per fumare in un posto più tran-<br />

quillo, mentre riordinavo i pensieri. Diedi un’occhiata all’orologio: quattro e dieci. Mi infilai in auto<br />

con un gran sospiro. Accesi il motore e mi diressi verso il centro storico. Il Parco della Montagnola,<br />

non c’era posto migliore per schiarirsi le idee.<br />

Parcheggiai in Via Milazzo e feci un tratto di strada a piedi. Accesi una sigaretta che fumai durante<br />

il tragitto. Mi divertivo sempre a guardare le volute di fumo leggero e bianco che si allontanavano<br />

dalla brace ardente. La confusione che avevo in testa non mi permetteva di formulare un pensiero<br />

lineare che potesse spiegare gli avvenimenti fino a quel momento.<br />

Arrivato al Parco mi sedetti sulla prima panchina libera e aspirai profondamente. Mi passai ripetu-<br />

tamente le mani tra i capelli e chiusi gli occhi. Restai così per un po’, senza pensare a niente, cer-<br />

cando di fermare il turbine di pensieri per metterci un po’ di ordine. Quando rialzai lo sguardo optai<br />

per un’ altra sigaretta. Stavo esagerando, ma ne sentivo proprio il bisogno.<br />

La dinamica degli eventi era sicuramente uno schema già visto: la signora Poletti rubava nella case<br />

dove prestava servizio, passava la merce ad un ipotetico terzo uomo che la vendeva a Octavian, che<br />

poi l’avrebbe collocata sul mercato nero.<br />

Ma devono avere un qualche rapporto la Poletti e questo intermediario, insomma non dai roba di<br />

valore al primo sconosciuto. Ci deve essere per lo meno un rapporto di fiducia, si devono conosce-<br />

re e probabilmente si spartiscono anche il guadagno.<br />

Ma perché la signora Poletti non me ne aveva parlato subito? Insomma già che aveva tradito Octa-<br />

vian, cosa le costava darmi il nome anche del mediatore?<br />

Vuole tenerlo fuori, vuole proteggerlo. Ma questo si giustifica solo se i due sono in rapporti molto<br />

stretti.<br />

Dai verbali della Polizia però risultava che la signora aveva solo una sorella, che oltretutto abitava a<br />

Monza e che non era sposata.<br />

Un’amante! Insomma è un rapporto stretto, ma non implica che i due debbano vivere sotto lo stesso<br />

tetto. E perché no? L’amante.<br />

Un altro sguardo all’orologio. Tutto questo rimuginare mi aveva fatto perdere la cognizione del<br />

tempo, erano già le sette passate, decisamente ora di tornare a casa. Una cena leggera, due chiac-<br />

17


chiere con Cristina, una doccia ristoratrice e poi mi sarei infilato a letto. Avevo voglia di riavvolge-<br />

re il filo dei miei pensieri. Al da farsi avrei pensato l’indomani mattina.<br />

Per rientrare a casa decisi di fare il tragitto più lungo per contemplare la mia splendida Bologna,<br />

mentre calavano le prime ombre della sera. Lo faccio spesso, mi aiuta a tranquillizzarmi.<br />

È il momento più bello e intenso della giornata, quando scende il sole e si accendono le prime luci,<br />

quando i mattoni si colorano di quell’arancio intenso ancora per poco e i lunghi portici si illumina-<br />

no, mentre le nostre orgogliose torri svettano contro il cielo ormai colore dell’ebano.<br />

È in quel preciso momento che io mi sento veramente a casa: cullato dalla tranquillità di una giorna-<br />

ta che volge al termine, trasportato dall’onda dei colori pastello che lasciano piano piano spazio al<br />

buio, con il ruggito della città che si placa e la frenesia del lavoro che scema e lascia il posto alla<br />

calma delle mura domestiche, mentre le strade caotiche si svuotano repentinamente delle auto. Bo-<br />

logna ha una magia che poche altre città sanno regalare, ma forse ognuno lo dice della propria.<br />

-8-<br />

Mi svegliai con una forte emicrania. Il bagliore eburneo che filtrava dalla finestra mi colpì come<br />

una lama tagliente gli occhi e temetti subito che anche quella sarebbe stata una giornata complessa.<br />

La notte trascorsa quasi sempre sveglio mi aveva portato a riflettere sui nuovi sviluppi della causa.<br />

In effetti non c’era niente di così insolito o strabiliante, l’unica cosa che mi lasciava perplesso è chi<br />

mai potesse essere questo terzo uomo e perché la povera Poletti lo tenesse nascosto. Era ora di chia-<br />

rire molte cose con questa signora.<br />

Mi vestii con tutta calma e sorseggiai un caffè in compagnia di Cristina.<br />

Povera Cristina, la stavo trascurando. Eppure è sempre stata il mio punto fisso in molti momenti cri-<br />

tici. Ci siamo conosciuti poco dopo il mio arrivo all’università. Lei lavorava come barista al pub di<br />

fronte alla facoltà. A pranzo, o magari se la mattina non frequentavo il corso, andavo lì con qualche<br />

compagno a rivedere gli appunti o semplicemente per prendermi una mattinata di pausa. Non è stato<br />

un colpo di fulmine, non è stato amore a prima vista, insomma non è stato un film, semplicemente<br />

abbiamo imparato a conoscerci. Ho iniziato a frequentare sempre più assiduamente il bar e poi ab-<br />

biamo cominciato a vederci qualche sera. Il resto è avvenuto spontaneamente. Ci siamo sposati tre<br />

anni fa, abbiamo trovato casa ed ora aspettiamo solo di riempire anche le stanze dei bambini.<br />

Mi fermai con lei una decina di minuti, poi mi accorsi che era tardi. La salutai con un bacio, presi il<br />

cappotto e le chiavi, uscii di casa e mi diressi verso l’auto.<br />

Arrivai alla casa circondariale e con calma decisi di accendermi una sigaretta nel parcheggio prima<br />

di entrare. Aspirai lentamente e presi la decisione di non calcare troppo la mano con la Poletti, do-<br />

vevo solo farle capire che collaborare sarebbe stato un vantaggio per lei.<br />

18


Buttai la sigaretta a terra e la spensi con la punta della scarpa quando ne avevo fumata appena la<br />

metà.<br />

Solita routine del carcere. Fui scortato fino alla sala dei colloqui, con le consuete raccomandazioni e<br />

attesi la signora. Solo quando si fu seduta iniziai.<br />

“Salve signora, come si sente?”<br />

“Meglio grazie.”<br />

“Mi fa piacere.” Restai in silenzio a fissarla per qualche secondo.<br />

“Allora?” Mi incalzò lei.<br />

“Signora, quando tornai qui in carcere dopo il nostro primo incontro cosa le chiesi?”<br />

“Se poteva fidarsi di me e allora?”<br />

“Posso davvero fidarmi di lei?”<br />

“Sì, certo”<br />

“Non ne sono più così sicuro. Signora, perché non mi ha parlato di Stick?”<br />

“E chi è Stick?”<br />

“Avanti smettiamola di prenderci in giro! Sono stato da Octavian ieri. Signora Poletti, l’unica cosa<br />

vera che lei mi ha riferito è stato il nome! Dica la verità, non è mai stata da lui! Prima di tutto pos-<br />

siede una ferramenta e non una tabaccheria e poi mi ha rivelato lui stesso di non aver mai avuto a<br />

che fare con lei, ma con un uomo, di cui non conosce il nome, ma che si fa chiamare Stick. Ha an-<br />

cora voglia di mentirmi?”<br />

Per fortuna che non dovevo andarci giù pesante.<br />

“Non conosco nessuno Stick.”<br />

La frase arrivò lapidaria e mi fece bollire di rabbia. Stavolta fui io a lasciare la sala senza tante spie-<br />

gazioni. Se fossi rimasto ancora qualche secondo probabilmente mi avrebbero allontanato le guardie<br />

carcerarie perché avevo tanta voglia di tirale addosso il pesante tavolo che ci divideva.<br />

-9-<br />

Uscii dal carcere infuriato e automaticamente, come sempre, mi accesi una sigaretta. Cosa potevo<br />

fare? Come dovevo andare avanti? Octavian era stato chiaro: era impossibile trovare questo fanto-<br />

matico Stick. Forse sarei riuscito in qualche modo a salvare la signora Poletti dall’accusa di rici-<br />

claggio, ma se lei non si decideva a collaborare le speranze erano poche.<br />

L’emicrania stava diventando insopportabile, dovevo passare al più presto in farmacia o mi sarebbe<br />

esplosa la testa.<br />

Mi infilai in auto e mi accorsi di un foglietto infilato sotto il tergicristallo. Pensai al solito volantino<br />

pubblicitario, ma quando scesi mi accorsi che c’era scritto qualcosa a penna. Lo sfilai incuriosito.<br />

Troviamoci tra un’ora al circolo sportivo in Via delle Armi. Stick.<br />

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Il cuore cominciò a rimbalzare all’impazzata nel petto, pensai addirittura che mi potesse spezzare le<br />

costole. La testa continuava a dolermi, come se un martello pneumatico si fosse messo in funzione<br />

nel mio cervello. Misi in moto l’auto e mi catapultai verso la direzione indicata nel biglietto e vi<br />

giunsi con largo anticipo, ma decisi che era meglio aspettare e pensare un attimo alla situazione.<br />

Accesi l’ennesima sigaretta, stava per finire il pacchetto, dannazione. Feci in tempo a fumarne un<br />

altro paio, quando una voce alle mie spalle mi riportò al macello Gasperini dieci anni prima: “Sei in<br />

anticipo fighetta.”<br />

Ero impietrito. Non riuscivo a trovare il coraggio di girarmi, troppo spaventato dalla realtà che te-<br />

mevo di trovarmi davanti agli occhi.<br />

“Che c’è, dopo dieci anni non ti va di salutare un vecchio amico?”<br />

Nel suo tono c’era sarcasmo, l’ironia di un cuore ferito.<br />

Mi voltai e me lo trovai lì. Aveva ragione Octavian, non era cambiato di una virgola, era sempre lo<br />

stesso Marco: alto e scheletrico, sui capelli i primi fili bianchi e alcune sottili rughe ai lati degli oc-<br />

chi, come piccole ferite dettate dal tempo e dagli eventi. Ma ciò che mi colpì, come un diretto in<br />

pieno stomaco, furono gli occhi: gli occhi di un uomo che dalla vita non aveva avuto niente, solo<br />

schiaffi, che dalla fortuna era stato beffato innumerevoli volte. Gli occhi del rimorso, della frustra-<br />

zione. Della vendetta. Ma anche gli occhi perduti di un bimbo spaventato, lasciato solo nel bosco,<br />

abbandonato. Mi fissò con aria quasi divertita.<br />

“Ma guardati, non sei cambiato neanche un po’, sempre il solito bellone ben vestito. Vedo con pia-<br />

cere che porti la fede al dito, ti sei lasciato incatenare, eh volpone?!” Mi prendeva in giro.<br />

“Neanche tu sei cambiato Marco, o forse preferisci farti chiamare Stick?”<br />

“Oh tranquillo, tu puoi chiamarmi come vuoi.”<br />

“Bene mi fa piacere. Perché qui?”<br />

“Forse la domanda più corretta è perché ora avvocato Nardi, non credi? Dopo dieci anni … ”<br />

“Forse la necessità Marco, Marianna è in carcere e rischia grosso anche per te.”<br />

“Ah già Marianna, poverina che brutta storia. Ma, vedi, nessuno le ha chiesto niente e poi per uno<br />

come me. Sta facendo tutto da sola.”<br />

“Certo, ma per te, per proteggerti! Cristo è innamorata Marco e tu sei ancora qui? Costituisciti!”<br />

“Lo sto facendo Emanuele, mi sto costituendo a te, ora. Octavian mi ha fatto sapere che avevi fiuta-<br />

to la pista giusta e ho preferito venire io senza farti perdere troppo tempo.”<br />

“Al diavolo! Cosa ti è successo Marco, eri un ragazzo così gentile, sempre pronto a spenderti per gli<br />

altri, guarda come ti sei ridotto!”<br />

“Guarda come mi hanno ridotto Emanuele! Apri gli occhi. Cosa me ne importa se Marianna parla o<br />

meno, non è adesso che devo essere protetto, volevo che qualcuno lo facesse dieci anni fa! Non a-<br />

vrei mai sperato che la legge chiudesse un occhio, ma un minimo di equità sì! Di giustizia! E invece<br />

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Ema? Sai cos’è successo? Tu ne sei uscito pulito. Oh certo è facile col papi avvocato, è bastato tro-<br />

vare l’aggancio giusto, l’anello debole della catena giudiziaria, e come per magia l’hai fatta franca<br />

come se nulla fosse veramente accaduto. Ma qualcosa è successo in quella stramaledetta fabbrica,<br />

Emanuele e qualcuno doveva pagare lo scotto. C’era solo una persona su cui puntare il dito senza<br />

dover per forza pestare una merda, senza rompere equilibri pericolosi e quella persona ha pagato per<br />

entrambi, Cristo! Non sto qui a fiscalizzare sulla pena, tutto sommato sei mesi di lavori socialmente<br />

utili che cosa vuoi che siano, ma sono state le voci Ema, le dicerie che mi hanno rovinato! Una fa-<br />

miglia sul lastrico a causa di un figlio irresponsabile, insomma non passavamo inosservati. Credi<br />

che non abbia mai provato a ricominciare gli studi? L’università? Il mio grande sogno? Oh certo<br />

che ci ho provato, ma ho mollato, ho dovuto mollare! I miei compagni di corso non studiavano con<br />

me, evitavano il banco vicino al mio, persino i professori commentavano alle mie spalle. Ho iniziato<br />

a lavorare, ho lasciato la mia famiglia, poi ho iniziato a vivere alla giornata.<br />

La mattina mi sveglio e ogni volta mi guardo allo specchio sperando di vedere un altro, ma poi, de-<br />

solato, spero che arrivi presto la sera per tornare a letto. Ogni tanto mi ubriaco, per dimenticarmi di<br />

me stesso per qualche ora.<br />

In molti mi hanno detto che sono cambiato ed è vero, caspita se sono cambiato: sono un mostro, in-<br />

sensibile, approfittatore, sono un piccolo criminale. Io non porto una fede al dito perché non riesco<br />

a fidarmi della gente, perché sono stato tradito! Che cosa vuoi che me ne freghi di Marianna, sono<br />

un mostro. E adesso? Che cosa hai intenzione di fare?”<br />

Restò in silenzio.<br />

Nel mio cervello c’era la confusione più totale. Ero affranto. Che cosa mi stavano restituendo dieci<br />

anni di separazione dal mio migliore amico? Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo a me, piangere<br />

assieme, guardarlo in faccia e dirgli che c’ero io con lui. Ma questo avrei dovuto farlo dieci anni<br />

prima al macello Gasperini. Adesso era tardi.<br />

Era vero Marco aveva pagato per tutti e due.<br />

“Sai Marco, non sei l’unico ad essere cambiato e non sei l’unico ad aver ripensato a quella sera. È<br />

vero ne sono uscito pulito, agli occhi della legge Emanuele Nardi è un cittadino esemplare. Non so-<br />

no stato al tuo fianco, ma credi che se avessi potuto non l’avrei fatto e non avrei cercato di cambiare<br />

le cose? Ero succube di una volontà più grande di me. Il buon nome della famiglia, la reputazione<br />

dei miei genitori, tutto ricadeva sulla mia testa. Mio padre ha manovrato ogni cosa. E’ un<br />

brav’uomo, ma prima di tutto il rispetto e l’onore dei Nardi, sempre. Non sono più uscito di casa,<br />

Marco. Gli amici, le ragazze, le compagnie, le feste, è scomparso tutto, mi vergognavo troppo. Ho<br />

cominciato a frequentare l’Università, obbligato dai miei, da una tradizione senza fine di grandi av-<br />

vocati. Ho conosciuto Cristina che mi ha aiutato ad uscire dalle mie paure, a mettere da parte la ver-<br />

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gogna ed il rimorso, a gettare alle spalle il passato, come avresti dovuto fare tu, Marco. Sono una<br />

persona diversa ora.”<br />

“Ah sì? Bene, mi fa piacere sentirtelo dire, ma ora non mi interessano le tue belle arringhe per una<br />

causa persa come Marco Forlini. Ora è Stick che vuole sentirti parlare, Emanuele.”<br />

Che cosa dovevo fare? Distruggergli la vita di nuovo? Sbatterlo ancora in carcere? Mi sentivo in<br />

gabbia.<br />

“Te ne terrò fuori Stick, Marianna se la caverà solo con il furto aggravato anche senza tirarti in<br />

mezzo. Ho già abbastanza elementi che mi aiuteranno ad assolverla dall’imputazione di riciclaggio.<br />

Ma prometto che ti lascerò fuori da questa storia.”<br />

Lo sguardo amareggiato, la mascella contratta, Marco mi fissava con tristezza e rassegnazione, co-<br />

me se si fosse aspettato quella risposta.<br />

“Beh? Cosa c’è?”<br />

“C’è che avevo ragione Ema, in dieci anni non sei cambiato. Le verità scomode ti fanno ancora pau-<br />

ra.”<br />

Lo guardai allontanarsi, senza che nemmeno per una volta si girasse indietro. Solo un cenno con la<br />

mano.<br />

Mi lasciò così, in mezzo al parcheggio di Via della Armi, a ripensare a quello che avevo fatto, a<br />

quello che avevo detto, al mio grande amico, Marco Forlini, Stick per quelli del giro, ricettatore.<br />

Epilogo<br />

Ho girato per Bologna in lungo e in largo, senza una meta, senza nessuna voglia di tornare a casa.<br />

Ma questa volta la mia città non è riuscita a rasserenarmi. Ho mandato un messaggio a Cristina:<br />

Non so a che ora rientro. Era Marco il terzo uomo. Non aspettarmi in piedi. Stacco il telefono. Ti<br />

amo.<br />

Ho guidato per ore, ripensando agli ultimi dieci anni, ai sacrifici, all’impegno, alle mie convinzioni,<br />

alla mia certezza di essere nel giusto, di agire secondo coscienza.<br />

Giustizia. E in fondo che cos’è la giustizia?<br />

Per Ema lasciare fuori da questa storia il suo amico, non rovinargli la vita ancora una volta. Signifi-<br />

cava salvarlo dall’ennesima sofferenza perché aveva già pagato abbastanza. Aveva scontato una pe-<br />

na che non era solo sua e tutto questo soltanto perché non aveva alle spalle una famiglia potente.<br />

Ma per Emanuele Nardi? Che cosa doveva fare l’avvocato Nardi? Consegnarlo alla polizia per quel-<br />

lo che effettivamente era: un povero vigliacco che si era approfittato dell’ingenuità della sua donna<br />

per ottenere soldi facili?<br />

Ma che cosa è veramente “giusto” e che cosa è veramente “sbagliato”?<br />

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Sono tornato a casa che ormai era mattina, sfinito, stremato. Mi sono buttato sul divano quel poco<br />

che bastava per recuperare un po’ le forze. E adesso eccomi qui, con uno libro in mano, a sorridere<br />

sull’ironia della sorte: Nemesi di Jo Nesbø.<br />

Nemesi: la dea personificazione della giustizia distributiva, colei che dosa la buona e la cattiva sor-<br />

te, la gioia e il dolore, secondo i meriti, tra tutti i mortali. Nemesi: la vendetta divina che punisce il<br />

crimine, la vendetta di chi ha subito un torto perché impotente o debole. Nemesi: la dea che tormen-<br />

ta chiunque infrange le regole e perseguita i malvagi e tutti coloro che non fanno buon uso dei doni<br />

avuti dal destino.<br />

Ho sorriso ancora. Di tutti i libri scritti e stampati nel corso dei secoli, proprio quello oggi era tra le<br />

mie mani. Un segno? Uno scherzo del destino? Alquanto beffardo.<br />

Sulla soglia del salotto era comparsa Cristina, gli occhi cerchiati, la fatica che accompagnava ogni<br />

suo passo; probabilmente anche lei aveva trascorso la notte insonne. Il suo silenzio chiedeva rispo-<br />

ste. Le ho raccontato d’un fiato gli eventi delle ultime ore.<br />

“Che pensi di fare adesso, Ema?”<br />

L’ho stretta tra le braccia e le ho sussurrato all’orecchio: “La cosa giusta, solo la cosa giusta.”<br />

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