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filosofia<br />

SAGGI<br />

4


Edoardo Ferrario<br />

Oikonomia<br />

con testi <strong>di</strong><br />

Teresa Bettini, Giorgia Bordoni, Emiliano Camertoni,<br />

Nane Cantatore, Alessandro Caroni, Andrea De Santis,<br />

Daniele De Santis, Luca Gori, Ambra Guarnirei,<br />

Alessandro Iorio, Emiliano Ippoliti, Maddalena Lucarelli,<br />

Arianna Lodeserto, Antonio Lucci, Samantha Maruzzella,<br />

Stefano Maschietti, Riccardo Paparusso, Draga Rocchi,<br />

Michele Spanò, Giulia Tossici<br />

a cura <strong>di</strong><br />

Sara Belar<strong>di</strong>, Giorgia Bordoni,<br />

Maddalena Lucarelli, Giulia Tossici<br />

Filosofia • Lithos


Proprietà letteraria riservata<br />

Lithos E<strong>di</strong>trice s.n.c.<br />

Via dei Ramni, 6 – 00185 <strong>Roma</strong><br />

Tel./Fax 06 4464838<br />

www.lithoslibri.it<br />

Prima e<strong>di</strong>zione: 2009<br />

Progetto grafico <strong>di</strong> Massimo Gobbi<br />

Impaginazione <strong>di</strong> Paolo Alberti<br />

ISBN 978-88-89604-XX-X<br />

Sommario<br />

Introduzione 11<br />

PARTE PRIMA<br />

METAFISICA ED ECONOMIA<br />

Che cos’è la metafisica? 41<br />

Ragione e fondamento 000<br />

L’essenza della tecnica 000<br />

La fondazione della metafisica in Aristotele 000<br />

L’essere e il <strong>di</strong>vino 000<br />

Leibniz. Ontoteologia e monadologia 000<br />

Esistenza e ragione 000<br />

La macchina del mondo 000<br />

Informazione e assicurazione sulla vita 000<br />

Kant: rifondazione o decostruzione della metafisica? 000<br />

L’ontoteologia alla luce della filosofia critica 000<br />

Tecnica della natura. L’analogia del fondamento 000<br />

Principi economici della metafisica 000<br />

Hegel. La metafisica come scienza della logica 000<br />

Il togliersi del fondamento 000<br />

Economia e onto-logica <strong>di</strong>alettica 000<br />

5


PARTE SECONDA<br />

DECLINAZIONI DELL’ECONOMICO<br />

NELLA FILOSOFIA DEL NOSTRO TEMPO<br />

Per una pragmatica dell’economico: da Marx a Hegel 000<br />

<strong>di</strong> Nane Cantatore<br />

Che cos’è l’economia psichica? Riflessioni sull’opera <strong>di</strong> Freud 000<br />

<strong>di</strong> Giulia Tossici<br />

Identità ed economia della presenza in Martin Heidegger 000<br />

<strong>di</strong> Draga Rocchi<br />

Il principio <strong>di</strong> ragione 000<br />

<strong>di</strong> Alessandro Iorio<br />

Economia e tecnica 000<br />

<strong>di</strong> Daniele De Santis<br />

Tra terra e cielo. Poetica ed economia in Martin Heidegger 000<br />

<strong>di</strong> Teresa Bettini<br />

Economia e ontologia nel pensiero <strong>di</strong> Emmanuel Levinas 000<br />

<strong>di</strong> Alessandro Caroni<br />

Assicurazione e fine della storia in Jan Patočka 000<br />

<strong>di</strong> Riccardo Paparusso<br />

George Bataille: economia generale ed economia ristretta 000<br />

<strong>di</strong> Ambra Guarnieri<br />

Ontologia ed economia in Jaques Derrida 000<br />

<strong>di</strong> Maddalena Lucarelli<br />

Economia e teo-logia nagativa 000<br />

<strong>di</strong> Giorgia Bordoni<br />

Sacrificio ed economia 000<br />

<strong>di</strong> Samantha Maruzzella<br />

Etica/Economia 000<br />

<strong>di</strong> Emiliano Camertoni<br />

Senso e valore. Nietsche-Deleuze: economia <strong>di</strong> un incontro 000<br />

<strong>di</strong> Luca Gori<br />

6<br />

Economia e governamentalità in Michel Foucault 000<br />

<strong>di</strong> Michele Spanò<br />

La macchina dell’insicurezza.<br />

L’urbanismo come scienza della trasformazione politica 000<br />

<strong>di</strong> Arianna Lodeserto<br />

Giorgio Agamben: economia e nuda vita 000<br />

<strong>di</strong> Andrea De Santis<br />

Sul concetto <strong>di</strong> economia in Peter Sloter<strong>di</strong>jk 000<br />

<strong>di</strong> Antonio Lucci<br />

Filosofia ed economia.<br />

Una riflessione a partire da Amartya Sen 000<br />

<strong>di</strong> Emiliano Ippoliti<br />

Per una cura dell’habitat.<br />

Pensieri sull’economia globale e sull’oikonomia preglobale 000<br />

<strong>di</strong> Stefano Maschietti<br />

In<strong>di</strong>ce dei nomi 000<br />

7


Detto per inciso: Leibniz,<br />

lo scopritore del principio <strong>di</strong> ragione sufficiente,<br />

è anche l’inventore dell’«assicurazione sulla vita».<br />

Martin Heidegger


Introduzione<br />

1. Per quali vie, con quali scorte, inizieremo il nostro viaggio? E che<br />

viaggio sarà?<br />

Sarà un viaggio in un territorio familiare, certo… un viaggio <strong>di</strong> andata<br />

e ritorno, un viaggio che, forse, non sarà nemmeno un viaggio,<br />

dato che non ci allontanerà dalla nostra casa <strong>di</strong> un passo e, se sembrerà<br />

così, sarà stato soltanto per un’astuzia della ragione o un gioco della nostalgia…<br />

Eppure a volte, inaspettatamente, ci capiterà d’imbatterci in<br />

esterni che ci mostreranno un lato insolito, <strong>di</strong> ritrovarci in luoghi e paesaggi<br />

che, proprio gli stessi, d’improvviso sentiremo estranei: come le<br />

vedute <strong>di</strong> un sogno o il volo <strong>di</strong> un pettirosso in una villa.<br />

In realtà, tutte le parole che stiamo attraversando già ci parlano <strong>di</strong><br />

quella, o da quella, che abbiamo deciso <strong>di</strong> esplorare 1 .<br />

La parola oikonomia si compone <strong>di</strong> due termini: oikos e nomia. Oikos in<strong>di</strong>ca<br />

il focolare, la casa, la <strong>di</strong>mora, il proprio; nomia vale come insieme <strong>di</strong><br />

regole o <strong>di</strong> norme: quelle, per l’appunto, con cui si governa il proprio,<br />

si amministra una casa o una famiglia (oikia).<br />

Nel suo riferirsi alla gestione delle attività proprie dell’economia domestica<br />

2 , questa parola mira dunque innanzitutto a <strong>di</strong>fferenziare l’economico<br />

dal politico, assegnandoli a sfere eterogenee, pur se complementari:<br />

da una parte lo spazio privato della casa o <strong>di</strong> un’industria, dall’altra i luoghi<br />

dove si svolge la vita pubblica.<br />

È nel senso <strong>di</strong> questa separazione ed eterogeneità che, in <strong>di</strong>versi luoghi,<br />

Aristotele <strong>di</strong>stingue le funzioni e le tecniche preposte al governo<br />

dell’oikia – nozione che nel mondo greco in<strong>di</strong>cava un organismo ben più<br />

ampio e complesso delle nostre case o famiglie, più o meno allargate –<br />

dalle attività rivolte alla politica. E nell’Etica nicomachea (VI, 1140a),<br />

quando <strong>di</strong>stinguerà gli aspetti che caratterizzano il «fare» in senso proprio<br />

– nel senso, cioè, del «lavoro» e della «produzione» (poiesis) – da<br />

quelli dell’«agire» (praxis) propriamente politico, la <strong>di</strong>stinzione tra sfera<br />

privata (economica) e spazio pubblico (politico) sarà rimarcata ulteriormente<br />

come una <strong>di</strong>fferenza tra attività che – in quanto mirano alla<br />

produzione <strong>di</strong> beni materiali – hanno una finalità esterna (come il lavoro<br />

11


INTRODUZIONE<br />

e l’artigianato) e attività che hanno il proprio fine in se stesse (come<br />

l’azione).<br />

In Platone, la <strong>di</strong>fferenza tra lo spazio aperto, mondano della polis e la<br />

sfera chiusa, domestica dell’oikia (il luogo unitario e omogeneo della <strong>di</strong>stribuzione<br />

e conomica delle «cose», della gestione e del governo della<br />

casa) non si presenta così netta come lo sarà nel suo grande allievo.<br />

Non si tratta <strong>di</strong> un caso. Piuttosto che a partire dalla realtà dell’essereassieme<br />

degli uomini (quella koinonia che, secondo Aristotele, caratterizza<br />

«naturalmente» l’uomo come politikon zoon), l’eidos del «governo»<br />

immaginato nella Repubblica platonica trae infatti i suoi principi <strong>di</strong>rettivi<br />

dalle <strong>di</strong>verse funzioni e dalle relazioni che un’anima singola intrattiene<br />

con se stessa; ed è pensato a partire dalle operazioni – finalizzate alla riproduzione<br />

<strong>di</strong> un modello ideale, concepito in precedenza – proprie<br />

dell’homo faber 3 .<br />

È per questo motivo che, nella Politica, Aristotele prenderà le <strong>di</strong>stanze<br />

dal suo maestro con queste parole:<br />

È evidente che se, nel suo processo <strong>di</strong> unificazione, una città [polis] <strong>di</strong>venta<br />

sempre più unitaria, non sarà più neppure una città. Una città è<br />

per sua natura un che <strong>di</strong> molteplice [o <strong>di</strong> plurale], e se <strong>di</strong>venta troppo<br />

una, sarà piuttosto una casa [o una famiglia: oikia] che non una città<br />

(Politica, 1261 a).<br />

Il passo è notevole, e anche molto attuale, per almeno due ragioni. In<br />

primo luogo, perché sottolinea il carattere plurale, <strong>di</strong>fferenziato proprio<br />

della polis. In secondo luogo, perché in<strong>di</strong>ca come caratteristica dell’oikonomia<br />

una certa non politicità; e cioè il tendere, insito nel l’eco nomico, a<br />

una (eccessiva? irresistibile?) «unificazione del molteplice» che, sul piano<br />

sociale, rappresenta l’in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> un’erosione o <strong>di</strong> un’assimilazione del politico<br />

da parte dell’economico; e che – come precisa Aristotele a conclusione<br />

del periodo che ho appena citato – qualora «fosse in grado <strong>di</strong><br />

realizzare» una forma <strong>di</strong> «unità» quale quella che opera nell’«amministrazione<br />

familiare», avrebbe come risultato <strong>di</strong> «<strong>di</strong>struggere» lo spazio o<br />

l’essenza stessa della polis.<br />

In realtà, la <strong>di</strong>stinzione tra oikonomia e politeia è tanto apparentemente<br />

chiara nei termini che sembrano spartirne i rispettivi ambiti e le relative<br />

operazioni – da una parte la casa o la famiglia, dall’altra il mondo e la<br />

città; le attività produttive in un caso, le azioni e le deliberazioni pub-<br />

12<br />

INTRODUZIONE<br />

bliche nell’altro – quanto costantemente insi<strong>di</strong>ata dal fatto che – come<br />

ci testimonia ancora il passo <strong>di</strong> Aristotele – il tratto che marca la <strong>di</strong>fferenza<br />

oikos/polis non è mai assicurato una volta per tutte; e rende con ciò<br />

stesso interminabile il compito <strong>di</strong> delimitare e <strong>di</strong>sciplinare l’ambito <strong>di</strong><br />

pertinenza e <strong>di</strong> influenza delle rispettive sfere: e la tendenza a rendere<br />

labili, se non proprio a cancellare i confini tra economia e politica è un<br />

processo sempre in atto nelle società umane, un processo che nel corso<br />

delle varie epoche ha assunto forme <strong>di</strong>verse, fino alla quasi-identificazione<br />

della politica con le manovre <strong>di</strong> «governi», «esecutivi» o «amministrazioni».<br />

A proposito <strong>di</strong> questi passaggi <strong>di</strong> frontiera, articolerò subito – a titolo<br />

<strong>di</strong> esempio, e al solo scopo <strong>di</strong> avvicinarci al nostro tema – lo spazio<br />

<strong>di</strong> alcune questioni che sono al centro <strong>di</strong> molti <strong>di</strong>battiti attuali, e che<br />

coinvolgono, talvolta in modo congiunto, problemi che toccano l’economia,<br />

certo, ma anche il <strong>di</strong>ritto, la politica, l’etica, l’estetica, la teoria<br />

della giustizia ecc.<br />

Primo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> questioni, quasi solo terminologiche. Nel frequente<br />

e a volte massiccio impiego, nel campo del politico, dei lessici e delle figure<br />

«economiche» dell’abitare, della familiarità, della comunità, della fratellanza,<br />

della prossimità, della somiglianza non viene forse a esprimersi<br />

una tendenza a considerare la stessa polis – e perfino il mondo, la natura<br />

o il cosmo – come una casa: come un’oikia o un’oikonomia globale? Che<br />

cosa si manifesta in questa tendenza? E quale ne è – se c’è – l’origine?<br />

Ecco una questione che ci terrà impegnati a lungo, una questione<br />

nella quale comincia a emergere un tratto significativo, anzi, un tratto<br />

duplice: una doppia possibilità e un doppio vincolo, oltre che una doppia<br />

tonalità affettiva. Se infatti da un lato l’interpretazione del mondo<br />

come una casa o una famiglia – la giocon<strong>di</strong>tà dell’«habitare fratres in<br />

unum» – può costituire la premessa etica ed estetica per una cosmo- o<br />

eco-politica anche solo minimamente passabile, dall’altro, la pressione<br />

all’«unità» che vi si esprime non può forse al tempo stesso tradursi in una<br />

pulsione economica generalizzata; e convertirsi, come spesso è accaduto<br />

e accade, in sorde e inquietanti politiche <strong>di</strong> assimilazione, <strong>di</strong> integrazione,<br />

<strong>di</strong> naturalizzazione, spinte fino a cancellare ogni <strong>di</strong>fferenza,<br />

<strong>di</strong>ssimiglianza, alterità?<br />

Secondo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> questioni, questa volta solo accennate. Dove passa<br />

la frontiera tra il pubblico e il privato in un modo quale ad esempio il<br />

nostro, dominato da me<strong>di</strong>a come la televisione o internet, i siti o le<br />

13


INTRODUZIONE<br />

piazze telematiche? Quali intrecci tra politica ed economia si esprimono<br />

in casi come questi, anche nel senso della loro <strong>di</strong>sciplina e giuri<strong>di</strong>ficazione?<br />

Di quali aspetti del vivere umano, e della stessa mortalità degli uomini,<br />

si deve far carico il governo della cosa pubblica? Qual è il limite<br />

che l’azione politica non può superare nel regolare le vicende economiche,<br />

e quale il confine politico e istituzionale che un’impresa economico-giuri<strong>di</strong>ca<br />

non può oltrepassare? Ma soprattutto: quanto può<br />

intendersi ristretta o allargata la sfera del «proprio» da «governare» e <strong>di</strong>sciplinare?<br />

l’ipseità <strong>di</strong> una persona? il legame <strong>di</strong> una comunità? il vincolo<br />

<strong>di</strong> una nazione? un popolo? una popolazione?<br />

Ovunque e in qualunque modo si manifesti un motivo o un momento<br />

<strong>di</strong> regolazione, amministrazione, gestione, <strong>di</strong>sposizione, <strong>di</strong>sciplina<br />

– sono le parole stesse a <strong>di</strong>rcelo – un proce<strong>di</strong>mento economico è<br />

già in corso. Non è dunque probabilmente un caso se, in certe fasi della<br />

sua tra<strong>di</strong>zione, il concetto <strong>di</strong> oikonomia è stato assunto come semplicemente<br />

sinonimo <strong>di</strong> «governo».<br />

Torniamo per un istante ancora al passo <strong>di</strong> Aristotele richiamato più<br />

su per cercare <strong>di</strong> trarne una prima, provvisoria, in<strong>di</strong>cazione.<br />

Il motivo dell’«unificazione del molteplice» – che ritroveremo ad<br />

esempio in Kant in un contesto <strong>di</strong>fferente o più ampio – mi pare qui in<br />

ogni senso decisivo, in quanto consente <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare una <strong>di</strong>sposizione<br />

caratteristica <strong>di</strong> ogni processo economico, se non proprio ciò che permette<br />

<strong>di</strong> riconoscere o <strong>di</strong> definire «economico» un determinato processo.<br />

Sulla scorta <strong>di</strong> questa in<strong>di</strong>cazione – che ci accompagnerà in ogni<br />

tappa del nostro viaggio, a partire dalla Metafisica <strong>di</strong> Aristotele – riconosceremo<br />

ben presto come tratto saliente dell’oikonomia una certa tendenza<br />

a «legare» (binden) – espressione quest’ultima che assumo nel<br />

significato che le ha dato Freud – finalizzata al governo delle energie o<br />

delle forze presenti o circolanti in una determinata oikia: e l’«apparato<br />

psichico», con le sue complesse politiche economiche ed economie politiche,<br />

<strong>di</strong> sicuro lo è. Una tendenza ambigua, infinitamente irriducibile,<br />

nel suo oscillare, tra accasamento e appropriazione, localizzazione ed<br />

epidemia, familiarità e spaesamento; tra «principio <strong>di</strong> ragione» e «pulsione<br />

del proprio» – per ricorrere, questa volta, a un’espressione <strong>di</strong> Derrida<br />

mutuata però anch’essa da Freud. Una tendenza che dovremo<br />

pazientemente interrogare a fondo – se ha un fondo o un fondamento,<br />

un’origine e un luogo identificabili.<br />

14<br />

INTRODUZIONE<br />

2. Prima però <strong>di</strong> avventurarci in un territorio tanto intricato, consideriamo<br />

una definizione più tecnica o specifica – se lo è – della parola<br />

«economia» tratta dal <strong>di</strong>zionario della lingua italiana <strong>di</strong> Devoto e Oli 4 .<br />

Sintetizzo in una formulazione abbreviata le in<strong>di</strong>cazioni più analitiche<br />

che essa contiene: impiego razionale <strong>di</strong> mezzi <strong>di</strong>retti a sod<strong>di</strong>sfare bisogni o finalizzati<br />

allo scopo <strong>di</strong> ottenere il massimo utile o valore con il minimo sacrificio.<br />

Questa definizione e ciascuno dei termini che la compongono – i<br />

concetti <strong>di</strong> razionalità, <strong>di</strong> scopo, <strong>di</strong> bisogno, <strong>di</strong> valore, la nozione <strong>di</strong> sacrificio<br />

– ci forniranno interminabili spunti <strong>di</strong> riflessione.<br />

Ren<strong>di</strong>amola più esplicita aggiungendo, a titolo <strong>di</strong> esempio, e al solo<br />

scopo <strong>di</strong> arricchire il nostro lessico, qualche ulteriore in<strong>di</strong>cazione relativa<br />

a ciò a cui comunemente ci riferiamo quando pensiamo all’economico:<br />

a) un sistema o un <strong>di</strong>spositivo speculativo che produce beni, merci,<br />

utili o valori: definizione in cui rientra anche il sacrificio (o la sua giustificazione,<br />

se è cosa <strong>di</strong>versa) come il prezzo che è necessario pagare –<br />

perfino in termini <strong>di</strong> vita – per ottenere certe valenze o plusvalenze sociali,<br />

umanitarie, vitali, nazionali, comunitarie ecc.; b) un certo rapporto<br />

razionale tra mezzi e fini; c) il nesso tra un bisogno e la sua sod<strong>di</strong>sfazione;<br />

d) l’istituzione <strong>di</strong> un cre<strong>di</strong>to, <strong>di</strong> un titolo fiduciario, immunitario o<br />

comunitario; e) il circolo <strong>di</strong> un certo dare-avere: <strong>di</strong> un dono e <strong>di</strong> una restituzione,<br />

<strong>di</strong> un debito e della sua esecuzione o riven<strong>di</strong>cazione, <strong>di</strong> una domanda<br />

e <strong>di</strong> un’offerta, del lavoro (o del bene prodotto per mezzo del<br />

suo impiego) e della ricompensa o del salario – ma questa circolarità è in<br />

qualche modo insita nel concetto stesso <strong>di</strong> senso o <strong>di</strong> scopo, in ogni<br />

forma <strong>di</strong> restituzione e <strong>di</strong> rappresentazione, <strong>di</strong> ritorno, e <strong>di</strong> ritorno a casa,<br />

<strong>di</strong> nostos e <strong>di</strong> nostalgia; f) lo scambio (già anche solo verbale?), la permuta<br />

o la sostituzione <strong>di</strong> qualcosa con qualcos’altro; per esempio delle merci:<br />

pensiamo al baratto ma anche – <strong>di</strong> nuovo e come caso estremo – al sacrificio<br />

come scambio <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> morte; g) le con<strong>di</strong>zioni relative a una<br />

stipulazione o una contrattazione, con tutto ciò che ne consegue in termini<br />

<strong>di</strong> responsabilità, obbligo od obbligazione giuri<strong>di</strong>ca o morale; h) la<br />

produzione <strong>di</strong> un’uguaglianza o <strong>di</strong> un’equivalenza: pensiamo al pareggio<br />

<strong>di</strong> bilancio, ma anche alla bilancia della giustizia – retributiva, <strong>di</strong>stributiva<br />

e, perfino, ricostitutiva o perdonativa; i) un ambito <strong>di</strong> calcolo o <strong>di</strong> calcolabilità,<br />

anche per mezzo <strong>di</strong> modelli o in relazione a operazioni o procedure<br />

logiche o matematiche; l) un supplemento tecnico o un in<strong>di</strong>catore<br />

<strong>di</strong> supplenza: pensiamo alla moneta o al denaro come equivalente universale;<br />

ma anche, più in generale, al segno e ai processi simbolici; m) la<br />

15


INTRODUZIONE<br />

<strong>di</strong>sposizione o <strong>di</strong>stribuzione or<strong>di</strong>nata e razionale <strong>di</strong> certe cose (merci o<br />

ricchezze, ad esempio); e, a questo proposito, osserviamo come il termine<br />

greco oikonomia è reso in latino proprio con <strong>di</strong>stributio e <strong>di</strong>spositio<br />

(anche nel senso <strong>di</strong> composizione retorica e <strong>di</strong> <strong>di</strong>visioni delle parti <strong>di</strong> un<br />

<strong>di</strong>scorso)… Arrestiamoci – prima dell’ennesima…<br />

Il carattere eterogeneo delle definizioni contenute in questo piccolo<br />

(e parzialissimo) elenco ci lascia intuire da subito quanto il concetto <strong>di</strong><br />

cui ci stiamo occupando sia, da un lato, sfuggente, plurivoco, elusivo –<br />

al punto che potrebbe essere considerato quasi solo un contenitore o<br />

raccoglitore <strong>di</strong> comodo <strong>di</strong> cose <strong>di</strong>versissime tra loro: <strong>di</strong> cose, tutt’al più,<br />

«imparentate» tra loro da semplici «somiglianze <strong>di</strong> famiglia» (ricorro, in<br />

questo caso, a una celebre nozione <strong>di</strong> Wittgenstein, quanto mai pertinente<br />

e opportuna, mi sembra); e come al tempo stesso, dall’altro, sia<br />

tanto esteso e ramificato da investire o abbracciare pressoché tutto il<br />

campo e tutti gli ambiti delle pratiche umane (comprese quelle teoriche<br />

o teoretiche). Osserviamo più da vicino questi due lati o due aspetti,<br />

che potremmo chiamare indefinibilità e pervasività.<br />

Il primo aspetto è oggi sottolineato da numerosi stu<strong>di</strong>osi anche relativamente<br />

alle teorie economiche in senso stretto (che si occupano<br />

cioè <strong>di</strong> sistemi e <strong>di</strong> modelli economici). Prese le <strong>di</strong>stanze dal para<strong>di</strong>gma<br />

economicistico (o ingegneristico) che ha dominato il secolo scorso, le riflessioni<br />

più attuali denunciano con sempre maggior forza l’impossibilità<br />

<strong>di</strong> definire che cosa sia (l’)«economico» (quale ne sia la ragione o<br />

regione); fino a chiedersi – considerando il carattere aperto, permeabile<br />

del sistema e della quantità <strong>di</strong> variabili non deci<strong>di</strong>bili che vi entrano in<br />

gioco – se l’economia o la scienza economica abbia davvero un proprio<br />

oggetto o un suo dominio (ritroveremo, significativamente, in Kant una<br />

riflessione simile in rapporto all’estetica o alla facoltà del giu<strong>di</strong>zio); o se<br />

non sia piuttosto riconducibile ad altri ambiti delle pratiche o del sapere<br />

umani, come la psicologia, l’etica, la biologia, l’ecologia, il <strong>di</strong>ritto, la cultura<br />

in generale, i processi simbolici, il linguaggio ecc. (Il caso della sua<br />

possibile genealogia o fondazione teologico-politica lo affronteremo separatamente<br />

tra non molto).<br />

Sulla base <strong>di</strong> queste stesse considerazioni si potrebbe d’altro canto<br />

osservare – e vengo così al secondo aspetto – come probabilmente in<br />

nessuno degli ambiti appena in<strong>di</strong>cati (compresa la nozione <strong>di</strong> «somiglianze<br />

<strong>di</strong> famiglia» <strong>di</strong> Wittgenstein!) è del tutto assente un punto <strong>di</strong> vista<br />

economico – il caso della psicologia, o meglio, della metapsicologia freu-<br />

16<br />

INTRODUZIONE<br />

<strong>di</strong>ana si rivelerà in questo senso particolarmente significativo; e come<br />

persino una «dottrina» economica in senso proprio, se c’è, per definirsi<br />

tale, non può evitare <strong>di</strong> presupporre o <strong>di</strong> fare riferimento a nozioni economiche<br />

più generali – <strong>di</strong>ciamo meta-teoriche o filosofiche – <strong>di</strong> quelle<br />

che definiscono il suo ristretto ambito <strong>di</strong> competenza: quali, ad esempio,<br />

l’idea <strong>di</strong> finalità, <strong>di</strong> scopo, se non ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> senso e <strong>di</strong> vita in generale.<br />

Evidenziando il secondo aspetto – quello della pervasività – queste<br />

osservazioni potrebbero perciò sollevare la questione se campi epistemici<br />

come quelli in<strong>di</strong>cati più su siano in qualche modo identificabili e possano<br />

comunicare tra loro – fino a tendere o a mirare a forme <strong>di</strong><br />

quasi-unificazione, come ad esempio è accaduto per la bio-etica o per<br />

la bio-politica; ma un <strong>di</strong>scorso analogo si potrebbe fare anche nel campo<br />

delle scienze naturali, per la chimica, la fisica e la biologia – senza fare<br />

riferimento a un punto <strong>di</strong> vista economico. Quale senso riusciremmo<br />

mai a dare a concetti appartenenti al campo dell’etica, della teoria della<br />

giustizia, del <strong>di</strong>ritto, della psicologia, dell’ecologia ecc., senza ricorrere a<br />

nozioni economiche? E d’altra parte: quante delle nozioni che <strong>di</strong>ciamo<br />

o consideriamo «economiche» sono a loro volta in debito – come già da<br />

solo il nostro piccolo elenco ci ha mostrato – nei confronti <strong>di</strong> concetti<br />

etici, giuri<strong>di</strong>ci, e perfino teologici e religiosi?<br />

Queste osservazioni inducono a pensare che se ci risulta tanto <strong>di</strong>fficile,<br />

se non propriamente impossibile, definire l’economico – c’è forse<br />

un limite alla possibilità <strong>di</strong> usufruire o fare usura del suo lessico, <strong>di</strong> speculare<br />

o lucrare su <strong>di</strong> esso? – è probabilmente perché non riusciamo a<br />

definire che cosa non lo è, vale a <strong>di</strong>re che cosa si eccettua, per esprimerci<br />

con il linguaggio <strong>di</strong> Kant, se non dal suo «dominio» (Gebiet, <strong>di</strong>tio) – che<br />

probabilmente non c’è – almeno dal «campo» (Feld) entro cui operano<br />

i suoi concetti. Un oltre o un al <strong>di</strong> là dell’economia – più o meno come<br />

quell’«oltre» la concettualità dell’ontologia o della metafisica <strong>di</strong> cui ci<br />

parlava Heidegger: e in questo paragone comincia a delinearsi il nostro<br />

tema – è infatti qualcosa cui non riusciamo a dare un senso evidente,<br />

dato che il senso, la logica o la teleo-logica del senso (o dello Spirito o<br />

della Vita, per riferirci in questo caso a espressioni hegeliane), sono economiche<br />

da parte a parte; o perlomeno – per esprimerci in modo più<br />

prudente – non sembrano lasciarsi pensare altrimenti. E tuttavia…<br />

Tuttavia, per quanto speculabile, calcolabile, appropriabile, riducibile<br />

a «ragione» e al «principio <strong>di</strong> ragione», per quanto riferibile a possibilità<br />

e a «con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità» (ciò che resta sempre possibile,<br />

17


INTRODUZIONE<br />

essendo in questo senso l’economico la possibilità stessa, la possibilità<br />

della possibilità), qualcosa, un margine – forse il margine stesso dell’oikonomia<br />

– resterà sempre aperto, fuori regime, fuori, almeno, dal regime<br />

<strong>di</strong> un’economia ristretta (assumiamo qui per buona, ma solo per como<strong>di</strong>tà<br />

espositiva, una classica <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> Bataille).<br />

In questo senso, l’abbiamo visto, Aristotele si riferiva al mondo dell’azione<br />

(praxis) come a un fare non riconducibile senz’altro all’economico,<br />

anzi nemmeno all’idea <strong>di</strong> finalità esterna – la finalità in sé,<br />

l’autotelia, sarebbe qui un quasi-sinonimo <strong>di</strong> politicità o <strong>di</strong> pluralità. E<br />

in una <strong>di</strong>rezione simile, in numerosi passi delle sue opere, Hannah<br />

Arendt ha sottolineato il carattere impreve<strong>di</strong>bile o impre<strong>di</strong>ttibile, incalcolabile<br />

e miracoloso della realtà e dello spazio plurale delle azioni e<br />

delle interazioni umane.<br />

Scopo <strong>di</strong> questa ricerca non è però soltanto <strong>di</strong> riba<strong>di</strong>re un carattere<br />

irriducibile – per quanto fragile e costantemente esposto all’egemonia<br />

del potere e del governo economico – proprio del «politico», quanto<br />

piuttosto, o meglio prima ancora, <strong>di</strong> interrogarci su alcuni concetti che,<br />

appartenendo alla tra<strong>di</strong>zione filosofica, sono alla base delle categorie<br />

del politico, e ne hanno tessuto e continuano a tesserne le relazioni con<br />

l’oikonomia. Un’osservazione, quest’ultima, che mi permette <strong>di</strong> articolare<br />

subito la domanda che regge o promuove soprattutto la prima parte –<br />

ma certamente non soltanto essa – <strong>di</strong> quest’opera; e che, anticipando un<br />

po’ le cose, potrebbe formularsi così: fino a che punto la metafisica – attraverso,<br />

ad esempio, il «principio <strong>di</strong> ragione» <strong>di</strong> Leibniz o il concetto<br />

kantiano <strong>di</strong> «con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità», cui mi sono riferito più su – è riuscita<br />

a «governare» nozioni come quelle <strong>di</strong> «esistenza», <strong>di</strong> «realtà», <strong>di</strong> «alterità»,<br />

<strong>di</strong> «evento»? E fino a che punto – proprio attraverso il tentativo<br />

<strong>di</strong> assicurarle alla «ragione» come principio onto-economico – ci ha in<strong>di</strong>cato<br />

la via per pensare una certa non-chiusura dell’oikonomia?<br />

Tratteniamoci però, per il momento, entro considerazioni più opportunamente<br />

preliminari.<br />

3. Proseguendo nella consultazione del <strong>di</strong>zionario Devoto-Oli, sempre<br />

alla voce «economia», troviamo la seguente definizione o equivalenza:<br />

in filosofia, l’attività <strong>di</strong>retta alla sod<strong>di</strong>sfazione dei bisogni dal punto <strong>di</strong> vista<br />

pratico: l’equivalente dell’estetica dal punto <strong>di</strong> vista dello spirito teorico.<br />

Il nesso estetica-economia in<strong>di</strong>cato da questa definizione non è imme<strong>di</strong>ato<br />

e semplice da cogliere. Probabilmente alle sue spalle c’è un ri-<br />

18<br />

INTRODUZIONE<br />

chiamo alla filosofia <strong>di</strong> Benedetto Croce; un richiamo che ci consente<br />

<strong>di</strong> in<strong>di</strong>care due declinazioni filosofiche notevoli del termine «economia»:<br />

quella teologica (o meglio, teologico-politica) e quella, per l’appunto,<br />

estetica. Nella prima è in gioco un’interrogazione che – in relazione alla<br />

questione del «proprio» – guarda soprattutto al secondo dei due termini<br />

che compongono la parola oiko-nomia, vale a <strong>di</strong>re al tema del governo o<br />

del potere. Nella seconda, al primo: vale a <strong>di</strong>re all’oikos, pensato qui nella<br />

sua <strong>di</strong>mensione estetica e in connessione con il concetto <strong>di</strong> praxis.<br />

La prima declinazione – oggi al centro <strong>di</strong> complessi <strong>di</strong>battiti <strong>di</strong> filosofia<br />

politica – analizza il concetto <strong>di</strong> nomos secondo un’articolazione<br />

del tutto peculiare: si tratta <strong>di</strong> quella «genealogia teologica dell’economia<br />

e del governo» che Giorgio Agamben ha posto come sottotitolo <strong>di</strong> un<br />

suo recentissimo libro, che prende avvio dalla <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> celebri formulazioni<br />

<strong>di</strong> Foucault relative al concetto <strong>di</strong> «governamentalità» 5 . Anche<br />

se non è propriamente questa la via che mi propongo <strong>di</strong> seguire – ci<br />

troveremo piuttosto, come si noterà ben presto, a un incrocio: ma, voglio<br />

subito precisarlo, molti dei saggi contenuti nella seconda parte <strong>di</strong><br />

questo libro ne <strong>di</strong>scuteranno, o almeno ne terranno conto per alcune<br />

delle sue più notevoli implicazioni – è qui opportuno richiamarne e problematizzarne<br />

alcuni degli aspetti più significativi; soprattutto in merito<br />

al rinvio che criticamente contiene alla celebre definizione schmittiana<br />

del governo 6 , che in estrema sintesi afferma: «Tutti i concetti decisivi<br />

della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» 7<br />

Gli interrogativi che nei confronti <strong>di</strong> questa formulazione tenterò <strong>di</strong><br />

sollevare imme<strong>di</strong>atamente – anche solo per precisare meglio quale sarà<br />

il nostro tema – riguardano il senso e la <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> una simile genealogia,<br />

e per ciò stesso la (fin troppo?) fortunata nozione <strong>di</strong> secolarizzazione.<br />

Mi chiederò in particolare fino a che punto – al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> evidenze<br />

storiche documentabili, anche se in un ambito temporale piuttosto limitato<br />

– sia sostenibile la tesi secondo cui i concetti <strong>di</strong> economia e <strong>di</strong> governo,<br />

ma anche <strong>di</strong> sovranità e <strong>di</strong> Stato, abbiano una «fondazione» nel<br />

dominio <strong>di</strong> categorie <strong>di</strong> natura originariamente (onto)teologica. Detto altrimenti<br />

e in forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>lemma: il para<strong>di</strong>gma economico-governamentale<br />

è semplicemente un’applicazione al campo della politica e della<br />

filosofia politica, del <strong>di</strong>ritto e della teoria dello Stato, <strong>di</strong> nozioni archeologicamente<br />

costituite nella tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> concetti <strong>di</strong> pertinenza o <strong>di</strong><br />

ascendenza teologica od onto-teologica? O non è forse anche possibile<br />

leggere le cose – <strong>di</strong>ciamolo per brevità – a rovescio? La storia o la vi-<br />

19


INTRODUZIONE<br />

cenda della metafisica, che tenteremo qui <strong>di</strong> traguardare attraverso alcuni<br />

scorci, ci presenta un economizzarsi – nel senso <strong>di</strong> dare origine a una teoria<br />

del governo – <strong>di</strong> concetti onto(teo)logici, o non anche o piuttosto a<br />

un onto(teo)logizzarsi <strong>di</strong> concetti «originariamente» economici? E, in questo<br />

secondo corno del <strong>di</strong>lemma, è ancora possibile giustificare il concetto<br />

<strong>di</strong> secolarizzazione?<br />

Ripercorrendo una tra<strong>di</strong>zione che ha inizio con la Metafisica <strong>di</strong> Aristotele<br />

per concludersi nella Scienza della logica <strong>di</strong> Hegel – e precisando<br />

subito come questi termini, che pure assumeremo, sono quasi solo <strong>di</strong><br />

comodo – avremo modo <strong>di</strong> osservare come se in essa ci sono tante<br />

buone ragioni (e forse la «ragione» stessa) per giustificare il concetto <strong>di</strong><br />

«teologia politica», ce ne saranno altrettante per metterla in questione<br />

e delimitarla. Vedremo, in altri termini, come la nozione <strong>di</strong> oikonomia<br />

(nel senso <strong>di</strong> governo e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposizione ragionata e ragionevole delle<br />

cose e degli acca<strong>di</strong>menti del mondo), lungi dall’essere il semplice portato<br />

<strong>di</strong> una teologia (<strong>di</strong> un’onto-teologia), ne è al tempo stesso l’importo;<br />

come cioè, nella costituzione del para<strong>di</strong>gma teologico-politico, operi<br />

un onto-teologizzarsi dell’oikonomia. E non è piuttosto questo movimento,<br />

in cui l’economico perde la sicurezza dei suoi confini «fondati»,<br />

razionali e ragionevoli, che occorre mettere in questione, anche là dove<br />

sembra o verrebbe presentarsi solo come un effetto dell’onto-teo-logia<br />

politica?<br />

Pur dovendo tralasciare le complesse analisi che la sorreggono – in<br />

termini <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzioni tra «teologia politica» e «teologia economica», e<br />

tra «governo» e «sovranità»: <strong>di</strong>stinzioni rimodulate anche a partire da<br />

fondamentali acquisizioni foucaultiane – trovo nella formulazione <strong>di</strong><br />

Agamben che mi appresto a citare un’in<strong>di</strong>cazione che – anche se più o<br />

meno <strong>di</strong>stante per quanto riguarda i territori che intende esplorare –<br />

coincide tuttavia perfettamente in un punto con quella che intendo qui<br />

seguire:<br />

20<br />

La tesi secondo cui l’economia potrebbe essere un para<strong>di</strong>gma teologico<br />

secolarizzato retroagisce […] sulla stessa teologia, poiché implica che la<br />

vita <strong>di</strong>vina e la storia dell’umanità siano concepite fin dall’inizio da questa<br />

come una oikonomia, che la teologia sia, cioè, essa stessa “economica”<br />

e non lo <strong>di</strong>venga semplicemente in un secondo momento<br />

attraverso la secolarizzazione. 8<br />

INTRODUZIONE<br />

Consapevole delle immense questioni che vi si annidano, seguirò qui<br />

una <strong>di</strong>rezione o una «retroazione» (pre-originaria) simile, convinto come<br />

sono del fatto che essa ci potrebbe permettere <strong>di</strong> leggere più adeguatamente<br />

tanti fenomeni non soltanto del passato (non è in una ontologizzazione<br />

dell’economico, in termini biologici, sociologici, giuri<strong>di</strong>ci ecc.,<br />

che si sono fondate le logiche totalitarie del «tutto è possibile»?) ma anche<br />

del presente. Un presente che, a me sembra, ponga sotto gli occhi <strong>di</strong> tutti<br />

noi domande come queste: una comprensione del mondo in termini <strong>di</strong><br />

ontologia economica non rischia <strong>di</strong> essere niente più che la traduzione<br />

scabrosa <strong>di</strong> una pulsione economica generalizzata o glo ba liz zata? E l’affermazione<br />

incontrastata <strong>di</strong> quest’ultima non rischia a sua volta <strong>di</strong> condurre<br />

alla <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> ogni economia, non solo in termini <strong>di</strong> crisi<br />

economiche o finanziarie, ma anche <strong>di</strong> habitat o <strong>di</strong> vita? L’assoluto <strong>di</strong>spiegamento<br />

della «pulsione del proprio» (Bemächtigungstrieb: pulsione <strong>di</strong><br />

appropriazione, <strong>di</strong> dominio, <strong>di</strong> padroneggiamento, <strong>di</strong> governo, secondo<br />

una celebre espressione <strong>di</strong> Freud) non porta forse a <strong>di</strong>struggere ogni<br />

forma <strong>di</strong> economia o <strong>di</strong> ecologia <strong>di</strong> vita? È possibile resistere a questa regressione<br />

che ci appare, oggi, più che mai dominante? I sempre più frequenti<br />

richiami all’etica, alla giustizia, all’amore, all’eros, alla solidarietà,<br />

alla religione, sono forse (deboli) richiami aneconomici? O al contrario<br />

– anche se ne contemplano un margine insuturabile – richiami propriamente,<br />

e in qualche caso perfino tecnicamente, economici nei confronti<br />

dell’antieconomia insita nello scatenamento <strong>di</strong> pulsioni puramente economiche?<br />

Non è in qualche modo contenuto nel concetto stesso <strong>di</strong> oikonomia<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>struggersi se riesce a <strong>di</strong>spiegarsi fino a compiersi?<br />

Questioni immense che qui mi limito a in<strong>di</strong>care, nella speranza che<br />

un attraversamento – il più possibile attento, per quanto inevitabilmente<br />

parzialissimo – <strong>di</strong> alcuni concetti fondamentali della metafisica ci aiuti<br />

a riformularle in modo più adeguato.<br />

De<strong>di</strong>chiamoci ora alla declinazione estetica dell’economico. Essa ci<br />

offre da subito il vantaggio <strong>di</strong> non vincolare economia e ontologia; anzi,<br />

<strong>di</strong> muovere da un’originale interpretazione dell’oikonomia per condurre<br />

una critica dell’ontologia e della metafisica razionalistica. Piuttosto che<br />

alla teoria politica e alla nozione <strong>di</strong> «governo», questa riflessione sull’economico<br />

guarda infatti al problema dell’esperienza e del senso, con<br />

particolare attenzione per il nesso teoria-prassi o, come potremmo <strong>di</strong>re,<br />

filosofia-economia. Nel suo libro del 1992, Estetica. Uno sguardo attraverso<br />

9 , Emilio Garroni richiama un testo del 1931 <strong>di</strong> Benedetto Croce che<br />

21


INTRODUZIONE<br />

ha per titolo Le due scienze mondane: l’Estetica e l’Economica; dove questi<br />

scrive:<br />

Le due scienze filosofiche che abbiamo detto precipuamente moderne<br />

e che si riferiscono l’una alla praxis nella sua vita <strong>di</strong>namica e passionale,<br />

e l’altra alle figurazioni della fantasia, apprestano i dati necessari alla soluzione<br />

del problema [si tratta del problema del rapporto tra soggetto<br />

e oggetto], svelandoci l’oggetto per nient’altro che quella vita passionale,<br />

quegli stimoli, quegli impulsi, quel piacere e dolore, quella varia e molteplice<br />

commozione, che è ciò che si fa materia dell’intuizione e della<br />

fantasia e, attraverso essa, della riflessione e del pensiero. La verità, in<br />

conseguenza <strong>di</strong> questa concezione, non sarà dunque da definire, come<br />

nella scolastica, adaequatio rei et intellectus, giacché la res come res non esiste,<br />

ma ben piuttosto (prendendo, ben inteso, in modo metaforico il<br />

concetto dell’adeguazione) adaequatio praxeos et intellectus. 10<br />

In questo richiamo <strong>di</strong> Croce al momento estetico-pratico come a ciò<br />

che, a suo giu<strong>di</strong>zio, risolve il dualismo <strong>di</strong> soggetto e oggetto, Garroni ritrova<br />

una riflessione sul senso e sul sentire che si esprime in una critica<br />

all’ontologia (o all’onto-teologia) razionalistica e alla sua pretesa <strong>di</strong> «fondare»<br />

dall’esterno, anziché «guardare-attraverso» l’esperienza stessa nel<br />

suo farsi. Estetica ed economia, le due scienze mondane e moderne secondo<br />

Croce, «in quanto sorgono sul costituirsi dell’arte e del fare come esemplari<br />

dell’esperienza-in-cui-siamo, posseggono – aggiunge Garroni –<br />

una sorta <strong>di</strong> ruolo-guida nella formazione e nella messa a punto <strong>di</strong> una<br />

filosofia critica» 11 .<br />

In questo passo, il termine «critica» in<strong>di</strong>ca in senso proprio la filosofia<br />

<strong>di</strong> Kant, alla quale il pensiero <strong>di</strong> Emilio Garroni si è riferito in<br />

modo infaticabile, in particolare riguardo alla terza Critica. Nel modo in<br />

cui pongono la questione dell’esperienza umana, estetica ed economica<br />

– intesa quest’ultima, genericamente, ma non senza problemi, come un<br />

sapere riferito alla praxis, o meglio, come quel sapere che sorge nel riferirsi<br />

della praxis a se stessa – rompono il para<strong>di</strong>gma metafisico-razionalistico<br />

della contrapposizione (cartesiana) tra res cogitans e res extensa, così<br />

come quello scolastico che cerca <strong>di</strong> «adeguare» alle funzioni intellettive<br />

<strong>di</strong> un soggetto astratto e mona<strong>di</strong>co una res sostantivata al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> esse<br />

(«la res come res non esiste»); e ci mostrano invece una soggettività originariamente<br />

e sentitamente intersoggettiva e mondana, configurata<br />

22<br />

INTRODUZIONE<br />

come sensus communis: una soggettività immersa e a-casa-propria, economicamente<br />

ed esteticamente, nel mondo dell’esperienza e del senso.<br />

Anche noi, occupandoci <strong>di</strong> Kant, vedremo come il nesso esteticaeconomia<br />

emerga in modo particolarmente evidente nella Critica della<br />

facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio 12 . Lo vedremo affrontando la <strong>di</strong>mensione e lo statuto<br />

<strong>di</strong> un certo sentirsi a-casa o <strong>di</strong>-casa nell’«esperienza-in-cui-siamo»,<br />

come ci <strong>di</strong>ceva Garroni. È la <strong>di</strong>mensione trascendentale e sentita del<br />

principio <strong>di</strong> «finalità» o <strong>di</strong> «conformità a scopi» – una nozione che riformula<br />

in termini estetico-soggettivi e teleologico-economici il «principio<br />

<strong>di</strong> ragione» o la «frase del fondamento» <strong>di</strong> Leibniz, privandolo<br />

così della sua pretesa ontologica <strong>di</strong> descrivere uno stato <strong>di</strong> cose oggettivo<br />

– che preliminarmente ci avverte e ci <strong>di</strong>spone favorevolmente<br />

al compito <strong>di</strong> una certa «unificazione del molteplice» (come ci ha detto<br />

Aristotele e come ripeterà Kant a proposito della molteplicità delle<br />

«leggi empiriche» e delle «forme della natura»): una <strong>di</strong>mensione trascendentale<br />

che ad<strong>di</strong>rittura precede e rende possibile l’entrata in scena<br />

e l’operatività <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni logico-ontologiche <strong>di</strong> unificazione del<br />

molteplice. È questo sentimento-fondamento o principio-sentimento<br />

proprio della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio (un’analogia, un «come se»: lo vedremo)<br />

che ci fa sentire <strong>di</strong>-essere-a-casa nel mondo (che ci fa sentire<br />

il mondo come una oikia) grazie a una Stimmung, a un accordo, preliminare<br />

e sentito, dell’oggetto e del soggetto, della natura e delle nostre<br />

facoltà conoscitive. Oikonomia – estetica economica o economia<br />

estetica – prima dell’onto-logica.<br />

A proposito <strong>di</strong> questa inflessione «critica» – <strong>di</strong> cui pure tratterrò qui<br />

qualcosa: in particolare la critica della genealogia ontologica dell’economico<br />

e l’idea <strong>di</strong> una certa preliminarietà dell’eco-nomico sull’ontologico<br />

– ci sarà da chiedersi fino a che punto la <strong>di</strong>rettrice estetico-pratica<br />

del para<strong>di</strong>gma economico in Kant ci porti senz’altro oltre la logica e la<br />

teo-logica del fondamento propria della metafisica razionalistica; se, in<br />

altre parole, sia sufficiente ruotare o convertire quest’ultime in termini<br />

<strong>di</strong> aisthesis o <strong>di</strong> praxis per superare od oltrepassare le vedute della metafisica,<br />

oppure se occorra tentare <strong>di</strong> spingersi ancora più a fondo nella decostruzione<br />

<strong>di</strong> una certa fondazione ontologica dell’oikonomia.<br />

In<strong>di</strong>cate rapidamente e sommariamente le declinazioni teologicopolitica<br />

ed estetica dell’economico, <strong>di</strong>rò subito come – pur seguendone<br />

e <strong>di</strong>scutendone certi sviluppi, come del resto stiamo già facendo – non<br />

assumerò come guida né l’una né l’altra.<br />

23


INTRODUZIONE<br />

Per in<strong>di</strong>care il <strong>di</strong>verso percorso che intendo qui intraprendere, mi<br />

avvarrò in particolare <strong>di</strong> due scorte: quella <strong>di</strong> Martin Heidegger e quella<br />

<strong>di</strong> Jacques Derrida, il quale, sul cammino che cercherò <strong>di</strong> tracciare, ha<br />

continuamente intrecciato le sue posizioni e proposizioni con quelle<br />

heideggeriane. L’ipotesi che qui vorrei mettere alla prova può essere formulata<br />

attraverso alcune semplici domande che in gran parte ho già anticipato:<br />

fino a che punto il para<strong>di</strong>gma economico <strong>di</strong>pende da nozioni<br />

fondate onto-teologicamente (o anche esteticamente) e fino a che punto,<br />

invece, le costituisce in modo «fondamentale»? Fino a che punto ne risulta,<br />

e fino a che punto invece opera fin dall’origine (e quin<strong>di</strong> prima <strong>di</strong><br />

essa) all’interno della costituzione dei concetti e perfino dei principi<br />

onto-logici od onto-estetici della metafisica? L’ontologia – almeno nella<br />

sua forma metafisica classica, sempre che ce ne sia altra – è forse una forma<br />

«coperta» <strong>di</strong> oikonomia? E l’economico, che pure sembra avere in sé una<br />

pulsione ontologica, si lascia comprendere in termini <strong>di</strong> ontologia, e<br />

anche <strong>di</strong> ontologia critica?<br />

La formulazione <strong>di</strong> queste domande non sottende alcuna idea <strong>di</strong> primato<br />

o <strong>di</strong> primogenitura dell’economico (nel senso <strong>di</strong> una «filosofia<br />

della prassi» o <strong>di</strong> una «<strong>di</strong>alettica del reale») e non intende in alcun modo<br />

proporsi come un semplice rovesciamento della tesi del fondamento:<br />

ciò che finirebbe solo per confermare la sua logica archeologica (oltre<br />

che le sue peggiori conseguenze in termini <strong>di</strong> filosofia politica); considera<br />

piuttosto la «supplenza» economica come «originaria» e, conseguentemente,<br />

l’origine dell’oikonomia come già economica e quin<strong>di</strong> non<br />

originaria: già iniziata quando si crede <strong>di</strong> darle inizio, infondata quando<br />

si tenta <strong>di</strong> fondarla e <strong>di</strong> assicurarla in qualche onto-teo-logica che essa<br />

avrà già sempre reso possibile.<br />

4. In<strong>di</strong>cherò ora velocemente le tappe e le parole-chiave che segneranno<br />

il nostro viaggio alla volta dell’oikonomia.<br />

Nella prima parte – che costituisce in se stessa una sorta <strong>di</strong> lunga <strong>introduzione</strong><br />

all’opera nel suo insieme – analizzerò in modo ravvicinato<br />

alcune proposizioni <strong>di</strong> Aristotele, Kant, Leibniz e Hegel. Attraverso<br />

queste analisi cercherò innanzitutto <strong>di</strong> mostrare come l’economico costituisca<br />

una sorta <strong>di</strong> «rimosso» della metafisica, tanto più significativamente<br />

invadente quanto meno riconosciuto come tale – come accade<br />

per l’appunto in ogni rimozione. Cercherò poi <strong>di</strong> segnalare come la filosofia<br />

<strong>di</strong> Nietzsche e la psicanalisi <strong>di</strong> Freud, che per molti aspetti sono<br />

24<br />

INTRODUZIONE<br />

ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> quella tra<strong>di</strong>zione, rappresentano al tempo stesso decisivi momenti<br />

<strong>di</strong> emergenza <strong>di</strong> questo «rimosso» – della metafisica, <strong>di</strong>cevo, o<br />

come dovrei <strong>di</strong>r meglio, <strong>di</strong> una certa parabola, <strong>di</strong> una certa storia (se è<br />

una) della metafisica: quella stessa che Heidegger comprendeva sotto il<br />

suo famoso titolo <strong>di</strong> «oblio dell’essere».<br />

Nella seconda parte dell’opera, gli autori dei <strong>di</strong>versi saggi ci condurranno<br />

poi lungo un cammino che – segnato dai nomi <strong>di</strong> Nietzsche,<br />

Marx, Freud, Heidegger, Levinas, Patočka, Foucault, Deleuze, Derrida,<br />

Agamben, Sloter<strong>di</strong>jk, Sen, Latouche e altri – condurrà l’interrogazione<br />

sull’economico in modo via via più esplicito, problematico, articolato,<br />

<strong>di</strong>fferenziato nell’orizzonte del nostro mondo e delle questioni che lo attraversano.<br />

Ho già fatto i nomi delle mie sentinelle.<br />

Comincio dunque da Martin Heidegger, che più <strong>di</strong> ogni altro filosofo<br />

dei nostri tempi ha posto in modo infaticabile al centro del suo pensiero<br />

la domanda o la questione della metafisica, cercando <strong>di</strong> in<strong>di</strong>carne un certo<br />

oltre, un certo al <strong>di</strong> là o al <strong>di</strong> qua. Ora, a tutta prima, non sembra che Heidegger<br />

abbia mai tematizzato in modo esplicito la questione che qui stiamo<br />

tentando <strong>di</strong> problematizzare: quella cioè del rapporto tra ontologia ed economia.<br />

Eppure, sono convinto che questo rapporto operi costantemente<br />

nel suo pensiero, nel tentativo – così marcato nella sua parola d’or<strong>di</strong>ne dell’oltrepassamento<br />

della metafisica – <strong>di</strong> raggiungere quell’essenza della metafisica<br />

che la metafisica stessa non è mai riuscita a scorgere. A tale<br />

proposito citerò tra un istante una sua frase – si tratta, significativamente,<br />

<strong>di</strong> un inciso – che <strong>di</strong>mostra come in realtà Heidegger abbia scandagliato a<br />

fondo questo nesso, che tuttavia non mi risulta abbia mai esplicitato, o ha<br />

in altro modo risolto. Mi riferisco a un passo della conferenza tenuta a<br />

Brema il 5 maggio del 1956 e raccolta, insieme a un ciclo <strong>di</strong> 13 lezioni, nel<br />

libro Il principio <strong>di</strong> ragione. Heidegger sta qui appunto <strong>di</strong>scutendo del principio<br />

<strong>di</strong> ragione o del «fondamento» (Grund), scoperto, o meglio portato alla<br />

luce, da Leibniz dopo un periodo <strong>di</strong> «incubazione» durato due millenni;<br />

un principio che, in una delle sue note (e abbreviate) formulazioni, recita:<br />

Nihil est sine ratione – cioè, letto in positivo, ogni cosa ha una ragione. A un certo<br />

punto della <strong>di</strong>scussione, Heidegger incide nel suo testo questa frase:<br />

(Detto per inciso: Leibniz, lo scopritore del principio <strong>di</strong> ragione sufficiente,<br />

è anche l’inventore dell’“assicurazione sulla vita”) 13 .<br />

25


INTRODUZIONE<br />

Di questa parentesi vorrei fare il motto <strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o. In effetti, il<br />

principio <strong>di</strong> ragione – vale a <strong>di</strong>re il fatto che per ogni cosa si possa trovare<br />

una ratio, un senso, uno scopo, una ragion d’essere calcolabile – è<br />

molto rassicurante, anche se non mancheremo <strong>di</strong> rilevarne gli esiti inquietanti:<br />

è, si potrebbe <strong>di</strong>re, una polizza sulla vita stipulata con la metafisica.<br />

E vedremo come, nel rapporto tra «principio <strong>di</strong> ragione» e<br />

«assicurazione sulla vita», si nascondano le premesse <strong>di</strong> questioni molto<br />

profonde e complicate, relative alla politica, alla bio-politica, all’economia<br />

della vita e della morte.<br />

Sempre in riferimento a Heidegger, citerò ora, in modo insieme<br />

apo<strong>di</strong>ttico, episo<strong>di</strong>co e <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nato, alcune parole-guida che ci faranno<br />

intravedere, in via preliminare, qualche aspetto del nesso ontologia-economia<br />

a cui è de<strong>di</strong>cata soprattutto la prima parte <strong>di</strong> quest’opera; oltre a<br />

consentirci <strong>di</strong> riprendere le allusioni al problema del margine e della resistenza<br />

che, più su, avevo lasciato in sospeso. Queste parole ci in<strong>di</strong>cheranno<br />

che se l’economico mira sempre a chiudere il cerchio – ciò<br />

che è iscritto, in un certo senso, nel suo stesso vocabolo – esso in<strong>di</strong>ca<br />

al tempo stesso sempre, a un’analisi attenta, il margine aperto o il fondo<br />

senza fondo della sua (in)essenza. Ecco queste parole:<br />

a) l’essere in quanto fondamento senza-fondo e senza-fondamento<br />

dell’ente; l’essere e il suo es gibt, il suo dare o il suo donare originario: quel<br />

dono gratuito (senza economia, sembra) che fa del pensare (denken) un<br />

<strong>di</strong>re-grazie (danken) per l’invio <strong>di</strong> un dono da nulla o <strong>di</strong> nulla. L’essere,<br />

il senso o la verità dell’essere – o anche l’«essenza nascosta» del suo «rifiuto»<br />

– l’essere o l’Ereignis, cioè l’evento <strong>di</strong> quell’«incalcolabile» (<strong>di</strong> quell’eccedenza<br />

dell’economico nell’economico) in cui (forse) si trasformerà<br />

la comprensione dell’ente qualora <strong>di</strong>venissimo capaci <strong>di</strong> non pensare<br />

più l’ente come «oggetto» e l’uomo come «soggetto»; <strong>di</strong> guardare, cioè,<br />

oltre l’epoca «della pianificazione, del calcolo, dell’organizzazione e dell’assicurazione»<br />

in cui culmina (e forse si consuma) l’avventura della metafisica<br />

(dell’ontologia e dell’onto-teologia) come storia della «ratio»<br />

(della ragione e del calcolo) 14 .<br />

b) Il nulla stesso, quel nihil che è invocato e scongiurato – insieme all’esistenza,<br />

all’essere o alla realtà stessa – all’origine del principio <strong>di</strong> ragione<br />

(nihil est sine ratione): in che senso il ni-ente ha a che fare con<br />

l’onto-logia (o l’onto-economia)?<br />

26<br />

INTRODUZIONE<br />

c) La morte, e il suo «esser-sempre-mia», quell’esperienza, l’unica secondo<br />

Heidegger, in cui non c’è possibilità <strong>di</strong> sostituzione, permuta,<br />

scambio – e laddove non si <strong>di</strong>a, o non si sia ancora costituito valore <strong>di</strong><br />

scambio, non ci sarà, propriamente, economia. Se infatti la morte è sempre-mia,<br />

se nessuno può morire «al posto <strong>di</strong> un altro», la morte non si<br />

può né dare né ricevere, né importare né esportare, né acquistare né<br />

vendere – il che in<strong>di</strong>ca il limite o il confine estremo dell’economico,<br />

l’orlo, forse, da cui spunta o sarà già spuntato (per esempio in termini <strong>di</strong><br />

sacrificio): un argomento, questo, ripreso e sviluppato da Derrida, specialmente<br />

in Donare la morte 15 .<br />

d) Il sacrificio, appunto: parola che appare decisiva nel progetto heideggeriano<br />

<strong>di</strong> oltrepassamento della metafisica, dato che comporta un<br />

<strong>di</strong>stoglimento dello sguardo dagli enti (e dal nostro affaccendarsi economico<br />

nei loro confronti) e un rivolgerci verso l’essere stesso e il dono<br />

(puro?) del suo invio. Ora, il sacrificio è in realtà una pratica che ha<br />

un’enorme rilevanza per l’economico e che, come vedremo, paradossalmente<br />

sembra – proprio come le parallele o intrecciate nozioni del<br />

dono e dell’ospitalità – insieme fondarlo (forse perfino in senso monetario:<br />

pecus-pecunia, dalle pecore al denaro; dalle pecore, merce <strong>di</strong> scambio<br />

nel baratto ma anche, soprattutto, animali sacrificali, alla moneta<br />

vera e propria) e in<strong>di</strong>carne un certo margine aperto. Se infatti da un lato<br />

il sacrificio, quello «essenziale», come precisa Heidegger, non può essere<br />

calcolato o speculato in termini <strong>di</strong> «utilità» (che sacrificio sarebbe?), dall’altro,<br />

la frase para<strong>di</strong>gmatica in cui lo si pronuncia, parla immancabilmente<br />

del sacrificio, e quin<strong>di</strong> della morte, come <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong><br />

non-inutile. Fondo senza fondo <strong>di</strong> ogni economia, il sacrificio sarebbe<br />

nella sua essenza aneconomico? Ma poi: quale economia <strong>di</strong> vita-e-<strong>di</strong>morte<br />

ci si fa qui incontro? Ci torneremo tra qualche istante.<br />

e) Una certa Unheimlichkeit: uno spaesamento, un’angoscia, un nonsentirsi-a-casa,<br />

una non-economicità in questo senso, che definisce la<br />

con<strong>di</strong>zione autentica o propria (eigentlich) dell’esserci dell’uomo (a cui<br />

sarebbe proprio, dunque, il non-proprio, o il cui proprio sarebbe l’improprietà<br />

o la mancanza <strong>di</strong> proprietà); una non familiarità nella familiarità<br />

(e viceversa), che – quando si desta in noi la «tonalità emotiva» dell’angoscia<br />

– ci conduce in prossimità del nulla e della morte, e perciò del-<br />

27


INTRODUZIONE<br />

l’essere o del senso dell’essere e dell’esistenza: una Befindlichkeit (opposta<br />

o complementare rispetto alla Stimmung kantiana) che ritroveremo<br />

anche in Freud, <strong>di</strong> nuovo in relazione con la morte: con la sua economia<br />

e aneconomia.<br />

f) Ultima parola-guida, la più importante <strong>di</strong> tutte. Si tratta della questione<br />

della tecnica, o meglio dell’essenza della tecnica moderna: quell’essenza<br />

che Heidegger chiama Ge-stell, vale a <strong>di</strong>re l’insieme (Ge) del<br />

porre (stellen), del <strong>di</strong>sporre e dell’or<strong>di</strong>nare (be-stellen), del produrre e del<br />

presentare (ge-stellen), del trasformare ogni cosa in risorsa (Be-stand).<br />

Quell’essenza che per Heidegger non è «nulla <strong>di</strong> tecnico», quanto piuttosto<br />

la metafisica o l’essere stesso nel suo compimento, nel suo esaurimento,<br />

nella sua usura o auto-usura globale. Quell’essenza, il cui<br />

rovescio fotografico Heidegger chiama Er-eignis, vale a <strong>di</strong>re l’evento-<br />

(<strong>di</strong>)-appropriazione (<strong>di</strong> uomo ed essere) che (forse) balena alla fine della<br />

«storia dell’essere» e quin<strong>di</strong> (forse) oltre la metafisica e l’economia della<br />

tecnica.<br />

Vedremo come, per Heidegger, tutte queste nozioni fanno segno a<br />

una ferita nel fondamento stesso (e nella logica ontologica dell’arché);<br />

una ferita tanto profonda da sfondarlo abissalmente: il fondamento del<br />

fondamento (Grund) non è un fondamento, è l’essere stesso come abisso<br />

(Abgrund), come non-ente, e, in questo senso, come lo stesso ni-ente o<br />

il nulla. Ora, se queste «parole» si mostrano capaci <strong>di</strong> interrompere o<br />

almeno <strong>di</strong> scompaginare una certa trama (chiusa sulla sua origine cieca)<br />

della metafisica o dell’ontologia, si può forse <strong>di</strong>re – ma qui mi assumo<br />

per intero la responsabilità della domanda – che ciò accade in quanto<br />

esse mostrano il fondo sfondato o il margine aperto della sua oikonomia? E, se<br />

le cose stanno così, non si potrebbe o dovrebbe anche <strong>di</strong>re che, nella<br />

scelta (in verità accuratissima) delle parole che ho qui rapidamente elencato,<br />

Heidegger è reso sensibile da una certa interruzione, da una certa<br />

non-chiusura dell’economico su se stesso che traspare dalla stessa fondazione<br />

o istituzione dell’economia o del legame socio-economico (o,<br />

con le sue parole, del «con-essere» dell’esserci)?<br />

Qualche esempio in forma <strong>di</strong> domanda, ancora una volta rapi<strong>di</strong>ssima.<br />

Il dono (es gibt) e il sacrificio non sono forse all’origine, come fondamento<br />

e con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità, <strong>di</strong> ogni primitiva forma <strong>di</strong> societas o <strong>di</strong><br />

comunità umana (e forse non soltanto umana)? Ma, proprio in quanto<br />

28<br />

INTRODUZIONE<br />

istitutivi (costitutivi, fondativi) <strong>di</strong> essa, non si escludono per ciò stesso,<br />

nella loro infondatezza e incon<strong>di</strong>zionatezza anarchica e quasi-trascendentale,<br />

da ciò che istituiscono? O, per essere più precisi, non si includono<br />

in esso in quanto con<strong>di</strong>zionati, socializzati, co-munizzati e<br />

co-immunizzati, economizzati? Come la morte stessa, il sacrificio apparirebbe<br />

così per un verso – un verso che in realtà non appare mai, non<br />

si dà mai al presente e alla rappresentazione – assolutamente aneconomico,<br />

mentre, per l’altro, si lascerebbe comprendere come la con<strong>di</strong>zione<br />

medesima, la regione e la ragione sociale, la razionalità economica grazie<br />

a cui un sistema, un corpo, un apparato (psichico o sociale) può funzionare<br />

economicamente. Per un verso è assolutamente inutile (e<br />

incalcolabile, o non è ciò che è), mentre per l’altro, e per lo stesso motivo,<br />

è ciò che crea utile (interesse, bene e beneficio, debito, valore e plusvalore<br />

monetario o simbolico), e perciò è l’utilità stessa, l’utilità<br />

dell’utilità, il concetto stesso dell’utilità. Ma, proprio per questo, quando<br />

il sacrificio si annuncia come un fantasma nella notte della sua (non-)origine<br />

(pulsionale, istitutiva, incon<strong>di</strong>zionata, non ancora o non interamente<br />

socializzata, padroneggiata, immunizzata, economizzata: come una pura<br />

«ripetizione» o «compulsione a ripetere», per ricorrere ancora al linguaggio<br />

<strong>di</strong> Freud), esso si lascia avvertire come la minaccia più grande o<br />

un’arma <strong>di</strong> possibile <strong>di</strong>struzione del (particolare) legame economico-sociale<br />

e politico che ha reso possibile grazie alla sua esclusione, al suo<br />

bando. E un <strong>di</strong>scorso para<strong>di</strong>gmaticamente analogo si potrebbe fare anche<br />

per il dono (e il perdono e l’ospitalità) e, probabilmente più in generale,<br />

per ognuno degli altri titoli heideggeriani che ho ricordato velocemente:<br />

un <strong>di</strong>scorso che abbandono subito dato che ritornerà, attraverso analisi<br />

ben altrimenti dettagliate e minuziose, in più d’uno dei testi che compongono<br />

la seconda parte <strong>di</strong> quest’opera.<br />

Per quanto riguarda la filosofia <strong>di</strong> Heidegger – su cui torneremo a<br />

lungo soprattutto nei primi tre capitoli della prima parte <strong>di</strong> questo libro<br />

– mi limito per il momento a chiedermi se ciò che <strong>di</strong> più influente e decisivo<br />

ci dà da pensare, oggi, il pensiero dell’essere e dell’Ereignis non sia<br />

proprio questa logica <strong>di</strong> inclusione esclusiva o <strong>di</strong> esclusione inclusiva<br />

dell’economico (dell’onto-economico o dell’eco-ontologico) e del suo<br />

(non)fondamento.<br />

Questa domanda ci porta ad incontrare la nostra seconda sentinella,<br />

della quale in verità mi sono già avvalso in modo perfino troppo sfacciato<br />

per formulare gli interrogativi sollevati fin qui. Chi, infatti, più e meglio<br />

29


INTRODUZIONE<br />

<strong>di</strong> Derrida, ci ha invitati – attraverso titoli e questioni come la «metafisica<br />

del proprio», il problema del dono e quello <strong>di</strong> una certa teologia negativa<br />

o apofatica, il circolo dell’economia e del senso, il tema del<br />

sacrificio e la logica del supplemento, il concetto <strong>di</strong> «exappropriazione»,<br />

la questione dell’«animale» ecc. – a pensare a fondo e a mettere in questione<br />

il nesso economia-ontologia, a cui ha de<strong>di</strong>cato esplicitamente tanta<br />

parte della sua riflessione, decostruendo concezioni e para<strong>di</strong>gmi, non<br />

soltanto della tra<strong>di</strong>zione metafisica classica, ma anche della stessa fenomenologia<br />

heideggeriana? A questa domanda retorica non aggiungerò<br />

qui nulla, sia perché un certo pensiero della «decostruzione» continuerà<br />

a guidarmi passo passo nel corso della mia rivisitazione del testo della<br />

metafisica, sia soprattutto perché al pensiero <strong>di</strong> Derrida sono de<strong>di</strong>cati o<br />

fanno riferimento molti dei saggi contenuti nella seconda parte <strong>di</strong> questo<br />

libro.<br />

5. L’opera <strong>di</strong> Friedrich Nietzsche rappresenta lo spartiacque tra la<br />

prima parte del testo, intitolata al rapporto «metafisica ed economia», e<br />

la seconda, alla quale vorrei idealmente avvicinarmi attraverso il titolo<br />

– non soltanto allusivo ma anche largamente improprio – «metapsicologia<br />

ed economia».<br />

Il termine «metapsicologia» è costruito qui per analogia. Non è però<br />

una costruzione originale. Anzi, almeno in un caso, il caso <strong>di</strong> Freud, non<br />

soltanto questa analogia è esplicitamente utilizzata e <strong>di</strong>chiarata – la metapsicologia<br />

è per lui una sorta <strong>di</strong> metafisica dello psichico – ma, significativamente<br />

proprio nell’en<strong>di</strong>a<strong>di</strong> del nostro titolo, l’espressione vale<br />

ad<strong>di</strong>rittura come un termine tecnico.<br />

Sotto il titolo <strong>di</strong> «metapsicologia», Freud ha infatti raccolto quegli<br />

stu<strong>di</strong> che, nella descrizione dell’apparato psichico e delle sue prestazioni,<br />

mettono in gioco, accanto al punto <strong>di</strong> vista «topico» e «<strong>di</strong>namico», anche<br />

quello «economico». Come risulta con chiarezza dalla citazione seguente:<br />

30<br />

Ci ren<strong>di</strong>amo conto che nella nostra esposizione dei fenomeni psichici<br />

siamo stati indotti gradualmente ad adottare un terzo punto <strong>di</strong> vista<br />

[…]: il punto <strong>di</strong> vista economico […] esso rappresenta il compimento della<br />

ricerca psicoanalitica. Propongo che, se riusciamo a descrivere un processo<br />

psichico nei suoi rapporti <strong>di</strong>namici, topici ed economici, la nostra esposizione<br />

sia chiamata metapsicologica. 16<br />

INTRODUZIONE<br />

L’adozione del punto <strong>di</strong> vista economico – e il ricorso via via più significativo,<br />

da parte <strong>di</strong> Freud, del concetto <strong>di</strong> «lavoro» (Arbeit), delle sue<br />

specificazioni (Verarbeitung, Bearbeitung…) e dei suoi numerosi composti<br />

(Traum-Arbeit, Trauer-Arbeit…), a segnare il delicato punto <strong>di</strong> congiunzione<br />

tra l’aspetto economico e quello simbolico – ci introduce a<br />

una sorta <strong>di</strong> metafisica dello psichico; e, naturalmente, solleva gli interrogativi<br />

più complessi: quelli relativi alla vita, alla morte, all’eros; a proposito<br />

dei quali Freud non esita a parlare <strong>di</strong> «speculazione» e a riferirsi – sia<br />

pure in modo riluttante – alla filosofia: Platone, Schopenhauer, Nietzsche,<br />

Empedocle… Metapsicologia suona in effetti come metafisica, e<br />

non soltanto suona, ma in un certo senso lo è; come lo è, ad esempio,<br />

la grande speculazione sul problema della vita e della morte – e delle relative<br />

pulsioni – che Freud affida soprattutto allo scritto, significativamente<br />

intitolato, Al <strong>di</strong> là del principio <strong>di</strong> piacere – l’espressione «al <strong>di</strong> là <strong>di</strong>»,<br />

Jenseits nel tedesco <strong>di</strong> Freud, traduce proprio il greco «meta» della «metafisica»:<br />

titolo sotto cui gli or<strong>di</strong>natori del corpus degli scritti <strong>di</strong> Aristotele<br />

hanno raccolto le opere del maestro, collocandole appunto «meta ta<br />

physika».<br />

Proseguendo sul filo <strong>di</strong> queste osservazioni, l’analogia che stiamo<br />

sfruttando si potrebbe ad<strong>di</strong>rittura estendere in modo retrospettivo. Si<br />

potrebbe ad esempio parlare <strong>di</strong> metapsicologia (quasi nel senso freu<strong>di</strong>ano)<br />

a proposito delle riflessioni <strong>di</strong> Cartesio sulla mens o sull’animus; e<br />

più ancora della monadologia <strong>di</strong> Leibniz: non soltanto perché, come vedremo,<br />

la monade leibniziana è una sorta <strong>di</strong> psyche (anche se sarebbe più<br />

esatto <strong>di</strong>re il contrario), ma anche perché le sue proprietà – la percezione<br />

e la rappresentazione – sono relazionate a pulsioni (conati o appetiti);<br />

e soprattutto per il fatto che in numerosi scritti Leibniz parla <strong>di</strong><br />

percezioni non coscienti (c’è, nella sostanza in<strong>di</strong>viduale leibniziana, una<br />

sorta <strong>di</strong> inconscio) e descrive l’intero complesso delle prestazioni delle<br />

mona<strong>di</strong> in termini <strong>di</strong> forza e <strong>di</strong> energia fisico-psichica: proprio come<br />

farà Freud e, prima <strong>di</strong> lui, Nietzsche. (E a quest’ultimo proposito, si potrebbe<br />

anche accostare – analizzandone continuità e rotture: entrambe,<br />

<strong>di</strong>rei, significative – l’idea leibniziana, e prima ancora stoica, dell’apokatastasis<br />

panton – la «restituzione <strong>di</strong> tutte le cose»: espressione il cui significato<br />

economico non dovrebbe sfuggire 17 – e l’«eterno ritorno<br />

dell’uguale» <strong>di</strong> Nietzsche. Un compito a cui purtroppo non ci potremo<br />

de<strong>di</strong>care).<br />

31


INTRODUZIONE<br />

C’è però un secondo motivo che mi ha indotto ad usare o ad abusare<br />

del termine «metapsicologia». Insieme alla cosmologia e alla teologia,<br />

la psicologia costituiva una delle tre branche (relative alla triade<br />

mondo-anima-<strong>di</strong>o) in cui secondo la tra<strong>di</strong>zione si sud<strong>di</strong>videva, sotto il<br />

titolo <strong>di</strong> metaphysica specialis, quella metaphysica generalis che andava sotto il<br />

nome <strong>di</strong> «ontologia» (la scienza dell’essere in quanto essere, secondo Aristotele).<br />

In questo senso, non mi sembra ingiustificato <strong>di</strong>re che – uscite<br />

più o meno <strong>di</strong>scretamente <strong>di</strong> scena la cosmologia e la teologia (ma fino<br />

a che punto?) – con Nietzsche e Freud la metafisica si riduce appunto<br />

alla psicologia o <strong>di</strong>venta metapsicologia. Un esempio?<br />

Nel brano n. 12 dei Frammenti postumi, che ha per titolo «Caduta dei<br />

valori cosmologici», Nietzsche parla del nichilismo come <strong>di</strong> uno «stato<br />

psicologico». E ciò in tre accezioni: a) come evento <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione<br />

<strong>di</strong> «insicurezza»; b) come caduta del senso della «totalità», della «sistematizzazione»<br />

e dell’«organizzazione in tutto l’accadere e alla sua base»; c)<br />

come per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> «valore» delle categorie <strong>di</strong> «scopo», <strong>di</strong> «unità» e <strong>di</strong> «essere»<br />

18 . Come sconfessione, potremmo <strong>di</strong>re, del principio <strong>di</strong> ragione (o<br />

<strong>di</strong> assicurazione) <strong>di</strong> Leibniz; o come riconduzione alla sola sfera psicologica<br />

dell’intera economia onto-cosmo-teo-logica della metafisica tra<strong>di</strong>zionale.<br />

Ciò che Nietzsche chiama «psicologia» è dunque ciò che resta<br />

della metafisica dopo il declino della cosmologia e della teologia: la domanda<br />

sulla vita e sul vivente in quanto fenomeni della «volontà <strong>di</strong> potenza».<br />

È precisamente quanto egli scrive – è Nietzsche, si noti, a<br />

scriverlo e non Freud, sempre che non si stiano leggendo l’un l’altro! –<br />

nel brano n. 23 <strong>di</strong> Al <strong>di</strong> là del bene e del male (Jenseits, anche qui!):<br />

Tutta quanta la psicologia è rimasta sino a oggi sospesa a pregiu<strong>di</strong>zi e<br />

apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo [c.vo mio].<br />

Concepirla come morfologia e teoria evolutiva della volontà <strong>di</strong> potenza, come<br />

io la concepisco: – questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col<br />

pensiero […] lo psicologo […] potrà per lo meno pretendere che la psicologia<br />

sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e<br />

alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze. La<br />

psicologia infatti è ormai <strong>di</strong> nuovo la via per arrivare ai problemi fondamentali<br />

19 .<br />

Nietzsche si sta per caso confondendo? Non era forse la metafisica, e<br />

non la psicologia, la signora delle scienze, colei che in<strong>di</strong>cava la via per ar-<br />

32<br />

INTRODUZIONE<br />

rivare ai problemi fondamentali? Certamente no, non si confonde: egli<br />

tenta qui <strong>di</strong> compiere, nei confronti della metafisica, un gesto che vedremo<br />

ripetersi in tutti i gran<strong>di</strong> autori che ne hanno fatto la storia (a partire<br />

dal suo presunto fondatore, Aristotele): la scavalca all’in<strong>di</strong>etro – un<br />

movimento, questo, che Heidegger ha colto in profon<strong>di</strong>tà e ra<strong>di</strong>calizzato<br />

fino al punto <strong>di</strong> considerarlo propriamente suo. Con le parole che abbiamo<br />

letto, Nietzsche intende cioè risalire alle «esperienze originarie»<br />

(Heidegger) del mondo e del pensiero greco da cui la metafisica ha preso<br />

avvio, irrigidendole in seguito in quelle forme astratte e scolastiche <strong>di</strong>venute<br />

alla fine «superflue» e non più «vincolanti» (Nietzsche). Resta da<br />

chiedersi se questo passo all’in<strong>di</strong>etro gli sia davvero riuscito; se cioè il<br />

profeta dell’oltre-uomo, il <strong>di</strong>struttore del platonismo e del soggettivismo<br />

cartesiano, sia stato in grado <strong>di</strong> oltrepassare la metafisica, o non sia piuttosto,<br />

come «ultimo metafisico», colui che l’ha portata a compimento.<br />

Sarà quest’ultima la tesi <strong>di</strong> Heidegger, messa in <strong>di</strong>scussione o comunque<br />

non seguita da altri gran<strong>di</strong> interpreti del pensiero <strong>di</strong> Nietzsche<br />

che incontreremo nella seconda parte <strong>di</strong> quest’opera – in particolare<br />

Foucault e Deleuze. Qui, per il momento, non ha tuttavia importanza<br />

produrre argomenti a favore o contro questa interpretazione, ma piuttosto<br />

cercare <strong>di</strong> cogliere come, attraverso l’intenso <strong>di</strong>alogo tra Heidegger<br />

e Nietzsche, emerga una certa storia della metafisica, che è al tempo<br />

stesso una storia del nichilismo. Anche in questo caso – come accadrà in<br />

modo ben più esteso nei primi capitoli della prima parte <strong>di</strong> quest’opera,<br />

dove prenderò soprattutto le mosse dalle Conferenze <strong>di</strong> Brema e Friburgo e<br />

dal saggio Il principio <strong>di</strong> ragione – richiamerò qualche proposizione <strong>di</strong> Heidegger;<br />

rileggendo alcune analisi contenute nel suo Nietzsche. Citiamone<br />

subito qualche passaggio:<br />

Quale nome in<strong>di</strong>cante il carattere fondamentale <strong>di</strong> tutto ciò che è,<br />

l’espressione “volontà <strong>di</strong> potenza” dà una risposta alla domanda che<br />

chiede che cosa mai è l’ente. Questa domanda è fin dai tempi antichi la<br />

domanda della filosofia. 20<br />

All’interrogare che – a partire in modo esplicito dalla Metafisica <strong>di</strong><br />

Aristotele – chiede dell’essere dell’ente e della sua essenza, Nietzsche<br />

fornisce una risposta insieme ine<strong>di</strong>ta (ce l’ha appena detto lui stesso) e<br />

tra<strong>di</strong>zionale. Come si spiega (anche se non dobbiamo stupircene troppo:<br />

in filosofia è sempre così) la compresenza <strong>di</strong> questi due aspetti?<br />

33


INTRODUZIONE<br />

La comprensione dell’essere come volontà non è certamente nuova<br />

nell’ambito della tra<strong>di</strong>zione filosofica. Si può già trovare in Hegel, in<br />

Schelling e in Schopenhauer e, prima ancora, in Leibniz – per il quale,<br />

scrive Heidegger, «l’essenza dell’essere» è determinata come «unità originaria<br />

<strong>di</strong> perceptio e appetitus, <strong>di</strong> rappresentazione e volontà» 21 . Su questa<br />

linea della tra<strong>di</strong>zione si dovrebbero considerare anche le nozioni aristoteliche<br />

o leibniziane <strong>di</strong> dynamis, energheia, entelechia: nozioni che giocano<br />

insieme nel definire i concetti <strong>di</strong> «forza» e <strong>di</strong> «potenza» propri della<br />

filosofia <strong>di</strong> Nietzsche. Se dunque, da questo punto <strong>di</strong> vista, non ci sarebbe<br />

bisogno <strong>di</strong> molte prove per mostrare come la concezione dell’ente<br />

fatta propria da Nietzsche «è esattamente quella <strong>di</strong> Leibniz», in<br />

che cosa consiste la novità rispetto, per esempio, proprio a quest’ultimo?<br />

Consiste, ci risponde Heidegger, nell’aver espunto da tale concezione<br />

«la metafisica teologica», e cioè il «platonismo» 22 .<br />

La filosofia <strong>di</strong> Nietzsche muove dalla consapevolezza che, con l’acca<strong>di</strong>mento<br />

del nichilismo e la morte <strong>di</strong> Dio, l’economia metafisica non<br />

è più fruttifera: i fini e i valori dell’antica ontologia appaiono ormai usurati,<br />

svalutati. Innesta però, all’interno <strong>di</strong> questa consapevolezza, un<br />

«contromovimento» positivo, una «transvalutazione» liberatoria. Come<br />

«nuova posizione <strong>di</strong> valori», la «volontà <strong>di</strong> potenza» non ha più nulla a<br />

che fare con la teo-teleologia metafisica (anche kantiana), in quanto il<br />

«fine» della potenza (e quin<strong>di</strong> il «<strong>di</strong>venire») non è in qualcosa che le sta<br />

«al <strong>di</strong> fuori» (come la soggettività kantiana) ma unicamente nel «vortice»<br />

del suo stesso «accrescimento» o «potenziamento»: «la potenza è potenza<br />

soltanto come potenziamento della potenza» 23 . (Per inciso: già in<br />

Hegel il concetto <strong>di</strong> fine o <strong>di</strong> scopo, che egli riprendeva, desoggettivizzandolo,<br />

dalla filosofia <strong>di</strong> Kant, è già considerato come un principio <strong>di</strong><br />

autodeterminazione, come «universale concreto», come il senso della<br />

vita stessa; e a proposito <strong>di</strong> questa autotelia, un <strong>di</strong>scorso immenso – che<br />

ci ricondurrebbe ad Aristotele – si dovrebbe aprire a proposito della<br />

politicità intrinseca alla filosofia <strong>di</strong> Hegel e <strong>di</strong> Nietzsche. Ma restiamo<br />

alla questione del nichilismo).<br />

Scrive Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi<br />

si svalutano. Manca il fine; manca la risposta al “perché?”» 24 . (Vedremo<br />

nei prossimi capitoli come la questione del «perché?» sia<br />

all’origine <strong>di</strong> quel principio <strong>di</strong> ragione attraverso cui Leibniz assicurerà<br />

la contingenza degli enti alla necessità dell’ente o dell’essere supremo).<br />

Non più vincolate alla «metafisica teologica», le categorie <strong>di</strong> «scopo», <strong>di</strong><br />

34<br />

INTRODUZIONE<br />

«unità» e <strong>di</strong> «essere» perdono, secondo Nietzsche, ogni ra<strong>di</strong>camento,<br />

così che senza <strong>di</strong> loro «il mondo appare privo <strong>di</strong> valore». Era dunque la<br />

«credenza» in queste categorie a dare valore (economico o metafisico) al<br />

mondo. «Risultato: il credere nelle categorie <strong>di</strong> ragione è la causa del nichilismo» 25 .<br />

L’accadere storico del nichilismo è il rivelarsi nel nostro mondo della<br />

faccia nascosta, dalla metafisica, della metafisica.<br />

Risultato conclusivo: tutti i valori con cui abbiamo finora cercato dapprima<br />

<strong>di</strong> rendere per noi apprezzabile il mondo, e con cui l’abbiamo<br />

poi, appunto perciò, svalutato, quando essi si sono <strong>di</strong>mostrati inapplicabili<br />

– tutti questi valori sono, ricalcolati dal punto <strong>di</strong> vista psicologico,<br />

risultati <strong>di</strong> determinate prospettive <strong>di</strong> utilità per il mantenimento e il<br />

potenziamento <strong>di</strong> forme <strong>di</strong> dominio umane: e solo falsamente sono proiettati<br />

nell’essenza delle cose 26 .<br />

Nessuna teleologia, né oggettiva (leibniziana) né soggettiva (kantiana).<br />

La transvalutazione <strong>di</strong> Nietzsche significa dunque la decisione <strong>di</strong><br />

«ricalcolare» tutti i valori ricorrendo a un punto <strong>di</strong> vista e a un principio<br />

psico-economico o onto-economico, <strong>di</strong>verso dunque da quello a partire<br />

dal quale calcolano la ragione e il suo principio. La non verità dei valori<br />

ritenuti vali<strong>di</strong> finora <strong>di</strong>pende dunque dall’averli calcolati (e così determinati)<br />

in termini <strong>di</strong> razionalità economica o <strong>di</strong> economia razionale,<br />

mentre essi hanno origine e vali<strong>di</strong>tà soltanto in termini <strong>di</strong> rapporti <strong>di</strong><br />

forze e <strong>di</strong> manifestazioni della volontà <strong>di</strong> potenza. E tuttavia…<br />

Tuttavia, secondo Heidegger, nonostante la sua immensa opera <strong>di</strong><br />

decostruzione dell’onto-teologia, la filosofia <strong>di</strong> Nietzsche resta interna<br />

al pensare proprio della metafisica; o meglio, questo pensare lo porta a<br />

compimento attraverso la «determinazione dell’ente nel suo insieme me<strong>di</strong>ante<br />

il carattere fondamentale della volontà <strong>di</strong> potenza» 27 . «La nuova<br />

metafisica è la metafisica della volontà <strong>di</strong> potenza» 28 .<br />

Dato che siamo alla fine della nostra presentazione, non possiamo<br />

certo impegnarci nei confronti <strong>di</strong> quest’analisi, che si regge sulla considerazione<br />

secondo cui transvalutare o ricalcolare tutti i valori in termini<br />

psico-economici – continuando per altro a pensare l’esserci dell’uomo,<br />

perfino più etimologicamente, come animal rationale o (super)homo oeconomicus –<br />

ci trattiene in ogni caso all’interno della metafisica (o dell’onto-economia).<br />

Resta però almeno da chiedersi in conclusione – ed è Heidegger<br />

stesso a farlo verso la fine del suo cammino – se sia davvero possibile ol-<br />

35


INTRODUZIONE<br />

trepassare la metafisica, oppure se oltre (meta) la metafisica non ci sia o<br />

non ci sarà ancora meta-fisica; e soprattutto se «nell’intenzione <strong>di</strong> oltrepassare<br />

(überwinden) la metafisica» non domini ancora il «riguardo alla metafisica»<br />

29 . Occorre dunque, piuttosto, rimettersi ad essa, da essa. Ultima<br />

parola-guida. Anche per noi? Anche per l’oikonomia?<br />

_______________<br />

1 Quest’opera trae origine dal corso <strong>di</strong> lezioni e dai seminari tenuti presso la mia<br />

cattedra <strong>di</strong> Estetica alla Facoltà <strong>di</strong> Filosofia dell’<strong>Università</strong> «La <strong>Sapienza</strong>» nei<br />

due semestri, invernale ed estivo, dell’anno accademico 2007-2008.<br />

2 Vale la pena <strong>di</strong> ricordare che, in Italia, l’economia domestica fu in passato una<br />

materia <strong>di</strong> insegnamento, regolarmente inserita nei programmi scolastici per le<br />

classi femminili (!) della scuola inferiore.<br />

3 Per un’analisi e un approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> questo campo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinzioni cfr. H.<br />

Arendt, Vita Activa [The Human Con<strong>di</strong>tion, The University of Chicago, U.S.A.,<br />

1958], tr. it. <strong>di</strong> S. Finzi, Bompiani, Torino 2001.<br />

4 G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1971.<br />

5 G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo,<br />

Neri Pozza, Vicenza 2007.<br />

6 Non mi occuperò invece dell’economia trinitaria che, con il suo riferimento ai<br />

Padri della Chiesa, costituisce l’oggetto specifico della genealogia agambeniana<br />

del governo.<br />

7 C. Schmitt, Le categorie del «politico» [Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der<br />

Souveränität, Duncker & Humbolt, München-Leipzig 1922], a cura <strong>di</strong> G. Miglio<br />

e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 49.<br />

8 G. Agamben, op. cit., p. 15.<br />

9 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo attraverso, Garzanti, Milano 1992.<br />

10 B. Croce, Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935, pp. 54-55.<br />

11 E. Garroni, op. cit., p. 72.<br />

12 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio [Kritik der Urteilskraft (1790), in KGS, V] a<br />

cura <strong>di</strong> E. Garroni e M. Hohenegger, Einau<strong>di</strong>, Torino 2001.<br />

13 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione [Der Satz vom Grund (1955-56), Gesamtausgabe<br />

Bd. 10, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1997], tr. it. <strong>di</strong> F.<br />

Volpi, Adelphi, Milano 1991, p. 209.<br />

14 M. Heidegger, Sentieri interrotti [Holzwege (1935-19466), Gesamtausgabe Bd. 5, hrsg.<br />

von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1977], a cura <strong>di</strong> P.<br />

Chio<strong>di</strong>, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 100-101.<br />

15 J. Derrida, Donare la morte [Donner la mort, Galilée, Paris 1999], tr. it. <strong>di</strong> L. Berta,<br />

Jaca Book, Milano 2002.<br />

16 S. Freud, [Das Unbewubte (1915), in GW, vol. 10, S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt<br />

a. M, 1946], tr. it <strong>di</strong> R. Colorni in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol.<br />

8, p. 65.<br />

36<br />

INTRODUZIONE<br />

17 Il breve frammento in due versioni sull’Apokatastasis è uno degli ultimi scritti <strong>di</strong><br />

Leibniz (1715). È stato pubblicato postumo da M. Ettlinger (München 1921) e<br />

rie<strong>di</strong>to da M. Fichant (Paris 1991). In e<strong>di</strong>zione separata è stato pubblicato in italiano,<br />

col titolo Storia universale ed escatologia, a cura <strong>di</strong> R. Celada Ballanti, il melangolo,<br />

Genova 2001.<br />

18 F. Nietzsche, Opere [Frammenti 1887-1888], e<strong>di</strong>zione filologica italo-tedesca a cura<br />

<strong>di</strong> G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, vol. VIII, tomo II, pp. 256-59.<br />

19 Ivi, vol. VI, tomo II, pp. 28-29.<br />

20 M. Heidegger, Nietzsche [Nietzsche I-II, (1936-46), Gesamtausgabe Bd. 6.1-6.2, hrsg.<br />

von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1996-97], ed. it. a<br />

cura <strong>di</strong> F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 22.<br />

21 Ivi, p. 48.<br />

22 Ivi, p. 208.<br />

23 Ivi, p. 568.<br />

24 F. Nietzsche, op. cit., p. 12.<br />

25 Ibidem.<br />

26 Ivi, pp. 258-59.<br />

27 M. Hedegger, Nietzsche, cit., p. 616.<br />

28 Ivi, p. 611.<br />

29 M. Heidegger, Tempo ed essere [Zur Sache des Denkens (1962-64), Gesamtausgabe Bd.<br />

14, hrsg. von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 2007], ed.<br />

it. a cura <strong>di</strong> E. Mazzarella, Guida, Napoli 1987, p. 131.<br />

37


PARTE PRIMA<br />

METAFISICA ED ECONOMIA


Che cos’è la metafisica?<br />

Durante il suo libero volo in una villa<br />

un piccolo pettirosso è entrato in un’aula<br />

affollata dove si teneva lezione e ha lasciato<br />

tutti a bocca aperta, come bambini.<br />

Perché?<br />

La storia, in effetti, era cominciata così…<br />

Ma non affrettiamoci a rispondere.<br />

Senza saperlo, senza che l’avessimo previsto, questo «perché?» ci ha<br />

in realtà già condotto al tema cui è de<strong>di</strong>cata la celebre Prolusione tenuta<br />

da Martin Heidegger all’<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Friburgo il 29 luglio 1929, pubblicata<br />

nello stesso anno sotto il titolo: Che cos’è la metafisica? 1<br />

Muovendo dalle parole con cui Heidegger tenta qui <strong>di</strong> introdurci nella<br />

vicenda della metafisica, in questo e nei successivi due capitoli <strong>di</strong> questo<br />

libro, tenterò <strong>di</strong> articolare lo spazio <strong>di</strong> tre questioni preliminari. E cioè:<br />

1) Qual è la domanda fondamentale da cui è sorto quel sapere che,<br />

nella storia dell’Occidente, va sotto il nome <strong>di</strong> «metafisica»?<br />

2) A partire da quale fondamento, e da quale pensiero o non pensiero<br />

del fondamento, si è venuta costituendo quella tra<strong>di</strong>zione che – da Platone<br />

e Aristotele, attraverso Leibniz, Kant e Hegel – ha trovato il suo<br />

epilogo nell’opera <strong>di</strong> Nietzsche?<br />

3) In che modo la metafisica <strong>di</strong>spiega oggi la sua essenza ormai compiuta?<br />

Cominciamo senz’altro dalla prima questione.<br />

Che cos’è la metafisica? è un testo che nasce da una domanda, e in questa<br />

domanda si trattiene lungo tutto lo svolgimento delle sue argomentazioni:<br />

segnalando in tal modo come «quello che per la metafisica è il<br />

problema, ossia la questione dell’ente come tale nel suo complesso, fa<br />

sì che la metafisica <strong>di</strong>venti problema come metafisica» – come Heidegger<br />

scriverà <strong>di</strong>versi anni dopo, e precisamente nel 1965 2 .<br />

Che cos’è la metafisica? nasce da una domanda essenziale e si conclude<br />

con la formulazione <strong>di</strong> un’ulteriore e in verità più originaria domanda,<br />

41


PARTE PRIMA<br />

e cioè quella che apre alla questione dell’ente come tale; vale a <strong>di</strong>re: «Perché<br />

è in generale l’ente e non piuttosto il niente?» (Warum ist überhaupt Seiendes<br />

und nicht vielmehr Nichts?).<br />

Heidegger, e non soltanto lui, considerava tale questione come la<br />

Grund-Frage; la «domanda fondamentale» della metafisica; potremmo<br />

<strong>di</strong>re: la domanda ontologica per essenza, quella in cui è contenuta e<br />

viene a espressione l’essenza ontologica del domandare.<br />

Come ci ricorda Luigi Pareyson, la domanda fondamentale «si potrebbe<br />

esprimere con altrettanta urgenza o cogenza con il solo Perché;<br />

come del resto fa lo stesso Nietzsche, che nei frammenti del 1887-88<br />

(n. 27) per definire il nichilismo afferma: “Nichilismo: manca il fine;<br />

manca la risposta al ‘perché?’”» 3 .<br />

Questo richiamo a Nietzsche ci fa intravedere da subito come il nichilismo<br />

sia l’esito e insieme il rivolgimento o il capovolgimento della<br />

metafisica; rappresenta – o inaugura – cioè quell’epoca in cui non troviamo<br />

più una «ragione» certa del «perché» delle cose, il «fine» ultimo del<br />

loro accadere, e del loro accadere così come accadono (ma <strong>di</strong>re «certa» la<br />

ragione e «ultimo» il fine, sono, almeno in termini metafisici, dei pleonasmi);<br />

allo stesso modo in cui la morte <strong>di</strong> Dio – preparata da Kant me<strong>di</strong>ante<br />

la <strong>di</strong>struzione dell’ultimo argomento della <strong>di</strong>mostrazione della sua<br />

esistenza, assunta da Hegel nella luce del sacrificio, e annunciata da Nietzsche<br />

nei termini della fine del «mondo vero» o del «soprasensibile» – costituisce<br />

il compimento e insieme la catastrofe dell’onto-teologia.<br />

Così come l’abbiamo ascoltata nel tedesco <strong>di</strong> Heidegger, la domanda<br />

del «perché» è una riformulazione <strong>di</strong> quella proposta da Leibniz più <strong>di</strong><br />

due secoli prima, che in francese e in latino suonava così: Pourquoy il y a<br />

plutôt quelque chose que rien?, Cur aliquid potius existit quam nihil? (Perché c’è<br />

qualcosa piuttosto che niente?). Domanda alla quale – segnandone tutta<br />

l’enigmaticità – Leibniz aggiungeva: Car le rien est plus simple et plus facile que<br />

quelque chose (Poiché il niente è più semplice e più facile <strong>di</strong> qualche cosa).<br />

Per avvicinarci al senso <strong>di</strong> quella che sembra qui una risposta, spostiamoci<br />

<strong>di</strong> nuovo <strong>di</strong> due secoli in avanti, e ascoltiamo questa volta la<br />

voce <strong>di</strong> un poeta (vedremo ben presto che in questa storia i poeti e i filosofi<br />

hanno qualcosa da <strong>di</strong>rsi). Rileggiamo lo strano pensiero <strong>di</strong> Leibniz<br />

sull’essere e il non-essere in due versi <strong>di</strong> Paul Valéry contenuti nel<br />

suo Abbozzo <strong>di</strong> un serpente. Questa volta, come si conviene, incontreremo<br />

la forma esclamativa:<br />

42<br />

Que l’univers n’est qu’un défaut<br />

Dans la pureté du Non-être!<br />

[Che l’universo non è che un <strong>di</strong>fetto<br />

Nella purezza del Non-essere!] 4 .<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

In seguito, quando analizzeremo in modo più ravvicinato alcune proposizioni<br />

leibniziane, vedremo come la «domanda fondamentale»<br />

esprima o sembri esprimere un certo conflitto tra le due gran<strong>di</strong> leggi<br />

che secondo Leibniz governano l’universo: la legge <strong>di</strong> economia e quella<br />

<strong>di</strong> equità. Per ora ci limitiamo ad accennarne solo qualcosa, seguendo<br />

ancora Pareyson in una pagina della sua Ontologia della libertà.<br />

La legge <strong>di</strong> economia stabilisce, nel caso <strong>di</strong> una concorrenza <strong>di</strong> sistemi,<br />

la poziorità (il plutôt, il potius quam, la preferenza o antecedenza)<br />

del sistema più semplice: un ambito problematico che vedremo ritornare<br />

nella Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio (Introduzione, par. V), riformulato da<br />

Kant – in termini <strong>di</strong> «finalità» o <strong>di</strong> «conformità a scopi» (Zweckmäbigkeit)<br />

della natura – attraverso il richiamo <strong>di</strong> alcune leggi o meglio «sentenze<br />

della sapienza metafisica»: la lex parsimoniae (la natura prende il più<br />

breve cammino), la lex continui in natura («natura non facit saltus») e quella<br />

secondo cui principia praeter necessitatem non sunt multiplicanda (l’unità del<br />

molteplice espressa attraverso i principi del conoscere) – leggi che, come<br />

vedremo, Kant ricondurrà al loro significato estetico-economico e al<br />

loro valore soggettivo.<br />

Il secondo principio (la legge <strong>di</strong> equità) che, a giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Leibniz,<br />

governa, insieme alla legge d’economia, la natura o il cosmo (comprese<br />

le faccende umane), stabilisce invece la tendenza del possibile a tradursi<br />

in effettività o attualità, in ragione della (e in proporzione alla) quantità<br />

<strong>di</strong> realtà (realitas) e perfezione (perfectio) che esso contiene. A guardar<br />

bene le cose, dunque, anche il principio <strong>di</strong> equità è un principio economico:<br />

un principio, potremmo <strong>di</strong>re – con un’espressione <strong>di</strong> Bataille, ripresa<br />

da Derrida – <strong>di</strong> economia «ristretta» 5 .<br />

Il conflitto tra le due leggi – un conflitto in verità apparente, che<br />

verrà risolto ricorrendo al principium rationis: la grande scoperta <strong>di</strong> Leibniz<br />

nell’ambito della storia della metafisica – non oppone dunque un<br />

principio economico a qualcos’altro, quanto piuttosto due forme o due<br />

in<strong>di</strong>catori economici. Più avanti ritorneremo in modo più analitico su<br />

questi gran<strong>di</strong> argomenti della metafisica; per ora limitiamoci a osservare<br />

come, dal punto <strong>di</strong> vista della legge <strong>di</strong> economia «generale», che stabili-<br />

43


PARTE PRIMA<br />

sce la preferenza del sistema più semplice, non siamo in grado, a tutta<br />

prima, <strong>di</strong> rendere ragione del fatto che ci sia qualcosa e non piuttosto il<br />

niente, dato che il niente, come scriveva Leibniz, è più «facile» o, come<br />

potremmo anche <strong>di</strong>re, più economico <strong>di</strong> qualcosa. La maggiore semplicità<br />

o economicità del nulla – ciò che c’è, <strong>di</strong>ceva Valéry, non è che un<br />

«<strong>di</strong>fetto nella purezza del Non-essere» – consiste nel fatto che esso realizza<br />

la completa stabilità o inerzia <strong>di</strong> un sistema, dato che a null’altro il<br />

nulla tende che a permanere e a conservarsi (e perciò non compie, in effetti,<br />

alcuno sforzo). E allora: perché c’è qualcosa e non piuttosto<br />

niente? Vedremo come la questione del niente sarà scongiurata da Leibniz<br />

ricorrendo appunto al «principio <strong>di</strong> ragione», il quale esclude il nulla<br />

(gli dà torto) ex principio: non contenendo alcuna realitas nella sua nozione,<br />

il nulla non ha una ragion d’essere, una ratio sufficiens essen<strong>di</strong>. In<br />

altri termini: il principio <strong>di</strong> ragione assicura l’essere o la realtà del reale<br />

anche laddove, in termini <strong>di</strong> economia generale (o, per così <strong>di</strong>re, letterale),<br />

il nulla sembrerebbe avere la meglio.<br />

Sarà poi molto istruttivo – continuiamo a procedere con questo andamento<br />

pendolare – confrontare la questione che qui Leibniz ci fa<br />

scorgere con le considerazioni che Freud svilupperà specialmente in Al<br />

<strong>di</strong> là del principio <strong>di</strong> piacere. Vedremo come qui il «principio <strong>di</strong> realtà» che<br />

governa la psiche, «rimpiazzando» da subito o dall’origine – per rendere<br />

possibile l’instaurarsi <strong>di</strong> un’economia psichica – il «principio <strong>di</strong> piacere»,<br />

non sia che una «conseguenza del principio <strong>di</strong> costanza»; e cioè del fatto<br />

che un sistema (in questo caso l’apparato psichico) mira, nel suo funzionamento,<br />

alla stabilità o all’inerzia 6 . Per ora ricordo soltanto come,<br />

alla base <strong>di</strong> queste osservazioni <strong>di</strong> Freud, insista la questione della morte<br />

e del «perché» della vita; in termini freu<strong>di</strong>ani, quin<strong>di</strong>, la Grundfrage <strong>di</strong><br />

Leibniz e <strong>di</strong> Heidegger potrebbe essere formulata così: perché la vita (il<br />

vivente) e non piuttosto la morte (l’inorganico), dal momento che la<br />

morte è più semplice e più facile – più economica – della vita? E, nel<br />

pensiero <strong>di</strong> Freud, nessuna ragione metafisica – o nessun <strong>di</strong>o onto-teologico:<br />

e avremo modo <strong>di</strong> vedere come, nella metafisica leibniziana, si<br />

tratta della stessa cosa o della medesima causa – può intervenire ad assicurare,<br />

con il suo principio, la risposta a una simile domanda.<br />

Ma restiamo a Leibniz, e seguiamo la gradazione (progressiva o regressiva:<br />

dall’«altro», all’«altrimenti» al «niente») delle sue domande circa<br />

l’ente o l’essere dell’ente.<br />

44<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

1) Cur hoc potius existit quam aliud? (Perché esiste questo piuttosto che<br />

un altro?)<br />

2) Cur sic potius existit quam aliter? (Perché è così piuttosto che altrimenti?)<br />

3) Cur aliquid potius existit quam nihil? (Perché qualcosa esiste piuttosto<br />

che il niente?).<br />

Queste domande vertono sull’ente, o meglio, sull’essere dell’ente;<br />

vale a <strong>di</strong>re, nell’or<strong>di</strong>ne: sul suo essere «questo e non un altro», sul suo essere<br />

«così e non altrimenti» e, infine, sul suo «non-non essere». Ora, la<br />

domanda che per noi assume una maggiore rilevanza rispetto alle altre<br />

è, indubbiamente, la terza. Questa domanda, del resto, è in realtà la<br />

prima, la più originaria. Perché l’ente (o l’essente) è, e cioè: non-non-è?<br />

Si tratta, secondo Aristotele (Metafisica, A 2, 982 b 12-19), come già<br />

per Platone (Teeteto, 155d), <strong>di</strong> una domanda che nasce dallo stupore,<br />

dalla meraviglia (che una cosa sia piuttosto che non essere). È da questa<br />

meraviglia (thaumazein), da questo non sapere che nasce il sapere, il bisogno,<br />

l’amore per il sapere, la filosofia: «Ed è per questo – aggiunge<br />

Aristotele – che anche il poeta (philomythos: colui che ama il mito, che racconta<br />

storie) è, in certo qual modo, filosofo (philosophos)». Valéry insegna.<br />

Questo stupore, però, non è mai a meno – almeno per noi «moderni»<br />

– <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> spaesante, <strong>di</strong> inquietante (unheimlich). Nella successione<br />

delle tre domande <strong>di</strong> Leibniz c’è in effetti una <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong><br />

estraneità che dall’altro e dall’altrimenti si spinge fino al nulla (aliud/aliter/nihil);<br />

una <strong>di</strong>mensione che ci inquieta fino alla vertigine <strong>di</strong> quel «nonnon»,<br />

«piuttosto che non» o «piuttosto che niente»: l’essere o il «c’è» <strong>di</strong><br />

qualcosa come vertigine del nulla, come una sospensione (un librarsi, un<br />

volo) sulla «pureté du Non-être». Come se l’essere si <strong>di</strong>cesse (e ci <strong>di</strong>cesse,<br />

ci comunicasse qualcosa del suo essere) solo attraverso una doppia<br />

negazione: è = non-non-è.<br />

Nella metafisica <strong>di</strong> Leibniz non ci stancheremo <strong>di</strong> sottolineare<br />

l’emergere (forse più che in ogni altro pensatore del suo tempo, e prima<br />

<strong>di</strong> Kant e Schelling) <strong>di</strong> una tensione che ci apparirà ben presto significativa.<br />

Da un lato, Leibniz è il filosofo che ha posto, con la più grande<br />

sensibilità e con il massimo rigore, il carattere «inquietante» (ma l’espressione<br />

è <strong>di</strong> Kant) proprio della contingenza (vale a <strong>di</strong>re: l’essere dell’ente,<br />

dell’esistenza o della realtà, sospesi alla vertigine del nulla, dell’altro e dell’altrimenti);<br />

dall’altro è colui che infaticabilmente ha cercato, con suc-<br />

45


PARTE PRIMA<br />

cessi pari agli insuccessi, <strong>di</strong> contenerne la virulenza, delegandola alla razionalità<br />

<strong>di</strong> un principio ontologico (il principio <strong>di</strong> ragione, appunto) e<br />

<strong>di</strong> un ente (l’Ente necessario, il <strong>di</strong>o della metafisica) che potesse assicurarne,<br />

affrancandola con una ricevuta <strong>di</strong> ritorno, l’intrattabilità. E se è<br />

vero che il suo nome e la sua filosofia sono legati come un manifesto al<br />

«razionalismo ottimistico» (e alla celebre caricatura che ne ha fatto, nel<br />

Can<strong>di</strong>do, Voltaire), non è meno vero che la sua battaglia, ostinatamente<br />

logica, ha finito per esibire nel modo più esplicito (o, appunto, «can<strong>di</strong>do»)<br />

proprio gli squarci o le lacerazioni <strong>di</strong> quel manifesto. Non è dunque<br />

un caso che – pur senza citare il nome <strong>di</strong> Leibniz, almeno nel testo<br />

del ’29, <strong>di</strong> cui cominceremo a occuparci tra un istante – Heidegger abbia<br />

consegnato al nostro tempo inquieto – definendola come la «domanda<br />

fondamentale» della filosofia, e decostruendone successivamente la risposta<br />

metafisico-razionalistica – la questione aperta più <strong>di</strong> due secoli<br />

prima da Leibniz, abbiamo visto, con queste parole: Pourquoy il y a plutôt<br />

quelque chose que rien?<br />

De<strong>di</strong>chiamoci allora, finalmente, a leggere qualche parola e a commentare<br />

qualche proposizione <strong>di</strong> Che cos’è la metafisica?<br />

In questo scritto, Heidegger vuole introdurci nella questione fondamentale<br />

della metafisica (come scienza dell’ente in quanto ente, secondo la<br />

definizione <strong>di</strong> Aristotele) proprio a partire da un momento an-economico<br />

o iper-economico; vale a <strong>di</strong>re da quel ni-ente che in effetti ci si fa<br />

incontro per primo nella formulazione leibniziana del principio <strong>di</strong> ragione<br />

(Nihil…est sine ratione). Ma – ci interroga Heidegger – ci si può<br />

forse interrogare sul niente, ci si può forse chiedere che cosa è? Così facendo<br />

la domanda non si <strong>di</strong>strugge da sola? Eppure…<br />

Eppure già Aristotele osservava come anche del «non-essere <strong>di</strong>ciamo<br />

che “è” non-essere» (Metafisica, IV, 1003 b, 5-11); e, secondo Heidegger,<br />

è soltanto muovendo dalla domanda del niente (doppio genitivo, come<br />

vedremo) che possiamo anche aprire la nostra interrogazione sull’ente<br />

(su che cosa esso è, sull’essere dell’ente) e, quin<strong>di</strong>, sull’essere stesso. Se<br />

le cose stanno così, allora il ni-ente non è la negazione <strong>di</strong> qualcosa; quel<br />

ni-ente è cioè più originario del «non» della negazione (che, precisa con<br />

finezza Heidegger, «viene sempre troppo tar<strong>di</strong>» come la «filosofia negativa»<br />

<strong>di</strong> Hegel e del primo Schelling).<br />

Allora, come sorge la domanda che ci fa sentire il non-non-essere<br />

dell’ente? Questa domanda sorge a partire dal destarsi <strong>di</strong> una Stimmung,<br />

<strong>di</strong> una tonalità affettiva. In primis, Heidegger ricorda la «noia profonda»,<br />

46<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

ma anche la «gioia che nasce in presenza dell’esserci [...] amato» 7 . In ogni<br />

caso, l’aspetto decisivo che emerge dal testo heideggeriano è che l’origine<br />

della domanda fondamentale (Grund-Frage) con la sua peculiare tonalità<br />

affettiva non è tanto opera del fragen, cioè del domandare. È<br />

piuttosto il fragen a sorgere da una tonalità affettiva, da una Befindlichkeit,<br />

da un sentirsi situati nella totalità dell’ente (un sentire nei confronti del<br />

quale i poeti hanno molto da <strong>di</strong>rci). E tuttavia questo sentirsi-situati (<strong>di</strong><br />

cui, ricor<strong>di</strong>amo, Croce parlava come <strong>di</strong> una <strong>di</strong>mensione estetico-economica),<br />

questo sentirsi-<strong>di</strong>-casa nella totalità dell’ente, questa oikonomia<br />

(che tra l’altro si risolve per lo più in un «prendersi cura» delle cose e<br />

darsi da fare con esse) al tempo stesso nasconde, il più delle volte, proprio<br />

il niente da cui sorge. Difatti, noi ci affaccen<strong>di</strong>amo con gli enti forse<br />

proprio per coprire quel niente che emerge precisamente nella Befindlichkeit<br />

della noia o, meglio ancora, dell’angoscia, la quale è bensì un sentirsi<br />

a casa, ma proprio nella modalità del non-sentirsi a casa, dell’essere<br />

spaesati, dell’Unheimlichkeit. Rottura o interruzione, sembra, <strong>di</strong> una certa<br />

economia dall’interno dell’economia; interruzione, potremmo <strong>di</strong>re, dell’economia<br />

ristretta (del prendersi cura degli enti) da parte dell’economia generale,<br />

meta-ontologica o me-ontologica, del nulla; interruzione che<br />

quin<strong>di</strong> è una insorgenza del fondo senza fondo <strong>di</strong> ogni economia. L’angoscia,<br />

quando si desta, ci porta <strong>di</strong>nanzi al niente.<br />

Nel Poscritto del 1949, Heidegger chiama in causa, nella stessa costellazione<br />

emotiva, un’altra tonalità capace <strong>di</strong> una simile interruzione o<br />

epoché non meto<strong>di</strong>ca. Si tratta della <strong>di</strong>sposizione o <strong>di</strong>sponibilità dell’apertura<br />

al «sacrificio essenziale»; che, appunto, ci invita o ci invia al<br />

«congedo dall’ente», e perciò al «favore» del non-ente – e, quin<strong>di</strong>, dell’essere<br />

stesso. Scrive infatti:<br />

Il sacrificio è il congedo dall’ente sulla via che salvaguarda il favore dell’essere.<br />

[...] Il sacrificio non tollera alcun calcolo in base al quale <strong>di</strong> volta<br />

in volta lo si conta come utile o come inutile, siano gli scopi posti in alto<br />

o in basso. Un simile calcolo storpia l’essenza del sacrificio. La brama<br />

<strong>di</strong> scopi turba la chiarezza del timore, pronto all’angoscia, dello spirito<br />

<strong>di</strong> sacrificio 8 .<br />

Il sacrificio essenziale (non con<strong>di</strong>zionato da alcun calcolo economico,<br />

sembra) ci apre al favore dell’essere e alla gratitu<strong>di</strong>ne per l’assoluta<br />

gratuità della sua destinazione e del suo dono. Dovremo vedere – ne ab-<br />

47


PARTE PRIMA<br />

biamo già fatto cenno nell’Introduzione, e lo ritroveremo in modo più<br />

complesso nel pensiero <strong>di</strong> Freud – fino a che punto questa sospensione<br />

o riduzione, questa rottura o incrinatura – rivelante o <strong>di</strong>svelante – nella<br />

trama dell’oikonomia, questa assenza <strong>di</strong> scopi e <strong>di</strong> calcoli <strong>di</strong> utilità sia giustificabile;<br />

e ciò proprio in relazione al sacrificio (e quin<strong>di</strong> anche al dono<br />

dell’essere). Se per un verso è vero che il sacrificio (come un puro dono<br />

senza scambio e valore <strong>di</strong> scambio) sembra interrompere – e insieme<br />

inaugurare – la circolarità del dare-avere, dall’altro resta da chiedersi: c’è<br />

sacrificio puramente gratuito («sovrano», nei termini ancora <strong>di</strong> Bataille),<br />

sacrificio che non si lasci calcolare in termini <strong>di</strong> costi e benefici, <strong>di</strong> utili,<br />

<strong>di</strong> valori e plusvalenze economiche? C’è (si dà) un essere puro, un puro<br />

esse del sacrificio che non si lasci governare da un inter-esse comunitario?<br />

Ed eventualmente: si tratterà in questo caso ancora <strong>di</strong> un «essere» o non<br />

piuttosto <strong>di</strong> un «altrimenti che essere», come in Levinas? C’è sacrificio<br />

senza economia? E, a rovescio: ci sarà mai economia senza sacrificio e<br />

quin<strong>di</strong> investimento e red<strong>di</strong>to, debito e ammortamento?<br />

Le domande che qui rivolgiamo a Heidegger ne portano con sé altre,<br />

forse persino più essenziali. Nel dono – ma anche nell’abbandono o nel<br />

ritrarsi (Entzug) – dell’essere non risuonano forse insieme il senso del<br />

munus e <strong>di</strong> quell’immunitas (quella franchigia, quell’indennizzo) che l’essere<br />

concede ai mortali in cambio del sacrificio con cui questi si votano<br />

alla custo<strong>di</strong>a (Wahrnis) della sua verità (Wahrheit)? Il favore dell’essere (o<br />

del sacro, che ne costituisce la <strong>di</strong>zione poetica) non si rivela qui in quell’essenza<br />

munifica che destina ai mortali il dono dell’indennità e della salvezza?<br />

Nell’offrirsi dei mortali alla custo<strong>di</strong>a dell’essere – ciò che concede<br />

loro la salvaguar<strong>di</strong>a (Wahrung) della propria essenza e del corpo proprio<br />

della loro co-munità o co-immunità – non scorgiamo qui all’opera una<br />

logica o un’economia sacrificale 9 ?<br />

Questioni immense, su cui dovremo tornare. Restiamo per il momento<br />

all’angoscia; in merito alla quale Heidegger scrive: «Nell’angoscia,<br />

noi <strong>di</strong>ciamo, “uno è spaesato”». Proprio come quando ci assale la<br />

noia autentica, quella «noia profonda» in<strong>di</strong>cata dalla frase: «uno si annoia»<br />

(letteralmente: «a uno esso è noioso», Es ist einem langweilig 10 ). È<br />

importante l’espressione «uno»: è importante che si tratti <strong>di</strong> uno, dato<br />

che quell’uno (ein) è ora un nessuno (Niemand) o un non-uno (kein).<br />

«L’an go scia rivela il niente», come del resto si vede quando essa – si <strong>di</strong>ce,<br />

uno o non-uno, uno e nessuno, <strong>di</strong>ce – passa o se ne va; o meglio, quando<br />

viene sostituita da un’altra tonalità emotiva. Quando ciò accade, l’an-<br />

48<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

goscia in realtà non scompare, ma, per così <strong>di</strong>re, va a fondo, ritorna al<br />

fondo, s’immerge in quel sottofondo senza fondo (kein o Es) dove non<br />

cessa <strong>di</strong> <strong>di</strong>morare latente, o meglio <strong>di</strong> scorrere e <strong>di</strong>scorrere, anche se<br />

ora, sopraffatta dagli acuti frivoli dell’orchestra, non avvertiamo più la<br />

sua sorda tonalità continua.<br />

Che cosa accade, dunque, quando l’angoscia se ne va (giù)? Allora ci<br />

capita <strong>di</strong> <strong>di</strong>re: «Non era niente». E, infatti, era niente, era il niente venuto<br />

a visitarci. La visita <strong>di</strong> un’estraneità assoluta.<br />

Il non-sentirsi-a-casa caratteristico dell’angoscia è dunque anche –<br />

anzi: è già sempre – un essere-<strong>di</strong>-casa-in-essa, così come il sentirsi-a-casa è<br />

originariamente un non-sentirsi-a-casa. Ma proprio questo privativo<br />

non-sentirsi-a-casa è la con<strong>di</strong>zione che ci permette <strong>di</strong> accedere al nostro<br />

«essere-nel-mondo».<br />

Per affrontare una simile questione in modo altrettanto profondo,<br />

ma da un’altra angolatura, dovremmo rifarci a un testo <strong>di</strong> Freud intitolato<br />

Das Unheimliche 11 . Qui, proprio come Heidegger, Freud parla dell’angoscia<br />

e dello spaesamento. E ci <strong>di</strong>ce che un-heimlich è ciò che «una<br />

volta» era, o sarà stato, heimlich. Ciò che ora ci appare come inquietante<br />

e perturbante è quello stesso che un tempo ci faceva sentire in famiglia, a<br />

casa o <strong>di</strong> casa, appartenenti alla nostra oikia. Il valore dell’unheimlich è<br />

infatti (anche linguisticamente, ci ricorda Freud nella sua analisi) già contenuto<br />

nell’heimlich, che per un verso è il benessere economico, il comfort<br />

familiare, mentre per l’altro, al tempo stesso (o meglio, nel gioco<br />

della ripetizione e della conversione, dell’«una volta» e del suo ritorno),<br />

è lo spaesante-del-familiare. Scrive Freud:<br />

“Heimlich”, tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra<br />

anche una in cui coincide col suo contrario, “unheimlich”. “Heimlich” è<br />

quin<strong>di</strong> un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente,<br />

fino a coincidere in conclusione col suo contrario: unheimlich. Unheimlich<br />

è in un certo modo una variante <strong>di</strong> heimlich. 12<br />

Incrinatura dell’economico nell’economico. Il sentimento minaccioso<br />

dell’estraneità altro non è che il ritorno spettrale, la ripetizione inquietante<br />

<strong>di</strong> ciò che da sempre abitava l’intimità del focolare domestico. Nel più<br />

proprio del «proprio» è iscritto un tratto ghastly, demoniaco, <strong>di</strong>struttivo –<br />

anzi – auto<strong>di</strong>struttivo. Attraverso la sua tensione o pulsione a «legare» –<br />

unificare, assimilare, interiorizzare, addomesticare, naturalizzare, appro-<br />

49


PARTE PRIMA<br />

priare – il circolo dell’oikonomia ci rivela qui, non soltanto una non chiusura,<br />

un tratto scucito o mal cucito, ma anche l’emergere e la proliferazione<br />

<strong>di</strong> una potenza tanto spaventosa da convertire il suo <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong><br />

protezione in una sindrome autoimmune. Del resto, il racconto <strong>di</strong> Hoffmann<br />

(Der Sandmann) attraverso cui Freud illustra – richiamandosi all’eterno<br />

ritorno dell’uguale <strong>di</strong> Nietzsche – l’emergere dell’unheimlich (il<br />

demoniaco) dall’heimlich (l’agio, la fidatezza, l’intimità rassicurante della<br />

vita familiare) narra il precipizio <strong>di</strong> un autoannientamento.<br />

Tornando a Heidegger, osserviamo come per lui l’Unheimlichkeit non<br />

è mai significata o rappresentata dall’estraneità <strong>di</strong> uno straniero o <strong>di</strong> un<br />

estraneo che sopraggiunge e bussa alla porta della nostra casa. Non è la<br />

visita <strong>di</strong> un clandestino (o, come in Freud, dell’Es), non è (anche se sembra,<br />

ma sembra soltanto) la venuta <strong>di</strong> un altro o dell’Assolutamente<br />

Altro, <strong>di</strong> Dio o <strong>di</strong> un <strong>di</strong>o. Quel clandestino che chiede ospitalità sono io<br />

stesso, il (presunto) padrone <strong>di</strong> casa. Egli viene, e io non mi riconosco;<br />

eppure egli non è altri che me, me come altri, perduto tra gli altri. Chi<br />

bussa davvero alla porta <strong>di</strong> quell’oikos, non è l’ignoto, ma il nulla e la<br />

morte che da sempre ne abitavano l’oikonomia.<br />

Leggiamo ancora. Facciamoci guidare da Heidegger, ripercorrendo<br />

il suo cammino. Ba<strong>di</strong>amo più alle vie per le quali, insieme a lui, stiamo<br />

procedendo e meno (o per nulla) ai suoi segnavia e alle sue <strong>di</strong>vise più o<br />

meno ufficiali (sono, quasi sempre, le cose più caduche <strong>di</strong> ogni filosofo<br />

e, più in generale, <strong>di</strong> ogni uomo): «L’essere tenuto immerso dell’esserci<br />

nel niente sul fondamento dell’angoscia latente è ciò che fa dell’uomo<br />

il luogotenente del niente». Veniamo al nocciolo della questione leggendo<br />

queste parole:<br />

Se il niente <strong>di</strong>venta in qualche modo problema, [...] allora si risveglia<br />

anche la vera e propria domanda metafisica intorno all’essere dell’ente 13 .<br />

A questo punto, Heidegger cita un passo <strong>di</strong> Hegel tratto da La scienza<br />

della logica, dove si può leggere: «Il puro essere e il puro niente è dunque<br />

lo stesso». Questa «tesi <strong>di</strong> Hegel», su cui torneremo a suo tempo, «è legittima»;<br />

ma, afferma Heidegger, solo fino ad un certo punto. «Essere<br />

e niente fanno tutt’uno, ma non perché entrambi, dal punto <strong>di</strong> vista del<br />

concetto hegeliano del pensiero, coincidono nella loro indeterminatezza<br />

e imme<strong>di</strong>atezza» (e vanno dunque «superati» o «rilevati», per Hegel, in<br />

modo <strong>di</strong>alettico, attraverso il lavoro del negativo); quanto piuttosto per<br />

50<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

il fatto che «se è vero che la domanda dell’essere in quanto tale avvolge<br />

l’intera metafisica, allora anche la domanda del niente avvolge l’intera<br />

metafisica» 14 . E il razionalismo e il nichilismo non sono che due facce<br />

della stessa medaglia (o meglio, moneta).<br />

Muovere dal niente – e dall’esperienza che ne fa l’esserci quando sopraggiunge<br />

il senso dell’estraneità ed emerge l’angoscia – per arrivare a<br />

porre la questione dell’essere è certo una mossa inconsueta, eppure è<br />

quella che Heidegger ci invita a compiere – riprendendo e convertendo<br />

l’ontologia <strong>di</strong> Leibniz – per cogliere l’essenza della metafisica e, eventualmente,<br />

oltrepassarla.<br />

Come se – giochiamo qui a confondere i lessici <strong>di</strong> Heidegger, <strong>di</strong><br />

Nietzsche e <strong>di</strong> Freud – l’avvertimento della pervasività del nulla non<br />

fosse che una variante, una coincidenza a contrario dell’essere e dell’interpretazione<br />

dell’essere propria della metafisica. Come se il nichilismo<br />

fosse la rivelazione o il <strong>di</strong>svelamento dell’essenza e del fondamento<br />

stesso dell’ontologia razionalistica.<br />

Leggiamo ancora:<br />

Solo perché il niente è manifesto nel fondo dell’esserci, può soprassalirci<br />

il senso della completa estraneità dell’ente, e solo se questa estraneità ci<br />

angustia, l’ente ridesta e attira su <strong>di</strong> sé lo stupore. Solo sul fondamento<br />

dello stupore, ossia dell’evidenza del niente, sorge il “perché” 15 .<br />

È da qui che nasce la metafisica o quella sua parte (se lo è) che come<br />

scienza dell’ente in quanto ente, come la definiva Aristotele, è stata chiamata<br />

ontologia (anche se né «metafisica» né «ontologia» sono parole che appartengono<br />

ad Aristotele, come vedremo). È da qui che, secondo Heidegger,<br />

occorre muovere per cogliere quell’essenza della metafisica che<br />

la metafisica stessa (da Aristotele a Nietzsche) non è stata in grado <strong>di</strong> cogliere.<br />

Le ultime precisazioni fornite da Heidegger intendono segnalare<br />

come domande del genere <strong>di</strong> quelle che qui abbiamo riproposto non<br />

costituiscano un esercizio scolastico e, quin<strong>di</strong>, come la metafisica (e cioè<br />

la forma che la filosofia o il pensiero occidentale hanno assunto a partire<br />

dal mondo greco) non sia meramente «un settore della filosofia universitaria».<br />

Essa è «l’acca<strong>di</strong>mento fondamentale nell’esserci», poiché<br />

mette in causa l’esserci nella sua effettività o fatticità. È per questa ragione<br />

che Heidegger, come spiega egli stesso e come noi abbiamo fatto<br />

51


PARTE PRIMA<br />

con lui, non ci ha presentato «la metafisica dall’esterno», né ha voluto<br />

«trasferirci in essa». Infatti «noi non possiamo trasferirci in alcun modo<br />

nella metafisica, perché, in quanto esistiamo, siamo già da sempre in<br />

essa» 16 . Occorre «lasciar librare fino in fondo questo nostro essere sospesi,<br />

affinché esso ritorni costantemente alla domanda fondamentale<br />

della metafisica, a cui il niente stesso ci costringe: Perché è in generale<br />

l’ente e non piuttosto il niente?» 17 .<br />

E per <strong>di</strong>mostrare come la metafisica riguar<strong>di</strong> l’essenza dell’esserci<br />

umano, Heidegger cita una frase del Fedro <strong>di</strong> Platone (279 a), da lui riscritta,<br />

reinterpretata così: «In quanto esiste l’uomo, accade il filosofare».<br />

Al passo del Fedro appena citato da Heidegger, mi piace aggiungere,<br />

in conclusione, un ultimo richiamo. Anch’esso ci parlerà <strong>di</strong> nulla e <strong>di</strong><br />

nessuno, <strong>di</strong> domande, <strong>di</strong> perché e <strong>di</strong> domande sul perché e sul perché<br />

del perché. E, dato che si tratterà <strong>di</strong> un testo letterario, illustrerà anche<br />

la sentenza <strong>di</strong> Aristotele relativa a una certa comunanza tra i poeti (o i<br />

narratori) e i filosofi.<br />

Questo richiamo ci viene da un racconto <strong>di</strong> una grande poetessa<br />

russa, Marina Cvetaeva, intitolato Mia madre e la musica. La scena ci descrive<br />

quanto <strong>di</strong> più intimo e familiare si possa immaginare: una<br />

mamma, la sua bambina, un pianoforte. Ma ecco, d’improvviso, queste<br />

strane parole:<br />

Mamma (era la sua ultima estate, l’ultimo mese dell’ultima estate) perché<br />

a te Warum riesce in modo del tutto <strong>di</strong>verso? [Warum? in tedesco significa<br />

perché?, ma Warum è anche il titolo <strong>di</strong> alcune celebri Variazioni <strong>di</strong><br />

Schumann]. “Warum – Warum” scherzò la mamma adagiata sui cuscini.<br />

E, cancellando il sorriso dal volto: “Ecco, quando sarai cresciuta e ti<br />

guarderai in<strong>di</strong>etro e ti domanderai Warum tutto è successo così – come<br />

è successo, Warum nulla è andato bene, non solo a te, ma a tutti, a chi<br />

hai amato, a chi hai suonato – nulla a nessuno – allora saprai anche suonare<br />

Warum. Ma fino a quel momento – fai del tuo meglio” 18 .<br />

Sorriso e oscurarsi <strong>di</strong> quel sorriso, meraviglia e angoscia (consapevole).<br />

Tutti i bambini, in un periodo della loro infanzia, chiedono infaticabilmente<br />

perché? (In questo senso anche i filosofi col parruccone <strong>di</strong><br />

Leibniz o i baffi <strong>di</strong> Heidegger devono essere rimasti e, probabilmente,<br />

è bene che rimangano un po’ bambini, «can<strong>di</strong><strong>di</strong>»). Perché? Perché i bambini<br />

chiedono sempre perché? Lo fanno, si <strong>di</strong>ce, perché devono attivare<br />

52<br />

CHE COS’È LA METAFISICA?<br />

la funzione metalinguistica, che li rende capaci <strong>di</strong> adoperare il linguaggio.<br />

Con Heidegger, potremmo anche <strong>di</strong>re che lo fanno per <strong>di</strong>ventare<br />

«animali razionali», che è quanto <strong>di</strong>re, per lui, «metafisici». Lo fanno per<br />

accedere e prendere <strong>di</strong>mora nella metafisica in cui tutti siamo, che lo<br />

sappiamo o no, che lo vogliamo o meno. E magari anche per riscriverla<br />

o decostruirla, per riscriverla e decostruirla, come hanno fatto Aristotele,<br />

Leibniz, Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger…<br />

_______________<br />

1 Contenuto in M. Heidegger, Segnavia [Wegmarken (1919-61), Gesamtausgabe Bd.9,<br />

hrsg. von F. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1976], a cura <strong>di</strong> F.<br />

Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 59-77.<br />

2 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (Osservazioni preliminari alla terza<br />

e<strong>di</strong>zione) [Kant und das Problem der Metaphysik (1929), Gesamtausgabe Bd. 3, hrsg.<br />

von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1991], tr. it. a cura<br />

<strong>di</strong> E.M. Reina e V. Verra, Laterza, <strong>Roma</strong>-Bari 1981, p. 8.<br />

3 L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einau<strong>di</strong>, Torino 1995, p. 354.<br />

4 P. Valéry, Abbozzo <strong>di</strong> un serpente in Opere poetiche [Ébauche d’un serpent (1921), in<br />

Œuvres, Gallimard, Paris 1957, vol. I (Poésies)], tr. it. <strong>di</strong> G. Pontiggia, Guanda<br />

E<strong>di</strong>tore, Parma 1989, p. 180.<br />

5 J. Derrida, Dall’economia generale all’economia ristretta, in Id., La scrittura e la <strong>di</strong>fferenza<br />

[L’écriture et la <strong>di</strong>fférence, Le Seuil, Paris 1967], tr. it. <strong>di</strong> G. Pozzi, Einau<strong>di</strong>, Torino<br />

pp. 325-358.<br />

6 S. Freud, Al <strong>di</strong> là del principio <strong>di</strong> piacere in Opere [Jenseits des Lustprinzips (1920), in<br />

GW 13], tr. it. <strong>di</strong> A. M. Marietti e R. Colorni, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino<br />

1989, pp. 193-249.<br />

7 Questo richiamo all’amore non si ripresenterà volentieri nelle successive opere<br />

<strong>di</strong> Heidegger, essendo probabilmente il frutto <strong>di</strong> una stagione <strong>di</strong> vita particolare:<br />

siamo nel 1929, l’amore per Hannah Arendt, i comuni stu<strong>di</strong> sull’opera <strong>di</strong> Sant’Agostino,<br />

la definizione dell’amore propria <strong>di</strong> quest’ultimo – Amo: volo ut sis…<br />

8 M. Heidegge, Poscritto a «Che cos’è la metafisica?», in Id., Segnavia, cit., p. 264-65.<br />

9 Per un approfon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> questi temi, oltre ai lavori <strong>di</strong> Bataille e Derrida, cfr. in<br />

particolare: J.-L. Nancy, La comunità inoperosa [La communauté désoeuvrée, Christian<br />

Bourgois E<strong>di</strong>teur , Paris 1986 e 1990], ed. it. a cura <strong>di</strong> A. Moscati, E<strong>di</strong>zioni Conopio<br />

2002 2 ; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einau<strong>di</strong>, Torino<br />

1998, e Id., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einau<strong>di</strong>, Torino 2002.<br />

10 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitu<strong>di</strong>ne,<br />

[Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (1929-30), Gesamtausgabe<br />

Bd. 29/30, hrsg. von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt<br />

a. M. 1983], ed. it. a cura <strong>di</strong> C. Angelino, il melangolo, Genova 1999.<br />

53


PARTE PRIMA<br />

11 S. Freud, Il perturbante [Das Unheimliche (1919), in GW 12], tr. it. <strong>di</strong> S. Daniele, in<br />

Opere, cit., vol. 9, pp. 81-118.<br />

12 Ivi, pp. 86-87.<br />

13 M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, cit., p. 75.<br />

14 Ibidem.<br />

15 Ivi., p. 76.<br />

16 Ivi, p. 77.<br />

17 Ibidem.<br />

18 M. Cvetaeva, Mia madre e la musica, in Id., Il <strong>di</strong>avolo [Mat’i muzyka (1935), in Izbrannaja<br />

proza v dvuch tomach 1917-1937, New York 1979], tr. it. <strong>di</strong> L. Montagnani,<br />

E<strong>di</strong>tori Riuniti, <strong>Roma</strong> 1990, p. 72.<br />

54<br />

Ragione e fondamento<br />

Pren<strong>di</strong>amo ora più <strong>di</strong>rettamente in esame quello che Leibniz considerava,<br />

accanto al principio <strong>di</strong> identità, il principio fondamentale della filosofia,<br />

e cioè, appunto, il principio del fondamento (o principio <strong>di</strong> ragione).<br />

Ricordo come alla filosofia leibniziana e alla questione del fondamento<br />

Heidegger abbia de<strong>di</strong>cato numerosi scritti, tra cui Vom Wesen des<br />

Grundes (Dell’essenza del fondamento) del 1929 (lo stesso anno <strong>di</strong> pubblicazione<br />

<strong>di</strong> Che cos’è la metafisica?), l’ultimo corso marburghese del semestre<br />

estivo del 1928, intitolato ai Principi metafisici della logica, e Der Satz vom<br />

Grund (Il principio <strong>di</strong> ragione; alla lettera: «La frase del fondamento») che<br />

si compone <strong>di</strong> due testi: una silloge delle lezioni dell’anno 1955-56 e<br />

una conferenza del 1956 1 .<br />

Che cos’è il principio <strong>di</strong> ragione? Richiamando la frase che abbiamo<br />

rubato a Heidegger e assunto come parola-guida o lasciapassare del nostro<br />

viaggio nell’oikonomia, potremmo rispondere che il principio <strong>di</strong> ragione<br />

è l’equivalente <strong>di</strong> un’assicurazione sulla vita. Un ottimo investimento<br />

per orientarsi nella molteplicità delle infinite cose che sono e che succedono<br />

nel mondo. Che cosa afferma, infatti, attraverso la sua doppia<br />

negazione (nihil est sine ratione), il principio del fondamento? Afferma<br />

che omne ens habet rationem; e cioè, alla lettera (ma non nello spirito, come vedremo),<br />

ciò che ci <strong>di</strong>ce un celebre motto <strong>di</strong> Hegel contenuto nella Prefazione<br />

alla Filosofia del <strong>di</strong>ritto, e ripreso nella forma <strong>di</strong> un <strong>di</strong>stico quasi<br />

poetico nell’Enciclope<strong>di</strong>a: «Ciò che è razionale (vernünftig) è reale (wirklich),/<br />

e ciò che è reale è razionale» 2 . Vale a <strong>di</strong>re: ciò che ha una ragione<br />

per essere – è. E ciò che è – avrà o avrà avuto una ragione per essere (la<br />

categoria grammaticale del futuro anteriore è sempre il segno <strong>di</strong> un’astuzia<br />

logico-ontologica ed economica, <strong>di</strong> una «frase del fondamento» più<br />

o meno esplicita o nascosta).<br />

Sulle prime, affermazioni come quella espressa dal principio <strong>di</strong> ragione<br />

ci lasciano perplessi. Heidegger si chiede, ad esempio, se la frase<br />

nihil est sine ratione sia una constatazione o una regola. Ora: che sia una<br />

constatazione risulta imme<strong>di</strong>atamente poco sostenibile; se invece si tratta<br />

<strong>di</strong> una regola, allora dovremmo stabilire <strong>di</strong> che tipo <strong>di</strong> regola si tratti.<br />

55


PARTE PRIMA<br />

Vedremo come nella terza Critica, senza mai nominarlo in modo<br />

esplicito, Kant assume criticamente (sotto il nome <strong>di</strong> «principio <strong>di</strong> conformità<br />

a scopi») il principium rationis proprio come una regola; o – più<br />

precisamente – come una «massima» che la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio «dà a se<br />

stessa» per orientarsi nel «labirinto» della molteplicità e della contingenza.<br />

Leibniz stesso, del resto, ricorre alla frase del fondamento (Satz<br />

vom Grund) come a una norma che deve dare ragione o render conto (reddere<br />

rationem, logon <strong>di</strong>domai) delle cose contingenti, delle verità <strong>di</strong> fatto.<br />

Il principio <strong>di</strong> ragione è stato scoperto dopo un periodo <strong>di</strong> «incubazione»<br />

o <strong>di</strong> latenza – precisa Heidegger – durato quanto l’intera tra<strong>di</strong>zione<br />

filosofica che sta alle spalle della metafisica <strong>di</strong> Leibniz; e cioè, più<br />

o meno, 2.300 anni. E, in effetti, esso è una formula che, come molte<br />

famose proposizioni fondamentali della filosofia, è per un verso autografa<br />

– reca infatti la firma unica <strong>di</strong> Leibniz – e, per l’altro, apocrifa.<br />

Del principio <strong>di</strong> ragione, Leibniz parla a volte come <strong>di</strong> un «nobilissimo<br />

principio», a volte come <strong>di</strong> un «assioma volgare». Queste due opposte<br />

affermazioni non sono in realtà in contrad<strong>di</strong>zione tra loro: si tratta<br />

in ogni caso <strong>di</strong> confermarne una vecchia <strong>di</strong>scendenza, nobile o popolare<br />

che sia. La frase del fondamento si può ritrovare – un esempio tra<br />

altri esempi possibili – in un passo <strong>di</strong> Clemente <strong>di</strong> Alessandria per noi<br />

particolarmente significativo, dato che collega esplicitamente economia<br />

e principio <strong>di</strong> ragione. Ripetendo «idee correnti nella cultura alessandrina<br />

del suo tempo», Clemente scriveva: «Bella è l’economia [oikonomia]<br />

del creato, tutto è bene amministrato, nulla avviene senza ragione» 3 .<br />

Ma il senso del principio <strong>di</strong> ragione si potrebbe già ritrovare – in modo<br />

implicito o in fase <strong>di</strong> incubazione, come si esprime Heidegger – anche<br />

in Aristotele; per esempio in questa formulazione: «Noi cerchiamo <strong>di</strong><br />

comprendere qualcosa quando riteniamo <strong>di</strong> conoscere il perché qualcosa<br />

è, quando pensiamo che questo qualcosa abbia una ragione» (Aristotele,<br />

Analitici Secon<strong>di</strong>, I, 71b.). E gli esempi si potrebbero moltiplicare:<br />

Leibniz aveva dunque ragione nel considerare il principio dei principi<br />

come un assioma nobilissimo e al tempo stesso volgare. Ciò che in ogni<br />

caso fa la <strong>di</strong>fferenza rispetto alle intenzioni <strong>di</strong> una lunghissima tra<strong>di</strong>zione<br />

– ed è per questo che si può parlare <strong>di</strong> una «scoperta» a opera <strong>di</strong><br />

Leibniz – è l’assunzione della frase del fondamento a principio <strong>di</strong> ragione,<br />

a principio della ragione.<br />

Come tutto ciò che è apocrifo, anche la frase del fondamento non ha<br />

una formulazione unica, stabile, sicura: neppure nello stesso Leibniz.<br />

56<br />

RAGIONE E FONDAMENTO<br />

La sua enunciazione più nota, nihil est sine ratione, a volte è integrata (o<br />

spiegata) con seu nullus effectus sine causa, ossia nessun effetto (è) senza<br />

causa: ciò che non è affatto lo stesso, e Leibniz lo sapeva benissimo.<br />

Nella Monadologia (Par. 31-33), Leibniz scrive: Duo sunt prima principia...<br />

Principium contra<strong>di</strong>ctionis... et principium reddendae rationis. In altri contesti<br />

troviamo il principio <strong>di</strong> ragione espresso da queste parole: Nihil existere<br />

nisi cujus red<strong>di</strong> potest ratio existentiae sufficiens, niente esiste senza che <strong>di</strong> esso<br />

possa rendersi una ragione sufficiente <strong>di</strong> esistenza. E, <strong>di</strong> nuovo, un principio<br />

che afferma la ragione sufficiente come causa o ragion d’essere<br />

dell’essere o dell’esistenza <strong>di</strong> qualcosa è una cosa <strong>di</strong>versa da un principio<br />

che deve rendere ragione <strong>di</strong> un’affermazione o <strong>di</strong> una proposizione.<br />

Nel primo caso abbiamo a che fare con il fondamento che riguarda l’essere<br />

degli enti (<strong>di</strong> ogni ente), nel secondo con una regola che concerne<br />

la loro conoscenza e i mo<strong>di</strong> della nostra conoscenza. Nel primo caso,<br />

con un significato «ontico» (o «ontologico»), nel secondo, con un valore<br />

«logico». E tuttavia, questa duplicità logico-ontologica – chiamiamola<br />

provvisoriamente così – costituisce proprio il punto essenziale. Essa ci<br />

conduce infatti a un’in<strong>di</strong>cazione che risale alle origini del pensiero greco,<br />

a quell’identità tra essere e pensiero che, da Parmenide a Hegel, ha costituito<br />

la parola-guida della metafisica; un’in<strong>di</strong>cazione che – accolta in<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versissimi tra loro – ritroveremo tanto nella Metafisica <strong>di</strong> Aristotele<br />

quanto nella Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Kant e nella Scienza della<br />

logica <strong>di</strong> Hegel – se non vogliamo includervi anche la «soluzione» <strong>di</strong> Heidegger.<br />

Per quanto riguarda Leibniz, vedremo come la sua risposta sarà<br />

trovata nella dottrina della sostanza in<strong>di</strong>viduale o della monade.<br />

Le <strong>di</strong>fferenze che abbiamo rinvenuto nella formulazione della frase<br />

del fondamento pongono una domanda cruciale: il principio <strong>di</strong> ragione<br />

è un principio logico o metafisico (ontologico)? Serve a rendere ragione<br />

della verità <strong>di</strong> una proposizione o fornisce la ragione (sufficiente) per<br />

giustificare l’esistenza degli enti – e più precisamente il fatto che un<br />

certo ente sia questo e non un altro, sia così e non altrimenti, o semplicemente<br />

sia piuttosto che non-essere? E ancora, ulteriore questione: se, com’è evidente,<br />

il principio <strong>di</strong> ragione non è una regola empirica, <strong>di</strong> che tipo <strong>di</strong><br />

regola si tratta? È forse – proviamo a formulare il problema in linguaggio<br />

kantiano – un principio logico-intellettuale? E, in questo caso, si<br />

tratta <strong>di</strong> un principio <strong>di</strong> carattere formale o trascendentale? Di un principio<br />

costitutivo o regolativo? Di un principio proprio della ragione o <strong>di</strong> una<br />

regola del giu<strong>di</strong>zio?<br />

57


PARTE PRIMA<br />

A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Leibniz, Kant non de<strong>di</strong>ca molto spazio al principio<br />

<strong>di</strong> ragione. Secondo Heidegger, ciò <strong>di</strong>pende dal fatto che «la tesi del<br />

fondamento, il principium rationis, domina nel pensiero <strong>di</strong> Kant in modo<br />

eccelso, e precisamente <strong>di</strong>etro la formula «con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità a<br />

priori» 4 . Questa affermazione non è del tutto con<strong>di</strong>visibile, o almeno<br />

non lo è alla lettera e in ogni senso: a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Leibniz, le kantiane<br />

«con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità dell’esperienza» non riguardano alcun fondamento<br />

ontico-ontologico delle cose quanto piuttosto <strong>di</strong>sposizioni logicotrascendentali<br />

relative a un soggetto conoscente (e tra queste<br />

<strong>di</strong>sposizioni a priori non figura in Kant il principio <strong>di</strong> ragione); non rispondono<br />

ad alcuna domanda sul perché <strong>di</strong> qualcosa, ma appunto alla questione:<br />

«Che cosa posso conoscere?». Una conferma <strong>di</strong> ciò ci viene dal<br />

testo della Logica, dove Kant considera il principio <strong>di</strong> ragione come un<br />

principio <strong>di</strong> tipo logico-formale. Scrive, infatti, proprio come Leibniz:<br />

I criteri formali della verità nella logica sono:<br />

1) il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione;<br />

2) il principio <strong>di</strong> ragion [Grund] sufficiente 5 .<br />

Col primo è determinata la possibilità logica, col secondo la realtà logica <strong>di</strong><br />

una conoscenza. Nella verità logica della conoscenza rientra appunto:<br />

In primo luogo: che essa sia logicamente possibile, cioè che non si contrad<strong>di</strong>ca.<br />

[...]<br />

In secondo luogo: che essa sia logicamente fondata, cioè che 1) abbia ragioni<br />

che la fon<strong>di</strong>no [Gründe] e 2) non abbia conseguenze false 6 .<br />

E, a proposito dell’ultimo punto, Kant aggiunge un’osservazione importante:<br />

Dalla conseguenza si può risalire al fondamento, ma senza poter determinare<br />

tale fondamento. Solo ed esclusivamente dalla totalità <strong>di</strong> tutte<br />

le conseguenze si può concludere che un fondamento determinato è<br />

quello vero 7 .<br />

Come vedremo, Kant ripropone qui criticamente – <strong>di</strong>struggendone<br />

cioè il valore ontologico, anzi, onto-teologico – un famoso e decisivo argomento<br />

che ritroveremo in Leibniz. Riformuliamo il pensiero <strong>di</strong> Kant,<br />

anticipando un punto saliente della sua revisione critica su cui torneremo<br />

a suo tempo: sarebbe possibile determinare il fondamento <strong>di</strong> qual-<br />

58<br />

RAGIONE E FONDAMENTO<br />

cosa solo a con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poter decidere <strong>di</strong> «tutte le conseguenze» che<br />

da esso derivano; ciò che appunto aspira a fare la metafisica della ragione<br />

pura, ma è impossibile da raggiungere attraverso una conoscenza<br />

intellettuale-e-sensibile, vale a <strong>di</strong>re, in termini kantiani, una conoscenza<br />

d’esperienza.<br />

Dal passo che abbiamo citato, ci appare dunque come Kant accolga<br />

il principio <strong>di</strong> ragion sufficiente soltanto in termini <strong>di</strong> logica formale, e<br />

con valore regolativo e non costitutivo per la conoscenza. L’interpretazione<br />

<strong>di</strong> Heidegger – che, per ragioni che ho già accennato, a me pare non del<br />

tutto convincente – considera le kantiane con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità dell’esperienza<br />

(i «principi sintetici dell’intelletto puro») come riformulazioni<br />

o riproposizioni del principio <strong>di</strong> ragion sufficiente (ciò che lo<br />

porterà a considerare la Critica della ragione pura come una rifondazione,<br />

anzi, come la fondazione più genuina della metafisica):<br />

Il pensiero <strong>di</strong> Kant è la critica della ragione pura, della ratio pura. Secondo<br />

Kant la ragione è la facoltà dei principi, e cioè delle tesi fondamentali,<br />

del dare fondazione. Già in base a questi accenni balza agli<br />

occhi che la tesi del fondamento, il principium rationis, domina nel pensiero<br />

<strong>di</strong> Kant in modo eccelso. Proprio per questo motivo Kant parla<br />

solo raramente della tesi del fondamento 8 .<br />

In realtà, la costituzione trascendentale dei principi della Critica della<br />

ragione pura è invocata da Kant proprio per superare l’ambivalenza (o<br />

l’«anfibolia») tra valore logico e significato ontico del principio <strong>di</strong> ragione<br />

<strong>di</strong> Leibniz, e per spezzare così quella continuità tra principi (intellettuali-e-sensibili)<br />

della conoscenza e principi (razionali) del pensiero che<br />

domina nel razionalismo leibniziano. Ciò naturalmente non toglie nulla<br />

al fatto che «il problema della metafisica» (per esprimerci con il celebre<br />

titolo heideggeriano 9 ) costituisca il cuore della filosofia <strong>di</strong> Kant. Sono<br />

però convinto che, per scorgere una ripresa della tesi del fondamento<br />

nell’ambito della tra<strong>di</strong>zione filosofica post-leibniziana, non si debba<br />

guardare tanto alla prima Critica, quanto piuttosto alla terza, la Critica<br />

della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio; e al modo in cui vengono qui rivisitate le proposizioni<br />

fondamentali, non nella Logica ma nella Dialettica trascendentale.<br />

Nella terza Critica, in effetti, Kant «riforma» il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong><br />

Leibniz nella sua versione ontologico-esistenziale, e per la sua valenza<br />

nel campo delle verità contingenti; e lo «riformula» criticamente come<br />

59


PARTE PRIMA<br />

principio <strong>di</strong> finalità o <strong>di</strong> conformità a scopi. Ci torneremo tra non molto.<br />

Per ora restiamo a Leibniz.<br />

Rendere ragione <strong>di</strong> qualcosa significa trovarne la ragion d’essere (la ragione<br />

che ne giustifica l’essere) e così rispondere alla domanda circa il suo «perché?»;<br />

vale a <strong>di</strong>re: quale ne è lo scopo o il fine? E se questa è la giustificazione<br />

ultima delle cose – la loro comprensione, propriamente,<br />

metafisica: e sarà così, anche se in mo<strong>di</strong> assai <strong>di</strong>versi, lungo una tra<strong>di</strong>zione<br />

che da Aristotele giunge fino a Hegel – un’ontologia che si fon<strong>di</strong> sul<br />

principio <strong>di</strong> ragione – come lo è in modo esplicito, <strong>di</strong>chiarato, riven<strong>di</strong>cato,<br />

quella <strong>di</strong> Leibniz – sarà sempre un’onto-economia e una tecno-ontologia,<br />

oltre che una teleo-teologia, dato che il concetto <strong>di</strong> scopo ha origine<br />

nel nostro fare (poietico o pratico), oppure è rimandato all’operare creativo<br />

<strong>di</strong> una volontà che, al tempo stesso, è un’intelligenza (un «intellectus<br />

archetypus») e una causa ultima (il <strong>di</strong>o della metafisica).<br />

Riassumendo le domande fondamentali a cui abbiamo fatto riferimento<br />

(vale a <strong>di</strong>re: Perché c’è qualcosa? Perché esiste questo piuttosto<br />

che un altro? Perché questo è così e non altrimenti?), Kant ci <strong>di</strong>rà che,<br />

in termini <strong>di</strong> «perché» (o <strong>di</strong> cause finali), «non c’è assolutamente alcuna<br />

ragione perché una cosa sia così e non altrimenti (in termini <strong>di</strong> perché?,<br />

il nostro intelletto non è in grado <strong>di</strong> comprendere «nemmeno la produzione<br />

<strong>di</strong> un filo d’erba»). Se così fosse – cosa che significherebbe, appunto,<br />

come ci ha detto il passo della Logica che abbiamo letto,<br />

conoscere la «totalità delle conseguenze» o, in altri termini, analizzare<br />

tutti i pre<strong>di</strong>cati contenuti nel concetto <strong>di</strong> un soggetto o <strong>di</strong> una sostanza –<br />

le verità contingenti (le proposizioni esistenziali) potrebbero essere ricondotte<br />

a verità <strong>di</strong> ragione (a verità analitiche o proposizioni identiche)<br />

e, propriamente, coinciderebbero con esse. Ciò che sarebbe tuttavia<br />

possibile solo a con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un’analisi infinita, che soltanto una mente<br />

infinita (Dio) può compiere. E vedremo come è a partire proprio da<br />

questa argomentazione (o del suo passaggio al limite) che Leibniz elabora<br />

la dottrina dell’«armonia prestabilita», dove l’idea <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sposizione<br />

economico-finalistica del mondo – tema costante della metafisica<br />

a partire da Aristotele – si presenta come una fondazione teo-teleologica<br />

del principio <strong>di</strong> ragione o del fondamento.<br />

Kant, lo abbiamo visto, critica l’uso razionalistico (oggettivo) del principio<br />

<strong>di</strong> ragione <strong>di</strong> Leibniz e scorge l’origine (soggettiva) <strong>di</strong> questo principio<br />

dell’harmonia mun<strong>di</strong> – che egli riformula come principio <strong>di</strong><br />

«conformità a scopi», proprio della nostra facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio 10 – in un «bi-<br />

60<br />

RAGIONE E FONDAMENTO<br />

sogno» della nostra ragione (un punto a partire dal quale prenderà le<br />

mosse Hegel, per ricomporre, in modo nuovo, l’unità della metafisica);<br />

e, più precisamente, nell’analogia, in quel «come se» (als ob) che ci fa guardare<br />

alla natura come se fosse qualcosa <strong>di</strong> tecnico (come quando <strong>di</strong>ciamo, ad<br />

esempio, che le ali degli uccelli sono fatte per volare) o <strong>di</strong> economico, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sposto<br />

in modo vantaggioso «per noi» (come se si trattasse <strong>di</strong> un’economia finalistica<br />

o <strong>di</strong> un sistema <strong>di</strong> rapporti tra mezzi e fini). Per produrne una<br />

conoscenza effettiva, noi guar<strong>di</strong>amo – e perfino abbiamo bisogno <strong>di</strong> guardare<br />

– alle molteplici forme della natura (e in particolare, o in un caso particolare,<br />

alle forme viventi) come se fossero artefatti, prodotti o produzioni<br />

tecniche; e lo facciamo perché il concetto <strong>di</strong> scopo è ra<strong>di</strong>cato nella nostra<br />

soggettività o, come <strong>di</strong>ceva Heidegger, fa parte della nostra caratteristica<br />

<strong>di</strong> «animali metafisici», teleo-tecno-logici ed economici.<br />

Secondo Kant, rientra dunque nella natura del soggetto-uomo e dei<br />

suoi bisogni o, meglio, è una proprietà delle nostre facoltà nel loro insieme,<br />

il fatto <strong>di</strong> «applicare» – dovremo vedere come – a ciò che <strong>di</strong> eterogeneo<br />

e <strong>di</strong> contingente ci si fa incontro nel mondo il principio della<br />

«conformità a scopi della natura nella sua molteplicità»; è una proprietà<br />

delle nostre facoltà il fatto <strong>di</strong> rappresentare la natura «come se un intelletto<br />

contenesse il fondamento [Grund!] dell’unità del molteplice nelle<br />

sue forme empiriche» 11 . Ed è proprio il quel «come se» che si può scorgere<br />

la riforma critica della metafisica leibniziana a opera <strong>di</strong> Kant; come<br />

possiamo già comprendere leggendo questo passo della Critica del giu<strong>di</strong>zio<br />

teleologico:<br />

Il principio della ragione le [alla natura] spetta come solo soggettivo,<br />

cioè come massima: tutto nel mondo serve a qualcosa, niente è gratuito<br />

in esso; e si è legittimati, anzi chiamati, grazie all’esempio che la natura<br />

dà nei suoi prodotti organici, a non aspettarsi da essa e dalle sue leggi<br />

niente che non sia, in relazione al tutto, conforme a scopi. Va da sé che<br />

questo è un principio non per la facoltà determinante <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, ma per<br />

quella riflettente, che esso è regolativo e non costitutivo, e che noi in tal<br />

modo otteniamo solo un filo conduttore per considerare secondo un<br />

nuovo or<strong>di</strong>ne legale le cose della natura 12 .<br />

Dunque, per Kant, il principio <strong>di</strong> «conformità a scopi della natura»,<br />

proprio della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care (e non della ragione né dell’intelletto,<br />

anche se gioca sul loro confine), non è <strong>di</strong> natura logica (od onto-logica)<br />

61


PARTE PRIMA<br />

ma estetica (ed economica). Tale principio regolativo riguarda il rapporto<br />

tra un «bisogno» (<strong>di</strong> conoscenza) e la sua «sod<strong>di</strong>sfazione» (o «liberazione»)<br />

in termini <strong>di</strong> «sentimento <strong>di</strong> piacere»; e la possibilità stessa<br />

<strong>di</strong> sentirci «<strong>di</strong> casa» (proprio come <strong>di</strong> fronte alla bellezza) nel mondo<br />

dell’esperienza. E se teniamo conto del fatto che per Kant si tratta <strong>di</strong> un<br />

principio trascendentale <strong>di</strong> natura euristica (senza il quale nessuna conoscenza<br />

sarebbe effettivamente possibile), ci accorgiamo della profon<strong>di</strong>tà<br />

con cui la filosofia <strong>di</strong> Kant ci fa scorgere, al <strong>di</strong> qua del razionalismo leibniziano,<br />

il significato teleo-tecnologico ed economico della frase del fondamento.<br />

Ripercorriamo ora rapidamente l’interpretazione heideggeriana del<br />

principio <strong>di</strong> ragion sufficiente. Dicevamo come, in Der Satz vom Grund,<br />

Heidegger vede nell’opera <strong>di</strong> Leibniz il <strong>di</strong>soccultarsi <strong>di</strong> quel principium rationis<br />

che in fase <strong>di</strong> incubazione o <strong>di</strong> letargia aveva sonnecchiato per due<br />

millenni nell’intera storia della metafisica. Heidegger nota però come<br />

questo principio non ci parli in realtà del fondamento ma piuttosto dell’ente:<br />

come cioè, in altri termini, parli della necessità per l’ente <strong>di</strong> avere<br />

un fondamento (una ratio, una causa o uno scopo). Ma nulla più <strong>di</strong> questo.<br />

Perfino quando – in linea con il <strong>di</strong>scorso onto-teologico inaugurato<br />

nella Metafisica <strong>di</strong> Aristotele – si riferisce al «fondamento», al «principio»<br />

o alla «causa prima» della totalità dell’ente (e cioè a Dio), perfino in questo<br />

caso, esso parla ancora <strong>di</strong> un ente o <strong>di</strong> un essente, anche se si tratta dell’ente<br />

supremamente essente, dell’ente sommo.<br />

Ma che cosa <strong>di</strong>ciamo, quando <strong>di</strong>ciamo «fondamento»? Qual è il fondamento<br />

dell’ente? Tale fondamento, ci <strong>di</strong>ce Heidegger, è l’essere: ciò<br />

per cui un ente è ed è così com’è; ciò che d’altra parte non è a sua volta<br />

un ente. Mettendo in evidenza l’ente, la sua ragione o ragionevolezza, la<br />

sua ratio, la sua calcolabilità, la sua economicità, la metafisica si <strong>di</strong>mentica<br />

dell’essere, e cioè della <strong>di</strong>fferenza onto-logica, della <strong>di</strong>fferenza tra essere<br />

ed ente. Assicurando a un fondamento l’enticità o l’essentità<br />

dell’essente, la metafisica mette a dormire il fondamento stesso, e cioè<br />

l’essere.<br />

Ora: in quanto fondamento dell’ente, l’essere non ha a sua volta un<br />

suo fondamento, un Grund; si dà, piuttosto, come fondamento sfondato.<br />

Come Ab-grund, come abisso. L’essere è senza fondamento. Di<br />

più. Heidegger ci mostra come, proprio per il fatto <strong>di</strong> uscire dal suo letargo,<br />

il fondamento assunto come «principio» contribuisce in modo<br />

decisivo a mettere al buio, a oscurare – in favore dell’ente e della sua<br />

62<br />

RAGIONE E FONDAMENTO<br />

ratio calcolabile, tecnica ed economica – il fondamento stesso e, cioè,<br />

l’essere. Oppure – ciò che però immancabilmente è anche un anche – a<br />

interpretare l’essere-fondamento come un Ente essenzialmente essente,<br />

come principio ultimo della calcolabilità delle cose e delle cause; a rappresentarlo<br />

– come vedremo ad esempio nel Discorso <strong>di</strong> metafisica <strong>di</strong> Leibniz<br />

– nei panni <strong>di</strong> un «eccellente geometra» o <strong>di</strong> un «buon architetto»,<br />

che si preoccupa della «funzionalità» e della «bellezza» del suo e<strong>di</strong>ficio,<br />

o – metafora questa che ricorreva già in Aristotele – <strong>di</strong> un pater familias<br />

capace <strong>di</strong> amministrare al «meglio» l’economia della sua casa. Il carattere<br />

proprio – e propriamente economico – del principio <strong>di</strong> ragione riguarda<br />

non tanto la «ragione» quanto quel «rendere la ragione» (logon <strong>di</strong>domai),<br />

che chiude il circolo dell’assicurazione e del cre<strong>di</strong>to.<br />

Heidegger ci segnala poi come il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong> Leibniz si trasformi<br />

conservandosi in Kant in quell’insieme <strong>di</strong> principi – <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni<br />

<strong>di</strong> possibilità – che definiscono l’oggettività dell’oggetto in relazione a un soggetto<br />

(o per una coscienza). Conducendo ancora più a fondo l’interpretazione<br />

dell’essere in termini <strong>di</strong> oggettività dell’oggetto – e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

soggettività e <strong>di</strong> volontà: un percorso che dall’«appetitus» proprio della<br />

monade leibniziana conduce fino alla «volontà <strong>di</strong> potenza» <strong>di</strong> Nietzsche<br />

– la metafisica si appresta a entrare in quella fase o in quella configurazione<br />

che va sotto il nome <strong>di</strong> «epoca della tecnica».<br />

Cito a questo proposito alcune proposizioni <strong>di</strong> Heidegger in cui è<br />

contenuto il motto <strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o.<br />

(Detto per inciso: Leibniz, lo scopritore del principio <strong>di</strong> ragion sufficiente,<br />

è anche l’inventore dell’“assicurazione sulla vita”). Il lavoro che<br />

mira all’assicurazione della vita deve tuttavia costantemente assicurare<br />

<strong>di</strong> nuovo se stesso. La parola chiave per questo atteggiamento fondamentale<br />

dell’esistenza contemporanea è informazione. Questa parola<br />

la dobbiamo intendere nella sua accezione anglo-americana 13 .<br />

Questo richiamo all’informazione – e in realtà già all’informatica –<br />

ci conduce alla questione della tecnica, che affronteremo nel prossimo<br />

capitolo. Anticipiamo qui una celebre formulazione heideggeriana:<br />

«L’essenza della tecnica non è essa stessa niente <strong>di</strong> tecnico» 14 . L’essenza<br />

della tecnica è la metafisica. O, più precisamente, il Gestell.<br />

«Gestell» è un’espressione tedesca d’uso corrente, attraverso cui Heidegger<br />

intende però farci contemplare quella che egli considera come<br />

63


PARTE PRIMA<br />

l’ultima e definitiva costellazione (o «scaffalatura») della metafisica,<br />

l’epoca che compie, o in cui si compie, la storia metafisica dell’essere o<br />

la storia dell’essere come metafisica. Il Gestell è la figura che caratterizza<br />

quell’età del mondo in cui l’essere – e la domanda dell’essere – si dà alla<br />

comprensione dell’uomo come dominio planetario del principio <strong>di</strong> ragione:<br />

un’età, la nostra, dominata dal consumo – <strong>di</strong> beni, certo, ma più<br />

ancora, <strong>di</strong> «informazione» – in cui l’essere ha esaurito o consumato le<br />

scorte e le figure del suo <strong>di</strong>spiegamento; e perciò anche se stesso. Si tratta,<br />

in questo senso, <strong>di</strong> una fine escatologica del tempo e della storia 15 , che<br />

può tuttavia preludere, secondo Heidegger, a un nuovo evento; anzi all’evento<br />

dell’evento: a quell’Ereignis (evento-appropriazione) che potrà<br />

forse – se sarà, o meglio, se non sarà, se non sarà più l’essere dell’ontoteo-logia<br />

– ad-propriare e tras-propriare l’un l’altro l’essere e il pensiero<br />

(e perciò l’uomo).<br />

Le profonde analisi heideggeriane della «domanda della tecnica»<br />

aprono innumerevoli questioni e, forse, un’alternativa. Nel prossimo capitolo,<br />

cercheremo <strong>di</strong> vedere come.<br />

_______________<br />

1 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione [Der Satz vom Grund (1955-56), Gesamtausgabe<br />

Bd. 10, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1997], ed. it. a cura<br />

<strong>di</strong> E. Volpi, Adelphi, Milano 1991.<br />

2 G.W.F. Hegel, Enciclope<strong>di</strong>a delle scienze filosofiche [Enzyklopä<strong>di</strong>e der philosophischen Wissenschaften<br />

(1817), in GW, Bd 20, hrsg. von U. Rameil, W. Bonsiepen, H-C. Lucas,<br />

Felix Meiner, Hamburg, 1992], ed. it. a cura <strong>di</strong> V. Cicero, Rusconi, Milano 1996,<br />

p. 101.<br />

3 La citazione <strong>di</strong> Clemente, così come quella che richiama la «cultura alessandrina»,<br />

sono tratte da G. Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Vicenza 2007,<br />

p. 72.<br />

4 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione, cit., pp. 128-129.<br />

5 A questi due principi, Kant aggiunge anche il principio del terzo escluso, che qui<br />

possiamo trascurare.<br />

6 I. Kant, Logica [Logik (1800), in KGS, IX], tr. it. a cura <strong>di</strong> L. Amoroso, Laterza,<br />

<strong>Roma</strong>-Bari 1990, p. 45.<br />

7 Ivi, p. 46.<br />

8 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione, cit., p. 126.<br />

9 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit.<br />

10 L’espressione kantiana Zweckmäbigkeit («conformità a scopi») è una traduzione<br />

del termine latino harmonia.<br />

64<br />

RAGIONE E FONDAMENTO<br />

11 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio [Kritik der Urteilskraft (1790), in KGS, V], ed.<br />

it. a cura <strong>di</strong> E. Garroni, M. Hohenegger, Einau<strong>di</strong>, Torino 2001.<br />

12 Ivi, pp. 212-213.<br />

13 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione, cit., p. 209.<br />

14 M. Heidegger, Conferenze <strong>di</strong> Brema e Friburgo [Bremer und Freiburger Vortäge (1945,<br />

1957) in Gesamtausgabe Bd. 79, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann, Frankfurt a.<br />

M. 1994], ed. it. a cura <strong>di</strong> F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, p. 87.<br />

15 Un tema paolino che sembra perfino più tenace delle molteplici «svolte» attraverso<br />

cui Heidegger ha cercato <strong>di</strong> interpretare se stesso.<br />

65


L’essenza della tecnica<br />

Seguendo alcune in<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> Heidegger, abbiamo visto come il principio<br />

<strong>di</strong> ragione si imponga con Leibniz dopo 2.300 anni <strong>di</strong> incubazione.<br />

La posizione o la proposizione, la frase del fondamento (Grund) afferma<br />

che Nihil est sine ratione (ohne Grund); o, nella sua formulazione positiva:<br />

Omne ens habet rationem. A questo proposito Heidegger osserva come il<br />

principio del fondamento non parli in realtà del fondamento ma, piuttosto,<br />

dell’ente o dell’essente. Si tratta <strong>di</strong> comprendere come ciò sia avvenuto.<br />

La frase del fondamento parla della necessità <strong>di</strong> «rendere ragione»<br />

dell’essente. Parla della cosa in quanto fondata in una ratio, in qualcosa<br />

<strong>di</strong> calcolabile, <strong>di</strong> ren<strong>di</strong>contabile. Nel far ciò, il principio del fondamento<br />

(nihil est sine ratione o sine causa) occulta il fondamento stesso (l’essere) in<br />

favore della cosa calcolabile; e se parla del fondamento dell’ente ne parla,<br />

ancora una volta, come <strong>di</strong> un ente: l’Ente essenzialmente essente, la<br />

prima ragione, la causa prima e ultima. La celebre proposizione <strong>di</strong> Leibniz<br />

«Cum Deus calculat, fit mundus» mostra a sufficienza tutto questo.<br />

La frase: nihil est sine ratione esprime un’assicurazione sull’ente attraverso<br />

il ricorso a un ente o a un’agenzia <strong>di</strong> assicurazione infallibile. Una<br />

ratio, un’assicurazione e rassicurazione nei confronti <strong>di</strong> quel «niente» –<br />

quel ni-ente che per Heidegger fa segno all’essere stesso inteso come<br />

fondamento sfondato, Ab-grund – che in realtà viene invocato e convocato,<br />

scongiurato e spergiurato da subito, fin dall’inizio della frase. Sottolineando<br />

il nihil, la frase del fondamento (nihil est sine ratione) si<br />

potrebbe infatti leggere anche così: nihil est sine ratione. In questo<br />

modo, la frase viene a <strong>di</strong>re che il niente non ha una ragione, che non ha<br />

mai ragione – che ha sempre torto. Il principio del fondamento rende ragione<br />

del perché «c’è qualcosa piuttosto che niente», dato che esclude il<br />

nulla nell’atto stesso della sua istituzione.<br />

La storia <strong>di</strong> questa poziorità (del «piuttosto che non»), dell’affermazione,<br />

dell’assicurazione, della giustificazione e della razionalizzazione<br />

dell’ente, è anche – come accade in ogni razionalizzazione – una storia<br />

<strong>di</strong> rimozione. Parlando <strong>di</strong> «rimozione» mi riferisco in questo caso più al<br />

valore freu<strong>di</strong>ano della Verdrängung che non a quello hegeliano dell’Au-<br />

66<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

fhebug o al senso heideggeriano della Verwindung – che pure significano<br />

qualcosa come «rimozione». Di quale razionalizzazione e rimozione si<br />

tratta? Si tratta precisamente della rimozione <strong>di</strong> quel nihil che viene<br />

avanti per primo nella frase del fondamento <strong>di</strong> Leibniz, per essere ben<br />

presto fatto uscire <strong>di</strong> scena non appena fa la sua comparsa l’attore principale:<br />

quell’attore che, in quanto «atto puro» – come <strong>di</strong>ceva Aristotele<br />

– è al tempo stesso attore e autore, architetto, monarca, amministratore,<br />

calcolatore e pater familias dell’oikia cosmica.<br />

Una proposizione tratta dal par. 77 della Philosophia prima, sive Ontologia<br />

del leibniziano Christian Wolff ce ne darà una conferma, anticipando<br />

su questo punto niente meno che un celebre titolo <strong>di</strong> Nietzsche<br />

il quale recita: Come il «mondo vero» finì per <strong>di</strong>ventare favola 1 . La proposizione<br />

<strong>di</strong> Wolff suona alla lettera così:<br />

Tolto il principio <strong>di</strong> ragione sufficiente, il mondo vero se ne va in un<br />

mondo <strong>di</strong> favola, nel quale la volontà dell’uomo sta al posto della ragione<br />

delle cose che accadono 2 .<br />

Conce<strong>di</strong>amoci allora il tempo <strong>di</strong> analizzare brevemente il testo <strong>di</strong><br />

Nietzsche che ho appena ricordato e che, nell’arco vertiginoso <strong>di</strong> sei<br />

brevissime proposizioni, ricostruisce e decostruisce la storia della metafisica<br />

come Storia <strong>di</strong> un errore (è questo il sottotitolo del testo).<br />

1. Nella prima proposizione, il «mondo vero» (scritto da Nietzsche<br />

senza virgolette) si offre come imme<strong>di</strong>atamente «attingibile dal saggio,<br />

dal pio, dal virtuoso»; imme<strong>di</strong>atamente attingibile, dato che «lui stesso è<br />

questo mondo» («Io, Platone, sono la verità»). 2. Nella seconda proposizione,<br />

il mondo vero si fa «per il momento inattingibile», pur restando<br />

«promesso» («l’idea <strong>di</strong>venta donna, si cristianizza») 3 . 3. Nella terza, questo<br />

stesso mondo <strong>di</strong>venta «impromettibile» e non<strong>di</strong>meno «imperativo»; e<br />

l’idea si fa «königsbergica», vale a <strong>di</strong>re kantiana. 4. Nella quarta, il mondo<br />

vero è un mondo «sconosciuto», e <strong>di</strong> conseguenza «neppure consolante,<br />

salvifico, vincolante» («Canto del gallo del positivismo»). 5. Nella quinta,<br />

il «mondo vero» è messo tra virgolette, dato che è un’«idea <strong>di</strong>venuta inutile<br />

e superflua». 6. Nella sesta, con il mondo vero (ritornato senza virgolette)<br />

scompare anche quello «apparente».<br />

Nel volgere <strong>di</strong> un paio <strong>di</strong> secoli, la «profezia» <strong>di</strong> Wolff sembra dunque<br />

avverarsi: «il mondo vero se ne va in favola», e «al posto delle ragioni<br />

delle cose» subentra la «volontà <strong>di</strong> potenza». Del resto...<br />

67


PARTE PRIMA<br />

Del resto, la poziorità economica dell’essere sul nulla, assicurata dal<br />

principio <strong>di</strong> ragione, segue le sorti <strong>di</strong> quest’ultimo. Se in Kant tale principio<br />

sarà ridotto a un «bisogno» caratteristico della soggettività umana<br />

(quello <strong>di</strong> guardare alla natura «come se» fosse or<strong>di</strong>nata secondo<br />

«scopi»); se in Hegel l’affermazione leibniziana secondo cui «ogni cosa<br />

ha un fondamento» non significherà niente più se non che il fondamento<br />

non è un «essere imme<strong>di</strong>ato» ma qualcosa <strong>di</strong> «posto», e con ciò<br />

stesso «tolto»; se in Schelling il principio del fondamento non è più capace<br />

<strong>di</strong> reddere rationem della primità del puro esistere (<strong>di</strong> fronte a cui la<br />

ragione «non è più nulla» e «non può più nulla»), in Nietzsche la crisi del<br />

fondamento – come crisi del concetto <strong>di</strong> «scopo», come mancanza <strong>di</strong><br />

«fine» e <strong>di</strong> risposta al «perché?» delle cose – libera la volontà al punto tale<br />

che essa «preferisce volere il nulla piuttosto che non volere» (Genealogia<br />

della morale, n. 28) 4 . Riportata non più alla ragione ma alla volontà, la risposta<br />

del principio del fondamento <strong>di</strong> Leibniz perde ogni capacità <strong>di</strong><br />

assicurazione nei confronti del nulla: non è più il «qualcosa» a opporsi<br />

al «piuttosto che» (potius quam) del «nulla», ma la «volontà» che, pur <strong>di</strong> volere<br />

qualcosa (e cioè <strong>di</strong> non-non volere), vuole persino il nulla. Se l’essere<br />

è volontà <strong>di</strong> potenza, non è il nulla ciò <strong>di</strong> fronte a cui la volontà<br />

arretra, ma il non volere. E se «c’è qualcosa piuttosto che il niente» è perché<br />

la volontà lo vuole o l’avrà voluto.<br />

Nihil est sine ratione. Ci sono voluti 2.300 anni, ci ha detto Heidegger,<br />

perché il principio <strong>di</strong> ragione si risvegliasse dal suo sonno e si imponesse<br />

come fondamento e vincolo – al tempo stesso logico, ontologico<br />

e teologico – del «mondo vero». Dopo il cosiddetto «Trattato teologico»<br />

<strong>di</strong> Aristotele (il Libro XII della Metafisica, <strong>di</strong> cui parleremo nei prossimi<br />

capitoli), dove la «causa prima» del mondo è definita come «atto puro»<br />

e «pensiero <strong>di</strong> pensiero», dopo la Patristica e la Scolastica, nella metafisica<br />

<strong>di</strong> Leibniz, quel fondamento del fatto che «c’è qualcosa piuttosto<br />

che niente» si presenta come ultima ratio rerum. Ma nel domicilio ontoteo-logico<br />

<strong>di</strong> questo principio sonnecchiavano insieme, come fossero i<br />

due fianchi <strong>di</strong> uno stesso corpo o <strong>di</strong> un medesimo corpus, la metafisica<br />

razionalistica e il nichilismo, la luce dell’«Ente necessario» e l’ombra della<br />

«morte <strong>di</strong> Dio». Il nichilismo – citiamo ancora qualche parola <strong>di</strong> Nietzsche<br />

– è la scoperta che le categorie <strong>di</strong> «scopo», <strong>di</strong> «unità», <strong>di</strong> «essere»<br />

con le quali ci sforzavamo <strong>di</strong> dare senso al mondo, sono ormai «prive<br />

<strong>di</strong> valore».<br />

68<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

Il nichilismo è allora l’acquistare coscienza del lungo spreco <strong>di</strong> forze, il<br />

tormento dell’“invano”, l’insicurezza, la mancanza dell’occasione <strong>di</strong> […]<br />

tranquillizzarsi ancora su qualcosa 5 .<br />

Nihil est sine ratione. Nel nostro mondo, nel mondo dominato, globalizzato<br />

dalla tecnica, ogni cosa si «razionalizza» (e si «informatizza», ce<br />

lo ha detto Heidegger), ogni cosa si ren<strong>di</strong>conta, si assicura e vuole rassicurarci;<br />

si calcola e si fa valore <strong>di</strong> scambio sulla base del principio <strong>di</strong><br />

equivalenza o <strong>di</strong> permutabilità universale. Ma come tutte le razionalizzazioni<br />

e le coperture assicurative, anche l’economia del principio <strong>di</strong> ragione<br />

è – l’abbiamo visto – il frutto <strong>di</strong> una rimozione o la «storia <strong>di</strong> un<br />

errore»: l’«invano» tormentoso <strong>di</strong> un bisogno <strong>di</strong> rassicurazione e <strong>di</strong> sicurezza.<br />

Queste osservazioni ci conducono già sulla seconda strada che<br />

– dopo quella percorsa con l’analisi del principio <strong>di</strong> ragione – è possibile<br />

imboccare per riattraversare una certa storia della metafisica. Seguendo<br />

ancora una volta Heidegger, vedremo come anche tale strada,<br />

che in questo caso muove dall’altro grande principio della metafisica<br />

leibniziana, il principio <strong>di</strong> identità, giunge al medesimo risultato.<br />

Anche il principio <strong>di</strong> identità – e lo vedremo già in Aristotele – ha a<br />

che fare con la questione della cosa, dell’esser ente dell’ente, della sua enticità<br />

o essentità, della sua presenza (ousia). È quanto tenteremo <strong>di</strong> verificare<br />

prendendo in considerazione il testo che raccoglie le Conferenze <strong>di</strong><br />

Brema e Friburgo, tenute da Heidegger rispettivamente nel 1949 e nel<br />

1947. Inizieremo dall’analisi delle ultime (le Conferenze <strong>di</strong> Friburgo),<br />

che si intitolano Principi del pensiero, per poi tornare alle prime (quelle <strong>di</strong><br />

Brema), intitolate Sguardo in ciò che è.<br />

Che cosa <strong>di</strong>ce il principio <strong>di</strong> identità? Il principio <strong>di</strong> identità afferma<br />

che A=A ovvero che A è A. Secondo Heidegger, anche in questo caso<br />

ci sono voluti due millenni perché questo principio si affermasse; o meglio,<br />

perché si comprendesse in ciò che veramente affermava. E se Leibniz<br />

e Kant hanno posto le con<strong>di</strong>zioni decisive per questa comprensione,<br />

è con la filosofia dell’idealismo speculativo, e in particolare con Hegel,<br />

che il principio <strong>di</strong> identità è stato colto nella sua essenza sintetica.<br />

Questa interpretazione suona decisamente paradossale, dato che il<br />

principio <strong>di</strong> identità vorrebbe in<strong>di</strong>care il valore analitico della relazione <strong>di</strong><br />

A con A. Esso sembra infatti <strong>di</strong>re che A è lo stesso <strong>di</strong> A, che A afferma<br />

lo stesso che A. Che cosa mai ci sarebbe <strong>di</strong> sintetico in questa formulazione?<br />

69


PARTE PRIMA<br />

Proce<strong>di</strong>amo per gra<strong>di</strong>, osservando innanzitutto come, in forma negativa,<br />

il principio affermi che: «A non è non-A». Come negazione dell’opposto<br />

dell’opposto, il principio <strong>di</strong> identità si trasforma in principio<br />

<strong>di</strong> (non-)contrad<strong>di</strong>zione. Inteso in questo modo, il principio <strong>di</strong> non-contrad<strong>di</strong>zione<br />

è un caso particolare del principio <strong>di</strong> identità. Ora, per Leibniz,<br />

tutte le verità prime (a priori), cioè le verità <strong>di</strong> ragione, sono identità,<br />

verità analitiche (riconducibili per l’appunto alla forma A è A). In termini<br />

<strong>di</strong> logica pre<strong>di</strong>cativa, ciò significa che il pre<strong>di</strong>cato (è A) è incluso nel<br />

soggetto (A). Sono analitiche tutte le verità a priori (o <strong>di</strong> ragione); e in<br />

realtà lo sono – implicitamente o «nascostamente», scrive Leibniz –<br />

anche le verità <strong>di</strong> fatto (a posteriori o contingenti). Ciò però a con<strong>di</strong>zione<br />

che il concetto del soggetto – in quanto si tratta in questo caso <strong>di</strong><br />

un concetto in<strong>di</strong>viduale, <strong>di</strong> una «sostanza prima», come <strong>di</strong>ceva Aristotele<br />

– sia passibile <strong>di</strong> un’analisi infinita: un’analisi che perciò solo una<br />

mente infinita può compiere. Dato un certo soggetto (nel Discorso <strong>di</strong> metafisica,<br />

Leibniz ci offre l’esempio <strong>di</strong> Alessandro Magno), una mente finita<br />

come la nostra non è infatti in grado <strong>di</strong> determinare a priori tutti i<br />

pre<strong>di</strong>cati che gli ineriscono (come ad esempio se vincerà o meno la battaglia<br />

contro i Persiani, se morirà <strong>di</strong> morte naturale o a causa del veleno).<br />

Non è così per una mente infinita o un «intellectus archetypus»,<br />

che è in grado <strong>di</strong> vedere, e cioè <strong>di</strong> intuire intellettualmente, l’essenza in<strong>di</strong>viduale,<br />

la sostanza prima <strong>di</strong> quel soggetto, e così anche il fondamento<br />

e la ragione <strong>di</strong> tutti i pre<strong>di</strong>cati che gli si possono attribuire. Da qui si<br />

vede come, per una mente infinita, il principio <strong>di</strong> identità e il principio<br />

<strong>di</strong> ragione coincidano tra loro; e, per ciò stesso, come tutte le verità –<br />

anche quelle che per noi restano verità <strong>di</strong> fatto, contingenti – siano verità<br />

<strong>di</strong> ragione (a priori); e tutte le proposizioni, anche quelle apparentemente<br />

sintetiche, riconducibili in ultima analisi a identità. Questo è un<br />

punto della massima importanza, sul quale torneremo a tempo debito.<br />

Ricordo ora rapidamente come, all’interno delle proposizioni a<br />

priori, Kant <strong>di</strong>stinguerà tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche<br />

(vale a <strong>di</strong>re quelle in cui il pre<strong>di</strong>cato non è contenuto nel soggetto);<br />

e come il compito sarà per lui quello <strong>di</strong> «giustificare» – non più<br />

perciò in termini <strong>di</strong> logica formale, ma trascendentale – le proposizioni<br />

sintetiche a priori, quelle proposizioni cioè che, pur essendo a priori, comportano<br />

un incremento <strong>di</strong> conoscenza. Vedremo come la mossa <strong>di</strong> Kant<br />

consisterà qui nel <strong>di</strong>sfare l’identificazione tra analitico e a priori (anche se<br />

tutto ciò che è analitico è a priori, non tutto ciò che è a priori è per ciò stesso<br />

70<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

analitico); e come la «deduzione» – e cioè la giustificazione, l’accertamento<br />

<strong>di</strong> prove – dell’esistenza <strong>di</strong> proposizioni sintetiche a priori avrà il risultato<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere i presupposti stessi dell’ontologia tra<strong>di</strong>zionale.<br />

Veniamo ora a Hegel. Con la sua logica <strong>di</strong>alettica viene in luce un<br />

tratto ulteriore; e cioè il fatto che anche le presunte verità analitiche sono<br />

in realtà esse stesse sintetiche. Come si può giustificare questa affermazione<br />

e che cosa comporta?<br />

Hegel mostra come la proposizione A=A non potrebbe neppure<br />

porre ciò che pone se non avesse già spezzato la vuota identicità o uguaglianza<br />

<strong>di</strong> A con se stesso; se cioè non avesse quantomeno contrapposto<br />

A a se stesso. Se così non fosse, A è A non sarebbe nemmeno una<br />

proposizione. Ma leggiamo <strong>di</strong>rettamente la formulazione contenuta<br />

nella Scienza della logica, che – lo anticipo – intende proporsi come la <strong>di</strong>struzione<br />

e rifondazione moderna <strong>di</strong> quella «vecchia metafisica» che la<br />

critica kantiana aveva messo fuori gioco:<br />

Il principio <strong>di</strong> identità stesso e più ancora il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione<br />

sono <strong>di</strong> natura non già semplicemente analitica, ma sintetica. Poiché l’ultimo<br />

[“è A”] contiene nell’espressione sua non solo la vuota, semplice<br />

uguaglianza con sé, sebbene anzi non soltanto l’altro in generale <strong>di</strong> codesta<br />

uguaglianza, ma ad<strong>di</strong>rittura la <strong>di</strong>suguaglianza assoluta, la contrad<strong>di</strong>zione<br />

in sé 6 .<br />

Nella posizione del principio <strong>di</strong> identità (come più chiaramente si<br />

vede nella sua formulazione negativa, il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione: A<br />

non-è non-A) solitamente non ci si accorge <strong>di</strong> affermare «che l’identità sia<br />

<strong>di</strong>versa dalla <strong>di</strong>versità», e che quin<strong>di</strong> – in quanto <strong>di</strong>versa dalla <strong>di</strong>versità –<br />

«l’identità è un <strong>di</strong>verso» 7 . Come vedremo in seguito, la decostruzione compiuta<br />

da Hegel del principio <strong>di</strong> identità si basa su quella logica <strong>di</strong>alettica<br />

che – trascurata dalla metafisica, e scorta solo parzialmente da Kant –<br />

gli consentirà <strong>di</strong> rifondare il sapere della metafisica in termini «speculativi».<br />

Un «sapere» che Hegel intende «rilevare» (aufheben: e cioè «tollere»,<br />

«risollevare» e insieme «rimuovere») nella e come Scienza della logica.<br />

Ma non è questo – la rifondazione <strong>di</strong>alettica dell’onto-logia – ciò che<br />

conta per Heidegger, che pure apprezza e valorizza il passo qui compiuto<br />

da Hegel. Ciò che per lui veramente conta è mostrare come A è<br />

A non <strong>di</strong>ca che ogni A è se stesso, ma che ogni A è, con se stesso, se stesso.<br />

In questo «con», vi è una sintesi, una me<strong>di</strong>azione. Nella copula <strong>di</strong> A è<br />

71


PARTE PRIMA<br />

A, il principio <strong>di</strong> identità parla dell’esser ente dell’ente, della sua enticità<br />

o essentità. Il principio <strong>di</strong> identità parla dell’essere dell’ente o dell’essente.<br />

Ovunque ci volgiamo verso un essente, afferma Heidegger, già<br />

parla l’identità. C’è enticità in quanto c’è identità.<br />

Se vogliamo <strong>di</strong>re la stessa cosa in una lingua e in un linguaggio <strong>di</strong>versi<br />

da quello heideggeriano, possiamo farlo con un celebre motto <strong>di</strong> Quine,<br />

uno dei padri della filosofia analitica: No entity without identity, non c’è entità<br />

senza identità.<br />

Ma torniamo all’i<strong>di</strong>oma <strong>di</strong> Heidegger, il quale peraltro – almeno su<br />

questo punto – <strong>di</strong>ce proprio la medesima cosa: se l’appello all’identità<br />

non si facesse sentire, l’essente non potrebbe mai comparire nel suo essere.<br />

L’appello all’identità parla a partire dall’essere dell’ente. A ogni essente<br />

od oggetto (Gegenstand) appartiene l’identità; cioè, l’essere identico<br />

con se stesso. L’identità, conclude Heidegger, è rappresentata, nel pensiero<br />

della metafisica, come un tratto dell’essere. Con l’identità, o proprio<br />

nell’identità, emerge – anche se in modo coperto, e quin<strong>di</strong>, per altro<br />

verso, nascondendosi ed obliandosi – la <strong>di</strong>fferenza; come a modo suo (la pura<br />

identità è pura <strong>di</strong>versità o <strong>di</strong>fferenza) aveva detto anche Hegel. Ma, per<br />

Heidegger, <strong>di</strong> quale <strong>di</strong>fferenza si tratta?<br />

Si tratta <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>fferenza essere-ente che abbiamo già incontrato<br />

affrontando il principio <strong>di</strong> ragione. Nell’identità intesa come equivalenza<br />

(A=A) si vela, si nasconde, si occulta l’essere nel suo <strong>di</strong>fferire dall’ente,<br />

quella <strong>di</strong>fferenza ontologica che, d’altra parte, rende possibile la<br />

frase dell’identità. Come far riemergere questo «<strong>di</strong>fferire» andato a fondo<br />

proprio a causa dell’emergenza del principio <strong>di</strong> identità o, in altri termini,<br />

dell’andata a fondo dell’essere in quanto <strong>di</strong>fferire, <strong>di</strong>fferenza? Heidegger<br />

cerca <strong>di</strong> in<strong>di</strong>carci la via da seguire attraverso un richiamo al<br />

poema <strong>di</strong> Parmenide: «Lo stesso (to auto) sono pensare ed essere» (fr.<br />

3). Si tratta <strong>di</strong> un richiamo che abbiamo già ascoltato e che – nei <strong>di</strong>versi<br />

mo<strong>di</strong> in cui si è andato via via declinando – rappresenta l’in<strong>di</strong>cazione essenziale<br />

o la parola-guida della storia della metafisica: un richiamo decisivo,<br />

come vedremo, anche per la rifondazione hegeliana della<br />

metafisica come Scienza della logica; un richiamo che in Heidegger è però<br />

assunto entro una strategia <strong>di</strong>fferente. Analizziamo il detto nel modo<br />

in cui quest’ultimo ci invita a leggerlo.<br />

«Lo stesso (to auto) sono pensare ed essere». Anche qui si parla <strong>di</strong><br />

identità, o meglio parla l’identità stessa; ma, se ascoltiamo attentamente,<br />

parla in modo <strong>di</strong>verso da come avviene in tutta la tra<strong>di</strong>zione della me-<br />

72<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

tafisica (compreso Hegel). La frase <strong>di</strong> Parmenide <strong>di</strong>ce che «pensare» ed<br />

«essere» si coappartengono 8 .<br />

Ed ecco che cosa – a partire dal pensiero <strong>di</strong> questa co-appartenenza<br />

(Zusammengehörigkeit) – Heidegger vi deduce: nel pensiero della tra<strong>di</strong>zione<br />

della metafisica, l’identità è rappresentata come un tratto dell’essere (è per<br />

questo che si può <strong>di</strong>re che non c’è entità senza identità). Ciò che invece<br />

ci dà da pensare il detto <strong>di</strong> Parmenide – e che nemmeno Parmenide ha<br />

pensato ma, proprio per questo, ci ha dato, ci ha lasciato da pensare –<br />

è che l’essere, insieme al pensiero, appartiene allo stesso (all’idem, al<br />

Selbe); e quin<strong>di</strong> che l’essere è un tratto dell’identità o dello stesso. Qui l’identità<br />

non è l’opposto della <strong>di</strong>fferenza (e cioè dell’essere) ma – al contrario –<br />

il luogo del suo stesso provenire, come pure del suo nascondersi o rifiutarsi<br />

alla manifestazione e alla comprensione. In questo richiamo a rovescio<br />

che ci giunge dall’alba del pensiero, si cela, secondo Heidegger, la<br />

possibilità <strong>di</strong> gettare uno «sguardo» sull’essenza della metafisica, e così<br />

anche <strong>di</strong> scorgere ciò che essa non vede, <strong>di</strong> vedere oltre la sua vista.<br />

Ripetiamolo: nel pensiero della tra<strong>di</strong>zione metafisica, l’identità è rappresentata<br />

come un tratto dell’essere. Ora: la «rappresentazione» dell’essere come<br />

identità spalanca l’orizzonte dell’interpretazione dell’enticità come tecnicità<br />

e – parallela e solidale con essa, anche se precedente – l’interpretazione<br />

del pensiero (e dell’uomo) come soggetto: ciò per cui la cosa si dà<br />

come oggetto. Nella fase estrema e più pronunciata <strong>di</strong> questa soggettivazione,<br />

l’essere entra nella costellazione della tecnica, e propriamente<br />

si identifica con essa. L’essere è e si <strong>di</strong>spiega come essenza tecnica, e<br />

niente, nel nostro tempo, può resistere o sembra più resistere a tale assimilazione.<br />

Nell’epoca della tecnica l’ente o l’essente (la cosa, l’ob-jectum,<br />

il Gegen-stand) sta, nel suo stare (stehen), come Be-stand: l’ente si dà<br />

come «stabilità», certo (dato che tale è il significato <strong>di</strong> Bestand), ma questo<br />

– ora – nel senso <strong>di</strong> «giacenza», <strong>di</strong> «risorsa» <strong>di</strong>sponibile nel gioco che<br />

tutto pone (stellen), or<strong>di</strong>na, <strong>di</strong>spone (be-stellen), permuta, scambia.<br />

Heidegger chiama l’insieme <strong>di</strong> questo «or<strong>di</strong>nare» e «<strong>di</strong>sporre», appropriante<br />

(nei confronti delle cose) e insieme <strong>di</strong>sappropriante o <strong>di</strong>spropriante<br />

(nei confronti dell’essere e dell’esistenza): Ge-stell – l’insieme<br />

del porre, l’impianto, il <strong>di</strong>spositivo. «L’essenza della tecnica non è essa<br />

stessa niente <strong>di</strong> tecnico» 9 . L’essenza della tecnica è il Gestell, ovvero la figura<br />

che l’essere ha assunto nella nostra epoca, dove ogni cosa si fa risorsa<br />

or<strong>di</strong>nata e provocata all’interno dell’economia del Gestell (or<strong>di</strong>nata come<br />

lo sono le mercanzie negli scaffali <strong>di</strong> una casa o <strong>di</strong> un supermercato).<br />

73


PARTE PRIMA<br />

L’epoca della tecnica è un’epoca della verità o del <strong>di</strong>svelamento – dell’essere<br />

come <strong>di</strong>svelamento e del <strong>di</strong>svelamento come essere – che corrisponde<br />

alla massima copertura o al totale assorbimento dell’essere<br />

stesso e della sua verità. Il Gestell, potremmo <strong>di</strong>re, ha usurato tutto l’essere,<br />

senza che ci siano più margini o slabbrature al suo dominio: quei<br />

margini che ancora ci consentivano <strong>di</strong> insinuare un pensiero altro, o un<br />

pensiero dell’altrimenti, nella tra<strong>di</strong>zione, nella storia o nella narrazione<br />

della metafisica. Svelando e globalizzando totalmente l’essere, l’economia<br />

del Gestell lo ha per ciò stesso totalmente velato, ricoperto, inglobato<br />

senza più alcun resto. Come se al mondo non potesse più provenire alcuna<br />

luce dell’essere stesso, dato che la sua luce è ormai tutta <strong>di</strong>spiegata<br />

in un’insonnia notturna <strong>di</strong> insegne e <strong>di</strong> lampioni, o al contrario, o lo stesso,<br />

spenta nella cavità insondabile <strong>di</strong> un letargo. Nell’epoca dell’essere come<br />

tecnica, il principio <strong>di</strong> identità vige come ciò che <strong>di</strong>spone l’equivalore e l’equivalenza<br />

<strong>di</strong> ogni cosa, la sua assoluta calcolabilità e permutabilità.<br />

Heidegger non rileva, o non esplicita, la valenza o la razionalità «economica»<br />

del Gestell, anche se ci fornisce molti esempi, oltre che una terminologia<br />

che non lascia dubbi, per poterla pensare; come quando, per<br />

esempio, afferma che la tecnica non è – come per lo più si <strong>di</strong>ce o si ritiene<br />

– un mezzo per uno scopo e neppure uno scopo in se stessa, perché<br />

la sua essenza è oltre il rapporto mezzo-scopo, in quanto lo domina<br />

dal <strong>di</strong> fuori. L’epoca della tecnica è quell’epoca in cui l’essere è assorbito<br />

e consumato fino al punto che <strong>di</strong> esso non resta più nulla <strong>di</strong> intentato,<br />

<strong>di</strong> non or<strong>di</strong>nato, <strong>di</strong> non provocato, <strong>di</strong> non trasformato in «risorsa», <strong>di</strong><br />

non assicurato, <strong>di</strong> non ridotto a «ragione sufficiente» per-qualcosa; anche<br />

se questa assicurazione o apprensione generalizzata è il correlato o<br />

l’esposizione <strong>di</strong> una Unheimlichkeit globale. L’epoca della tecnica compie<br />

e conclude la storia o la fenomenologia dell’essere, cioè delle <strong>di</strong>verse figure<br />

attraverso cui, <strong>di</strong> volta in volta, l’essere si è dato al pensiero e all’uomo:<br />

come logos, ragione, principio <strong>di</strong> ragione, identità-uguaglianza,<br />

volontà... Niente fa eccezione a questo <strong>di</strong>spositivo planetario <strong>di</strong> tecnicizzazione<br />

e <strong>di</strong> «pianificazione». Autocelandosi nella sua stessa apocalisse,<br />

l’essere ha definitivamente consumato le sue possibili figure. Che<br />

cosa resta? Che cosa può ancora accadere?<br />

Nulla, o almeno non un resto inconsumato o non destinato al consumo<br />

e all’informatizzazione globale. Nulla o, forse, l’acca<strong>di</strong>mento o<br />

l’evento (Ereignis) <strong>di</strong> una rivoluzione intestina, una rotazione <strong>di</strong> trecentosessanta<br />

gra<strong>di</strong>.<br />

74<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

La possibilità <strong>di</strong> questo rovesciamento potrebbe venire proprio da<br />

quell’identità o da quello «stesso» (das Selbe) che non è l’«uguale» (das Gleiche)<br />

che domina incon<strong>di</strong>zionatamente nel principio <strong>di</strong> identità e nel Gestell.<br />

Potrebbe venire dal richiamo <strong>di</strong> quel to auto <strong>di</strong> cui parlava Parmenide<br />

e che, ci ha detto Heidegger, non è un tratto dell’essere, e perciò non è entrato<br />

nella sua storia o nel suo tritatutto. Non essendo un tratto dell’essere,<br />

questa stessità (Selbigkeit) non è stata assorbita dall’equivalenza<br />

economica e calcolabile che domina nell’epoca della tecnica; si è <strong>di</strong>fferita<br />

ed è rimasta in custo<strong>di</strong>a come «<strong>di</strong>fferenza» o «<strong>di</strong>fferimento» (Austrag)<br />

all’origine <strong>di</strong> quel movimento che ha via via entificato l’essere fino<br />

a consumarlo o sminuzzarlo completamente nell’epoca del consumo<br />

globalizzato e della trasformazione <strong>di</strong> ogni cosa in giacenza o risorsa, in<br />

comunicazione e informazione planetaria. Quel tratto <strong>di</strong>fferito o deviato<br />

dall’essere, Heidegger tenta <strong>di</strong> pensarlo attraverso una figura – che<br />

dunque non è più una figura dell’essere, ormai <strong>di</strong>ssolto nel Gestell – a cui<br />

dà il nome <strong>di</strong> Er-eignis: <strong>di</strong> evento-appropriazione. E il carattere <strong>di</strong> capovolgimento<br />

o <strong>di</strong> rivoluzione si può scorgere nel fatto che l’«appropriazione»<br />

(Er-eignis) e la «<strong>di</strong>spropriazione» (Ent-eignis) appaiono in esso a rovescio<br />

<strong>di</strong> come avveniva nel Gestell: non l’appropriazione (tecnica) dell’ente<br />

come <strong>di</strong>spropriazione dell’essere, ma il farsi proprio (dell’invio) dell’essere<br />

(o dell’es gibt) come movimento stesso del suo «ritrarsi» o «sottrarsi»,<br />

della sua Lethe 10 .<br />

Con l’avvento dell’epoca della tecnica, la storia dell’essere – della verità<br />

dell’essere e del suo farne esperienza da parte del pensiero e dell’uomo<br />

– è ormai conclusa. Non ne resta più nulla. Resta tuttavia da<br />

pensare se quel Gestell, che con la sua definitiva apocalisse ha messo fine<br />

alle epoche del <strong>di</strong>svelamento, non sia un «prelu<strong>di</strong>o» al sorgere della costellazione<br />

dell’Ereignis: una figura, quest’ultima, che dunque può darsi a pensare<br />

soltanto come una rivoluzione interna o come un rovescio<br />

fotografico del Gestell. Per pensare questa figura occorre però ricondurci<br />

all’origine <strong>di</strong> quello «stesso», o <strong>di</strong> quel «<strong>di</strong>fferimento», verso quel «cenno»<br />

che, proprio col suo non pensarlo, Parmenide ci ha lasciato intatto da pensare;<br />

occorre rivolgerci a quell’unica riserva che non si sia trasformata<br />

in risorsa o in giacenza, che si è <strong>di</strong>fferita ed è custo<strong>di</strong>ta al <strong>di</strong> qua dell’equivalenza,<br />

dell’equivalore e della permutabilità universali. Per Heidegger,<br />

l’unica salvezza – forse – possibile.<br />

Non si tratta come per Derrida – per citare un suo celebre titolo –<br />

<strong>di</strong> Margini della filosofia, e cioè <strong>di</strong> quelle scuciture interne al testo della<br />

75


PARTE PRIMA<br />

metafisica che sono al tempo stesso le vie aperte che la filosofia offre al<br />

compito infinito della decostruzione. Questo perché, per Heidegger,<br />

quel testo si è totalmente informatizzato, visto che l’epoca della tecnica<br />

ha bevuto anche l’ultimo sorso dell’essere, trasformando ogni cosa in<br />

con sumo, risorsa, informazione. Così che il Gestell può ormai solo rigirarsi<br />

su se stesso e da se stesso: e mostrarsi a rovescio come «stazione<br />

interme<strong>di</strong>a» tra l’essere e l’Ereignis; e cioè, per un verso, ancora come<br />

«volontà <strong>di</strong> volontà», ma per l’altro, anche, come «prefigurazione (Vorform)<br />

dell’Ereignis stesso» 11 . Ed è in questo senso che Heidegger parla <strong>di</strong><br />

«superamento» o <strong>di</strong> «oltrepassamento», <strong>di</strong> Überwindung e Verwindung della<br />

metafisica; e perfino, nei suoi scritti estremi, <strong>di</strong> «superamento» <strong>di</strong> questo<br />

stesso «superamento» (che, infatti, è e resta un tratto della metafisica),<br />

come un «lasciar essere» (ablassen), un «abbandonare» (überlassen) la<br />

metafisica a se stessa. Ciò significa, <strong>di</strong>rei, che per Heidegger, nel definitivo<br />

<strong>di</strong>spiegamento tecnico planetario dell’onto-economia o dell’ecoontologia<br />

pianificata, non c’è più spazio per quella decostruzione che,<br />

all’altezza <strong>di</strong> Essere e tempo, egli aveva in<strong>di</strong>cato come compito ultimo della<br />

filosofia fenomenologica. Dove non ci fossero più ferite aperte nel testo,<br />

nel racconto o nel tessuto testuale <strong>di</strong> un’epoca (ciò che ancora accadeva<br />

con la metafisica <strong>di</strong> Leibniz, <strong>di</strong> Kant, <strong>di</strong> Hegel e <strong>di</strong> Nietzsche), un lavoro<br />

<strong>di</strong> decostruzione non riveste più molta rilevanza; se non propriamente<br />

non ne riveste alcuna.<br />

In conclusione vorrei osservare, seppure in modo telegrafico, come,<br />

a mio parere, ci sia una tensione irrisolta in questo estremo pensiero <strong>di</strong><br />

Heidegger sull’epoca della tecnica.<br />

Per un verso, la sua descrizione della parabola o della storia della metafisica<br />

come <strong>di</strong>svelamento delle epoche dell’essere – fino all’età della<br />

tecnica che le conclude o le consuma definitivamente – descrive qualcosa<br />

come una storia fenomenologica – e forse anche una fenomenologia<br />

in senso hegeliano – dove un’origine (un’arché) conteneva già quel<br />

telos che ora la compie. Non è questo il destino che conduce dall’affermarsi<br />

dei principi <strong>di</strong> identità e <strong>di</strong> ragione fino al Gestell? Heidegger, è<br />

vero, ha più volte sottolineato la <strong>di</strong>fferenza – e perfino la contrapposizione<br />

– tra il movimento fenomenologico-regressivo del suo oltrepassamento<br />

della metafisica o della sua remissione a essa (come «passo» o<br />

«domanda all’in<strong>di</strong>etro»: Schritt zurück o Zurück-Frage) e quel movimento<br />

<strong>di</strong> rimozione o rilevamento (Aufhebung) che caratterizza la fenomenologia<br />

hegeliana. Eppure, dove è in gioco l’idea <strong>di</strong> un «compimento», è <strong>di</strong>f-<br />

76<br />

L’ESSENZA DELLA TECNICA<br />

ficile, se non proprio impossibile, pensare in termini <strong>di</strong>versi da quelli<br />

hegeliani. Come interpretare altrimenti il fatto che Heidegger ci mostri<br />

come il Gegestand fosse già il germe del Bestand? L’epoca della tecnica<br />

non compie (o «toglie») il tempo e la storia dell’essere e della metafisica<br />

attraverso un movimento paragonabile a quello che, per Hegel, coincide<br />

con l’avvento dello Spirito assoluto (altra figura, lo <strong>di</strong>co per inciso,<br />

che andrebbe considerata nel suo valore o plusvalore tecnico-economico,<br />

come la coppia heideggeriana Gestell-Ereignis)? Anche se lascio<br />

aperte queste domande, sono convinto che – pur con tutte le <strong>di</strong>fferenze<br />

che si potrebbero e dovrebbero qui in<strong>di</strong>care – un movimento fenomenologico<br />

simile operi nella delineazione heideggeriana della storia delle<br />

epoche (o delle epoché) dell’essere.<br />

Questo, per un verso. Per l’altro – ed è proprio questo «altro» che intende<br />

segnare la strada per quel «passo all’in<strong>di</strong>etro», che, pensato fino in<br />

fondo, non è più una strategia <strong>di</strong> «oltrepassamento»: che cosa c’è <strong>di</strong> più<br />

metafisico infatti <strong>di</strong> quell’«oltre», <strong>di</strong> quell’«al <strong>di</strong> là <strong>di</strong>» dell’oltrepassamento?<br />

– sembra che un’arché (anzi più <strong>di</strong> una: Heidegger si riferisce al<br />

to auto <strong>di</strong> Parmenide ma anche al Tao) custo<strong>di</strong>sca, celi e salvaguar<strong>di</strong> in<br />

sé una <strong>di</strong>fferenza o un <strong>di</strong>fferimento (Austrag), una possibilità <strong>di</strong> pensiero<br />

(e <strong>di</strong> «evento») che tiene in riserva un altrimenti: un altrimenti della<br />

metafisica e perfino un altrimenti che essere (per citare un titolo <strong>di</strong> Levinas<br />

che qui stona solo in parte). Per questo verso, o su questo versante, la<br />

fine non «rileva» il principio (in quanto inizio) ma, al contrario, l’inizio<br />

(ogni inizio?) si tiene in riserva attraverso il suo «<strong>di</strong>fferimento» (infinito?).<br />

E <strong>di</strong>rei anche – ancora una volta in modo certamente troppo rapido<br />

e sommario – che questi due versanti non si escludono e non<br />

costituiscono un’alternativa soltanto se pensiamo in termini <strong>di</strong> una <strong>di</strong>fferenza<br />

originaria, che è insieme una <strong>di</strong>fferenza d’origine: un’origine<br />

senza presenza che <strong>di</strong>fferisce e supplisce se stessa. Ciò che però lascerebbe<br />

ancora aperto un compito <strong>di</strong> decostruzione del testo o del racconto<br />

della metafisica. Come accade nel pensiero <strong>di</strong> Derrida, e come<br />

stiamo tentando qui <strong>di</strong> fare.<br />

L’essenza della tecnica non è niente <strong>di</strong> tecnico, ci <strong>di</strong>ce Heidegger.<br />

L’essenza della tecnica è la metafisica. Certo. Ma, al tempo stesso e a rovescio,<br />

l’essenza della metafisica non è mai stata altro che la tecnica. Potremmo<br />

<strong>di</strong>re persino <strong>di</strong> più: l’essenza della tecnica non è nulla <strong>di</strong> tecnico<br />

(il che è persino ovvio), proprio perché lo sarà sempre già stata. Per un<br />

verso, l’essere sarà già sempre stato l’economia del Gestell. Ma per l’al-<br />

77


PARTE PRIMA<br />

tro, al tempo stesso, la tecnica – per quanto si <strong>di</strong>spieghi nella sua presunzione<br />

<strong>di</strong> consumare, <strong>di</strong> usurare, <strong>di</strong> capitalizzare, <strong>di</strong> informatizzare<br />

ogni altrimenti – non sarà mai soltanto se stessa, e cioè tecno-economica.<br />

Un <strong>di</strong>scorso, questo, che dovrà impegnarci a lungo.<br />

_______________<br />

1 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Id., Opere, cit., vol. VI, tomo III, pp. 75-76.<br />

2 La proposizione è riportata nella Nota del curatore Franco Volpi in appen<strong>di</strong>ce a<br />

M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione, cit., p. 234.<br />

3 In Sproni, J. Derrida ha de<strong>di</strong>cato pagine molto belle a questo «effetto». Cfr. J.<br />

Derrida, Sproni. Gli stili <strong>di</strong> Nietzsche [Éperons. Les styles de Nietzsche, Paris, Flammarion<br />

1978], tr. it. <strong>di</strong> G. Cacciavillani, Milano, Adelphi 1991.<br />

4 F. Nietzsche, Opere, cit., vol. VI, tomo II, p. 299.<br />

5 F. Nietzsche, Opere, cit., vol. VIII, tomo II, pp. 256-58.<br />

6 G.W.F. Hegel, Scienza della logica [Wissenschaft der Logik (1812-1816), Werke, Bd.<br />

5,6, hrsg. von E. Moldenauer und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M.,<br />

1969] ed. it. a cura <strong>di</strong> A. Moni, rivista da L. Lucarini, Laterza, <strong>Roma</strong>-Bari 2004,<br />

p. 463.<br />

7 Ivi, pp. 459-460.<br />

8 M. Heidegger, Identità e <strong>di</strong>fferenza [Identität und Differenz (1955-1957), Gesamtausgabe<br />

Bd. 11, hrsg. von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1991], tr.<br />

it. <strong>di</strong> U. M. Ugazio, «Aut Aut», n. 187-188, gennaio-aprile 1982, pp. 1-38.<br />

9 M. Heidegger, Conferenze <strong>di</strong> Brema e Friburgo, cit., p. 87.<br />

10 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 125 sgg.<br />

11 Ivi, p. 163.<br />

78<br />

La fondazione della metafisica in Aristotele<br />

L’espressione che intitola questo capitolo è intenzionalmente ambigua.<br />

Parlare <strong>di</strong> «fondazione della metafisica in Aristotele» potrebbe infatti<br />

in<strong>di</strong>care che ci proponiamo <strong>di</strong> introdurci al pensiero <strong>di</strong> colui che ha fondato<br />

quella scienza o quel sapere che si chiama «metafisica»; ma potrebbe<br />

anche voler <strong>di</strong>re che inten<strong>di</strong>amo parlare <strong>di</strong> come quel sapere si sia fondato<br />

nella Metafisica <strong>di</strong> Aristotele. Ora, da un lato, il fatto che Aristotele<br />

non abbia inteso «fondare» una scienza che andasse sotto il nome <strong>di</strong> «metafisica»<br />

è cosa sicura. Neppure il nome «metafisica» è suo e, per <strong>di</strong> più,<br />

non è possibile riscontrarne mai l’occorrenza in alcuna delle sue opere.<br />

Il termine «metafisica» deriva da un or<strong>di</strong>namento tecnico-bibliografico<br />

del corpus aristotelicum attraverso il quale, sotto quel titolo, sono stati raccolti<br />

e collocati dopo i trattati <strong>di</strong> fisica (meta ta physika) i quattor<strong>di</strong>ci libri che<br />

compongono quel testo che va sotto il nome <strong>di</strong> Metafisica <strong>di</strong> Aristotele.<br />

A questo proposito, Heidegger ha osservato come «l’espressione meta<br />

ta physika serve a designare uno stato <strong>di</strong> fondamentale imbarazzo filosofico»<br />

1 . L’imbarazzo, con ogni probabilità, era già <strong>di</strong> Aristotele, il quale,<br />

negli scritti successivamente raccolti sotto il titolo <strong>di</strong> «metafisica» si riferiva<br />

a «una certa scienza...» (episteme tis) che, non venendo mai nominata,<br />

era destinata a restare senza nome, una scienza che a volte Aristotele<br />

qualifica come «ricercata», sempre da cercare o da desiderare (zetoumene).<br />

Un imbarazzo dunque – e dall’inizio; un imbarazzo e un curioso destino:<br />

una scienza senza nome che si andava cercando e ricercando – senza<br />

mai trovarsi – in un fascio <strong>di</strong> testi, se non proprio <strong>di</strong> excerpta, eterogenei e<br />

inclassificabili ha dato origine a ciò che <strong>di</strong> più sistematico, or<strong>di</strong>nato e gerarchico<br />

si sia dato nella tra<strong>di</strong>zione filosofica e, probabilmente, ha dato origine<br />

all’idea stessa della filosofia come un sapere, per l’appunto, or<strong>di</strong>nato,<br />

gerarchico e sistematico; un insieme <strong>di</strong> scritti catalogabili al meglio come<br />

un «dopo» o un «oltre-qualcos’altro», un insieme <strong>di</strong> scritti – aggiungerei –<br />

marginali (gran parte delle questioni affrontate da Aristotele nella Metafisica<br />

possono essere considerate come questioni aperte, o riaperte, sui bor<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

altri testi che trattavano invece <strong>di</strong> oggetti meglio definiti, come la fisica,<br />

l’etica, la politica, la logica), un insieme <strong>di</strong> scritti fuori posto (collocato per-<br />

79


PARTE PRIMA<br />

ciò in appen<strong>di</strong>ce a un corpus altrimenti costituito) è assurto al trono della<br />

reggia del sapere. Da questo punto <strong>di</strong> vista, quin<strong>di</strong>, è piuttosto la metafisica<br />

a essersi fondata (con un <strong>di</strong>screto abuso) nel pensiero e nel nome <strong>di</strong><br />

Aristotele; così che tra le due accezioni possibili del titolo <strong>di</strong> questo capitolo<br />

è in effetti soprattutto questa a sembrare più adeguata.<br />

È vero tuttavia d’altra parte che, in quei quattor<strong>di</strong>ci libri che vanno<br />

sotto il titolo <strong>di</strong> Metafisica, Aristotele si sia posto il problema <strong>di</strong> una<br />

scienza sui generis, ine<strong>di</strong>ta in un certo qual modo, una scienza da lui<br />

stesso in<strong>di</strong>cata a volte col nome <strong>di</strong> philosophia prote, filosofia prima o<br />

prima filosofia; espressione cui, ad esempio, si richiamerà esplicitamente<br />

Cartesio nelle sue celebri Me<strong>di</strong>tationes de prima philosophia (1641), più note<br />

– anche in seguito alle traduzioni dal latino – come Me<strong>di</strong>tazioni metafisiche.<br />

Ora, il valore che dobbiamo attribuire all’aggettivo «prima» (prote),<br />

riferito al metodo e al tipo <strong>di</strong> indagine messi in opera da Aristotele nella<br />

Metafisica, non è per nulla sicuro (in <strong>di</strong>versi luoghi delle sue opere, Heidegger<br />

intende la «filosofia prima» come «filosofia in prima linea» o «in<br />

senso autentico» 2 ). Di certo, però, l’aggettivo «prote», se pure non sta a<br />

in<strong>di</strong>care precisamente un primato o una primogenitura, come per lo più<br />

si è inteso, segnala in ogni caso un compito giu<strong>di</strong>cato preliminare: come<br />

se, senza questo tipo <strong>di</strong> interrogazione (preliminare e, in questo senso,<br />

originaria), ogni altro modo <strong>di</strong> fare filosofia fosse inevitabilmente costretto<br />

a smarrirsi o a chiudersi dogmaticamente su se stesso. Ed è precisamente<br />

in questo senso che, ad esempio, Cartesio prima e poi Kant<br />

riattualizzeranno il senso della «primarietà» della philosophia prote <strong>di</strong> Aristotele,<br />

attraverso un tipo <strong>di</strong> interrogazione (trascendentale) che al<br />

tempo stesso sarà una ra<strong>di</strong>cale messa in questione dei presupposti dell’aristotelismo<br />

scolastico.<br />

È curioso osservare anche l’effetto che quel «prima» (prote) crea in<br />

combinazione col «dopo» (meta) del titolo «metafisica». In effetti, una<br />

certa tra<strong>di</strong>zione – ben presto <strong>di</strong>venuta dominante – ha inteso la metafisica<br />

in generale (metaphysica generalis) come la scienza filosofica prima-eulteriore,<br />

e cioè ultima; come un sapere in altri termini capace <strong>di</strong> fondare<br />

e contenere in sé tutti gli altri saperi speciali, tra cui, ad esempio, la cosmologia,<br />

la psicologia e la teologia naturale, considerate appunto come<br />

sfere principali e speciali della metafisica in quanto tale. Ma, per quanto<br />

sia vero che questi saperi propri della metaphysica specialis costituiscono,<br />

o quasi, altrettanti oggetti dei <strong>di</strong>versi libri <strong>di</strong> cui si compone la Metafisica<br />

<strong>di</strong> Aristotele, non è tuttavia ugualmente scontato – anzi non lo è per<br />

80<br />

LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA IN ARISTOTELE<br />

nulla – che una simile costituzione definisca un or<strong>di</strong>ne gerarchico <strong>di</strong> conoscenze.<br />

Credo che sarebbero possibili piuttosto, in riferimento a quel<br />

tratto imbarazzante (inclassificabile, marginale, incerto, fuori posto) della<br />

Metafisica, anche altre interpretazioni.<br />

Piuttosto che un carattere <strong>di</strong> generalità e <strong>di</strong> gerarchia, <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong><br />

fondazione, l’essere inclassificabile della metafisica non potrebbe infatti<br />

in<strong>di</strong>care il suo non aver posto e non trovar posto all’interno dei saperi<br />

costituiti, l’impossibilità cioè <strong>di</strong> avere un oggetto proprio o in proprio?<br />

E la preliminarietà-e-posteriorità della «filosofia prima» non potrebbe<br />

essere intesa anche come la sua capacità <strong>di</strong> rimettere in questione (<strong>di</strong><br />

criticare e <strong>di</strong> de-limitare) le chiusure dei saperi (troppo) consolidati, e<br />

prima <strong>di</strong> tutto la propria? Non accade ad esempio così nella «fondazione<br />

della metafisica» (come la chiama Heidegger) operata da Kant? Tale fondazione<br />

(Grundlegung) o rifondazione, non è infatti al tempo stesso una<br />

delle più ra<strong>di</strong>cali critiche o decostruzioni del sapere metafisico tra<strong>di</strong>zionale?<br />

E non sarà così anche per la Scienza della logica <strong>di</strong> Hegel? Sarebbe<br />

un abuso leggere anche la Metafisica <strong>di</strong> Aristotele in questa luce? Non è<br />

forse proprio per la capacità <strong>di</strong> porsi in quella preliminarità posteriore<br />

– o posteriorità preliminare – che Aristotele è in grado <strong>di</strong> rimettere in<br />

questione l’intera tra<strong>di</strong>zione filosofica a lui precedente, come accadrà in<br />

seguito, ad esempio, con Cartesio? E se le cose stanno così, la «fondazione<br />

della metafisica» non è al tempo stesso – e fin dal suo primo gesto<br />

– la sua de-limitazione? O meglio: non è, nelle <strong>di</strong>verse fondazioni della<br />

metafisica, al tempo stesso all’opera – dall’inizio e <strong>di</strong> volta in volta – la<br />

sua stessa decostruzione?<br />

Nel porre tali questioni, mi riferisco a un’in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> Derrida il<br />

quale – in un passo in cui <strong>di</strong>scute l’interpretazione heideggeriana del concetto<br />

hegeliano <strong>di</strong> tempo – osserva:<br />

Ogni testo della metafisica porta in sé, per esempio, sia il cosiddetto<br />

concetto “volgare” <strong>di</strong> tempo sia le risorse che si prenderanno in prestito<br />

dal sistema della metafisica per criticare tale concetto 3 .<br />

L’in<strong>di</strong>cazione contenuta in questo testo mi suggerisce <strong>di</strong> non seguire<br />

fino in fondo la ricomprensione heideggeriana della metafisica come<br />

un’unica storia e un «unico destino» 4 , caratterizzato da epoche in cui,<br />

esponendosi <strong>di</strong> volta in volta attraverso le figure della sua galleria (Dio,<br />

il Bene, il soggetto, la volontà, la tecnica…), l’essere – la domanda o il<br />

81


PARTE PRIMA<br />

senso dell’essere – si conduce sempre più verso la sua <strong>di</strong>menticanza.<br />

Lettura coerente e rigorosa, certo, e perfino insuperabile, che tuttavia<br />

però, nel rilevare e nel risolvere le <strong>di</strong>verse esposizioni o narrazioni in<br />

quella considerata fondamentale, rischia <strong>di</strong> nasconderne altre, che oggi<br />

ci appaiono forse altrettanto significative. Fatte queste precisazioni, possiamo<br />

adesso rivolgerci al testo <strong>di</strong> Aristotele, limitandoci a chiarirne<br />

qualche termine e a in<strong>di</strong>care quei luoghi che ne hanno determinato in<br />

modo particolare la fortuna.<br />

Di cosa tratta la metafisica? A questa domanda, nel libro IV (Γ) della<br />

Metafisica, Aristotele risponde così:<br />

C’è una scienza [episteme] che considera l’essere in quanto essere [to on e<br />

on] e le proprietà che gli competono in quanto tale [kat’auto]. Essa non<br />

si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle<br />

altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale, ma dopo<br />

aver delimitato una parte <strong>di</strong> esso, ciascuna stu<strong>di</strong>a le caratteristiche <strong>di</strong><br />

questa parte (IV, 1003a, 20-25).<br />

Questa «certa» – e cioè incertissima – scienza che, ricorrendo a un<br />

linguaggio fenomenologico (che qui non sembra per nulla inadeguato),<br />

possiamo <strong>di</strong>re occuparsi non <strong>di</strong> tale o tal’altra «regione» dell’ente, ma<br />

piuttosto dell’ente in quanto tale, <strong>di</strong> ciò che l’ente è – dell’essere dell’ente<br />

– è stata chiamata anche «ontologia». Neppure questa espressione, la<br />

cui origine non è neppure greca, risale però ad Aristotele, essendo stata<br />

coniata ad<strong>di</strong>rittura in epoca moderna (nel sec. XVII). Ciò, se da un lato<br />

mostra che il testo <strong>di</strong> Aristotele risponde <strong>di</strong> due titoli <strong>di</strong> cui non è in<br />

alcun modo responsabile, non toglie tuttavia dall’altro che la scienza ricercata<br />

da Aristotele – quell’epizetoumene episteme (II, 995a, 24) che, come<br />

scienza dell’essere in quanto essere, è al tempo stesso una scienza del ricercare<br />

– costituisca la sua grande scoperta. In questo senso, dunque,<br />

non si può ritenere un caso fortuito il fatto che la metafisica abbia trovato<br />

il suo fondamento essenziale proprio in quest’opera aristotelica.<br />

Nel XII libro (Λ) della Metafisica, però, Aristotele parla della «filosofia<br />

prima» anche come «filosofia teologica», facendo emergere così la<br />

duplicità costitutiva della metafisica: da un lato, scienza dell’essere (ontologia)<br />

e, dall’altro, scienza del <strong>di</strong>vino (teologia). E al <strong>di</strong> là delle responsabilità<br />

<strong>di</strong> Aristotele, è proprio in questa duplicità che la metafisica<br />

è stata assunta nel pensiero successivo, vale a <strong>di</strong>re, come onto-teo-logia:<br />

82<br />

LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA IN ARISTOTELE<br />

un’espressione che, resa famosa da Heidegger, è possibile ritrovare già<br />

in Kant, per il quale in<strong>di</strong>cava quella (presunta) «conoscenza dell’ente<br />

originario» che è fondata sulla sola ragione (theologia rationalis), «me<strong>di</strong>ante<br />

meri concetti trascendentali (ens originarium, realissimus, ens entium)» e<br />

«senza l’aiuto <strong>di</strong> una qualsiasi esperienza» 5 .<br />

Come ho già avuto modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, analizzerò qui soltanto alcuni dei<br />

termini risalenti ad Aristotele che sono entrati nella tra<strong>di</strong>zione filosofica<br />

e che sono stati tradotti o interpretati con calchi, neologismi, parole<br />

create ad hoc nelle <strong>di</strong>verse lingue con cui la filosofia parla da oltre duemila<br />

anni (latino, italiano, francese, tedesco, inglese... e oggi?). Ciò tuttavia<br />

non esclude che farò continui riferimenti critici alle questioni che,<br />

a partire dal testo aristotelico, si sono imposte all’origine della tra<strong>di</strong>zione<br />

della metafisica. In ogni caso, e per quanto concerne l’ontoteologia, mi<br />

limiterò per ora a segnalare alcuni dei luoghi in cui Aristotele definisce<br />

quei concetti che si sono rivelati fondamentali per la sua fondazione:<br />

vale a <strong>di</strong>re la nozione <strong>di</strong> sostanza (libri IV e VII) e la questione del <strong>di</strong>vino<br />

(libro XII).<br />

Iniziamo quin<strong>di</strong> leggendo le prime parole del secondo capitolo del<br />

IV libro. Qui troviamo subito una famosa definizione, esemplare anche<br />

del modo <strong>di</strong> affrontare le questioni filosofiche che è tipico della Metafisica<br />

<strong>di</strong> Aristotele: «L’essere (on) si <strong>di</strong>ce in molteplici significati», o in molteplici<br />

mo<strong>di</strong> («pollachos»). Noi, infatti, attribuiamo l’essere a molte cose<br />

– <strong>di</strong> molte cose, cioè, <strong>di</strong>ciamo che sono. Diciamo che sono le quantità, le<br />

qualità, le privazioni, le corruzioni, gli accidenti. Persino del non-essere<br />

noi affermiamo che non è, e cioè, appunto, che è non-essere. L’essere si<br />

<strong>di</strong>ce in molti mo<strong>di</strong> o in molti sensi, ma – continua Aristotele – «sempre<br />

in riferimento a un’unità e a una realtà determinata». E, riprendendo<br />

questa formulazione, poche righe più avanti, precisa:<br />

L’essere si <strong>di</strong>ce in molti sensi, ma tutti in riferimento a un unico principio<br />

[arché]: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanza [ousia],<br />

altre perché affezioni [pathe] della sostanza, altre perché vie che portano<br />

alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause<br />

produttrici o generatrici sia della sostanza, sia <strong>di</strong> ciò che si riferisce alla<br />

sostanza, o perché negazioni <strong>di</strong> qualcuna <strong>di</strong> queste, ovvero della sostanza<br />

medesima. (Per questo, anche il non-essere <strong>di</strong>ciamo che “è” nonessere)<br />

(IV, 1003 b, 5-11).<br />

83


PARTE PRIMA<br />

Si tratta allora <strong>di</strong> trovare l’«unità» dell’essere che, pur <strong>di</strong>cendosi in<br />

molti mo<strong>di</strong>, si riferisce tuttavia sempre ad un principio. Del resto, afferma<br />

Aristotele, «l’essere e l’uno sono una medesima cosa e una realtà unica,<br />

in quanto si implicano reciprocamente l’un l’altro», così come «si implicano<br />

reciprocamente» il principio (arché) e la causa (aition). E <strong>di</strong> questa stessità<br />

dell’essere e dell’uno (vedremo più avanti come l’essere, per<br />

Aristotele, non sia un genere) egli ci fornisce il seguente esempio: «Infatti<br />

significano la medesima cosa le espressioni “uomo” e “un uomo” e così<br />

pure “uomo” ed “è uomo” [o “uomo esistente”]» (IV, 1003 b, 23-27).<br />

Vorrei far notare come in questo passaggio sia implicitamente contenuta<br />

l’affermazione, che sarà resa esplicita da Kant, secondo cui l’essere<br />

«non è un pre<strong>di</strong>cato reale» 6 . Se, infatti, «uomo» e «è uomo» o «uomo<br />

esistente» (on antropos) «significano la medesima cosa», ciò vuol <strong>di</strong>re che<br />

l’essere, ovvero il pre<strong>di</strong>cato dell’esistenza, non aggiunge nulla, cioè nessun<br />

pre<strong>di</strong>cato reale, al soggetto «uomo». Kant <strong>di</strong>rà infatti, a questo proposito,<br />

che «cento talleri reali non contengono assolutamente nulla <strong>di</strong><br />

più <strong>di</strong> cento talleri possibili». E se si tiene presente che egli utilizzerà<br />

questo argomento per <strong>di</strong>struggere la prova ontologica dell’esistenza <strong>di</strong><br />

Dio, vale a <strong>di</strong>re <strong>di</strong> uno dei pilastri dell’onto-teologia «aristotelica» da<br />

Sant’Anselmo fino a Cartesio e a Leibniz 7 , si capisce come la Metafisica<br />

<strong>di</strong> Aristotele potrebbe essere letta seguendo quell’in<strong>di</strong>cazione fornitaci<br />

da Derrida, secondo cui nei testi della metafisica sono contenute tanto<br />

le chiusure quanto le de-limitazioni <strong>di</strong> queste chiusure – ed è in questo<br />

modo, decisamente non convenzionale, che, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Heidegger,<br />

Derrida legge la riflessione sul tempo contenuta nella Fisica <strong>di</strong> Aristotele.<br />

Seguendo la demarcazione che da Aristotele ci ha condotti sino a<br />

Kant, si potrebbe però anche andare oltre. Si potrebbe cioè ricordare<br />

come, nelle Ricerche logiche (VI), Husserl riprenda e aggiorni l’argomento<br />

kantiano con queste parole:<br />

84<br />

Ci richiamiamo qui alla frase <strong>di</strong> Kant: l’essere non è un pre<strong>di</strong>cato reale. Anche<br />

se essa si riferisce all’essere esistenziale [...], cionon<strong>di</strong>meno possiamo servirci<br />

<strong>di</strong> essa in rapporto all’essere pre<strong>di</strong>cativo e attributivo. Io posso vedere<br />

il colore, non l’essere-colorato. [...] Nell’oggetto l’essere non è nulla [...].<br />

Ma l’essere non è nemmeno qualcosa che si aggiunga all’oggetto, come<br />

non è una proprietà reale interna, così non è nemmeno una proprietà<br />

reale esterna: per questo, in senso reale, non è in generale una “proprietà” 8 .<br />

LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA IN ARISTOTELE<br />

A partire da questo passo e delle notevoli implicazioni che contiene,<br />

ma che qui non potremo seguire, si potrebbero in<strong>di</strong>care tutte le risorse<br />

che esso ha offerto all’impostazione <strong>di</strong> quella «questione dell’essere» da<br />

cui Heidegger ha preso le mosse per compiere la sua decostruzione della<br />

metafisica. Fino a ritrovare ad<strong>di</strong>rittura in Aristotele la genealogia <strong>di</strong> questa<br />

decostruzione. E, del resto, non è Aristotele stesso a <strong>di</strong>rci esplicitamente,<br />

qui proprio come Heidegger, che «non è possibile» che l’essere<br />

– come l’uno – «sia un genere» (III, 998b, 22)? L’essere, infatti, come<br />

Aristotele precisa poco più avanti, non è un concetto (un pre<strong>di</strong>cato) che<br />

sussume sotto <strong>di</strong> sé la totalità degli enti; non è quin<strong>di</strong> un genere, dato<br />

che, se così fosse, nessuna «<strong>di</strong>fferenza» potrebbe né essere né essere una,<br />

così che ogni <strong>di</strong>fferenza ne risulterebbe annullata, mentre è proprio l’appartenenza<br />

all’essere a permettere il sorgere <strong>di</strong> ogni <strong>di</strong>fferenza possibile. Seguendo<br />

questa in<strong>di</strong>cazione fino in fondo, sarebbe dunque persino<br />

possibile rintracciare in Aristotele gli elementi per una decostruzione<br />

della metafisica successiva che si è fondata – tramandandolo e tradendolo<br />

– sul suo pensiero.<br />

Torniamo però al nostro argomento principale. Dobbiamo, ci <strong>di</strong>ce<br />

Aristotele, trovare il significato preliminare o principale dell’essere,<br />

quello senza il quale l’essere stesso non si potrebbe nemmeno «<strong>di</strong>re in<br />

molti mo<strong>di</strong>»; un significato che, come vedremo, sarà in<strong>di</strong>viduato nella<br />

nozione <strong>di</strong> ousia, che la tra<strong>di</strong>zione filosofica renderà per lo più con<br />

l’espressione latina «sostanza». In vista <strong>di</strong> questo compito, anzi, tutt’uno<br />

con esso, dobbiamo poi determinare il principio che garantisce preliminarmente<br />

la «stabilità» dell’essere. E si tratterà, per Aristotele, del<br />

principio <strong>di</strong> non contrad<strong>di</strong>zione. Nel libro IV, ne vengono presentate<br />

due formulazioni:<br />

1) È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo (ama), appartenga e<br />

non appartenga a una medesima cosa (1005 b, 19-21);<br />

2) È impossibile che una cosa, nello stesso tempo (ama), sia e non sia<br />

(1006 b, 3-4).<br />

Prima <strong>di</strong> analizzare più da vicino queste formulazioni del principio<br />

<strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione (o <strong>di</strong> identità) e <strong>di</strong> considerare il significato strategico<br />

che rivestono nell’assicurare l’unità, la stabilità e l’identità dell’essere in<br />

quanto «sostanza» (l’identità è con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> ogni enticità), soffermia-<br />

85


PARTE PRIMA<br />

moci per un istante sull’espressione «ama» (in latino «simul»), chiedendoci<br />

se questo avverbio sia compatibile con il carattere analitico del principio<br />

<strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione.<br />

Questa domanda è stata in realtà sollevata da Kant nella Critica della<br />

ragione pura, là dove egli definisce il «principio supremo <strong>di</strong> tutti i giu<strong>di</strong>zi<br />

analitici» (cioè quei giu<strong>di</strong>zi in cui il pre<strong>di</strong>cato è contenuto nel soggetto):<br />

e cioè, per l’appunto, il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione che, come abbiamo<br />

visto, può essere considerato la versione negativa del principio <strong>di</strong> identità.<br />

Benché esso valga per ogni argomentazione che non voglia semplicemente<br />

«annientare se stessa» (come già sosteneva Aristotele), la sua<br />

«portata» conoscitiva riguarda, secondo Kant, soltanto la «conoscenza<br />

analitica», cioè quella conoscenza ottenuta semplicemente scomponendo<br />

il concetto del soggetto, dal momento che i giu<strong>di</strong>zi analitici sono<br />

quelli «nei quali la connessione del pre<strong>di</strong>cato col soggetto viene pensata<br />

per identità» e che hanno perciò natura semplicemente «esplicativa». Per<br />

Kant, questo principio cessa tuttavia d’esser sufficiente, quando si tratta<br />

<strong>di</strong> giustificare la conoscenza sintetica, quella in cui il pre<strong>di</strong>cato aggiunge<br />

qualcosa che non era già contenuto nel soggetto, estendendo così la nostra<br />

conoscenza. Citando il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione esattamente<br />

come lo si trova espresso nella Metafisica aristotelica («è impossibile che<br />

qualche cosa sia e non sia nello stesso tempo [zugleich]»), Kant osserva<br />

poi come in questa formulazione sia stata introdotta «per inavvertenza»<br />

una sintesi. L’elemento sintetico è rappresentato proprio dall’avverbio<br />

zugleich (in greco «ama», in latino «simul»). Dato che i giu<strong>di</strong>zi analitici<br />

non possono contenere elementi sintetici, a meno <strong>di</strong> cessare d’essere<br />

analitici e <strong>di</strong>ventare sintetici, questa intromissione indebita fa sì che il<br />

principio che dovrebbe giustificare i giu<strong>di</strong>zi semplicemente analitici «sia<br />

affetto dalla con<strong>di</strong>zione del tempo [durch <strong>di</strong>e Be<strong>di</strong>ngung der Zeit affiziert]»,<br />

perché, secondo Kant, là dove c’è sintesi c’è riferimento al tempo. È interessante<br />

richiamare qui <strong>di</strong> nuovo Hegel, il quale, avendo scritto – come abbiamo<br />

visto – che lo stesso principio <strong>di</strong> identità A=A è in se stesso un<br />

principio sintetico, ha messo a punto, proprio a partire dalla natura inevitabilmente<br />

sintetica dell’identità, la sua logica <strong>di</strong>alettica. Restiamo però<br />

a Kant. Ritenendo che l’intromissione spuria <strong>di</strong> un elemento sintetico<br />

nel principio supremo <strong>di</strong> tutti i giu<strong>di</strong>zi analitici, sia stata fatta «per inavvertenza<br />

e senza alcuna necessità», egli giunge a riformulare il principio<br />

<strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, che semplicemente <strong>di</strong>venta: «a nessuna cosa tocca un<br />

pre<strong>di</strong>cato che la contrad<strong>di</strong>ca» 9 .<br />

86<br />

LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA IN ARISTOTELE<br />

Se mettiamo ora a confronto le formulazioni qui presentate del principio<br />

<strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, ossia quella risalente ad Aristotele e quella riformulata<br />

da Kant, è possibile notare un’importante <strong>di</strong>fferenza: mentre<br />

la formula corretta da Kant ha un valore meramente logico (coerente, dunque,<br />

con il carattere puramente analitico che ha per lui il principio <strong>di</strong><br />

contrad<strong>di</strong>zione), quella aristotelica ha invece una portata ontologica. E, in<br />

effetti, in Aristotele il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione non vuole fondare la logica,<br />

bensì l’ontologia. In che misura ciò è possibile? Proce<strong>di</strong>amo per gra<strong>di</strong>.<br />

Aristotele intende per prima cosa <strong>di</strong>fendere il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione<br />

contro i suoi negatori, sostenendo che, quantunque il principio<br />

sia <strong>di</strong> per sé in<strong>di</strong>mostrabile, si può tuttavia mostrare come chiunque lo<br />

neghi non <strong>di</strong>ca nulla che valga la pena <strong>di</strong> essere preso in considerazione.<br />

Il che è certamente vero. E tuttavia, ad assicurare al principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione<br />

un valore ontologico, in entrambe le proposizioni proposte<br />

da Aristotele, è proprio la sua formulazione (inavvertitamente) sintetica. Infatti,<br />

noi possiamo ben <strong>di</strong>re che qualcosa è e non-è (o è e non-è «x») in<br />

tempi <strong>di</strong>versi, ma non che è e non-è (o è e non-è «x») simultaneamente, nello<br />

stesso tempo. Quell’«inavvertenza» si rivela, dunque, «necessaria» poiché,<br />

assumendo il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione in senso meramente logico<br />

(analitico-formale), non sarebbe in alcun modo possibile farne un principio<br />

ontologico. Ciò non riuscirà nemmeno a Leibniz che, più <strong>di</strong> ogni<br />

altro, cercherà <strong>di</strong> portare fino alle sue ultime conseguenze quest’ipotesi<br />

– e cioè il tentativo <strong>di</strong> tradurre ogni conoscenza in termini <strong>di</strong> analisi, e<br />

risolvere ogni enunciato in identità – tanto che, non a caso, <strong>di</strong> fronte<br />

alle verità contingenti e alle proposizioni esistenziali, egli dovrà invocare<br />

accanto al principio <strong>di</strong> identità, il «principio <strong>di</strong> ragion sufficiente».<br />

Ma è il passaggio successivo compiuto da Aristotele ad apparire decisivo.<br />

Egli, infatti, dopo aver invitato a supporre <strong>di</strong> convenire sul fatto<br />

che «uomo» abbia un solo significato e a stabilire che questo significato<br />

sia «animale bipede» (ovvero, detto con un linguaggio <strong>di</strong>verso, a supporre<br />

che queste due espressioni siano sostituibili in ogni contesto, cioè<br />

che siano sinonime), sostiene che, data questa supposizione, sarà possibile<br />

pervenire alla seguente conclusione:<br />

Dunque, è necessario, se c’è qualcosa <strong>di</strong> cui è vero <strong>di</strong>re che è “uomo”,<br />

che esso sia “animale bipede” [...] E se ciò è necessario, non è possibile<br />

che questa stessa cosa non sia animale bipede (questo, infatti, significa<br />

essere necessario: il non poter non essere) (1006 a, 32-37).<br />

87


PARTE PRIMA<br />

(E allora – verrebbe da chiedersi – l’enigma con cui la Sfinge aveva<br />

sfidato i Tebani? Quell’enigma non consisteva proprio nel presentare<br />

come se fosse una definizione analitica qualcosa <strong>di</strong> sintetico?). È in questo<br />

passaggio, in ogni caso, che è possibile scorgere la portata ontologica<br />

(<strong>di</strong> fondazione della metafisica) del principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione o <strong>di</strong><br />

identità. L’ultima affermazione <strong>di</strong> Aristotele, infatti, riprende la tesi <strong>di</strong><br />

Parmenide secondo cui «l’essere è e non può non essere», pur con una importante<br />

<strong>di</strong>fferenza: Aristotele non intende sostenere che-è soltanto ciò<br />

che-è-necessario, mentre il non-necessario non-è; ma piuttosto chiedersi<br />

quale sia l’essere-che-necessariamente-è. E la sua risposta a questa domanda è<br />

che questo essere sia la sostanza. Infatti, poco dopo, criticando coloro che<br />

negano la vali<strong>di</strong>tà del principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, precisa: «Coloro che<br />

ragionano in questo modo sopprimono la sostanza e l’essenza delle<br />

cose» (1007 a, 21-22).<br />

Abbiamo dunque visto come il problema dell’essere – e perciò <strong>di</strong><br />

quella scienza che stu<strong>di</strong>a l’essere in quanto essere – faccia tutt’uno con<br />

il problema della sostanza, come del resto afferma Aristotele stesso in<br />

un passo famosissimo del VII libro della Metafisica:<br />

E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce<br />

l’eterno oggetto <strong>di</strong> ricerca, e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”,<br />

equivale a questo: “che cos’è la sostanza” (1028 b, 2-4).<br />

Grazie al principio <strong>di</strong> identità e al suo valore onto-logico, Aristotele è<br />

giunto quin<strong>di</strong> a <strong>di</strong>rci che la questione «che cos’è l’essere?» equivale a chiedersi<br />

«che cos’è la sostanza (ousia)?». E quella <strong>di</strong> sostanza è, per l’appunto,<br />

la nozione centrale della scienza dell’essere in quanto essere, che, da Aristotele<br />

in poi, è andata sotto il nome <strong>di</strong> ontologia o metaphysica generalis.<br />

_______________<br />

1 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 17.<br />

2 Espressione (un po’ militaresca) con la quale Heidegger intende segnalare il carattere<br />

ra<strong>di</strong>cale (e «autentico») della filosofia messa in atto da Aristotele nella<br />

Metafisica. Cfr. M. Heidegger, Principi metafisici della logica [Metaphysische Anfangsgründe<br />

der Logik im Ausgang von Leibniz, (1928) Gesamtausgabe Bd. 26, hrsg. von<br />

F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1978], ed. it. a cura <strong>di</strong> G.<br />

Moretto, il melangolo, Genova 1990, p. 24.<br />

88<br />

LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA IN ARISTOTELE<br />

3 J. Derrida, Margini della filosofia [Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972], ed.<br />

it. a cura <strong>di</strong> M. Iofrida, Einau<strong>di</strong>, Torino 1997, p. 96.<br />

4 M. Heidegger, Saggi e <strong>di</strong>scorsi [Vorträge und Aufsätze (1936-53), Gesamtausgabe Bd.<br />

7, hrsg. von F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 2000 ], ed.<br />

it. a cura <strong>di</strong> G. Vattimo, Mursia, Milano 1976-1980, p. 50.<br />

5 I. Kant, Critica della ragione pura [Kritik der reinen Vernunft (1781 1 e 1787 2 ), in KGS<br />

IV e III], tr. it. a cura <strong>di</strong> G. Colli, Adelphi, Milano 1995, pp. 649-650.<br />

6 Ivi, p. 623 e sgg.<br />

7 Secondo questa <strong>di</strong>mostrazione, se Dio è l’essere perfettissimo, allora l’esistenza<br />

gli appartiene <strong>di</strong> necessità. Ma se l’essere non è un pre<strong>di</strong>cato reale, la <strong>di</strong>mostrazione<br />

si contrad<strong>di</strong>ce da sé.<br />

8 E. Husserl, Ricerche logiche [Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur<br />

Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis (1901), Husserliana Bd. XIX/1-2, hrsg.<br />

von U. Panzer, Martinus Nijhoff, den Haag 1984], tr. it. <strong>di</strong> G. Piana, Il Saggiatore,<br />

Milano 1961, vol. II, p. 440.<br />

9 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., pp. 228-229.<br />

89


L’essere e il <strong>di</strong>vino<br />

Il testo o l’insieme <strong>di</strong> testi che formano i quattor<strong>di</strong>ci libri riuniti sotto<br />

il nome <strong>di</strong> Metafisica <strong>di</strong> Aristotele sono un laboratorio <strong>di</strong> interrogazioni,<br />

elaborazioni e rielaborazioni <strong>di</strong> problemi quanto mai aperti, spesso <strong>di</strong>chiaratamente<br />

aporetici: quanto <strong>di</strong> più lontano si possa immaginare da<br />

quel sistema chiuso e completo che si è andato costituendo nel corso<br />

dell’immensa fortuna dell’opera aristotelica. Con ciò non intendo in<br />

alcun modo escludere o sminuire il fatto che in essa si trovino pressoché<br />

tutti i presupposti delle gran<strong>di</strong> questioni sulle quali la metafisica successiva<br />

non ha più cessato <strong>di</strong> interrogarsi, attraverso continue fondazioni<br />

e rifondazioni, quali, secondo Heidegger, sono state sia Il <strong>di</strong>scorso sul metodo<br />

<strong>di</strong> Cartesio e la Monadologia <strong>di</strong> Leibniz, sia la Critica della ragione pura<br />

<strong>di</strong> Kant e – espressione ultima e conclusiva – lo Zarathustra <strong>di</strong> Nietzsche.<br />

In un celebre stu<strong>di</strong>o del 1923, Werner Jaeger definisce quella «scienza<br />

ricercata» da Aristotele (la «scienza dell’essere in quanto essere») come<br />

una «fenomenologia ontologica» 1 . In effetti, il modo <strong>di</strong> procedere <strong>di</strong><br />

Aristotele nei confronti della questione dell’«essere in quanto tale» ricorda<br />

per molti aspetti lo stile delle analisi caratteristiche della ricerca fenomenologica<br />

inaugurata, o meglio ripresa (tra l’altro grazie a Brentano<br />

e ai suoi stu<strong>di</strong> su Aristotele), da Husserl all’inizio del Novecento. Abbiamo<br />

già fatto cenno a questa vicinanza, il cui senso è stato precisato<br />

(e interpretato) da Heidegger attraverso l’in<strong>di</strong>cazione secondo cui, ciò<br />

che nella fenomenologia si presenta come l’«auto-manifestarsi dei fenomeni,<br />

è stato pensato in modo ancora più originario da Aristotele [...]<br />

come Aletheia» 2 .<br />

Sarebbe dunque quanto mai inopportuno e fuorviante addentrarsi<br />

nel laboratorio <strong>di</strong> problemi aperti dalla Metafisica <strong>di</strong> Aristotele cercando<br />

<strong>di</strong> riassumerne – dall’esterno – i contorni. Piuttosto, proseguendo lungo<br />

il cammino che abbiamo iniziato a percorrere nel precedente capitolo,<br />

ci concentreremo sull’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> alcuni luoghi del testo (in particolare,<br />

lo ripeto, la trattazione del concetto <strong>di</strong> sostanza e la questione<br />

dell’onto-teologia) che hanno maggiormente contribuito a gettare le<br />

fondamenta <strong>di</strong> quell’insieme <strong>di</strong> questioni che, declinandola variamente,<br />

90<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

la tra<strong>di</strong>zione ha assunto col nome <strong>di</strong> «metafisica». Riservandomi, nel<br />

procedere della riflessione, <strong>di</strong> ritornare su questi luoghi e metterne in <strong>di</strong>scussione<br />

riprese, spiegazioni e interpretazioni.<br />

Il percorso delineato nel precedente capitolo ci ha guidati a in<strong>di</strong>viduare<br />

quella che Aristotele considera come la nozione irrinunciabile<br />

della sua «fenomenologia ontologica»: la nozione <strong>di</strong> ousia. Ciò che questa<br />

espressione in<strong>di</strong>ca è quello che il principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, nella<br />

sua valenza logico-ontologica, ha condotto a considerare come l’oggetto<br />

proprio <strong>di</strong> quella «scienza ricercata» (o «desiderata»: zetoumene), che in<br />

seguito è stata chiamata «metafisica». Del resto, nel corso dei secoli, la<br />

problematizzazione del concetto <strong>di</strong> ousia – resa nella storia del pensiero<br />

per lo più con «sostanza», ma anche, a volte, con «essenza»: un’oscillazione,<br />

questa, che da sola richiederebbe analisi senza fine – costituirà<br />

non soltanto uno dei car<strong>di</strong>ni dell’aristotelismo scolastico (che non verrà<br />

preso in considerazione in questa sede), ma sarà anche il cuore <strong>di</strong> quel<br />

pensiero che esprimerà la metafisica, nel caso <strong>di</strong> Leibniz, come «monadologia»<br />

o, nel caso <strong>di</strong> Hegel, come quella «scienza della logica» che –<br />

come ci <strong>di</strong>rà lo stesso Hegel – «costituisce la vera e propria metafisica».<br />

Nel primo capitolo del libro VII della Metafisica, Aristotele scrive:<br />

L’essere ha molteplici significati […]. L’essere significa, infatti, da un<br />

lato, essenza [ti esti] e alcunché <strong>di</strong> determinato [tode ti], dall’altro, qualità<br />

o quantità o ciascuna delle altre categorie. Pur <strong>di</strong>cendosi in tanti significati,<br />

è tuttavia evidente che il primo dei significati dell’essere è l’essenza,<br />

la quale in<strong>di</strong>ca la sostanza [ten ousian] (Metafisica Z 1, 1-15).<br />

Il concetto <strong>di</strong> sostanza, quin<strong>di</strong>, consente <strong>di</strong> tenere uniti i molteplici significati<br />

dell’essere. Se tutte le categorie (sostanza, quantità, qualità, relazione,<br />

luogo ecc.) <strong>di</strong>cono infatti l’essere qualcosa <strong>di</strong> qualcosa, solo la<br />

sostanza <strong>di</strong>ce l’essenza <strong>di</strong> qualcosa, e cioè il suo essere. Se tutte le categorie<br />

<strong>di</strong>cono qualcosa dell’essere (ad esempio, una qualità), è tuttavia l’essere-sostanza<br />

a costituirne il fondamento. Nessuna delle altre categorie<br />

potrebbe infatti pre<strong>di</strong>care a suo modo l’essere <strong>di</strong> qualcosa, se non si desse<br />

la categoria <strong>di</strong> sostanza (per esempio, la qualità è sempre qualità <strong>di</strong> una<br />

sostanza ecc.). L’essere, quin<strong>di</strong>, è preliminarmente sostanza, dato che,<br />

ove questa venisse tolta, verrebbero meno anche tutti gli altri significati<br />

dell’essere. Essa è il «principio» e la «causa» che spiega l’essere <strong>di</strong> qualcosa;<br />

la causa prima e l’essere proprio <strong>di</strong> ogni «realtà determinata» (tode ti); dun-<br />

91


PARTE PRIMA<br />

que, la prima accezione dell’essere, mentre tutte le altre la presuppongono,<br />

poiché possono avere luogo solo in riferimento a una sostanza in<strong>di</strong>viduale.<br />

E, sempre nel libro VII (1028b 8-9), Aristotele precisa:<br />

In realtà, sembra impossibile che sia sostanza alcuna delle cose che si<br />

pre<strong>di</strong>cano in universale. In effetti, la sostanza prima <strong>di</strong> ciascun in<strong>di</strong>viduo<br />

è propria <strong>di</strong> ciascun in<strong>di</strong>viduo e non appartiene ad altri; l’universale,<br />

invece, è comune: infatti universale si <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> ciò che, per sua natura,<br />

appartiene a una molteplicità <strong>di</strong> cose.<br />

Duemila anni dopo, nel suo Discorso <strong>di</strong> metafisica (1686), Leibniz riformulerà<br />

così questo pensiero:<br />

Quando parecchi pre<strong>di</strong>cati si attribuiscono al medesimo soggetto, se<br />

questo soggetto non si attribuisce più ad alcun altro, lo si chiama sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale 3 .<br />

E sarà proprio a partire da questa riformulazione che Leibniz costruirà<br />

la sua dottrina della monade, anche se – è bene precisarlo subito<br />

– il concetto leibniziano <strong>di</strong> «sostanza in<strong>di</strong>viduale» (o, appunto, <strong>di</strong> «monade»)<br />

svilupperà la definizione aristotelica («nominale») <strong>di</strong> ousia in una<br />

<strong>di</strong>rezione che non avrà (quasi) più nulla <strong>di</strong> aristotelico. Anticipo questo<br />

punto importante.<br />

Il concetto leibniziano <strong>di</strong> sostanza ha solo il nome in comune con<br />

quello <strong>di</strong> Aristotele. Se infatti per Aristotele la sostanza è l’essere in sé,<br />

per Leibniz essa è un centro <strong>di</strong> rappresentazione, o meglio, una forza appetitiva<br />

e rappresentativa, un principium perceptionis et actionis simile all’anima,<br />

alla psyche; e ciò non perché la monade sia una specie <strong>di</strong> anima ma, al<br />

contrario, perché è piuttosto l’anima a essere una specie <strong>di</strong> monade.<br />

Come compirà Leibniz questa interpretazione dell’ontologia come monadologia?<br />

Risposta: portandosi oltre la semplice definizione «nominale».<br />

Se, in base a quest’ultima, la sostanza è quel «soggetto» che non<br />

si può attribuire come «pre<strong>di</strong>cato» ad alcun altro soggetto, e dunque ne<br />

esprime l’essenza o l’«ecceità», la definizione «reale» <strong>di</strong> sostanza ne in<strong>di</strong>vidua<br />

in senso proprio la «natura», vale a <strong>di</strong>re il fatto che, considerando<br />

un qualunque pre<strong>di</strong>cato attribuibile a quel soggetto, esso è tale per<br />

cui «colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe<br />

anche giu<strong>di</strong>care che il pre<strong>di</strong>cato gli appartiene» 4 ; o, in altri ter-<br />

92<br />

mini, la nozione (reale) <strong>di</strong> quel determinato soggetto (poniamo «Socrate»)<br />

è così «compiuta» da contenere in sé, e da consentire <strong>di</strong> poter dedurre<br />

da essa, tutti i pre<strong>di</strong>cati che sono contenuti in quel soggetto. In via<br />

ipotetica, quin<strong>di</strong>, dato il soggetto «Socrate», dovrebbe essere possibile<br />

– anche se non lo è mai <strong>di</strong> fatto per una mente finita come quella umana<br />

– estrarre dalla sua sostanza in<strong>di</strong>viduale tutti i pre<strong>di</strong>cati che gli ineriscono,<br />

e perciò non solamente certe qualità generiche o specifiche <strong>di</strong> un soggetto-uomo,<br />

ma anche quegli attributi essenziali che esprimono ciò che gli<br />

accadrà o gli dovrà essere accaduto (ad esempio: <strong>di</strong> essere sottoposto a<br />

processo, <strong>di</strong> non fuggire dal carcere, <strong>di</strong> darsi la morte con la cicuta). Ed<br />

è precisamente a partire dalla definizione reale che Leibniz può interpretare<br />

la sostanza («in senso primo») <strong>di</strong> Aristotele come «monade» o<br />

«entelechia» (una sorta <strong>di</strong> anima o spirito intelligibile) e il mondo come<br />

un sistema <strong>di</strong> mona<strong>di</strong>.<br />

Ci torneremo. Notiamo per ora come questa interpretazione della<br />

sostanza come essenza <strong>di</strong> un soggetto determinato è – al <strong>di</strong> là dei termini<br />

– ciò che <strong>di</strong> più lontano, se non affatto estraneo, ci sia al concetto<br />

aristotelico <strong>di</strong> essenza (to ti en einai, l’essere <strong>di</strong> ciò che la cosa era) e, in generale,<br />

al pensiero greco. Per Aristotele, infatti, è possibile definire l’essenza<br />

<strong>di</strong> una cosa esistente – un uomo, questo uomo, Socrate, ad esempio<br />

– soltanto a cose fatte. Si può <strong>di</strong>re che l’essenza <strong>di</strong> Socrate era <strong>di</strong> essere sapiente,<br />

ma lo si può <strong>di</strong>re per l’appunto soltanto una volta che la «sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale» <strong>di</strong> Socrate sia stata «compiuta» (e cioè solo dopo la<br />

sua morte); dal momento che la contingenza che affetta da parte a parte<br />

ogni cosa potrà sempre mettere in <strong>di</strong>scussione tutto ciò che noi potremo<br />

<strong>di</strong>re <strong>di</strong> quella cosa: l’ultimo istante della vita <strong>di</strong> Socrate avrebbe<br />

potuto revocare in dubbio o smentire quella sapienza che era stata caratteristica<br />

<strong>di</strong> tutta la sua precedente esistenza. In altri termini: è l’avvenimento<br />

della morte a definire l’essenza <strong>di</strong> ciò che una cosa «aveva da<br />

essere». Come scrive Aubenque, per Aristotele, «non c’è attribuzione<br />

essenziale che all’imperfetto» 5 . Se da questo punto <strong>di</strong> vista vogliamo farci<br />

un’idea <strong>di</strong> che cosa Aristotele intenda per essenza, basta leggere – un<br />

esempio tra altri – l’incipit (vv. 1-4) delle Trachinie <strong>di</strong> Sofocle:<br />

Esiste un detto tra gli uomini antico<br />

e illuminato: non potrai conoscere<br />

mai <strong>di</strong> nessuno la vita mortale<br />

prima che muoia 6 .<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

93


PARTE PRIMA<br />

Torniamo però al testo della Metafisica. Ricordo come, nei confronti<br />

del problema dell’essere e della sostanza, Aristotele pensa che si tratti <strong>di</strong><br />

un’interrogazione sempre e da sempre («aei») aperta, il tema – se lo è – <strong>di</strong><br />

una ricerca interminabile. Richiamo ancora una volta parole che ho già<br />

citato:<br />

E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce<br />

l’eterno oggetto <strong>di</strong> ricerca [aei zetoumenon], e l’eterno problema [aei<br />

aporoumenon]: “che cos’è l’essere” equivale a questo: “che cos’è la sostanza”<br />

(Z 1, 1028 b, 2-4).<br />

Ci sarebbe molto da <strong>di</strong>re a proposito <strong>di</strong> questo «sempre da ricercare»<br />

e «sempre problematico» (o aporetico). Che cosa si nasconde, infatti, in<br />

quel «sempre» (continuamente, dall’inizio e ogni volta, <strong>di</strong> volta in volta)?<br />

Che cosa decide del carattere aperto, problematico, aporetico, interminabile<br />

<strong>di</strong> questa analisi? Dipende forse dal fatto – come ha notato Heidegger<br />

– che «la comprensione dell’essere e quin<strong>di</strong> il suo sviluppo<br />

nell’ontologia [...] debbono essere messi in luce nella loro possibilità<br />

temporale (temporalen)», cioè a partire dalla temporalità (Zeitlichkeit) dell’esserci<br />

7 ? Nella nozione stessa <strong>di</strong> ousia – <strong>di</strong> enticità dell’ente – non è infatti<br />

contenuta, o meglio, celata una determinazione temporale? L’ente<br />

è forse generalmente compreso in termini <strong>di</strong> «pres-ente» e <strong>di</strong> «presenza»<br />

(tratto questo che, come vedremo, è caratteristico <strong>di</strong> tutta la tra<strong>di</strong>zione<br />

metafisica successiva) 8 ? Certo. E questo <strong>di</strong>scorso, del resto, è speculare<br />

a quello che facevamo nel precedente capitolo a proposito del principio<br />

<strong>di</strong> identità o <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, mostrando come se tale principio aspira<br />

ad avere una portata ontologica (e non meramente logico-formale), allora<br />

è già sintetico – e cioè «affetto» dalla «temporalità». Resterebbe però<br />

ancora da chiedersi: sono la «finitezza» e l’«in<strong>di</strong>genza» dell’esserci a determinare<br />

quel «bisogno <strong>di</strong> ontologia» che si esprime nella forma della<br />

domanda sull’essere 9 , oppure c’è altro (o c’è l’altro) nel carattere interminabile<br />

<strong>di</strong> questa domanda (e in quella stessa finitezza)? Queste interrogazioni<br />

aprirebbero questioni immense che per il momento dobbiamo<br />

lasciare in sospeso. Ripren<strong>di</strong>amo invece il filo principale del nostro <strong>di</strong>scorso.<br />

La sostanza, abbiamo detto, è la prima accezione dell’essere: tutte le<br />

altre la presuppongono. Nessuna determinazione qualitativa, quantita-<br />

94<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

tiva o affettiva ha luogo, se non in riferimento a una sostanza in<strong>di</strong>viduale.<br />

Tuttavia, anche la sostanza è stata intesa in <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> (come essenza,<br />

come l’universale, come il genere, come il sostrato). Ora: l’accezione che<br />

Aristotele considera decisiva è quella <strong>di</strong> essenza (ti en einai). Infatti l’universale,<br />

vale a <strong>di</strong>re ciò che appartiene a più cose e si può pre<strong>di</strong>care <strong>di</strong> più<br />

cose, non è, come abbiamo già visto, sostanza, e così il genere, come del<br />

resto non lo sono le idee degli idealisti (<strong>di</strong> Platone). La sostanza è sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale e quin<strong>di</strong> essenza: ciò che una cosa è «per se stessa»<br />

(kath’auto), e dunque sempre «qualcosa <strong>di</strong> determinato» (tode ti).<br />

Torneremo su questo punto. Cerchiamo per intanto <strong>di</strong> seguire il passaggio<br />

che porta la filosofia prima, la scienza dell’essere in quanto essere,<br />

a occuparsi del <strong>di</strong>vino, e che conduce Aristotele a chiamare questa scien -<br />

za «teologia» o «filosofia teologica». Per farlo, dobbiamo fare un veloce<br />

passo in<strong>di</strong>etro e riportarci al I libro della Metafisica.<br />

Qui Aristotele parlava della filosofia come <strong>di</strong> una conoscenza che si<br />

occupa delle «prime cause» e dei «primi principi». Essa è, in altri termini,<br />

conoscenza del «perché» (<strong>di</strong>a ti) delle cose. Ma, esattamente, che<br />

cosa si intende per «causa»?<br />

In primo luogo, la causa è la causa formale, la sostanza o l’essenza: infatti<br />

essa <strong>di</strong>ce il concetto, la ragion d’essere, il logos o la definizione <strong>di</strong> una<br />

certa cosa; in secondo luogo, con la parola «causa» ci si riferisce alla materia<br />

o al sostrato; con la terza accezione <strong>di</strong> «causa», si intende la causa<br />

efficiente – cioè il principio: ciò che dà inizio al movimento; il quarto<br />

tipo <strong>di</strong> causa, infine, è quella opposta alla terza, ovvero lo scopo, il fine,<br />

il telos del movimento e del <strong>di</strong>venire (e cioè, come vedremo, il bene).<br />

La prima <strong>di</strong> queste cause (la sostanza) ha ancora una volta una preliminarità<br />

o un primato rispetto alle altre, poiché gli altri mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> essercausa<br />

(il sostrato, la causa efficiente, lo scopo) sono considerati<br />

determinazioni o espressioni della prima. Si vede qui come la dottrina<br />

della sostanza <strong>di</strong> Aristotele si proponga <strong>di</strong> tenere uniti in un solo oggetto<br />

<strong>di</strong> interrogazione quei <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> intendere le cause che la filosofia<br />

precedente aveva <strong>di</strong>viso, i «fisici» avendo considerato soltanto la causa<br />

materiale (la seconda sopra elencata) e quella efficiente (la terza), Platone<br />

unicamente le cause formali e materiali (la prima e la seconda), Anassagora<br />

solo quella finale (la quarta).<br />

Introducendo il quarto capitolo del libro XII della Metafisica (il cosiddetto<br />

«trattato teologico») Aristotele scrive:<br />

95


PARTE PRIMA<br />

Le cause ed i principi, in un senso sono <strong>di</strong>versi per le <strong>di</strong>verse cose; in<br />

un altro senso, se si considerano in universale e per analogia, sono gli<br />

stessi per tutte le cose (1070 a, 31-33).<br />

Si tratta, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> trovare l’esser-causa nella molteplicità delle forme<br />

in cui ci si presenta la natura e della possibilità <strong>di</strong> rintracciare la causa<br />

prima che unifica tutte le altre.<br />

Ora, il passaggio che è possibile compiere a questo punto, e che deciderà<br />

dell’intera tra<strong>di</strong>zione della metafisica come onto-teo-logia, è – almeno<br />

nell’interpretazione <strong>di</strong> Heidegger – il seguente: se dobbiamo<br />

comprendere le <strong>di</strong>verse cause nella loro unità essenziale (in quanto, proprio<br />

nella loro unità d’essenza, esse costituiscono l’essere dell’ente in<br />

generale) allora dobbiamo anche comprendere tale essere come un ente<br />

essenzialmente essente. Se nell’unità della sostanza l’essere è compreso come<br />

la prima «causa» e il «fine» ultimo, il <strong>di</strong>scorso che verte sull’essere in<br />

quanto essere – o sull’ente in quanto ente – verte, al tempo stesso, su quell’essere<br />

(ente) che è causa finale, e cioè, su Dio: sul concetto metafisico<br />

<strong>di</strong> Dio, sul <strong>di</strong>o della metafisica. Detto in altri termini: la prima «causa»<br />

e la «ragione» ultima degli enti è quell’ente che è causa prima e ragione<br />

ultima <strong>di</strong> ogni ente. La causa prima e l’ultima ratio non può che essere causa<br />

sui e ragione <strong>di</strong> ragione («pensiero <strong>di</strong> pensiero» come scrive Aristotele).<br />

Il fondamento necessario dell’ente è l’Ente Fondamentale e Necessario,<br />

e la ragione più pura dell’ente è un Ente <strong>di</strong> pura ragione.<br />

Due formulazioni <strong>di</strong> Heidegger ci aiutano a comprendere meglio<br />

questo passaggio – anche se non è affatto sicuro che si tratti <strong>di</strong> un passaggio<br />

che si compie all’interno delle argomentazioni della Metafisica <strong>di</strong><br />

Aristotele, e non piuttosto <strong>di</strong> un’interpretazione successiva, ad esempio<br />

quella, propriamente onto-teologica, della filosofia <strong>di</strong> Leibniz. La prima<br />

che mi appresto a citare è contenuta in Identità e <strong>di</strong>fferenza, la seconda nel<br />

saggio Il concetto hegeliano <strong>di</strong> esperienza, contenuto in Sentieri interrotti.<br />

Nel primo testo che leggeremo, la domanda-guida <strong>di</strong> Heidegger è la<br />

seguente: «come entra il <strong>di</strong>o nella filosofia?». Ed ecco la sua risposta:<br />

96<br />

La metafisica pensa l’essente in quanto tale, ossia in generale. La metafisica<br />

pensa l’essente in quanto tale, ossia nella sua totalità. La metafisica<br />

pensa l’essere dell’essente tanto nell’unità <strong>di</strong> ciò che è più generale,<br />

ossia <strong>di</strong> ciò che è ovunque valido, unità che è ricerca del fondo [ergründende<br />

Einheit], quanto nell’unità della totalità, ossia <strong>di</strong> ciò che sta al <strong>di</strong><br />

sopra <strong>di</strong> tutto, unità che è fondazione giustificante [begründende Einheit].<br />

Così l’essere dell’essente è pensato come fondamento che fonda 10 .<br />

Nel secondo testo Heidegger scrive:<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

A questa scienza che considera l’ente in quanto ente Aristotele dà un<br />

nome da lui stesso escogitato: filosofia prima. Questa però non si limita<br />

a considerare l’ente nella sua entità, ma considera anche quell’ente<br />

che corrisponde con purezza all’entità, l’ente supremo. Questo ente, to<br />

theion, il <strong>di</strong>vino, viene anche detto, con una strana ambiguità, l’«essere».<br />

La filosofia prima, in quanto ontologia, è, ad un tempo, teologia dell’ente<br />

che veramente è. Per essere più esatti, bisognerebbe dargli il nome<br />

<strong>di</strong> teiologia. La scienza dell’ente come tale è in se stessa onto-teologia 11 .<br />

Ecco dunque in che senso la «filosofia prima», pensata da Aristotele<br />

come scienza dell’essere in quanto essere (dell’ens qua ens) <strong>di</strong>viene – o, più<br />

esattamente, <strong>di</strong>venterà – insieme ontologia e teologia: l’una per l’altra e<br />

l’una in quanto l’altra. Scrive a questo proposito sempre Heidegger:<br />

La metafisica [...] non è soltanto teo-logica, ma anche onto-logica. Soprattutto<br />

essa non è soltanto l’una oppure anche l’altra. Piuttosto la metafisica<br />

è teo-logica perché è onto-logica. È onto-logica perché è<br />

teo-logica 12 .<br />

Su tutto ciò – e sul modo in cui la tra<strong>di</strong>zione della metafisica ha interpretato<br />

la teologia (o «teiologia») <strong>di</strong> Aristotele – potrebbero aprirsi <strong>di</strong>scorsi<br />

infiniti, sui quali in effetti tornerò. Sottolineo qui soltanto come<br />

la forza <strong>di</strong> questa interpretazione heideggeriana della metafisica – come,<br />

cioè, <strong>di</strong> una storia o <strong>di</strong> una narrazione unica, che da Aristotele giunge<br />

fino a Hegel per essere raccolta sotto il titolo, così poco aristotelico, <strong>di</strong> «ontoteologia»<br />

– sia anche la sua debolezza. E ciò in virtù della <strong>di</strong>fficoltà che<br />

inevitabilmente incontra nell’in<strong>di</strong>carci le chiavi che, in ognuno dei suoi<br />

episo<strong>di</strong> e delle sue narrazioni, la metafisica ci consegna per leggere il<br />

nostro tempo. Il carattere inimitabile <strong>di</strong> questa interpretazione, vale a<br />

<strong>di</strong>re la sua capacità <strong>di</strong> sollevare una questione unitaria – senza perdersi<br />

in <strong>di</strong>stinguo poco produttivi – è al tempo stesso e per la medesima ragione<br />

inevitabilmente anche il suo limite. Solo per fare un esempio, che<br />

per noi non è però solo un esempio: siamo sicuri che l’interpretazione<br />

97


PARTE PRIMA<br />

della metafisica nel suo insieme come onto-teologia abbia una presa ermeneutica<br />

efficace, se riferita a Kant o a Hegel – e perfino allo stesso<br />

Aristotele? E se questa domanda dovesse ricevere una risposta almeno<br />

in parte negativa, non dovremmo anche, volta per volta, rimodulare il<br />

senso della decostruzione o della delimitazione della metafisica? Ma torniamo<br />

al testo aristotelico.<br />

Per ora, il punto che mi preme chiarire è come, nel decimo capitolo<br />

del XII libro della Metafisica, Aristotele descriva la relazione tra Dio – il<br />

motore immobile che muove le sfere celesti e la cui forma <strong>di</strong> vita è «pensiero<br />

<strong>di</strong> pensiero» – e il mondo. Determinando l’essere in termini <strong>di</strong><br />

principio (arché), <strong>di</strong> causa efficiente, <strong>di</strong> fine o scopo, dobbiamo precisare<br />

in che modo una causa prima e finale – cioè il bene – si rapporti alla<br />

totalità dell’ente – o, in altri termini, in che modo «la natura del tutto<br />

possiede il bene». Di che rapporto si tratta? È un rapporto <strong>di</strong> immanenza?<br />

Di trascendenza? O <strong>di</strong> entrambi nello stesso tempo? Ricorriamo<br />

alle parole dello stesso Aristotele:<br />

Bisogna considerare, anche, in quale modo la realtà [physis] dell’universo<br />

possegga il bene ed il bene supremo 13 : (a) come qualcosa che è separato<br />

[kechorismenon 14 ] ed in sé e per sé [auto kath’auto], (b) oppure come l’or<strong>di</strong>ne<br />

[taxin], (c) oppure in ambedue i mo<strong>di</strong> (1075 a, 11-13).<br />

Aristotele farà propria la terza soluzione. Ciò significa che a essere in<br />

gioco è tanto una relazione <strong>di</strong> «separazione» quanto una <strong>di</strong> «or<strong>di</strong>ne»<br />

(taxis), nel senso che il bene separato «in sé e per sé» (trascendente, absolutus)<br />

e l’or<strong>di</strong>ne immanente sono articolati insieme e si rapportano l’uno<br />

all’altro 15 . Per spiegare questa articolazione, Aristotele ricorre agli esempi<br />

<strong>di</strong> un esercito e <strong>di</strong> una casa. Ed è proprio quest’ultimo, a rappresentare<br />

per noi l’esempio maggiormente significativo. Scrive infatti Aristotele:<br />

Tutte le cose sono in certo modo or<strong>di</strong>nate insieme, ma non tutte nello<br />

stesso modo; pesci, volatili e piante; e l’or<strong>di</strong>namento non ha luogo in<br />

modo tale che una cosa non abbia alcun rapporto con l’altra, ma in<br />

modo che ci sia alcunché <strong>di</strong> comune. Tutte le cose, infatti, sono coor<strong>di</strong>nate<br />

ad un fine ultimo. Così in una casa [en oikia] (1075 a, 15-19).<br />

Se, perciò, tutti gli enti della «natura» coabitano in uno spazio comune<br />

– il che costituisce il presupposto stesso, molto problematico, del<br />

98<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

darsi a noi <strong>di</strong> un mondo – e si rapportano tra loro come in una comunità<br />

familiare, questa comunione domestica, tuttavia, non è che l’espressione<br />

del rapportarsi <strong>di</strong> ciascuno <strong>di</strong> essi a un fine separato (in sé e per sé,<br />

assoluto). Le cose convengono quin<strong>di</strong> in un or<strong>di</strong>ne economico (domestico)<br />

in tanto in quanto si relazionano ciascuna singolarmente al bene<br />

come proprio telos; il quale, d’altro canto, si <strong>di</strong>mostra proprio per il fatto<br />

che le cose si conformano e si or<strong>di</strong>nano tra loro come in una casa o in<br />

una famiglia.<br />

In questa cosmo-onto-teologia convivono – o meglio, Aristotele cerca<br />

<strong>di</strong> rendere coabitabili – immanenza e trascendenza, or<strong>di</strong>ne e desiderio,<br />

un’erotica e un’economica. Si tratta <strong>di</strong> una convivenza <strong>di</strong>fficile, problematica<br />

e anzi, in questi termini, aporetica. Vedremo come Leibniz cercherà<br />

<strong>di</strong> risolvere questa <strong>di</strong>fficoltà – aprendo a sua volta una nuova aporia – ricorrendo<br />

alla dottrina dell’«armonia prestabilita» tra le mona<strong>di</strong> (gli enti,<br />

le sostanze), ciascuna delle quali segue, o sembra seguire, il proprio appetitus,<br />

mentre non fa che esprimere un or<strong>di</strong>ne e una <strong>di</strong>sposizione prefigurata.<br />

E si potrebbe anche aggiungere che in questa <strong>di</strong>fficoltà si manifesta<br />

il cuore <strong>di</strong> ogni questione <strong>di</strong> «sovranità» o <strong>di</strong> «governamentalità».<br />

Ma restiamo ad Aristotele. L’«erotica» – e cioè l’idea <strong>di</strong> un centro,<br />

un motore immobile, che (pro)muove ogni cosa attraverso la tensione<br />

(il desiderio) che tutte avvertono, consapevolmente o meno, nei suoi<br />

confronti: «l’amor che move il sole e l’altre stelle», come nell’ultimo<br />

verso del Para<strong>di</strong>so <strong>di</strong> Dante – ricorda ciò che, nella Repubblica (VI, 509b<br />

6-10), Platone aveva osservato a proposito del bene:<br />

Puoi <strong>di</strong>re dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal<br />

bene la proprietà <strong>di</strong> essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l’esistenza<br />

[einai] e l’essenza [ousia], anche se il bene non è essenza, ma qualcosa<br />

che per <strong>di</strong>gnità e potenza trascende l’essenza [epekeina tes ousias].<br />

Se l’«erotica» esprime come desiderio la tensione verso l’altro – ciò<br />

che «trascende», ciò che è «al <strong>di</strong> là dell’essenza»: anche se in Platone il<br />

«bene» al <strong>di</strong> là dell’essenza è pur sempre pensato a partire dall’essenza –<br />

l’«economica» esprime invece l’or<strong>di</strong>namento e la <strong>di</strong>sposizione immanente<br />

degli enti, in quanto coor<strong>di</strong>nati nel tendere in comune «ad un<br />

unico fine».<br />

Questa doppio vettore (erotico ed economico) esprime una tensione<br />

(erotica o economica?) tra eros e oikos, tra appetitus e <strong>di</strong>spositio, tra deside-<br />

99


PARTE PRIMA<br />

rio e or<strong>di</strong>ne; tra desiderio d’altri – dell’«altrimenti che essere», per <strong>di</strong>re la<br />

cosa con la formula con cui Levinas in<strong>di</strong>ca la trascendenza in un senso<br />

che non intende essere più platonico, vale a <strong>di</strong>re non più pensato a partire<br />

dall’essere, dall’essenza, dall’immanenza 16 – e interesse o interessenza<br />

(nell’immanenza, nel proprio, nel comune e nel medesimo). E ci sarebbe<br />

anche da chiedersi se questa duplice inflessione del conatus, segnata in<br />

Platone e Aristotele alle origini del pensiero filosofico, non sia una delle<br />

questioni decisive – e quanto mai attuali – <strong>di</strong> ciò che la tra<strong>di</strong>zione ci ha<br />

consegnato attraverso la parola «metafisica». Ci dovremo tornare.<br />

Osserviamo soltanto, in conclusione, come la soluzione proposta da<br />

Aristotele del rapporto, insieme semplice e duplice, tra il «bene separato»<br />

(inteso come fine da cui <strong>di</strong>pende «la natura del tutto») e l’«or<strong>di</strong>ne» immanente<br />

all’universo delle cose, avrà una fortuna immensa. Teleologia ed<br />

economia scriveranno e detteranno qui i termini stessi dell’onto-teo-logia.<br />

Questi termini – declinati in forme assai <strong>di</strong>verse tra loro (e saranno sia la<br />

continuità che le <strong>di</strong>verse declinazioni a interessarci, dato che ciascuna <strong>di</strong><br />

esse ci inviterà a comprendere qualcosa <strong>di</strong> peculiare) – li ritroveremo nella<br />

concezione leibniziana dell’«armonia prestabilita», nel concetto kantiano<br />

<strong>di</strong> «conformità a scopi» e nello «Spirito assoluto» <strong>di</strong> Hegel.<br />

E a proposito <strong>di</strong> quest’ultimo, vorrei ricordare, in conclusione <strong>di</strong> capitolo,<br />

come, nella sua Enciclope<strong>di</strong>a, Hegel segni la fase finale del cammino<br />

che, unificando natura e spirito, porta all’«Idea eterna essente in<br />

sé e per sé come Spirito assoluto», proprio con una citazione tratta dal<br />

XII libro della Metafisica <strong>di</strong> Aristotele (1072b, 18-30). Mi limito qui a riportare<br />

questa citazione, significativamente collocata da Hegel in postergo<br />

alla sua opera, senza commentarla per esteso (come certamente meriterebbe),<br />

inserendo, tra parentesi quadre, qualche espressione hegeliana,<br />

qualche veloce chiosa e alcune equivalenze greco-tedesche:<br />

100<br />

Ora, il pensiero [noesis, Denken] che è pensiero per sé, ha come oggetto<br />

ciò che è <strong>di</strong> per sé [kath’auto, an und für sich selbst] più eccellente, e il pensiero<br />

che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in<br />

massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile<br />

[Der Gedanke denkt aber sich selbst durch Aufnahme des Gedachten; alla<br />

lettera: “ma il pensiero pensa se stesso quando accoglie il pensato”]: infatti,<br />

essa <strong>di</strong>venta intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza<br />

e intelligibile coincidono [tauton nous kai noeton, der Gedanke und<br />

das Gedachte dasselbe ist: e sarà proprio questa stessità del pensiero e del<br />

L’ESSERE E IL DIVINO<br />

pensato il tratto che definisce la ripresa hegeliana della metafisica aristotelica,<br />

un tratto che in Hegel sarà reso possibile dal risolversi della<br />

“sostanza” in “soggetto” nella “proposizione speculativa”]. L’intelligenza<br />

è, infatti, ciò che è capace <strong>di</strong> cogliere l’intelligibile e la sostanza<br />

[ousia, Wesen], ed è in atto [energei, wirkt] quando li possiede. Pertanto,<br />

più ancora che quella capacità, è questo processo ciò che <strong>di</strong> <strong>di</strong>vino ha<br />

l’intelligenza; e l’attività contemplativa [theoria, Spekulation] è ciò che c’è<br />

<strong>di</strong> più piacevole e <strong>di</strong> più eccellente. Se, dunque, in questa felice con<strong>di</strong>zione<br />

in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso;<br />

e se Egli si trova in una con<strong>di</strong>zione superiore, è ancor più<br />

meraviglioso. E in questa con<strong>di</strong>zione egli effettivamente si trova. Ed<br />

egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita [<strong>di</strong>e Wirksamkeit<br />

des Gedankens ist Leben], ed egli è appunto quell’attività. E la sua attività,<br />

che sussiste <strong>di</strong> per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo infatti che Dio<br />

è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente<br />

continua ed eterna: questo, dunque, è Dio 17 .<br />

In questa trasposizione interlineare greco-tedesca possiamo già scorgere<br />

come la filosofia hegeliana si allontani in modo ra<strong>di</strong>cale dalla tra<strong>di</strong>zionale<br />

interpretazione scolastica e leibniziana della metafisica come<br />

onto-teologia. Riformula piuttosto l’idea aristotelica dell’esistenza <strong>di</strong>vina<br />

come «pensiero <strong>di</strong> pensiero» (e non Ente supremamente essente, e<br />

nemmeno ens rationis) nel concetto della Vita dello Spirito assoluto. Qui<br />

Aristotele non è, come in Heidegger, il fondatore dell’onto-teologia.<br />

Eppure, anche in questo caso, ciò che in Aristotele resta sul piano <strong>di</strong><br />

una duplicità aporetica (e dell’imitazione del «<strong>di</strong>vino») si tradurrà in termini<br />

<strong>di</strong> coincidenza.<br />

_______________<br />

1 W. Jaeger, Aristotele. Prime linee <strong>di</strong> una storia della sua evoluzione spirituale [Aristoteles.<br />

Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Weidmann, Berlin 1923], tr. it. a cura<br />

<strong>di</strong> G. Calogero, Sansoni, Milano 2004.<br />

2 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 194.<br />

3 G.W. Leibniz, Scritti filosofici [Sämtliche Schriften und Briefe, Akademie Verlag Berlin<br />

1923], tr. it. a cura <strong>di</strong> D. O. Bianca, UTET, Torino 1967, vol. I, p. 71.<br />

4 Ivi, p. 70 e sgg.<br />

5 P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote. Essai sur la problématique aristotélicienne,<br />

PUF, Paris, 1962, p. 456 e sgg. In part. p. 469.<br />

101


PARTE PRIMA<br />

6 Sofocle, Le trage<strong>di</strong>e, a cura <strong>di</strong> G. Lombardo Ra<strong>di</strong>ce, Einau<strong>di</strong>, Torino 1966, p. 343.<br />

7 M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia [Die Grundprobleme der Phänomenologie<br />

(1927), Gesamtausgabe Bd. 24, hrsg. von F-W. von Herrmann, V. Klostermann,<br />

Frankfurt a. M. 1975], a cura <strong>di</strong> A. Fabris, il melangolo, Genova 1990,<br />

p. 263.<br />

8 M. Heidegger, Essere e tempo [Sein und Zeit, (1927), Gesamtausgabe Bd. 2, hrsg. von<br />

F-W. von Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1977], tr. it. <strong>di</strong> P. Chio<strong>di</strong>,<br />

UTET, Torino 1969, p. 84.<br />

9 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 211.<br />

10 M. Heidegger, Identità e <strong>di</strong>fferenza, cit., p. 27.<br />

11 M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 177.<br />

12 M. Heidegger, Identità e <strong>di</strong>fferenza, cit., p. 28.<br />

13 Giovanni Reale traduce to ariston con «l’ottimo»; qui ho tuttavia preferito, in ragione<br />

<strong>di</strong> una certa tra<strong>di</strong>zione, conservare la <strong>di</strong>zione «il bene supremo».<br />

14 Nell’espressione kechorismenon risuonano chorismos, la <strong>di</strong>versità, e chora, il luogo, la<br />

contrada, il tratto.<br />

15 Per un’efficace lettura <strong>di</strong> questa aporia aristotelica, cfr. G. Agamben, op. cit., p.<br />

94 sgg.<br />

16 E. Levinas, Altrimenti che essere o al <strong>di</strong> là dell’essenza [Autrement qu’être ou au-delà de<br />

l’essence, M. Nijhoff, La Haye 1974], ed. it. a cura <strong>di</strong> S. Petrosino, Jaca Book, Milano<br />

1983.<br />

17 G.W.F. Hegel, Enciclope<strong>di</strong>a delle scienze filosofiche in compen<strong>di</strong>o, cit., p. 941.<br />

102<br />

Leibniz. Ontoteologia e monadologia<br />

Fine del 1685 – inizio del 1686. Leibniz scrive il Discours de Metaphysique:<br />

un testo in cui si propone <strong>di</strong> rivalutare – anche contro proprie posizioni<br />

e affermazioni contenute in opere precedenti – la nozione <strong>di</strong><br />

derivazione aristotelico-scolastica <strong>di</strong> sostanza in<strong>di</strong>viduale – che egli chiamerà<br />

anche «sostanza semplice» o «atomo <strong>di</strong> sostanza», «unità reale»,<br />

«entelechia», «punto metafisico» e, con il termine che si rivelerà più fortunato<br />

nel corso della storia della filosofia, «monade».<br />

Compiendo un simile gesto, Leibniz era ben consapevole <strong>di</strong> ridare<br />

citta<strong>di</strong>nanza a un concetto che, nel contesto storico-culturale del suo<br />

tempo, godeva <strong>di</strong> pessima fama 1 ; e sarà egli stesso a definire un «paradosso»<br />

il suo tentativo <strong>di</strong> «richiamare post limen» (dall’esilio) una nozione<br />

messa al bando nei <strong>di</strong>battiti del suo tempo. Si tratta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> capire a che<br />

cosa rispondeva un gesto così controcorrente.<br />

Se da un lato, attraverso questa riabilitazione, Leibniz si rifaceva all’idea<br />

aristotelica secondo cui la sostanza è sempre un in<strong>di</strong>viduo (tode ti)<br />

e mai una «forma universale», dall’altro canto non intendeva limitarsi a<br />

riproporre il concetto <strong>di</strong> ousia nel modo in cui era stato assunto dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione della filosofia me<strong>di</strong>evale. Egli lo interpreterà invece in modo<br />

del tutto originale, tanto da farne la chiave del suo nuovo sistema <strong>di</strong> metafisica.<br />

Dobbiamo allora domandarci: 1) qual è il significato che Aristotele<br />

attribuiva a tale nozione? e 2) qual è la nuova intenzione a cui la<br />

Leibniz la piega?<br />

Abbiamo visto in precedenza come, nel Discorso <strong>di</strong> metafisica, Leibniz<br />

scrivesse che:<br />

quando parecchi pre<strong>di</strong>cati si attribuiscono al medesimo soggetto, se<br />

questo soggetto non si attribuisce più ad alcun altro, lo si chiama sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale 2 .<br />

Questa definizione deriva effettivamente dal concetto aristotelico (e<br />

scolastico) <strong>di</strong> sostanza in<strong>di</strong>viduale (tode ti, in<strong>di</strong>viduum). Lo si può desumere,<br />

ad esempio, da questo passaggio tratto dalle Categorie:<br />

103


PARTE PRIMA<br />

“Sostanza” [ousia] nel senso più proprio, in primo luogo e nella più<br />

grande misura, è quella che non si <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> un qualche sostrato, né è in<br />

qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, un determinato<br />

cavallo (5, 2a 11 sgg.).<br />

La sostanza «nel senso più proprio» in<strong>di</strong>ca sempre qualcosa <strong>di</strong> determinato:<br />

questo cavallo, questo uomo. Nella Metafisica troviamo poi<br />

quest’altra formulazione:<br />

In effetti, la sostanza prima <strong>di</strong> ciascun in<strong>di</strong>viduo è propria <strong>di</strong> ciascun in<strong>di</strong>viduo<br />

e non appartiene ad altri; l’universale, invece, è comune: infatti<br />

l’universale si <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> ciò che, per sua natura, appartiene a una molteplicità<br />

<strong>di</strong> cose (Z 13, 1038b 8 sgg.).<br />

Ora: Leibniz accoglie questa definizione, ma la considera al tempo<br />

stesso insufficiente, in quanto la sua procedura definitoria conduce a<br />

una caratterizzazione soltanto «nominale» (formale) della sostanza. Per<br />

lui, si tratta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> andare oltre e <strong>di</strong> guadagnare una «definizione reale»<br />

del concetto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduum.<br />

Poco più avanti vedremo come questo passaggio – sulle prime soltanto<br />

graduale – comporterà conseguenze <strong>di</strong> portata determinante. Con<br />

esso, Leibniz si allontanerà in modo decisivo dall’impostazione aristotelica<br />

fino ad abbandonarla (o a rovesciarla) del tutto; per introdurci in<br />

un’ontologia (e in un’onto-teo-logia) affatto <strong>di</strong>versa: la monadologia.<br />

All’origine <strong>di</strong> questa svolta si può porre la seguente considerazione: se<br />

per Aristotele la sostanza «prima» (o sostanza «nel senso più proprio»)<br />

è definita dal tratto della presenza autonoma, per Leibniz questa autosufficienza<br />

è caratterizzata in termini <strong>di</strong> autarchia e intransitività. Ed è appunto<br />

questa caratterizzazione a fare della «sostanza» una «monade».<br />

Su questo passaggio fondamentale, torneremo successivamente. In<br />

questa fase iniziale, conviene piuttosto seguire attentamente le argomentazioni<br />

che nei parr. VIII e XXIV del Discorso <strong>di</strong> metafisica conducono<br />

Leibniz a «<strong>di</strong>stinguere le definizioni nominali da quelle reali».<br />

Per comprendere in modo adeguato questa <strong>di</strong>stinzione, osserviamo<br />

come Leibniz – rifacendosi a nozioni già utilizzate da Cartesio, ma insieme<br />

criticandole e riformulandole – propone una tassonomia dei <strong>di</strong>versi<br />

gra<strong>di</strong> della conoscenza umana. Questa tassonomia sarà poi ripresa,<br />

104<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

e maggiormente chiarita, in una delle ultime e più ampie opere <strong>di</strong> Leibniz,<br />

i Nouveaux essais sur l’entendement, composti fra 1703-1705, ma pubblicati<br />

solo nel 1765.<br />

I Nuovi saggi sull’intelletto umano furono scritti in polemica e contrappunto<br />

– precisamente punctum contra punctum – nei confronti del celebre<br />

An essay concerning human understan<strong>di</strong>ng (1690) <strong>di</strong> Locke; il quale – va detto<br />

– non rispose alla provocazione, adducendo la seguente considerazione:<br />

«tanto non ci inten<strong>di</strong>amo!». È <strong>di</strong>scretamente curioso sottolineare questo<br />

non-inten<strong>di</strong>mento (non-entendement o mis-understan<strong>di</strong>ng) anglo-francese<br />

tra due dei maggiori estensori dell’epoca <strong>di</strong> saggi sull’intelletto o sulla<br />

comprensione umana. Curioso, ma anche significativo, dato che ad affiancarsi<br />

nel canone <strong>di</strong> quel contrappunto erano la voce dell’empirismo<br />

antimetafisico <strong>di</strong> Locke e quella del razionalismo metafisico <strong>di</strong> Leibniz.<br />

Quando – poco meno <strong>di</strong> un secolo dopo – Kant ripasserà quell’aria un<br />

po’ stonata, avrà occasione <strong>di</strong> scrivere:<br />

In una parola, Leibniz intellettualizzò i fenomeni, così<br />

come L o c k e , secondo il suo sistema della noogonia [...] aveva<br />

sensualizzato tutti quanti i concetti dell’intelletto [...]. Anziché<br />

cercare nell’intelletto e nella sensibilità due fonti totalmente <strong>di</strong>verse <strong>di</strong><br />

rappresentazioni – fonti, tuttavia, che soltanto nella loro connessione<br />

possono fornire giu<strong>di</strong>zi oggettivamente vali<strong>di</strong> sulle cose – ciascuno<br />

<strong>di</strong> questi due gran<strong>di</strong> uomini si attenne ad una sola delle due fonti 3 .<br />

In effetti, nel presentare i <strong>di</strong>versi gra<strong>di</strong> delle rappresentazioni (dal<br />

minore al maggiore, dalla conoscenza «oscura» e «confusa» a quella<br />

«chiara», «<strong>di</strong>stinta» e «adeguata»), Leibniz non <strong>di</strong>stingue in termini <strong>di</strong> provenienza<br />

tra conoscenza sensibile (che, come tale, suppone qualcosa che<br />

riceviamo dall’esterno, che ci affetta, che subiamo, che mo<strong>di</strong>fica il nostro<br />

animo) e conoscenza intellettuale (ciò che invece produciamo spontaneamente<br />

o posse<strong>di</strong>amo, detto in parole semplici, come un patrimonio<br />

mentale). Tale <strong>di</strong>stinzione è da lui pensata come una <strong>di</strong>fferenza semplicemente<br />

logica, relativa cioè al grado <strong>di</strong> chiarezza o oscurità della rappresentazione.<br />

E anche quando – come vedremo fra poco – parlerà <strong>di</strong><br />

«conoscenza intuitiva» – considerandola, tra l’altro, in combinazione<br />

con quella «adeguata», il grado più perfetto del nostro conoscere – la intenderà<br />

pur sempre in senso logico (o logico-matematico), e mai in riferimento<br />

alla sensibilità (estetica).<br />

105


PARTE PRIMA<br />

Questa intellettualizzazione è solidale con la concezione leibniziana<br />

della «sostanza in<strong>di</strong>viduale», e cioè dell’anima o della monade, intesa non<br />

come un palinsesto o una tavoletta <strong>di</strong> cera su cui le impressioni si scrivono,<br />

si cancellano e si scrivono <strong>di</strong> nuovo (il grammateion o «tabula rasa»<br />

<strong>di</strong> Aristotele, per il quale: noein paschein ti estin, «il pensare è una specie <strong>di</strong><br />

subire», De anima, Γ 4, 429b 25) ma come un microcosmo, una stanza o<br />

sostanza «senza finestre» (per quanto affollata <strong>di</strong> percezioni in vario<br />

grado «chiare» o «oscure», «<strong>di</strong>stinte» o «confuse») 4 . Lo chiarisce bene il<br />

seguente passo, dove Leibniz – come prima <strong>di</strong> lui Cartesio (Me<strong>di</strong>tazioni<br />

metafisiche, VI, 28-29) e poi Kant e Hegel – critica il vecchio adagio scolastico<br />

(«erroneamente attribuito ad Aristotele», come <strong>di</strong>ceva Hegel) secondo<br />

cui nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu. Scrive a questo<br />

proposito, in<strong>di</strong>rizzandosi in forma (inutilmente) <strong>di</strong>alogica a Locke:<br />

L’esperienza, certo, è necessaria, lo riconosco, perché l’anima si volga<br />

verso questi o questi altri pensieri e perché presti attenzione alle idee che sono<br />

in noi [c.vo mio]; ma in che modo le esperienze e le sensazioni potrebbero<br />

darci le idee? L’anima ha forse finestre? [c.vo mio] Somiglia forse a tavolette?<br />

È forse come la cera? È evidente che tutti coloro che parlano<br />

così dell’anima, la concepiscono in fondo come corporea. Mi si opporrà<br />

forse quel celebre assioma molto <strong>di</strong>ffuso tra i filosofi: nulla si<br />

trova nell’anima che non derivi dai sensi. Ma bisogna escludervi l’anima<br />

stessa e le sue attività: nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu, excipe: nisi<br />

ipse intellectus [niente è nell’intelletto che non sia stato nei sensi, ad eccezione<br />

dell’intelletto stesso]. Ora l’anima contiene l’essere, la sostanza,<br />

l’uno, l’identico, la percezione, il raziocinio, ed una quantità <strong>di</strong> altre nozioni<br />

che i sensi non possono fornire 5 .<br />

Proprio mettendo fuori gioco la proposizione scolastica citata anche<br />

da Leibniz, Cartesio aveva rifondato la metafisica in senso moderno.<br />

Tale rifondazione era dunque avvenuta prendendo le mosse non più da<br />

ciò che i sensi ci forniscono – o meglio: ci avranno, ci dovranno aver fornito,<br />

prima, una volta: per definizione la sensibilità parla sempre al passato, in<br />

forma <strong>di</strong> racconto, e, proprio per questo, è poco affidabile come inizio del<br />

pensare – ma dall’autoposizione del cogito il quale – dal principio e <strong>di</strong><br />

principio – è invece sempre presente a se stesso. La soluzione <strong>di</strong> Leibniz è<br />

certo vicina a quella cartesiana ma, come vedremo meglio in seguito,<br />

non si identifica con essa, così come non coinciderà con quella elabo-<br />

106<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

rata dalla filosofia «critica» <strong>di</strong> Kant o dalla filosofia «speculativa» <strong>di</strong> Hegel<br />

– il quale fornirà una risposta, per l’appunto, speculare, osservando cioè<br />

come la proposizione nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu è vera, se<br />

al tempo stessa è vera anche la sua contraria: nihil est in sensu quod non fuerit<br />

in intellectu 6 .<br />

Per comprendere meglio la posizione <strong>di</strong> Leibniz, rivolgiamoci ora<br />

alla tassonomia gnoseologica da lui proposta nei Nuovi Saggi:<br />

La conoscenza dunque è oscura o chiara, quella chiara, a sua volta, è<br />

confusa o <strong>di</strong>stinta, quella <strong>di</strong>stinta è inadeguata o adeguata, ed ancora, simbolica<br />

o intuitiva; e se è, al tempo stesso, adeguata ed intuitiva, è perfettissima<br />

7 .<br />

In questa sede non è <strong>di</strong> nostro interesse analizzare in modo dettagliato<br />

(o «adeguato») queste <strong>di</strong>stinzioni, quanto piuttosto limitarci a osservare<br />

come un esempio <strong>di</strong> conoscenza «<strong>di</strong>stinta» sia, per Leibniz,<br />

proprio la definitio nominalis. Essa consiste nella enumeratio notarum, vale a<br />

<strong>di</strong>re nel semplice conteggio delle «note sufficienti» a «<strong>di</strong>stinguere» (ciò<br />

che non accade in una conoscenza «confusa» e, meno ancora, «oscura»)<br />

una cosa da un’altra (o, più precisamente, il nominato da tutto il resto). La<br />

conoscenza «<strong>di</strong>stinta» non coglie però ancora la realitas notionum. Perché<br />

ciò avvenga, occorre una conoscenza <strong>di</strong> grado superiore, che non soltanto<br />

sia «<strong>di</strong>stinta» ma anche «adeguata». Tale conoscenza, come conoscenza<br />

dell’essenza, è la conoscenza <strong>di</strong> ciò che rende possibile il conosciuto;<br />

quella, cioè, che non si limita a elencarne le «note» caratteristiche, ma mostra<br />

al tempo stesso la «possibilità della cosa». La definizione nominale è<br />

una conoscenza soltanto <strong>di</strong>stinta, la definizione reale è invece anche adeguata. Così,<br />

Leibniz afferma che:<br />

posse<strong>di</strong>amo […] un criterio per <strong>di</strong>stinguere fra le definizioni nominali,<br />

che contengono soltanto le note per la <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> una cosa dalle<br />

altre, e le definizioni reali, dalle quali risulta che la cosa è possibile 8 .<br />

Questa <strong>di</strong>stinzione, <strong>di</strong>venuta <strong>di</strong> scuola nei trattati <strong>di</strong> metafisica <strong>di</strong><br />

Wolff, verrà così riformulata da Kant nella Logica:<br />

Per definizioni nominali bisogna intendere quelle che contengono il significato<br />

che si è voluto dare, arbitrariamente, a un certo nome e che de-<br />

107


PARTE PRIMA<br />

signano perciò solo l’essenza logica del loro oggetto o che servono a <strong>di</strong>stinguere<br />

quest’ultimo da altri oggetti. Definizioni reali [Realdefinitionen],<br />

invece, sono quelle che sono sufficienti per la conoscenza dell’oggetto<br />

secondo le sue determinazioni interne, in quanto presentano la possibilità<br />

dell’oggetto a partire dalle sue note interne 9 .<br />

Torniamo a Leibniz e al passaggio che egli compie a partire dal par.<br />

VIII del Discorso <strong>di</strong> metafisica e che è a tutti gli effetti decisivo per comprendere<br />

la sua interpretazione dell’ontologia come monadologia. Si<br />

tratta, <strong>di</strong>cevamo, <strong>di</strong> andare oltre la mera «definizione nominale» <strong>di</strong> sostanza,<br />

dal momento che tale definizione non è in grado <strong>di</strong> mostrarci (e<br />

cioè <strong>di</strong> farci conoscere in modo adeguato) come una determinata nota o<br />

un determinato pre<strong>di</strong>cato inerisca – e cioè, sia contenuto o sgorghi – come<br />

possibilità <strong>di</strong> un determinato concetto. Se, in base alla definizione nominale,<br />

la sostanza in<strong>di</strong>viduale è definita come quel «soggetto» che non si<br />

può attribuire come «pre<strong>di</strong>cato» ad alcun altro soggetto, la «definizione<br />

reale» <strong>di</strong> sostanza ne coglie invece la «natura», ovvero il fatto che il pre<strong>di</strong>cato<br />

attribuito a quel soggetto è tale per cui, «colui che comprendesse<br />

perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe anche giu<strong>di</strong>care che il<br />

pre<strong>di</strong>cato gli appartiene» 10 . Ciò significa che la nozione (reale) <strong>di</strong> quel determinato<br />

soggetto (poniamo Socrate) è «compiuta» fino al punto da<br />

contenere in sé, e da consentire <strong>di</strong> poter dedurre da essa (almeno in via<br />

ipotetica, come mostra l’uso del con<strong>di</strong>zionale da parte <strong>di</strong> Leibniz), tutti<br />

i pre<strong>di</strong>cati che inabitano in quel soggetto. L’in-esse, vale a <strong>di</strong>re l’inclusione<br />

logica del pre<strong>di</strong>cato nel soggetto, è al tempo stesso un’inclusione ontica.<br />

Ho già detto come questo concetto <strong>di</strong> «sostanza in<strong>di</strong>viduale» abbia in<br />

comune con quello aristotelico (quasi) soltanto il nome. Per essere più<br />

precisi: ha in comune solo il primo momento della definizione. È necessario<br />

chiarire meglio questo punto, dato che qui è in gioco la trasformazione<br />

della nozione aristotelica <strong>di</strong> ousia (enticità) in quella <strong>di</strong> monade.<br />

Rifacciamoci ancora una volta a Heidegger, che nel Nietzsche scrive:<br />

la determinazione fondamentale dell’ente in quanto tale è l’unità. [...]<br />

L’unità costituisce l’enticità dell’ente 11 .<br />

In effetti, proprio come sarà per Leibniz, anche per Aristotele la sostanza<br />

in<strong>di</strong>ca la sussistenza-<strong>di</strong>-ciascun-essere-nel-suo-essere, e rappresenta<br />

così l’unità <strong>di</strong> un soggetto. Senza unità non si darebbe infatti<br />

108<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

sostanza o essere. L’ousia esprime l’in<strong>di</strong>vidualità come unità in<strong>di</strong>visibile<br />

<strong>di</strong> un soggetto: l’universale – l’abbiamo visto – non è per Aristotele sostanza<br />

(allo stesso modo in cui l’essere non è un universale o un genere).<br />

Anche per Aristotele, dunque – fin qui come in Leibniz – la<br />

sostanza in<strong>di</strong>ca, anzi propriamente è, una realtà in<strong>di</strong>viduale, un tode ti, un<br />

essere-determinato, un in<strong>di</strong>viduum: quel termine ultimo, oltre il quale –<br />

come <strong>di</strong>ce la definizione nominale – non si può procedere; e che, pertanto,<br />

non può essere pre<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> altro che <strong>di</strong> se stesso.<br />

Parlando dell’essenza <strong>di</strong> una sostanza semplice, rispetto alla quale gli<br />

enti composti risultano per «aggregazione» o «composizione», Leibniz<br />

in una lettera ad Arnauld (30 aprile 1687) scrive:<br />

Questa maniera d’essere [il composto] suppone una sostanza, la cui essenza<br />

non è un modo d’essere d’un’altra sostanza [è, <strong>di</strong> nuovo, la definizione<br />

nominale <strong>di</strong> sostanza] [...]. Per <strong>di</strong>rla in breve, io tengo come<br />

assioma questa proposizione identica che è <strong>di</strong>versa solo per l’accento:<br />

ciò che non è veramente un essere, non è veramente un essere. [L’unità<br />

costituisce appunto l’enticità dell’ente] Si è sempre ritenuto che ente ed<br />

uno sono cose reciproche. Altra cosa è l’essere, altra gli enti. Ma il plurale<br />

suppone il singolare, e dove non v’è un essere, ancor meno vi saranno<br />

più enti 12 .<br />

Il passo è davvero molto interessante. Per Leibniz, la <strong>di</strong>fferenza essere/ente<br />

(per riprendere la formula heideggeriana) si esprime come<br />

<strong>di</strong>fferenza tra la singolarità (o, meglio, l’in<strong>di</strong>vidualità) dell’essere e la pluralità<br />

dell’ente; ed è proprio questa <strong>di</strong>fferenza a generare tutto il senso<br />

della sua ricerca metafisica: come accordare – e non si tratta <strong>di</strong> un problema<br />

<strong>di</strong> poco conto, soprattutto se confrontato con soluzione monistica<br />

<strong>di</strong> Spinoza – la singolarità dell’essere con la pluralità degli enti? La<br />

filosofia <strong>di</strong> Leibniz, la monadologia, è il tentativo <strong>di</strong> rispondere a questa<br />

domanda. Certo, il fatto che la <strong>di</strong>fferenza essere/ente assuma in<br />

Leibniz la forma <strong>di</strong> rapporto tra la sostanza (o l’essere) per eccellenza<br />

assolutamente singolare (Dio) e la monade – che, in quanto sostanza<br />

(essere), è anch’essa singolare, e tuttavia non lo è in modo assoluto<br />

(come la monade <strong>di</strong>vina), essendo (o apparendo?) al tempo stesso plurale<br />

– riconduce la <strong>di</strong>fferenza ontologica entro determinazioni ontiche<br />

(onto-teo-logiche); e in tal modo, come <strong>di</strong>rebbe Heidegger, non pensa<br />

l’«essere come tale» e la sua «verità».<br />

109


PARTE PRIMA<br />

Resta il fatto che la questione che ho appena in<strong>di</strong>cato – come accordare<br />

singolarità (e, quin<strong>di</strong>, spontaneità, azione, iniziativa) e pluralità<br />

(e quin<strong>di</strong> concordanza o comunità)? – è il grande (e aporetico) tema<br />

della metafisica leibniziana: un tema o un problema metafisico (insieme<br />

logico, epistemologico, teologico, etico e politico) che, già emerso in<br />

Aristotele, non cesserà <strong>di</strong> ripresentarsi anche nella filosofia <strong>di</strong> Kant,<br />

Hegel a Schelling. E se la risposta <strong>di</strong> Leibniz a questo interrogativo apparirà<br />

per molti aspetti deludente, i problemi <strong>di</strong> fondo che essa pone<br />

non smetteranno <strong>di</strong> ripresentarsi in molti ambiti delle ricerche scientifiche<br />

e filosofico-scientifiche anche molto attuali.<br />

Torniamo, però, al concetto <strong>di</strong> sostanza. Abbiamo detto che per<br />

Leibniz, come già in Aristotele, la sostanza è l’essere nel suo essere-persé.<br />

La sostanza esprime così l’essenza <strong>di</strong> un ente determinato, <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>viduo.<br />

Ma attraverso quale procedura conoscitiva Leibniz guadagna il<br />

suo concetto logico-ontologico <strong>di</strong> «sostanza in<strong>di</strong>viduale»?<br />

Nell’impostazione generale del problema della conoscenza, Leibniz<br />

segue l’ideale cartesiano <strong>di</strong> una conoscenza more geometrico demonstrata. E,<br />

in effetti, questo titolo verrà attribuito come qualificativo dei suoi Principia<br />

Philosophiae (1713), più noti col nome <strong>di</strong> Monadologia. Ben presto,<br />

però, Leibniz si allontana da Cartesio su un punto decisivo. Infatti, se per<br />

quest’ultimo l’autocertezza assoluta dell’ego cogito (o dell’ego sum) funge –<br />

come verità <strong>di</strong> fatto autoevidente – da unico fondamento assiomatico<br />

su cui basare o da cui ricavare ogni conoscenza, seguendo un or<strong>di</strong>ne argomentativo<br />

tipicamente geometrico, per Leibniz – accanto alla verità<br />

autocerta del cogito – occorre ammettere «altre verità pari a questa», verità<br />

presenti nello stesso cogito in forma <strong>di</strong> cogitata 13 . In modo più estremo,<br />

un simile pensiero è espresso anche nei Nuovi saggi:<br />

Ora vado ancora più oltre, in conformità col nuovo sistema, e credo<br />

che tutti i pensieri e le azioni della nostra anima provengono dal suo<br />

proprio fondo, senza poter essere forniti dai sensi 14 .<br />

E la critica qui mossa da Leibniz a Cartesio <strong>di</strong>ce tutta la <strong>di</strong>fferenza<br />

che sussiste tra la l’io penso (o l’animus sive mens) <strong>di</strong> Cartesio come substantia<br />

cogitans e la monade <strong>di</strong> Leibniz come substantia in<strong>di</strong>vidualis.<br />

Seguiamo allora il passaggio che – richiamandosi ad Aristotele, sebbene<br />

non del tutto propriamente – consente a Leibniz <strong>di</strong> guadagnare la<br />

nozione <strong>di</strong> «sostanza in<strong>di</strong>viduale». Questo guadagno ontologico è compiuto<br />

110<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

fondandosi sul principio logico secondo cui prae<strong>di</strong>catum inest subjecto. Occorre<br />

però introdurre una <strong>di</strong>stinzione. Nelle proposizioni identiche o<br />

analitiche (a mo’ <strong>di</strong> esempi, Leibniz cita le proposizioni della geometria),<br />

l’in-esse, vale a <strong>di</strong>re l’inclusione del pre<strong>di</strong>cato nel soggetto, è data a priori:<br />

il pre<strong>di</strong>cato «è compreso nel soggetto» in modo tale che basta analizzare<br />

il primo per ricavarne il secondo (come, ad esempio, nella proposizione<br />

«ogni corpo è esteso», la cui forma nel linguaggio logico è: per ogni x, se<br />

ad x conviene la proprietà dell’esser corpo, gli conviene anche quella dell’estensione).<br />

Ma come stanno le cose nei confronti delle proposizioni<br />

«non identiche», cioè relativamente a conoscenze d’esperienza? In questo<br />

caso, afferma Leibniz, l’inclusione (in-esse) è solamente «virtuale».<br />

Con l’idea della presenza «virtuale» (e cioè non consapevole) delle conoscenze<br />

nel nostro animo, Leibniz si rifà esplicitamente (in modo analogo<br />

a quanto fatto da Cartesio) alla dottrina <strong>di</strong> Platone che, nel Menone<br />

(82a, 85 sgg.), aveva fornito la «<strong>di</strong>mostrazione» empirica della teoria<br />

dell’«anamnesi», mostrando come certe verità (l’esempio proposto era,<br />

anche in questo caso, quello <strong>di</strong> proposizioni della geometria) sono contenute<br />

nella nostra psyche prima <strong>di</strong> ogni esperienza 15 . Senza addentrarci<br />

in un’analisi dettagliata <strong>di</strong> tali questioni, che ci allontanerebbe dal nostro<br />

proposito principale, osserviamo come per Leibniz l’idea dell’inclusione<br />

virtuale dei pre<strong>di</strong>cati nel soggetto riguarda anche quegli «oggetti» che<br />

esprimono verità <strong>di</strong> fatto. Anche in questo caso, è – almeno in via ipotetica<br />

– possibile ricavare a priori dal soggetto tutti i pre<strong>di</strong>cati che gli<br />

sono propri. Ciò significa che in tutte le proposizioni è contenuta<br />

un’identità (tutte le proposizioni hanno cioè la forma A è A); solo che,<br />

mentre in certi casi, cioè nelle proposizioni propriamente «identiche»,<br />

questa identità del pre<strong>di</strong>cato con il soggetto è imme<strong>di</strong>atamente evidente<br />

(«manifesta»), in altri è «nascosta» (e non è detto che ci riesca <strong>di</strong> esplicitarla).<br />

In ogni caso, per Leibniz: «inesse equivale a idem esse» 16 .<br />

Facciamo un esempio. Dato il soggetto «Socrate», dovrebbe sempre<br />

essere possibile de jure (anche se, come vedremo, per una mente finita<br />

come la nostra non lo è de facto) dedurre dalla sua «sostanza in<strong>di</strong>viduale»<br />

(dalla sua essenza o «ecceità») tutti i pre<strong>di</strong>cati che originariamente gli ineriscono;<br />

e, precisamente, non soltanto le proprietà incluse nella nozione<br />

della sua essenza <strong>di</strong> uomo (come quando deduciamo, attraverso sillogismo,<br />

dalla mortalità dell’uomo l’essere mortale <strong>di</strong> Socrate), ma anche i<br />

pre<strong>di</strong>cati reali che esprimono l’essenza in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong> Socrate, vale a <strong>di</strong>re<br />

tutto ciò che gli è accaduto e gli dovrà accadere (per esempio <strong>di</strong> morire<br />

111


PARTE PRIMA<br />

bevendo la cicuta). Ma osservando più da vicino il modo in cui Leibniz<br />

intende la <strong>di</strong>fferenza tra il primo caso, quello delle proposizioni analitiche<br />

o identiche in senso proprio (la cui necessità è data a priori, riposando<br />

sull’identità del concetto del pre<strong>di</strong>cato con la nozione del soggetto)<br />

e il secondo, quello <strong>di</strong> proposizioni che esprimono verità <strong>di</strong> fatto, emerge<br />

che, per Leibniz, questa <strong>di</strong>fferenza non rimanda alla <strong>di</strong>stinzione tra ciò che è<br />

dato a priori e ciò che è dato a posteriori; e neppure a quella tra proposizioni<br />

analitiche (le proposizioni in cui il pre<strong>di</strong>cato è contenuto nel soggetto e<br />

perciò si ricava imme<strong>di</strong>atamente da esso) e proposizioni sintetiche (quelle<br />

in cui il pre<strong>di</strong>cato non è contenuto, ma si aggiunge alla nozione del soggetto).<br />

Se così fosse, infatti, verrebbe propriamente meno la stessa nozione (o «definizione<br />

reale») <strong>di</strong> sostanza in<strong>di</strong>viduale. In base a questa nozione, invece,<br />

anche quelle che potrebbero essere considerate proposizioni sintetiche,<br />

dovranno essere considerate analitiche e a priori, anche se non necessarie<br />

(almeno per noi uomini). Il loro carattere sintetico è, per Leibniz,<br />

semplicemente apparente, derivando soltanto dalla complessità dell’analisi<br />

o dalla interminabilità della scomposizione della nozione del soggetto.<br />

Ci torneremo più avanti. Per ora limitiamoci a osservare come, nonostante<br />

la sua complessità, una simile analisi non sarebbe, tuttavia, impossibile<br />

a priori. Infatti, potendo <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> una macchina <strong>di</strong> calcolo più<br />

complessa <strong>di</strong> quella progettata da Leibniz (e che egli s’era fatto costruire)<br />

e, soprattutto, riuscendo a elaborare compiutamente (impresa che Leibniz<br />

non riuscì mai a portare a termine) quella characteristica universalis che,<br />

traducendo tutti i concetti primitivi in espressioni numeriche, avrebbe<br />

trasformato il problema della conoscenza in un’ars combinatoria (in una<br />

logica calcolatoria), potremmo riuscire a svolgere e condurre a termine<br />

la scomposizione <strong>di</strong> tutte le nozioni contenute nei soggetti.<br />

Fatte queste precisazioni, torniamo al problema della sostanza in<strong>di</strong>viduale<br />

così come viene affrontato nel Discorso <strong>di</strong> metafisica. Qui, Leibniz<br />

scrive: «La nozione <strong>di</strong> sostanza in<strong>di</strong>viduale racchiude una volta per tutte<br />

tutto ciò che può accaderle» cosicché:<br />

prendendo in esame quella nozione, è possibile scorgere tutto ciò che<br />

potrà con verità essere enunciato <strong>di</strong> essa, come dalla natura del cerchio<br />

possiamo scorgere tutte le proprietà che se ne possono dedurre 17 .<br />

Così, ricapitolando e riformulando quanto visto finora, possiamo<br />

<strong>di</strong>re che la sostanza in<strong>di</strong>viduale è quel soggetto che contiene in sé tutti<br />

112<br />

i pre<strong>di</strong>cati veri che ad essa si possono attribuire. In altre parole, al soggetto<br />

ineriscono, come pre<strong>di</strong>cati, tutti gli avvenimenti che gli accadono,<br />

gli sono accaduti e gli accadranno; detto altrimenti: «la nozione completa<br />

<strong>di</strong> sostanza [...] è quella che ci consente <strong>di</strong> dedurre tutti i pre<strong>di</strong>cati<br />

(passati, presenti, futuri) dal soggetto cui sono attribuiti». Ma, in tal<br />

modo, si chiede Leibniz, non viene forse a cadere la <strong>di</strong>fferenza tra le<br />

«verità <strong>di</strong> ragione» (fondate sul principio <strong>di</strong> identità o <strong>di</strong> non contrad<strong>di</strong>zione)<br />

e le «verità <strong>di</strong> fatto»? La risposta è negativa:<br />

Le verità <strong>di</strong> ragione sono necessarie e il loro opposto è impossibile,<br />

quelle <strong>di</strong> fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile (Monadologia,<br />

par. XXXII) 18 .<br />

Da ciò segue che:<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

le verità necessarie si possono risolvere in identiche [...]: nelle verità contingenti,<br />

invece, come nei numeri irrazionali, la risoluzione procede all’infinito,<br />

né trova mai un termine 19 .<br />

Già a partire da questi ultimi richiami, è possibile intuire tre cose:<br />

1) L’esito dell’ontologia leibniziana sarà la dottrina della monade. La<br />

monade (l’autentica unità <strong>di</strong> sostanza) è una realtà effettiva (actualitas) dotata<br />

<strong>di</strong> facoltà <strong>di</strong> «rappresentazione» e «appetizione». Rifacendosi (non<br />

del tutto propriamente) ad Aristotele, Leibniz chiama anche questa sostanza<br />

«senza finestre» con il nome <strong>di</strong> «entelechia». Come scrive, ad<br />

esempio, nel par. XVIII della Monadologia:<br />

Si potrebbe dare il nome <strong>di</strong> entelechie a tutte le sostanze semplici create,<br />

perché esse hanno una certa perfezione (echousi to enteletes) una certa autosufficienza<br />

(autarcheia), che le rende sorgenti delle loro azioni interne,<br />

e per così <strong>di</strong>re, automi incorporei 20 .<br />

2) Il «fondamento» che deve giustificare le proposizioni contingenti<br />

sarà il «principio <strong>di</strong> ragion sufficiente».<br />

3) L’onto-logica (monadologica) leibniziana invoca, e al tempo stesso<br />

giustifica, una teo-logica. Dal momento che, infatti, la risoluzione delle<br />

proposizioni contingenti «procede all’infinito, né trova mai un termine»,<br />

113


PARTE PRIMA<br />

la «ragione perfetta delle verità contingenti» deve essere posta in un ente<br />

che «abbraccia l’infinito come un intuito» 21 ; o, nei termini della Monadologia,<br />

«la ragione ultima delle cose deve trovarsi in una sostanza necessaria»<br />

22 .<br />

Prima <strong>di</strong> analizzare in modo più dettagliato questi tre punti, chiariamo<br />

meglio in che cosa consista la <strong>di</strong>fferenza tra proposizioni identiche<br />

(vere a priori) e proposizioni non manifestamente o solo<br />

virtualmente identiche (e cioè contingenti); e perciò anche tra «verità <strong>di</strong><br />

ragione» e «verità <strong>di</strong> fatto». Sempre, nella Monadologia (par. XIII), Leibniz<br />

risponde nel modo seguente: nel primo caso, la «connessione» tra il soggetto<br />

e il pre<strong>di</strong>cato è «assolutamente necessaria», dato che «il suo contrario<br />

implica contrad<strong>di</strong>zione» (un corpo che non abbia estensione non<br />

è un corpo); nel secondo, la connessione è «necessaria solo ex hypothesi»,<br />

ed «è in se stessa contingente, dal momento che il suo contrario non<br />

implica contrad<strong>di</strong>zione» (Socrate avrebbe potuto non bere la cicuta, fuggire<br />

da Atene e morire in esilio <strong>di</strong> morte naturale). Questa <strong>di</strong>stinzione,<br />

l’ho già detto, non comporta la negazione del principio secondo cui prae<strong>di</strong>catum<br />

inest subjecto. Anche il pre<strong>di</strong>cato «morire avendo bevuto la cicuta»<br />

doveva «inabitare» nella nozione in<strong>di</strong>cata dal soggetto «Socrate».<br />

Abbiamo visto, infatti, come la natura della sostanza in<strong>di</strong>viduale è <strong>di</strong><br />

avere una nozione così «compiuta» da contenere tutti i pre<strong>di</strong>cati che il<br />

soggetto dovrà esprimere, anche i cosiddetti «futuri possibili». Per questo<br />

motivo:<br />

Tutte le verità anche le contingenti hanno una prova a priori ossia una<br />

ragione per la quale sono anziché non sono. E questo corrisponde a<br />

quanto suol <strong>di</strong>rsi comunemente che nulla accade senza causa o nulla<br />

senza ragione 23 .<br />

Ed è questo «comune modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re» che Leibniz eleverà a principio<br />

sotto il titolo «principio <strong>di</strong> ragion sufficiente».<br />

Ma come è possibile rappresentarci a priori il fatto che al soggetto<br />

«Giulio Cesare» inerisca il pre<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> «passare il Rubicone», dal momento<br />

che ciò non era necessario – ovvero, che il suo contrario non<br />

comportava contrad<strong>di</strong>zione? Ripren<strong>di</strong>amo e proseguiamo la citazione<br />

appena interrotta:<br />

114<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

Tutte le verità anche le contingenti hanno una prova a priori ossia una<br />

ragione per la quale sono anziché non sono. E questo corrisponde a<br />

quanto suol <strong>di</strong>rsi comunemente che nulla accade senza causa o nulla<br />

senza ragione. Tale ragione per quanto forte [...] e per quanto costituisca certezza<br />

in chi è dotato <strong>di</strong> prescienza [c.vo mio], non produce necessità nella<br />

cosa né toglie la contingenza, perché il contrario rimane per sé possibile<br />

e non implica contrad<strong>di</strong>zione; se no, ciò che abbiamo supposto<br />

contingente, sarebbe necessario o <strong>di</strong> verità eterna 24 .<br />

Il passo – e soprattutto la parte rimarcata attraverso il corsivo – mostra<br />

con chiarezza come il principio <strong>di</strong> ragion sufficiente – che poco più<br />

avanti Leibniz definisce «il più importante e il più fecondo <strong>di</strong> tutta la<br />

conoscenza umana», dato che «su <strong>di</strong> esso si fonda gran parte della metafisica,<br />

della fisica e della scienza morale» – costituisca il fondamento<br />

dell’onto-teo-logia leibniziana. Ci torneremo tra non molto. Restiamo<br />

per ora al nostro esempio. Una mente finita come la nostra non è in<br />

grado <strong>di</strong> scorgere la necessità insita nel fatto che Giulio Cesare avrebbe<br />

attraversato il Rubicone, <strong>di</strong>ventando così <strong>di</strong>ttatore <strong>di</strong> <strong>Roma</strong>. Se però ciò è<br />

accaduto, ci sarà stata una ragione sufficiente (insita nel soggetto «Giulio Cesare»)<br />

per cui ciò che è accaduto dovesse accadere. Come verità contingente<br />

(il cui contrario non implica, dunque, contrad<strong>di</strong>zione e, perciò,<br />

resta possibile) la proposizione che esprime l’azione <strong>di</strong> «attraversare il<br />

Rubicone» da parte del soggetto «Giulio Cesare» non si può risolvere in<br />

una proposizione identica, per <strong>di</strong>mostrare la quale basta il principio <strong>di</strong><br />

identità o <strong>di</strong> non contrad<strong>di</strong>zione. Per «rendere ragione» delle cose contingenti<br />

e delle verità <strong>di</strong> fatto, dobbiamo ricorrere a un ulteriore principio.<br />

Questo principio è, appunto, il principium reddendae rationis sufficientis.<br />

Prima <strong>di</strong> chiarire in modo più circostanziato il significato metafisico<br />

e la portata ontologica (o economica) <strong>di</strong> tale principio, osserviamo<br />

come esso sia necessario soltanto per una mente finita. Una mente infinita<br />

non ne avrebbe bisogno, non le sarebbe cioè necessario altro<br />

principio che quello <strong>di</strong> identità. Per essa, infatti, tutte le proposizioni si<br />

risolvono in proposizioni identiche, o – ed è lo stesso – anche le verità<br />

<strong>di</strong> fatto sono verità <strong>di</strong> ragione; così che il principio <strong>di</strong> ragione si in<strong>di</strong>stingue<br />

dal principio <strong>di</strong> identità. Una ragione infinita ricava la ragione <strong>di</strong> ogni<br />

cosa per via <strong>di</strong> identità, avendola appunto presente già in sé. Una mente finita<br />

come la nostra non è invece in grado <strong>di</strong> compiere questa operazione,<br />

e cioè <strong>di</strong> risolvere le proposizioni esistenziali in identiche, la contin-<br />

115


PARTE PRIMA<br />

genza in necessità. Essa è tuttavia almeno capace <strong>di</strong> provare che nell’accadere<br />

<strong>di</strong> ciò che accade (o è accaduto) c’è (ci sarà stata) una ragione.<br />

In che modo?<br />

La lettura <strong>di</strong> un brano tratto dal par. XIII del Discorso <strong>di</strong> metafisica ci<br />

permette <strong>di</strong> rispondere a questa domanda. Prima <strong>di</strong> procedere alla lettura<br />

dell’intero passo, notiamo come ad aprirlo sia l’affermazione secondo<br />

cui: «Tutte le proposizioni contingenti hanno delle ragioni per<br />

essere così piuttosto che altrimenti» 25 ; e notiamo pure come questa affermazione<br />

corrisponda proprio al secondo dei tre «perché?» («Perché<br />

esiste questo piuttosto che quest’altro?», «Perché è così piuttosto che<br />

altrimenti?», «Perché qualcosa esiste piuttosto che il niente?») che, per<br />

Leibniz, esprimono il senso della contingenza; <strong>di</strong> fronte alla quale è necessario<br />

ricorrere al principio <strong>di</strong> ragione. Per Leibniz, il principio <strong>di</strong> ragion<br />

sufficiente si avvicina ma non si riduce al principio <strong>di</strong> identità (o<br />

almeno, noi non siamo in grado <strong>di</strong> compiere una simile riduzione). Il<br />

principio <strong>di</strong> ragione adduce, appunto, una ragione «sufficiente» ma non<br />

«necessaria» all’essere <strong>di</strong> qualcosa: qualcosa che, appunto per questo,<br />

definiamo «contingente». Cesare avrebbe potuto non attraversare il Rubicone<br />

o morire durante il guado del fiume. E dato che «nulla è necessario<br />

quando il suo opposto sia possibile», ciò che non si è realizzato<br />

aveva la stessa possibilità <strong>di</strong> accadere <strong>di</strong> ciò che è accaduto. Ma, anche se<br />

un <strong>di</strong>verso esito delle cose era possibile, ciò non toglie che quel possibile<br />

che si è realizzato aveva una ragione non estrinseca per prevalere sulle altre<br />

possibilità che, invece, non si sono realizzate.<br />

Approfon<strong>di</strong>remo più avanti questo aspetto. Ripren<strong>di</strong>amo per ora la<br />

citazione del passo tratto dal Discorso <strong>di</strong> metafisica:<br />

Tutte le proposizioni contingenti hanno delle ragioni per essere così<br />

piuttosto che altrimenti, ossia (il che è lo stesso) [...] hanno prove a priori<br />

della loro verità che le rendono certe e mostrano che la connessione<br />

tra il soggetto ed il pre<strong>di</strong>cato <strong>di</strong> queste proposizioni ha il suo fondamento<br />

nella natura dell’uno e dell’altro; ma [...] non sono necessarie,<br />

perché le loro ragioni non riposano che sul principio della contingenza<br />

o dell’esistenza delle cose, cioè su ciò che è o è parso il meglio [c.vo mio]<br />

tra più cose egualmente possibili 26 .<br />

Se, dunque, per una cosa non possiamo <strong>di</strong>mostrare la necessità <strong>di</strong><br />

essere piuttosto che non essere, <strong>di</strong> essere questa piuttosto che un’altra, <strong>di</strong> es-<br />

116<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

sere così piuttosto che altrimenti – dato che il contrario <strong>di</strong> ognuna <strong>di</strong> queste<br />

possibilità era ugualmente possibile, ovvero che quella cosa poteva<br />

non essere, non essere così o non esser questa – che cosa ha deciso per<br />

l’esser-ci, per l’esser-così e per l’esser-questo <strong>di</strong> una determinata cosa?<br />

O, ed è lo stesso, che cosa ha escluso il non esser-ci, l’essere-altro e l’esserealtrimenti?<br />

Non certo la sua «impossibilità», risponde Leibniz, ma la sua<br />

«imperfezione». Il principio <strong>di</strong> ragione risponde alla «scelta del meglio»<br />

o al principio <strong>di</strong> «convenienza» 27 . L’«ottimo dei fini» è come se fosse (ma<br />

questo «come se» non è un conio <strong>di</strong> Leibniz) il «più logico dei principi».<br />

In questa risposta ritroviamo, sia pure in una forma <strong>di</strong>versa, il principio<br />

della «teologia» <strong>di</strong> Aristotele. Nella metafisica <strong>di</strong> Leibniz, il principio<br />

della «convenienza» o del «meglio» (il bene <strong>di</strong> Aristotele) si esprime<br />

anche come «principio <strong>di</strong> equità». Tale principio afferma che, tra tutti i<br />

possibili, si realizza quel possibile che contiene la maggiore quantità <strong>di</strong> essenza<br />

o il maggior grado <strong>di</strong> perfezione. E tuttavia anche qui dobbiamo segnare<br />

un’insuperabile <strong>di</strong>stanza.<br />

Per Aristotele, la contingenza – il poter-non-essere o il poter-esserealtrimenti<br />

– non è assicurata da nessun principio <strong>di</strong> ragione e, anzi, è<br />

tale (e cioè contingenza o, come sarebbe più corretto <strong>di</strong>re, esistenza) proprio<br />

perché niente le può rendere ragione. La stessa definizione aristotelica<br />

<strong>di</strong> essenza – il ti en einai: e cioè, l’«essere <strong>di</strong> ciò che [la cosa] era», o l’«essere<br />

<strong>di</strong> ciò che aveva da essere» – è in realtà la <strong>di</strong>chiarazione più ra<strong>di</strong>cale<br />

dell’impossibilità <strong>di</strong> rendere anticipatamente ragione dell’esistenza e dell’accadere<br />

<strong>di</strong> ciò che accade, dell’impossibilità <strong>di</strong> trovare una giustificazione<br />

o un fondamento a priori per ciò che sarà accaduto. Il soggetto<br />

<strong>di</strong> Aristotele non include gli eventi che gli accadranno – è, al contrario,<br />

definito dall’interminabile percorso <strong>di</strong> ricerca del suo «aver-da-essere» –<br />

e nessuna onto-logica può giustificare tali eventi in termini <strong>di</strong> ragion<br />

sufficiente, poiché non sono pre<strong>di</strong>cati <strong>di</strong> natura logica. Invece, in Leibniz,<br />

il principio del fondamento è invocato proprio allo scopo <strong>di</strong> rendere<br />

o <strong>di</strong> aver ragione della contingenza. Nella metafisica leibniziana, il principio<br />

<strong>di</strong> ragione <strong>di</strong>venta a questo punto una prova dell’esistenza e della<br />

definizione stessa <strong>di</strong> Dio, l’ente razionale per eccellenza. Paradossalmente,<br />

proprio perché il principio <strong>di</strong> ragione non rende ragione della necessità<br />

<strong>di</strong> ciò che resta per noi soltanto possibile, e giustifica soltanto ciò<br />

che procede dalla possibilità all’attualità o all’esistenza, occorre trovare<br />

questa necessità in un ente che sia necessario e che giustifichi quel «procedere»<br />

– e cioè il mondo e tutto ciò che in esso è.<br />

117


PARTE PRIMA<br />

Nel passo che segue (che appartiene a una sintesi davvero estrema<br />

del sistema metafisico <strong>di</strong> Leibniz espressa in ventitré o ventiquattro tesi,<br />

a seconda delle <strong>di</strong>verse e<strong>di</strong>zioni) questa deduzione è compiuta attraverso<br />

un’argomentazione in tre punti.<br />

1. Vi è una ragione nella natura, perché esista qualcosa piuttosto che<br />

nulla. Ciò consegue da quel grande principio, che nulla avviene senza ragione,<br />

ed allo stesso modo è necessario che vi sia una ragione perché esista<br />

questo piuttosto che quell’altro.<br />

2. Questa ragione deve trovarsi in qualche Ente Reale o causa. La causa,<br />

infatti, non è null’altro che una ragione reale; né le verità delle possibilità<br />

e delle necessità (ossia della negazione delle possibilità del contrario)<br />

avrebbero un’efficacia qualsiasi, se le possibilità non si fondassero<br />

in una cosa esistente in atto.<br />

3. Questa, perciò, dev’essere un Ente Necessario, altrimenti si dovrebbe<br />

cercare una causa al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> esso, e per la quale esso stesso esista anziché<br />

non esistere, contro l’ipotesi. Quell’Ente è, pertanto, la ragione<br />

ultima delle cose, e che suole essere chiamato con una parola sola, Dio 28 .<br />

L’ente necessario (Ens a se) è perciò, afferma Leibniz, «esistentificante».<br />

Egli conduce a effetto la tendenza del possibile a realizzarsi. E dato che<br />

ogni possibile è un «essere sul punto <strong>di</strong> esistere» («Omne possibile Existiturire»<br />

29 , come si <strong>di</strong>ce nel punto 6 dello stesso testo), l’ente necessario<br />

risolve il conflitto – insito nel fatto che tutti i possibili esigono l’esistenza<br />

– negando agli «incompatibili» il «<strong>di</strong>ritto» a esistere, ed esistentificando quei<br />

possibili che racchiudono in sé la maggior «perfezione» possibile. Questo<br />

ente necessario ed eugenetico è il <strong>di</strong>o della metafisica; e se tra tutti gli<br />

universi possibili (presenti in lui come idea) egli ha scelto l’esistenza <strong>di</strong> questo<br />

mondo (e non <strong>di</strong> un altro) è perché questo mondo era, ai suoi occhi,<br />

il «migliore dei mon<strong>di</strong> possibili», quello che aveva la «maggiore perfezione<br />

possibile»: e cioè un più <strong>di</strong> ragione, <strong>di</strong> scopo e <strong>di</strong> bene, per realizzarsi:<br />

la «casa migliore» che si potesse fare con la medesima «spesa».<br />

Nel costruire e governare la sua oikia (il mondo), il <strong>di</strong>o <strong>di</strong> Leibniz si<br />

comporta da perfetto economo e ragioniere, sceglie il «migliore tra tutti i<br />

sistemi possibili», specula sui costi e i benefici, e stabilisce, in base al principio<br />

<strong>di</strong> «convenienza», quale sia il «piano» <strong>di</strong> investimento più consono<br />

alla realizzazione della meilleure des républiques. Ma qui, nell’analogia o nell’equazione<br />

tra il più conveniente dei fini e il più razionale dei principi, non è in<br />

118<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

gioco solo la domanda (o la pretesa) del nulla ad essere, ma anche la questione<br />

<strong>di</strong> ciò che nel mondo appare contrario a uno scopo: vale a <strong>di</strong>re il male.<br />

Quale sarà la sua «ragion d’essere»? Quale scopo o fine conveniente può<br />

mai avere il male, dato che scopo e fine si identificano col bene e «la causa<br />

prima è dotata <strong>di</strong> somma bontà»? Se tuttavia, per Leibniz, il principio <strong>di</strong><br />

ragione è in grado <strong>di</strong> scongiurare il nulla, lo stesso dovrà fare con il male.<br />

La cosa non è però altrettanto semplice. Non si tratta in questo caso, infatti,<br />

<strong>di</strong> dare torto al nulla ma <strong>di</strong> dare ragione al male, dato che il nulla non<br />

è (stato), mentre il male è – e continua a essere – nel mondo. Se, per mezzo<br />

del richiamo al principio <strong>di</strong> ragione, la contesa col nulla (e l’altrimenti) da<br />

parte dell’ontoteologia si è rivelata relativamente agevole – anche se la sua<br />

vittoria, come vedremo, è <strong>di</strong>scutibile – succederà lo stesso nei confronti<br />

del male? Notiamo come qui, il principio <strong>di</strong> ragione, <strong>di</strong>venti teo<strong>di</strong>cea (theo<strong>di</strong>ke),<br />

giustificazione (della giustizia) <strong>di</strong> Dio – giustificazione, dunque,<br />

anche del male. Il giustificazionalismo logico o la logica giustificazionista<br />

<strong>di</strong> Leibniz deve spingersi qui fino a dare ragione, e cioè a scagionare o ad<br />

assolvere Dio. Una tentazione, quest’ultima, che si affaccia tutte le volte<br />

che il male ci mostra un aspetto che sembra «ra<strong>di</strong>cale».<br />

La Teo<strong>di</strong>cea (Essai de Teo<strong>di</strong>cée, sur la bointé de Dieu, la liberté de l’homme et<br />

l’origine du mal, 1710) muove dalla constatazione del male nel mondo e<br />

ne ricerca l’origine. Infatti, se nel mondo c’è del male (e questo è innegabile),<br />

come giustificare l’operato <strong>di</strong> Dio? Questa giustificazione consisterà<br />

nel mostrare che quel male (che c’è) sarà stato e dovrà essere il<br />

minore dei mali possibili contenuto inevitabilmente nella scelta del migliore<br />

dei beni possibili («Uti minus malus habet rationem boni, ita minus bonus habet rationem<br />

mali»: come un male minore ha una ragione <strong>di</strong> bene, così un bene<br />

minore ha una ragione <strong>di</strong> male 30 ). Si tratta <strong>di</strong> un male, come tale, non<br />

«voluto» – antecedentemente – da Dio, ma solo «permesso», un male<br />

inevitabilmente conseguente e concomitante alla «scelta del meglio», del<br />

più conveniente tra tutti i mon<strong>di</strong> possibili; dato che «il bene metafisico,<br />

che tutto comprende, è la causa del fatto che a volte è necessario far<br />

posto al male». Come se il «male minore» non fosse in ogni caso male,<br />

come se un po’ <strong>di</strong> male potesse fare del bene al bene. E, soprattutto,<br />

come se la scelta <strong>di</strong> un bene futuro (o <strong>di</strong> un male minore) potesse giustificare<br />

un male presente; mentre è proprio questa argomentazione che<br />

– almeno sul piano morale, nel mondo degli uomini, delle loro azioni e<br />

passioni – dà immancabilmente inizio al male, o per chiamare la cosa col<br />

suo vero nome, ad azioni malvagie.<br />

119


PARTE PRIMA<br />

A questo proposito e in conclusione, è interessante richiamare le parole<br />

con cui Kant, nello scritto Sull’insuccesso <strong>di</strong> ogni tentativo filosofico in teo<strong>di</strong>cea,<br />

apriva la sua riflessione:<br />

Per teo<strong>di</strong>cea si intende la <strong>di</strong>fesa della somma saggezza dell’autore del<br />

mondo dalle accuse che la ragione solleva contro <strong>di</strong> lei muovendo da<br />

quanto <strong>di</strong> contrario ad un fine accade nel mondo. Questo si chiama<br />

propugnare la causa <strong>di</strong> Dio; seppure al fondo potrebbe non essere altro<br />

che la <strong>di</strong>fesa della nostra presuntuosa ragione che qui appunto misconosce<br />

i suoi limiti 31 .<br />

_______________<br />

1 Nella sua giovinezza Leibniz aveva preso partito a favore delle critiche dell’idea<br />

<strong>di</strong> forma sostanziale avanzate da Galileo, Cartesio, Hobbes, Gassen<strong>di</strong> e molti<br />

scienziati e filosofi del Seicento.<br />

2 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, p. 70, par. VIII.<br />

3 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 342 (nella citazione ho sostituito «feno-<br />

meni» ad «apparenze»).<br />

4 Nella Monadologia, Leibniz, parlando delle mona<strong>di</strong>, afferma che esse «non hanno<br />

finestre, dalle quali possa entrare o uscire qualcosa». G.W. Leibniz, Scritti filosofici,<br />

cit., vol. I, pag. 453.<br />

5 G.W. Leibniz, op. cit., vol. II, pp. 237-238.<br />

6 G.W.F. Hegel, Enciclope<strong>di</strong>a delle scienze filosofiche in compen<strong>di</strong>o, cit., par. VIII, p. 106-107.<br />

7 G.W. Leibniz, Scritti filosofici, cit., vol. II, p. 679.<br />

8 Ivi, p. 683.<br />

9 I. Kant, Logica, cit., p. 137-138.<br />

10 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, p. 70.<br />

11 M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 893-894.<br />

12 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, p. 156.<br />

13 Ivi, vol. II, p. 69. È interessante notare come una critica simile a quella mossa<br />

qui da Leibniz a Cartesio sia formulata anche da Husserl nelle sue Me<strong>di</strong>tazioni cartesiane<br />

(Bompiani, Milano 1994), anche se con tutt’altra intenzione.<br />

14 Ivi, vol. II, pag. 195.<br />

15 Ivi, pag. 203.<br />

16 Questa efficace riformulazione del pensiero <strong>di</strong> Leibniz si trova in M. Heidegger,<br />

Principi metafisici della logica [Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von<br />

Leibniz, (1928) Gesamtausgabe Bd. 26, hrsg. von F-W. von Herrmann, V.<br />

Klostermann, Frankfurt a. M. 1978], ed. it. a cura <strong>di</strong> G. Moretto, il melangolo,<br />

Genova 1990, p. 57.<br />

17 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, pag. 76, Par. XIII.<br />

120<br />

LEIBNIZ. ONTOTEOLOGIA E MONADOLOGIA<br />

18 Ivi, vol. I, p. 288.<br />

19 Ivi, p. 248.<br />

20 Ivi, pp. 285-286.<br />

21 Ivi, p. 248.<br />

22 Ivi, p. 289.<br />

23 Ivi, vol. II, p. 703.<br />

24 Ivi, pp. 703-704.<br />

25 Ivi, vol. I, p. 78.<br />

26 Ibidem.<br />

27 Ivi., vol. II, par. 46.<br />

28 Ivi, vol. I, p. 228.<br />

29 Ibidem.<br />

30 Ivi, p. 65.<br />

31 I. Kant, Questioni <strong>di</strong> confine. Saggi polemici (1786-1800) [KGS VIII], ed. it. a cura <strong>di</strong><br />

F. Desideri, Marietti, Genova 1990, p. 23.<br />

121


PARTE PRIMA<br />

Esistenza e ragione<br />

Ho ricordato a più riprese il modo in cui Leibniz pone il problema<br />

della contingenza, e cioè – prima ancora che come problema della verità<br />

<strong>di</strong> certe proposizioni – come problema dell’esserci <strong>di</strong> qualcosa, del<br />

suo «che-è», della sua esistenza. Questo problema, abbiamo visto, si riassume<br />

per lui in tre domande:<br />

1) Perché c’è qualcosa piuttosto che il niente?<br />

2) Perché qualcosa è così piuttosto che altrimenti?<br />

3) Perché c’è questo piuttosto che quest’altro?<br />

Abbiamo già visto come domande <strong>di</strong> questo tipo – e particolarmente<br />

la prima: la Grund-Frage, la domanda filosofica o metafisica fondamentale<br />

– non trovino propriamente origine nella «ragione», ma piuttosto –<br />

come <strong>di</strong>rà Schelling – nel suo «stupore»: in qualcosa (l’esserci, l’esistere)<br />

che lascia la ragione senza ragioni; la parola, il logos, senza parole. A<br />

questo proposito, abbiamo anche visto come Heidegger, in Che cos’è la<br />

metafisica? 1 , si richiami a un passo del Fedro <strong>di</strong> Platone, traducendolo – o<br />

reinterpretandolo – così: «In quanto esiste l’uomo accade il filosofare»<br />

(279a). Parole, queste, a cui si potrebbero affiancare quelle che, nel Teeteto<br />

(155d), Platone mette in bocca a Socrate: «Ed è propria del filosofo questa<br />

passione, <strong>di</strong> esser pieno <strong>di</strong> meraviglia; né altro cominciamento ha il<br />

filosofare se non questo»; si tratta <strong>di</strong> quella «meraviglia» (thaumazein) che,<br />

come ci aveva detto anche Aristotele nella Metafisica, porta l’uomo a farsi<br />

domande oppure a raccontare storie o a poetare («ed è per questo – aggiungeva<br />

– che anche il philomythos è, in certo qual modo, philosophos»).<br />

Sempre con Heidegger, avevamo visto poi come questa «passione»<br />

all’origine della Grund-Frage non fosse dopotutto che l’altra faccia della<br />

Grund-Stimmung o della Grund-Befindlichkeit (della situazione emotiva <strong>di</strong><br />

fondo o <strong>di</strong> sfondo) propria dell’esserci dell’uomo: l’«angoscia». Una<br />

certa strettezza o strettura (Angst, angustia) o, come potremmo anche<br />

<strong>di</strong>re, prendendo alla lettera un’altra parola latina, un certo «sgomento»<br />

(qualcosa che ci lascia «senza commento»). Ci volevano però la domanda<br />

122<br />

ESISTENZA E RAGIONE<br />

meravigliata <strong>di</strong> una bambina ribelle come Marina Cvetaeva e la replica<br />

(o il <strong>di</strong>niego già postumo) <strong>di</strong> sua madre, per calarci nei vissuti della «passione»<br />

dei filosofi: «Ecco, quando sarai cresciuta e ti guarderai in<strong>di</strong>etro<br />

e ti domanderai Warum tutto è successo così – come è successo, Warum<br />

nulla è andato bene, non solo a te, ma a tutti, a chi hai amato, a chi hai<br />

suonato – nulla a nessuno – allora saprai anche suonare Warum» 2 . Una<br />

risposta, si osservi, che restituisce tutto il dramma <strong>di</strong> senso (e l’occasione<br />

<strong>di</strong> Stimmung musicale) alla domanda del «perché?», proprio perché<br />

la lascia priva <strong>di</strong> risposta. Perché «tutto è successo così – come è successo»?<br />

È successo così come è successo perché è successo così come è successo,<br />

e per nessuna (altra) ragione. L’esistere (il che-è <strong>di</strong> qualcosa) non<br />

sembra avere e intendere ragioni per essere (accaduto) piuttosto che non<br />

essere (accaduto), per essere (andato) così piuttosto che altrimenti.<br />

In effetti, all’origine dell’interrogazione metafisica <strong>di</strong> Leibniz c’è lo<br />

stagliarsi in forma <strong>di</strong> perché <strong>di</strong> qualcosa che sfida la ragione, la calcolabilità,<br />

il senso dell’economia e l’economia del senso; c’è l’emergere <strong>di</strong> un’irriducibilità<br />

del reale al possibile, dell’esistente al concettuale, del fatto alla<br />

possibilità. C’è il semplice «c’è» o «che-è», il puro esistere o accadere, senza<br />

necessità ma, anche, senza possibilità: un essere senza ragion d’essere, una realtà<br />

che non è preceduta da alcuna possibilità. Stupore, meraviglia, angoscia, sgomento,<br />

gratuità. Nelle Grund-Fragen <strong>di</strong> Leibniz si fa avanti il puro esserci,<br />

il puro esistere non soltanto senza necessità ma anche senza una possibilità<br />

(e un passato) che li preceda.<br />

Il compito del principio <strong>di</strong> ragione sarà così quello <strong>di</strong> restituire all’esistenza<br />

la sua possibilità (o «con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità»), il suo a priori<br />

e, se non una necessità, almeno una ratio sufficiens. Il principio <strong>di</strong> ragione<br />

deve restituire la totalità dell’esistente a una ragione e a un calcolo. Deve<br />

assicurare l’accadere – e così anche, come vedremo, l’azione, nella sua<br />

irriducibile, assoluta «inizialità» e nella sua costitutiva «incomprensibilità»<br />

– a una possibilità e a un passato che lo precede. Deve render conto del<br />

fatto che ciò che è accaduto, se è accaduto, doveva essere possibile; e<br />

cioè, avrà avuto una ragione – e una ragione è sempre calcolabile.<br />

Abbiamo detto che domande come quelle con cui abbiamo iniziato<br />

il nostro <strong>di</strong>scorso non hanno inizio nella ragione – anche se la provocano<br />

e la motivano a pensare. Se infatti esse chiedono il «perché?», l’«ache?»,<br />

l’«a-che-scopo?» <strong>di</strong> qualcosa, è proprio perché questo scopo,<br />

questa finalità, questa «ragion d’essere» noi non riusciamo a vederli e a<br />

in<strong>di</strong>carli.<br />

123


PARTE PRIMA<br />

Il principio <strong>di</strong> ragione sarà invocato da Leibniz proprio per assicurare<br />

una ragione o un fondamento (ratio, Grund) a ciò che appare sospeso<br />

a simili «perché?». E ciò in quanto tali «perché?» non hanno inizio,<br />

origine, nella ragione. Il principio <strong>di</strong> ragione, dunque, dà ragione <strong>di</strong> ciò<br />

che non ha principio in essa. Rende ragione, invia una ricevuta <strong>di</strong> ragione,<br />

a qualcosa che sembra esserle, da principio e <strong>di</strong> principio, <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>ente.<br />

E, a questo riguardo, resterebbe ancora da chiedersi se<br />

questioni che non hanno inizio nella ragione abbiano, o possano avere,<br />

termine o fine in essa.<br />

Quando analizzeremo qualche proposizione della Critica della facoltà<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, vedremo come, in quella sede, Kant effettivamente riconduca<br />

l’origine dell’interrogazione leibniziana sulla «contingenza» – e la «risposta»<br />

fornita per mezzo del principio <strong>di</strong> ragione – a una <strong>di</strong>mensione<br />

<strong>di</strong> senso che non ha inizio né fine (almeno in senso stretto) nella ragione.<br />

Una <strong>di</strong>mensione estetico-teleologica che ha a che fare, piuttosto,<br />

con ciò che chiamiamo «bello» (una Stimmung, un sentimento <strong>di</strong> «accordo»<br />

tra il soggetto e le cose, tra il soggetto e se stesso, tra un soggetto<br />

e altri soggetti) o «sublime» (un «piacere negativo» che nasce da un nonvedere-la-finalità,<br />

in certe regioni del cuore o manifestazioni natura, che<br />

non<strong>di</strong>meno – secondo Kant – fanno segno, forse, a un’economia più<br />

alta). Riformulato come «principio della conformità a scopi», il principio<br />

<strong>di</strong> ragione non sarà per Kant un principio <strong>di</strong> o della ragione; esso,<br />

piuttosto, verrà ricondotto alla «facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio» e – almeno «secondo<br />

analogia» – al campo del fare e dell’agire umano (secondo liberà).<br />

Eppure, anche se la soluzione elaborata da Kant alla domanda della<br />

«contingenza» sarà molto <strong>di</strong>versa da quella leibniziana, la questione metafisica<br />

<strong>di</strong> fondo (o la metafisica come questione-<strong>di</strong>-fondo) resterà la<br />

medesima.<br />

Se si mettono a confronto fra loro alcuni passaggi della Monadologia<br />

<strong>di</strong> Leibniz e qualche proposizione tratta dall’Introduzione alla terza<br />

Critica <strong>di</strong> Kant, questa permanenza sul fondo (o sullo sfondo) della questione<br />

metafisica, emerge in modo piuttosto chiaro (perfino per certe<br />

consonanze testuali). Scrive Leibniz:<br />

124<br />

Ma la ragione sufficiente si deve trovare anche nelle verità contingenti o <strong>di</strong><br />

fatto cioè nella serie delle cose sparse nell’universo delle creature; in esse<br />

la risoluzione in ragioni particolari può essere spinta senza limiti, a causa<br />

dell’immensa varietà delle cose della natura e della <strong>di</strong>visione dei corpi al-<br />

ESISTENZA E RAGIONE<br />

l’infinito. [...] E siccome tutto questo dettaglio non implica se non altri<br />

contingenti anteriori, ancora più particolareggiati [...] bisogna che la ragione<br />

sufficiente o ultima sia al <strong>di</strong> fuori della successione o della serie<br />

<strong>di</strong> questi dettagli delle contingenze, per quanto infinita possa essere. [...]<br />

È perciò che la ragione ultima delle cose deve trovarsi in una sostanza<br />

necessaria, nella quale il dettaglio dei mutamenti si trovi in modo eminente<br />

come in una fonte: è quello che chiamiamo Dio 3 .<br />

Dal canto suo, nell’Introduzione alla Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio,<br />

Kant scrive:<br />

Solo che ci sono così molteplici forme della natura, per così <strong>di</strong>re tante<br />

mo<strong>di</strong>ficazioni dei concetti trascendentali universali della natura, le quali<br />

sono lasciate indeterminate da quelle leggi che l’intelletto puro dà a<br />

priori [...] che per ciò debbono esserci anche leggi che, in quanto empiriche,<br />

possono, sì, essere considerate contingenti secondo il modo <strong>di</strong><br />

intendere del nostro intelletto, e che però [...] debbono essere considerate<br />

necessarie a partire da un principio, sebbene a noi sconosciuto, dell’unità<br />

del molteplice. [...] Ora, poiché il concetto <strong>di</strong> un oggetto, in<br />

quanto contiene nello stesso tempo la ragione [Grund] della realtà<br />

[Wirklichkeit] <strong>di</strong> questo oggetto, si chiama scopo, e l’accordo <strong>di</strong> una cosa<br />

con quella costituzione delle cose che è possibile solo secondo scopi si<br />

chiama conformità a scopi [...] la natura viene rappresentata da questo concetto<br />

come se un intelletto contenesse il fondamento [Grund] dell’unità<br />

del molteplice delle sue leggi empiriche 4 .<br />

Specchiandoli l’uno nell’altro, dovremo anche riuscire a vedere come<br />

questi brani conducano – a partire dagli stessi termini – a conclusioni<br />

tanto <strong>di</strong>verse da non essere (quasi) più confrontabili. Per ora restiamo<br />

però a Leibniz e cerchiamo <strong>di</strong> illustrare alcune delle implicazioni principali<br />

contenute nelle proposizioni della Monadologia che abbiamo letto.<br />

Accanto al principio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione, il principio <strong>di</strong> ragion sufficiente<br />

è per Leibniz il fondamento, il Grund-Prinzip <strong>di</strong> ogni conoscenza.<br />

Esso vale, infatti, sia per le «verità necessarie» – la cui «ragione» può essere<br />

trovata per mezzo <strong>di</strong> un’«analisi» (anche se, in questi casi, il principio<br />

<strong>di</strong> ragione funziona solo come un principio-guida, poiché l’analisi del<br />

concetto è condotta a termine semplicemente applicando il principio<br />

<strong>di</strong> non-contrad<strong>di</strong>zione) – sia per le «verità contingenti». È propriamente<br />

125


PARTE PRIMA<br />

qui che il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong>spiega però la sua vera portata onto-logica,<br />

dato che, in questi casi – per usare le parole <strong>di</strong> Kant – il «concetto»<br />

dell’oggetto «contiene nello stesso tempo la ragione della realtà <strong>di</strong> questo<br />

oggetto»; e, pertanto, chiedere la «ragione» <strong>di</strong> qualcosa, equivale a<br />

chiedersi il suo «perché?», il suo «a che scopo?». Come tale, il principio<br />

<strong>di</strong> ragione ha a che fare con la «realtà» (Wirklichkeit: «effettività») o, meglio,<br />

con l’esserci o l’esistenza (Dasein) <strong>di</strong> qualcosa.<br />

Seguendo la «tavola delle categorie» contenuta nella Critica della ragione<br />

pura <strong>di</strong> Kant, scorgiamo che l’«esistenza» (Dasein), il cui contrario è il<br />

«non essere» (Nichtsein), è una delle tre categorie della «modalità». Lo<br />

schema completo delle categorie della modalità, così come lo si trova<br />

nella prima Critica, è il seguente:<br />

Possibilità – Impossibilità<br />

Esistenza – Non essere<br />

Necessità – Contingenza<br />

La strategia messa in atto dal principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong> Leibniz è quella<br />

<strong>di</strong> ricondurre l’esistenza al campo del possibile, <strong>di</strong> ritrovare la possibilità<br />

<strong>di</strong> ciascuna cosa, restituendola a un precedente poter-essere o essere-in-potenza.<br />

E, come possibilità d’essere o essere-possibile, per<br />

essere, ciascuna cosa dovrà (avrà dovuto) avere una ragione, una ratio che<br />

l’ha condotta a realizzarsi e <strong>di</strong>venire attuale. A seguito <strong>di</strong> questa strategia<br />

o genealogia, che «prova» l’esistenza mostrandone la possibilità e<br />

fornendone una ragione, le domande dell’essere perdono però tutto il<br />

loro carattere ribelle, tutta la loro drammaticità emotiva e potenzialmente<br />

narrativa; e si trasformano, quasi, in domande retoriche – l’essere,<br />

la sua ineffabilità, la sua natura «selvaggia» è quasi messo sotto scacco,<br />

messo in riga, regolato: è un essere che sottostà a una legge che, sebbene<br />

non sia la nostra, è tuttavia in qualche senso passibile <strong>di</strong> giustificazione.<br />

È interessante osservare come una strategia simile sia introdotta da<br />

Leibniz anche come correttivo della prova ontologica dell’esistenza <strong>di</strong><br />

Dio, ripresa in epoca moderna da Cartesio. A suo giu<strong>di</strong>zio, non basta<br />

(come hanno fatto Sant’Anselmo e Cartesio) <strong>di</strong>mostrare che Dio, in<br />

quanto essere perfettissimo, non può non esistere, dato che – se così fosse,<br />

e cioè non fosse – Dio mancherebbe <strong>di</strong> qualcosa (l’esistenza), e quin<strong>di</strong> non<br />

corrisponderebbe alla sua medesima nozione (<strong>di</strong> essere perfettissimo).<br />

Secondo Leibniz, ancor prima <strong>di</strong> ciò, occorre convenire sul fatto:<br />

126<br />

ESISTENZA E RAGIONE<br />

che un Ente perfettissimo o un Ente necessario è possibile e che non<br />

implica contrad<strong>di</strong>zione o (ciò che è lo stesso) che è possibile un’essenza<br />

dalla quale segua l’esistenza. Ma finché questa possibilità non sia <strong>di</strong>mostrata,<br />

con tale argomento non si potrà ritenere l’esistenza <strong>di</strong> Dio<br />

perfettamente <strong>di</strong>mostrata. E in genere bisogna tener presente [...] che da<br />

nessuna definizione si può inferire qualcosa <strong>di</strong> sicuramente definito,<br />

finché non si è certi che la definizione esprima qualcosa <strong>di</strong> possibile.<br />

Che se in essa fosse per caso implicita una contrad<strong>di</strong>zione occulta, potrà<br />

accadere che se ne deduca alcunché <strong>di</strong> assurdo. Intanto, da questa argomentazione<br />

appren<strong>di</strong>amo questo eminente privilegio della natura <strong>di</strong>vina,<br />

che, se è possibile, per ciò stesso esiste; il che non basta, nelle altre<br />

cose, a provarne l’esistenza. Tanto è dunque superiore la <strong>di</strong>mostrazione<br />

geometrica dell’esistenza <strong>di</strong>vina, che l’accurata possibilità <strong>di</strong> Dio si può<br />

<strong>di</strong>mostrare con la severità del rigore geometrico 5 .<br />

Tenendo a mente questo passo, torniamo alle tre questioni con cui<br />

abbiamo iniziato questo capitolo e che riguardano il poter-non-essere e<br />

il poter-non-essere-questo-e-così dell’ente. Il principio <strong>di</strong> ragione fornisce<br />

una risposta a tutte e tre le questioni. Rendere ragione della contingenza<br />

significa trovare la ratio sufficiens per cui qualcosa <strong>di</strong> possibile si<br />

è realizzato così come si è realizzato. Alla prima questione («Perché c’è<br />

qualcosa piuttosto che niente?») Leibniz risponde che, nel possibile, è<br />

contenuta una pretesa all’esistere (conatus ad Existentiam); anzi, che ogni<br />

essenza è un «essere sul punto <strong>di</strong> esistere» (existiturire). Questa tendenza<br />

o pulsione a esistere non è però sufficiente, in una cosa finita, per condurla<br />

eo ipso all’esistenza. È proprio e solo <strong>di</strong> un Ente necessario, infatti,<br />

che, data la sua possibilità, ne segua necessariamente l’esistenza. La ragione<br />

per cui c’è qualcosa piuttosto che il niente deve dunque trovarsi<br />

«in una cosa esistente in atto» (in re actu esistente) e precisamente – così<br />

prosegue il passo – in quell’Ente necessario «senza il quale non v’è alcuna<br />

via per la quale il possibile possa pervenire all’atto» 6 . Riguardo alle<br />

altre due questioni («Perché esiste questo piuttosto che un altro?» e<br />

«Perché è così piuttosto che altrimenti?») dobbiamo osservare che, nel<br />

reale, c’è un elemento che non era contenuto nel semplicemente e puramente<br />

possibile («Esistere è qualcosa <strong>di</strong> più che non esistere» 7 ), cioè<br />

la scelta <strong>di</strong> una determinazione (<strong>di</strong> un esser-questo e <strong>di</strong> un essere-così), <strong>di</strong><br />

fronte alle infinite determinazioni che il possibile ammetteva. E tale<br />

127


PARTE PRIMA<br />

scelta è <strong>di</strong> nuovo delegata a un Ente che sia causa sui, che cioè possegga<br />

un intelletto che concepisca tutti i possibili e una volontà che ne scelga<br />

alcuni piuttosto che altri. Con la sua ricevuta <strong>di</strong> ritorno, il principio <strong>di</strong><br />

ragione assicura le ragioni dell’ente affidandolo al più infallibile e indubitabile<br />

Ente <strong>di</strong> assicurazione. Nella metafisica leibniziana, Dio è questo<br />

passaggio al limite della calcolabilità dell’accadere, della sua<br />

economicità.<br />

Rendere ragione della contingenza significa calcolare la ratio per cui<br />

qualcosa <strong>di</strong> possibile si è realizzato così come si è realizzato. Significa ricondurre<br />

l’esistenza all’essenza, la realtà alla possibilità. Il principio <strong>di</strong> ragion<br />

sufficiente «rende» a ciò che è, accade o è accaduto, quella possibilità<br />

d’essere (quella finalità) che già il possibile conteneva, che, anzi, doveva<br />

necessariamente contenere, anche se questa necessità (la necessità dell’esistenza<br />

e della contingenza) supera le possibilità <strong>di</strong> intellezione (o <strong>di</strong> calcolo) proprie<br />

<strong>di</strong> un intelletto finito. Rimandando il reale al possibile, offriamo all’accadere<br />

(e all’agire) un antecedente che lo assicura alla ragione e al suo<br />

fondamento, al principio <strong>di</strong> ragione e al suo fondamento onto-teologico.<br />

Lo assicura e lo affida a un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> calcolo che inevitabilmente<br />

prevede il ritorno ciclico dell’uguale.<br />

Non potremo affrontare questo tema immenso che ritornerà in<br />

Nietzsche e che, come ho già ricordato, Leibniz ha consegnato al frammento<br />

sull’Apokatasasis. Qui mi limito soltanto ad accennare come l’idea<br />

<strong>di</strong> una «ripetizione» o «restituzione» <strong>di</strong> tutte le cose – è quest’ultimo il<br />

senso, accre<strong>di</strong>tato dallo stesso Leibniz, della parola greca – sia un correlato<br />

della calcolabilità economica e del carattere circolare e restitutivo propri<br />

del principium reddendae rationis.<br />

Nella monadologia <strong>di</strong> Leibniz è in gioco il concetto più importante<br />

della metafisica: l’esistenza. E, con ciò stesso, le nozioni <strong>di</strong> azione e <strong>di</strong> libertà<br />

su cui torneremo nel prossimo capitolo. Ma che cos’è, per Leibniz,<br />

l’esistenza? L’esistenza è un’esigenza dell’essenza; dato che, se così non<br />

fosse, l’esistenza dovrebbe a sua volta avere una sua propria essenza e,<br />

nel caso non l’avesse, non sarebbe nulla (detto per inciso: la sfida <strong>di</strong><br />

Essere e tempo <strong>di</strong> Heidegger sarà proprio quella <strong>di</strong> accettare questa mancanza<br />

o questo nulla del Dasein). L’esistenza è un’esigenza e, in questo<br />

senso, una proprietà dell’essenza. Essa è una tendenza, un impulso, una<br />

pulsione, un’espressione, un conatus dell’essenza (un conatus essen<strong>di</strong>). Ciò<br />

che è deve in precedenza essere possibile, corrispondere alla sua possibilità.<br />

Questo antecedere del possibile rispetto al reale, fa sì che l’acca-<br />

128<br />

ESISTENZA E RAGIONE<br />

dere e l’agire stesso siano una riproduzione esatta, una copia conforme<br />

del possibile – se non per i nostri, almeno agli occhi <strong>di</strong> un Ente <strong>di</strong> pura<br />

ragione. Il principio <strong>di</strong> ragione riconduce l’esistenza alla possibilità-<strong>di</strong>esistere<br />

che l’avrà preceduta. E, tra gli infiniti possibili alternativi contenuti<br />

nella mente <strong>di</strong> Dio come regio possibilitatum, la affida alla sua<br />

decisione ben ponderata a favore del migliore dei mon<strong>di</strong> possibili. In<br />

questo senso anche la frase che spesso viene citata come espressione <strong>di</strong><br />

una visione alternativa del mondo, la frase secondo cui «un altro mondo<br />

è possibile», è un enunciato onto-teo-logico, che suppone un’altra teologia<br />

nella stessa ontologia – oppure un errore <strong>di</strong> calcolo o una svista da<br />

parte <strong>di</strong> Dio. Questo <strong>di</strong>scorso, per quanto voglia essere alternativo, resta<br />

tuttavia nell’orizzonte eterocosmico dell’onto-teologica, e dell’interpretazione<br />

dell’esistenza come contingenza.<br />

Prima <strong>di</strong> essere decostruito da Nietzsche, è con la «filosofia positiva»<br />

<strong>di</strong> Schelling e le sue ricerche sulla libertà che il principio <strong>di</strong> ragione,<br />

come fondazione economica dell’ontoteologia, viene messo in questione<br />

nel suo punto nevralgico: il rapporto tra esistenza e possibilità.<br />

Anche Schelling, come Leibniz e, più tar<strong>di</strong>, Heidegger, parte della domanda<br />

fondamentale o «ultima», che egli formulava così: «Warum ist<br />

überhaupt etwas? Warum ist nicht nichts?» (Perché c’è in generale qualcosa?<br />

Perché non c’è il nulla?). La sfida alla ragione, lanciata dall’insorgere<br />

<strong>di</strong> questa domanda, non conduce per Schelling ad alcun «principio<br />

<strong>di</strong> ragione» che possa contenerne economicamente la portata estatica;<br />

piuttosto, segnala lo smarrimento o l’annichilimento della ragione <strong>di</strong><br />

fronte a «qualcosa» – l’esistenza – che non è preceduto da niente, ed è esistenza<br />

proprio per questo. A <strong>di</strong>fferenza del contingente – che resta consegnato<br />

al principio <strong>di</strong> ragione come con<strong>di</strong>zione sufficiente della sua<br />

possibilità – l’esistente non esiste perché è possibile, esiste poiché esiste.<br />

Come la «rosa senza perché» <strong>di</strong> Angelo Silesio.<br />

La filosofia positiva <strong>di</strong> Schelling – alla quale non potremo de<strong>di</strong>care<br />

che questi pochi richiami – si proponeva <strong>di</strong> superare o scavalcare la «filosofia<br />

negativa» (che aveva trovato nell’onto-logica Hegel la sua espressione<br />

più compiuta, anzi, insuperabile), facendo dell’esistente e del reale<br />

un prius assoluto: il puro esistere, per Schelling, non ha altro passato che<br />

se stesso, «non è prima possibile e poi reale, ma è subito reale, comincia<br />

con l’essere» 8 . L’esistente, cioè, non è considerato come qualcosa <strong>di</strong><br />

«contingente», <strong>di</strong> «non necessario»: ciò che suppone pur sempre la necessità<br />

come dover-essere del possibile, e l’esser-possibile come passato<br />

129


PARTE PRIMA<br />

del reale. In un’epoca più vicina alla nostra, saranno soprattutto<br />

Heidegger e Levinas a mettere in questione la metafisica del principio<br />

<strong>di</strong> ragione (come fondamento della «metafisica della presenza»): il primo,<br />

me<strong>di</strong>ante un pensiero dell’essere (e poi dell’Ereignis) come irriducibile al<br />

fondamento ontico dell’ontoteologia; il secondo, con la parola d’or<strong>di</strong>ne<br />

dell’«altrimenti che essere» («e che nulla»!).<br />

Restiamo però per qualche istante ancora sulla filosofia positiva <strong>di</strong><br />

Schelling, citandone una riformulazione ispirata, <strong>di</strong> tono quasi paolino,<br />

da parte <strong>di</strong> Luigi Pareyson:<br />

[La realtà] non ha ragion d’essere né peso che la trascini e la fissi. Della<br />

realtà non basta <strong>di</strong>re che è contingente, ciò che implicherebbe ancora<br />

un rinvio sia alla necessità sia soprattutto alla possibilità. Della realtà<br />

che sia pura realtà non si può <strong>di</strong>re né che è perché poteva essere, né che<br />

è perché non poteva non essere; ma unicamente che è perché è. Essa è del<br />

tutto gratuita e infondata: interamente appesa alla libertà, che non è un<br />

fondamento ma un abisso, ossia un fondamento che si nega sempre<br />

come fondamento 9 .<br />

Queste parole potrebbero fare da commento alla «rosa senza perché»<br />

<strong>di</strong> Angelo Silesio. E, del resto, la tra<strong>di</strong>zione della teologia negativa,<br />

a cui la poetica mistica <strong>di</strong> Johannes Scheffler si ispirava, rappresenta uno<br />

dei riferimenti essenziali della filosofia positiva <strong>di</strong> Schelling e del -<br />

l’Ontologia della libertà <strong>di</strong> Pareyson – oltre che un richiamo significativo nel<br />

pensiero <strong>di</strong> Heidegger e <strong>di</strong> Derrida.<br />

Lo stesso Leibniz fu affascinato dalla poesia teologica <strong>di</strong> Angelo<br />

Silesio, tanto da ricordarla a più riprese. Come in questo passo tratto da<br />

una lettera del 28 gennaio 1695:<br />

Negli scritti <strong>di</strong> quei mistici vi sono alcuni passi assai audaci, colmi <strong>di</strong><br />

metafore <strong>di</strong>fficili e tendenti quasi all’ateismo, come talvolta mi è capitato<br />

<strong>di</strong> osservare nelle poesie tedesche – tra l’altro molto belle – <strong>di</strong> un<br />

tale che si chiama Angelo Silesio 10 .<br />

Il sospetto leibniziano <strong>di</strong> (quasi) «ateismo» è certo legato al modo in<br />

cui Eckhart e Silesio parlavano (o tacevano) <strong>di</strong> Dio, il primo come <strong>di</strong> un<br />

«nulla <strong>di</strong> nulla» (nihtes niht), <strong>di</strong> un «vuoto» o <strong>di</strong> un «deserto» (quanto <strong>di</strong><br />

più lontano si possa immaginare, da questo punto <strong>di</strong> vista, dal <strong>di</strong>o della<br />

130<br />

ESISTENZA E RAGIONE<br />

metafisica), il secondo come della fioritura <strong>di</strong> una «rosa senza perché»<br />

(ohne warum).<br />

Nel già ricordato saggio Il principio <strong>di</strong> ragione, Heidegger si domanda<br />

se questa «rosa» non parli, come sembrerebbe in un primo momento,<br />

«nella <strong>di</strong>rezione opposta» del principium reddendae rationis, secondo cui,<br />

appunto, «niente è senza perché», cioè senza «fondamento» (Grund). E,<br />

analizzando con cura i versi della poesia <strong>di</strong> Silesio (la cui rosa «fiorisce<br />

poiché fiorisce»: e quel poiché, weil, resta la risposta alla domanda <strong>di</strong> un<br />

perché?, <strong>di</strong> un warum?), conclude che «il detto “la rosa è senza perché”<br />

non nega affatto la tesi del fondamento»; e anzi, la in<strong>di</strong>ca o la fa risuonare<br />

in modo particolarmente intenso, facendoci scorgere – più profondamente<br />

<strong>di</strong> quanto non accadesse nel Satz vom Grund <strong>di</strong> Leibniz – «il<br />

fondamento in quanto essere», il Grund in quanto Abgrund 11 .<br />

Nel <strong>di</strong>scorso «apofatico» proprio della teologia negativa siamo in realtà<br />

più vicini a una comprensione dell’essere come fondamento senza<br />

fondamento, e del fondamento come essere: nella retorica e nella poetica<br />

della teologia apofatica, il che-è, il poiché o l’essere della rosa – che, appunto,<br />

fiorisce senza un perché, fiorisce solo poiché fiorisce – fanno segno<br />

all’essere molto più chiaramente <strong>di</strong> quanto non avvenga nella tra<strong>di</strong>zione<br />

dell’onto-teologia. Heidegger ci mostra qui una faglia nella compattezza<br />

e nell’apparente invincibilità dell’ontoteologia (che suppone e insieme<br />

smemora il senso dell’essere) e ci in<strong>di</strong>ca un tratto decisivo per guardare<br />

al fondo del fondamento: ovvero, all’essere, il quale, a sua volta, non ha<br />

alcun fondamento, in quanto è un Abgrund, un abisso, un fondamento<br />

sfondato.<br />

Pur prendendo le mosse dalla parola-guida <strong>di</strong> Heidegger – l’oltrepassamento<br />

della metafisica intesa come onto-teologia – il caso <strong>di</strong><br />

Levinas è, in apparenza, opposto. Non si tratta, per lui, <strong>di</strong> pensare l’essere<br />

altrimenti-che nell’onto-telogia, ma <strong>di</strong> pensare l’altrimenti dell’onto-teologia;<br />

e, in questo senso, <strong>di</strong> portarsi al <strong>di</strong> là del «pensiero dell’essere e del<br />

nulla», che domina la metafisica da Parmenide a Hegel, da Aristotele a<br />

Leibniz (e, per Levinas, fino allo stesso Heidegger). Nel testo che ha<br />

per titolo questa presa <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, Altrimenti che essere o al <strong>di</strong> là dell’essenza<br />

12 , Levinas afferma che, in qualunque modo venga articolato, il<br />

nesso essere-ente ci mantiene all’interno dell’«interessamento» e del «conatus<br />

essen<strong>di</strong>» (l’essenza, e cioè l’essere dell’ente, essendo l’avvenimento del<br />

suo essere); e precisa dunque come, parlare <strong>di</strong> «altrimenti che essere», non<br />

significa inseguire un «essere altrimenti» (un’alternativa che, in<strong>di</strong>cando<br />

131


PARTE PRIMA<br />

il tratto della contingenza, sarebbe ripresa dal «pensiero dell’essere», dal<br />

pensiero della possibilità intesa come possibilità-d’essere o essere-possibile:<br />

insomma, come conatus essen<strong>di</strong> e inter-essamento) ma l’«altro dell’essere»,<br />

la «<strong>di</strong>fferenza della trascendenza». In questo senso, secondo<br />

Levinas, anche l’alternativa tra essere e nulla resta tutta interna al pensiero<br />

dell’essere («l’essere dell’essere domina lo stesso non-essere»: lo<br />

<strong>di</strong>ceva, a modo suo, anche Aristotele) 13 . La ragione come principio consiste<br />

nell’aver ragione dell’altro 14 . L’etica prima dell’ontologia <strong>di</strong> Levinas<br />

significa un’etica prima dell’economia, e nessuna economia, sia pure <strong>di</strong><br />

giustizia, potrà essere tale senza questo «prima». Anche se in un «dopo»<br />

che non è dopo, l’essere rientrerà in scena <strong>di</strong>etro la figura <strong>di</strong> un’economia<br />

<strong>di</strong> giustizia.<br />

_______________<br />

1 M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, in Id., Segnavia, cit.<br />

2 Marina Cvetaeva, op. cit., p. 72.<br />

3 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, pp. 288-289.<br />

4 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, cit., pp. 15-16.<br />

5 G.W. Leibniz, op. cit., vol. II, pp. 71-72.<br />

6 Ivi, vol. I, p. 228.<br />

7 Ivi, vol. II, p. 576.<br />

8 Il passo <strong>di</strong> Schelling è citato da L. Pareyson in Ontologia della libertà, cit., p. 465.<br />

9 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 465.<br />

10 Il passo <strong>di</strong> questa lettera <strong>di</strong> Leibniz è riportato in M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ra-<br />

gione, cit., p. 68.<br />

11 Ivi, p. 104.<br />

12 E. Levinas, Altrimenti che essere o al <strong>di</strong> là dell’essenza, cit.<br />

13 Ivi, pp. 5-9.<br />

14 E. Levinas, Di Dio che viene all’idea [De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982], tr.<br />

it. <strong>di</strong> S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 167.<br />

132<br />

La macchina del mondo<br />

Abbiamo visto come, muovendo dalla tesi secondo cui prae<strong>di</strong>catum<br />

inest subjecto – dall’idea, cioè, dell’essere contenuti, dell’inerire dei pre<strong>di</strong>cati<br />

(delle possibilità d’essere) nel soggetto – Leibniz giunga alla dottrina<br />

della sostanza in<strong>di</strong>viduale (monade). Ripercorriamo allora velocemente<br />

i passaggi decisivi <strong>di</strong> questa rifondazione dell’onto-logia come monadologia.<br />

Richiamandosi non del tutto propriamente ad Aristotele, Leibniz afferma<br />

che le proposizioni vere si risolvono in identità. Esser-vero significa<br />

essere-identico, inesse equivale a idem esse. Una proposizione vera<br />

è quella in cui il pre<strong>di</strong>cato è contenuto, inabita nel soggetto (inest subjecto).<br />

La verità è inclusione del soggetto nel pre<strong>di</strong>cato, <strong>di</strong> un conseguente (consequens)<br />

in un antecedente (antecedens). Qui si vede come si stia giocando<br />

la partita del rapporto tra logica e ontologia: la connessione (o inclusione)<br />

affermata dal giu<strong>di</strong>zio (logos) è una connessione (o un’inclusione)<br />

reale (ontica). Che cos’è, dunque, la monade in quanto sostanza in<strong>di</strong>viduale<br />

o sostanza semplice? È, appunto, ciò a cui ineriscono tutti i pre<strong>di</strong>cati<br />

«veri» che <strong>di</strong> essa si possono affermare. L’in-esse non riguarda<br />

soltanto le verità identiche o <strong>di</strong> ragione ma anche le verità <strong>di</strong> fatto, anche<br />

se, in questo caso, noi non riusciamo a scorgere imme<strong>di</strong>atamente e a<br />

rendere (del tutto) manifesta, attuale, presente una simile inclusione.<br />

Infatti, nel caso delle verità <strong>di</strong> fatto, abbiamo a che fare con verità «nascoste»,<br />

«celate» alla nostra finitezza. Ma cosa intende, Leibniz, con «finitezza»?<br />

Egli intende, in primo luogo, pluralità, pluralismo delle mona<strong>di</strong>,<br />

e in secondo luogo limitazione spazio-temporale.<br />

Il riferimento alla finitezza come limitazione spazio-temporale non<br />

deve perciò essere inteso come se gli «atomi della natura» fossero corpi<br />

posti nello spazio-tempo (il sensorium Dei <strong>di</strong> Newton). Va invece inteso<br />

nel senso che, in quanto le mona<strong>di</strong> sono plurali, sono perciò costrette a esprimere<br />

la loro finitezza in termini <strong>di</strong> limitazione spazio-temporale. Nella concezione<br />

leibniziana della sostanza, è possibile dunque sottolineare tanto<br />

quella «metafisica della presenza» in<strong>di</strong>cata da Heidegger come tratto comune<br />

o costante della tra<strong>di</strong>zione dell’ontoteologia 1 , quanto una conce-<br />

133


PARTE PRIMA<br />

zione «non volgare» della spazio-temporalità della sostanza-soggetto<br />

(non intesa cioè, ricorrendo ancora al linguaggio heideggeriano, come<br />

«semplice presenza», come Vorhandenheit). Si tratta però <strong>di</strong> capire in che<br />

senso, per Leibniz, le mona<strong>di</strong> sono plurali – dato che, se non lo fossero,<br />

tutte le <strong>di</strong>stinzioni della sua filosofia crollerebbero. Questa caratterizzazione,<br />

con la quale Leibniz cerca <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguersi da Spinoza (secondo<br />

cui gli in<strong>di</strong>vidui sono mo<strong>di</strong>ficazioni transitorie <strong>di</strong> una sostanza unica), è<br />

ancora una volta affermata ricorrendo al principio <strong>di</strong> ragione e, più precisamente,<br />

a quel suo corollario che consiste nel «principio degli in<strong>di</strong>scernibili».<br />

Pluralità significa, infatti, <strong>di</strong>fferenziazione e, in natura, è<br />

impossibile che si <strong>di</strong>ano entità «perfettamente uguali».<br />

Abbiamo visto come alla sostanza in<strong>di</strong>viduale ineriscano come pre<strong>di</strong>cati<br />

(logici) tutti gli eventi che si produrranno o le accadranno nel corso<br />

della sua esistenza. Da questo criterio <strong>di</strong> verità deriva l’idea che la monade<br />

produca da sé, dal suo interno, tutti i suoi contenuti e le sue rappresentazioni.<br />

La monade è, infatti, una potenza attiva o «entelechia». Come<br />

potenza attiva, essa è un principio <strong>di</strong> sviluppo organico e teleologico. La<br />

monade possiede due attività fondamentali: la percezione e l’appetizione<br />

(conatus o appetitus). In questo senso, è una specie <strong>di</strong> anima o <strong>di</strong> psyche –<br />

o, per essere più precisi, l’anima è una specie <strong>di</strong> monade, dotata non soltanto<br />

<strong>di</strong> «percezione» ma anche <strong>di</strong> «appercezione». In base al principio logico<br />

secondo cui, in ogni proposizione vera, pre<strong>di</strong>catum inest subjecto, si può<br />

affermare che la monade contenga (virtualmente) in se stessa e produca<br />

da sé (come un centro <strong>di</strong> forza) tutti i suoi stati rappresentativi (pur non<br />

avendone in ogni caso coscienza chiara, e perciò ancor meno <strong>di</strong>stinta e<br />

adeguata). Da ciò consegue che nessuna sostanza possa propriamente<br />

agire su <strong>di</strong> un’altra o ricevere, patire, qualche influsso da un’altra. Sebbene<br />

la monade <strong>di</strong>venga, e in questo senso si mo<strong>di</strong>fichi, i mutamenti che avvengono<br />

in essa «derivano da un principio interno», poiché, in quanto sostanza<br />

semplice, essa non può ricevere nulla e neppure può essere affetta<br />

da nulla che le sia esterno. «Le mona<strong>di</strong> non hanno finestre, dalle quali<br />

possa entrare o uscire qualcosa» 2 . All’interno <strong>di</strong> una monade non può<br />

penetrare né un accidente né un’altra sostanza. Ciò che a noi appare,<br />

dunque, come un’affezione è in realtà una forma <strong>di</strong> realizzazione: la monade<br />

si mo<strong>di</strong>fica, non perché subisca qualcosa dall’esterno, ma perché<br />

porta a espressione le sue possibilità intrinseche (o innate). Non ricevendo<br />

influssi dall’esterno né potendone esercitarne alcuno, ogni monade<br />

è così un mondo autosufficiente e autonomo. Intransitività e<br />

134<br />

LA MACCHINA DEL MONDO<br />

autarchia sono le caratteristiche che definiscono l’essenza della sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale. Le mona<strong>di</strong>, in altri termini, sono degli «specchi dell’universo»:<br />

laddove noi cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> affacciarci a una finestra e <strong>di</strong> vedere il mondo,<br />

in realtà stiamo guardando in uno specchio collocato all’interno della nostra<br />

stanza (o so-stanza), uno specchio che riflette l’universo dal punto<br />

<strong>di</strong> vista da cui noi lo guar<strong>di</strong>amo – cioè dalla parziale prospettiva del<br />

mondo propria <strong>di</strong> ciascuna monade (parzialità da cui è naturalmente<br />

esclusa la sola vera e propria monade, e cioè Dio).<br />

Se le cose stanno così, c’è però da chiedersi se quella a cui ci troviamo<br />

<strong>di</strong> fronte non sia una incomunicabilità universale (dove pluralità<br />

e temporalità sono solo sembianze <strong>di</strong> un’unica presenza). Proprio per<br />

non incorrere in questo rischio (che, tuttavia, sarà evitato solo in apparenza),<br />

Leibniz fa ricorso alla nozione <strong>di</strong> armonia prestabilita. Dato che ciascuna<br />

monade rispecchia lo stesso universo da un punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>verso<br />

da quello <strong>di</strong> ogni altra, è sufficiente che tutti questi punti <strong>di</strong> vista siano<br />

coor<strong>di</strong>nati e sincronizzati l’uno con l’altro nel loro sviluppo perché si<br />

stabilisca tra <strong>di</strong> loro una relazione o una corrispondenza. Con questa<br />

formulazione, Leibniz cerca <strong>di</strong> «salvare» il concetto <strong>di</strong> spontaneità (e,<br />

con esso, la libertà e l’azione); cerca cioè <strong>di</strong> evitare sia la teoria spinoziana,<br />

secondo la quale ogni spontaneità spetta soltanto a Dio, sia il sistema<br />

che considera gli eventi che accadono nel mondo come semplici<br />

occasioni <strong>di</strong> una corrispondente azione <strong>di</strong> Dio nell’universo.<br />

Ora, che cosa significa, per Leibniz, questa spontaneità che egli cerca<br />

<strong>di</strong> salvare? Tutti i contenuti – i pre<strong>di</strong>cati, le possibilità, le rappresentazioni<br />

– <strong>di</strong> una monade provengono dal suo interno, sono cioè l’effetto<br />

<strong>di</strong> un «impulso» rappresentativo che scaturisce dal fondo della sostanza<br />

in<strong>di</strong>viduale, dove sono presenti fin da principio. Si vede allora che, sebbene<br />

lo scopo della monadologia leibniziana sia quello <strong>di</strong> «salvare i fenomeni»<br />

(la contingenza) e, per ciò, la pluralità, la libertà e la facoltà <strong>di</strong> azione<br />

degli in<strong>di</strong>vidui, in realtà tutto ciò non è che apparenza. La spontaneità,<br />

infatti, si riduce all’espressione <strong>di</strong> possibilità già sussistenti, preformate,<br />

calcolate e previste Altrove. Apparente è anche il fatto che le mona<strong>di</strong> si<br />

trasformino agendo l’una sull’altra e patendo l’una dall’altra. In realtà,<br />

come abbiamo detto poco sopra, si tratta solo <strong>di</strong> una «concomitanza» –<br />

quasi, ci si potrebbe arrischiare a <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> una mera «coincidenza» – dovuta<br />

all’armonia prestabilita. In ogni caso, il «fine» che governa l’universo<br />

delle mona<strong>di</strong> sfugge alle loro rappresentazioni e pulsioni, ai loro<br />

interessi e alle loro intenzioni.<br />

135


PARTE PRIMA<br />

Oggi, queste formulazioni «preformiste» possono farci sorridere,<br />

come del resto accadeva a Voltaire. Non <strong>di</strong>mentichiamoci però <strong>di</strong> come<br />

para<strong>di</strong>gmi analoghi – solo apparentemente più raffinati – operino nel<br />

nostro tempo all’interno <strong>di</strong> ipotesi cognitiviste e utilitaristiche ricorrenti<br />

in molti ambiti delle cosiddette scienze del comportamento – e non<br />

solo. Ed è forse proprio il vettore economico – quel «come se» che Kant<br />

considerava connaturato alla nostra facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio – che a volte ha<br />

portato a scoperte notevoli, a volte invece a pericolose confusioni tra<br />

metodo e oggetto. Quanto al concetto <strong>di</strong> «fine», se – da Aristotele a<br />

Leibniz, da Adam Schmith ai giorni nostri – è certamente mutata la sua<br />

raffigurazione (il motore immobile, il <strong>di</strong>o dell’onto-teologia, la natura,<br />

il progresso dell’umanità, un «come se» soggettivo, il mercato…) non si<br />

può <strong>di</strong>re lo stesso della «mano invisibile» (l’immagine è <strong>di</strong> Adam Smith)<br />

che opera nelle faccende umane, e <strong>di</strong> nascosto le conduce verso quel<br />

fine. Si possono naturalmente interpretare e valutare questi mutamenti<br />

in termini <strong>di</strong> «secolarizzazione», <strong>di</strong> traduzione o applicazione <strong>di</strong> una metafora<br />

originariamente teologica in termini via via più mondani ed economici<br />

3 : non è certo storicamente errato, se non fosse che quella stessa<br />

metafora è economica da parte a parte e fin dal suo (non) inizio.<br />

In una lettera <strong>di</strong> Leibniz in<strong>di</strong>rizzata ad Arnauld, ritroviamo l’armonia<br />

prestabilita espressa e spiegata attraverso un paragone che, nel tentativo<br />

<strong>di</strong> chiarificarla, in realtà ne svela l’inservibilità come «artificio» per<br />

salvare il concetto <strong>di</strong> spontaneità:<br />

Per servirmi infine <strong>di</strong> un paragone, <strong>di</strong>rò che rispetto alla concomitanza<br />

che, io sostengo, essa è simile a quella che ci sarebbe fra <strong>di</strong>verse orchestre<br />

o cori, che eseguono separatamente le loro parti e siano collocate<br />

in modo che non si vedano e neppure si odano e che, non<strong>di</strong>meno, possano<br />

accordarsi seguendo le loro note, ciascuna le proprie, <strong>di</strong> modo che<br />

chi ascolta [ma questo pubblico presunto non potrebbe essere che il<br />

solo <strong>di</strong>rettore d’orchestra], vi trovi un’armonia meravigliosa e molto più<br />

sorprendente che se vi fosse una connessione fra loro 4 .<br />

Ciò che appare come un accadere temporale e un’interazione plurale<br />

tra in<strong>di</strong>vidui, in realtà è soltanto lo sviluppo progressivo e preformato<br />

delle possibilità implicite in ogni sostanza. Quelle che sembrano<br />

azioni o passioni dei <strong>di</strong>versi esecutori dei cori manifestano soltanto una<br />

connessione del tutto con se stesso: una volta posti in sincrono i <strong>di</strong>versi oro-<br />

136<br />

LA MACCHINA DEL MONDO<br />

logi delle mona<strong>di</strong> e tenuto conto dei fusi orari <strong>di</strong> ciascuna, tutto si muove<br />

da sé e non resta più niente da fare per nessuno. Nemmeno per il <strong>di</strong>rettore<br />

dell’orchestra, dato che i tempi della partitura sinfonica <strong>di</strong> questa<br />

laudatio dei sono stati impressi in ciascuna monade dal suo<br />

metronomo infallibile. E, scrive Leibniz, questa «ipotesi è la più probabile,<br />

perché è la più semplice, la più bella e la più intelligibile» 5 . L’artefice<br />

sommo, il demiurgo, «ha creato, fin da principio, la macchina del<br />

mondo», ha <strong>di</strong>sposto in un unico spartito gli Unwelten reciprocamente<br />

esclusivi e incomunicanti tra loro <strong>di</strong> ciscuna monade. Sebbene ci sembri<br />

<strong>di</strong> assistere a impromptus, ad acca<strong>di</strong>menti imprevisti o a esecuzioni<br />

originali e improvvisate, questa, in realtà, non è che apparenza. Messo<br />

a punto il <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> or<strong>di</strong>namento e <strong>di</strong> governo, tutto si svolge (si ripete<br />

ogni volta) come in un presepe meccanico. E se questa espressione<br />

può sembrare irriverente, ricordo che in un passo <strong>di</strong> cui ho perduto la<br />

fonte, Kant paragonava la spontaneità della monade leibniziana alla libertà<br />

<strong>di</strong> un girarrosto!<br />

E oggi? Oggi mi pare sia necessario non smettere <strong>di</strong> chiederci se il<br />

mondo in cui viviamo non sembri approssimare sempre più il massimo<br />

<strong>di</strong> calcolabilità e <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne al massimo <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, un surplus <strong>di</strong> governo<br />

economico (il governo della vita stessa, il bio-potere <strong>di</strong> cui parlava<br />

Foucault) all’estrema ingovernabilità, la frontiera della sicurezza all’insicurezza<br />

<strong>di</strong> ogni frontiera, il controllo, la sorveglianza, il padroneggiamento<br />

più ossessivi a un’incontrollabilità generalizzata, l’«assicurazione»<br />

e il comfort familiare allo «spaesamento» e alla per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> mondo, il massimo<br />

<strong>di</strong> ragione sufficiente e il massimo <strong>di</strong> pulsione <strong>di</strong> dominio, la figura<br />

catastrofica dell’impreve<strong>di</strong>bile come perifrasi inarrestabile <strong>di</strong> una ripetizione.<br />

Sarà un caso? Forse. Ma forse, paro<strong>di</strong>ando Aristotele, potremmo<br />

<strong>di</strong>re: «E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce<br />

l’eterno oggetto <strong>di</strong> ricerca, e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”,<br />

equivale a questo»: che cosa resta in latenza nella metafisica come<br />

immagine (del governo) del mondo? Una domanda sulla quale ritorneremo<br />

nel prossimo capitolo.<br />

_______________<br />

1 Secondo l’interpretazione heideggeriana, la metafisica ha immancabilmente interpretato<br />

l’«ente» come «pres-ente»; senza rendersene conto, l’ha cioè interpretato<br />

a partire da un (privilegiato) modo del tempo. A questa tra<strong>di</strong>zione non<br />

137


PARTE PRIMA<br />

sfuggirebbe nemmeno Aristotele (insieme alla sua concezione della sostanza)<br />

proprio a causa <strong>di</strong> quel «privilegio»: come del resto mostrerebbe la sua interpretazione<br />

«or<strong>di</strong>naria» del tempo. Su questo punto, nel saggio Ousia e grammé<br />

(contenuto in Margini della Filosofia, op. cit.), Derrida ha sollevato perplessità che<br />

non andrebbero trascurate e alle quali mi sono già riferito.<br />

2 G.W. Leibniz, op. cit., vol. I, pag. 453.<br />

3 Cfr. G. Agamben, op. cit., p. 331.<br />

4 Ivi, vol. I, p. 154.<br />

5 Ivi, p. 153.<br />

138<br />

Informazione e assicurazione sulla vita<br />

Torniamo nuovamente su Der Satz vom Grund, il testo che Martin<br />

Heidegger intitola e de<strong>di</strong>ca alla «frase del fondamento» <strong>di</strong> Leibniz.<br />

Torniamo in particolare a quei passi della Conferenza del 1956 in cui vuole<br />

mostrarci come l’emergere e l’affermarsi <strong>di</strong> questa frase – e cioè del<br />

principio <strong>di</strong> ragione – conduca all’epoca e al dominio della tecnica caratteristici<br />

del mondo contemporaneo. Leggiamo qualche proposizione:<br />

Ratio significa al tempo stesso “conto” e “resa del conto” nel senso del<br />

giustificare qualcosa, del calcolarlo come sussistente a ragione, come<br />

corretto, ponendolo al sicuro me<strong>di</strong>ante tale calcolo. […] Oggi sappiamo<br />

[…] che la tecnica moderna incalza inarrestabilmente per portare i suoi<br />

<strong>di</strong>spositivi e i suoi prodotti a una perfezione globale, la più alta possibile.<br />

Tale perfezione consiste nella completezza dell’assicurazione calcolabile<br />

degli oggetti, del fare i conti con essi, e della sicurezza della<br />

calcolabilità delle possibilità <strong>di</strong> calcolo. La perfezione della tecnica è<br />

solo l’eco della pretesa <strong>di</strong> perfectio, vale a <strong>di</strong>re della completezza della<br />

fondazione. Il richiamo <strong>di</strong> tale pretesa proviene dal principium reddendae<br />

rationis sufficientis 1 .<br />

Questa analisi consente a Heidegger <strong>di</strong> ridefinire il principio <strong>di</strong> ragione<br />

me<strong>di</strong>ante una formulazione tanto semplice quanto efficace:<br />

“Niente è senza fondamento”. La tesi, ora, <strong>di</strong>ce: qualsiasi cosa vale<br />

come essente solo e soltanto se è assicurata per il rappresentare, in<br />

quanto oggetto calcolabile 2 .<br />

Leggiamo ancora qualche passaggio:<br />

Sotto il potere della pretesa avanzata dal principio <strong>di</strong> ragione si consolida<br />

il tratto fondamentale dell’esistenza umana attuale, che lavora ovunque<br />

per la sicurezza. (Detto per inciso: Leibniz, lo scopritore del<br />

principio <strong>di</strong> ragione sufficiente, è anche l’inventore dell’«assicurazione<br />

139


PARTE PRIMA<br />

sulla vita»). Il lavoro che mira all’assicurazione della vita deve tuttavia costantemente<br />

assicurare <strong>di</strong> nuovo se stesso. La parola chiave per questo<br />

atteggiamento fondamentale dell’esistenza contemporanea è: “informazione”<br />

3 .<br />

Ritorneremo, alla conclusione <strong>di</strong> questo capitolo, sul tema dell’informazione<br />

e, più precisamente, sul rapporto tra informazione e assicurazione<br />

tematizzato nel passo appena citato. Per il momento, limitiamoci<br />

a sottolineare il carattere paradossale del processo <strong>di</strong> assicurazione: più<br />

si assicura, più si deve assicurare; più si produce sicurezza, più si genera<br />

insicurezza. Questo carattere inquietante è riba<strong>di</strong>to in un altro passo del<br />

testo:<br />

La tecnica moderna porta alla più alta perfezione possibile. Questa perfezione<br />

si basa sulla generale calcolabilità degli oggetti. La calcolabilità<br />

degli oggetti presuppone la vali<strong>di</strong>tà illimitata del principium rationis. È<br />

dunque così che il dominio descritto della tesi del fondamento, del principio<br />

<strong>di</strong> ragione, determina l’essenza dell’epoca moderna, l’età della tecnica.<br />

E oggi l’umanità è giunta al punto <strong>di</strong> lasciarsi trascinare in avanti,<br />

verso qualcosa che finora nella sua storia non era potuto emergere.<br />

L’umanità entra nell’epoca cui ha dato il nome <strong>di</strong> “era atomica”. […] Per<br />

la prima volta nella sua storia, l’uomo interpreta un’epoca della sua esistenza<br />

storica in base all’afflusso e alla <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> un’energia della<br />

natura. E già sembra che manchino i criteri e la forza <strong>di</strong> un ripensare,<br />

che consenta <strong>di</strong> esperire in modo ancora sufficientemente libero quanto<br />

c’è <strong>di</strong> inquietante e <strong>di</strong> spaesante [c.vo mio] in una simile interpretazione<br />

dell’epoca attuale, tanto da esserne colpiti <strong>di</strong> continuo e in modo sempre<br />

più decisivo 4 .<br />

Nei testi appena letti è contenuta una questione che avevo cercato <strong>di</strong><br />

sollevare alla fine del capitolo precedente, e che ora vorrei riprendere e<br />

articolare <strong>di</strong> nuovo attraverso qualche riferimento più preciso. Come<br />

mai il principio <strong>di</strong> ragione, che dovrebbe «assicurare» ogni cosa a un<br />

fondamento <strong>di</strong> calcolo, si rivela nell’epoca del Gestell – e cioè nell’epoca<br />

del sua piena espressione o realizzazione – come la «causa» o la «ragione»<br />

medesima dell’insicurezza più «inquietante» e «spaesante»? Non<br />

avviene come se il dominio del principio <strong>di</strong> assicurazione, anziché in<br />

una riduzione, si traducesse in un incremento <strong>di</strong> insicurezza, d’instabi-<br />

140<br />

IINFORMAZIONE E ASSICURAZIONE SULLA VITA<br />

lità, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne? Come se il governo economico dell’esistente, garantito<br />

dal principio <strong>di</strong> ragione, fosse in se stesso all’origine del <strong>di</strong>spiegamento<br />

dell’incontrollabile, dell’impadroneggiabile, dell’irrazionale? Come se l’incalcolabile<br />

si manifestasse come l’effetto devastante – e questa parola,<br />

oggi, sembra perfino più debole <strong>di</strong> ciò che definisce – della sua stessa negazione<br />

e denegazione? Di questi «come se», la <strong>di</strong>agnostica <strong>di</strong> Nietzsche,<br />

o meglio la sua genealogia del nichilismo – che possiamo richiamare nell’ellissi<br />

<strong>di</strong> una frase già citata: «il credere nelle categorie <strong>di</strong> ragione è la causa del<br />

nichilismo» – sembra offrirci un’in<strong>di</strong>cazione preziosa, prescindendo naturalmente<br />

dal fatto che la comprensione del nostro tempo in termini <strong>di</strong><br />

«nichilismo», come del resto <strong>di</strong> «era atomica», non risulterebbe più del<br />

tutto sod<strong>di</strong>sfacente o, in ogni caso, sufficiente.<br />

Cerchiamo <strong>di</strong> compiere qualche passo in avanti sollevando nei confronti<br />

dell’interpretazione heideggeriana dell’essenza della tecnica – intesa<br />

come compiuta realizzazione del principio <strong>di</strong> ragione-assicurazione<br />

– una «questione <strong>di</strong> ritorno».<br />

Abbiamo visto come Leibniz facesse ricorso al principio del fondamento<br />

per «rendere ragione» delle cose contingenti. Di una qualsiasi<br />

cosa noi possiamo in<strong>di</strong>care la possibilità che giustifica il fatto che essa<br />

è, che è questa e che è così com’è; ma, a meno che non si tratti <strong>di</strong> un ente<br />

<strong>di</strong> ragione, noi non siamo in grado – per definizione – <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrarne<br />

la necessità: il che significa che il contrario <strong>di</strong> ognuna <strong>di</strong> queste possibilità è, o<br />

meglio, sarebbe (stato) ugualmente possibile. Che cosa ha dunque escluso il<br />

non-essere, l’essere-un’altra e l’essere-altrimenti <strong>di</strong> quella cosa? Non certo, dunque,<br />

la sua impossibilità ma la sua mancanza <strong>di</strong> perfectio. Il principio <strong>di</strong> ragione<br />

fornisce o, meglio, restituisce alle cose quella ratio sufficiens che<br />

conferma una decisione per il «meglio», per la maggiore «convenienza»<br />

possibile. La razionalità del principio <strong>di</strong> ragione è una razionalità da<br />

parte a parte economica.<br />

È a partire da queste considerazioni che vorrei porre alle analisi heideggeriane<br />

quella «questione <strong>di</strong> ritorno» a cui ho fatto riferimento.<br />

Questione che potrebbe formularsi così: il dominio della tesi del fondamento<br />

nell’epoca della «pianificazione» tecnica globale ci mostra il<br />

suo rovescio «spaesante» (unheimlich) perché, nel fare d’ogni cosa un «oggetto<br />

calcolabile», il Gestell ha definitivamente assorbito ogni residuo e<br />

ogni margine dell’essere, avendone scongiurato quel «nulla» che, per<br />

Heidegger, resta una testimonianza, se non proprio una via privilegiata<br />

<strong>di</strong> accesso all’essere? Oppure perché essa ha tentato <strong>di</strong> ricondurre al<br />

141


PARTE PRIMA<br />

«medesimo» – a un’«identità nascosta» – qualsiasi «altrimenti»? È la virulenza<br />

«nichilistica» dell’essere o quella «anarchica» dell’altrimenti («altrimenti<br />

che essere» e che «nulla», <strong>di</strong>rebbe Levinas) che il principio <strong>di</strong><br />

ragione cerca <strong>di</strong> governare e <strong>di</strong> <strong>di</strong>sciplinare? Nel dominio dell’equivalore<br />

imposto dall’economia e dal calcolo ne va dell’essere o dell’altro?<br />

Si potrebbe rispondere: <strong>di</strong> entrambi. E, in effetti, abbiamo visto<br />

come il principio del fondamento sia invocato per scongiurare tanto lo<br />

straniamento del «nulla» quanto la trascendenza dell’«altrimenti». La domanda<br />

che ho sollevato non chiede <strong>di</strong> decidere per una o l’altra alternativa.<br />

Piuttosto, questa alternativa, essa cerca <strong>di</strong> mantenerla aperta,<br />

tentando in tal modo:<br />

1) Di mettere in questione i concetti <strong>di</strong> possibilità e contingenza che<br />

reggono da parte a parte il principio <strong>di</strong> ragione o <strong>di</strong> assicurazione; cercando<br />

così <strong>di</strong> pensare ai limiti (e al limite) della concettualità: ciò che, immancabilmente,<br />

significa calcolabilità, ritorno a sé dell’intenzione,<br />

circolarità economica del senso.<br />

2) Di sollecitare una riflessione sull’economico più complessa <strong>di</strong><br />

quella intravista fin qui (si tratta, dopotutto, proprio dei due temi fondamentali<br />

a cui è de<strong>di</strong>cata la prima parte <strong>di</strong> questo stu<strong>di</strong>o).<br />

Apro, a questo proposito, una piccola finestra sulla seconda parte <strong>di</strong><br />

questo libro, richiamando un breve testo <strong>di</strong> Sigmund Freud intitolato Di<br />

una <strong>di</strong>fficoltà della psicoanalisi 5 . Freud analizza qui le «tre gravi umiliazioni»<br />

inflitte da parte dell’indagine scientifica all’«amor proprio dell’umanità»:<br />

tre ferite narcisistiche che riguardano il proprio dell’uomo, la sua stessa<br />

casa e l’economia che la governa, oltre che – lo noteremo subito – i concetti<br />

fondamentali della sua metaphysica specialis. La prima ferita è infatti quella<br />

cosmologica che, con Copernico, ha <strong>di</strong>strutto il sistema geocentrico e la<br />

propensione dell’uomo «a sentirsi il signore <strong>di</strong> questo mondo»; la seconda<br />

è quella biologica (o teologica) connessa alle scoperte <strong>di</strong> Darwin.<br />

142<br />

L’uomo, nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a signore delle altre<br />

creature del mondo animale. Non contento <strong>di</strong> un tale predominio, cominciò<br />

a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse<br />

la ragione e si attribuì un’anima immortale, appellandosi a un’alta origine<br />

<strong>di</strong>vina che gli consentiva <strong>di</strong> spezzare i suoi legami col mondo animale.<br />

IINFORMAZIONE E ASSICURAZIONE SULLA VITA<br />

La terza ferita – quella psicologica – è la più insopportabile <strong>di</strong> tutte perché<br />

colpisce nel luogo più riposto del focolare domestico; là dove, nonostante<br />

tutto, l’uomo «si sente sovrano»: la «propria psiche». Accade<br />

cioè che egli debba prendere atto della scoperta che «l’Io non è padrone in<br />

casa propria»: una scoperta che mette in gioco la questione della sicurezza<br />

dell’informazione, della sicurezza e dell’informazione.<br />

«La psiche», scrive Freud, «non è qualcosa <strong>di</strong> semplice, ma piuttosto<br />

una gerarchia <strong>di</strong> istanze egemoni e subor<strong>di</strong>nate, un groviglio <strong>di</strong> impulsi<br />

i quali tendono ad attuarsi in<strong>di</strong>pendentemente l’uno dall’altro». Come gli<br />

«automi» che compongono la «macchina del mondo» <strong>di</strong> Leibniz, anche<br />

la psiche <strong>di</strong> Freud è un apparato o una macchina <strong>di</strong> calcolo. Come la<br />

monade, anche la psiche ha al suo interno un sistema informatico, anche<br />

se infinitamente più complesso, stratificato, multiplanare <strong>di</strong> quello immaginato<br />

da Leibniz. L’istanza «superiore» <strong>di</strong> questo apparecchio ha bisogno,<br />

in ogni momento, <strong>di</strong> essere informata <strong>di</strong> tutto ciò che accade al<br />

suo interno e <strong>di</strong> «penetrare ovunque per imporre il suo influsso». E in<br />

effetti, il più delle volte, l’Io «si sente sicuro tanto della completezza e<br />

fedeltà delle informazioni <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>spone, quanto dei mezzi coi quali<br />

rende effettivi i suoi coman<strong>di</strong>». Ma non è sempre così. Nonostante la sua<br />

«vigilanza», accade che «ospiti stranieri», venuti da non si sa dove (anche<br />

se, in realtà, si tratta <strong>di</strong> inquilini ben più antichi), prendano <strong>di</strong>mora nella<br />

sua casa, e non ci sia modo <strong>di</strong> ricondurli oltre frontiera; anzi, più aumentano<br />

i sistemi <strong>di</strong> sorveglianza, più si allargano le maglie o i varchi<br />

nella rete. A questo punto, è Freud stesso ad aprire le virgolette e ad affidare<br />

alla psicoanalisi la sua prosopopea:<br />

Tu confi<strong>di</strong> nel fatto <strong>di</strong> essere informato <strong>di</strong> ciò che accade nella tua psiche<br />

[…] al punto <strong>di</strong> ritenere che psichico sia uguale a cosciente, ossia noto<br />

a te. D’abitu<strong>di</strong>ne, ammettiamolo pure, il servizio <strong>di</strong> informazioni della<br />

tua coscienza basta a tuoi bisogni; ma […] accade abbastanza spesso<br />

che tu venga informato degli avvenimenti dopo che questi si sono già<br />

compiuti e non puoi più mo<strong>di</strong>ficarli […] Tu ti comporti come un sovrano<br />

assoluto che si accontenta delle informazioni del suo primo ministro<br />

senza scendere tra il popolo per ascoltarne la voce.<br />

Il re, il primo ministro, il popolo: ciascuno, in questo Stato, fa i suoi<br />

calcoli. C’è calcolo, ma non è uno solo – lo stesso, l’ipse, il se stesso so-<br />

143


PARTE PRIMA<br />

vrano – a calcolare e a <strong>di</strong>sporre del pieno controllo dei me<strong>di</strong>a. Anche l’altro,<br />

in segreto, fa i suoi conti (e altro è perfino il «principio» della sua<br />

economia, invisibile al Panopticon dell’io); e quando le varie agenzie inviano<br />

informative suoi loro piani, si tratta quasi sempre <strong>di</strong> <strong>di</strong>spacci che<br />

giungono tar<strong>di</strong>vi, criptati, <strong>di</strong>storti. Così che il risultato <strong>di</strong> questi calcoli<br />

è, normalmente, incalcolabile. Economie <strong>di</strong>verse. O meglio: una sola economia,<br />

ma come risultato – oppure paralisi – <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti principi speculativi<br />

e piani <strong>di</strong> assicurazione.<br />

Per esplicitare maggiormente l’ultimo passaggio che sto cercando <strong>di</strong><br />

compiere, mi servirò <strong>di</strong> qualche parola <strong>di</strong> un <strong>di</strong>alogo tra Jacques Derrida<br />

ed Élizabeth Rou<strong>di</strong>nesco, significativamente intitolato Quale domani?.<br />

Sebbene sia un po’ lungo e Leibniz non vi sia <strong>di</strong>rettamente citato (ma<br />

Derrida stesso una volta ha definito la sua filosofia un «leibnizianesimo<br />

denza Dio», dove però, nell’«ipersolipsismo» delle mona<strong>di</strong>, «l’appello <strong>di</strong><br />

Dio ha posto» 6 ), mi sembra che il passo che leggeremo fra poco – nel<br />

quale inciderò qualche breve chiosa – possa concludere nel modo migliore<br />

– dopo i richiami a Heidegger e a Freud – queste brevi riflessioni<br />

sul pensiero <strong>di</strong> Leibniz.<br />

144<br />

La macchina esiste dappertutto, e in particolare all’interno del linguaggio.<br />

Infatti Freud […] parla <strong>di</strong> economia, <strong>di</strong> calcolo inconscio, <strong>di</strong> principi<br />

<strong>di</strong> calcolo (realtà, piacere). Di ripetizione e <strong>di</strong> coazione a ripetere.<br />

Nel momento in cui vi è calcolo, una calcolabilità e una ripetizione, in<br />

quel momento vi è macchina […]. Ma all’interno della macchina esiste<br />

un eccesso in relazione alla macchina stessa – al contempo l’effetto <strong>di</strong> una<br />

macchinazione e qualcosa che elude il calcolo puramente meccanico.<br />

Si può chiamare libertà tutto quello che stiamo <strong>di</strong>cendo, ma ciò è possibile<br />

soltanto laddove si dà qualcosa come un’incalcolabilità. E <strong>di</strong>stinguerei<br />

ancora tra un’incalcolabilità che resta omogenea al calcolo – a cui<br />

sfugge per ragioni contingenti, ad esempio la finitezza o il limite <strong>di</strong> una capacità<br />

[c.vo mio: qui in fondo si tratta proprio dell’incalcolabilità che<br />

ammette, anzi, che giustifica il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong> Leibniz] e una<br />

non-calcolabilità che non può rientrare, per essenza, nell’orizzonte del calcolo.<br />

L’evento – che per essenza deve rimanere impreve<strong>di</strong>bile e dunque<br />

non programmabile −, ecco ciò che eccede la macchina. Quello che<br />

bisognerebbe cercare <strong>di</strong> pensare – ed è davvero <strong>di</strong>fficile – è l’evento insieme<br />

con la macchina. Ma per accedere, se ciò è possibile, all’evento al<br />

<strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni calcolo – e dunque oltre ogni tecnica e ogni economia –<br />

IINFORMAZIONE E ASSICURAZIONE SULLA VITA<br />

non si possono non prendere in considerazione fenomeni come la programmazione,<br />

la macchina, la ripetizione, il calcolo. […] Bisogna seguire<br />

fin nei più intimi recessi gli effetti del calcolo economico, non<br />

foss’altro che per comprendere fino a che punto siamo toccati dall’altro,<br />

vale a <strong>di</strong>re dall’impreve<strong>di</strong>bile, dall’evento che, <strong>di</strong> suo, è incalcolabile –<br />

l’altro risponde sempre, per definizione, al nome e alla figura dell’incalcolabile<br />

[l’evento come altro, e l’altro come evento <strong>di</strong> un ospite straniero,<br />

come il vecchio inquilino <strong>di</strong> Freud o come colui o colei, come ciò che<br />

piomba inaspettato, come – chi lo può decidere? – un veniente o un revenant]<br />

[…]. La venuta dell’altro, l’arrivo del veniente avviene in quanto<br />

evento impreve<strong>di</strong>bile. Saper “tenere in conto” ciò che lancia la sfida al<br />

“tenere il conto”, ciò che <strong>di</strong>sfida o devia in un altro senso il principio<br />

<strong>di</strong> ragione, nel suo limitarsi a “render conto” (reddere rationem, logon <strong>di</strong>domai),<br />

non negare o ignorare questa impreve<strong>di</strong>bile e incalcolabile venuta<br />

dell’altro – il sapere, e la responsabilità scientifica sono anche questo 7 .<br />

Heidegger, Freud, Derrida, Levinas. Pensieri ai limiti dell’ontologia<br />

e dell’economia. Pensieri che ci danno da pensare qualcosa che non dovremmo<br />

mai <strong>di</strong>menticare: che le complessità, le <strong>di</strong>fficoltà, le aporie dell’una<br />

sono quelle dell’altra. Come, del resto, le loro rozze interpolazioni,<br />

interpretazioni, traduzioni e semplificazioni.<br />

_______________<br />

1 M. Heidegger, Il principio <strong>di</strong> ragione, cit., pp. 203-204.<br />

2 Ivi, p. 202.<br />

3 Ivi, p. 209.<br />

4 Ivi, pp. 204-205.<br />

5 S. Freud, Opere, cit., vol. 8. Le citazioni che seguono sono tutte contenute nelle<br />

pp. 660-663.<br />

6 J. Derrida e M. Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, <strong>Roma</strong>-Bari 1997, p. 63.<br />

7 J. Derrida, É. Rou<strong>di</strong>nesco, Quale domani? [De quoi demain… Dialogue, Librairie<br />

Fayard et É<strong>di</strong>tion Galilée, Paris 2001], tr. it <strong>di</strong> G. Brivio, Bollati Boringhieri,<br />

Torino 2004, pp. 75-77.<br />

145


Kant: rifondazione o decostruzione della metafisica?<br />

In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino<br />

<strong>di</strong> esser asse<strong>di</strong>ata da questioni, che essa non può respingere, poiché<br />

le sono assegnati dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa<br />

non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della<br />

ragione umana. Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa.<br />

Muove da proposizioni fondamentali, il cui uso è inevitabile nel corso<br />

dell’esperienza ed insieme è da questa sufficientemente convalidato.<br />

Con tali proposizioni essa sale sempre più in alto (come in verità richiede<br />

la sua natura), a con<strong>di</strong>zioni più remote 1 .<br />

Le parole appena citate costituiscono l’incipit della Prefazione alla<br />

Prima e<strong>di</strong>zione della Critica della ragione pura. Queste parole ci in<strong>di</strong>cano<br />

subito quale fosse il «genere delle conoscenze» e l’ambito delle questioni<br />

a cui Kant – al termine <strong>di</strong> uno stu<strong>di</strong>o protrattosi per molto tempo: la<br />

Critica della ragione pura data alle stampe, dopo un<strong>di</strong>ci anni <strong>di</strong> continui<br />

rinvii, nel 1781 e ripubblicata in seconda e<strong>di</strong>zione, con significativi rimaneggiamenti<br />

e rifacimenti, nel 1787 – si riferiva e intendeva dare una<br />

risposta.<br />

Si tratta <strong>di</strong> quelle «proposizioni fondamentali» (Grundsätze) o <strong>di</strong> quelle<br />

«frasi sul fondamento» (Sätze vom Grund), insomma, <strong>di</strong> quei «principi»<br />

della metafisica sui quali ci siamo intrattenuti finora. In queste parole<br />

viene anche descritto il modo <strong>di</strong> procedere tipico della ragione, vale a<br />

<strong>di</strong>re il risalimento, attraverso catene inferenziali <strong>di</strong> concetti, da proposizioni<br />

che hanno origine nell’esperienza, nel «con<strong>di</strong>zionato» (in ciò, dunque,<br />

che ci è dato a con<strong>di</strong>zioni sensibili), verso «con<strong>di</strong>zioni» che si<br />

allontanano invece progressivamente da quell’ambito dell’esperienza<br />

sensibile in cui e da cui tali proposizioni hanno preso le mosse. Ma in<br />

tal modo, prosegue Kant:<br />

146<br />

Poiché [la ragione umana] si accorge, che a questo modo la sua attività<br />

deve rimanere ognora senza compimento, poiché le questioni non cessano<br />

mai <strong>di</strong> ripresentarsi, essa si vede allora costretta a rifugiarsi in pro-<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

posizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibile uso <strong>di</strong> esperienza<br />

e non<strong>di</strong>meno sembrano tanto superiori ad ogni sospetto, che anche la comune<br />

ragione umana si trova d’accordo su <strong>di</strong> esse. Così facendo tuttavia<br />

essa cade in oscurità e contrad<strong>di</strong>zioni, dalle quali a <strong>di</strong>re il vero può inferire,<br />

che alla base debbano sussistere da qualche parte errori nascosti; essa non<br />

può tuttavia scoprirli, poiché le proposizioni fondamentali, <strong>di</strong> cui si serve,<br />

non riconoscono più alcuna pietra <strong>di</strong> paragone nell’esperienza, dal momento<br />

che oltrepassano il confine <strong>di</strong> ogni esperienza. Ebbene, il campo <strong>di</strong><br />

battaglia <strong>di</strong> questi contrasti senza fine si chiama metafisica 2 .<br />

La metafisica è dunque qui il nome <strong>di</strong> quell’insieme o <strong>di</strong> quel sistema<br />

<strong>di</strong> principi fondamentali che non sono in realtà fondati nell’esperienza<br />

o che, qualora lo siano stati in origine, l’hanno non<strong>di</strong>meno abbandonata<br />

e persa <strong>di</strong> vista, oltrepassando i «confini» e i termini propri della conoscenza<br />

d’esperienza, per avventurarsi in un campo fitto <strong>di</strong> aporie, <strong>di</strong><br />

antinomie e <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zioni insuperabili. Quale sarà, perciò, questo<br />

punto <strong>di</strong> abbandono? Dove si nasconde e si ra<strong>di</strong>ca quell’«errore» che<br />

porta la facoltà della ragione verso proposizioni che non riconoscono<br />

più il loro ra<strong>di</strong>camento nella conoscenza d’esperienza?<br />

Tutto l’insegnamento delle opere kantiane precedenti la Critica della<br />

ragione pura – le cosiddette opere pre-critiche – si muoveva all’interno<br />

della metafisica e, in particolare, in quella canonizzata da Alexander<br />

Baumgarten e Christian Wolff, i quali avevano operato una sistematizzazione<br />

della filosofia <strong>di</strong> Leibniz cercando <strong>di</strong> conciliarla con la filosofia<br />

cartesiana e con la tra<strong>di</strong>zione scolastica me<strong>di</strong>evale – in una sintesi che<br />

in verità giungeva a recuperare persino il pensiero <strong>di</strong> Aristotele e Platone.<br />

Nei passi che ho riportato, come del resto in molti altri, Kant lascia<br />

senz’altro emergere tutto l’imbarazzo, le oscurità e le contrad<strong>di</strong>zioni in<br />

cui, nella sua epoca, aveva finito per trovarsi quella che un tempo veniva<br />

considerata «la regina <strong>di</strong> tutte le scienze». Per far fronte a questa crisi, egli<br />

si propone allora <strong>di</strong> istituire un «tribunale» che accerti come stanno le<br />

cose, che «garantisca» la metafisica nelle sue «giuste pretese», sbarazzandosi<br />

invece <strong>di</strong> quelle che si rivelino «senza fondamento». Ed è così<br />

che, sempre nella Prefazione alla Prima e<strong>di</strong>zione, Kant dà l’annuncio<br />

della sua intenzione <strong>di</strong> procedere a questa «critica della ragione pura»:<br />

Con ciò peraltro io non intendo una critica dei libri e dei sistemi, bensì<br />

la critica della facoltà della ragione in generale, riguardo a tutte le co-<br />

147


PARTE PRIMA<br />

noscenze, cui la ragione può aspirare in<strong>di</strong>pendentemente da<br />

ogni esperienza; intendo quin<strong>di</strong> la decisione della possibilità o<br />

impossibilità <strong>di</strong> una metafisica in generale, e la determinazione tanto<br />

delle fonti quanto dell’ampiezza e dei limiti <strong>di</strong> essa, il tutto però stabilito<br />

sulla base <strong>di</strong> principi 3 .<br />

Ha forse quin<strong>di</strong> ragione Heidegger a interpretare – controcorrente – la<br />

Critica della ragione pura come una «fondazione della metafisica» e a considerarla<br />

come uno «svelamento della possibilità intrinseca dell’ontologia» 4 ?<br />

Queste affermazioni sono contenute nel testo probabilmente più famoso<br />

tra quelli da lui de<strong>di</strong>cati alla filosofia <strong>di</strong> Kant, vale a <strong>di</strong>re in Kant e<br />

il problema della metafisica 5 . Dovremo interrogarci sui motivi che reggono<br />

questa interpretazione e che portano Heidegger, nell’Appen<strong>di</strong>ce al suo<br />

Kantbuch, ad affermare ad<strong>di</strong>rittura che la Critica della ragione pura è «la<br />

prima fondazione esplicita della metafisica» 6 . Fino a che punto è possibile<br />

concordare con questa formulazione che suona più che paradossale,<br />

persino scandalosa? Non è forse altrettanto vero che il gesto che inaugura<br />

la Critica della ragione pura infligge al tempo stesso una ferita mortale<br />

all’onto-teologia leibniziano-wolffiana? La mia parola-guida sarà<br />

costituita proprio da questo «al tempo stesso»; consisterà in altri termini<br />

nel pensare «insieme» questa fondazione e questa <strong>di</strong>struzione.<br />

Assumendola provvisoriamente come valida, si tratterà ora <strong>di</strong> indagare<br />

dove e in che modo la ferita <strong>di</strong> cui parlavo venga inflitta.<br />

In realtà, i pochi passi che abbiamo letto fin qui già in qualche modo<br />

ce lo segnalano. Abbiamo infatti visto come, subito in apertura della<br />

Critica, la giustificazione giuri<strong>di</strong>ca – è questo il senso che nella filosofia<br />

<strong>di</strong> Kant assume la nozione <strong>di</strong> deduzione – prende il posto <strong>di</strong> quella teologico-razionale.<br />

Il taglio della lama è contenuto però nella nozione <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>fferenza trascendentale. Tale <strong>di</strong>fferenza né logica né empirica interrompe<br />

infatti la continuità tra sensibilità (o intuizione) e ragione, mostrando<br />

come quell’elemento estetico che si salda all’elemento logico (noetico,<br />

intellettuale) al fine <strong>di</strong> determinare una possibilità <strong>di</strong> conoscenza (e una<br />

conoscenza possibile) abbia un’«origine» <strong>di</strong>fferente da quest’ultimo e sia<br />

dunque irriducibile alla facoltà del pensiero in generale.<br />

Benché anche Kant, proprio come Leibniz, sia mosso dall’intento<br />

<strong>di</strong> «salvare i fenomeni», la realizzazione <strong>di</strong> questo obiettivo passa per lui<br />

attraverso il riconoscimento della <strong>di</strong>versa provenienza del momento dell’intuizione<br />

sensibile rispetto a quello intellettuale: ciò che comporta la<br />

148<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

conseguenza <strong>di</strong> spezzare l’unità e la continuità della ragione onto-teologica.<br />

Per rendersene conto, basta leggere il primo capoverso<br />

dell’Estetica trascendentale, in cui Kant scrive:<br />

In qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo una conoscenza possa mai riferirsi<br />

ad oggetti, certo il modo con cui essa si riferisce imme<strong>di</strong>atamente<br />

agli oggetti, e cui ogni pensiero, come mezzo, tende, è l’intuizione 7 .<br />

In questa affermazione, decisiva, la conoscenza razionale viene considerata<br />

«ancella» dell’intuizione. Ciò significa che la «regina» delle scienze,<br />

cioè la metafisica, non è più sovrana sul suo trono? Significa che questo<br />

trono è forse vuoto? O, ammettendo che essa sia ancora sovrana, in che<br />

modo, attraverso quale delega al tribunale della ragione o del popolo,<br />

essa esercita ancora il suo potere sovrano? Cercheremo <strong>di</strong> rispondere più<br />

avanti a questi molteplici interrogativi. Riprendendo la lettura dell’Estetica<br />

trascendentale, scopriamo che l’intuizione secondo Kant:<br />

si verifica solo in quanto l’oggetto ci venga dato; ma ciò a sua volta è<br />

possibile, almeno per noi uomini, soltanto per il fatto che l’oggetto mo<strong>di</strong>fichi<br />

[affiziere] in certo modo l’animo 8 .<br />

Se questa «affezione» dell’animo, questa passività, è la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

ogni datità, <strong>di</strong> ogni intuizione, della possibilità <strong>di</strong> ogni conoscenza, sarà<br />

dunque solo riferendosi a essa che le funzioni del nostro pensiero potranno<br />

aprirsi una veduta sulle cose. Infatti:<br />

La capacità <strong>di</strong> ricevere rappresentazioni (recettività), attraverso il modo<br />

in cui noi siamo mo<strong>di</strong>ficati [affiziert: affetti] dagli oggetti, si chiama sensibilità.<br />

Me<strong>di</strong>ante la sensibilità quin<strong>di</strong>, gli oggetti ci sono dati, ed<br />

essa soltanto ci fornisce intuizioni; attraverso l’intelletto, invece,<br />

gli oggetti vengono pensati, e da esso sorgono i concetti. Ogni<br />

pensiero, tuttavia, me<strong>di</strong>ante certi contrassegni, deve riferirsi in ultimo –<br />

sia <strong>di</strong>rettamente (<strong>di</strong>recte) sia in<strong>di</strong>rettamente (in<strong>di</strong>recte) – a intuizioni, e<br />

quin<strong>di</strong>, in noi, alla sensibilità, dato che in altro modo non ci può esserci<br />

dato alcun oggetto 9 .<br />

In che senso affermazioni come queste «rifondano» la tra<strong>di</strong>zione<br />

della metafisica e in che misura o in che punto la mandano in rovina?<br />

149


PARTE PRIMA<br />

Commentiamo i passi letti. Qui i concetti dell’intelletto (le categorie)<br />

sono <strong>di</strong>chiarati comunque in rapporto alla sensibilità e alle forme a priori<br />

della sensibilità o dell’intuizione (ovvero allo spazio e al tempo); e sarà<br />

unicamente in questo vincolo che a quelle funzioni potrà essere riconosciuta<br />

la vali<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> un’esperienza effettiva. Come è<br />

emerso però chiaramente nel passo della Prefazione relativo alle «proposizioni<br />

fondamentali» – <strong>di</strong> cui è costituito il sapere proprio della metafisica<br />

– non è tuttavia possibile ridurre la ragione, come facoltà del<br />

pensiero in generale, a queste sole funzioni intellettuali. Viene in primo<br />

piano quin<strong>di</strong> una domanda: che cosa fare, allora, <strong>di</strong> tutto ciò che resta<br />

al <strong>di</strong> là della capacità <strong>di</strong> tradurre i concetti dell’intelletto in intuizioni,<br />

cioè <strong>di</strong> sensibilizzarli o, come preciseremo, <strong>di</strong> «schematizzarli»? Rimane<br />

– come dovremo vedere – ciò che Kant affida alla Dialettica<br />

Trascendentale della Prima Critica e, più tar<strong>di</strong>, alla Critica della facoltà <strong>di</strong><br />

giu<strong>di</strong>zio.<br />

Manteniamoci tuttavia per il momento all’interno del tema principale<br />

<strong>di</strong> questo capitolo, cioè <strong>di</strong> quella ferita al cuore della metafisica segnata<br />

da queste parole: «Me<strong>di</strong>ante la sensibilità, quin<strong>di</strong>, gli oggetti ci<br />

sono dati […]; attraverso l’intelletto, invece, gli oggetti vengono pensati».<br />

A proposito <strong>di</strong> questa formulazione, in Logica. Il problema della verità,<br />

Heidegger scrive:<br />

150<br />

La provenienza della conoscenza è doppia: sensibilità ed intelletto; nessuna<br />

delle due può sostituire l’altra, nessuna della due può confondersi<br />

nell’altra.[...] Nella fissazione <strong>di</strong> questa due provenienze, una fissazione<br />

semplicemente dogmatica, Kant ha alle spalle, in certa misura, una vecchia<br />

tra<strong>di</strong>zione filosofica, poiché già molto presto c’era stata una <strong>di</strong>stinzione<br />

(e Aristotele fu il primo a farla in maniera chiara) tra aisthesis,<br />

ossia il lasciare che qualcosa sia dato, e noesis, ossia il determinare pensante.<br />

Per questa ragione, la parte della spiegazione della conoscenza<br />

nella Critica della ragione pura, la parte che ha che fare con l’aisthesis, con<br />

la percezione, si chiama estetica e l’altra parte, quella che ha a che fare<br />

con la noesis, si chiama noetica o, come <strong>di</strong>ce Kant, logica. Solo l’intreccio<br />

<strong>di</strong> queste due provenienze, della sensibilità e dell’intelletto, forma la<br />

conoscenza 10 .<br />

Heidegger prosegue pertanto così:<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

Kant prende semplicemente le mosse da questo fatto delle due provenienze,<br />

senza mostrare in una preliminare, più ra<strong>di</strong>cale analisi in quale<br />

misura intuizione e pensiero, esser-dato ed esser-pensato, in base al loro<br />

senso si richiamino a vicenda. [...] Kant ha trascurato <strong>di</strong> <strong>di</strong>ssodare fenomenologicamente<br />

e categorialmente il terreno su cui le due provenienze<br />

e soprattutto quel che le deve me<strong>di</strong>are possono crescere. [...]<br />

Questo compito, in tutta la sua fondamentale ampiezza e nel suo significato<br />

universale, è stato scorto ed elaborato per la prima volta da<br />

Husserl nelle sue Idee, che facilmente vengono caratterizzate come kantiane,<br />

ma che nei loro fondamenti sono assai più ra<strong>di</strong>cali <strong>di</strong> quanto Kant<br />

non avrebbe mai potuto essere 11 .<br />

Questa impostazione – che è all’origine si può <strong>di</strong>re <strong>di</strong> tutte le letture<br />

heideggeriane <strong>di</strong> Kant – sottolinea l’incapacità o il timore da parte <strong>di</strong><br />

Kant <strong>di</strong> «<strong>di</strong>ssodare fenomenologicamente» la ra<strong>di</strong>ce comune delle due<br />

fonti della nostra conoscenza, e cioè la sensibilità e l’intelletto.<br />

E a questo proposito, in effetti, proprio nella conclusione del l’Intro -<br />

duzione alla sua prima Critica, Kant scriveva:<br />

Vi sono due ceppi della conoscenza umana – i quali derivano forse da<br />

una ra<strong>di</strong>ce comune, ma a noi sconosciuta – cioè sensibilità e intelletto:<br />

attraverso la prima gli oggetti ci sono dati, mentre attraverso<br />

il secondo essi vengono pensati 12 .<br />

Perché Kant si ferma qui nell’in<strong>di</strong>cazione («forse») <strong>di</strong> un certo<br />

«me<strong>di</strong>o» tra l’estetica e la logica, tra la sensibilità e il pensiero? Perché<br />

chiama «sconosciuta» (più precisamente «a noi sconosciuta») questa ra<strong>di</strong>ce<br />

comune? Non è forse vero che, soprattutto nella prima e<strong>di</strong>zione<br />

della Critica della ragione pura (ma anche in quella definitiva), Kant parla<br />

a più riprese <strong>di</strong> una terza facoltà (l’immaginazione)? E questo terzo momento<br />

non fa forse segno a quella «ra<strong>di</strong>ce comune»?<br />

Il limite della metafisica kantiana è, secondo Heidegger, quello <strong>di</strong><br />

non aver visto, o meglio, <strong>di</strong> essere «arretrato» <strong>di</strong> fronte a ciò che pure<br />

aveva scoperto: vale a <strong>di</strong>re la necessità, come Kant stesso scrive, <strong>di</strong> ricorrere,<br />

per operare la sintesi tra un concetto intellettuale e un elemento<br />

intuitivo – ogni qualvolta cioè ci si trovi ad applicare una categoria a un<br />

fenomeno – a un «terzo termine» che possieda quin<strong>di</strong> una qualche «affinità»<br />

tanto col concetto quanto con l’intuizione sensibile, e sia così «da<br />

151


PARTE PRIMA<br />

un lato intellettuale» (come il concetto) e «dall’altro sensibile» (come<br />

l’intuizione o l’immagine). Kant definiva «schemi» questi «prodotti dell’immaginazione<br />

pura» che consentono <strong>di</strong> sensibilizzare i concetti, e<br />

«schematismo» il lavoro che permetteva loro <strong>di</strong> congiungere il momento<br />

estetico e il momento logico della nostra conoscenza. Dal momento che<br />

questi schemi – come, ad esempio, il numero, per ciò che riguardava la<br />

categoria della quantità, la successione per ciò che riguarda la causalità<br />

ecc. – erano definiti da Kant stesso come: «determinazioni a priori del<br />

tempo», se Kant avesse avuto il coraggio – così argomenta Heidegger –<br />

<strong>di</strong> andare fino in fondo a questa sua stessa scoperta (considerata da<br />

Heidegger unica nella tra<strong>di</strong>zione della metafisica), avrebbe dovuto allora<br />

riconoscere che è l’immaginazione-tempo a costituire la «ra<strong>di</strong>ce» <strong>di</strong> ogni<br />

conoscenza ontologica. In<strong>di</strong>viduando in questa terza «fonte» non tanto<br />

un luogo <strong>di</strong> mezzo tra i due ceppi della nostra conoscenza, quanto piuttosto<br />

la loro stessa ra<strong>di</strong>ce comune, Kant – come precisa Heidegger nel<br />

Kantbuch del 1929 – avrebbe fatto saltare «l’impostazione della metafisica<br />

nella ragione» e avrebbe <strong>di</strong>strutto «quelli che sino ad allora erano<br />

stati i fondamenti della metafisica occidentale (lo spirito, il logos, la ragione)».<br />

13<br />

Ci sarebbe molto da <strong>di</strong>scutere su questa interpretazione e sul motivo<br />

per il quale Kant, secondo Heidegger, non ha compiuto – o non ha<br />

voluto compiere – un passo così estremo e ra<strong>di</strong>cale. Qui, <strong>di</strong> certo, non<br />

potremo farlo 14 . In ogni caso, Heidegger pensava che questa incompiutezza<br />

avesse nonostante tutto – nonostante, soprattutto, il ruolo decisivo<br />

che la Critica della ragione pura assegnava all’intuizione – trattenuto<br />

Kant all’interno dell’impostazione della metafisica, sia pure <strong>di</strong> una metafisica<br />

rifondata, o fondata da lui per la prima volta in modo autentico<br />

e genuino. C’è tuttavia un punto che, a mio avviso, viene risolto un po’<br />

frettolosamente da Heidegger; un punto che può essere riassunto in<br />

questa domanda: il fatto <strong>di</strong> non aver compiuto quel passo che, ritrovando<br />

la fonte originaria comune della sensibilità e dell’intelletto,<br />

avrebbe <strong>di</strong>strutto i «fondamenti della metafisica occidentale (lo spirito,<br />

il logos, la ragione)» è interpretabile soltanto come un arretramento, o<br />

forse anche proprio come la scelta <strong>di</strong> mantenere, nonostante tutto, una<br />

<strong>di</strong>fferenza irriducibile tra le ra<strong>di</strong>ci della nostra conoscenza? Questa decisione<br />

<strong>di</strong> riba<strong>di</strong>re la <strong>di</strong>scontinuità trascendentale tra i due «ceppi» o le<br />

due «fonti» <strong>di</strong> ogni nostra conoscenza non è al tempo stesso il segno <strong>di</strong><br />

quella ferita al cuore della metafisica <strong>di</strong> cui parlavamo all’inizio? Non è<br />

152<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

proprio sottolineando la <strong>di</strong>fferenza trascendentale tra sensibilità e intelletto,<br />

o meglio, tra esser-dato e essere-pensato, che Kant tenta <strong>di</strong> scar<strong>di</strong>nare<br />

l’ontoteologia – questa espressione, ricordo, è un conio kantiano,<br />

prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare un Leitwort heideggeriano – <strong>di</strong> Lebiniz e, con essa,<br />

tutta la tra<strong>di</strong>zione della metafisica giunta fino a lui?<br />

Se infatti è vero che, con Husserl e con Heidegger, la fenomenologia<br />

si è spinta molto più a fondo nell’indagine <strong>di</strong> quel «territorio» estetico-logico<br />

– e già fenomenologico – che in Kant è rappresentato dalla<br />

dottrina dello schematismo dell’immaginazione e della temporalizzazione<br />

originaria, si può <strong>di</strong>re con altrettanta sicurezza che la fenomenologia<br />

stessa lo abbia, certamente e in ogni punto, ricondotto a unità? E<br />

soprattutto: se lo avesse fatto, non sarebbe ricaduta, proprio essa, nell’impostazione<br />

tipica della metafisica? Pur con tutte le <strong>di</strong>fferenze – cui<br />

qui non posso nemmeno accennare – il motivo del trascendentale in<br />

Husserl (o Heidegger) e in Kant non risponde proprio a questo bisogno<br />

<strong>di</strong> non ritrovarsi, per altre vie, nella tra<strong>di</strong>zione della metafisica? E non è<br />

ogni volta il tema <strong>di</strong> una certa <strong>di</strong>fferenza (che, <strong>di</strong>versamente da Hegel,<br />

in Kant non è mai opposizione, e proprio perciò non riconduce alla sintesi<br />

e all’unità) a trattenerci da questa ricaduta?<br />

Come che sia, un dato appare qui sicuro: è attraverso il tema della <strong>di</strong>fferenza<br />

(o della topica) trascendentale che Kant infligge un colpo mortale<br />

alla metafisica leibniziana. In questo senso, non è del tutto esatto<br />

considerare, come fa Heidegger, la «doppia provenienza» della nostra<br />

conoscenza al pari <strong>di</strong> «una fissazione semplicemente dogmatica», <strong>di</strong> «una<br />

vecchia tra<strong>di</strong>zione filosofica»; o, ancora, <strong>di</strong> un mero «fatto». Kant non<br />

ere<strong>di</strong>ta semplicemente qui un dato della tra<strong>di</strong>zione ma – al contrario –<br />

lo ripensa in termini tanto ra<strong>di</strong>cali da <strong>di</strong>struggere, almeno da questo<br />

punto <strong>di</strong> vista, una vecchia e dogmatica tra<strong>di</strong>zione. Qualora la <strong>di</strong>fferenza<br />

trascendentale non sia riconosciuta, o peggio, venga rimossa attraverso<br />

la considerazione secondo cui la sensibilità non è che un modo <strong>di</strong> conoscere<br />

(<strong>di</strong> pensare le cose) non ancora purificato dalla ragione (la conoscenza<br />

«confusa» o «inadeguata» <strong>di</strong> Lieibniz), rimane infatti aperta la<br />

via per pensare <strong>di</strong> giungere a una determinazione ontologica delle cose<br />

me<strong>di</strong>ante funzioni meramente logiche. È esattamente ciò che accade<br />

nella metafisica razionalistica che Kant ha ere<strong>di</strong>tato, come egli stesso<br />

sottolinea con chiarezza nelle Osservazioni generali sull’estetica trascendentale:<br />

153


PARTE PRIMA<br />

Il sostenere che tutta quanta la nostra sensibilità non è altro se non la<br />

rappresentazione confusa delle cose – la quale contiene unicamente ciò<br />

che tocca ad esse in se stesse, nascosto però da un conglomerato <strong>di</strong><br />

segni e <strong>di</strong> rappresentazioni parziali, che noi non riusciamo a <strong>di</strong>stricare<br />

coscientemente – è quin<strong>di</strong> una falsificazione del concetto <strong>di</strong> sensibilità<br />

e <strong>di</strong> fenomeno 15 .<br />

E <strong>di</strong> seguito:<br />

La <strong>di</strong>stinzione [Unterschied] <strong>di</strong> una rappresentazione oscura dalla rappresentazione<br />

chiara è semplicemente logica, e non riguarda il contenuto.<br />

[…] La filosofia <strong>di</strong> Leibniz e <strong>di</strong> Wolff ha quin<strong>di</strong> in<strong>di</strong>cato una<br />

prospettiva totalmente errata a tutte le indagini sulla natura e l’origine<br />

delle nostre conoscenze, col considerare la <strong>di</strong>stinzione tra il sensibile e<br />

l’intellettuale semplicemente come logica, mentre essa è evidentemente<br />

trascendentale e non riguarda soltanto la forma, come chiarezza o oscurità,<br />

bensì l’origine e il contenuto delle conoscenze 16 .<br />

Solo l’intuizione e le forme a priori dell’intuizione (o intuizioni formali)<br />

<strong>di</strong> spazio e tempo, a cui vanno ricondotte le strutture o le funzioni<br />

logiche dell’intelletto, rendono possibile la verità <strong>di</strong> ciò che viene intenzionato<br />

dal pensiero. In caso contrario – qualora cioè si perda <strong>di</strong> vista<br />

o si rimuova la <strong>di</strong>fferenza trascendentale e, dunque, il fatto che la sensibilità<br />

non è una conoscenza confusa da chiarificare e portare a conoscenza<br />

adeguata per via <strong>di</strong> analisi – è aperta la via per credere <strong>di</strong> poter<br />

raggiungere le cose stesse me<strong>di</strong>ante la semplice scomposizione <strong>di</strong> concetti<br />

intellettuali. Non ammettendo nulla che dall’esterno possa mo<strong>di</strong>ficare<br />

(affizieren) il nostro animo (ricor<strong>di</strong>amo come per Leibniz «le<br />

mona<strong>di</strong> non hanno finestre»), Leibniz non vedeva alcuna soluzione <strong>di</strong><br />

continuità e <strong>di</strong>fferenza d’origine tra sensibilità e intelletto, e perciò nemmeno<br />

tra rappresentazioni intuitive e rappresentazioni concettuali (dato<br />

che tutte le rappresentazioni scaturiscono dall’interno della monade o<br />

della psiche); l’unica <strong>di</strong>fferenza (logica, e cioè negativa) consistendo nell’essere,<br />

le prime, rappresentazioni o conoscenze oscure e confuse, le seconde,<br />

conoscenze chiare e <strong>di</strong>stinte. Come ci <strong>di</strong>rà Kant, Leibniz<br />

intellettualizza la sensibilità, concependola come una forma aurorale <strong>di</strong><br />

pensiero che la ragione, con i suoi soli mezzi, può condurre fino al grado<br />

<strong>di</strong> una conoscenza <strong>di</strong>stinta, adeguata e intuitiva.<br />

154<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

È bene notare come la ferita al cuore della metafisica <strong>di</strong> cui sto parlando<br />

non scomparirà neanche quando, nella Dialettica della Prima<br />

Critica e nella Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, Kant sentirà l’esigenza <strong>di</strong> riconsiderare<br />

una certa unità della ragione (e perfino, vedremo, il «principio<br />

<strong>di</strong> ragione» <strong>di</strong> Leibniz) o della soggettività umana. Questa esigenza,<br />

infatti, non sarà che successiva a quella che muove l’Estetica e l’Analitica<br />

trascendentale, volta cioè a garantire l’uso delle funzioni logiche me<strong>di</strong>ante<br />

la riconduzione dell’intero momento intellettuale alla datità <strong>di</strong><br />

un’intuizione; e si manterrà dunque pur sempre interna alla rottura della<br />

continuità – o della <strong>di</strong>stinzione meramente logico-formale tra sensibilità<br />

e ragione – su cui si costruiva l’e<strong>di</strong>ficio della metafisica leibniziana.<br />

Il testo in cui è contenuta principalmente la critica a Leibniz è<br />

l’Appen<strong>di</strong>ce all’Analitica della Critica della ragione pura, dove Kant sottolinea<br />

la relazione che può sussistere tra i «concetti <strong>di</strong> riflessione» in termini<br />

<strong>di</strong> identità/<strong>di</strong>versità, accordo/contrasto, interno/esterno,<br />

materia/forma. Diamone quin<strong>di</strong> una rapida esposizione. Per quanto riguarda<br />

la prima relazione, ossia quella tra identità e <strong>di</strong>fferenza, ciò che<br />

viene criticato è il principio degli in<strong>di</strong>scernibili <strong>di</strong> Leibniz:<br />

Leibniz prese i fenomeni per cose in sé, quin<strong>di</strong> per intelligibilia, cioè oggetti<br />

dell’intelletto puro (sebbene le designasse col nome <strong>di</strong> fenomeni,<br />

a causa della confusione delle loro rappresentazioni) 17 .<br />

Soltanto così, del resto, il suo principio degli in<strong>di</strong>scernibili risultava<br />

incontestabile. Dal momento che invece, secondo Kant, i fenomeni<br />

sono «oggetti della sensibilità» e l’uso dell’intelletto nei loro riguar<strong>di</strong> non<br />

è mai puro ma semplicemente empirico, «allora la pluralità e la <strong>di</strong>versità<br />

numerica sono già in<strong>di</strong>cate dallo spazio stesso, in quanto con<strong>di</strong>zione dei<br />

fenomeni esterni» 18 .<br />

Il rapporto interno/esterno è tematizzato invece in questi termini:<br />

In un oggetto dell’intelletto puro, è interno soltanto ciò che non ha alcuna<br />

relazione (riguardo all’esistenza) con qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferente da tale<br />

oggetto. Per contro, le determinazioni interne <strong>di</strong> una substantia phaenomenon<br />

nello spazio non sono altro che rapporti, e la sostanza stessa, in<br />

tutto e per tutto, è un insieme <strong>di</strong> semplici relazioni. […] Leibniz, poiché<br />

si rappresentava tutte le sostanze come noumena, intese le sostanze,<br />

155


PARTE PRIMA<br />

e persino le parti costitutive della materia (dopo <strong>di</strong> aver tolto col pensiero<br />

da esse tutto ciò che poteva significare una relazione esterna, e<br />

quin<strong>di</strong> anche la composizione), come soggetti semplici, dotati <strong>di</strong><br />

capacità <strong>di</strong> rappresentazione; in una parola, come mona<strong>di</strong> 19 .<br />

Per quanto riguarda poi la relazione materia/forma, Kant sottolinea<br />

come, benché partendo dall’intelletto puro, senza cioè attraversare la<br />

me<strong>di</strong>azione delle forme della sensibilità, si assista senza dubbio al darsi<br />

prima della materia e poi della forma, ciò tuttavia non rappresenta altro<br />

che un semplice abbaglio, dato che:<br />

l’intelletto infatti esige anzitutto, che un qualcosa sia dato (almeno nel<br />

concetto), per poterlo poi determinare in un certo modo 20 .<br />

Quin<strong>di</strong>, se è ben vero che, nel concetto dell’intelletto puro, «la materia<br />

precede la forma», ciò accade soltanto perché si ritiene che gli oggetti<br />

possano essere offerti <strong>di</strong>rettamente al pensiero, mentre invece essi<br />

sono dati unicamente alla sensibilità – ed è quin<strong>di</strong> solo in quanto «configurati»<br />

dalle forme <strong>di</strong> essa, cioè dallo spazio e dal tempo, che essi si offrono<br />

alla determinazione del pensiero. Nella metafisica leibniziana, in<br />

cui non si comprende la <strong>di</strong>fferenza trascendentale tra estetica e logica,<br />

sensibilità e intelletto, è naturale che le cose si presentino esattamente a<br />

rovescio: ad essere data per prima (e <strong>di</strong>rettamente all’intelletto!) è qui infatti<br />

la sostanza, dunque la materia, da cui poi scaturisce la relazione,<br />

ovvero la forma spazio-temporale. Per Kant, invece, la sostanza non è che<br />

relazione, come egli chiarirà subito dopo. Il testo dell’Appen<strong>di</strong>ce, infatti,<br />

continua così:<br />

Leibniz assunse dapprima le cose (mona<strong>di</strong>), e internamente una loro<br />

capacità <strong>di</strong> rappresentazione, per fondarvi sopra, in seguito, la relazione<br />

esterna <strong>di</strong> esse e la comunanza dei loro stati (cioè delle rappresentazioni)<br />

21 .<br />

In questo modo, lo spazio <strong>di</strong>venta una «relazione» tra le «sostanze»,<br />

mentre il tempo una «connessione» logica tra «ragioni e conseguenze»;<br />

e, precisa Kant, «così dovrebbe anche essere in realtà, se» – ma è proprio<br />

questo se che Kant rifiuta – «l’intelletto puro potesse venir riferito<br />

imme<strong>di</strong>atamente agli oggetti e se lo spazio e il tempo fossero determi-<br />

156<br />

KANT: RIFONDAZIONE O DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA?<br />

nazioni delle cose in se stesse» 22 . Alla luce <strong>di</strong> questa critica, il concetto<br />

leibniziano <strong>di</strong> «armonia prestabilita» non appare che uno stratagemma<br />

a cui è inevitabile ricorrere per trovare relazioni possibili tra sostanze<br />

semplici pensate prima delle relazioni.<br />

Leibniz «non concedeva alla sensibilità alcuna specie separata <strong>di</strong> intuizione,<br />

ma ricercava nell’intelletto ogni rappresentazione degli oggetti,<br />

persino quella empirica, e non riservava ai sensi null’altro se non lo spregevole<br />

compito <strong>di</strong> confondere e deformare le rappresentazioni dell’intelletto»<br />

23 . Considerando tutta la conoscenza come un’analisi compiuta<br />

all’interno delle sostanze semplici – ciò che è possibile solo considerando<br />

la <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> sensibilità e intelletto in termini meramente logici<br />

(logico-formali e non trascendentali) – si giunge a e<strong>di</strong>ficare un<br />

sistema intellettuale del mondo; come Kant scrive:<br />

Il celebre Leibniz [...] costruì un sistema intellettuale del<br />

mondo, o meglio, credette <strong>di</strong> conoscere l’interna natura delle cose,<br />

confrontando tutti gli oggetti unicamente con l’intelletto e con gli<br />

astratti concetti formali del proprio pensiero. […] Egli confrontò tutte<br />

le cose tra loro semplicemente me<strong>di</strong>ante concetti, e com’è naturale, non<br />

trovò altre <strong>di</strong>fferenze se non quelle, con cui l’intelletto <strong>di</strong>stingue l’uno<br />

dall’altro i suoi concetti puri. Le con<strong>di</strong>zioni dell’intuizione sensibile, che<br />

portano con sé le loro proprie <strong>di</strong>fferenze, egli non le considerò come<br />

originarie; la sensibilità, in effetti, era per lui soltanto un modo confuso<br />

<strong>di</strong> rappresentazione, e non già una fonte speciale <strong>di</strong> rappresentazioni.<br />

[…] In una parola, Leibniz intellettualizzò i fenomeni 24 .<br />

È l’impostazione trascendentale, che vede incisa una <strong>di</strong>fferenza d’origine<br />

tra la sensibilità e la ragione, tra esser-dato ed essere-pensato, a permettere<br />

a Kant <strong>di</strong> condurre a termine, nella Critica della ragione pura, una<br />

decostruzione del razionalismo della metafisica che non verrà più messa<br />

in <strong>di</strong>scussione, neanche quando, nella Dialettica trascendentale e nella<br />

Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, egli si porrà il compito – perseguito a partire<br />

da questa <strong>di</strong>fferenza e non certo prima o al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> essa – <strong>di</strong> una riconsiderazione<br />

unitaria della ragione, o meglio, della soggettività umana;<br />

e quando, <strong>di</strong> conseguenza, il tema dell’oikonomia e della tecnica, che attraversa<br />

la tra<strong>di</strong>zione della metafisica in modo tanto più apparentemente<br />

marginale quanto più significativamente invasivo, emergerà per la prima<br />

volta in modo centrale e in una nuova interpretazione. Procederemo in<br />

157


PARTE PRIMA<br />

<strong>di</strong>rezione del compito che quest’ultima in<strong>di</strong>cazione ci segnala attraverso<br />

passaggi graduali.<br />

_______________<br />

1 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 7.<br />

2 Ibidem.<br />

3 Ivi, p. 10.<br />

4 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., pp. 11 e 21.<br />

5 Il più famoso ma certamente non l’unico. Le interpretazioni heideggeriane <strong>di</strong><br />

Kant sono almeno cinque. E cioè: Logica. Il problema della verità [Logik. Die frage<br />

nach der Wahrheit (1925-26) Gesamtausgabe Bd. 21, hrsg. von F-W. von Herrmann,<br />

V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1976], tr. it. U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1986<br />

(corso del 1925-26); Interpretazioni fenomenologiche della Critica della ragion pura <strong>di</strong><br />

Kant (corso del 1927-28), cit.; Kant e il problema della metafisica, (corso del 1929) cit.;<br />

La questione della cosa [Dier Frage nach der Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen<br />

Grundsätzen (1935-36), Gesamtausgabe Bd. 41, hrsg. von F-W. von Herrmann,<br />

V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1984], tr. it. V. Vitiello, Guida, Napoli 1989<br />

(corso del 1935-36); La tesi <strong>di</strong> Kant sull’essere (1963), raccolta in Id., Segnavia, cit.,<br />

pp. 393-427.<br />

6 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit. , p. 216.<br />

7 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 75.<br />

8 Ibidem.<br />

9 Ibidem.<br />

10 M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., pp. 186-187.<br />

11 Ivi, p. 187.<br />

12 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 71.<br />

13 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., pp. 216-217.<br />

14 Per una <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> questo punto, Cfr. E. Ferrario, Il lavoro del tempo, Guerini,<br />

Milano 1997.<br />

15 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 97. Qui e altrove, in ragione <strong>di</strong> una certa<br />

tra<strong>di</strong>zione del testo kantiano, ho preferito rendere Erscheinung con «fenomeno»<br />

piuttosto che, come traduce Colli, con «apparenza».<br />

16 Ibidem e sgg.<br />

17 Ivi, pp. 337-338.<br />

18 Ibidem.<br />

19 Ibidem e sgg.<br />

20 Ivi, p. 339.<br />

21 Ibidem.<br />

22 Ibidem.<br />

23 Ivi, p. 346.<br />

24 Ivi, pp. 341-342.<br />

158<br />

L’ontoteologia alla luce della filosofia critica<br />

In questo capitolo affronterò alcune questioni relative alla Dialettica<br />

trascendentale, cioè a quella sezione della Critica della ragione pura che<br />

contiene:<br />

1) una ricerca «genealogica dei concetti della ragione» (della metafisica);<br />

2) l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> una «logica dell’apparenza» (Schein), vale a <strong>di</strong>re<br />

l’in<strong>di</strong>cazione delle antinomie che si generano quando questi concetti razionali<br />

vengono intesi come categorie (concetti intellettuali) e, come tali,<br />

pretendono <strong>di</strong> riferirsi <strong>di</strong>rettamente a oggetti;<br />

3) una «deduzione» speciale – sui generis – dell’uso possibile e persino<br />

necessario dei «concetti della ragione» o «idee».<br />

In questa indagine Kant procede in maniera duplice, <strong>di</strong>stinguendo<br />

prima facie i concetti dell’intelletto (chiamati «regole») dai concetti della<br />

ragione (denominati invece «principi»), per definire poi le inferenze proprie<br />

della ragione «nel suo uso logico» come il tentativo <strong>di</strong> ridurre «la<br />

grande molteplicità della conoscenza intellettuale ad un minimo numero<br />

<strong>di</strong> principi» (o «proposizioni fondamentali»), così da mirare a un’unità sistematica<br />

della conoscenza (il problema, appunto, della metafisica). Sin<br />

dall’Introduzione <strong>di</strong> questa sezione della prima Critica, Kant pone subito<br />

la questione della possibilità <strong>di</strong> un «uso puro della ragione» attraverso<br />

una domanda:<br />

La questione, <strong>di</strong> cui ci occuperemo ora [...] è la seguente: si può isolare<br />

la ragione, e in tal caso è essa ancora una peculiare fonte <strong>di</strong> concetti e<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi, che sorgono unicamente da essa, e me<strong>di</strong>ante cui essa si riferisce<br />

ad oggetti, oppure... 1 .<br />

Interrompiamo per un momento la citazione per recuperare un importante<br />

passo tratto dalla prima pagina dell’Estetica trascendentale che<br />

abbiamo già analizzato; dove Kant offriva già una risposta negativa a<br />

questo interrogativo. Rileggiamolo:<br />

159


PARTE PRIMA<br />

In qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo una conoscenza possa mai riferirsi<br />

a oggetti, certo il modo con cui essa si riferisce imme<strong>di</strong>atamente<br />

agli oggetti, e cui ogni pensiero, come mezzo, tende, è l’intuizione 2 .<br />

Qui Kant affermava dunque che l’unico modo in cui una conoscenza<br />

può riferirsi a oggetti è – imme<strong>di</strong>atamente o infine – l’intuizione e, <strong>di</strong><br />

conseguenza, che sono soltanto i concetti o le regole dell’intelletto (le<br />

categorie), vincolati alle forme a propri dell’intuizione (spazio e tempo),<br />

a determinare gli «oggetti» <strong>di</strong> una conoscenza possibile. Se è unicamente<br />

attraverso questo incontro logico-estetico, operato dallo schematismo,<br />

che è possibile riferirsi a oggetti, allora ogni oggettualità che esuli e non<br />

derivi da esso non potrà essere considerata un oggetto fenomenico<br />

(Erscheinung) ma soltanto un’apparenza (Schein) <strong>di</strong> oggetto (un’oggettità<br />

od oggettualità apparente). Di questi oggetti apparenti, data l’impossibilità<br />

<strong>di</strong> una loro qualunque «esibizione» o schematizzazione (riduzione<br />

alla sensibilità) che consenta <strong>di</strong> porli, per così <strong>di</strong>re, in una veduta, non è<br />

possibile alcuna conoscenza. Ripetiamo allora la domanda: si può dunque<br />

«isolare» la ragione e fare <strong>di</strong> essa quell’uso logico che le consentirebbe<br />

<strong>di</strong> passare attraverso inferenze concettuali, mantenendola pur<br />

sempre nel campo <strong>di</strong> una possibile conoscenza? Certamente no, poiché<br />

– come si è visto – le funzioni del pensiero, svincolate da ogni aggancio<br />

all’intuizione, sono in grado <strong>di</strong> produrre e <strong>di</strong> riferirsi unicamente a<br />

oggetti apparenti – come, secondo Kant, le mona<strong>di</strong> o sostanze semplici<br />

<strong>di</strong> Leibniz. Ripren<strong>di</strong>amo e conclu<strong>di</strong>amo dunque, dopo queste precisazioni,<br />

la citazione tratta dall’Introduzione alla Dialettica trascendentale:<br />

Si può isolare la ragione, e in tal caso è essa ancora una peculiare fonte<br />

<strong>di</strong> concetti e <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zi, che sorgono unicamente da essa, e me<strong>di</strong>ante cui<br />

essa si riferisce ad oggetti, oppure è essa una facoltà, semplicemente<br />

subalterna, <strong>di</strong> fornire a conoscenze date una certa forma, che si chiama<br />

logica, e me<strong>di</strong>ante cui le conoscenze dell’intelletto sono unicamente subor<strong>di</strong>nate<br />

le une alle altre e le regole inferiori sono sottoposte ad altre<br />

regole, superiori [...]? 3 .<br />

Se, come abbiamo compreso, è quest’ultima la risposta corretta, non<br />

potremo non domandarci allora quale sia il senso <strong>di</strong> una siffatta operazione<br />

<strong>di</strong> sistematizzazione <strong>di</strong> conoscenze e in quale bisogno o esigenza essa<br />

160<br />

L’ONTOTEOLOGIA ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA CRITICA<br />

si ra<strong>di</strong>chi. Nel passaggio successivo dell’Introduzione Kant, a questo<br />

proposito, osserva come<br />

la molteplicità delle regole e l’unità dei principi costituiscono un’esigenza<br />

della ragione, per portare l’intelletto ad un perfetto accordo con<br />

se stesso, allo stesso modo che l’intelletto sottomette a concetti il molteplice<br />

dell’intuizione, portandola così ad una connessione 4 .<br />

Kant, in altre parole, avanza l’idea che i principi della ragione, laddove<br />

non presumano <strong>di</strong> essere determinazioni oggettuali, rinunciando<br />

così alla pretesa <strong>di</strong> prescrivere essi stessi leggi ai fenomeni, possono<br />

avere un uso che si rivolge unicamente alle leggi che l’intelletto ha già determinato,<br />

allo scopo <strong>di</strong> produrre omogeneità e coerenza nel campo<br />

della molteplicità delle regole intellettuali. Le proposizioni della ragione<br />

rispondono in tal senso al bisogno <strong>di</strong> una «massima» – priva tuttavia <strong>di</strong><br />

«vali<strong>di</strong>tà oggettiva» – che richiede <strong>di</strong> <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong><br />

una legge soggettiva <strong>di</strong> economia, per amministrare le scorte del nostro<br />

intelletto, riducendo, me<strong>di</strong>ante un raffronto dei suoi concetti, il<br />

loro uso generale al minimo numero possibile <strong>di</strong> essi 5 .<br />

I principi della ragione, le «proposizioni fondamentali» o le «frasi del<br />

fondamento», hanno quin<strong>di</strong> il valore economico <strong>di</strong> massime soggettive, <strong>di</strong><br />

principi-guida, finalizzati allo scopo – naturale per la nostra ragione, e<br />

forse anche per la nostra vita – <strong>di</strong> fornire unità, coerenza, omogeneità,<br />

sistematicità, orientamento alla molteplicità delle regole con cui l’intelletto<br />

unifica il molteplice dell’esperienza (per certi aspetti proprio come<br />

accade nel caso delle narrazioni, dove l’eterogeneità degli avvenimenti<br />

e la pluralità delle regolarità esistenziali e temporali viene configurata in<br />

una trama e in una storia più o meno coerente, unitaria e dotata <strong>di</strong><br />

senso). È questo l’unico uso corretto dei principi della ragione che, è<br />

bene ripeterlo, hanno per oggetto unicamente le unità e regolarità già costituite<br />

intellettualmente e che, soltanto in ciò – vale a <strong>di</strong>re nel non presumere<br />

<strong>di</strong> configurare oggetti propri – assumono vali<strong>di</strong>tà.<br />

Ora, come abbiamo visto, nel loro unirsi alle forme dell’intuizione,<br />

le regole o funzioni logiche dell’intelletto costituiscono le «con<strong>di</strong>zioni»<br />

trascendentali per riferirci, per avere a che fare con oggetti. E se queste<br />

funzioni sono le «con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong> ogni esperienza», resta dun-<br />

161


PARTE PRIMA<br />

que da chiedersi: che cosa sarà e come potrà essere definito in generale<br />

il «concetto trascendentale della ragione»? Ce lo <strong>di</strong>ce Kant stesso sempre<br />

nella Dialettica: «Il concetto trascendentale della ragione [...] non è<br />

altro che il concetto della totalità delle con<strong>di</strong>zioni, per un con<strong>di</strong>zionato<br />

che sia dato» 6 . In altri termini: i concetti puri della ragione in generale<br />

non sono altro che «concetti dell’incon<strong>di</strong>zionato», chiamati anche da<br />

Kant «idee trascendentali». Che cosa bisogna intendere con questa<br />

espressione che fa riferimento alla «totalità (universitas) delle con<strong>di</strong>zioni»?<br />

La risposta la si può leggere in un passaggio della Dialettica:<br />

Per idea, io intendo un concetto necessario della ragione, cui non può<br />

essere dato, nei sensi, alcun oggetto corrispondente. I concetti puri della<br />

nostra ragione […] sono perciò idee trascendentali 7 .<br />

Tali idee non sono dunque suscettibili <strong>di</strong> «esibizione» dato che, se la<br />

con<strong>di</strong>zione è, appunto, la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un con<strong>di</strong>zionato, a una «totalità<br />

<strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni» in quanto concetto (dell’)incon<strong>di</strong>zionato, non può corrispondere<br />

alcun con<strong>di</strong>zionato. Ciò non<strong>di</strong>meno accade che nella metafisica<br />

queste idee vengano messe in relazione: a) al soggetto; b) al<br />

molteplice dell’oggetto nel fenomeno; c) a tutte le cose in generale. Ciò<br />

dà luogo a tre classi <strong>di</strong> idee; e cioè:<br />

a) l’unità assoluta (incon<strong>di</strong>zionata) del soggetto pensante (oggetto<br />

della psicologia rationalis);<br />

b) l’unità incon<strong>di</strong>zionata della serie delle con<strong>di</strong>zioni dei fenomeni<br />

(vale a <strong>di</strong>re la cosmologia rationalis);<br />

c) l’unità assoluta della con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> tutti gli oggetti del pensiero in<br />

generale (e cioè la theologia trascendentalis).<br />

E, in effetti, nella tra<strong>di</strong>zione della metafisica wolffiana, sono questi i<br />

tre rami in cui si specifica la metaphysica generalis che – declinandosi, appunto,<br />

in psicologia, cosmologia e teologia – fa riferimento all’anima, al<br />

mondo e a Dio, come se fossero oggetti <strong>di</strong> un’esperienza possibile.<br />

È da qui che, secondo Kant, sorgono le antinomie dalla <strong>di</strong>alettica, il<br />

cui «atto <strong>di</strong> nascita» coincide in particolare col mancato riconoscimento<br />

<strong>di</strong> questi concetti come concetti dell’incon<strong>di</strong>zionato: idee, dunque, <strong>di</strong><br />

cui non ci può essere alcuna conoscenza. Se infatti conoscere significa<br />

trovare la con<strong>di</strong>zione per un con<strong>di</strong>zionato dato, quale con<strong>di</strong>zione potrà<br />

mai essere trovata per spiegare quell’incon<strong>di</strong>zionato che contiene in sé<br />

la totalità delle con<strong>di</strong>zioni? Se potessimo trovare la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> un<br />

162<br />

L’ONTOTEOLOGIA ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA CRITICA<br />

certo incon<strong>di</strong>zionato, l’incon<strong>di</strong>zionato finirebbe per non essere più un<br />

incon<strong>di</strong>zionato e sarebbe, appunto, un con<strong>di</strong>zionato. Ed è proprio in<br />

questo scambio, nel considerare, cioè, un incon<strong>di</strong>zionato – le idee <strong>di</strong><br />

anima, mondo, Dio – come se fosse un con<strong>di</strong>zionato (in quanto tale<br />

determinabile concettualmente) che la ragione entra in conflitto con se<br />

stessa. Qui si aprono però tre or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> questioni:<br />

1) Si può forse <strong>di</strong>re che queste nozioni sono idealità inutili in ogni<br />

senso, oppure grazie a loro è possibile unificare e mantenere entro orizzonti<br />

<strong>di</strong> senso determinabili fenomeni che riguardano la nostra esperienza<br />

sia esterna sia interna?<br />

2) Senza questi concetti, in se stessi indeterminabili, le nostre conoscenze<br />

non rischierebbero <strong>di</strong> sommarsi l’una all’altra senza or<strong>di</strong>ne e gerarchia,<br />

costituendo un puro aggregato <strong>di</strong> nozioni?<br />

3) E infine: si può forse ritenere che tutto il campo delle idee dell’incon<strong>di</strong>zionato<br />

resta inconoscibile in modo assoluto? Non c’è in questo<br />

campo una parziale eccezione?<br />

De<strong>di</strong>chiamoci per qualche istante a questo terzo punto e a questa<br />

parziale eccezione. Essa riguarda quel concetto dell’incon<strong>di</strong>zionato che<br />

è la libertà e che noi pensiamo, appunto, come una causa non causata<br />

(una causa prima) o una con<strong>di</strong>zione ultima, dunque, incon<strong>di</strong>zionata. In<br />

realtà, nemmeno <strong>di</strong> questo concetto dell’incon<strong>di</strong>zionato esiste una determinazione<br />

conoscitiva (teoretica), sebbene risulti possibile farne esperienza,<br />

a con<strong>di</strong>zione però <strong>di</strong> assumerlo non nel dominio dei concetti<br />

della natura (delle determinazioni teoretiche) ma unicamente in quello<br />

della ragione pura-pratica, vale a <strong>di</strong>re dell’agire morale, a cui Kant de<strong>di</strong>cherà<br />

la sua seconda Critica. Qui, infatti, noi siamo consapevoli <strong>di</strong> poterci<br />

determinare a partire da un concetto incon<strong>di</strong>zionato come quello<br />

della libertà, dato che agire liberamente significa, in senso stretto, agire<br />

in modo non-con<strong>di</strong>zionato, ovvero non in relazione a questa o quella<br />

con<strong>di</strong>zione – dunque, in assoluto. Per quanto sia dunque puramente negativa<br />

in termini teoretici, questa determinazione risulta essere non<strong>di</strong>meno<br />

positiva in termini pratici. Anche se quasi – e anzi, propriamente<br />

– mai il nostro agire può definirsi assolutamente libero e incon<strong>di</strong>zionato<br />

– dato che nessuno agisce mai da solo, dato che l’azione suppone<br />

l’essere-assieme, l’essere-con altri – ciò nulla toglie al «fatto» che l’agire<br />

sia, appunto, un agire – e non meramente un reagire, una risposta ri-<br />

163


PARTE PRIMA<br />

flessa, un mero comportarsi o conformarsi – in quanto è un agire secondo<br />

libertà.<br />

Ma torniamo alla prima Critica e de<strong>di</strong>chiamoci ora alle prime due<br />

questioni sollevate. Nell’Appen<strong>di</strong>ce alla Dialettica trascendentale, Kant<br />

scrive:<br />

Il risultato <strong>di</strong> tutti i tentativi <strong>di</strong>alettici della ragione pura non soltanto<br />

conferma ciò che è stato già <strong>di</strong>mostrato nell’Analitica trascendentale –<br />

ossia, che tutte le nostre inferenze, le quali vogliano oltrepassare il<br />

campo dell’esperienza possibile, sono illusorie e senza fondamento –<br />

ma al tempo stesso ci insegna qualcosa in particolare, cioè che la ragione<br />

umana ha una tendenza naturale ad oltrepassare questi limiti, e<br />

che le idee trascendentali sono per essa altrettanto naturali, quanto per<br />

l’intelletto sono naturali le categorie: vi è tuttavia la <strong>di</strong>fferenza che, mentre<br />

queste ultime portano alla verità, cioè all’accordo dei nostri concetti<br />

con l’oggetto, le idee invece producono una semplice parvenza – tuttavia<br />

irresistibile – al cui effetto ingannevole ci si può a stento sottrarre<br />

me<strong>di</strong>ante la più severa delle critiche 8 .<br />

Tale critica, in sostanza, consiste dunque nell’assegnare alle idee trascendentali<br />

un uso soltanto «regolativo» e non «costitutivo»:<br />

164<br />

Io sostengo perciò, che le idee trascendentali non devono mai avere<br />

uso costitutivo (in modo che risultino dati così concetti <strong>di</strong> certi oggetti),<br />

e nel caso in cui le si intenda in questo senso, esse sono semplicemente<br />

concetti raziocinanti (<strong>di</strong>alettici). Tali idee, per contro, hanno un uso regolativo<br />

assai pregevole e in<strong>di</strong>spensabilmente necessario, che consiste<br />

cioè nel rivolgere l’intelletto ad un certo scopo [Ziele], in vista del quale<br />

le <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong> tutte le regole dell’intelletto convergono in un punto, il<br />

quale, pur essendo soltanto un’idea (focus imaginarius), cioè un punto<br />

completamente al <strong>di</strong> fuori dei limiti dell’esperienza possibile, dal quale<br />

quin<strong>di</strong> i concetti dell’intelletto non possono in realtà provenire, serve<br />

tuttavia a procurare la più grande unità e la più grande estensione a tali<br />

concetti 9 .<br />

In questo passo occorre sottolineare tre aspetti:<br />

1) l’uso regolativo delle idee trascendentali in<strong>di</strong>rizza, orienta le re-<br />

L’ONTOTEOLOGIA ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA CRITICA<br />

gole dell’intelletto verso un qualche «scopo» (Ziel: più precisamente, una<br />

mira, una meta, una destinazione, un traguardo) che queste ultime, da<br />

sole, non sono in grado <strong>di</strong> scorgere;<br />

2) questo traguardo non è un luogo <strong>di</strong> provenienza o <strong>di</strong> derivabilità<br />

dei concetti dell’intelletto, dato che si colloca oltre i limiti <strong>di</strong> ogni esperienza<br />

possibile;<br />

3) pur essendo soltanto un focus imaginarius, tale «fuoco» ha ciò non<strong>di</strong>meno<br />

la capacità <strong>di</strong> produrre «unità» nella molteplicità delle regole ed<br />

«estensione» (Ausbreitung) della loro applicazione al campo dell’esperienza.<br />

La ragione, quin<strong>di</strong>, in questo suo fornire <strong>di</strong>rezione, orientamento, mira,<br />

apertura, offre ai concetti dell’intelletto qualcosa che essi stessi non possiedono<br />

e verso cui, anzi, sono in<strong>di</strong>fferenti. Essa, in altre parole, ci guida nel cercare<br />

un’unità sistematica <strong>di</strong> tutti i concetti empirici possibili, per un verso,<br />

rivelandosi come un principio non soltanto <strong>di</strong> unificazione e <strong>di</strong> sistematizzazione<br />

ma anche <strong>di</strong> <strong>di</strong>rezione, <strong>di</strong> senso, <strong>di</strong> «ricerca»; e producendo per<br />

l’altro quelle «massime» che la metafisica razionalistica aveva erroneamente<br />

considerato come principi <strong>di</strong> conoscenza delle cose (della natura).<br />

Kant si riferisce qui a quelle proposizioni fondamentali della metafisica secondo<br />

cui, ad esempio, entia praeter necessitatem non esse multiplicanda, o a<br />

quella lex continui che, mentre Leibniz elevava a legge della natura, Kant<br />

considera invece come una massima soggettiva per orientarsi nella molteplicità<br />

delle forme <strong>di</strong> essa. Si intravede già qui non soltanto come i gran<strong>di</strong><br />

principi della metafisica vengano ricondotti all’interno <strong>di</strong> esigenze euristiche<br />

soggettive (esigenze e bisogni propri della soggettività umana) ma<br />

anche il modo in cui essi, nel loro valore economico, rinviino in fondo al<br />

concetto <strong>di</strong> «fine» o <strong>di</strong> «scopo», o, per essere più precisi, al concetto <strong>di</strong><br />

«conformità a scopi» (Zweckmäbigkeit). Ma quale sarà la «linea genealogica»<br />

<strong>di</strong> questi concetti? Questa domanda aprirà il campo all’esigenza dell’analisi<br />

e della «critica» <strong>di</strong> un’altra facoltà accanto all’intelletto e alla ragione, o<br />

meglio, «interme<strong>di</strong>a» tra loro: la facoltà, cioè, del giu<strong>di</strong>zio.<br />

Ma restiamo ancora alla prima Critica e a quei principi propri della<br />

ragione che ci mettono nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> ricercare, fungendo così da<br />

termini guida per la possibilità <strong>di</strong> unificare e sistematizzare le nostre conoscenze.<br />

Kant ne in<strong>di</strong>vidua tre atti a svolgere questo duplice compito<br />

(insieme euristico e sistematico):<br />

165


PARTE PRIMA<br />

1) il principio dell’omogeneità del molteplice entro generi superiori;<br />

2) il principio della varietà dell’omogeneo entro specie inferiori;<br />

3) il principio dell’affinità <strong>di</strong> tutti i concetti (principio che sorge dall’unione<br />

dei primi due).<br />

La leibniziana lex continui (non datur vacuum formarum) non è altro che<br />

una specificazione <strong>di</strong> tali principi. Del resto, precisa Kant:<br />

È facile per altro vedere, che questa continuità delle forme è una semplice<br />

idea, cui nell’esperienza non si può assegnare un oggetto adeguato:<br />

e ciò non soltanto per il fatto che le specie sono nella natura realmente<br />

<strong>di</strong>vise [...], ma anche perché noi non possiamo fare alcun uso empirico<br />

determinato <strong>di</strong> questa legge, in quanto da essa non viene in<strong>di</strong>cato un<br />

benché minimo criterio <strong>di</strong> affinità in base al quale si possa stabilire in<br />

che modo e sino a che punto noi dobbiamo ricercare la successione<br />

graduale delle <strong>di</strong>versità delle specie, e in quanto piuttosto tale legge non<br />

è altro se non un’in<strong>di</strong>cazione generale, che noi dobbiamo cercare questi<br />

gra<strong>di</strong> 10 .<br />

Si tratta dunque <strong>di</strong> «proposizioni fondamentali euristiche», <strong>di</strong> principi<br />

a cui «non può venir dato alcuno schema corrispondente della sensibilità,<br />

ed essi non possono avere alcun oggetto in concreto» 11 ; e che<br />

tuttavia, non soltanto non sono «inutili», ma sono anche in qualche modo<br />

«analoghi» agli schemi dell’immaginazione, ovvero a quelle operazioni o<br />

a quegli atti configuranti che, unendo un momento «intellettuale» e un<br />

momento «sensibile» in virtù della loro natura «interme<strong>di</strong>a» (proprio<br />

come lo sarà la facoltà del giu<strong>di</strong>zio), aprono propriamente una veduta<br />

sulle cose. Questi analoghi degli schemi (o questi schemi dell’analogia) pur essendo<br />

ciechi al pari degli schemi dell’immaginazione, rendono tuttavia<br />

possibile, come la camera oscura dei pittori, un certo prospettivismo nella<br />

natura. Infatti, sempre nella Dialettica Kant prosegue <strong>di</strong>cendo che:<br />

166<br />

Gli atti dell’intelletto [Verstandes-Handlungen: si noti come tutte le volte che<br />

è in gioco un certo lavoro dello schematismo si parla <strong>di</strong> “atti” o <strong>di</strong> “operazioni”]<br />

senza schemi della sensibilità sono tuttavia indeterminati;<br />

analogamente, l’unità della ragione [...] è in se stessa<br />

indeterminata. Peraltro, sebbene nell’intuizione non si possa<br />

scoprire alcuno schema per la completa unità sistematica <strong>di</strong> tutti i con-<br />

L’ONTOTEOLOGIA ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA CRITICA<br />

cetti dell’intelletto, tuttavia può e deve essere un qualcosa <strong>di</strong> analogo<br />

a tale schema: questo qualcosa è l’idea del maximum sia nella <strong>di</strong>visione <strong>di</strong><br />

una conoscenza dell’intelletto sia nella riunione della conoscenza dell’intelletto<br />

in un principio 12 .<br />

Ciò significa che «l’idea della ragione è dunque un qualcosa <strong>di</strong> analogo<br />

ad uno schema della sensibilità», ma soltanto come principio «dell’unità<br />

sistematica <strong>di</strong> ogni uso dell’intelletto».<br />

Ci sarà <strong>di</strong> aiuto a questo proposito, anche soltanto per introdurci ai<br />

problemi della terza Critica, l’esempio – se è solo un esempio – dell’idea<br />

teologica. Cito dunque il passo saliente in cui Kant espone tale esempio:<br />

Così io <strong>di</strong>co, che il concetto <strong>di</strong> un’intelligenza suprema è una semplice<br />

idea, ossia, che la realtà oggettiva <strong>di</strong> tale concetto non deve consistere<br />

nel suo <strong>di</strong>retto riferimento ad un oggetto [...]: tale concetto, piuttosto,<br />

è soltanto uno schema del concetto <strong>di</strong> una cosa in generale, schema or<strong>di</strong>nato<br />

secondo le con<strong>di</strong>zioni della massima unità razionale, il quale<br />

serve soltanto per ottenere la massima unità sistematica nell’uso empirico<br />

della nostra ragione [...]. In tal caso si <strong>di</strong>ce, per esempio: le cose del<br />

mondo debbono venir considerate come se ricevessero la loro esistenza<br />

da un’intelligenza suprema. In tal modo, l’idea è propriamente<br />

soltanto un concetto euristico, non già ostensivo, e non mostra come un<br />

oggetto sia costituito, bensì in che modo noi, sotto la guida <strong>di</strong> tale concetto,<br />

dobbiamo cercare la costituzione e la connessione degli oggetti<br />

dell’esperienza in generale. Ora, se si può mostrare che, sebbene<br />

le tre idee trascendentali (psicologica, cosmologica e<br />

teologica) non vengano riferite <strong>di</strong>rettamente a nessun oggetto ad<br />

esse corrispondente, né alla determinazione <strong>di</strong> esso, non<strong>di</strong>meno<br />

[...] il procedere secondo siffatte idee costituisce una massima necessaria<br />

della ragione 13 .<br />

Come se il nostro animo fosse una sostanza semplice (psicologia), come<br />

se la serie delle con<strong>di</strong>zioni fosse infinita (cosmologia), come se l’esperienza<br />

fosse un’unità assoluta, come se l’insieme <strong>di</strong> tutti i fenomeni avesse un<br />

unico fondamento e gli oggetti fossero scaturiti dall’archetipo <strong>di</strong> una ragione<br />

onto-teologica. Dopo averla <strong>di</strong>strutta alla ra<strong>di</strong>ce, al principio e <strong>di</strong><br />

principio, questa interminabile sequenza <strong>di</strong> «come se» riconsidera – in<br />

termini estetici ed economici – una certa unità della ragione e della me-<br />

167


PARTE PRIMA<br />

tafisica iniziata con Aristotele, rifondandola (o fondandola per la prima<br />

volta in modo rigoroso, come ci ha detto Heidegger), e al tempo stesso<br />

affidandola all’idea <strong>di</strong> un possibile telos che resta tuttavia esso stesso – ancora<br />

una volta – un «come se»: come se nel mondo ci fosse una causa finale<br />

i cui segni si dessero a leggere nella «conformità a scopi» che ci<br />

presentano, o meglio, che noi siamo portati a scorgere, per poterne fare<br />

un’esperienza coerente, negli enti della natura. Ecco, <strong>di</strong> seguito espresso,<br />

questo punto finale:<br />

La massima unità sistematica – e <strong>di</strong> conseguenza anche l’unità conforme<br />

ad un fine – costituisce la scuola e altresì il fondamento, che rendono<br />

possibile il massimo uso della ragione umana. L’idea <strong>di</strong> tale unità è<br />

quin<strong>di</strong> inscin<strong>di</strong>bilmente connessa con l’essenza della nostra ragione 14 .<br />

Questo passaggio potrebbe costituire l’esito ultimo della metafisica<br />

rifondata e riformata da Kant attraverso la sua «critica della ragione». Ma<br />

non è così: la terza Critica kantiana aprirà, come vedremo, una nuova domanda,<br />

una nuova interrogazione relativa all’origine dell’idea stessa <strong>di</strong><br />

«conformità» a un «fine» o a uno a «scopo». Tale idea, infatti, non provenendo<br />

certamente né dalla ragione teoretica, né – in senso stretto o<br />

<strong>di</strong>retto – da quella pratica, sembra piuttosto un me<strong>di</strong>o tra le due, in<strong>di</strong>cando,<br />

da un lato, qualcosa come una «legalità» e, dall’altro, qualcosa<br />

come uno «scopo». Da dove deriverà allora questa nozione?<br />

A conclusione delle prime due Critiche, Kant sarà portato a pensare<br />

a un’altra facoltà dell’animo che egli denominerà «facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio». In<br />

questa ricerca ulteriore potremo leggere tanto il tentativo <strong>di</strong> ricostituire<br />

su basi critiche quell’unità suprema del «fondamento» (e dell’esser-causa)<br />

che Aristotele ci aveva in<strong>di</strong>cato nel trattato teolo-gico della sua Metafisica,<br />

quanto al contrario lo sfondamento <strong>di</strong> ogni sapere metafisico. Oppure<br />

ancora, come credo e come dovremo vedere, l’una e l’altra cosa insieme.<br />

_______________<br />

1 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 368.<br />

2 Ivi, p. 75.<br />

3 Ivi, pp. 368-9.<br />

4 Ibidem.<br />

5 Ibidem.<br />

168<br />

6 Ivi, p. 381.<br />

7 Ivi, p. 385.<br />

8 Ivi, pp. 657-658. Rispetto all’e<strong>di</strong>zione italiana <strong>di</strong> Colli, ho reso più convenzionalmente<br />

Schein con «parvenza» anziché con «illusione».<br />

9 Ivi, p. 659.<br />

10 Ivi, pp. 672-673.<br />

11 Ivi, pp. 674-675.<br />

12 Ibidem.<br />

13 Ivi, pp. 679-680.<br />

14 Ivi, p. 698.<br />

L’ONTOTEOLOGIA ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA CRITICA<br />

169


Tecnica della natura. L’analogia del fondamento<br />

1790. Kant dà alle stampe la sua terza opera critica, la Kritik der<br />

Urteilskraft, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio. Si tratta <strong>di</strong> un testo ricchissimo,<br />

destinato – come vedremo – ad aprire o a riaprire una molteplicità <strong>di</strong><br />

problemi, apparentemente risolti dalla «rifondazione» della metafisica<br />

tra<strong>di</strong>zionale perseguita da Kant nelle prime due critiche.<br />

Prima <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> quella data poteva infatti sembrare che, con la sua<br />

bipartizione in filosofia teoretica e filosofia pratica (morale), il sistema<br />

critico risultasse in sé conchiuso e concluso: nella prima Critica, infatti,<br />

era stata in<strong>di</strong>cata e legittimata la possibile unità sotto pochi principi<br />

delle regole dell’intelletto (e dunque fondata, nelle sue con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

possibilità, la conoscenza teoretica della natura, del mondo sensibile);<br />

con la seconda Critica, invece, la riconduzione del campo dell’agire morale<br />

al concetto incon<strong>di</strong>zionato della libertà, aveva garantito la determinazione<br />

pratica del soprasensibile (vale a <strong>di</strong>re la possibilità <strong>di</strong> fare<br />

esperienza <strong>di</strong> esso attraverso l’agire morale). Dominio teoretico-conoscitivo<br />

da un lato, e dominio etico-pratico dall’altro potevano sembrare,<br />

quin<strong>di</strong>, compiutamente fondati e adeguatamente legittimati ciascuno<br />

da propri principi: i concetti dell’intelletto puro per ciò che riguardava<br />

gli oggetti come fenomeni, e il concetto incon<strong>di</strong>zionato della libertà<br />

per gli oggetti in qualità <strong>di</strong> noumeni. Due «legislazioni» e due «domini»,<br />

dunque, nettamente <strong>di</strong>stinti e separati: il dominio del sensibile o del<br />

con<strong>di</strong>zionato – e cioè la natura come insieme degli oggetti dei sensi –<br />

per ciò che concerne la legislazione dell’intelletto e il dominio del soprasensibile<br />

o dell’incon<strong>di</strong>zionato – della libertà come con<strong>di</strong>zione incon<strong>di</strong>zionata,<br />

come causa prima – per ciò che si riferisce alla<br />

legislazione della ragione nel suo uso pratico. In questa fase avanzata e<br />

matura del pensiero kantiano, i giochi sembravano perciò definitivamente<br />

fatti.<br />

Con la stesura della Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, il sistema critico<br />

torna però a essere rimesso in questione. All’origine della terza Critica<br />

insistono due fondamentali questioni (presenti in forma quasi soltanto<br />

implicita nelle due precedenti). Due questioni sulle quali l’ombra della<br />

170<br />

TECNICA DELLA NATURA. L’ANALOGIA DEL FONDAMENTO<br />

«contingenza» leibniziana sembra nonostante tutto ancora <strong>di</strong>stendersi;<br />

due questioni che potremmo formulare così:<br />

1) È possibile per la ragione, intesa – come in<strong>di</strong>cato nell’Appen<strong>di</strong>ce<br />

alla Dialettica trascendentale – come quella facoltà che conferisce unità<br />

attraverso i suoi principi alle regole dell’intelletto (vale a <strong>di</strong>re alle «leggi<br />

trascendentali della natura»), portare a unificazione e conferire unità <strong>di</strong><br />

sistema anche alla molteplicità delle leggi empiriche? L’unificazione del<br />

molteplice (puro), operata innanzitutto dalle leggi trascendentali dell’intelletto,<br />

e poi ricondotta a sistema dalle idee della ragione, è sufficiente<br />

ad assicurare la nostra conoscenza dal pericolo <strong>di</strong> smarrirsi nel «labirinto»<br />

della contingenza, e cioè della varietà e eterogeneità delle leggi<br />

empiriche e delle molteplici «forme della natura»?<br />

2) A conclusione delle prime due Critiche, tra i concetti (ontologici)<br />

della natura e il concetto razionale (pratico) della libertà non resta forse<br />

aperto un «abisso», tale per cui non ci risulterebbe nemmeno possibile<br />

tentare <strong>di</strong> tradurre nello spazio del mondo (sensibile, naturale) quello<br />

che ci poniamo in termini <strong>di</strong> scopi finali e <strong>di</strong> libertà? E se le cose stanno<br />

così, tra l’agire – considerato come risultato della libera e incon<strong>di</strong>zionata<br />

determinazione della volontà – e il pensare – inteso come determinazione<br />

relativa al conoscere effettivo – non resta spalancato un «immenso<br />

baratro» (unübersehbare Kluft: una spaccatura o fessura sterminata) che rischia<br />

<strong>di</strong> paralizzare la possibilità stessa <strong>di</strong> far coesistere questi due domini<br />

in uno stesso territorio – quello dell’esperienza effettiva e della<br />

comunicabilità intersoggettiva?<br />

Se e fintanto che due domande così significative restano aperte e<br />

non trovano risposta, è alquanto <strong>di</strong>fficile considerare davvero compiuta<br />

la riforma o la rifondazione critica della metafisica a opera <strong>di</strong> Kant. Al<br />

punto che sembra qui necessario chiederci: aveva forse ragione la metafisica<br />

leibniziano-wolffiana a intendere in termini logici – e cioè <strong>di</strong><br />

gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> conoscenza: chiara od oscura, <strong>di</strong>stinta o confusa ecc. – la <strong>di</strong>fferenza<br />

tra intuizione e concetto? Questa strategia non corrispondeva<br />

forse al bisogno <strong>di</strong> gettare un ponte tra il conoscere e l’agire, tra la singolarità<br />

della sostanza in<strong>di</strong>viduale e la pluralità delle mona<strong>di</strong>, tra il sapere<br />

necessario assicurato dal principio <strong>di</strong> identità e quello contingente garantito<br />

dal principio <strong>di</strong> ragione? Attraverso le due domande che ho formulato<br />

ai punti 1. e 2. – e che ho detto essere all’origine della terza Critica – non<br />

171


PARTE PRIMA<br />

sta forse emergendo l’esigenza <strong>di</strong> suturare quella ferita che, con la Critica<br />

della ragione pura, Kant aveva inferto al corpus della metafisica?<br />

La risposta sarà qui al tempo stesso sì e no. E precisamente: sì, se con<br />

ciò si intende il bisogno che Kant avverte <strong>di</strong> ricercare il luogo – e si tratterà,<br />

appunto, della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio – in cui deve avvenire un passaggio<br />

(una traduzione) tra l’incon<strong>di</strong>zionato e il con<strong>di</strong>zionato; no, se<br />

questo significa far saltare la loro <strong>di</strong>fferenza. In modo più preciso: non<br />

si tratta, dopo aver <strong>di</strong>strutto l’unità della ragione metafisica, <strong>di</strong> escogitare<br />

una via <strong>di</strong> comunicazione possibile tra questi due domini (il con<strong>di</strong>zionato<br />

e l’incon<strong>di</strong>zionato), quanto piuttosto <strong>di</strong> cercare il motivo che<br />

ha spinto la metafisica a tentare sin dalla sua nascita <strong>di</strong> trovare la via per<br />

una simile transizione. A quale «bisogno» (e ra<strong>di</strong>cato dove?) risponde o<br />

corrisponde la ricerca <strong>di</strong> questa via?<br />

È questa la forma che assume in Kant la domanda della metafisica<br />

– quella domanda («Che cosa è l’uomo?») che per lui riassumeva in sé il<br />

senso delle tre gran<strong>di</strong> questioni a cui aveva de<strong>di</strong>cato la sua interrogazione<br />

critica: Che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa<br />

mi è consentito sperare? E la risposta a quella domanda (Che cosa è<br />

l’uomo?), potremmo <strong>di</strong>re, è: l’uomo è quell’ente che si pone queste tre<br />

questioni (metafisiche), e se le pone nella loro unitarietà, e cioè nell’unitarietà<br />

del suo essere (della sua essenza e della sua esistenza). Con<br />

una formulazione heideggeriana <strong>di</strong>remmo che un bisogno <strong>di</strong> questo genere<br />

corrisponde all’essenza dell’uomo in quanto animale metafisico.<br />

È questo modo, caratteristico <strong>di</strong> Kant, <strong>di</strong> riproporre la questione<br />

della metafisica che gli ha fatto scoprire o riscoprire qualcosa <strong>di</strong> nuovo<br />

e insieme antichissimo, qualcosa che stando «tra» il dominio della natura<br />

(physis) e quello dell’azione (praxis), ricorda quel terzo genere (triton genos)<br />

che, nel Timeo, Platone chiamava chora, e che si sforzava <strong>di</strong> pensare – rifondando<br />

o <strong>di</strong>struggendo la sua stessa metafisica? 1 – come un interme<strong>di</strong>ario<br />

tra l’intelligibile e il sensibile, tra l’aisthesis e l’eidos. Un «terzo genere»<br />

che non<strong>di</strong>meno, a <strong>di</strong>fferenza dei primi due, non è un vero e proprio genere<br />

quanto piuttosto, appunto, una <strong>di</strong>fferenza, un genere senza genere, degenere,<br />

effetto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso ibrido o «bastardo» (così Platone definiva<br />

il <strong>di</strong>scorso della chora). Un luogo – chora significa anche, e anzi, innanzitutto,<br />

luogo, spazio, contrada – che, a <strong>di</strong>fferenza del sensibile (estetico) e dell’intelligibile<br />

(eidetico), non ha un proprio luogo o un proprio spazio<br />

(sensibile o ideale), quanto piuttosto è o dà luogo, è o fa spazio. Il luogo<br />

o il far luogo <strong>di</strong> un «campo» (come lo chiama Kant) che, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

172<br />

TECNICA DELLA NATURA. L’ANALOGIA DEL FONDAMENTO<br />

ciò che accade per il «dominio» in cui vige la «legislazione» dell’intelletto<br />

(il mondo sensibile, fenomenico) o per quello or<strong>di</strong>nato dalla ragione e<br />

dal concetto della libertà (il mondo soprasensibile), non identifica e non<br />

costituisce un «dominio» <strong>di</strong> oggetti propri; un campo dove opera una facoltà<br />

(il Giu<strong>di</strong>zio) che ha un carattere, nello stesso tempo, originario e<br />

non originario (supplementare), originario in quanto supplementare e<br />

supplementare in quanto originario. E se il carattere <strong>di</strong> «termine me<strong>di</strong>o»<br />

(Mittelglied, come lo definisce Kant) tra l’intelletto e la ragione, caratteristico<br />

della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, si vede dal fatto che il principio della<br />

«conformità a scopi» che lo guida – in modo, vedremo, del tutto particolare<br />

– coniuga o ibrida l’idea <strong>di</strong> «conformità» (propria dei concetti<br />

della natura) e quella <strong>di</strong> «scopo» (propria del concetto della ragione),<br />

l’aspetto originariamente supplementare (<strong>di</strong> me<strong>di</strong>o originario) del Giu<strong>di</strong>zio<br />

si riconoscerà nel fatto che esso si specifica come quel mondo dell’arte<br />

o della tecnica che da un lato rinvia sia al sensibile sia all’ideale (e senza<br />

questo rinvio, in se stesso, non è nulla); mentre dall’altro non è in alcun<br />

modo riducibile né ai concetti della natura né a quello della libertà. In<br />

quanto il suo principio è la «conformità a scopi», l’idea che guida il<br />

Giu<strong>di</strong>zio – nel suo operare anche fuori del campo dell’arte – è quello<br />

della produzione (poiesis) <strong>di</strong> oggetti tecnici – e cioè, appunto, conformi<br />

a scopi, pensati in termini <strong>di</strong> rapporto mezzi-fini; produzione che, dunque,<br />

muove dal sensibile e si fa guidare da un eidos inteso come telos:<br />

l’idea tecnico-teleologica ed economica <strong>di</strong> una certa usabilità o utilizzabilità.<br />

A ben vedere, si riproduce qui esattamente quello che nella prima<br />

Critica accadeva con l’immaginazione (e del resto il Giu<strong>di</strong>zio della terza<br />

non è probabilmente altra cosa), la quale, pur operando tra le categorie<br />

e le intuizioni sensibili (dato che i suoi prodotti, gli schemi, erano definiti,<br />

per un verso, intellettuali come i concetti e, per l’altro, sensibili, come le<br />

intuizioni), non vedeva, ciononostante, assegnarsi una legislazione propria<br />

e un proprio dominio <strong>di</strong> oggetti. Il che portava Heidegger a <strong>di</strong>re che<br />

l’immaginazione, soprattutto nella seconda e<strong>di</strong>zione della Critica della ragione<br />

pura, era heimatlos, cioè senza patria, e quin<strong>di</strong>, potremmo <strong>di</strong>re, senza<br />

nazione e senza nascita. E del resto, non era casuale che nella prima<br />

Critica lo schematismo dell’immaginazione e le sue operazioni venissero<br />

descritti nei termini del lavoro <strong>di</strong> una verborgene Kunst, <strong>di</strong> un’arte celata,<br />

nascosta (dove Kunst in Kant equivale a techne): ciò significava,<br />

infatti, sottolineare l’esistenza <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> tecnico nella possibilità<br />

173


PARTE PRIMA<br />

stessa <strong>di</strong> determinare il fenomeno in quanto fenomeno, vale a <strong>di</strong>re nel<br />

compito affidato allo schematismo. Non dovrebbe quin<strong>di</strong> stupire il<br />

fatto che anche il campo <strong>di</strong> questa eco-poiesi – vale a <strong>di</strong>re il campo del<br />

Giu<strong>di</strong>zio – resti, al pari dell’immaginazione della prima Critica, senza<br />

patria: una con<strong>di</strong>zione senza <strong>di</strong>zione e senza una vera e propria giuris<strong>di</strong>zione,<br />

senza un dominio <strong>di</strong> oggetti; una con<strong>di</strong>zione semplicemente domiciliata,<br />

in affitto o per occupazione abusiva, nella circoscrizione dei concetti<br />

della natura e in quello della libertà. Questa produttività, pensata<br />

come un operare che, da un lato, non rientra dunque tra i concetti della<br />

natura (essendo qualcosa <strong>di</strong> tecnico o artistico) e dall’altro non è riconducibile<br />

al campo dell’agire (pur nella sua prossimità a qualcosa come la<br />

praxis), questo produrre che si specifica in termini <strong>di</strong> eco-tecnici si<br />

chiama facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio. Benché dunque irriducibile al dominio dei<br />

concetti della physis, tale facoltà coglie tuttavia della natura un momento<br />

decisivo, al punto da rivelarsi in<strong>di</strong>spensabile ai fini della sua conoscenza<br />

in termini <strong>di</strong> leggi effettive. Allo stesso modo, pur essendo irriducibile<br />

al concetto che determina l’agire morale, essa fornisce al concetto stesso<br />

<strong>di</strong> «scopo» qualcosa come una quasi-schematizzazione, che sola può<br />

vincolarlo a tradursi nel territorio dell’agire effettivo, attraversando quel<br />

momento tecnico ed economico che nella facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio emerge in<br />

modo decisivo.<br />

Entriamo perciò nel vivo della terza Critica – o meglio del suo laboratorio<br />

– leggendo alcuni passi contenuti nella sua Erste Enleitung, cioè<br />

in quella Prima Introduzione che, sebbene sostituita in seguito con un’altra<br />

versione, non per questo fu rinnegata da Kant, che infatti la pubblicò<br />

separatamente in seguito. Rispetto all’Introduzione definitiva, vale a <strong>di</strong>re<br />

alle pagine che accompagnano e introducono le analisi della Critica della<br />

facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, l’Erste Enleitung infatti è un testo molto più lungo, problematico,<br />

aporetico, e forse anche maggiormente ricco <strong>di</strong> spunti. In<br />

esso troviamo una tematizzazione per certi aspetti più esplicita e approfon<strong>di</strong>ta<br />

del carattere tecnico ed economico della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio,<br />

legato e ra<strong>di</strong>cato nel bisogno del soggetto conoscente <strong>di</strong> conferire un or<strong>di</strong>ne,<br />

<strong>di</strong> rinvenire regolarità ed elevare a sistema la molteplicità dei fenomeni<br />

e delle leggi empiriche della natura. Scrive Kant, ritornando<br />

ancora una volta su tematiche leibniziane:<br />

174<br />

Tutte quelle formule venute <strong>di</strong> moda: la natura prende la via più breve<br />

– non fa niente invano – non procede a salti nella molteplicità delle forme (continuum<br />

TECNICA DELLA NATURA. L’ANALOGIA DEL FONDAMENTO<br />

formarum) – è ricca <strong>di</strong> specie ma proprio per ciò rara <strong>di</strong> generi ecc. – non sono<br />

altro che aspetti <strong>di</strong> un’unica manifestazione trascendentale con cui il<br />

Giu<strong>di</strong>zio si costituisce un principio per l’esperienza come sistema, e<br />

quin<strong>di</strong> per la propria esigenza 2 .<br />

La mossa qui compiuta da Kant consiste nel ricondurre le sentenze<br />

della metafisica tra<strong>di</strong>zionale – le spiegazioni con Leibniz non erano dunque<br />

terminate con la Critica della ragione pura – a un bisogno soggettivo,<br />

privandole del loro fondamento ontologico: la teleologicità non è – o<br />

meglio, non lo sappiamo, se anche lo fosse, non lo potremmo sapere –<br />

un modo <strong>di</strong> essere della natura, non le appartiene cioè costitutivamente<br />

al pari delle leggi intellettuali; è piuttosto una presupposizione soggettiva<br />

e tuttavia in<strong>di</strong>spensabile ai fini della conoscenza dei fenomeni empirici;<br />

dunque, la manifestazione <strong>di</strong> un principio trascendentale sui generis,<br />

come vedremo in seguito. In base a esso, noi ci comportiamo come se la<br />

natura avesse osservato una qualche legge <strong>di</strong> economia in modo tale da<br />

risultare conoscibile, come se fosse strutturata e or<strong>di</strong>nata anche nelle sue<br />

specificità empiriche in maniera vantaggiosa per la nostra capacità <strong>di</strong><br />

rinvenire e scoprire leggi sempre più potenti (si pensi ad esempio alla<br />

legge <strong>di</strong> Newton e a tutte quelle molteplici e <strong>di</strong>sparate leggi particolari<br />

che da essa sono state sussunte e in essa ricomprese): dove evidentemente<br />

questo come se fa riferimento unicamente al soggetto conoscente<br />

e non alla natura in se stessa.<br />

La vera novità introdotta dalla terza Critica, però, non consiste tanto<br />

o soltanto nella conversione delle sentenze della metafisica tra<strong>di</strong>zionale<br />

in un presupposto <strong>di</strong> natura trascendentale. Già infatti nell’Appen<strong>di</strong>ce<br />

alla Dialettica trascendentale aveva fatto la sua comparsa questo «come<br />

se», ricondotto però in quella sede all’uso regolativo delle idee della ragione.<br />

Il nuovo modo, inaugurato dalla terza Critica, <strong>di</strong> porre la questione<br />

e del finalismo e dell’economicità della natura, consiste piuttosto<br />

nell’elaborazione <strong>di</strong> un vero e proprio principio trascendentale che non<br />

rimanda più <strong>di</strong>rettamente all’intelletto o alla ragione ma alla «tecnica»<br />

della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care. La possibilità <strong>di</strong> operare una qualunque «comparazione<br />

<strong>di</strong> rappresentazioni empiriche, volta a conoscere nelle cose<br />

della natura leggi empiriche e forme specifiche a queste conformi» 3 , richiede<br />

infatti ora l’entrata in gioco del principio trascendentale del<br />

Giu<strong>di</strong>zio riflettente, dal quale soltanto siamo autorizzati a presupporre<br />

«che la natura abbia osservato anche riguardo alle sue leggi empiriche<br />

175


PARTE PRIMA<br />

una certa economicità conforme al nostro Giu<strong>di</strong>zio ed una uniformità<br />

a noi comprensibile; un presupposto, questo, che, quale principio del<br />

Giu<strong>di</strong>zio a priori, deve precedere ogni comparazione» 4 , e in mancanza<br />

del quale «non potremmo sperare <strong>di</strong> orientarci nel labirinto della molteplicità<br />

<strong>di</strong> possibili leggi particolari» 5 . È la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care, nel suo<br />

uso riflettente e non determinante, a postulare quella prospettiva teleologica<br />

e tecnica che ci permette <strong>di</strong> guardare alla natura come se fosse un<br />

prodotto artistico, come se la physis, perciò, fosse come una poiesis – o meglio,<br />

l’effetto, il prodotto <strong>di</strong> una poiesis.<br />

Kant, quin<strong>di</strong>, non sta ricomponendo in modo estrinseco quell’unità<br />

della metafisica che era stata interrotta e spezzata nelle due precedenti<br />

Critiche, quanto piuttosto portando a compimento quella riconduzione<br />

dei concetti e delle proposizioni della metafisica tra<strong>di</strong>zionale alla soggettività<br />

trascendentale preannunciata sin dalla Critica della ragione pura<br />

attraverso l’immagine <strong>di</strong> una «rivoluzione copernicana». Nell’intro -<br />

duzione definitiva alla terza Critica, infatti, vengono richiamate come<br />

esempi alcune delle sentenze che la metafisica considerava leggi <strong>di</strong> natura<br />

– proposizioni metafisiche, certamente, ma anche appartenenti al<br />

sapere scientifico del tempo – come, ad esempio:<br />

la natura prende il cammino più breve (lex parsimoniae); non<strong>di</strong>meno essa<br />

non fa salti, né nella serie dei suoi mutamenti, né nella composizione <strong>di</strong><br />

forme specificamente <strong>di</strong>verse (lex continui in natura); la sua grande molteplicità<br />

nelle leggi empiriche è tuttavia un’unità sotto pochi principi<br />

(principia praeter necessitatem non sunt multiplicanda) e simili 6 .<br />

Tali sentenze sono però ora ridefinite in termini <strong>di</strong> principi-guida o<br />

<strong>di</strong> «massime» che la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio dà a se stessa. Tali sentenze, secondo<br />

Kant, non sono altro che manifestazioni e quasi-applicazioni <strong>di</strong><br />

un unico concetto, quello <strong>di</strong> «conformità a scopi», che apre la possibilità<br />

non <strong>di</strong> trattare i fenomeni della natura come scopi (vale a <strong>di</strong>re <strong>di</strong> farne<br />

degli oggetti pratici, scopi <strong>di</strong> una qualche nostra azione); quanto <strong>di</strong> pensarli<br />

come se fossero dei prodotti tecnici o artistici, ovvero <strong>di</strong> coglierli<br />

nella loro conformità a un qualche (possibile) scopo. Quest’ultima osservazione<br />

serve a sottolineare un aspetto decisivo, e cioè l’emergere, tra<br />

la physis e la praxis, <strong>di</strong> un momento terzo, interme<strong>di</strong>o, originario e non originario<br />

insieme: qualcosa che, da un lato, guarda all’intellegibile (all’incon<strong>di</strong>zionato,<br />

alla ragione e alle sue idee) con cui con<strong>di</strong>vide il tratto saliente<br />

176<br />

TECNICA DELLA NATURA. L’ANALOGIA DEL FONDAMENTO<br />

– al punto <strong>di</strong> esserne una quasi-schematizzazione – e dall’altro al sensibile<br />

e al con<strong>di</strong>zionato; senza per questo scaturire né dal concetto della ragione<br />

né da quelli dell’intelletto.<br />

Che cosa emerge in questo osservare la natura come se fosse organizzata<br />

o tramata da un’idea artistica? Che cosa emerge in questo riflettere<br />

sul mondo fenomenico guidati da quell’idea <strong>di</strong> una «conformità a scopi<br />

della natura» che Kant chiama anche – con un’espressione del tutto<br />

equivalente, ma ancora più perentoria nella sua formulazione paradossale<br />

– «tecnica della natura»? Emerge ciò che forse da sempre – come<br />

Heidegger <strong>di</strong>ceva del principio <strong>di</strong> ragione o del compimento della storia<br />

dell’essere nell’epoca della pianificazione tecnica globalizzata – sonnecchiava<br />

nella metafisica come ontoteologia, vale a <strong>di</strong>re l’originarietà<br />

senza origine <strong>di</strong> una certa tecno-economia o eco-tecnica.<br />

Che cosa toglie e che cosa aggiunge questo anello alla <strong>di</strong>agnosi heideggeriana?<br />

Prima <strong>di</strong> procedere lungo queste considerazioni, cerchiamo <strong>di</strong> comprendere<br />

meglio in che cosa consista il principio <strong>di</strong> conformità a scopi,<br />

vale a <strong>di</strong>re il principio trascendentale della facoltà riflettente del giu<strong>di</strong>zio.<br />

Nel IV paragrafo dell’Introduzione definitiva alla terza Critica, Kant definisce<br />

la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care come «la facoltà <strong>di</strong> pensare il particolare<br />

come compreso sotto l’universale», dunque la facoltà preposta alla sussunzione<br />

<strong>di</strong> un caso (particolare) sotto una regola, una legge (universale),<br />

così da ottenere un giu<strong>di</strong>zio; ad esempio: «il pipistrello è un mammifero».<br />

Qualora l’universale sia dato, operare la sussunzione è molto semplice,<br />

come nel caso in cui ci domandassimo se il pipistrello (il nostro caso particolare)<br />

sia un uccello o un mammifero (le nostre regole universali),<br />

avendo già a <strong>di</strong>sposizione questi ultimi due concetti. Il problema, invece,<br />

si pone quando a essere dato non è l’universale ma unicamente il<br />

particolare, poiché deve intervenire allora, e preliminarmente, un principio<br />

dell’unità del molteplice che gui<strong>di</strong> la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care nel compito<br />

della sussunzione. Ci si trova in questa situazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà in<br />

ogni giu<strong>di</strong>zio conoscitivo empirico, dove occorre infatti reperire un’unità<br />

tra certi fenomeni che, per quanto si presentino già unificati in quanto fenomeni<br />

in generale dalle regole intellettuali (dai concetti dell’intelletto puro),<br />

restano però del tutto indeterminati nella loro specificità e particolarità<br />

empirica, che non è anticipabile né determinabile a priori per mezzo<br />

delle categorie intellettuali. In questa ricerca, allora, veniamo sostenuti<br />

dal principio della conformità a scopi che, autorizzandoci a presupporre<br />

177


PARTE PRIMA<br />

una certa uniformità, regolarità e omogeneità nella natura, ci guida nella<br />

ricerca <strong>di</strong> quell’universale (sempre empirico) in grado <strong>di</strong> sussumere sotto<br />

<strong>di</strong> sé più casi o leggi empiriche particolari. Ora, scrive Kant:<br />

questo principio non può essere altro che questo: poiché le leggi universali<br />

della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che<br />

le prescrive alla natura (sebbene solo secondo il concetto universale <strong>di</strong><br />

essa in quanto natura), le particolari leggi empiriche, rispetto a ciò che<br />

vi è lasciato indeterminato da quelle, debbono essere considerate secondo<br />

un’unità tale, come se, anche qui, l’avesse data a vantaggio della<br />

nostra facoltà conoscitiva un intelletto (sebbene non il nostro), per rendere<br />

possibile un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari della<br />

natura 7 .<br />

In questo passo il para<strong>di</strong>gma della razionalità metafisica, da Aristotele<br />

a Leibniz, è ripreso e riformulato attraverso un’analogia. È infatti nelle<br />

modalità <strong>di</strong> un «come se» al tempo stesso originario –dato che è inderivabile<br />

da altro, irriducibile a un «in quanto tale» o a un «per se stesso»,<br />

kath’auto – e senza origine – è questo il carattere proprio, se così si potesse<br />

<strong>di</strong>re, della soggettività tecnica – che Kant riesprime il legame tra il <strong>di</strong>o<br />

e la tecnica, tra la razionalità <strong>di</strong> un intelletto non finito e l’economia.<br />

Questa riformulazione del principio <strong>di</strong> ragione attraverso un «come<br />

se» non ricompone pertanto – come accadeva, o meglio tentava <strong>di</strong> compiersi,<br />

nella sua formulazione a opera <strong>di</strong> Leibniz – l’antinomicità tra l’incon<strong>di</strong>zionato<br />

e il con<strong>di</strong>zionato, anche se sottolinea il bisogno, così<br />

caratteristico dell’esserci dell’uomo, <strong>di</strong> una transizione, se non proprio<br />

il compito <strong>di</strong> una traduzione: un compito che resta, in ogni caso, interminabile,<br />

sospeso com’è su una contra<strong>di</strong>zione. Ed è sulla problematicità<br />

<strong>di</strong> tale compito <strong>di</strong> traduzione entro una contrad<strong>di</strong>zione, <strong>di</strong> traduzione<br />

dell’incon<strong>di</strong>zionato – della razionalità propria dell’idea morale; o, come<br />

Kant <strong>di</strong>ce anche, ricorrendo a un concetto tipico della metafisica platonico-aristotelica,<br />

l’idea del bene – nel con<strong>di</strong>zionato e nel finito, che<br />

vorrei concludere questo capitolo.<br />

Che cosa sarebbe la ragione morale, col suo concetto <strong>di</strong> scopo finale<br />

– <strong>di</strong> fine che non può mai essere anche un mezzo – e con la sua idea <strong>di</strong><br />

libertà incon<strong>di</strong>zionata, se non attraversasse le funzioni proprie del giu<strong>di</strong>zio,<br />

se non si lasciasse così quasi-schematizzare dal suo «me<strong>di</strong>o», se<br />

non si tecnicizzasse, se non si lasciasse economizzare e politizzare?<br />

178<br />

TECNICA DELLA NATURA. L’ANALOGIA DEL FONDAMENTO<br />

Hegel, non considerando questo attraversamento, <strong>di</strong>ceva che la morale<br />

kantiana è immorale in quanto legata, in maniera soltanto formalistica,<br />

al concetto <strong>di</strong> scopo e <strong>di</strong> libertà, e dunque priva <strong>di</strong> qualunque contenuto<br />

che possa orientare l’uomo nelle scelte etiche effettuali. Che ne sarebbe<br />

della moralità se, attraverso la me<strong>di</strong>azione del Giu<strong>di</strong>zio, non<br />

potesse entrare e transitare nello spazio del mondo? E ancora: che cosa<br />

significa e cosa comporta questo attraversamento?<br />

Forse quella continuità <strong>di</strong> ragione tra l’ente e Dio, tipica dell’ontoteologia<br />

leibniziana, vale a <strong>di</strong>re la giustificazione e assicurazione della finitezza<br />

e della contingenza nella necessità teologico-razionale del <strong>di</strong>o<br />

della metafisica? La risposta è qui negativa. Per Kant, non c’è continuità<br />

né attraversamento garantito, e se resta il bisogno e il dovere <strong>di</strong> un passaggio,<br />

questo è l’attraversamento <strong>di</strong> qualcosa che resta un «abisso»: ciò<br />

che soltanto dà senso ai concetti <strong>di</strong> libertà e <strong>di</strong> decisione, nel momento<br />

stesso in cui li finitizza e li introduce nello spazio plurale del mondo.<br />

Una considerazione quest’ultima che, d’altro canto, non toglie nulla al<br />

fatto – e si tratta <strong>di</strong> un punto para<strong>di</strong>gmatico della filosofia <strong>di</strong> Kant –<br />

che la libertà e la decisione restano incon<strong>di</strong>zionate; che, proprio all’interno<br />

e dall’interno del calcolo, della tecnica e dell’economia del con<strong>di</strong>zionato,<br />

fanno segno a un’incalcolabilità e a una incon<strong>di</strong>zionatezza. Non<br />

è dunque un caso che uno stu<strong>di</strong>oso come Paul Ricoeur abbia interpretato<br />

la Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio come l’etica effettiva <strong>di</strong> Kant, quell’etica<br />

cioè che, a <strong>di</strong>fferenza della Moralität della seconda Critica, mette<br />

in opera il «giu<strong>di</strong>zio in situazione»; oppure che un’interprete altrettanto<br />

profonda come Hannah Arendt abbia scorto nel carattere costitutivamente<br />

plurale che assume il Giu<strong>di</strong>zio nella terza Critica <strong>di</strong> Kant, e nelle<br />

decisive nozioni <strong>di</strong> «universalità soggettiva» e <strong>di</strong> «senso comune» che in<br />

essa vengono problematizzate, il profilo <strong>di</strong> quella filosofia politica che<br />

Kant non aveva – e non ha <strong>di</strong> fatto – mai scritto 8 .<br />

_______________<br />

1 L’oscillazione contenuta in questa domanda è posta in modo molto rigoroso da<br />

Derrida nel saggio de<strong>di</strong>cato alla «chora» e contenuto in J. Derrida, Il segreto del<br />

nome. Chôra, Passioni, Salvo il Nome [Chôra, Galilée, Paris 1993], ed. it. a cura <strong>di</strong> G.<br />

Dalmasso e F. Garritano, Jaca Book, Milano 1997.<br />

2 I. Kant, Prima Introduzione alla Critica del Giu<strong>di</strong>zio, [KGS VIII], ed. it. a cura <strong>di</strong> P.<br />

Manganaro, Laterza, <strong>Roma</strong>-Bari 1984, p. 84.<br />

3 Ivi, p. 88.<br />

179


PARTE PRIMA<br />

4 Ivi, p. 89.<br />

5 Ibidem.<br />

6 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, cit., p. 18.<br />

7 Ivi, p. 16.<br />

8 Cfr., P. Ricoeur, Sé come un altro [Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990], tr. it.<br />

<strong>di</strong> I. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993; H. Arendt, Teoria del giu<strong>di</strong>zio politico<br />

[Lectures on Kant’s Political Philosophy, ed. R. Beiner, The University of Chicago,<br />

1982], tr. it. <strong>di</strong> C. Cicogna e M.Vento, il melangolo, Genova 1990.<br />

180<br />

Principi economici della metafisica<br />

Qual è la novità più importante introdotta dalla terza Critica <strong>di</strong> Kant?<br />

Essa non consiste tanto, o soltanto, nella centralità riconosciuta al problema<br />

della tecnica e dell’economia all’interno del sistema critico, quanto<br />

soprattutto nella loro riconduzione a un ulteriore principio e a una facoltà<br />

<strong>di</strong>stinta sia dall’intelletto che dalla ragione: la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio<br />

(Urteilskraft), col suo principio <strong>di</strong> «conformità a scopi», e col suo<br />

«campo» <strong>di</strong> esperienza (e non dominio <strong>di</strong> oggetti). Concentriamo la nostra<br />

attenzione su questo principio e sul suo duplice volto, o meglio,<br />

sulla duplicità del suo uso, conoscitivo ed estetico. Questo ci condurrà<br />

a comprendere meglio se e in che senso la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care, col suo<br />

principio, possa fungere da interme<strong>di</strong>ario tra intelletto e ragione, tra il<br />

dominio dei concetti della natura e quello della libertà, senza per questo<br />

pretendere <strong>di</strong> colmare l’abisso che li separa.<br />

Nel paragrafo IV dell’Introduzione definitiva alla terza Critica, Kant<br />

definisce la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio in genere come «la facoltà <strong>di</strong> pensare il<br />

particolare come compreso sotto l’universale», dunque la facoltà che si<br />

occupa <strong>di</strong> sussumere il caso particolare o singolare (il molteplice intuitivo)<br />

sotto una regola (il concetto che funge da legge):<br />

Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), allora la facoltà <strong>di</strong><br />

giu<strong>di</strong>zio, che sussume sotto <strong>di</strong> esso il particolare [...] è determinante.<br />

Se invece è dato solo il particolare, per il quale essa deve trovare<br />

l’universale, allora la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio è semplicemente r i f lettente 1 .<br />

Nella conoscenza dei fenomeni della natura – descritta nelle sue con<strong>di</strong>zioni<br />

<strong>di</strong> possibilità e modalità <strong>di</strong> esplicazione nella prima Critica – gli<br />

unici universali, leggi o principi che potevano essere dati (anticipati a<br />

priori) all’intelletto e da quest’ultimo offerti, parimenti a priori, alla facoltà<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio per la sussunzione, erano le leggi trascendentali dell’intelletto<br />

puro, ovvero le categorie. Per questo il Giu<strong>di</strong>zio, nello<br />

schematismo della prima Critica, ha una funzione puramente applicativa;<br />

e cioè si occupa <strong>di</strong> applicare le categorie intellettuali al molteplice intui-<br />

181


PARTE PRIMA<br />

tivo raccolto dall’immaginazione (ai fenomeni), senza l’ausilio <strong>di</strong> nessun<br />

principio e quin<strong>di</strong> in veste <strong>di</strong> semplice funzione o capacità (e non<br />

«facoltà» come nella terza Critica). Soltanto che, come si legge sempre<br />

nel paragrafo IV dell’Introduzione definitiva:<br />

ci sono così molteplici forme della natura, per così <strong>di</strong>re così tante mo<strong>di</strong>ficazioni<br />

dei concetti trascendentali universali della natura, le quali<br />

sono lasciate indeterminate da quelle leggi che l’intelletto puro dà a<br />

priori, poiché tali leggi riguardano solo la possibilità <strong>di</strong> una natura (quale<br />

oggetto dei sensi) in genere, che per ciò debbono esserci anche leggi<br />

che, in quanto empiriche, possono, sì, essere considerate contingenti<br />

secondo il modo <strong>di</strong> intendere del nostro intelletto, e che però, se le<br />

si debbono chiamare leggi (come pure richiede il concetto <strong>di</strong> una natura),<br />

debbono essere considerate necessarie a partire da un principio,<br />

sebbene a noi sconosciuto, dell’unità del molteplice 2 .<br />

Le categorie, infatti, determinano i fenomeni della natura soltanto per<br />

ciò che essi hanno in comune, ovvero per il loro necessario sottoporsi alle<br />

con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong> un’esperienza in generale, astraendo invece<br />

dalla specificità e dalla particolarità propriamente empiriche <strong>di</strong> quegli<br />

stessi fenomeni, vale a <strong>di</strong>re da ciò che essi hanno <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso, <strong>di</strong> peculiare,<br />

rispetto alle leggi generali della natura. Nel paragrafo V dell’Introduzione,<br />

Kant ci fornisce l’esempio dello schema della causalità: esso ci <strong>di</strong>ce soltanto<br />

(semplicemente) che «ogni mutamento ha una causa», permettendo<br />

così alla facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> sussumere sotto il concetto trascendentale<br />

<strong>di</strong> causa coppie <strong>di</strong> oggetti o <strong>di</strong> fenomeni anche molto <strong>di</strong>verse tra loro dal<br />

punto <strong>di</strong> vista empirico, che con<strong>di</strong>vidono però il fatto <strong>di</strong> essere legate da<br />

una relazione <strong>di</strong> «successione temporale», in cui cioè un oggetto succede<br />

secondo una regola determinata ad un altro, posto come sostanza che<br />

permane nel tempo (dell’intuizione sensibile). Dal punto <strong>di</strong> vista delle<br />

leggi trascendentali dell’intelletto, cioè, non fa alcuna <strong>di</strong>fferenza nella sintesi<br />

se stiamo facendo esperienza <strong>di</strong> un fulmine che provoca l’incen<strong>di</strong>arsi<br />

<strong>di</strong> un albero o <strong>di</strong> un gomitolo spinto a rotolare in avanti da un gatto. Le<br />

due serie <strong>di</strong> fenomeni sono schematizzate, sussunte e dunque conosciute<br />

nello stesso identico modo, cosicché la specificità e particolarità dei due<br />

eventi rimane del tutto indeterminata (per mezzo delle categorie). Ma,<br />

prosegue Kant:<br />

182<br />

PRINCIPI ECONOMICI DELLA METAFISICA<br />

gli oggetti della conoscenza empirica, oltre quella con<strong>di</strong>zione formale<br />

del tempo, sono ancora determinati o, per quanto se ne possa giu<strong>di</strong>care<br />

a priori, determinabili in molti mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi, così che nature specificamente<br />

<strong>di</strong>verse, oltre a ciò che esse hanno <strong>di</strong> comune, in quanto appartenenti<br />

alla natura in genere, possono essere cause in mo<strong>di</strong> infinitamente<br />

molteplici; e ciascuno <strong>di</strong> questi mo<strong>di</strong> deve avere (secondo il concetto <strong>di</strong><br />

una causa in genere) la sua regola, che è legge, e <strong>di</strong> conseguenza comporta<br />

necessità, anche se noi, secondo la costituzione e i limiti delle nostre<br />

facoltà conoscitive, non inten<strong>di</strong>amo affatto tale necessità 3 .<br />

Col suo richiamo alla «con<strong>di</strong>zione formale del tempo», questo passo<br />

fa riferimento – in modo per la verità molto ellittico – al problema dello<br />

schematismo trascendentale, così come Kant lo aveva definito nella<br />

prima Critica. Ricordo come qui Kant avesse in<strong>di</strong>viduato nell’applicazione<br />

degli schemi (dell’immaginazione) alle categorie (dell’intelletto) la<br />

sola con<strong>di</strong>zione per dare a queste ultime un significato, e con ciò stesso<br />

la possibilità <strong>di</strong> riferirsi ad oggetti. Qualche esempio. Lo schema della<br />

quantità è il numero; lo schema della sostanza è la permanenza del reale<br />

nel tempo; lo schema della causalità è il reale come successione del molteplice.<br />

Che cosa ci mostrano questi esempi? Tre cose:<br />

1) che nessuna categoria avrebbe un significato senza la sua schematizzazione<br />

immaginativo-intuitiva (la sostanza sarebbe un concetto<br />

vuoto <strong>di</strong> senso senza la nozione intuitiva <strong>di</strong> qualcosa che permane nel<br />

tempo; la causa senza la percezione a priori <strong>di</strong> una successione temporale;<br />

la quantità senza la numerabilità);<br />

2) che gli schemi, come scrive Kant, non sono altro che «determinazioni<br />

a priori <strong>di</strong> tempo» (ogni schema determina, temporalizza in un<br />

certo modo il tempo: come permanenza, come successione, come numero;<br />

e a quest’ultimo proposito basta ricordare come già Aristotele<br />

definisse il tempo come «numero del movimento»);<br />

3) che i fenomeni si danno a noi come fenomeni grazie alla temporalizzazione<br />

propria dello schematismo.<br />

L’aspetto tuttavia problematico della conoscibilità e schematizzabilità<br />

dei fenomeni della natura nella loro componente propriamente empirica<br />

consiste nell’impossibilità <strong>di</strong> determinare a priori la legge, la<br />

regola, l’universale, il concetto che serve alla facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio per ope-<br />

183


PARTE PRIMA<br />

rare la sussunzione del molteplice intuitivo (empirico) sotto <strong>di</strong> essi.<br />

Bisogna cioè – per restare al nostro esempio – fare esperienza del gatto,<br />

del gomitolo, del fulmine e dell’albero, nonché della loro relazione <strong>di</strong><br />

successione temporale secondo una regola determinata, per poter operare<br />

la sussunzione dell’effetto sotto la causa, del caso sotto la regola, del<br />

particolare sotto l’universale empirico (che in realtà non può mai godere<br />

<strong>di</strong> una vera e propria universalità, ma piuttosto soltanto della generalità).<br />

Ricorriamo a un altro esempio, sempre relativo ai <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> dell’esser-causa<br />

<strong>di</strong> una causa, che ci mostrerà, già nella sua formulazione,<br />

come la questione della contingenza e della molteplicità (o pluralità) fenomenica<br />

conduce qui la riflessione <strong>di</strong> Kant nell’ambito delle questioni<br />

che sono all’origine della formulazione leibniziana del principio <strong>di</strong> ragione:<br />

perché il sole scioglie la cera e secca l’argilla? Perché, in un caso,<br />

è causa <strong>di</strong> un fenomeno <strong>di</strong> liquefazione e nell’altro <strong>di</strong> soli<strong>di</strong>ficazione?<br />

L’esempio, <strong>di</strong>scretamente <strong>di</strong>dascalico, fa riferimento a un medesimo fenomeno<br />

assunto come causa e a una <strong>di</strong>fformità irriducibile (ad<strong>di</strong>rittura<br />

opposta) nella serie fenomenica delle conseguenze o degli effetti. Il<br />

mero riferimento al concetto o alla categoria <strong>di</strong> causa – anche se la categoria<br />

<strong>di</strong> causa viene determinata schematicamente in termini <strong>di</strong> successione<br />

del molteplice – non fornisce qui alcuna risposta alla questione<br />

dell’effettività e del perché. E, in effetti, non è un caso che si tratti <strong>di</strong> una<br />

domanda sulla contingenza della cosa, sul suo esser-questo piuttosto-che un<br />

altro, sul suo esser-così piuttosto-che altrimenti; insomma, la classica domanda<br />

della metafisica leibniziana. Vedremo però come la risposta <strong>di</strong> Kant, non<br />

a questa o a quella questione, ma alla domanda o alla questione della<br />

metafisica come tale, <strong>di</strong>verga in modo ra<strong>di</strong>cale da quella, per esempio,<br />

<strong>di</strong> Leibniz.<br />

Da quanto detto fin qui risulta che il Giu<strong>di</strong>zio non svolge, nella terza<br />

Critica, un ufficio meramente applicativo, dato che, prima <strong>di</strong> poter compiere<br />

la sussunzione, e dunque <strong>di</strong> avere un uso determinante, deve preoccuparsi<br />

<strong>di</strong> rinvenire la regola o la legge, riflettendo sul molteplice<br />

intuitivo (empirico) dato. E per far questo, come abbiamo visto, esso<br />

deve richiamarsi ad un principio trascendentale che – come, e però al<br />

tempo stesso in modo del tutto <strong>di</strong>verso, dalle varie leggi che Leibniz deduceva<br />

dal «principio <strong>di</strong> ragione» – gli garantisca l’uniformità, l’omogeneità<br />

e l’affinità dei fenomeni della natura anche dal punto <strong>di</strong> vista<br />

propriamente empirico; vale a <strong>di</strong>re che postuli e presupponga l’esistenza<br />

184<br />

PRINCIPI ECONOMICI DELLA METAFISICA<br />

<strong>di</strong> un accordo della natura, nella sua specificità empirica, con la nostra<br />

facoltà conoscitiva. Questo accordo, sebbene risulti del tutto contingente<br />

agli occhi dell’intelletto (si tratta <strong>di</strong> una conformità a scopi che,<br />

dunque, non è ascrivibile oggettivamente ai fenomeni), si rivela tuttavia<br />

in<strong>di</strong>spensabile per il nostro bisogno <strong>di</strong> ottenere una conoscenza effettiva<br />

e sistematica della natura. Un principio, quin<strong>di</strong>, trascendentale e soggettivo<br />

(e perciò non metafisico, precisa Kant); un principio necessario alla nostra<br />

riflessione sulla natura ma non costitutivo <strong>di</strong> essa (come vuol esserlo,<br />

invece, il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong> Leibniz, con i suoi corollari applicativi:<br />

come, ad esempio, la lex continui o il principio <strong>di</strong> economia); un principio<br />

preliminare ad ogni impresa conoscitiva ma non per questo deputato<br />

alla determinazione conoscitiva dei fenomeni in quanto scopi<br />

oggettivi della natura; una riformulazione del «principio <strong>di</strong> ragione» <strong>di</strong><br />

Leibniz, certo, se non fosse che tale principio non è in senso stretto <strong>di</strong><br />

pertinenza della ragione (oggettiva), quanto piuttosto del Giu<strong>di</strong>zio (nel<br />

suo valore o nella sua funzione soggettiva: un nostro «bisogno», abbiamo<br />

visto). Scrive infatti Kant nel par. V dell’Introduzione definitiva:<br />

La facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio ha dunque in sé, anch’essa, un principio a priori<br />

per la possibilità della natura, ma solo sotto il riguardo soggettivo, me<strong>di</strong>ante<br />

il quale essa prescrive, non però alla natura (in quanto autonomia),<br />

ma a se stessa (in quanto eautonomia), una legge per la riflessione<br />

sulla natura, che potrebbe essere chiamata l e g g e della specificazione<br />

della natura relativamente alle sue leggi empiriche:<br />

una legge che essa non conosce a priori nella natura, ma che ammette<br />

per un suo or<strong>di</strong>ne, conoscibile per il nostro intelletto 4 .<br />

È proprio il carattere soggettivo ma pur sempre trascendentale del concetto<br />

<strong>di</strong> conformità a scopi a <strong>di</strong>stinguerlo sia dai concetti puri (dell’intelletto)<br />

sia dal concetto (razionale) della libertà e dunque a imporre, da un<br />

lato, la sua riconduzione ad una terza facoltà, altra sia dall’intelletto che<br />

dalla ragione, la facoltà riflettente <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio; e, dall’altro, a connetterlo<br />

all’unica rappresentazione «che non può <strong>di</strong>ventare affatto un elemento<br />

<strong>di</strong> conoscenza» 5 , cioè al sentimento <strong>di</strong> piacere o <strong>di</strong>spiacere.<br />

Nella sua attività riflettente, infatti, la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio riconduce il<br />

molteplice empirico delle rappresentazioni date non a un concetto dell’oggetto<br />

per conoscerlo (come nell’uso determinante <strong>di</strong> questa facoltà),<br />

ma al soggetto stesso e al suo stato d’animo. Si tratta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> «verifi-<br />

185


PARTE PRIMA<br />

care» se, preliminarmente ad ogni eventuale determinazione conoscitiva,<br />

questo molteplice empirico possa piacere alle facoltà conoscitive del<br />

soggetto, cioè produrre l’armonizzarsi e l’accordarsi <strong>di</strong> intelletto e immaginazione<br />

tra <strong>di</strong> loro, determinando così un sentimento <strong>di</strong> piacere<br />

nel soggetto: soltanto in questo caso, infatti, le rappresentazioni saranno<br />

considerate e definite come conformi a scopi, ovvero idonee ad essere<br />

utilizzate dal soggetto in vista <strong>di</strong> una conoscenza. La conformità a scopi,<br />

quin<strong>di</strong>, non esprime altro che «l’adeguatezza dell’oggetto rispetto alle<br />

facoltà conoscitive» del soggetto, adeguatezza che a sua volta si esprime<br />

unicamente in un sentimento <strong>di</strong> piacere, legato imme<strong>di</strong>atamente al libero<br />

gioco o libero accordo <strong>di</strong> intelletto e immaginazione sull’occasione <strong>di</strong><br />

una rappresentazione. Ogni nostra conoscenza, quin<strong>di</strong>, richiede che preliminarmente<br />

si sia dato questo accordo estetico (e non logico-conoscitivo)<br />

tra le rappresentazioni e il soggetto, cioè che il molteplice empirico<br />

in esse contenuto si riveli conforme alle nostre facoltà conoscitive, e dunque<br />

atto ad essere schematizzato, determinato, usato conoscitivamente.<br />

In mancanza del placet <strong>di</strong> intelletto e immaginazione nei confronti <strong>di</strong> una<br />

o più rappresentazioni, infatti, l’impresa conoscitiva non potrebbe neanche<br />

muovere i suoi primi passi, poiché la natura e il mondo sarebbero<br />

percepiti come degli aggregati caotici e inquietanti (spaesanti,<br />

aneconomici), del tutto inidonei, dunque, a ricevere un or<strong>di</strong>namento e<br />

un’organizzazione dotata <strong>di</strong> senso.<br />

Sorge così nella terza Critica l’idea <strong>di</strong> un nuovo schematismo che<br />

Kant definisce «libero», poiché in esso l’immaginazione non è più vincolata<br />

al concetto determinato <strong>di</strong> un oggetto, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quanto accadeva<br />

nello schematismo della Critica della ragione pura, in cui il<br />

molteplice intuitivo raccolto dall’immaginazione veniva riportato a uno<br />

dei concetti puri dell’intelletto, vale a <strong>di</strong>re a una categoria, che fungeva<br />

da regola offerta a priori al Giu<strong>di</strong>zio per la costruzione dello schema da<br />

applicare a quello stesso molteplice. Nello schematismo libero, invece,<br />

le nostre facoltà conoscitive si accordano, rispetto alla rappresentazione<br />

data, sulla base <strong>di</strong> una regola indeterminata e indeterminabile, che non può<br />

quin<strong>di</strong> essere espressa me<strong>di</strong>ante concetti ma soltanto me<strong>di</strong>ante un sentimento<br />

<strong>di</strong> piacere o <strong>di</strong>spiacere. Occorre infatti stabilire non quale concetto<br />

corrisponda a quel dato molteplice, ma se, ancor prima <strong>di</strong> ciò, tale<br />

molteplice abbia i requisiti necessari per essere schematizzato sotto concetti:<br />

cioè se sia conforme alle nostre facoltà conoscitive, se piaccia – nel<br />

senso più ampio del termine – all’intelletto e all’immaginazione, se ne<br />

186<br />

PRINCIPI ECONOMICI DELLA METAFISICA<br />

produca e provochi il reciproco armonizzarsi, se possa concorrere a dar<br />

vita a una conoscenza. Si tratta perciò <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione soggettiva del<br />

conoscere che va ad aggiungersi e ad affiancarsi alle con<strong>di</strong>zioni oggettive<br />

<strong>di</strong> possibilità dell’esperienza costituite dalle categorie, o più precisamente<br />

alle leggi trascendentali dell’intelletto puro della prima Critica.<br />

La mancanza però <strong>di</strong> una regola concettuale, che <strong>di</strong>sciplini il libero<br />

gioco delle nostre facoltà conoscitive, non priva forse l’accordo estetico<br />

<strong>di</strong> un fondamento oggettivo, rischiando così <strong>di</strong> fare della nostra conoscenza<br />

un «gioco semplicemente soggettivo delle facoltà rappresentative,<br />

proprio come pretende lo scetticismo» 6 ? Se è infatti il sentimento <strong>di</strong> piacere<br />

o <strong>di</strong>spiacere a fungere da regola – o da unica manifestazione possibile<br />

<strong>di</strong> essa – per il reciproco accordarsi <strong>di</strong> intelletto e immaginazione,<br />

come è possibile superare l’inevitabile e ineliminabile privatezza che caratterizza<br />

il sentimento stesso? Non esiste infatti un criterio oggettivo<br />

per tutte quelle rappresentazioni puramente soggettive che rientrano<br />

nel novero dei «sentimenti», né esse risultano dotate <strong>di</strong> quella comunicabilità<br />

universale che, al contrario, è il criterio in<strong>di</strong>spensabile a ogni conoscenza<br />

per potersi definire come tale. Infatti, come si legge al par. 21:<br />

Conoscenze e giu<strong>di</strong>zi, insieme alla convinzione che li accompagna, si<br />

debbono poter comunicare universalmente, ché altrimenti non spetterebbe<br />

loro alcun accordo con l’oggetto […]. Ma se le conoscenze si<br />

debbono poter comunicare, allora si deve poter comunicare universalmente<br />

anche lo stato dell’animo, vale a <strong>di</strong>re la <strong>di</strong>sposizione all’accordo<br />

delle facoltà conoscitive per una conoscenza in genere, e precisamente<br />

quella proporzione che si ad<strong>di</strong>ce a una rappresentazione (me<strong>di</strong>ante cui ci<br />

è dato un oggetto), per farne una conoscenza, perché senza questa proporzione,<br />

come con<strong>di</strong>zione soggettiva del conoscere, la conoscenza,<br />

quale effetto, non potrebbe nascere [c.vi miei] 7 .<br />

L’accordo estetico, quin<strong>di</strong>, per quanto non possa né debba riposare<br />

su un concetto determinato dell’intelletto, dunque su <strong>di</strong> un fondamento<br />

oggettivo, deve ciò nonostante avere una vali<strong>di</strong>tà universalmente soggettiva,<br />

non limitata cioè al singolo soggetto in cui si produce. Di conseguenza,<br />

il sentimento che <strong>di</strong> tale accordo è, allo stesso tempo, regola ed<br />

effetto – in quanto esprime lo stato d’animo del soggetto – deve essere<br />

dotato <strong>di</strong> comunicabilità universale, e cioè «pretendere», «aspirare» alla con<strong>di</strong>visione<br />

da parte <strong>di</strong> ogni altro giu<strong>di</strong>cante. Ciò è possibile soltanto se il<br />

187


PARTE PRIMA<br />

sentimento <strong>di</strong> piacere o <strong>di</strong>spiacere si lega imme<strong>di</strong>atamente al libero gioco<br />

delle nostre facoltà conoscitive, <strong>di</strong>scendendo cioè in maniera <strong>di</strong>retta dall’accordo<br />

<strong>di</strong> intelletto e immaginazione, affrancato dall’influenza <strong>di</strong> qualunque<br />

concetto o inclinazione soggettiva particolare. Laddove il<br />

giu<strong>di</strong>zio estetico raggiunga una totale liberazione, allora esso riposerà<br />

unicamente sull’universalità delle con<strong>di</strong>zioni soggettive della riflessione che<br />

sono con<strong>di</strong>vise da ogni giu<strong>di</strong>cante umano. Infatti, come afferma Kant<br />

nel par. 9:<br />

Una rappresentazione che, in quanto singola e senza che la si paragoni<br />

con altre, presenti tuttavia un’armonia rispetto a quelle con<strong>di</strong>zioni dell’universalità,<br />

ciò che costituisce il compito dell’intelletto in genere,<br />

mette le facoltà conoscitive in una proporzionata <strong>di</strong>sposizione all’accordo,<br />

quale noi richie<strong>di</strong>amo per ogni conoscenza e perciò anche riteniamo<br />

valida per chiunque sia destinato a giu<strong>di</strong>care con l’intelletto e i<br />

sensi congiunti tra <strong>di</strong> loro (per ogni uomo) 8 .<br />

Il sentimento che è in gioco nel giu<strong>di</strong>zio estetico, quin<strong>di</strong>, ha una natura<br />

molto particolare: pur essendo certamente soggettivo, in quanto riconduce<br />

il molteplice intuitivo allo stato d’animo del soggetto e non<br />

all’oggetto, è dotato tuttavia <strong>di</strong> una vali<strong>di</strong>tà più che soggettiva, o meglio <strong>di</strong><br />

universalità soggettiva; inoltre, per quanto sia singolare, ovvero non esplicitabile<br />

me<strong>di</strong>ante concetti, ha nel contempo una valenza pubblica, l’aspirazione<br />

cioè a definirsi comune in ogni altro uomo, con<strong>di</strong>visibile da tutti i<br />

giu<strong>di</strong>canti. Un sentimento, quin<strong>di</strong>, comunitario, come ha scelto molto appropriatamente<br />

<strong>di</strong> tradurre «sensus communis» Hannah Arendt, per<br />

metterne maggiormente in luce il carattere pubblico e intersoggettivo (e<br />

quin<strong>di</strong>, implicitamente ma anche costitutivamente politico). Ma: che<br />

cosa rende legittimo, anzi inevitabile, presupporne l’esistenza? A fondamento<br />

dell’idea che esista qualcosa come un senso comune, cioè una<br />

modalità <strong>di</strong> organizzazione estetico-economica del reale con<strong>di</strong>visa da<br />

ogni giu<strong>di</strong>cante umano, vi è in Kant la convinzione che si <strong>di</strong>a – e non<br />

possa non darsi – all’occasione <strong>di</strong> ciascuna rappresentazione intuitiva, un<br />

proporzionamento <strong>di</strong> intelletto e immaginazione «in cui questo interno<br />

rapporto per il ravvivamento (dell’una facoltà con l’altra) sia il più favorevole<br />

possibile [c.vo mio] per entrambe le facoltà dell’animo rispetto a<br />

una conoscenza (<strong>di</strong> oggetti dati) in genere» 9 . Ciò implica che qualunque<br />

uomo, essendo dotato delle medesime facoltà conoscitive <strong>di</strong> ogni altro,<br />

188<br />

PRINCIPI ECONOMICI DELLA METAFISICA<br />

laddove faccia astrazione dalle componenti private e personali del giu<strong>di</strong>care,<br />

perverrà a un accordo estetico estremamente simile a quello degli<br />

altri, con<strong>di</strong>visibile, comprensibile e comunicabile quin<strong>di</strong> all’intera comunità<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>canti. Questa operazione astrattiva, che è alla base del<br />

giu<strong>di</strong>care estetico – dello schematizzare senza concetto, proprio della<br />

facoltà riflettente <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio – e che costituisce anche la fonte dell’universalità<br />

soggettiva del libero gioco <strong>di</strong> intelletto e immaginazione, rientra<br />

ad<strong>di</strong>rittura nella definizione stessa del senso comune, come si vede<br />

chiaramente nel par. 40:<br />

Ma con sensus communis, si deve intendere l’idea <strong>di</strong> un senso che a b -<br />

biamo in comune, cioè <strong>di</strong> una facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care che nella sua<br />

riflessione ha riguardo (a priori) nel pensiero al modo rappresentativo<br />

<strong>di</strong> ogni altro, per metterne a fronte, per così <strong>di</strong>re, il suo giu<strong>di</strong>zio con la<br />

ragione umana nel suo complesso 10 .<br />

Il senso comune, perciò, è la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care «mettendosi al posto<br />

<strong>di</strong> ogni altro», così da confrontare il proprio giu<strong>di</strong>zio con i giu<strong>di</strong>zi effettivi,<br />

ma anche con quelli semplicemente possibili, <strong>di</strong> ogni altro uomo,<br />

astraendo in tal modo «dalle limitazioni che ineriscono contingentemente<br />

al nostro proprio giu<strong>di</strong>zio» 11 . È proprio la mancanza <strong>di</strong> una regola<br />

precisa e determinata nel giu<strong>di</strong>care <strong>di</strong> tipo estetico che impone <strong>di</strong><br />

perseguire la comunicabilità universale delle rappresentazioni in e da<br />

esso prodotte me<strong>di</strong>ante il riferimento «ampliato» al modo <strong>di</strong> pensare e<br />

<strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care degli altri uomini, vale a <strong>di</strong>re me<strong>di</strong>ante il ricorso alla nozione<br />

<strong>di</strong> universalità soggettiva. Dato che l’accordo estetico non può infatti<br />

godere <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>tà oggettiva, essendo legato unicamente al soggetto e<br />

non al concetto <strong>di</strong> un oggetto, l’inevitabile marca soggettiva delle sue<br />

produzioni, dunque dei sentimenti che da tale accordo <strong>di</strong>scendono, non<br />

può essere superata altrimenti che «ampliando» la propria facoltà rappresentativa,<br />

così da eliminare progressivamente tutte le componenti<br />

private e particolari contenute in essa. Soltanto un modo <strong>di</strong> pensare<br />

ampio – nel quale cioè il soggetto «si pone al <strong>di</strong> sopra delle con<strong>di</strong>zioni<br />

soggettive private del giu<strong>di</strong>zio, entro le quali molti altri sono come bloccati,<br />

e riflette sul suo proprio giu<strong>di</strong>zio da un punto <strong>di</strong> vista universale (che<br />

egli può determinare solo mettendosi dal punto <strong>di</strong> vista degli altri)» 12 –<br />

è in grado <strong>di</strong> rendere il nostro pensiero e i suoi prodotti (sempre più)<br />

universalmente comunicabili, dunque convertibili in future conoscenze.<br />

189


PARTE PRIMA<br />

Tanto che Kant giunge a definire il senso comune come «la facoltà <strong>di</strong><br />

giu<strong>di</strong>care ciò che, in una rappresentazione data, rende il nostro sentimento<br />

universalmente comunicabile senza me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong> un concetto» 13 ;<br />

e, poco più avanti, come «la facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care a priori la comunicabilità<br />

universale dei sentimenti che sono legati a una rappresentazione data<br />

(senza me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong> un concetto)» 14 : come se, in altre parole, il soggetto<br />

selezionasse e trattenesse soltanto quelle componenti delle nostre<br />

rappresentazioni estetico-economiche del mondo dotate <strong>di</strong> un grado<br />

più elevato <strong>di</strong> comunicabilità universale, e dunque percepite come maggiormente<br />

con<strong>di</strong>visibili dalla comunità dei giu<strong>di</strong>canti, per farne elementi<br />

adoperabili a fini conoscitivi.<br />

Ovviamente, per quanto nel giu<strong>di</strong>care estetico si cerchi <strong>di</strong> approssimarsi<br />

a quella proporzione ideale delle nostre facoltà conoscitive che<br />

più si ad<strong>di</strong>ce a una conoscenza in genere, dunque a un senso che sia<br />

davvero comune e comunitario, cioè valido per ogni altro uomo, tale<br />

proporzionamento, <strong>di</strong> cui questo sentire pubblico e intersoggettivo dovrebbe<br />

sostanziarsi, non è che un’idea, un ideale regolativo incapace <strong>di</strong><br />

fissarsi in una regola concettuale determinata, e mai guadagnabile (o<br />

guadagnato), istituzionalizzabile, costituibile o costituzionalizzabile, in<br />

maniera definitiva. Dunque un sentimento e un’idea nel medesimo<br />

tempo, una nozione ibrida: qualcosa che appartiene, cioè, tanto al<br />

mondo sensibile quanto a quello intelligibile, quasi un «terzo genere»<br />

come la chora platonica – in grado, forse, <strong>di</strong> me<strong>di</strong>are tra il dominio <strong>di</strong><br />

concetti della natura e quello della libertà, tra la physis e la praxis, senza<br />

per questo annullare l’insopprimibile <strong>di</strong>stanza che le separa, senza tentare<br />

<strong>di</strong> colmare l’abisso che le <strong>di</strong>vide. La facoltà riflettente <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, col<br />

suo principio, ci autorizza infatti a considerare gli oggetti dei sensi in<br />

un modo nuovo, <strong>di</strong>verso dalla «conformità a leggi» <strong>di</strong> stampo meccanicistico<br />

tipica dell’intelletto, e analogo invece per molti aspetti al modo<br />

<strong>di</strong> pensare secondo il concetto della libertà e dello scopo finale propri<br />

della ragione. Comprendere gli oggetti sensibili al pari <strong>di</strong> scopi (soggettivi<br />

e non oggettivi però!), fare via via astrazione dalle componenti sensibili,<br />

private e contingenti del nostro modo <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care, tentare <strong>di</strong><br />

elevarsi fino a un punto <strong>di</strong> vista universale, che coinciderebbe con l’idea<br />

dell’umanità intera, col fondamento soprasensibile che riunisce, o meglio,<br />

tiene insieme la duplice natura umana (quella sensibile, vale a <strong>di</strong>re<br />

l’essere-oggetto della natura come ogni altro fenomeno, e quella intelligibile,<br />

cioè la natura morale del soggetto umano): tutto ciò è ufficio<br />

190<br />

della facoltà riflettente <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio e del senso comune, dunque dell’esperienza<br />

estetica. Del resto, come scrive lo stesso Kant nel par. 42:<br />

Poiché inoltre interessa la ragione che le idee […] abbiano anche realtà<br />

oggettiva, cioè che la natura mostri almeno una traccia o <strong>di</strong>a cenno <strong>di</strong><br />

contenere in sé un qualche principio per ammettere un accordo conforme<br />

a leggi dei suoi prodotti rispetto al nostro compiacimento […]<br />

in<strong>di</strong>pendente da ogni interesse, allora la ragione deve avere un interesse<br />

per ogni manifestazione della natura <strong>di</strong> un accordo simile a quello; <strong>di</strong><br />

conseguenza l’animo non può me<strong>di</strong>tare sulla bellezza della natura<br />

senza trovarvisi nello stesso tempo interessato 15 .<br />

L’esperienza estetica, quin<strong>di</strong>, ha una conseguenza molto importante<br />

sul piano della vita morale dell’uomo: avvicina l’uomo all’uomo, cioè il<br />

singolo giu<strong>di</strong>cante all’intera umanità, in vista <strong>di</strong> quel fondamento soprasensibile<br />

dell’essere umano che può essere colto, forse, soltanto nella<br />

sua destinazione morale. Per questo motivo, Kant definisce nel par. 59<br />

il «bello» come simbolo del bene morale per concludere poi la sezione<br />

de<strong>di</strong>cata alla Critica della facoltà estetica <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio con queste parole:<br />

il gusto è in fondo una facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care la presentazione sensibile <strong>di</strong> idee morali<br />

(me<strong>di</strong>ante una certa analogia della riflessione su entrambe), dalle quali,<br />

e dalla maggiore ricettività, da fondare su quelle idee morali, nei riguar<strong>di</strong><br />

del sentimento che ne nasce (che si chiama sentimento morale), si deriva<br />

anche quel piacere che il gusto <strong>di</strong>chiara valido per l’umanità in genere,<br />

non semplicemente per il sentimento privato <strong>di</strong> ognuno [c.vi miei] 16 .<br />

Pur rimanendone intatte le aspirazioni più profonde, più antiche (e<br />

sicuramente anche più sincere), dopo la filosofia <strong>di</strong> Kant, la vecchia metafisica<br />

appare ridotta a uno stato <strong>di</strong> rovina. Così la ritroverà, e la descriverà,<br />

Hegel quando, iniziando il suo cammino <strong>di</strong> pensiero, tenterà <strong>di</strong><br />

riattivarne un’intenzione ancora più remota sfuggita alla critica kantiana.<br />

_______________<br />

1 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, cit., p. 15.<br />

2 Ibidem.<br />

3 Ivi, p. 19.<br />

PRINCIPI ECONOMICI DELLA METAFISICA<br />

191


PARTE PRIMA<br />

4 Ivi, p. 21.<br />

5 Ivi, p. 25.<br />

6 Ivi, p. 74.<br />

7 Ibidem.<br />

8 Ivi, p. 54.<br />

9 Ivi, p. 74.<br />

10 Ivi,p. 130.<br />

11 Ibidem.<br />

12 Ivi, p. 131.<br />

13 Ivi, p. 132.<br />

14 Ibidem.<br />

15 Ivi, p. 136.<br />

16 Ivi, p. 190.<br />

192<br />

Hegel. La metafisica come scienza della logica<br />

Norimberga, 22 marzo 1812. Hegel firma la Prefazione alla prima<br />

e<strong>di</strong>zione della Scienza della logica. E subito, nella sequenza <strong>di</strong> tre capoversi,<br />

comincia con il lamentare tre cose:<br />

1) «La completa trasformazione che da circa venticinque anni» è avvenuta<br />

nella filosofia tedesca «non ha avuto finora che uno scarso influsso<br />

sulla forma della logica».<br />

2) Quello che prima si chiamava metafisica è stato, per così <strong>di</strong>re, estirpato<br />

fin dalla ra<strong>di</strong>ce.<br />

3) La dottrina exoterica della filosofia kantiana, – che cioè l’intelletto<br />

non possa oltrepassare l’esperienza giacché altrimenti la facoltà conoscitiva<br />

si muterebbe in quella ragione teoretica che <strong>di</strong> per sé non metterebbe<br />

al mondo che sogni, ha giustificato, dal punto <strong>di</strong> vista scientifico,<br />

la rinuncia al pensare speculativo 1 .<br />

Curioso destino! Se nel 1812, Hegel apriva la sua Scienza della logica denunciando<br />

l’avvenuta <strong>di</strong>saffezione – se non la fine – della metafisica<br />

(«dove si ascoltano più, o dove si posson più ascoltare le voci dell’antica<br />

ontologia […]?» 2 ), nel 1927 Heidegger iniziava la sua Introduzione a<br />

Essere e tempo con queste parole: «Benché la rinascita della “metafisica”<br />

sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi <strong>di</strong>menticato»<br />

3 .<br />

E tuttavia, per entrambi, l’esigenza che doveva promuovere l’indagine<br />

filosofica era quella <strong>di</strong> far uscire dal silenzio «le voci dell’antica ontologia»,<br />

<strong>di</strong> far risorgere dall’oblio il «senso dell’essere»: un’esigenza in<br />

realtà ricorrente, l’abbiamo visto, in tutti i gran<strong>di</strong> autori che, prima <strong>di</strong><br />

Hegel, si erano mossi sulle tracce <strong>di</strong> quella «scienza ricercata» che<br />

Aristotele aveva lasciato senza nome. Così era capitato a Leibniz e, a modo<br />

suo, anche a Kant. Ma restiamo a Hegel.<br />

Il richiamo all’«antica metafisica» nell’apertura <strong>di</strong> un testo intitolato<br />

Scienza della logica ci permette <strong>di</strong> intuire da subito quale dovrà essere la<br />

posta in gioco nell’opera hegeliana: quella, cioè, <strong>di</strong> intrecciare <strong>di</strong> nuovo<br />

193


PARTE PRIMA<br />

– dopo la <strong>di</strong>struzione kantiana – il sapere della logica a quello dell’ontologia,<br />

<strong>di</strong> legarle nuovamente tra loro. E nel far <strong>di</strong>pendere le sorti dell’una<br />

da quelle dell’altra, trovare così anche quell’unità – che Hegel<br />

rintraccerà nella <strong>di</strong>alettica – <strong>di</strong> essenza ed esistenza, <strong>di</strong> essere e azione,<br />

<strong>di</strong> ontologia e praxis: quell’unità in cui abbiamo riconosciuto il motivo<br />

più costante dell’oikonomia.<br />

Nell’intenzione hegeliana <strong>di</strong> «riabilitare» la «filosofia antica», non si<br />

trattava però tanto <strong>di</strong> «richiamarla dall’esilio», come voleva e come scriveva<br />

Leibniz, lo si ricorderà, nel Discorso <strong>di</strong> metafisica; e nemmeno, come<br />

si era riproposto <strong>di</strong> fare Kant, <strong>di</strong> de-limitarla, <strong>di</strong> contenerne le pretese,<br />

<strong>di</strong> riassumerla entro confini «ragionevoli». La Scienza della logica si poneva<br />

il compito <strong>di</strong> rivalutare e <strong>di</strong> risolvere, nella verità del nuovo mondo<br />

spirituale, quel sapere – e soprattutto le sue antiche origini – che sotto<br />

il nome pseudo-aristotelico <strong>di</strong> metafisica, egli vedeva ormai ridotto a<br />

una rovina.<br />

Nell’atteggiamento che guida un simile proposito – che dunque non<br />

ha nulla <strong>di</strong> generico o <strong>di</strong> estrinseco – riconosciamo già l’operazione che<br />

costituisce il principio fondante della logica o dell’onto-logia <strong>di</strong>alettica <strong>di</strong><br />

Hegel: il movimento <strong>di</strong> quell’aufheben che consiste nel «sollevare» o «rilevare»<br />

qualcosa da un incarico e renderlo <strong>di</strong>sponibile per un nuovo<br />

ruolo; in una ripresa che al tempo stesso è una rimozione, in un innalzamento<br />

che è insieme una messa in liquidazione. Ma, ecco la domanda<br />

che ci si fa subito incontro: perché chiamare questa Aufhebung della tra<strong>di</strong>zione<br />

della metafisica «scienza della logica»?<br />

In questa domanda avvertiamo l’eco <strong>di</strong> un richiamo in <strong>di</strong>rezione del<br />

quale, nel corso <strong>di</strong> questa ricerca, ci siamo sforzati <strong>di</strong> rimanere costantemente<br />

in ascolto. Tale richiamo riguarda il rapporto, la questione del<br />

rapporto, tra l’ontologia e la logica, tra l’«essere» e il «pensare». Per comprendere<br />

però il modo il cui tale questione risuona nella filosofia <strong>di</strong><br />

Hegel, ripetiamo la domanda che mira a introdurci nel cuore della sua<br />

ontologia <strong>di</strong>alettica: perché chiamare questo «rilevamento» della tra<strong>di</strong>zione<br />

della metafisica Scienza della logica?<br />

La prima cosa che dovremo notare, per rispondere a un simile interrogativo,<br />

è che nella filosofia <strong>di</strong> Hegel è all’opera una trasformazione<br />

ra<strong>di</strong>cale del nesso che, nella tra<strong>di</strong>zione della metafisica precedente, aveva<br />

definito i rapporti tra logica e ontologia. Negli anni del suo primo insegnamento<br />

a Jena, e nelle opere scritte in quel periodo, questo nesso era<br />

inteso e impostato da Hegel in modo sostanzialmente convenzionale. In<br />

194<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

quanto «sapere finito» la logica precede la filosofia speculativa e costituisce<br />

un’<strong>introduzione</strong> a quel sapere razionale, a quel conoscere infinito<br />

rappresentato dalla tra<strong>di</strong>zione della metafisica. Dopo la stesura della<br />

Fenomenologia dello spirito, tutto, però, si capovolge. Come, perché avviene,<br />

e che cosa comporta questo capovolgimento? Sono queste le domande<br />

entro cui ci tratterremo in questo capitolo, leggendo e commentando<br />

qualche passo dell’Introduzione alla Scienza della logica che ha per titolo:<br />

Concetto generale della logica.<br />

Il senso <strong>di</strong> questo rivolgimento si può in<strong>di</strong>care in via preliminare<br />

così: nel pensiero <strong>di</strong> Hegel, non si danno più due scienze o due saperi<br />

separati – uno finito, l’altro infinito – congiunti solo estrinsecamente<br />

tra loro in termini propedeutici (quanto problematici, l’abbiamo sottolineato<br />

a più riprese); nel suo pensiero, la logica deve comprendersi come<br />

scienza metafisica e la metafisica come scienza della logica; più precisamente,<br />

quella che Hegel chiamerà «logica oggettiva» – e cioè la dottrina dell’essere<br />

e dell’essenza – si identifica per lui con ciò che la tra<strong>di</strong>zione chiamava<br />

«ontologia»: la scienza dell’«essere in quanto essere», secondo le<br />

parole <strong>di</strong> Aristotele.<br />

Attraverso questa identificazione, Hegel recupera e reimposta in<br />

modo nuovo un tratto che abbiamo visto attraversare l’intera storia della<br />

metafisica: quel rapporto tra essere e pensiero, segnato come identità –<br />

il to auto <strong>di</strong> Parmenide – all’alba del mondo greco.<br />

Da un lato, dunque, si tratta <strong>di</strong> un recupero, <strong>di</strong> una ripresa, <strong>di</strong> un<br />

«passo in<strong>di</strong>etro». Questa tensione all’identità o all’identificazione è infatti<br />

un dato attestato dalla tra<strong>di</strong>zione dell’onto-logia che ci siamo incaricati<br />

<strong>di</strong> sottolineare in numerose occasioni. Ricor<strong>di</strong>amone qualcuna. Si può<br />

forse trascurare, ad esempio, la portata onto-logica che il principio <strong>di</strong><br />

identità (o <strong>di</strong> non contrad<strong>di</strong>zione) assolve nella metafisica <strong>di</strong> Aristotele?<br />

Certamente no. E ancora: si può forse rispondere in modo univoco alla<br />

domanda se il «principio <strong>di</strong> ragione» <strong>di</strong> Leibniz sia un principio logico<br />

od ontologico? Anche in questo caso abbiamo visto come la risposta<br />

debba essere negativa, dato che il principio <strong>di</strong> ragione intende appunto<br />

essere l’una e l’altra cosa insieme – in questo senso proprio come le<br />

con<strong>di</strong>zioni logico-trascendentali <strong>di</strong> possibilità dell’esperienza <strong>di</strong> Kant,<br />

in quanto con<strong>di</strong>zioni dell’oggettività in generale. Questo, da un lato.<br />

Dall’altro lato, però, questo «insieme», questa unificazione <strong>di</strong> logica e<br />

metafisica, <strong>di</strong> conoscenza finita e sapere speculativo era rimasta, agli<br />

occhi <strong>di</strong> Hegel, estrinseca e incompiuta. È questo carattere <strong>di</strong> esteriorità<br />

195


PARTE PRIMA<br />

che l’onto-logia <strong>di</strong>alettica <strong>di</strong> Hegel intende sciogliere. Non certo arretrando,<br />

ma piuttosto oltrepassando la filosofia critica kantiana con un passo<br />

all’in<strong>di</strong>etro.<br />

In quei «venticinque anni» richiamati da Hegel nella prima riga della<br />

prima Prefazione alla Scienza della logica, era infatti accaduto qualcosa <strong>di</strong><br />

non poco momento. Era accaduto cioè che «la dottrina exoterica della<br />

filosofia kantiana» aveva tracciato un confine ben sorvegliato tra la logica<br />

e l’ontologia, tra i principi dell’intelletto e quelli della ragione. E se<br />

è da quella de-limitazione che Hegel deve ripartire per ricucire quello<br />

strappo che aveva ridotto la metafisica in una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> rovina, è notevole<br />

osservare come – insieme con e contro lo stesso Kant – sarà proprio<br />

la Dialettica kantiana a fornirgli un lasciapassare tanto imprevisto<br />

quanto decisivo.<br />

Per il momento possiamo già intuire come una simile operazione<br />

comporti una trasformazione ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong> entrambe le <strong>di</strong>scipline che si<br />

trovano nuovamente <strong>di</strong> fronte, e premono per un riconoscimento reciproco.<br />

Dopo il loro <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o – o il loro <strong>di</strong>vorzio critico, addolcito fin<br />

che si vuole dalla relazione favorevole del «Giu<strong>di</strong>zio» kantiano – la logica<br />

e l’ontologia entrano <strong>di</strong> nuovo in relazione, o meglio in collisione<br />

e, come subito vedremo, si <strong>di</strong>struggono l’un l’altra, saldandosi e identificandosi<br />

tra loro in qualcosa <strong>di</strong> ine<strong>di</strong>to.<br />

Una simile operazione <strong>di</strong> identificazione-<strong>di</strong>struzione-superamento<br />

ritrae quel movimento onto-logico <strong>di</strong>alettico che – descritto nel suo<br />

esporsi in figure logico-fenomenologiche nella Fenomenologia dello spirito<br />

– si fa centro tematico della Scienza della logica. È chiaro che, se la metafisica<br />

si riforma o si trasforma in «scienza della logica», essa non sarà più<br />

riconoscibile nel profilo <strong>di</strong> quel sapere che dall’aristotelismo scolastico,<br />

attraverso Leibniz e Wolff, giunge fino a Kant – per essere da quest’ultimo<br />

<strong>di</strong>strutta e rifondata in termini <strong>di</strong> filosofia critica; e come al tempo<br />

stesso la logica non sarà più riconducibile a quell’«organo» che – come<br />

<strong>di</strong>ceva la Critica della ragione pura – era stato «stabilizzato» da Aristotele e<br />

dopo <strong>di</strong> allora era rimasto sostanzialmente immutato, in quanto definitivamente<br />

compiuto. Il sapere speculativo che «riesce» o «risulta» dalla<br />

Scienza della logica <strong>di</strong> Hegel non sarà più né la metafisica <strong>di</strong> Leibniz e <strong>di</strong><br />

Wolff – che pure, senza però riuscirvi, avevano tentato <strong>di</strong> risolvere l’ontologia<br />

in un’onto-logica – né la logica aristotelica: sarà altro.<br />

Questo altro, a giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Heidegger, si avvicina alla moderna filosofia<br />

fenomenologia che Husserl inaugurerà o riporterà in auge all’ini-<br />

196<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

zio del Novecento, e Heidegger stesso riformulerà – almeno fino a un<br />

certo punto del suo cammino <strong>di</strong> pensiero – in termini <strong>di</strong> «ontologia fondamentale».<br />

E, a questo proposito, mi piace richiamare un passo del suo<br />

corso sulla Logica (1925-1926). Dove Heidegger scrive:<br />

L’espressione fenomenologia non è un’invenzione <strong>di</strong> Husserl, ma è più<br />

antica, risalendo al tempo dell’illuminismo; anche Kant la usa qualche<br />

volta; l’espressione è <strong>di</strong>venuta famosa grazie all’opera hegeliana intitolata<br />

Fenomenologia dello spirito. Abitualmente si <strong>di</strong>ce che la fenomenologia<br />

o<strong>di</strong>erna non abbia nulla a che fare con quella hegeliana. Le cose non<br />

sono così semplici. La fenomenologia o<strong>di</strong>erna ha, per esprimerci con<br />

una certa cautela, molto a che fare molto con Hegel, non con la fenomenologia,<br />

ma con quella che Hegel in<strong>di</strong>cava come logica. Tale logica<br />

può essere identificata, con certe riserve, con l’o<strong>di</strong>erna ricerca fenomenologica<br />

4 .<br />

In questo passo, Heidegger avvicina la logica <strong>di</strong> Hegel all’o<strong>di</strong>erna fenomenologia.<br />

Questa in<strong>di</strong>cazione segnala del resto una prossimità che<br />

si rivelerà effettiva e documentabile soprattutto in alcuni sviluppi della<br />

filosofia fenomenologica francese – tra gli altri, nel primo Derrida e in<br />

Nancy, autore quest’ultimo <strong>di</strong> un saggio su Hegel a cui tra poco faremo<br />

riferimento. In ogni caso possiamo almeno fin qui <strong>di</strong>re che, con la «traduzione»<br />

della vecchia metafisica nella nuova «scienza della logica»,<br />

Hegel apre una nuova epoca, inaugura – come <strong>di</strong>rà proprio Nancy – «il<br />

mondo contemporaneo».<br />

Come però sempre succede, almeno nel campo della filosofia, ogni<br />

passo in avanti è reso possibile da un passo in<strong>di</strong>etro (anche in Leibniz<br />

era accaduto qualcosa <strong>di</strong> simile, e forse già in Aristotele): una decostruzione<br />

o flui<strong>di</strong>ficazione della tra<strong>di</strong>zione consolidata e un tentativo <strong>di</strong> ritornare<br />

alla domanda che l’aveva inaugurata. Questo gesto – che<br />

abbiamo scorto anche in Nietzsche – è comune a Hegel e a Heidegger,<br />

il quale in Essere e tempo parlerà <strong>di</strong> una Destruktion della metafisica capace<br />

<strong>di</strong> rendere nuovamente «flui<strong>di</strong>» i concetti dell’«ontologia antica», e<br />

<strong>di</strong> «risalire alle esperienze originarie» o ai «certificati <strong>di</strong> nascita» delle<br />

prime determinazioni <strong>di</strong> quei concetti 5 . Come e <strong>di</strong>versamente da<br />

Heidegger, anche Hegel compie un simile «passo in<strong>di</strong>etro». Ritorna alle<br />

questioni aperte dalla «vecchia metafisica» platonico-aristotelica; e si<br />

spinge anche più in<strong>di</strong>etro, fino a Parmenide e a quell’identità <strong>di</strong> essere e pen-<br />

197


PARTE PRIMA<br />

siero che, sotto varie declinazioni e con <strong>di</strong>verse inflessioni, si era imposta<br />

come filo conduttore dell’onto-logia: quel filo che nella modernità<br />

Hegel intende riprendere e intrecciare <strong>di</strong> nuovo in modo nuovo.<br />

Questo è il primo, decisivo momento dell’operazione che Hegel intendeva<br />

compiere: «rilevare» l’ontologia e la logica antica in quella nuova<br />

onto-logica che egli chiamerà «scienza della logica»; e vedremo tra non<br />

molto come il vettore <strong>di</strong> questo rilevamento sarà rappresentato dalla<br />

<strong>di</strong>alettica. Il secondo momento essenziale, in vista <strong>di</strong> una simile rifondazione<br />

della metafisica, è costituito dalla ripresa e ra<strong>di</strong>calizzazione, da<br />

parte <strong>di</strong> Hegel, della filosofia <strong>di</strong> Kant, la quale aveva condotto all’«in<strong>di</strong>viduazione»<br />

<strong>di</strong> quella «logica trascendentale» a partire da cui si erano<br />

resi possibili un trapianto e una rifondazione, su basi critiche, della tematica<br />

dell’ontologia antica. Il terzo momento è rappresentato dai risultati<br />

che Hegel stesso aveva raggiunto qualche anno prima con la<br />

composizione della Fenomenologia dello Spirito (1807). Analizziamo uno<br />

per uno questi tre momenti.<br />

1) Iniziamo dal primo, citando <strong>di</strong>rettamente le parole <strong>di</strong> Hegel<br />

La vecchia metafisica aveva […] un concetto più alto del pensiero, che<br />

non quello ch’è venuto <strong>di</strong> moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base<br />

che quello, che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose, fosse<br />

il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella<br />

metafisica, non erano quin<strong>di</strong> le cose nella loro imme<strong>di</strong>atezza, ma soltanto<br />

le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate.<br />

Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del<br />

pensiero non fossero un che <strong>di</strong> estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la<br />

loro essenza, ossia che le cose e il pensar le cose […] coincidessero in<br />

sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti, e la vera<br />

natura delle cose, fossero un solo e medesimo contenuto 6 .<br />

Il pensiero non consiste nel <strong>di</strong>sporre o elaborare un insieme <strong>di</strong> regole<br />

formali contrapposte a oggetti già dati, ma nel condurre al manifestarsi<br />

delle cose stesse nelle proprie «determinazioni immanenti». Già solo da<br />

questo si scorge come la logica <strong>di</strong> Hegel sia una sorta <strong>di</strong> fenomenologia<br />

ontologica, come aveva ben visto Heidegger. Ma, per maggiore chiarezza,<br />

si possono citare in proposito le parole del «fenomenologo»<br />

Jean-Luc Nancy dal suo saggio su Hegel:<br />

198<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

Il sapere non sarà quin<strong>di</strong> una rappresentazione (Vorstellung: posizione <strong>di</strong><br />

un soggetto <strong>di</strong> fronte a un soggetto-del-sapere […]), ma una presentazione<br />

(Darstellung: “posizione là”, collocazione e messa in scena, esposizione,<br />

insorgere dell’essere-soggetto in quanto tale) e, <strong>di</strong> conseguenza,<br />

la negazione <strong>di</strong> ogni presenza data, sia essa <strong>di</strong> un “oggetto” o <strong>di</strong> un<br />

“soggetto”. Non la presenza data, ma il dono della presenza, questa è<br />

la questione 7 .<br />

Il sapere non è dunque «rappresentazione» («posizione <strong>di</strong> un soggetto<br />

<strong>di</strong> fronte a un soggetto-del-sapere») ma piuttosto presentazione o<br />

esposizione, e quin<strong>di</strong> negazione <strong>di</strong> ogni presenza già data, tanto <strong>di</strong> un<br />

oggetto, quanto <strong>di</strong> un soggetto. Proprio come «essere» e «pensiero», in<br />

questa ripresa hegeliana <strong>di</strong> Parmenide, non si fronteggiano come due<br />

assi o <strong>di</strong>rettrici contrapposte, ma si identificano pienamente. Sono, o<br />

meglio, <strong>di</strong>vengono «uno stesso» (to auto) in quanto passano l’uno nell’altro<br />

<strong>di</strong>ssolvendo ciascuno la sostanza o l’istanza dell’altro. Sotto il<br />

nome <strong>di</strong> logica, Hegel ritorna così alla sorgente del logos, <strong>di</strong> ciò che, a partire<br />

da Parmenide, costituisce la «logica» filosofica.<br />

Questo nuovo ritorno all’origine, come ho detto, è stato reso possibile<br />

da due acca<strong>di</strong>menti, che più su ho in<strong>di</strong>cato come il secondo e terzo<br />

momento; e cioè: la scoperta da parte <strong>di</strong> Kant della logica trascendentale<br />

(<strong>di</strong> quei principi dell’intelletto puro che definiscono le con<strong>di</strong>zioni<br />

dell’oggettività in generale), e l’evento <strong>di</strong> quella «esperienza della coscienza»<br />

cui Hegel ha dato il nome <strong>di</strong> Fenomenologia dello spirito. Ecco<br />

come Hegel richiama, nella sua Introduzione alla Scienza della logica, il<br />

momento rappresentato dalla scoperta kantiana. Leggiamo qualche<br />

passo e commentiamolo.<br />

2) «La filosofa critica aveva per vero <strong>di</strong>re già trasformata la metafisica<br />

in logica». Con Kant la scienza dell’ente in quanto ente si era in verità già<br />

risolta in scienza della logica (e dopotutto, era questa la strada che anche<br />

Leibniz aveva cercato <strong>di</strong> seguire, pur senza riuscirvi). Il limite della stessa<br />

filosofia critica – un limite secondo Hegel presente anche nell’idealismo<br />

successivo – consisteva però nel non aver realizzato fino in fondo questa<br />

trasformazione o risoluzione. E ciò, proprio per non aver compreso<br />

e messo a tema l’operazione e il senso (logico-ontologico) <strong>di</strong> una simile<br />

«risoluzione» – e cioè il movimento dell’Aufhebung. Riprendo la citazione:<br />

199


PARTE PRIMA<br />

La filosofa critica aveva per vero <strong>di</strong>re già trasformata la metafisica in logica.<br />

Se non che il terrore che essa provava per l’oggetto l’aveva condotta […]<br />

a dare alle determinazioni logiche […] un significato essenzialmente soggettivo<br />

8 .<br />

È con l’in<strong>di</strong>viduazione della «logica trascendentale» (che Hegel chiamerà<br />

«oggettiva») che Kant si era spinto fin quasi a compiere quella trasformazione;<br />

che tuttavia aveva lasciato incompleta, limitando a un<br />

valore ancora soggettivo il significato delle determinazioni logico-oggettive<br />

che pure aveva scoperto. Se infatti nella filosofia critica l’oggetto<br />

(Gegen-stand) non era più pensato come il semplice «star-<strong>di</strong>-contro» <strong>di</strong><br />

qualcosa <strong>di</strong> già dato, non tutta l’oggettività dell’oggetto veniva però penetrata<br />

dal pensiero; così che «al <strong>di</strong> là» delle categorie logico-trascendentali<br />

rimaneva ancora qualcosa destinato ad assumere la forma «<strong>di</strong> una<br />

cosa in sé o <strong>di</strong> un urto infinito» 9 . Leggiamo un altro passo:<br />

A quello che or<strong>di</strong>nariamente si chiamò logica, Kant contrappose negli<br />

ultimi tempi anche un’altra logica, una logica trascendentale. Ciò che qui<br />

venne chiamato logica oggettiva corrisponderebbe in parte a quel che è<br />

presso Kant la logica trascendentale. Kant <strong>di</strong>stingue questa logica da ciò<br />

che egli chiama logica generale, per modo che essa α) consideri i concetti<br />

che si riferiscono a priori agli oggetti, che non astragga quin<strong>di</strong> da<br />

ogni contenuto della coscienza, ossia che contenga le regole del pensiero<br />

puro <strong>di</strong> un oggetto, e che β) risalga in pari tempo all’origine della conoscenza<br />

nostra, in quanto non possa essere attribuita agli oggetti. – È<br />

a questo secondo lato, che esclusivamente s’in<strong>di</strong>rizza l’interesse filosofico<br />

<strong>di</strong> Kant. Il suo pensiero fondamentale è <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>care le categorie alla<br />

coscienza <strong>di</strong> sé, intesa come Io soggettivo 10 .<br />

La conclusione è, per Hegel, la seguente: «Quella critica ha quin<strong>di</strong><br />

semplicemente rimosse le forme del pensare oggettivo dalla cosa, lasciandole<br />

però nel soggetto così come le aveva trovate» 11 . La filosofia<br />

kantiana non aveva dunque spinto fino in fondo la ricomprensione della<br />

metafisica come logica e della logica come ontologia. Hegel intende proseguire<br />

questo compito attraverso una ra<strong>di</strong>calizzazione estrema.<br />

L’analitica <strong>di</strong> Kant aveva risolto le categorie aristoteliche in concetti puri,<br />

e cioè «forme oggettive del pensiero», come le chiama Hegel. Per questa<br />

via essa aveva trapiantato sul piano logico-trascendentale la tema-<br />

200<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

tica <strong>di</strong> fondo dell’ontologia antica. Nonostante ciò, le forme oggettive<br />

del pensiero conservavano in Kant «un significato essenzialmente soggettivo»,<br />

così che la rifondazione critica della metafisica era rimasta a<br />

metà strada. In <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> questo compimento ra<strong>di</strong>cale si era invece<br />

mossa la Fenomenologia dello spirito.<br />

3) Siamo così giunti al terzo momento, rispetto al quale Hegel scrive:<br />

Nella Fenomenologia dello spirito esposi la coscienza nel suo avanzare dalla<br />

prima imme<strong>di</strong>ata opposizione sua e dell’oggetto fino al sapere assoluto.<br />

Codesto cammino passa per tutte le forme del rapporto della coscienza verso<br />

l’oggetto ed ha per risultato il concetto della scienza 12 .<br />

Come «scienza dell’esperienza della coscienza», la fenomenologia hegeliana<br />

aveva mostrato il movimento <strong>di</strong>alettico che, nel contrapporsi e<br />

rapportarsi all’oggettività, spinge <strong>di</strong> volta in volta la coscienza a doversi<br />

trasformare e riconfigurare dall’interno: certezza sensibile, percezione,<br />

intelletto sono le prime tappe e le prime «figure» <strong>di</strong> quel movimento<br />

dello «spirito» che deve, <strong>di</strong> volta in volta, mo<strong>di</strong>ficarsi e riguadagnarsi in<br />

una forma superiore per sopportare l’urto dell’oggetto o del reale – e ciò<br />

sia nel campo del conoscere, sia in quello dell’agire. Questo cammino<br />

(logico-<strong>di</strong>alettico) condurrà alla <strong>di</strong>ssoluzione del dualismo e dell’opposizione,<br />

della <strong>di</strong>sgiunzione e della <strong>di</strong>suguaglianza tra coscienza e oggetto,<br />

tra certezza <strong>di</strong> sé e verità, tra soggettività e oggettività. Condurrà a ciò<br />

che Hegel chiama «sapere assoluto».<br />

È stata dunque l’«esperienza» compiuta nella Fenomenologia a fornire<br />

la base su cui si e<strong>di</strong>ficheranno la Scienza della logica e la dottrina hegeliana<br />

del concetto – vale a <strong>di</strong>re: il pensiero penetrato nella cosa e riempito <strong>di</strong><br />

essa. Quel pensiero che non ha più un oggetto <strong>di</strong>nanzi o <strong>di</strong> contro a sé,<br />

ma che come pensiero (o senso) si è già fatto cosa e, come cosa, pensiero<br />

(senso): una penetrazione del senso nella cosa e della cosa nel<br />

senso. Espressione ine<strong>di</strong>ta, moderna, dell’antica identità parmenidea.<br />

Nella filosofia hegeliana, il pensiero non è più, dunque, un insieme <strong>di</strong><br />

regole da applicare a oggetti per ricondurli a una qualche unità rappresentativa,<br />

ma un’uscita (un’alterazione) <strong>di</strong> sé nell’altro e un ritorno dell’altro<br />

a se stesso (al Sé o allo stesso: Selbst). Con questo movimento<br />

(circolare, <strong>di</strong>alettico), la logica cessa <strong>di</strong> essere un insieme <strong>di</strong> categorie formali<br />

prive <strong>di</strong> contenuto e riconducibili a un soggetto astratto; e, al tempo<br />

201


PARTE PRIMA<br />

stesso, la metafisica cessa <strong>di</strong> essere una determinazione <strong>di</strong> «sostrati particolari»<br />

(Dio, Anima, Mondo) considerati come oggettività rappresentabili<br />

(o irrappresentabili). È quanto ha insegnato a Hegel l’«esperienza<br />

della coscienza» condotta nella Fenomenologia, nel suo svolgersi dalla «certezza<br />

sensibile» al sapere assoluto come un «autoconcepirsi» dello «spirito»<br />

nella sua «verità»; e che ora rappresenta dunque ai suoi occhi la<br />

«deduzione» già compiuta della possibilità <strong>di</strong> quella «scienza pura» che egli<br />

chiama «scienza della logica». Ciò che gli consente <strong>di</strong> scrivere:<br />

Il concetto della scienza pura e della sua deduzione vengon dunque presupposti<br />

nella presente trattazione, in quanto che la Fenomenologia dello spirito<br />

non è altro che la deduzione <strong>di</strong> tal concetto. Il sapere assoluto è la<br />

verità <strong>di</strong> tutte le guise <strong>di</strong> coscienza, perché, come risultò da quel suo<br />

svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risoluta la separazione<br />

dell’oggetto dalla certezza <strong>di</strong> sé, e la verità si è fatta uguale a questa<br />

certezza, così come questa alla verità. La scienza pura presuppone<br />

perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. Essa contiene il<br />

pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppur la cosa in se stessa<br />

in quanto è insieme il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura autocoscienza<br />

che si sviluppa, ed ha la forma del Sé, che quello che è in sé e per<br />

sé è concetto saputo, e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé 13 .<br />

Quello che è in sé e per sé non è altro che concetto saputo, e d’altra<br />

parte il concetto non è se non quello che è in sé e per sé. Da quanto<br />

detto fin qui è finalmente possibile comprendere come la «vecchia metafisica»<br />

può essere tradotta – e l’Aufhebung è un’operazione <strong>di</strong> traduzione,<br />

<strong>di</strong> riformulazione «concettuale» o <strong>di</strong> riduzione a senso) – in<br />

«scienza della logica»; e precisamente in quella che Hegel chiama «logica<br />

oggettiva», e che corrisponde ai primi due dei tre libri <strong>di</strong> cui si compone<br />

la Scienza della logica. Come «dottrina dell’essere» e «dottrina dell’essenza»,<br />

la logica oggettiva «prende il posto», soppianta e rileva, l’ontologia come<br />

metaphysica generalis (la scienza dell’essere in quanto essere, o dell’ente in<br />

quanto ente, come la definiva Aristotele). Leggiamo ancora un passo:<br />

202<br />

Perciò la logica oggettiva prende il posto della metafisica <strong>di</strong> una volta<br />

[…] Se ci riferiamo all’ultima forma cui era nel suo perfezionarsi arrivata<br />

codesta scienza, quella, <strong>di</strong> cui in primo luogo prende imme<strong>di</strong>atamente il<br />

posto la logica oggettiva, è l’ontologia, la parte dell’antica metafisica che<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

doveva ricercare la natura dell’ente (Ens) in generale (e l’ente comprende<br />

in sé tanto l’essere quanto l’essenza […]) 14 .<br />

Come rifondazione-rilevamento della metaphysica generalis, la logica<br />

oggettiva <strong>di</strong> Hegel ha per tema la questione dell’ente in generale, e ciò<br />

sia in quanto essere [Sein] sia in quanto essenza [Wesen]. Essa non si limita<br />

però a «rilevare» la scienza dell’ente in quanto ente; ma decostruisce<br />

e ricomprende in sé anche la metaphyisica specialis (psicologia, teologia,<br />

cosmologia). Scrive infatti Hegel:<br />

Ma, in secondo luogo, la logica oggettiva abbraccia in sé anche il resto<br />

della metafisica, in quanto che questa cercava <strong>di</strong> comprendere, insieme<br />

colle pure forme del pensiero, anche i substrati particolari, presi in sulle<br />

prime dalla rappresentazione, cioè l’anima, il mondo, Dio 15 .<br />

Chie<strong>di</strong>amoci: in che modo l’onto-logica hegeliana sarà qui in grado <strong>di</strong><br />

«rilevare» anche quei «concetti razionali» – come li chiamava Kant, che<br />

perciò li confinava nel campo <strong>di</strong> un «pensare», nient’affatto inutile ma<br />

non traducibile in termini <strong>di</strong> conoscenza d’esperienza – che la metafisica<br />

tra<strong>di</strong>zionale considerava come «determinazioni» essenziali dell’ente<br />

in generale (pensiamo a Leibniz e alla sua metafisica come scienza della<br />

monade, del mondo e <strong>di</strong> Dio: e cioè insieme psicologia, cosmologia e<br />

teologia)? Risposta: rimuovendo, togliendo loro la natura <strong>di</strong> «substrati» o<br />

<strong>di</strong> «sostanze»; vale a <strong>di</strong>re sottraendoli alla loro considerazione in termini<br />

<strong>di</strong> oggetti <strong>di</strong> «rappresentazione». Come Hegel scriverà nell’Enciclope<strong>di</strong>a:<br />

Gli oggetti della metafisica (anima, mondo, Dio) erano certo delle totalità<br />

appartenenti in sé e per sé alla ragione, al pensiero dell’Universale entro<br />

sé concreto. La metafisica accoglieva però tali oggetti dalla rappresentazione,<br />

e, nell’applicare loro le determinazioni dell’intelletto, li metteva a fondamento<br />

come soggetti precostituiti 16 .<br />

A causa della sua («errata») interpretazione del giu<strong>di</strong>zio come mera<br />

attribuzione (logico-formale) <strong>di</strong> un pre<strong>di</strong>cato a un soggetto, la «vecchia<br />

metafisica» – che continuava tuttavia a parlare nel linguaggio della filosofia<br />

moderna – considerava «gli oggetti della ragione» come oggetti<br />

della «mera visione dell’intelletto»; mentre nella frase propriamente filosofica,<br />

e cioè nella «proposizione speculativa» (ad esempio: «Dio è<br />

203


PARTE PRIMA<br />

l’essere»), il pre<strong>di</strong>cato («essere») non va inteso come una qualificazione<br />

estrinseca che viene attribuita a un soggetto inteso come sostanza; ma<br />

come ciò che esprime (o «assorbe») l’«essenza» del soggetto, così che il<br />

pensiero ritrova nel pre<strong>di</strong>cato la verità del soggetto e il soggetto <strong>di</strong>venta<br />

il pre<strong>di</strong>cato 17 . Perciò nella Scienza della logica, Hegel scrive:<br />

L’antica metafisica ometteva <strong>di</strong> far questo, e si attirò perciò il giusto<br />

rimprovero <strong>di</strong> aver adoperate quelle forme senza critica […]. La logica<br />

oggettiva è quin<strong>di</strong> la loro vera critica 18 .<br />

È dunque rimuovendo gli oggetti che la metafisica rappresentava<br />

come «forme sostanziali» – per ricorrere all’espressione rimessa in auge<br />

proprio da Leibniz – e ricomprendendoli invece come puri momenti<br />

del senso o della verità, che la logica oggettiva può «abbracciare» anche<br />

il contenuto, o meglio, i contenuti della metaphyisica specialis. Intendendo<br />

la sostanza, e cioè l’essere ancora privo del Sé, come soggetto – vale a <strong>di</strong>re<br />

come il concetto che muove se stesso e comprende entro sé le proprie<br />

determinazioni – la logica (<strong>di</strong>alettica) hegeliana <strong>di</strong>ssolve questi sostrati<br />

come mere oggettualità precostituite formate dal pensiero intellettualistico<br />

e rappresentativo: una <strong>di</strong>rezione, va detto, che già Leibniz aveva<br />

tentato <strong>di</strong> percorrere me<strong>di</strong>ante la sua teoria del giu<strong>di</strong>zio, e conseguentemente<br />

attraverso la messa a punto del concetto <strong>di</strong> monade come sostanza-soggetto<br />

dotata <strong>di</strong> rappresentazione e appetizione; una <strong>di</strong>rezione<br />

che tuttavia non poteva approdare a un vero concetto <strong>di</strong> soggetto in ragione<br />

del fatto che tale soggetto rimaneva in lui rappresentato come oggetto.<br />

Ed è in questa liberazione <strong>di</strong> senso, attuata attraverso la<br />

decostruzione dei concetti <strong>di</strong> sostanza e <strong>di</strong> rappresentazione, che – con<br />

Kant e oltre Kant – consiste per Hegel la vera «critica» della metafisica:<br />

la sua Aufhebung, il suo superamento, la sua risoluzione.<br />

Nella Scienza della logica questo superamento si compie infine nel passaggio<br />

dalla «logica oggettiva» alla «logica soggettiva»: ciò che non significa<br />

in alcun modo un ritorno alla soggettività <strong>di</strong> un «io» e come «io<br />

penso» (né in senso cartesiano, né in senso kantiano), ma come un trapasso<br />

dell’essere e dell’essenza nel «concetto» come nella loro «verità».<br />

Scrive Hegel:<br />

204<br />

La logica soggettiva è la logica del concetto, – cioè dell’essenza che ha tolto<br />

via la sua relazione a un essere o alla sua apparenza, e nella determina-<br />

zione sua non è più esterna, ma è quel che sussiste liberamente per sé,<br />

il soggettivo determinantesi in sé, o meglio, il soggetto stesso 19 .<br />

Il «soggetto» è qui l’essenza stessa che ha rimosso – o «tolto», come<br />

viene reso il verbo aufheben nella traduzione canonica della Scienza della<br />

logica che qui stiamo utilizzando 20 – la sua relazione con un essere o un<br />

apparire estraneo; è la «sostanza» che comprende se stessa come «realtà»,<br />

come determinazione e articolazione logico-<strong>di</strong>alettica del concetto.<br />

Il compito della «logica soggettiva» <strong>di</strong>venta allora quello <strong>di</strong> mostrare<br />

la natura o l’essenza logica del pensiero, in quanto esso anima o informa<br />

(per lo più «inconsciamente») i movimenti dello Spirito o della Vita; <strong>di</strong><br />

mostrare cioè come le categorie logiche operino nel campo economico<br />

della praxis, degli impulsi, dei bisogni, degli scopi, degli interessi e delle<br />

azioni degli uomini. La logica soggettiva è la logica dell’economia dello<br />

Spirito o l’economia della sua logica.<br />

_______________<br />

1 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit, pp. 3-4.<br />

2 Ivi, p. 3.<br />

3 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 53.<br />

4 M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., pp. 23-24.<br />

5 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 79-80.<br />

6 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 26.<br />

7 J.-L. Nancy, Hegel. L’inquietu<strong>di</strong>ne del negativo [Hegel. L’inquiétude du négatif, Hachette<br />

Littératures, Paris 1997], tr. it. <strong>di</strong> A. Moscati, Cronopio, Napoli 1998. p. 21.<br />

8 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 32.<br />

9 Ivi, p. 33.<br />

10 Ivi, pp. 45-46.<br />

11 Ivi, p. 28.<br />

12 Ivi, p. 29-30.<br />

13 Ivi, pp. 30-31.<br />

14 Ivi, p. 47.<br />

15 Ivi, pp. 47-48.<br />

16 G. W. F. Hegel, Enciclope<strong>di</strong>a, cit., pp.146-147.<br />

17 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 51 sgg.<br />

18 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 48.<br />

HEGEL. LA METAFISICA COME SCIENZA DELLA LOGICA<br />

19 Ivi.<br />

20 Si tratta della traduzione <strong>di</strong> A. Moni della prima e<strong>di</strong>zione (1924-25) della Scienza<br />

della logica, rivista da C. Cesa in occasione della seconda e<strong>di</strong>zione (1968).<br />

205


Il togliersi del fondamento<br />

Delle due questioni che affronteremo in questo capitolo, la prima ci<br />

tratterrà ancora per qualche momento nell’Introduzione alla Scienza della<br />

logica; la seconda ci condurrà alla lettura <strong>di</strong> qualche passo del primo capitolo<br />

dell’opera. La prima questione riguarda il problema del «metodo»<br />

e del «contenuto»; o, per meglio <strong>di</strong>re, del metodo o del contenuto, dato<br />

che come vedremo, per Hegel, si tratta della stessa cosa o della cosa<br />

stessa; la seconda – legata inestricabilmente alla prima e quasi tutt’uno<br />

con essa – è espressa a chiare lettere dalla domanda che dà il titolo al capitolo:<br />

Con che si deve incominciare la scienza?<br />

Il rapporto che lega tra loro, da un lato, metodo e oggetto del sapere<br />

filosofico e, dall’altro, il problema dell’inizio è ripreso e riformulato con<br />

grande efficacia nel primo paragrafo dell’Introduzione all’Enciclope<strong>di</strong>a da<br />

Hegel stesso:<br />

La filosofia non ha il vantaggio <strong>di</strong> cui godono le altre scienze e che consiste<br />

nel poter presupporre come imme<strong>di</strong>atamente dati dalla rappresentazione<br />

i propri oggetti, e come già assunto il metodo della conoscenza nel<br />

suo inizio e processo ulteriore […]. Ora, con ciò, a un tempo, subentra<br />

la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> stabilire un inizio, poiché un inizio, in quanto è qualcosa<br />

<strong>di</strong> imme<strong>di</strong>ato, dà luogo a un presupposto, o meglio, è esso stesso un presupposto<br />

1 .<br />

Come e da dove iniziare dunque in quella «considerazione pensante»<br />

che va sotto il nome <strong>di</strong> «filosofia», se ogni inizio (Anfang) è un presupposto<br />

(Voraussetzung), e il filosofare non può presupporre (voraussetzen)<br />

propriamente nulla?<br />

De<strong>di</strong>chiamoci per prima cosa alla questione del metodo e del contenuto,<br />

che, nella Scienza della logica, è posta da Hegel in questi termini:<br />

206<br />

l’esposizione <strong>di</strong> quello che, solo, può essere il vero metodo della scienza<br />

filosofica, rientra nella trattazione della logica stessa; poiché il metodo è<br />

la coscienza intorno alla forma dell’interno muoversi del suo contenuto 2 .<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

Spieghiamo questo passo riprendendo alcuni concetti già esposti nel<br />

precedente capitolo. Così come la logica non costituisce più per Hegel<br />

una propedeutica al sapere filosofico ma è questo stesso sapere nel suo<br />

comprendersi; così come le forme del pensiero non sono da qualche<br />

altra parte, separate dagli oggetti che stanno loro <strong>di</strong>-contro; così come,<br />

infine, «essere e pensiero sono uno stesso», come <strong>di</strong>ceva Parmenide:<br />

allo stesso modo, nell’onto-logica <strong>di</strong> Hegel, metodo e contenuto s’identificano<br />

– o meglio, (si) esprimono (in) un medesimo movimento; e per<br />

questa identificazione, anche se continuiamo a chiamarli così, non sono<br />

più ciò che erano prima <strong>di</strong> essa. Chiariamo questo pensiero citando un<br />

altro passo:<br />

un tal metodo non è nulla <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso dal suo oggetto e contenuto; –<br />

poiché è il contenuto in sé, la <strong>di</strong>alettica che il contenuto ha in lui stesso, quella<br />

che lo muove. È chiaro che nessuna esposizione può valere come scientifica,<br />

la quale non segua l’andamento <strong>di</strong> questo metodo e non si uniformi<br />

al suo semplice ritmo, poiché è l’andamento della cosa stessa 3 .<br />

In tanto il metodo della logica hegeliana è <strong>di</strong>alettico in quanto <strong>di</strong>alettico<br />

è il contenuto («l’andamento della cosa stessa») che quel metodo<br />

segue ed espone. E anche questa era una conquista già ottenuta dall’esperienza<br />

della Fenomenologia dello spirito. Come Hegel stesso ci <strong>di</strong>ce:<br />

Detti nella Fenomenologia dello spirito un esempio <strong>di</strong> questo metodo in un<br />

oggetto più concreto, cioè la coscienza stessa. Si hanno costì forme<br />

della coscienza, ciascuna delle quali nella sua realizzazione insieme si<br />

risolve, ha per risultato la sua propria negazione, – e con ciò è trapassata<br />

in una forma superiore 4 .<br />

Interrompiamo per qualche istante la citazione anticipando come –<br />

subito dopo queste parole – Hegel ci presenterà il Grundsatz o il<br />

Grundprinzip della sua filosofia. Le considerazioni che ora de<strong>di</strong>cheremo<br />

a questo tema ci permetteranno <strong>di</strong> cominciare a delineare in modo più<br />

preciso il rapporto che lega la questione del «metodo» a quella dell’«inizio»<br />

o del «cominciamento».<br />

Ciò che <strong>di</strong>stingue il Grundsatz hegeliano, e cioè la sua «frase» (Satz)<br />

del «fondamento» (Grund), da quelli che ad esempio si esprimono nel<br />

207


PARTE PRIMA<br />

«principio <strong>di</strong> ragione» <strong>di</strong> Leibniz o nei «concetti dell’intelletto puro» <strong>di</strong><br />

Kant, è il fatto che la natura del fondamento consiste per Hegel in un<br />

esser «posto» che al tempo stesso è – <strong>di</strong>aletticamente – un «togliersi» in<br />

quanto «determinazione» particolare; in un «fondare» che al tempo<br />

stesso è un «andare a fondo» della particolare determinazione in tal<br />

modo fondata. Come ci <strong>di</strong>ce, in riferimento alla questione dell’essenza,<br />

questa formulazione del secondo libro della Scienza della logica:<br />

quell’esser posto, che compete all’essenza, è solo come un esser posto<br />

tolto, e viceversa […] soltanto l’esser posto che si toglie è l’esser posto<br />

dell’essenza 5 .<br />

Per comprendere più chiaramente queste proposizioni, farò ancora<br />

riferimento ad alcune parole del saggio <strong>di</strong> Nancy de<strong>di</strong>cato a Hegel: parole<br />

che già introducono il problema dell’inizio o del principio sul quale<br />

torneremo più avanti. Scrive Nancy: «L’inizio, il cominciamento del pensiero<br />

hegeliano non è la certezza <strong>di</strong> un principio» 6 . Quando inizia a pensare,<br />

il pensiero non può appoggiarsi ad alcun principio che costituisca un<br />

inizio fuori <strong>di</strong> esso; quando comincia a pensare «tutto è già cominciato»<br />

(e in questo senso «finito»). Ogni cominciamento che non fosse, o meglio<br />

che non si decidesse in tal senso, sarebbe «un inizio dato, già derivato,<br />

prodotto altrove». Ma, continua Nancy, «un inizio nella decisione<br />

non è un inizio: è un’insorgenza nel corso del dato, una rottura, e non<br />

qualcosa che può essere posto come tale» 7 . E, poco oltre, riferendosi<br />

implicitamente alle domande <strong>di</strong> Leibniz («Perché c’è qualcosa… perché<br />

è questo… perché è così?») e <strong>di</strong> Kant («Che cosa posso conoscere?»),<br />

Nancy precisa che, così come la filosofia <strong>di</strong> Hegel «non comincia […]<br />

con un principio o con un fondamento», allo stesso modo il suo pensiero<br />

«non pone domande».<br />

Esso non domanda perché ci sia qualcosa, né come sia possibile la nostra<br />

conoscenza. Poiché non procede da alcuna domanda, esso non procede<br />

nemmeno dal presupposto che ogni domanda nasconde. Questo<br />

pensiero consiste nell’esporre e nell’esplicitare che ne è del reale 8 .<br />

Sulle prime, questa considerazione sembrerebbe contraddetta da ciò<br />

che Hegel stesso sostiene, quando ripetutamente afferma che l’inizio è<br />

l’«assoluto». Ma non è così, dato che proprio questa affermazione «serve<br />

208<br />

a <strong>di</strong>struggere ogni presupposto o ogni predonazione»; poiché, come<br />

scrive ancora Nancy:<br />

Essere nell’assoluto è essere, puramente e semplicemente, esserci, hic et<br />

nunc. Il “presupposto” hegeliano è il reale, assolutamente – e, con esso<br />

e in esso, la realtà del senso, cioè del soggetto. Nel soggetto e in quanto<br />

soggetto, infatti, il reale viene a porsi, viene a essere saputo con un sapere<br />

che non è soltanto una conoscenza <strong>di</strong> oggetti, ma sapere e comprensione<br />

<strong>di</strong> sé 9 .<br />

Dopo queste osservazioni, possiamo riprendere la citazione <strong>di</strong> Hegel<br />

che avevamo interrotto, chiedendoci quale fosse – e, aggiungiamo ora,<br />

come dovrà essere pensato in un simile contesto – il Grundsatz o il principium<br />

della filosofia hegeliana. Le parole <strong>di</strong> Hegel sono a questo proposito<br />

molto chiare:<br />

L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico, […] è la conoscenza <strong>di</strong> questa<br />

proposizione logica, che il negativo è insieme anche il positivo, ossia<br />

che quello che si contrad<strong>di</strong>ce non si risolve nello zero, nel nulla astratto,<br />

ma si risolve solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a<br />

<strong>di</strong>re che una tal negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione<br />

<strong>di</strong> quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata.<br />

Bisogna, in altre parole, saper conoscere che nel risultato è<br />

essenzialmente contenuto ciò da cui esso risulta; – il che è propriamente<br />

una tautologia, perché, se no, sarebbe un imme<strong>di</strong>ato, e non un resultato.<br />

Quel che resulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un<br />

contenuto. Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che<br />

è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti <strong>di</strong>venuta più<br />

ricca <strong>di</strong> quel tanto ch’è costituito dalla negazione, o dall’opposto <strong>di</strong> quel<br />

concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche <strong>di</strong><br />

più, ed è l’unità <strong>di</strong> quel concetto e del suo opposto 10 .<br />

Ancora due citazioni, prima <strong>di</strong> continuare:<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

Quello, per cui il concetto si spinge avanti è quel negativo […] che ha in<br />

sé; codesto è il vero elemento <strong>di</strong>alettico». «In questo elemento <strong>di</strong>alettico<br />

[…] e perciò nel comprendere l’opposto nella sua unità, ossia il positivo<br />

nel negativo, consiste lo speculativo 11 .<br />

209


PARTE PRIMA<br />

A questo punto siamo in grado <strong>di</strong> riformulare meglio il senso <strong>di</strong> ciò<br />

che avevamo detto nel precedente capitolo; e cioè: a) come, in Hegel, la<br />

logica <strong>di</strong>venti essa stessa scienza metafisica e la metafisica scienza della logica;<br />

e b) come in una simile identificazione la filosofia critica giochi un ruolo<br />

decisivo e paradossale, dato che è proprio la <strong>di</strong>struzione della metafisica<br />

compiuta da Kant nella Dialettica trascendentale della Critica della ragione<br />

pura a fornire a Hegel le con<strong>di</strong>zioni per la sua rifondazione.<br />

Da un lato, infatti, <strong>di</strong>stinguendo in termini trascendentali i concetti<br />

dell’intelletto (o «regole») e quelli della ragione o «principi» (e tra uso<br />

«costitutivo» e uso «regolativo» dei relativi concetti), la filosofia kantiana<br />

aveva interrotto la continuità tra logica e ontologia che costituiva il tratto<br />

saliente della tra<strong>di</strong>zione della metafisica; dall’altro lato, però, dall’interno<br />

<strong>di</strong> questa stessa <strong>di</strong>struzione, nella sua Dialettica trascendentale, Kant aveva<br />

in<strong>di</strong>viduato il carattere profondamente ra<strong>di</strong>cato nella ragione (in un «bisogno»<br />

della ragione, l’abbiamo visto) <strong>di</strong> quelle «idee trascendentali» che<br />

per essa sono «altrettanto naturali, quanto per l’intelletto sono naturali<br />

le categorie». Scriveva infatti Kant nell’Introduzione alla Critica della ragione<br />

pura:<br />

Una qualche metafisica è realmente esistita sempre in tutti gli uomini,<br />

non appena la ragione si è estesa in essi fino alla speculazione, ed una<br />

qualche metafisica esisterà sempre negli uomini. Ed ora, anche riguardo<br />

ad essa si presenta la domanda: Come è possibile la metafisica, in quanto <strong>di</strong>sposizione<br />

naturale? Ossia, come sorgono dalla natura della ragione umana<br />

le questioni, che la ragione pura propone a se stessa, e rispetto alle quali<br />

essa è spinta dal suo proprio bisogno a dare una risposta, sod<strong>di</strong>sfacente<br />

quanto le è possibile? 12 .<br />

E, ritornando su questa «<strong>di</strong>sposizione naturale» o su questo «bisogno»,<br />

nella Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, Kant precisava come le «idee<br />

della ragione» non fossero affatto «inutili» o «superflue»; servissero invece:<br />

210<br />

in parte per contenere le pretese preoccupanti dell’intelletto, come se esso (essendo<br />

in grado <strong>di</strong> fornire a priori le con<strong>di</strong>zioni della possibilità <strong>di</strong> tutte<br />

le cose che può conoscere) abbia con ciò racchiuso entro quei limiti<br />

anche la possibilità <strong>di</strong> tutte le cose in genere; in parte per guidare lo<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

stesso intelletto nella considerazione della natura secondo un principio<br />

<strong>di</strong> completezza, che pure esso non può mai raggiungere, e promuovere<br />

con ciò l’intento finale <strong>di</strong> ogni conoscenza (c.vi miei) 13 .<br />

Ed è a questo secondo lato, a questo aspetto della filosofia critica, che<br />

Hegel guarda per ritrovare o riattualizzare – insieme con e contro Kant<br />

– il senso d’origine della «vecchia metafisica».<br />

Hegel osserva innanzitutto come, nel corso della tra<strong>di</strong>zione filosofica,<br />

la <strong>di</strong>alettica era stata considerata una «parte separata» o «<strong>di</strong>sconosciuta»<br />

della logica, «un proce<strong>di</strong>mento estrinseco e negativo» <strong>di</strong> nessun<br />

significato ontologico. E come invece Kant «pose la <strong>di</strong>alettica più in<br />

alto»; le «tolse quell’apparenza <strong>di</strong> arbitrio» con cui veniva rappresentata<br />

comunemente, «e la mostrò come un’opera necessaria della ragione». In questa<br />

rivalutazione, sebbene l’esposizione effettiva delle antinomie della<br />

Critica kantiana non meriti secondo Hegel una particolare considerazione,<br />

«l’idea generale che Kant pose per base e fece valere» riveste<br />

un’importanza fondamentale. Con la sua Dialettica, egli mostrò infatti<br />

«l’oggettività della apparenza, e la necessità della contrad<strong>di</strong>zione» in quanto «appartenente<br />

alla natura delle determinazioni del pensiero». Così che –<br />

anche se non se ne rese pienamente conto, fermandosi «al lato negativo-astratto<br />

della <strong>di</strong>alettica» – Kant ne scoprì positivamente quella «negatività»<br />

intrinseca che costituisce «il principio, in genere, <strong>di</strong> ogni vitalità<br />

naturale e spirituale» 14 . Ed è in questo senso, appunto, e cioè in quanto<br />

<strong>di</strong>alettica, che la logica si fa essa stessa ontologia (scienza della Vita o<br />

dello Spirito); e la vecchia ontologia si risolve e si <strong>di</strong>ssolve nella logica<br />

<strong>di</strong>alettica. Detto in modo più generale: la <strong>di</strong>struzione dell’unità della ragione<br />

metafisica compiuta dalla filosofia <strong>di</strong> Kant ha reso <strong>di</strong>sponibili –<br />

al <strong>di</strong> là delle sue stesse intenzioni – le con<strong>di</strong>zioni per rifondare quell’unità<br />

della metafisica che la sua critica aveva spezzato. E questa ricomprensione<br />

– che è insieme, ancora una volta, una <strong>di</strong>struzione e una<br />

rifondazione della metafisica – è per l’appunto il compito che Hegel si<br />

assume e porta avanti oltre la filosofia trascendentale <strong>di</strong> Kant e la sua <strong>di</strong>stinzione<br />

– che Hegel considera ancora intellettualistica e soggettivistica<br />

– tra intelletto e ragione.<br />

Ma de<strong>di</strong>chiamoci ora al problema del cominciamento, dell’inizio. Si<br />

tratta, anche in questo caso, <strong>di</strong> una questione filosofica decisiva: dai presocratici<br />

a Cartesio, da Kant a Schelling, da Hegel a Husserl e Heidegger,<br />

l’inizio della filosofia, ogni suo inizio, è un’interrogazione sull’inizio. In<br />

211


PARTE PRIMA<br />

Hegel la questione assume la forma <strong>di</strong> queste due domande: 1) Che cosa<br />

deve stare all’inizio perché esso sia l’inizio <strong>di</strong> un movimento? 2) Quale<br />

sarà la forma <strong>di</strong> questo movimento?<br />

1) Alla prima domanda Hegel risponde: l’inizio sarà un inizio assoluto,<br />

avrà inizio in un assoluto (ab-solutus = assolto, sciolto da…). Solo<br />

così, il movimento che ne sgorga può condurre all’assoluto. Dal l’as -<br />

soluto all’assoluto, dall’assoluto astratto e indeterminato al concreto assoluto.<br />

2) Il movimento – e con ciò stiamo già rispondendo anche alla seconda<br />

domanda – sarà dunque circolare: la fine dovrà riprendere l’inizio,<br />

quell’inizio che al tempo stesso già-era (assoluto indeterminato) e<br />

ancora-non-era (assoluto determinato e concreto). Tauto-eterologia.<br />

Questo esser-già e al tempo stesso non-esserlo-ancora, questo aversialla-fine<br />

(«entelechia») dell’inizio e questo avere all’inizio la sua fine, definisce<br />

né più né meno che il movimento <strong>di</strong>alettico nell’occasione <strong>di</strong><br />

ogni passaggio spirituale. (Così, ad esempio, la religione «è già» lo spirito<br />

assoluto anche se «in pari tempo» non lo «è ancora»). Ci torneremo<br />

più avanti.<br />

Abbiamo già visto, con Nancy, come a proposito della questione del<br />

cominciamento non troveremo in Hegel – come accadeva invece in<br />

Leibniz – la domanda sul «perché?», e perciò nemmeno quel «principio<br />

<strong>di</strong> ragione» che permane come un «fondamento» estrinseco rispetto allo<br />

spirito e al suo <strong>di</strong>venire. Non troveremo neppure la preliminare domanda<br />

kantiana («Che cosa posso conoscere?»), la quale conseguentemente si<br />

traduceva nella determinazione delle «con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> possibilità» <strong>di</strong> una<br />

conoscenza. La riflessione <strong>di</strong> Hegel non muove da alcuna domanda, e<br />

dunque neppure da ciò che la domanda contiene come presupposto. Il<br />

procedere della logica speculativa ci immette già nel circolo dell’assoluto<br />

e del suo esporsi. Ora, è vero che il primo capitolo del primo libro della<br />

Scienza della logica è intitolato a una domanda: Con che si deve cominciare la<br />

scienza?. Ma le tre formulazioni, che tra un istante leggeremo e commenteremo<br />

brevemente, «rimuoveranno», «rileveranno» subito il senso <strong>di</strong><br />

questa domanda, mostrandoci come si tratti <strong>di</strong> una domanda mal posta;<br />

o più precisamente come essa costituisca la domanda <strong>di</strong> quella metafisica<br />

che – da Aristotele a Kant – non si era ancora compresa come «scienza<br />

della logica». Ecco queste tre formulazioni.<br />

212<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

1) Prima formulazione: «L’essenziale per la scienza non è tanto che<br />

il cominciamento sia un puro imme<strong>di</strong>ato, quanto che l’intiera scienza è<br />

in se stessa una circolazione, in cui il Primo <strong>di</strong>venta anche l’Ultimo, e<br />

l’Ultimo anche il Primo» 15 . Un «puro imme<strong>di</strong>ato» non c’è, è una falsificazione,<br />

come vedremo meglio nella terza formulazione. Nel momento<br />

in cui cominciamo a filosofare, siamo già all’interno <strong>di</strong> questa «circolazione».<br />

Siamo già da sempre nel circolo del sapere, del senso, dello spirito,<br />

della vita. Proprio come per il «circolo ermeneutico» o per la<br />

«gettatezza» del Dasein <strong>di</strong> Heidegger.<br />

2) Seconda formulazione: «l’andare innanzi è un tornare ad<strong>di</strong>etro al<br />

fondamento, all’originario ed al vero» 16 . Così, abbiamo visto, si era<br />

mosso Hegel nell’ambito della metafisica, riattingendo tra l’altro il sapere<br />

eracliteo che si esprime in questa formula. E così succede sempre, se ci<br />

muoviamo in un circolo o in un anello. È il <strong>di</strong>venire (Werden) che assolutezza<br />

l’inizio, il quale si riconosce per tale solo nel suo compiersi. Il che<br />

significa: a) liberare l’assoluto dalle rappresentazioni che lo riducono a<br />

(e lo rappresentano come) fondamento o con<strong>di</strong>zione per le forme dell’intelletto;<br />

b) cogliere l’inizio come puro impulso (Trieb) ad iniziare,<br />

come la potenza logica del negativo.<br />

3) Terza formulazione: «non v’ha nulla né in cielo né nella natura né<br />

nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto l’imme<strong>di</strong>atezza<br />

quanto la me<strong>di</strong>azione, cosicché queste due determinazioni si mostrano<br />

come inseparate e inseparabili, e quell’opposizione come inesistente» 17 . Tra<br />

me<strong>di</strong>ato e imme<strong>di</strong>ato non c’è opposizione. Me<strong>di</strong>ato e imme<strong>di</strong>ato sono due<br />

lati della stessa determinazione. Non si dà un imme<strong>di</strong>ato che non sia imme<strong>di</strong>atamente<br />

me<strong>di</strong>ato. E viceversa. Me<strong>di</strong>azione e imme<strong>di</strong>atezza sono<br />

come sorelle siamesi: a separarle si toglie (loro) la vita.<br />

Da dove cominciare allora, o meglio: dove ci troviamo già ogni volta<br />

che ci apriamo al filosofare, al vivere, a noi stessi? Risposta: con e nell’assoluto<br />

me<strong>di</strong>ato-imme<strong>di</strong>ato. Ciò che significa: «Il cominciamento è<br />

dunque il puro essere» 18 ; e «cotesto puro essere, cotesto assoluto-imme<strong>di</strong>ato,<br />

è insieme anche assolutamente Me<strong>di</strong>ato» 19 . Cosa questa che<br />

infine viene a <strong>di</strong>re che cominciamo dal cominciamento stesso: da una<br />

decisione, dal fatto <strong>di</strong> un fare, da un’azione (e l’autotelia dell’azione<br />

marca qui il carattere intrinsecamente politico e costitutivamente plurale<br />

della filosofia hegeliana). Cominciare dall’essere vuol <strong>di</strong>re infatti co-<br />

213


PARTE PRIMA<br />

minciare dalla «rappresentazione <strong>di</strong> un semplice cominciamento come<br />

tale», scrive Hegel. E cioè? Da nulla. Dal fatto che «essere e nulla sono<br />

lo stesso». Cominciare dal cominciare o dalla semplice rappresentazione<br />

<strong>di</strong> un cominciamento significa cominciare da nulla, perché – scrive<br />

Hegel – «Nulla è ancora, e qualcosa deve <strong>di</strong>venire».<br />

Nulla è ancora, e qualcosa deve <strong>di</strong>venire. Il cominciamento non è il<br />

puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque anche nel<br />

cominciamento è già contenuto l’essere, ed è contenuto nella forma <strong>di</strong><br />

essere null’altro che il puro nulla. Il cominciamento contien dunque<br />

l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; e l’unità dell’essere col nulla; – ossia è<br />

un non essere, che è in pari tempo essere, e un essere, che è in pari<br />

tempo non essere. Oltracciò, l’essere ed il nulla son nel cominciamento<br />

come <strong>di</strong>versi, poiché il cominciamento accenna a qualcos’altro; – è un<br />

non essere che si riferisce all’essere come a un altro; ciò che comincia<br />

non è ancora; va, soltanto, all’essere. Il cominciamento contien dunque<br />

l’essere come quello che si allontana dal non essere, o lo toglie via considerandolo<br />

come contrapposto a lui. Ma, inoltre, quello che comincia<br />

è già; in pari tempo, però, non è ancora […] L’analisi del cominciamento<br />

ci darebbe quin<strong>di</strong> il concetto dell’unità dell’essere col non essere, – o in<br />

forma riflessa, il concetto dell’unità dell’esser <strong>di</strong>fferente e del non esser<br />

<strong>di</strong>fferente, – oppur quello dell’identità colla non identità 20 .<br />

Questo passo contiene l’essenza dell’ontologia <strong>di</strong>alettica hegeliana,<br />

quella che ne articolerà volta per volta i momenti.<br />

Poco fa accennavo al fatto che una simile impostazione del problema<br />

del cominciamento o dell’inizio – un inizio che inizia dal suo stesso iniziare<br />

– sospende e «rileva» la «domanda» che regge, come un presupposto<br />

esterno, la tra<strong>di</strong>zione della metafisica da Aristotele a Kant. E<br />

<strong>di</strong>cevo poi come un simile inizio non è pensabile se non in termini <strong>di</strong><br />

decisione e <strong>di</strong> azione: cosa, quest’ultima, che non ci deve stupire, avendo<br />

la filosofia hegeliana <strong>di</strong> mira l’orizzonte della Vita o dello Spirito o –<br />

come <strong>di</strong>cevo – il mondo della praxis, degli impulsi, dei bisogni, degli<br />

scopi, degli interessi e delle azioni degli uomini. E tuttavia, per Hegel, «il<br />

cominciamento è logico» – né, data la risoluzione o <strong>di</strong>ssoluzione della<br />

metafisica in «scienza della logica», potrebbe essere altrimenti. E così<br />

come logico è il cominciamento della filosofia, allo stesso modo lo sarà<br />

ciascuno dei passaggi che dall’essere condurrà all’essenza, dall’essenza<br />

214<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

all’esistenza; dalla logica oggettiva a quella del concetto: passaggio, quest’ultimo,<br />

che propriamente ci introduce alla campo della soggettività,<br />

della teleologia, del fare, dell’azione. Questa considerazione solleva <strong>di</strong>versi<br />

or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> questioni. Mi limiterò qui al problema dell’esistenza e a<br />

quello dell’azione.<br />

Nello sviluppo dalla dottrina dell’essere a quella dell’essenza, l’essenza<br />

si rivela come la «verità» dell’essere. Fin qui, Hegel ripete dopotutto<br />

qualcosa che avevamo incontrato anche in Aristotele e Leibniz.<br />

Per essere, l’essenza deve però a sua volta «passare» all’esistenza. E anche<br />

questo costituiva un tema, anzi probabilmente il tema decisivo della metafisica<br />

leibniziana: il tema – abbiamo visto – che ha determinato la scoperta<br />

del principio a suo giu<strong>di</strong>zio fondamentale della filosofia, il<br />

«principio del fondamento». Non <strong>di</strong>versamente da Leibniz, anche per<br />

Hegel l’essenza è il fondamento dell’esistenza: Das Wesen als Grund der<br />

Existenz è del resto il titolo che nell’Enciclope<strong>di</strong>a introduce alla questione<br />

dell’esistenza. Non a caso, dunque, nel capitolo della Scienza della logica<br />

de<strong>di</strong>cato al problema dell’esistenza, Hegel richiama il «principio <strong>di</strong> ragione»<br />

<strong>di</strong> Leibniz. Qui però dobbiamo misurare, insieme alla vicinanza,<br />

anche tutta la <strong>di</strong>stanza che separa l’onto-logica leibniziana da quella declinata<br />

in modo <strong>di</strong>alettico da Hegel. Secondo una strategia che gli è consueta,<br />

e che appare del tutto coerente con quanto visto fin qui, Hegel ci<br />

mostra come il principio <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong>ce qualcosa solo a con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>re ciò che <strong>di</strong>ce e insieme il suo contrario.<br />

Se infatti affermiamo: «Quel che esiste, ha una ragion d’essere ed è con<strong>di</strong>zionato,<br />

bisognerebbe in pari tempo <strong>di</strong>re: Non ha alcuna ragion d’essere ed è<br />

incon<strong>di</strong>zionato» 21 . In altri termini: quel che esiste esiste in quanto ha un fondamento;<br />

e tuttavia, al tempo stesso, esiste assolutamente, incon<strong>di</strong>zionatamente<br />

(è perché è, senza alcuna ragione). E ciò dal momento che<br />

l’esistenza è (si dà) in quanto ha tolto quel fondamento che costituiva la sua<br />

essenza. In questo modo – il modo, ricor<strong>di</strong>amo, della proposizione speculativa<br />

in cui il soggetto passa nel pre<strong>di</strong>cato e il pre<strong>di</strong>cato <strong>di</strong>venta il soggetto – l’essenza<br />

<strong>di</strong>venta esistenza. «L’essenza è l’esistenza». «L’essenza è passata<br />

nell’esistenza, in quanto l’essenza come fondamento non si <strong>di</strong>stingue<br />

più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento si è<br />

tolto» 22 . In quanto ha rimosso l’essenza come suo fondamento, l’esistenza<br />

ha rimosso anche l’essenza del fondamento; ed è appunto esistenza<br />

in quanto semplicemente e assolutamente è, senza più essere assicurata<br />

a un fondamento. Leibniz non potrebbe essere più lontano. E tuttavia,<br />

215


PARTE PRIMA<br />

nonostante il suo carattere <strong>di</strong>alettico e il suo esito per un verso incon<strong>di</strong>zionato,<br />

questo passaggio logico-ontologico dall’essenza all’esistenza<br />

resta per l’altro – proprio come in Leibniz – un passaggio assicurato, anticipato,<br />

previsto dalla logica. Dalla logica economica o dall’economia logica<br />

dell’Aufhebung. Un’economia, certo, non più delegata, come<br />

avveniva in Leibniz, al calcolare <strong>di</strong> una ragione infinita che, nella sua<br />

speculazione, «fa il mondo»; e nemmeno affidata, come in Kant, a un<br />

passaggio al limite, al «come se» <strong>di</strong> una soggettività finita. La logica economica<br />

hegeliana si esprime in una teleologia il cui telos non è esterno<br />

alla Vita o allo Spirito ma ne esprime da parte a parte l’interno movimento. Se<br />

dunque nella filosofia leibniziana «essere» e «conatus essen<strong>di</strong>», logos ed<br />

esistenza, ragione e impulso restavano irrime<strong>di</strong>abilmente separati, o ricongiunti<br />

soltanto nella presupposizione <strong>di</strong> un’armonia prestabilita; se<br />

in Kant un simile ricongiungimento si esprimeva come il compito razionale,<br />

e cioè infinito, <strong>di</strong> un soggetto etico consegnato alla sua libertà,<br />

nella filosofia <strong>di</strong> Hegel, ragione e sensibilità, essere e volontà d’essere,<br />

logica e impulso si identificano pienamente. O, per esprimerci con più<br />

precisione, la sua filosofia è – e descrive – una logica (economica) dell’impulso.<br />

Queste osservazioni aprono una serie infinita <strong>di</strong> questioni. Limi tia -<br />

moci, per il momento, a queste domande: l’ontologia <strong>di</strong> Hegel è in grado<br />

<strong>di</strong> compiere ciò che non era riuscito né all’onto-logia razionalistica leibniziana<br />

né a quella critica kantiana (che si autodefiniva proprio a partire<br />

da questa aporia o antinomia)? È in altri termini in grado <strong>di</strong> «comprendere»<br />

entro il para<strong>di</strong>gma onto-logico anche il mondo dell’esistenza e del<br />

fare dell’uomo? L’essere e l’azione sono pensabili entro e come un’unica<br />

onto-logica? Riuscirà la logica <strong>di</strong>alettica dell’Aufhebung a «rendere ragione»<br />

della loro coincidenza?<br />

_______________<br />

1 G. W. F. Hegel, Enciclope<strong>di</strong>a, cit., p. 92.<br />

2 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 36.<br />

3 Ivi, p. 37.<br />

4 Ivi, p. 36.<br />

5 Ivi, p. 496.<br />

6 J.-L. Nancy, Hegel. L’inquietu<strong>di</strong>ne del negativo, cit., p. 17.<br />

7 Ivi, p. 18.<br />

8 Ivi, p. 20.<br />

216<br />

9 Ivi, p. 19.<br />

10 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 36.<br />

11 Ivi, pp. 38-39.<br />

12 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 64.<br />

13 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, cit. pp. 3-4.<br />

14 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., pp. 38-39.<br />

15 Ivi, p. 57.<br />

16 Ivi, p. 56.<br />

17 Ivi, p. 52.<br />

18 Ivi, p. 55.<br />

19 Ivi, p. 58.<br />

20 Ivi, pp. 59-60.<br />

21 Ivi, pp. 538-39.<br />

22 Ivi, p. 541.<br />

IL TOGLIERSI DEL FONDAMENTO<br />

217


Economia e onto-logica <strong>di</strong>alettica<br />

Il «rilevamento» hegeliano della metafisica nella «scienza della logica» risponde<br />

all’esigenza <strong>di</strong> risolvere la questione probabilmente fondamentale<br />

che attraversa l’intera storia della metafisica; una questione in cui ci siamo<br />

più volte imbattuti, e in cui – volta per volta – abbiamo cercato <strong>di</strong> rintracciare<br />

la cellula dell’oikonomia. Una questione che qui vorrei riprendere e riformulare<br />

con queste semplici parole: è possibile – e se sì, come? – fondare<br />

l’unità <strong>di</strong> essenza ed esistenza, <strong>di</strong> essere e azione, <strong>di</strong> ontologia e praxis?<br />

L’onto-logica «<strong>di</strong>alettica» <strong>di</strong> Hegel intende dare una risposta positiva a<br />

queste domande. Lungo il cammino seguito fin qui, abbiamo incontrato <strong>di</strong>versi<br />

tentativi <strong>di</strong> soluzione <strong>di</strong> questo problema, e non meno significativi<br />

in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficoltà.<br />

Abbiamo visto ad esempio come – nell’esplorare a fondo la ra<strong>di</strong>ce del<br />

concetto <strong>di</strong> identità o <strong>di</strong> in-essenza – Leibniz si fosse arreso <strong>di</strong> fronte al tentativo<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>ssodare quell’unità tra il «possibile» e il «reale», tra proposizioni<br />

esistenziali e proposizioni logiche, tra verità <strong>di</strong> fatto e verità <strong>di</strong> ragione su<br />

cui si era instancabilmente affaticato; e avesse dovuto alla fine delegarla a<br />

un fondamento onto-(teo)-logico ultimo: col risultato però <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere<br />

la possibilità e la nozione stessa <strong>di</strong> azione.<br />

Tracciando un confine invalicabile tra i concetti dell’intelletto e i principi<br />

della ragione, tra il dominio del con<strong>di</strong>zionato (la natura) e quello dell’incon<strong>di</strong>zionato<br />

(la libertà), Kant aveva a sua volta colto e in<strong>di</strong>cato la ra<strong>di</strong>ce<br />

delle aporie e delle antinomie che sorgevano a ogni tentativo <strong>di</strong> colmare<br />

quell’«abisso»; ma ciò appunto – e consisteva precisamente in questo la soluzione<br />

non <strong>di</strong>alettica della sua Dialettica trascendentale – riconoscendole o ammettendole<br />

come tali. O più precisamente: riconoscendo e ammettendo come<br />

un’«esigenza irrinunciabile della ragione <strong>di</strong> assumere un qualcosa (un fondamento<br />

originario: Urgrund) come esistente in modo incon<strong>di</strong>zionatamente<br />

necessario, in cui non debbano più venir <strong>di</strong>stinti affatto possibilità e realtà»<br />

1 ; precisando però come <strong>di</strong> tale Etwas il nostro intelletto non potesse<br />

farsene alcun «concetto» – dato che se lo pensa, lo pensa appunto come<br />

semplicemente possibile, mentre se ne ha coscienza come <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> dato<br />

all’intuizione non ne può pensare la possibilità. La soluzione kantiana con-<br />

218<br />

ECONOMIA E ONTO-LOGICA DIALETTICA<br />

sisteva dunque nel considerare conoscitivamente insuperabile la spaccatura<br />

o il crepaccio che <strong>di</strong>videva il dominio del con<strong>di</strong>zionato da quello dell’incon<strong>di</strong>zionato,<br />

la natura dalla libertà; anche se in<strong>di</strong>viduava poi nel<br />

«giu<strong>di</strong>zio» – e con esso nel «fare» – una tensione che si esprime inarcandosi<br />

sopra questo «abisso».<br />

Il «passaggio» tra questi due domini – e l’agire è proprio un simile passaggio<br />

– non è dunque, per Kant, un passaggio «logico». Come lo sarà invece per<br />

Hegel. Per il quale, il limite dell’onto-logica leibniziana, e la ragione del suo<br />

insuccesso, consisteva nell’aver preso in considerazione unicamente la categoria<br />

dell’identità e non anche la <strong>di</strong>fferenza e la negatività (ciò per cui solo è<br />

possibile comprendere in termini <strong>di</strong>alettici il passaggio dall’essenza all’esistenza,<br />

dall’essere all’agire); mentre la soluzione kantiana, che pure muoveva<br />

dalla nozione <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenza, restava tuttavia ancorata a una <strong>di</strong>fferenza trascendentale<br />

situata «nel soggetto e nelle sue facoltà conoscitive», che dunque,<br />

come tale, non poteva in alcun modo sboccare in una <strong>di</strong>alettica reale.<br />

Con il suo inizio – e perciò anche la sua fine e il suo fine – «logico», la <strong>di</strong>alettica<br />

hegeliana governa invece tanto il dominio dell’essenza quanto quello<br />

dell’esistenza, dell’essere non meno che dell’azione. Ciò, tuttavia, non in<br />

quanto cerca <strong>di</strong> trovarne il «fondamento» o la «ra<strong>di</strong>ce» comune ma, come<br />

abbiamo visto, perché in<strong>di</strong>ca la necessità <strong>di</strong> un movimento interno: l’essenza<br />

«passa» nell’esistenza, si compie risolvendosi e <strong>di</strong>ssolvendosi in essa,<br />

la sostanza nel soggetto, l’«essere» nel «fare». Leggiamo a questo proposito<br />

un passo della Prefazione alla Fenomenologia:<br />

Secondo il mio modo <strong>di</strong> vedere [...] tutto <strong>di</strong>pende dall’intendere e dall’esprimere<br />

il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto<br />

[...] La sostanza viva è bensì l’essere il quale è in verità Soggetto o, ciò che<br />

poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza<br />

è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la me<strong>di</strong>azione<br />

del <strong>di</strong>venir-altro-da-sé con se stesso. Come soggetto, essa è la pura negatività<br />

semplice, ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti, o la duplicazione<br />

opponente, questa, a sua volta, è la negazione <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>versità<br />

in<strong>di</strong>fferente e della sua opposizione; soltanto questa ricostituentesi eguaglianza<br />

o la riflessione entro l’esser-altro in se stesso, – non unità originaria come tale,<br />

né un’unità imme<strong>di</strong>ata come tale, – è il vero. Il vero è il <strong>di</strong>venire <strong>di</strong> se stesso,<br />

il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine,<br />

e che solo me<strong>di</strong>ante l’attuazione e a propria fine è effettuale 2 .<br />

219


PARTE PRIMA<br />

L’ousia aristotelica o la «sostanza in<strong>di</strong>viduale» della filosofia leibniziana<br />

<strong>di</strong>ventano, in Hegel, compiutamente soggetto. La sostanza, per Hegel, è il<br />

Sé non ancora esistente come Spirito o l’essere ancora privo del Sé. E solo<br />

quando la sostanza si comprende come soggetto, essenza ed esistenza,<br />

possibilità e realtà passano l’una nell’altra e <strong>di</strong>ventano uno stesso. Se la sostanza,<br />

concepita come essere, ha come fondamento ontologico l’identità<br />

(cosa che abbiamo visto, mi pare, a sufficienza), il soggetto ha come essenza<br />

la negatività. E come negatività, il soggetto è azione, è l’agire stesso,<br />

che è reale come movimento <strong>di</strong>alettico. Il soggetto, per Hegel, non è l’hypokeimenon<br />

della tra<strong>di</strong>zione della metafisica – ciò che ne farebbe ancora una<br />

sostanza, come la monade leibniziana; ma non è neppure la soggettività<br />

kantiana. Il soggetto è ciò che fa, è il suo stesso atto. Il soggetto è l’atto <strong>di</strong><br />

un soggetto. Il soggetto è il risultato del suo stesso atto e non precede, ma<br />

piuttosto post-cede il suo fare o il suo agire.<br />

Nelle considerazioni che stiamo svolgendo possiamo sottolineare due<br />

aspetti. Primo aspetto. Mai, prima <strong>di</strong> Hegel, l’essenza propria dello spirito<br />

come «fare» – inteso quest’ultimo sia come azione sia come produzione,<br />

sia come praxis sia come poiesis – era stata colta filosoficamente così a fondo;<br />

colta cioè come quel movimento «negativo» che permette <strong>di</strong> mostrare<br />

come il «fare» comporti una trasformazione tanto <strong>di</strong> se stessi quanto del<br />

mondo. In questo senso, per Hegel, l’uomo non è tanto ciò che è quanto<br />

piuttosto ciò che fa, o meglio, ciò che ha o avrà fatto. Quella <strong>di</strong> Hegel è, in<br />

questo senso, un’ontologia del «fare». Ciò, ripeto, sia nel senso del lavoro<br />

e della produzione – Handlung, l’opera della mano, l’operazione tecnica;<br />

Hegel non <strong>di</strong>stingue il lavoro dalla produzione <strong>di</strong> artefatti, e se parla quasi<br />

sempre <strong>di</strong> lavoro, gli esempi che tuttavia ci fornisce non riguardano propriamente<br />

il lavoro quanto piuttosto il produrre tecnico: una considerazione,<br />

questa, che aprirebbe una questione immensa che qui non potremo<br />

affrontare – sia nel senso dell’«azione» (praxis) in senso proprio: operazioni<br />

o attività assimilate dal fatto che comportano quel movimento (logico) <strong>di</strong><br />

«negazione» e trasformazione che «solleva» il semplice dato (l’in sé) a realtà<br />

spirituale umana. E tuttavia – e questo è il secondo aspetto – proprio<br />

una simile interpretazione porta a considerare e comprendere l’operare e<br />

l’agire dell’uomo entro la forma <strong>di</strong> un sillogismo logico-<strong>di</strong>alettico o <strong>di</strong> un<br />

circolo economico.<br />

Se infatti analizziamo con attenzione il passo della Fenomenologia che abbiamo<br />

citato più su per esteso, possiamo osservare come la scissione della<br />

sostanza – o della semplice identità dell’essere – prodotta dalla «negazione»<br />

220<br />

ECONOMIA E ONTO-LOGICA DIALETTICA<br />

– e cioè dall’agire-operare del soggetto – deve alla fine, e come fine, ritrovare<br />

circolarmente l’unità della sostanza («Il vero è il <strong>di</strong>venire <strong>di</strong> se stesso,<br />

il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine»);<br />

e perfino – come Hegel scrive nella Scienza della logica – quell’«idea del Bene»<br />

che l’interpretazione onto-teologia della Metafisica <strong>di</strong> Aristotele aveva considerato<br />

come esito della sua scienza ricercata.<br />

Nell’onto-logica <strong>di</strong> Hegel, questi due aspetti sono – come <strong>di</strong>cevo – inseparabili.<br />

Come separali infatti? Come non cogliere, in ogni movimento, il<br />

movimento della loro conversione?<br />

Sarebbe come separare l’oikonomia da se stessa.<br />

Nell’onto-logica <strong>di</strong>alettica possiamo volta a volta sottolineare (con<br />

Nancy), da un lato, l’estrema esposizione all’altro, l’assoluta «inquietu<strong>di</strong>ne del<br />

<strong>di</strong>venire», il «lavoro del negativo», l’esportazione e l’espropriazione, l’esporsi<br />

dell’infinito nel finito, e il movimento per cui lo spirito si ritrova infinito nell’esporre<br />

la sua medesima finitezza, il risolversi della sostanza nel soggetto,<br />

l’assoluto singolarizzarsi della determinazione, il <strong>di</strong>venire come assoluzione;<br />

e mostrare al tempo stesso dall’altro – in un’altra prospezione economia,<br />

nella stessa economia generale – come il movimento negativo-conservativo<br />

dell’Aufhebung assimila e ammortizza ogni alterità: persino il nulla e la morte.<br />

(Come ha scritto Derrida: «L’Aufhebung è l’ammortamento della morte. È il<br />

concetto dell’economia in generale nella <strong>di</strong>alettica speculativa» 3 ).<br />

L’Aufhebung assimila e ammortizza ogni alterità o, come potremmo anche<br />

<strong>di</strong>re, la riscatta o la re<strong>di</strong>me. E insieme al «tollere» – richiamato a questo proposito<br />

dallo stesso Hegel – è il verbo latino «re<strong>di</strong>mere» a restituire qualcosa<br />

della portata ontologica e metafisica – insieme, inscin<strong>di</strong>bilmente etica, giuri<strong>di</strong>ca,<br />

religiosa, economica – del movimento speculativo dell’aufheben, come<br />

logica stessa del vivente e dello spirituale, anzi della Vita o dello Spirito. E<br />

non è forse qui secondario ricordare come Hegel abbia trovato molti dei significati<br />

che in questo verbo si esprimono – restituzione, riscatto, estinzione,<br />

ammortamento, redenzione – me<strong>di</strong>tando, negli scritti teologici<br />

giovanili e nella Fenomenologia, sulla mozione del «perdono», sulla «parola<br />

della riconciliazione» (das Wort der Versöhnung) e sull’economia della salvezza.<br />

Un fatto che ci porta ad articolare – siamo ormai alla fine – una domanda<br />

come questa: la filosofia o l’economia dello spirito che governa la<br />

«scienza della logica» <strong>di</strong> Hegel ha una ra<strong>di</strong>ce teo-logica?<br />

Si tratta <strong>di</strong> una questione immensa, sollevata nella sua generalità fin<br />

dalla nostra Introduzione; una questione a cui probabilmente non è possibile<br />

dare una risposta certa o, in ogni caso, univoca; una questione che, a<br />

221


PARTE PRIMA<br />

mio parere, deve essere considerata al tempo stesso anche a rovescio: non<br />

è infatti altrettanto vero che i nostri colpi <strong>di</strong> sonda nella storia della metafisica,<br />

da Aristotele a Hegel, ci hanno in<strong>di</strong>cato il lavoro <strong>di</strong> una razionalità<br />

economica – o <strong>di</strong> una «metafisica del proprio» – nella costituzione e nella<br />

tra<strong>di</strong>zione della stessa onto-teo-logica? Non si potrebbe ad esempio mostrare<br />

come, in Hegel, il movimento <strong>di</strong>alettico che ammortizza interamente<br />

l’altro da sé non sia in fondo che un’economia generale («legge economica<br />

<strong>di</strong> riappropriazione assoluta della per<strong>di</strong>ta assoluta», per esprimerci ancora<br />

con parole <strong>di</strong> Derrida, che sottolinea qui come ogni taglio o rottura che si<br />

produce nel focolare della proprietà appartiene al «processo familiare» e riconduce<br />

alla «legge della famiglia» 4 )? Come cioè l’Aufhebung sia un concetto<br />

«onto-economico», dove l’idealità dello spirito si produce come oikos<br />

(casa, <strong>di</strong>mora, tempio, tomba che «custo<strong>di</strong>sce il proprio»); come ritorno al<br />

proprio, «astuzia della ragione», movimento o<strong>di</strong>sseico, circolare, <strong>di</strong> restituzione,<br />

<strong>di</strong> apokatastasis, <strong>di</strong> riappropriazione o restituzione economica.<br />

In Hegel, l’ho già detto, i due aspetti che ho qui segnalato coesistono,<br />

abitano l’uno nell’altro; e tuttavia è solo per questa duplicità che è possibile<br />

identificare qualcosa come una logica o un’economia del senso, dello<br />

Spirito o della Vita.<br />

Due parole ancora per congedarci da questa sorta <strong>di</strong> lunga Introduzione<br />

che ci ha fatto attraversare alcuni momenti salienti della storia della metafisica:<br />

l’oikonomia non si esprime sempre come un «termine me<strong>di</strong>o» o come<br />

un’Aufhebung tra essere e azione, ontologia e prassi, essenza ed esistenza, logica<br />

e vita? Non è questo il suo «luogo»? Non è questo il luogo – illocale<br />

e illocalizabile, <strong>di</strong>ffuso tra le «forze», i «punti», le «mona<strong>di</strong>», i «soggetti» –<br />

dell’essenza dell’economia (e del governo)?<br />

Se tuttavia vogliamo augurarci <strong>di</strong> procedere ancora lungo questa strada,<br />

dovremo tentare <strong>di</strong> mettere in questione il concetto filosofico più enigmatico<br />

<strong>di</strong> tutti: il concetto <strong>di</strong> vita. Speriamo, che ci sia, una prossima volta.<br />

_______________<br />

1 I. Kant, Critica della facoltà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio, cit., p. 235.<br />

2 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [Phänomenologie des Geistes (1807), hrsg. von<br />

W. Bonsiepen und R. Reede, in GW, Bd 9, Felix Meiner, Hamburg, 1980], ed.<br />

it. A cura <strong>di</strong> E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 13-14.<br />

3 J. Derrida, Glas [Glas, Galilée, Paris 1974], tr. it. <strong>di</strong> S. Facioni, Bompiani, Milano<br />

2006, p. 626.<br />

4 Ibidem.<br />

222<br />

PARTE SECONDA<br />

DECLINAZIONI DELL’ECONOMICO<br />

NELLA FILOSOFIA DEL NOSTRO TEMPO

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