Notiziario del Centro Studi per la Val di Sole - Centro Studi Val di Sole

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cultura delle Valli Un piccolo insediamento sparso a monte di Giazza, dove si possono notare le architetture rurali frutto di pietra e fuoco, alzate con pietra, calce, terre cotte, mancando forestazione di conifere ed avendo i cimbri sfruttato nei secoli la latifoglia per il carbone di legna. più. Il dialetto oggi si riduce dunque alla conversazione tra amici e non ha più alle spalle un mondo che lo sostenga. Un caso singolare che interessa noi più da vicino è quello dei dialetti tedeschi in Alto Adige, tema presentato da Franz Lanthaler, docente di tedesco e latino alle superiori di Bolzano. Ha presentato la loro importanza per il gruppo di lingua tedesca e il loro impatto sul bilinguismo degli italofoni. La realtà della provincia confinante ha queste percentuali linguistiche: 64% tedesco, 25% italiano, 4% ladino, 7% lingue immigrati. Ma nessuno in questa realtà di bilinguismo spiccato aveva mai considerato il ruolo dei dialetti. L’uso dello standard lingua nazionale era difficile in un ambiente spiccatamente dialettofono come quello di ambito tirolese, con disagio sia da parte di un gruppo che dell’altro. Ora la soglia si è abbassata, ma se è vero che il dialetto esclude, non è per chiusura o cattiveria dei gruppi. È perché dietro c’è l’aspetto identitario di riferimento. Il dialetto in Alto Adige non sta diminuendo, sta invece 26 cambiando. Vivaci chiarimenti sulla lingua e cultura cimbra sono venuti da Antonia Stringher dell’Associazione Tzimbar ‘un Ljètzan (Cimbri di Giazza). Il termine Cimbri che noi usiamo in italiano appare improprio e fuorviante perché legato più alla smentita ipotesi “umanistica” quali discendenti della tribù cimbra sconfitta dai Romani. Meglio pertanto il termine dialettale assonante Tzimbar, che indica lavoratori del bosco, disboscatori. E con questo ruolo è storicamente attestato, in un documento del 1287 del Vescovo di Verona, un contratto di locazione con coloni di provenienza tedesco-bavarese. La difficoltà di studio di questo idioma arcaico con prestiti dall’antico alto tedesco, dal longobardo, dal celtico è dovuto alla trasmissione esclusivamente orale nei secoli. Individuare le radici originarie dei termini non è mai agevole perché commiste a reinterpretazioni fuorvianti. Prendiamo i toponimi ospitanti il convegno, ad esempio. Giazza lo si farrebbe derivare dal latino «glacea» (e veramente è zona ombrosa e fredda), ma in cimbro è detta Ljètzan, dal longobardo «lezzen», sbarrare, trattenere: il paesino è posto in fondo ad un vero sbarramento di monti. Selva di Progno avrebbe denominazione dal latino «Silva Progni», ma in cimbro c’è il termine dall’antico alto tedesco «Brunge», per sorgente, fonte. Una vera sorpresa dal cimbro riguarda alcuni termini di derivazione longobarda nell’uso dialettale, che troviamo attestati quasi assonanti nel nostro solandro gaín, gergo dei paroloti come pure dei pastori bresciani: «gaiòfa» tasca, «bloto» nudo solo, «skita» sterco di gallina, «slandrón» pigro ozioso, «slèpa» sberla, «slapár» mangiare avidamente. Veramente singolari queste popolazioni cimbre degli storici XIII comuni veronesi. Il paesino di Giazza in particolare oggi è l’ultima area dove sopravvive l’antica parlata fra gli anziani. Ha resistito per l’isolamento geografico, i matrimoni endogamici, la scelta diretta dei preti che predicavano in cimbro secondo il privilegio dello jus patronatus, non ultimo il loro carattere ostile verso gli stranieri. Ridotto all’osso era il loro far di conto: avevano termini per contare solo fino a 4 e per il resto usavano le mani. Segno che l’economia era autarchica e legata soprattutto al baratto. Purtuttavia da tempo si sta studiando e fissando su carta questo per noi oscuro idioma perché «Ta ditza altaz garèida muzzat sterban, lébabe sain gadènka ute púachar» -Se questo vecchio linguaggio è destinato a morire, viva almeno nei li-
i- come sentenziò Mons. Giuseppe Cappelletti 1 , sacerdote matematico, figura di studioso emerito della Diocesi di Verona originario di Giazza. Le comunicazioni del pomeriggio hanno integrato la giornata su altre aree linguistiche dell’arco alpino. Davide Filiè ha parlato dei «Todeschi della Valsesia – Le isole linguistiche Walser ai piedi del monte Rosa», una lingua che sta morendo. I pochi anziani rimasti la parlano benissimo, ma non è praticata dai giovani tanto che «io l’ho insegnata ai miei figli almeno per avere qualcuno con cui parlare la mia lingua madre per tutta la vita». Aldo Imberti di Clusone in Val Seriana (Bg) ha esposto «La slacadura di tacoler – Gaí il dialetto dei pastori orobici». Franco Liloni ha trattato del Laboratorio linguistico camuno. Gabriele Antonioli di Grosio (So) ha relazionato sull’area valtellinese e valchiavennasca. Il trentino Leo Toller di Palù del Fersina–Palai en Bersntol- ha esposto la realtà dei Mòcheni oggi, linguaggio per molti aspetti gemello del cimbro. Claudia Robiglio, infine, docente universitaria a Verona, ha trattato dell’integrazione fra colture e culture in Val d’Illási e Giazza, pondendo l’attenzione agli aspetti d’immagine del territorio e loro significanza-simbologia culturale. Già si sta progettando con lena la prossima tappa dei Tra/Montani. La XXI edizione andrà ospite in Valsesia, in ambito linguistico walser-alemanno. La sua candidatura è stata presentata in contenuti e organizzazione in chiusura di giornata. Il tema proposto verterà sull’alimentazione, considerando che nell’agro-alimentare la marginalità alpina da problema può divenire risorsa. Questo il titolo «La cucina delle Alpi: fra tradizione e rivoluzione» 23-25 settembre 2011. Una nota di colore non può mancare, perché i Tra/Montani, sia intesi come convegni che come persone coinvolte, non sono sempre e solo tutto “casa e studio”. Momenti di festa, divertimento, abbracci fra amici, convivialità e brindisi alle varie tavolate di tipicità alpine, scoperte di tradizioni e chicche da sano turismo culturale, rappresentano forse più delle relazioni accademiche il cuore pulsante e motivante degli incontri annuali. Dunque, mentre al termine del convegno rincorrevo alcuni relatori per arricchire e chiarire i mei appunti, fuori i “cimbri” di Badia Calavéna nella bassa Valle dell’Illási, procedevano alla carica dei mastodontici trombini. I Pistonieri dell’Abbazia, gruppo costituitosi nel 1992 da vecchie “batterie” scioltesi nel 27 cultura delle Valli I Pistonieri dell’Abbazia hanno appena dato fuoco alle polveri, con l’arma ora in posizione di riposo. Il trombino è opera di alto artigianato e antica tecnologia militare, decorato ad libitum dal proprietario –spesso esecutore stesso- ed ha un peso ragguardevole, direttamente proporzionale al volume del botto. Lo scoppio, con canna-trombone rivolta verso terra, avviene naturalmente “a salve”. Non si vedono in giro Pistonieri gracili! 1962 tengono viva questa tradizione patrimonio esclusivo della minoranza etnica dei Cimbri. Botti da far tremare i muri del Centro comunitario dei educazione ambientale che ci ospitava ha drasticamente interrotto gli ameni colloqui con i relatori, richiamandoci in cortile. Purtroppo, come si suol dire, «sen rivadi al fum dele candele…», anzi dei trombini. Questi Pistoneri possono essere considerati la versione “Schützen” dei Cimbri. Le radici di dimestichezza con le polveri da sparo degli antichi coloni bavaresi in area tedesca –tradizionalmente anche bacino di provenienza delle maestranze dei minatori, Bergknappen, da cui il toponimo trentino Canòpi- terra di reclutamento mercenario, ha fatto sì che l’atavico “mestiere delle armi” affinato in Lessínia anche nel ruolo di guardiani dei valichi veronesi per conto del Vescovo e della Serenissima, sopravvivesse come fenomeno da baraccone. Oggi animano le varie feste di paese. Una ultima nota di tragica storia contemporanea ci
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