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Libro Ospedale Motta per internet.indd - Ospedale riabilitativo Motta ...

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tremendo choc. Per tutta la vita aveva avuto il presentimento<br />

che il fumo (60 sigarette al giorno) lo avrebbe portato alla morte.<br />

Avrebbe resistito solo 24 ore: la morte sopraggiunse <strong>per</strong> asma<br />

cardiaco da enfisema polmonare. Mi disse: “Non piangere, Letizia,<br />

non è niente morire”. Chiese invano una sigaretta a mio cugino<br />

e, rivolto a noi, con voce già indistinta: “Questa sarebbe davvero<br />

l’ultima sigaretta”. Mia madre, che era cattolica, gli chiese a bassa<br />

voce: “Vuoi pregare?”. Egli gemette: “Quando non si è pregato<br />

tutta la vita, non serve all’ultimo momento”. Non era credente, né<br />

in una religione, né nell’altra. Non parlammo più: due ore dopo<br />

era spirato. Erano le due e mezzo di giovedì 13 settembre 1928.<br />

Aveva 67 anni. Fumatore vizioso, sempre al traguardo di ogni<br />

“ultima sigaretta”, preoccupato sempre della propria salute, il suo<br />

declino fisico si accompagnava all’ascesa letteraria. Era convinto<br />

come malato. Almeno mi sembrava, ma secondo me esagerava.<br />

Il nipote medico lo aveva avvertito del <strong>per</strong>icolo, ma non aveva<br />

mai potuto smettere; eppure aveva paura del fumo: tossiva, aveva<br />

disturbi <strong>per</strong> questo. Ogni anno andava a Bormio <strong>per</strong> i polmoni<br />

ma, l’anno in cui morì, la mamma mi scrisse che il papà non<br />

traeva più alcun beneficio dalla cura. Quando il medico gli disse<br />

di limitare la carne, adottò una dieta vegetariana, piselli all’olio e<br />

basta… Era un malato immaginario, ossessionato dalla malattia,<br />

che era certamente un mascheramento della morte, e la sua o<strong>per</strong>a<br />

gira attorno a questa protagonista. Eppure, al momento di morire,<br />

conservò una stoicità da filosofo antico”.<br />

Lo scrittore triestino godeva solo da un paio d’anni di una certa<br />

notorietà letteraria, conseguente alla pubblicazione del romanzo<br />

La coscienza di Zeno, edito nel 1923 e recensito favorevolmente da<br />

James Joyce –che a Trieste aveva trascorso alcuni anni frequentando<br />

Svevo- e da un giovane critico ligure, Eugenio Montale. Gli altri<br />

romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898) erano passati sotto<br />

silenzio ed ebbero fortuna postuma. Una esatta ricostruzione<br />

dell’incidente di <strong>Motta</strong> si deve a Piero Sanchetti, medico-scrittore<br />

che o<strong>per</strong>ò <strong>per</strong> molti anni nel nosocomio mottense 28 . Di ritorno da<br />

Bormio Valtellina su una berlina OM guidata dall’autista Giovanni<br />

Colleoni sotto una pioggia battente, Ettore “Aron” Schmitz (vero<br />

nome dello scrittore di origine ebraica) a mezzogiorno del 12<br />

39<br />

settembre 1928 si era fermato con moglie e nipotino (FOTO n.29)<br />

a Treviso <strong>per</strong> pranzare. Ripartirono verso le 14, <strong>per</strong> <strong>per</strong>correre i 150<br />

chilometri di strada (allora in terra battuta) che separano Treviso<br />

da Trieste. A un paio di chilometri da <strong>Motta</strong> era stato da poco<br />

ultimato il ponte in cemento sul canale Malgher e la sede stradale<br />

era ancora in disordine, senza indicazioni che lo segnalassero. La<br />

pesante vettura slittò proprio sul fondo viscido del ponte, ma<br />

l’autista riuscì <strong>per</strong> qualche decina di metri a governarla, finendo<br />

poi contro un platano sulla sinistra della carreggiata. La signora<br />

Schmitz batté la testa e svenne; rinvenendo, vide che l’autista,<br />

praticamente incolume, aveva già estratto dall’auto il nipotino e<br />

cercava di fare lo stesso con suo marito, che gemeva accusando un<br />

forte dolore alla gamba. Alla fine fu messo a sedere sulla strada,<br />

sotto la pioggia, e, mentre si aspettavano i soccorsi, con la tipica<br />

reazione adrenalinica conseguente ai fatti traumatici, considerò<br />

con la moglie che, tutto sommato, avrebbe potuto andare peggio,<br />

visto che la corsa dell’auto era stata arrestata dall’albero sul ciglio<br />

di un profondo fossato. La signora e il bambino furono portati<br />

all’ospedale di <strong>Motta</strong> da una macchina di passaggio, mentre Svevo,<br />

che sembrava il meno grave, attese un’auto pubblica. Il medico di<br />

guardia, il dottor Gasparini, si accorse subito che in realtà era lo<br />

scrittore ad aver riportato le ferite più gravi, e ricoverò in una stessa<br />

stanza del reparto dozzinanti i tre infortunati. La prima diagnosi,<br />

firmata dal dottor Giovanni Cardazzo, fu, <strong>per</strong> la signora Schmitz, di<br />

commozione cerebrale traumatica, con “escoriazioni ed ecchimosi<br />

alle ossa del capo e contusioni all’addome”, e prognosi di 15 giorni.<br />

Per il piccolo Paolo di “ferite lacero-contuse al parietale sinistro<br />

e alla regione sottomascellare guaribili in 20 giorni”. Al 67enne<br />

Ettore Schmitz fu constatata la “frattura del femore sinistro ed<br />

escoriazioni alla faccia”; prognosi 40 giorni. Trascorse la notte<br />

senza febbre, ma con un’agitazione che andava aumentando, di<br />

pari passo con il battito del polso e l’affanno del respiro. Grande<br />

fumatore come il proprio alter ego Zeno del romanzo, Svevo<br />

chiedeva con insistenza una sigaretta, che, ovviamente, gli veniva<br />

negata. Nella notte erano arrivati da Trieste la figlia e il genero,<br />

ed anche il medico curante e parente Aurelio Finzi. Fu sotto i<br />

loro occhi che, nel primo pomeriggio, morì. Sulla cartella clinica n.<br />

28 P. Sanchetti, La morte di un industriale triestino a <strong>Motta</strong> di Livenza, in: La Castella, <strong>Motta</strong> di Livenza, maggio 1994, pp. 125 segg.

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