Numero 8 - Gli Amici del Tito Livio

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31.05.2013 Views

STORIA & RACCONTI Gli Amici del Tito Livio “Terra dura” Pubblichiamo l’introduzione dell’ultimo lavoro di Mario Simonato, a cura di Pasquale Natali “Queste pagine vogliono essere un umile, rispettoso omaggio ai cantori della mia terra”. Così Mario Simonato ha cura di puntualizzare nella breve premessa al suo libro. Costanti, infatti, sono i riferimenti agli autori veneti, richiamati direttamente all’inizio di ogni capitolo. Su tutti Luigi Meneghello, a cui l’autore sembra dedicare l’opera – fatti salvi gli affetti familiari – con quella splendida citazione d’apertura: il piano inferiore del mondo / ha un orlo di monti celesti / ed è colmo di paesi. Ma, come si procede nella lettura, i rimandi si aprono al panorama di tutta la letteratura italiana, e non solo. A partire dalla grande stagione poetica trecentesca, passando attraverso la tradizione novellistica e la divertita poesia popolareggiante e giocosa (ricordiamo, a tal proposito, i chiari riferimenti negli episodi della compagnia dei selvadeghi e in certe ridanciane storie d’amore), si arriva agli autori della poesia e della narrativa dell’Ottocento e del Novecento. S’intersecano, così, liberamente, generi e stili di ieri e di oggi, dando origine a un impasto linguistico dagli esiti spesso divertiti, a volte apparentemente dissacratori, in realtà sempre rispettosi per la calda partecipazione dell’autore alle vicende del protagonista. Orbene, su questo dotto tessuto Simonato innesta la lingua viva e palpitante della sua infanzia: il dialetto, che gli riporta alla luce le care memorie. Perché una lingua è anche il deposito della memoria. Da quel sottofondo linguistico, infatti, scaturiscono le fantasime incapsulate di un tempo che i rapidi mutamenti di questi anni hanno reso lontanissimo. Le parole del dialetto irrompono nel testo come lampi improvvisi, esigendo con forza diritto di cittadinanza, accanto a elementi colti, forbite forme letterarie, evasioni lirico-descrittive, in un disinvolto trascorrere dalla disinibizione vernacola al sussiego dotto e letterario. C’è, forse, in questo impasto linguistico una presa di posizione polemica nei confronti d’una lingua ufficiale piuttosto approssimativa, “inquinata dai meccanismi e dalle grossolanità dei mass media” e dal mondo dei consumi. L’autore sembra suggerire che il dialetto s’avvicini maggiormente alla lingua colta della letteratura che all’italiano snervato della comunicazione orale (illuminante l’episodio dell’arrivo in città del protagonista). La lingua italiana è rigida, inerte, priva di espressività, mentre il dialetto palpita nei ricordi, vibra nelle sensazioni, vive nelle cose, nei volti, anche se articolato in strutture più essenziali, in “una sintassi prelogica, fatta di associazioni libere e, in qualche misura, folli” (indicativo l’esempio dei liberi pensieri del protagonista durante la processione delle rogazioni; esempio che, tra l’altro, costituisce un chiaro riferimento alla narrativa del flusso di coscienza e del monologo interiore). Simonato non propone, certo, un ritorno al dialetto, 8 perché ogni lingua è figlia del suo tempo; sente, però, il bisogno d’una lingua viva, che sappia incarnare la realtà, come lo sapeva essere la lingua del protagonista, fatta di parole terragne e sanguigne, una lingua non soggetta alle ipocrisie d’una educazione di perbenismo tutto esteriore, una lingua che ha il coraggio di dire anche quello che “non sta bene dire” se si deve dire, che esprime tutta la sua carica vitale, anche se può apparire dissacrante (si veda l’esempio della confessione del protagonista). Parole e immagini, dunque, che richiamano le amate frequentazioni letterarie e si sono sedimentate nell’animo. Sono diventate carne e vita, assieme alle parole e alle immagini del buon tempo antico dell’infanzia. Da questa miscellanea nasce il significato e il messaggio più autentico del libro: il valore eterno dell’opera d’arte, in specie dell’opera letteraria, che vive e parla a suo modo in ciascuno di noi, e che “colora di luce” anche le memorie, facendole rivivere di nuove ed arcane suggestioni. Così, i cari ricordi d’infanzia, che nelle frenesie di oggi corrono il rischio di perdersi in uno smarrito iperuranio, sono riportati alla luce per vivere e parlare in un mondo e in un’età che appaiono segnati dal tramonto. A questo punto, ecco emergere, a mio parere, l’altro messaggio che l’autore intende lasciare. Anche se l’uomo colto che narra rimane catturato dai cascami del passato e d’una lingua sepolta, ove allignano le care radici, il suo sguardo va oltre. Anche se, nei richiami poetici, indulge all’idillio, il suo animo è proteso al futuro, perché non ci si può cullare con obsolete armonie del passato se non per qualche momento di estraniato riposo. Quel tanto o quel poco di passato che vive ancora, serve per motivare il presente. In questa prospettiva acquista un particolare significato la figura di Arminio, un personaggio che sembra provenire da un ultramondo, ma da risultare talmente importante e pervasivo da sconvolgere quel piccolo orizzonte agreste e spingere il protagonista a lasciare definitivamente la sua terra. Considerata la problematicità degli argomenti affrontati da questo strano uomo “dalla barba da circasso”, il capitolo a lui dedicato potrebbe apparire del tutto estraneo all’universo narrato nelle pagine precedenti. A guardar bene, però, è fin troppo evidente che le problematiche affrontate da Arminio traducono la sensibilità morale e culturale del protagonista fatto adulto. Poiché tutta l’opera è uno sguardo sull’infanzia attraverso gli occhi d’un adulto. E l’autore ci vuole suggerire che le convinzioni dell’età adulta sono il frutto di un tirocinio, spesso sofferto, che affonda le radici anche nell’infanzia e nella fanciullezza, legandosi a volti, incontri, voci, stupori e incanti di quell’età. Così le “care memorie” non sono un ripiegamento su un nostalgico passato, ma, attraverso un severo, severissimo mo-

nito all’incuria del presente, un invito a sfidare coraggiosamente il futuro. Sarebbe, pertanto, limitante, e forse fuorviante, considerare quest’opera come un semplice recupero di memorie d’altri tempi, filtrate attraverso parole e immagini di autori antichi e moderni. Né il sorriso e la divertita ironia, che trascorrono in tante pagine, sono il segno d’un disimpegnato abbandono al divertissement fine a se stesso. Come nelle sue opere teatrali, Mario Simonato ama spesso intrecciare il riso al pianto, perché questo è il tessuto della vita: un trascolorare di gioie e fatiche che intessono la trama del quotidiano. Ma, ancor più, tra le pieghe di questa divertita o disincantata affabulazione, emerge Gli Amici del Tito Livio 9 STORIA & RACCONTI costante l’impegno della riflessione e l’intento, a volte ostinato, di sfarinare certezze di comodo. Perché questa è la grande lezione che l’autore ha appreso dall’incontro con i “maestri” del passato. Grande parodia, se vogliamo, quella di Simonato, ma in senso etimologico: controcanto e riscrittura che svaga nel tempo e nello spazio dell’infanzia, per trarre qualcosa di sempre nuovo e stimolante, seppur da un legname vegio, come diceva un grande autore figlio di questa terra, guarda caso, anche lui dialettale: “sté parole, che serà sté parole, serà ancora parole, e vu ve parerà d’averle aldù, con ve pare anche adesso.” (Ruzante) PASQUALE NATALI Aspasia milesia, donna sapiente di Daniela Mazzon La costituzione della città-stato greca, in particolare di Atene nell’età periclea, rappresenta la realizzazione di un progetto politico che esclude la donna; la testimonianza più chiara e inequivocabile si trova nelle parole che Pericle rivolge alle vedove dei caduti nel discorso commemorativo recitato nel 430 a. C., alla fine del primo anno della guerra del Peloponneso: “Il sommo onore per voi donne – ammonisce lo stratega in chiusura dell’orazione – è che, nel biasimo e nella lode, il vostro nome sia pronunciato il meno possibile in pubblico”. Eppure il leader, che fu l’uomo politico più autorevole e potente dell’epoca, quando disse ciò, aveva accanto a sé una compagna il cui nome correva sulla bocca di tutti: Aspasia. Non sappiamo bene come e perché l’affascinante milesia si fosse trasferita dalla sua città natale ad Atene né conosciamo il luogo in cui nacque la love story fra la giovane straniera e il maturo statista. La cosa certa è che nel 446 a. C. Pericle, quasi cinquantenne, divorziò consensualmente dalla moglie legittima, da cui aveva avuto due figli, e prese in casa l’amante ventenne, con la quale condivise il resto dei suoi giorni. Naturalmente fu uno scandalo, quando si vide entrare nella dimora del primo cittadino una giovane straniera dai costumi equivoci, la quale faceva tutto ciò che a una donna perbene era vietato, ossia flirtava con Pericle sulla porta di casa e quando lo accompagnava ai banchetti e ai simposi; dimostrava di essere colta e insegnava a uomini e a donne, nella scuola che aveva aperto all’interno dell’abitazione, arte erotica, retorica e una nuova disciplina, l’economia, della quale, secondo la testimonianza diretta di Senofonte, era stata lei stessa fondatrice. Poiché l’opinione pubblica era divisa e sconcertata di fronte alle vicende sentimentali di Pericle, i suoi avversari politici, dopo aver preso di mira alcune delle persone a lui più vicine – primi fra tutti lo scultore Fidia, che sovraintendeva ai lavori che lo statista aveva progettato per abbellire l’Acropoli di Atene, e il filosofo Annassagora, – tentarono d’indebolirlo ulteriormente, muovendo contro Aspasia le pesanti accuse di empietà e di corruzione di donne oneste, per le quali era prevista la pena capitale. Il processo si risolse con l’assoluzione dell’imputata, poiché si presentò a difenderla Pericle stesso, che usò, per convincere i giudici, tutta la sua abilità oratoria, accompagnata da lacrime e suppliche. Lo statista, del resto, già abilissimo per natura nell’arte della parola, si era ulteriormente affinato proprio sotto la guida di Aspasia, la quale sembra che fosse anche l’autrice di alcuni discorsi pubblici del suo illustre compagno, oltre che sua insostituibile consigliera nelle scelte politiche. Anche per ottenere l’iscrizione nelle fratrie del figlio bastardo avuto con la sua concubina, Pericle il Giovane, lo stratega dovette usare tutte le sue capacità persuasive e ottenne ciò che voleva dal popolo ateniese poco prima di morire di peste nel 429 a. C. Rimasta vedova, Aspasia nel giro di pochi mesi trovò un altro compagno, Lisicle, persona rozza e incolta, di bassa origine e d’indole volgare che, stando alla testimonianza del commediografo Aristofane e dello storico Plutarco, assunse il ruolo di guida di Atene solo perché era l’amante di colei che ormai era diventata una “donna di potere”. Di quel che successe in seguito di Aspasia sappiamo ben poco: ebbe un figlio da Lisicle; rimase nuovamente vedova; studiò retorica con Gorgia di Lentini che era giunto ad Atene nel 427; continuò a insegnare a uomini e a donne le molteplici arti di cui era maestra riconosciuta da molti intellettuali dell’epoca. Probabilmente assistette nel 406 a. C. all’esecuzione di Pericle il Giovane, condannato assieme agli altri strateghi, dopo la battaglia delle Arginuse, per non aver prestato soccorso ai naufraghi; non è invece nominata da Platone fra le persone presenti nella cella di Socrate, suo allievo devoto, ammiratore e forse innamorato, quando questi bevve la cicuta, per cui si può ipotizzare che fosse morta prima di tale evento. È evidente che le notizie su questa donna sapiente subirono manipolazioni, nel corso dei secoli, che si cercò di cancellarne la memoria. Nonostante ciò il ricordo persiste, legato a opere poetiche immortali, come il Ciclo di Aspasia di Giacomo Leopardi e, perché no, grazie ai botanici, che coniugarono spesso il nome di quest’affascinante donna con fiori d’incantevole bellezza.

STORIA & RACCONTI<br />

<strong>Gli</strong> <strong>Amici</strong> <strong>del</strong> <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong><br />

“Terra dura”<br />

Pubblichiamo l’introduzione <strong>del</strong>l’ultimo lavoro di Mario Simonato, a cura di Pasquale Natali<br />

“Queste pagine vogliono essere un umile, rispettoso<br />

omaggio ai cantori <strong>del</strong>la mia terra”. Così Mario Simonato ha<br />

cura di puntualizzare nella breve premessa al suo libro. Costanti,<br />

infatti, sono i riferimenti agli autori veneti, richiamati direttamente<br />

all’inizio di ogni capitolo. Su tutti Luigi Meneghello, a cui<br />

l’autore sembra dedicare l’opera – fatti salvi gli affetti familiari –<br />

con quella splendida citazione d’apertura: il piano inferiore <strong>del</strong><br />

mondo / ha un orlo di monti celesti / ed è colmo di paesi.<br />

Ma, come si procede nella lettura, i rimandi si aprono al<br />

panorama di tutta la letteratura italiana, e non solo. A partire<br />

dalla grande stagione poetica trecentesca, passando attraverso<br />

la tradizione novellistica e la divertita poesia popolareggiante<br />

e giocosa (ricordiamo, a tal proposito, i chiari riferimenti<br />

negli episodi <strong>del</strong>la compagnia dei selvadeghi e in certe<br />

ridanciane storie d’amore), si arriva<br />

agli autori <strong>del</strong>la poesia e <strong>del</strong>la<br />

narrativa <strong>del</strong>l’Ottocento e <strong>del</strong> Novecento.<br />

S’intersecano, così, liberamente,<br />

generi e stili di ieri e di oggi, dando<br />

origine a un impasto linguistico dagli<br />

esiti spesso divertiti, a volte apparentemente<br />

dissacratori, in realtà sempre<br />

rispettosi per la calda partecipazione<br />

<strong>del</strong>l’autore alle vicende <strong>del</strong> protagonista.<br />

Orbene, su questo dotto tessuto<br />

Simonato innesta la lingua viva e<br />

palpitante <strong>del</strong>la sua infanzia: il dialetto,<br />

che gli riporta alla luce le care<br />

memorie. Perché una lingua è anche il<br />

deposito <strong>del</strong>la memoria. Da quel sottofondo<br />

linguistico, infatti, scaturiscono<br />

le fantasime incapsulate di un tempo<br />

che i rapidi mutamenti di questi anni<br />

hanno reso lontanissimo. Le parole <strong>del</strong><br />

dialetto irrompono nel testo come lampi<br />

improvvisi, esigendo con forza diritto<br />

di cittadinanza, accanto a elementi colti, forbite forme letterarie,<br />

evasioni lirico-descrittive, in un disinvolto trascorrere dalla disinibizione<br />

vernacola al sussiego dotto e letterario.<br />

C’è, forse, in questo impasto linguistico una<br />

presa di posizione polemica nei confronti d’una lingua ufficiale<br />

piuttosto approssimativa, “inquinata dai meccanismi e dalle<br />

grossolanità dei mass media” e dal mondo dei consumi.<br />

L’autore sembra suggerire che il dialetto s’avvicini maggiormente<br />

alla lingua colta <strong>del</strong>la letteratura che all’italiano snervato <strong>del</strong>la<br />

comunicazione orale (illuminante l’episodio <strong>del</strong>l’arrivo in città <strong>del</strong><br />

protagonista). La lingua italiana è rigida, inerte, priva di espressività,<br />

mentre il dialetto palpita nei ricordi, vibra nelle<br />

sensazioni, vive nelle cose, nei volti, anche se articolato in<br />

strutture più essenziali, in “una sintassi prelogica, fatta di associazioni<br />

libere e, in qualche misura, folli” (indicativo l’esempio<br />

dei liberi pensieri <strong>del</strong> protagonista durante la processione <strong>del</strong>le<br />

rogazioni; esempio che, tra l’altro, costituisce un chiaro riferimento<br />

alla narrativa <strong>del</strong> flusso di coscienza e <strong>del</strong> monologo<br />

interiore).<br />

Simonato non propone, certo, un ritorno al dialetto,<br />

8<br />

perché ogni lingua è figlia <strong>del</strong> suo tempo; sente, però, il bisogno<br />

d’una lingua viva, che sappia incarnare la realtà, come lo<br />

sapeva essere la lingua <strong>del</strong> protagonista, fatta di parole<br />

terragne e sanguigne, una lingua non soggetta alle ipocrisie<br />

d’una educazione di perbenismo tutto esteriore, una lingua che<br />

ha il coraggio di dire anche quello che “non sta bene dire” se si<br />

deve dire, che esprime tutta la sua carica vitale, anche se può<br />

apparire dissacrante (si veda l’esempio <strong>del</strong>la confessione <strong>del</strong><br />

protagonista).<br />

Parole e immagini, dunque, che richiamano le amate<br />

frequentazioni letterarie e si sono sedimentate nell’animo. Sono<br />

diventate carne e vita, assieme alle parole e alle immagini <strong>del</strong><br />

buon tempo antico <strong>del</strong>l’infanzia. Da questa miscellanea nasce il<br />

significato e il messaggio più autentico <strong>del</strong> libro: il valore eterno<br />

<strong>del</strong>l’opera d’arte, in specie <strong>del</strong>l’opera<br />

letteraria, che vive e parla a suo modo<br />

in ciascuno di noi, e che “colora di<br />

luce” anche le memorie, facendole<br />

rivivere di nuove ed arcane suggestioni.<br />

Così, i cari ricordi d’infanzia, che<br />

nelle frenesie di oggi corrono il rischio<br />

di perdersi in uno smarrito iperuranio,<br />

sono riportati alla luce per vivere e<br />

parlare in un mondo e in un’età che<br />

appaiono segnati dal tramonto.<br />

A questo punto, ecco emergere,<br />

a mio parere, l’altro messaggio che<br />

l’autore intende lasciare. Anche se<br />

l’uomo colto che narra rimane catturato<br />

dai cascami <strong>del</strong> passato e d’una<br />

lingua sepolta, ove allignano le care<br />

radici, il suo sguardo va oltre. Anche<br />

se, nei richiami poetici, indulge<br />

all’idillio, il suo animo è proteso al<br />

futuro, perché non ci si può cullare con<br />

obsolete armonie <strong>del</strong> passato se non<br />

per qualche momento di estraniato<br />

riposo. Quel tanto o quel poco di passato che vive ancora,<br />

serve per motivare il presente. In questa prospettiva acquista<br />

un particolare significato la figura di Arminio, un personaggio<br />

che sembra provenire da un ultramondo, ma da risultare<br />

talmente importante e pervasivo da sconvolgere quel piccolo<br />

orizzonte agreste e spingere il protagonista a lasciare definitivamente<br />

la sua terra. Considerata la problematicità degli<br />

argomenti affrontati da questo strano uomo “dalla barba da<br />

circasso”, il capitolo a lui dedicato potrebbe apparire <strong>del</strong> tutto<br />

estraneo all’universo narrato nelle pagine precedenti. A guardar<br />

bene, però, è fin troppo evidente che le problematiche affrontate<br />

da Arminio traducono la sensibilità morale e culturale <strong>del</strong><br />

protagonista fatto adulto. Poiché tutta l’opera è uno sguardo<br />

sull’infanzia attraverso gli occhi d’un adulto. E l’autore ci vuole<br />

suggerire che le convinzioni <strong>del</strong>l’età adulta sono il frutto di un<br />

tirocinio, spesso sofferto, che affonda le radici anche<br />

nell’infanzia e nella fanciullezza, legandosi a volti, incontri, voci,<br />

stupori e incanti di quell’età.<br />

Così le “care memorie” non sono un ripiegamento su un<br />

nostalgico passato, ma, attraverso un severo, severissimo mo-

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