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immagini tratte da<br />
La Riserva Naturale...<br />
nome delle fiabe in territorio veronese, derivato<br />
dal latino recitare (e affine al trevisano<br />
antico resaria, “dicerìa, fandonia”), avvicinatosi<br />
curiosamente alla pratica devozionale<br />
mariana. La raccolta di fine Ottocento realizzata<br />
dall’avvocato Righi è dunque paragonabile<br />
per quantità e varietà, se non per<br />
qualità, a quella pubblicata nel 1873 dal palermitano<br />
Giuseppe Pitrè (oltre trecento<br />
narrazioni popolari), ma era rimasta inedita<br />
e sepolta nella Biblioteca Civica di Verona<br />
(e la città scaligera ha contribuito meritoriamente<br />
alla stampa dell’intero corpus): grazie<br />
ai curatori Viviani e Zanolli le trascrizioni<br />
dei racconti sono state riprodotte e tradotte<br />
letteralmente dal veronese, varietà della Valpolicella,<br />
e possono ora essere sfogliate, lette<br />
e studiate nelle complessive 2300 pagine<br />
dei tre volumi.<br />
In questo ultimo si possono trovare alcune<br />
novità e molte conferme, a partire dai quindici<br />
narratori, di alcuni dei quali si leggono<br />
le brevi note biografiche dei trascrittori del<br />
tempo (impiegati dell’azienda agricola di<br />
Righi). Si tratta in prevalenza di narratrici<br />
(nove, contro sei narratori); tra queste spicca<br />
Caterina Montebelli, vedova, di origine<br />
trentina, madre di undici figli, solo quattro<br />
dei quali sopravvissuti, all’epoca (1891-<br />
1894). Caterina racconta quindici fiabe, tra<br />
cui La storia della bella persemolina, Quella<br />
delle naranze d’oro e Bianca come la neve, rosa<br />
[rossa] come el sangue: nonostante il rinvio<br />
dei titoli a racconti canonici della tradizione<br />
popolare, la lettura riserva delle sorprese, a<br />
causa delle varianti dovute a interpolazioni<br />
o a vuoti di memoria, mentre appaiono fisse<br />
le formule di inizio (“Gh’era una volta...<br />
Gh’era ’na mama”) e di conclusione (“...i à<br />
fato le nozze, un pastin, un paston e a mi no<br />
i m’à dado gnanca un bocon”).<br />
Come in molte raccolte europee (e in una,<br />
deliziosa, della tradizione yiddisch curata<br />
dallo scrittore Isaac Singer), non mancano<br />
in questa le storie relative a un “paese dei citrulli”,<br />
qui individuato in Sago (verosimilmente<br />
Azzago, allora sufficientemente lontano<br />
da San Pietro in Cariano e più isolato<br />
di adesso): I mati de Sago che va in serca del<br />
giudizio, nella quale quaranta contadini girano<br />
dal paese a Grezzana, passando dallo<br />
“spisial Salvadori a San Nazzar”, in cerca<br />
di ciò di cui difettano (narrata da Carolina<br />
Carli); Una storia da Sago (narrata da Angelina<br />
Vallinetti).<br />
L’officina di ascolto e trascrizione aveva coinvolto<br />
contadini e artigiani, adolescenti e<br />
bambini, domestiche e nobildonne; tra queste<br />
la vedova Bresavola De Missa, che racconta<br />
una breve storia, quasi una freddura,<br />
dal titolo esplicito e sentenzioso: Ci se marida<br />
2 volte no va gnanca in paradiso. Qui l’antica<br />
avversione della Chiesa per le seconde<br />
nozze è ormai passata in burla, poiché la ri-<br />
recensioni e segnalazioni<br />
sposta negativa di San Pietro a un vedovo<br />
che si presenta alle porte del paradiso è giustificata<br />
con queste lapidarie parole: “Parché<br />
si tropo mincion”. | Luciano Morbiato |<br />
<br />
ANTONELLA ROSSO, Fiabe popolari trevigiane<br />
raccolte a Breda di Piave, Sommacampagna<br />
(VR), Cierre - Treviso, Canova, 2007, 8°,<br />
pp. 190, ill., e 12,50 (Etnografia veneta, 7).<br />
<strong>Il</strong> filone di studio della ricerca etnografica<br />
sul campo, la raccolta di fiabe in particolare,<br />
ha conosciuto nell’ultimo periodo una nuova<br />
stagione di interesse, con il moltiplicarsi<br />
di iniziative e di ricerche. Particolare vitalità<br />
in questi studi ha mostrato la cattedra di<br />
Etnografia dell’Università di Venezia. Proprio<br />
a questa scuola fanno riferimento le<br />
Fiabe popolari trevigiane raccolte tra il 1992<br />
e il 1993 a Breda di Piave, in provincia di<br />
Treviso, da Antonella Rosso.<br />
I materiali che compongono la raccolta si<br />
devono a dieci diversi informatori, la cui<br />
provenienza è legata a una molteplicità di<br />
strati sociali che costringe a rivedere i comuni<br />
canoni di “cultura popolare”: non<br />
solo contadini, ma anche operai, governanti,<br />
insegnanti elementari, infermiere. Segno<br />
questo di una realtà rurale e popolare più<br />
complessa e articolata di quanto a volte si<br />
tenda a pensare nell’idealizzazione di un<br />
mondo popolare in cui la componente contadina<br />
rischia di essere sopravvaluta. I testi<br />
raccolti non riguardano solo le fiabe in senso<br />
stretto, ma anche altri generi tipici della<br />
letteratura popolare. La sezione dedicata ad<br />
ogni informatore è preceduta da un breve<br />
testo in cui “parla di sé”, raccontando aneddoti<br />
ed esperienze e fornendo informazioni<br />
che consentono di contestualizzare i racconti<br />
nel mondo al quale sono legati e nel<br />
quale erano funzionali. Di interesse anche<br />
l’edizione di alcune pagine di diario scritte<br />
in italiano e dialetto e possibile esempio di<br />
quella “lingua dei semicolti” che tanto ha<br />
affascinato la linguistica del Novecento.<br />
Nella raccolta è certamente la favola a prevalere,<br />
testimonianza di un ricchissimo patrimonio<br />
trasmesso di generazione in generazione<br />
e che può sopravvivere solo grazie a<br />
ricerche di questo genere, basate sulla raccolta<br />
sul campo. Utile, specie per le implicazioni<br />
metodologiche, la collocazione dei<br />
testi tipicamente fiabeschi nella classificazione<br />
Aarne-Thompson, molto usata nella<br />
ricerca folclorica, che consente di inserire e<br />
leggere le testimonianze di narrativa popolare<br />
veneta in un contesto occidentale più<br />
ampio di tipi narrativi. Tutti i testi raccolti<br />
sono presentati in dialetto, trascritto con<br />
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