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PIER ISA DELLA RUPE<br />
L’ISOLA DELLE RONDINI<br />
Capitolo primo<br />
pierisadellarupe@gmal.com<br />
www.pierisadellarupe.com<br />
E’ il giorno della tredicesima luna, nell’aria velata d’incanti si avverte già<br />
la promessa della primavera.<br />
A occidente dell’Isola <strong>delle</strong> Rondini, dove a fronte si vede il mare con le navi che appaiono<br />
tra la nebbia e, lontano lontano, un faro tra gli scogli, s’innalza, da prima che gli dei<br />
fossero generati, s’innalza, come la cresta ondeggiante di un drago dalle sette teste, una<br />
ciclopica roccia calcarea di colore rosa. La sua forma stravagante che il sole fa ardere<br />
come un blocco di brace, è stata pazientemente scolpita per migliaia di anni dalla sabbia<br />
scagliata dal vagabondo vento nomade eternamente in fuga dal deserto del Sahara e dagli<br />
artigli del suo gemello: il freddo orso bianco che soffia da nord – est, impregnato di<br />
salsedine.<br />
Nella profonda gola di quella roccia, coperto da una nube di pulviscolo che nasce da sopra<br />
la Cascata del Diluvio e dal fumo di un’enorme caldaia, sborda come il nido di un uccello<br />
misterioso, l’immenso portale preistorico della caverna - santuario di Calea: Grande<br />
Madre, guardiana – sacerdotessa dell’Isola <strong>delle</strong> Rondini.<br />
Quella grotta non del tutto naturale, era un tempo luogo di sepoltura, così raccontano i<br />
tanti graffiti rupestri trovati nel suo interno e gli archi, le colonne, la volta a cupola, l’ampio<br />
basamento circolare poggiato su tre gradini che nascondeva la cripta sotterranea.<br />
La monumentale bocca di accesso, bagnata da un raggio di sole, galleggia ammantata dal<br />
muschio e brandelli di licheni, quasi sospesa tra nuvole di boccioli filigranati di fiori di<br />
arancio e fiori di lamponi, tra liane di vitalba e foglie spinose di fichi d’India. A un lato<br />
dell’entrata, in una nicchia sopra uno dei due rudimentali sedili scavati nella roccia<br />
vulcanica, troneggia una grossa conchiglia tortile a forma di corno, mentre sullo sfondo del<br />
mare, cullato dalle onde scintillanti, per metà incagliato tra gli scogli, affiora come un<br />
fantasma il relitto di un antico vascello.<br />
Acotinia, serva fedele di Calea, dall’alto del dirupo di quella superba, inespugnabile<br />
fortezza, ritta sull’orlo del precipizio dove a stento arriva il canto <strong>delle</strong> sirene, l’ululato dei<br />
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lupi, il grido dei sciacalli e dei gabbiani, contempla, con occhi incavati da sfinge persi nel<br />
sogno di apocalittiche visioni, contempla senza vederli i contadini che spingono le zappe<br />
nei campi sollevando umide zolle e le donne che gettano il seme nel solco all’ombra <strong>delle</strong><br />
corolle rosa dei mandorli in fiore. Sono donne e uomini piccoli come insetti che si fondono<br />
e si confondono assieme alle striature d’oro <strong>delle</strong> nubi lontane, al verde tenero dei campi<br />
di fave, al grano in erba, ai calici colorati dei ranuncoli in boccio. Ma gli occhi spenti della<br />
donna, inseguono, nascoste tra la brezza del mare, immagini lontane, dimenticate,<br />
immagini dei tempi remoti in cui gli dei, nella storia tramandata dagli anziani, sedevano<br />
sopra gli scogli dell’antica città morta, sopra le tombe ormai perdute <strong>delle</strong> regine e dei re.<br />
Laggiù, oltre le rovine abbandonate da secoli, con le mura sbrecciate corrose dal tempo e<br />
dai funghi dove adesso volano solo i falchi e dove giganteschi guerrieri avevano<br />
combattuto e vinto contro terribili pirati che arrivavano dal mare.<br />
Solo quando dalla torre mozzata arriva il suono del gong la vecchia risvegliatasi dalla<br />
trance, affonda una mano in una cesta colma di fiori secchi, raccoglie dei petali, li stritola<br />
tra il pollice e l’indice poi dalle sue tante giare di terracotta rossa, prende altre erbe pure<br />
esse essiccate, getta tutto nell’acqua bollente e a occhi semichiusi riprende a mescolare la<br />
mistura, infine, poggiata al suo lungo bastone di radica, quasi ruminando, inizia a recitare<br />
a intervalli regolari una misteriosa formula magica e segreta:<br />
“SATOR – AREPO – TENET - OPERA - ROTAS.”<br />
La strana mistura borbotta ormai da tempo nel pentolone, mentre mille e più di mille<br />
arcobaleni danzano sull’abisso della cascata dove un pulcino di sparviero appena uscito<br />
dal nido tenta di sollevarsi sopra i vapori che s’intrigano e s’intrecciano nei fumi della<br />
mistura. Contemporaneamente, dal sentiero serpeggiante che divide in due il boschetto di<br />
gelsi, sentiero che sale e scende più attorcigliato di una corda tra antri, fratte, grossi<br />
macigni di pietra vulcanica sparsi qua e là come a sostenete i primitivi muretti di granito<br />
costruiti a mani nude un po’ per volta nei secoli, da quei muri che si soprappongono alle<br />
antiche rocce incastonate le une alle altre, arriva il rullare del tamburo di uno zingaro<br />
giramondo cantore di favole e stornelli.<br />
L’uomo, carico di anni, alto, magro, con bellissimi, lunghi boccoli bianchi che gli sbordano<br />
da sotto il cappello che tiene calato sulla fronte olivastra, pare appena uscito da uno dei<br />
suoi antichi, sbiaditi racconti. Arrivato nei pressi della caverna, lesto, scivola dalla groppa<br />
dell’asino, dal suo carrettino giallo, adorno di sonagli d’ottone, di pennacchi e fiocchi di<br />
lana variopinti, cava un otre, beve un sorso d’acqua poi lega la bestia a un grosso anello di<br />
ferro piantato sulla roccia, infine, ripreso il tamburo, s’incammina iniziando a cantare le sue<br />
romanze. In un subito la dolce voce del vecchio, sale verso il cielo attraversa il pulviscolo e<br />
l'eco, va a infrangere il silenzio.<br />
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“Ninnananna vagabondo che vai errando per il mondo, senza bisaccia e senza regina...<br />
Favoleeeee, vendo le antiche favole di Esopo, il leggendario, deforme schiavo frigio,<br />
inventore di favole. Cerco storie e mappe di tesori perduti, compro, vendo, baratto,<br />
invento, restauro, riesumo e… rubo, favole vecchie di orchi di streghe e di fate. Chi<br />
permuta favole? Baratto romanze antiche, dette e ridette, vecchie e stravecchie, unte e<br />
bisunte con favole di giganti, principesse e nani, baratto pure tutta la raccolta di vecchie<br />
leggende di guerra con racconti e storie vere di draghi, unicorni e folletti. C’è nessuno che<br />
vuole barattare questa favola?<br />
Tremila e cinquecento anni prima della scomparsa dei mammut, viveva da sempre in un<br />
ricchissimo castello sopra le nuvole di una remota isola che adesso non c’è più, un<br />
principe figlio di re. Un bel giorno il principe, annoiatosi a morte della corona, <strong>delle</strong> superbe<br />
feste tenute a corte, <strong>delle</strong> mille e ottocento stanze della reggia, dei tanti schiavi che lo<br />
servivano: musicisti, giullari, indovini, maghi, incantatori, astrologi, e annoiatosi pure <strong>delle</strong><br />
sue tante carrozze d’oro trainate da magnifici lupi bianchi, per scacciare la malinconia,<br />
decise di prendere moglie e andare a vivere in una piccola capanna dove solo la sua<br />
sposa lo avrebbe servito e riverito. Allora mandò i suoi schiavi a correre su e giù per le<br />
foreste di tutto il reame, cercando una fanciulla dalla pelle candida come la neve. Doveva<br />
essere candida e bella come una fata, anzi, doveva essere pallida e bellissima ma così<br />
tanto… che, la sua luce lunare, avrebbe dovuto illuminare come un faro la minuscola<br />
capanna, futura dimora del figlio del re. Al castello sopra le nuvole, passarono invano i<br />
giorni, le settimane, le lune, ma i servi non tornavano, finché una notte, sul ponte levatoio<br />
apparve una fragile creatura surreale. Come ornamento aveva appesi alle orecchie,<br />
grappoli di perle di rugiada e per proteggersi il volto dai raggi della luna, indossava una<br />
maschera di argilla rossa, fu così che il principe figlio di re…”<br />
Il girovago interrompendo sul più bello la favola, solleva il volto abbrustolito dal sole e,<br />
gridando a squarciagola da sotto la rozza scala scolpita nella rupe, si rivolge ad Acotinia:<br />
“Donna, vuoi sapere il resto della favola?”<br />
Non ottenendo nessuna risposta, ma solo uno sguardo in cagnesco, il vecchio si volge<br />
attorno sconsolato poi inizia a girare su se stesso come una banderuola cercando un<br />
pubblico possibile. Ma dalle contorte fenditure di quelle grotte, scavate come croci nella<br />
parete della rupe, entravano e uscivano solo gechi e ramarri assieme a qualche cespuglio<br />
spinoso di biancospino che si affacciava così carico di fiori da sembrare coperto di neve.<br />
Finché, finalmente, il sole alle spalle dell’uomo disegna sull’immensa roccia l’ombra del<br />
suo corpo. Non sentendosi più solo, si avvicina, si cava il cappello di castoro, fa un inchino<br />
e, a braccia aperte, comincia a ragionare con essa: “Ombra, piccola cara ombra amica.<br />
Conosco favole del tempo di Apuleio, di Esopo, del Cucco e dello Stento e una ancora<br />
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molto più antica, l’ha raccontava sempre l’ultimo Bardo che ho incontrato in un deserto<br />
della Caledonia. Il Bardo, per consolarsi della sua vecchiezza, la sera attorno al fuoco,<br />
cantava la favola di Giobbe il pescatore di perle, ma… per dirla ci vuole un gran tempo. Tu<br />
vuoi che la dico o vuoi che non la dico?”<br />
L’ombra che lo guardava dalla parete di granito con i suoi occhi ciechi, pareva fare di sì col<br />
capo.<br />
“No! Non la dico perché, per dirla ci vuole un gran tempo. La dico o non la dico?”<br />
L’ombra fa ancora segno di sì.<br />
“Allora la dico!” Riprese felice il giramondo che aveva una bella voce e quando narrava le<br />
sue favole gli occhi si accendevano di luce.<br />
“Il vecchio Bardo nel deserto della Caledonia, incominciava sempre il suo racconto<br />
cantando così:<br />
Sono finiti tutti nel mare,<br />
intrigati alle alghe,<br />
dentro le acque scure<br />
ma nelle notti di luna<br />
si possono sentire piangere tra le onde.”<br />
Poi, finito il canto, il Bardo, narrava:<br />
“C’era una volta Giobbe, un vecchio palombaro.<br />
Un giorno, dopo che si era immerso tra le alghe dell’acqua alta frugando tra i banchi di<br />
ostriche in cerca di perle, tornato in superficie, vide incastonato tra gli scogli, il rottame di<br />
un vascello” il giramondo, indica il relitto alle sue spalle “come quello. Anzi, era quello.<br />
Poco lontano, quasi nascesse dalle viscere degli abissi vuoti o dalle bocche dei crateri<br />
spenti, con le fasce impigliate nel silenzio, al vecchio Giobbe gli apparve come dentro un<br />
sortilegio, attorniata da un branco di delfini e uccelli, quasi sospesa sopra le acque, una<br />
minuscola creatura che adagiata sul fondo di un barile teneva in mano una bacchetta<br />
magica a forma di flauto. Il miracolo avvenne in un’isola come questa dove c’era una<br />
caverna che somigliava a questa, anzi,… ripensandoci, era questa. Dentro la caverna<br />
viveva una maga - guerriera che si chiamava Calea, anzi, la Grande Madre Calea. Ombra,<br />
vuoi sapere il resto della favola? Comprala, il fabulatore la racconta per poco, meno di<br />
poco. Mi basta un po’ di giuncata, una coppa di vino rosso riscaldato e posso riesumare<br />
altre due favole, vecchie, stravecchie, dette, ridette, unte, bisunte, molto più antiche di<br />
quelle di Apuleio, di Esopo del Cucco e dello Stento.<br />
Favoleeeee. Favole che sanno solo i vecchi!<br />
In questa terra selvaggia e sublime, in questo regno di boschi addormentati, cimitero di<br />
rane, bisce, girini, serpi, rospi, gechi, ramarri e tartarughe, non c’è nessun fantasma che si<br />
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affaccia dalla sua tomba a strapiombo sul mare con la lucerna accesa per comprare,<br />
vendere o barattare favole antiche? Non c’è qui una ninfa gentile, un genio dei boschi e<br />
manco uno straccio di folletto nascosto dentro un minuscolo cappellino di ghiande<br />
filigranate?”<br />
Ancora un ultimo, inutile, lamentoso rullare di tamburo e, finito il canto, il venditore di<br />
favole, con aria melanconica e rassegnata scuote la testa, con il pollice e l’indice solleva<br />
appena il cappello per salutare l’ombra, sua unica, silenziosa amica e, seguito da un<br />
passero azzurro che saltellando di ramo in ramo lo accompagna cinguettando, riprende<br />
per la cavezza l’asino lo lega al carrettino e vagando errabondo, si avvia per il sentiero<br />
allontanandosi a piccoli passi sopra un tenero tappeto di foglie in decomposizione.<br />
Rimasta sola Acotinia, solleva le cocche del grembiule, prende dalla tasca nascosta nelle<br />
pieghe della sua veste terrosa una fiala colma di polvere verde e voltandosi indietro come<br />
vuole il rito, la versa nella pentola di rame. Poi per ravvivare la fiamma fruga con la punta<br />
del bastone nel braciere e mentre i tizzoni ardenti liberano una miriade di scintille che<br />
crepitando salgono nella foschia, la vecchia che ha ancora metà dei suoi denti, resta a<br />
testa bassa, curva e immobile come una statua sopra la mistura. Intanto, alcune ciocche di<br />
capelli unti e disordinati usciti da una crocchia senza più colore galleggiano lente come<br />
tele di ragno sospese sul fumo livido, intrigate ai sistri che assieme alle frange consunte,<br />
pendono della fascia bicolore che la vecchia tiene intrecciata sulla fronte come uno scudo.<br />
Solo quando finalmente l’ala nera del mantello dello zingaro dopo essersi gonfiata come<br />
una vela, si perde nel bosco assieme al rullare del tamburo e i sonagli del carro, Acotinia,<br />
inizia a ruotare le mani sulle fiamme intercalando con un atteggiamento magico e<br />
misterioso, la litania del vecchio giramondo, alla sua formula segreta.<br />
“SATOR - AREPO – TENET - OPERA - ROTAS – FAVOLE DI ORCHI – DI STREGHE – DI<br />
FATE - DETTE – RIDETTE – VECCHIE – STRAVECCHIE – UNTE – BISUNTE – DEL<br />
TEMPO DI APULEIO – DI ESOPO – DEL CUCCO – DELLO STENTO.”<br />
Nel frattempo dal tortuoso stradone bianco tutto in salita, si avverte un veloce calpestio di<br />
sandali. Correndo trafelato, scivolando e inciampando di continuo nell’orlo della sua<br />
stravagante tunica rattoppata qua e là con dello spago, arriva, pronto a dare l’allarme,<br />
Ario, un giovane schiavo di sedici anni dai modi e lineamenti ancora infantili il volto<br />
appena ombreggiato dalla barba. Ario è guardiano alla torre mozzata: piccolo, scarno,<br />
perennemente affamato, le dita tozze, le gambe corte, il collo esageratamente lungo, la<br />
testa sproporzionata, le spesse sopracciglia quasi attaccate in mezzo alla fronte troppo<br />
bassa, i lunghi capelli e gli occhi neri come tizzoni, lo sguardo febbrile, gli dipingono sulla<br />
faccia completamente istoriata, com’è in uso per gli schiavi dell’isola, un’aria grottesca,<br />
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eternamente spaventata. Arrivato avanti la caverna con il fiatone, il volto livido e il naso<br />
paonazzo, il ragazzo, che è tutto lordo di terra e fango, chiama fino a sgolarsi, Calea:<br />
“Divina Calea, Grande Madre, padrona bella tra le belle.”<br />
Acotinia, custode del regno di Calea, infastidita dalle sue urla, prontamente lo ferma<br />
sbarrandogli l’ingresso con le braccia e le gambe aperte.<br />
“Calmati moccioso, fai silenzio. Che hai da urlare tanto, sciocco di uno schiavo? Guardati,<br />
sei infangato come un rospo, forse ti sei fermato a pescare nel ruscello in mezzo a giunchi<br />
e gigli d’acqua?”<br />
“No, sono incespicato in una radice e sono caduto. Ascoltami vecchia, lascia stare per un<br />
momento di rimescolare la tua polenta stregata, corri a chiamare la padrona, devo vederla,<br />
suona la conchiglia presto.”<br />
“Sai bene che nessuno può disturbare la Grande Madre nel giorno della luna blu, il giorno<br />
prescelto per preparare i filtri <strong>delle</strong> dodici rugiade, le misture, gli unguenti e gl’incanti<br />
d’amore.”<br />
“lo so anch’io che questa è la luna più magica e potente dell’anno, più potente persino<br />
della luna dei fiori, ma devo vedere la Divina Calea, subito.”<br />
“Ti ho detto di no, puledro rognoso, stolto, gaglioffo e imbroglione, non la chiamerò finché<br />
non saprò esattamente cosa vuoi. Ma… perché ogni volta che ti vedo è come se mi<br />
tirassero un sasso proprio qui, in mezzo alla fronte?”<br />
“E’ solo perché mi odi. Lo so vecchia che fin dalla remota antichità, sempre ti lagni di me<br />
con la padrona. Sei invidiosa perché sono allegro, agile, giovane, oltre a saltare, correre,<br />
posso andare dove mi portano le gambe.” Disse il ragazzo sorridendo beato mostrando i<br />
denti scintillanti. “Però questa volta la tarantola ti pungerà la lingua serva malefica se non<br />
suoni subito la conchiglia.”<br />
“Sciocco,” sibilò la donna scuotendolo e afferrandolo per i capelli con le mani adunche.<br />
“Che tu sia stramaledetto mille volte e un’altra volta ancora, ottuso di uno schiavo. Parla<br />
pidocchio, rospo, grillo, rispondimi lesto, è l’ultima volta che te lo chiedo, dimmi subito<br />
perché vuoi vedere Calea.”<br />
Nell’eccitazione, la voce nasale di Acotinia le uscì dalla gola, più roca di cento campane<br />
stonate. Allora Ario, buttandosi lungo in terra, scoppia in una fragorosa risata senza fondo<br />
e, tra sputi e starnuti giura di non essersi mai divertito tanto. Solo dopo aver riso con<br />
insolenza rotolandosi e torcendosi fino alle lacrime, si rialza, si passa una mano sui capelli<br />
intricati che gli ricadono sugli occhi, poi siede sulla roccia e mentre inizia a slacciarsi i<br />
sandali, riprende a parlare:<br />
“Lo vedi vecchia? Non devi arrabbiarti che poi stai male, ti va via la voce e dal petto, come<br />
sospiri infuocati, ti escono solo rantoli.” Senza rendersi conto del terribile errore che ha<br />
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fatto beffandosi e ridendo di lei, il giovane continua spensieratamente a sfidarla.<br />
“Tranquilla, parlerò, sì, certo che parlerò ma solo dopo che mi avrai dato qualcosa da<br />
mangiare. Fammi mordere un frutto, dammi a bere due uova crude o una ciotola di brodo<br />
di manzo, è una vita che non metto niente nello stomaco, guardami sembro uno<br />
spaventapasseri, ho la bocca piena di ragnatele e sono così esile e debole che il vento mi<br />
incolla la veste addosso piegandomi come lo stelo della spiga…”<br />
Acotinia, senza fiatare lo interrompe con uno sguardo terrificante e mentre lampi di fuoco<br />
correvano nei suoi occhi ormai fuori dall’orbita, la risata crudele del ragazzo continuava a<br />
ronzarle ancora nelle orecchie. La serva alzato con fierezza il volto livido e rugoso eguale<br />
una orribile maschera di cartone, si avvicina minacciosa al giovane, con le dita <strong>delle</strong> mani<br />
diventate uncini di ferro, lo prende per gli omeri e stringendolo forte tra le gambe ossute, lo<br />
scuote vigorosamente finché sempre più indispettita tirandolo per le orecchie mima il gesto<br />
di gettarlo dentro la pentola bollente. Ario, con un angoscia infantile dipinta negli occhi,<br />
terrorizzato contempla ipnotizzato il movimento <strong>delle</strong> mani nodose della vecchia,<br />
contempla quelle dita storte e dure come pietre che, uguali a rami contorti di quercia<br />
avevano ripreso a girare e rigirare il mestolone di legno immerso nel liquido del calderone<br />
dove il sole si specchiava come dentro un pozzo. A un tratto, Acotinia, spinta da un<br />
ulteriore moto di stizza, con rabbia estrae il cucchiaio dalla mistura e, con un urlo terribile,<br />
lo scaglia sul fuoco.<br />
A quella vista le ginocchia di Ario si piegano, quasi precipita nel ciglione, inghiottito dai<br />
molti crepacci nascosti nello strapiombo. Ripreso miracolosamente l’equilibrio si trascina<br />
carponi avanti la vecchia e, per esorcizzare la paura, si accuccia in un canto, poi siede sui<br />
calcagni e con parole rotte, umilmente e incespicando, comincia a scusarsi:<br />
“Stavo… solo… scherzando… mica ridevo di te… vecchia…”<br />
Da sempre Ario aveva paura di Acotinia, aveva paura dei suoi occhi da gatto selvatico, dei<br />
suoi riti, dei suoi filtri magici, <strong>delle</strong> sue misture. Conosceva bene il potere straordinario e<br />
prodigioso della vecchia fattucchiera che da sempre era aiutante e discepolo della Divina<br />
Calea. Il ragazzo sapeva che Acotinia oltre a viaggiare nel passato e nel futuro, possedeva<br />
i segreti dei veleni e contro veleni, racchiusi negli intestini degli animali, nelle radici <strong>delle</strong><br />
erbe, nelle pietre, nelle ceneri del fuoco, più volte l’aveva vista prendere le braci con le<br />
mani nude, l’aveva vista pure rimettere a posto le ossa fratturate e, pronunciando certe<br />
formule misteriose, l’aveva vista trasformarsi in lupo. Con la sua magia, lei, poteva fare il<br />
bene e il male, poteva decidere della vita e persino della morte, perciò dopo aver<br />
masticato tra le labbra contratte antichi scongiuri, poggia la schiena nella parete rocciosa e<br />
inizia il suo racconto:<br />
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“Ascolta vecchia, io ero… ero di guardia alla torre mozzata, quando all’improvviso una<br />
mandria di magnifici cavalli selvaggi, agitando le lunghe code e toccando terra con le<br />
ondeggianti criniere, ha attraversato al galoppo la spiaggia per poi sparire all’orizzonte<br />
come fumo. Contemporaneamente dal mare sono salite grosse matasse di nuvole nere.<br />
Presto quelle matasse formarono enormi gomitoli di tempesta che pesavano sul mio capo<br />
eguali a macigni. Un vento caldo portava la sete, quando all’improvviso, ho sentito <strong>delle</strong><br />
urla terribili,…” a quel punto del racconto Ario avvertito un rumore alle sue spalle,<br />
s’interrompe e, nella speranza di vedere apparire Calea, lesto si rialza, per liberare la voce<br />
che gli usciva dalla gola soffocata e ridicola, respira più volte profondamente, poi, in un<br />
subito, riprende a parlare con tono forte e franco: “basta così vecchia, continuerò il mio<br />
racconto solo avanti alla Divina, magnifica Calea.”<br />
La serva soffocata a stento un’imprecazione scagliata per metà contro il cielo, lo prende di<br />
nuovo per le spalle scrollandolo violentemente, poi rimane per un poco senza parole e<br />
quando finalmente torna a farsi sentire, con una voce isterica che echeggiava da rupe a<br />
rupe, gli grida tutto il suo veleno:<br />
“Insolente! Che la peste ti colga, sei solo un piccolo puzzolente ruffiano, uno schiavo che<br />
lascia le tracce <strong>delle</strong> sue catene sulla sabbia. Maledetto opportunista, voltafaccia,<br />
leccapiedi. La forca è il tuo unico futuro.”<br />
Intanto come evocata, Calea arriva, seguita da Lola, la magnifica cerva dal vello bianco e<br />
dal suo ultimo nato; un bellissimo candido cerbiatto dai grandi occhi languidi e dolci<br />
ammantati da lunghe ciglia. La Divina e i cervi, erano usciti da una stretta fenditura<br />
nascosta dalla cascata dove le acque sgorgavano tra le rocce, una sorta d’ingresso<br />
segreto della spelonca, ammantato da teneri ventagli di capelvenere, viti di vitalba e<br />
ghirlande di edera che contorte si attorcigliavano come serpi, alle loro stesse radici.<br />
La Grande Madre, avvolta in un arcano alone di magia, avanza con il velo, la veste e i<br />
capelli molli d’acqua mentre i suoi piedi scalzi lasciavano un’impronta sulla rugiada. Bella,<br />
superba e maestosa più di una dea. Il profilo ieratico, lo sguardo sdegnoso, gli occhi arditi,<br />
le labbra rosse come garofani e mentre avanza lenta, il suo incedere elegante e solenne,<br />
somiglia a quello di una fiera. In una mano quasi fosse uno scettro, stringe una<br />
pannocchia di granturco. Incastonati nelle lunghe trecce di brace che le scendono sulle<br />
spalle nude e sembrano mandare scintille, ha una moltitudine di fiori di cera misti a<br />
grappoli di bacche di agrifoglio e penne di pavone, adagiata sul petto bianco tiene una<br />
collana di corallo cesellata assieme a minuscoli campanelli di bronzo, mentre sulla fronte<br />
alta e spaziosa, risplendono tatuate tre magnifiche stelle.<br />
“Sssst! Fate silenzio, sempre a gufare voi due.”<br />
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Calea dopo aver interrotto il battibecco dei servi con la sua voce armoniosa, continua:<br />
”Acotinia, sei proprio sicura che quando hai tagliato, con la piccola falce di bronzo bene<br />
affilata, i giunchi sulle sponde della laguna, la luna crescente era già…”<br />
“ …spuntata? Certo padrona, l’ho guardata bene in faccia mentre accostavo la falce, era<br />
gravida e rigonfia.”<br />
“Bene, allora prima che il filtro si addensi troppo, aggiungi anche i vaghi di questa<br />
pannocchia di granturco, pestali assieme all’alabastro, all’onice e alle polveri sante di<br />
cranio di cicala e non dimenticare di girare la macina con una madreperla rosa, ben stretta<br />
fra i denti. Rammentati anche di tenere gli occhi chiusi, anzi, bendati con un drappo nero e<br />
poi, volgi le spalle al sole ma… bada di non addormentarti. Aspetta aspetta, dimmi, dopo<br />
aver cotto le ossa di balena assieme alla lega d’argento, ti sei ricordata di mescolare nella<br />
mistura anche i peli orticanti dell’ …”<br />
“…ortica maschia? Sì padrona. Sette peli d’ortica appena staccati dalle foglie, sette<br />
grappoli blu di fiori di salvia, sette baffi di caprone nero, sette acini d’uva spina, sette perle<br />
di rugiada essiccata, sette radici di mandragola, sette ali di fata, sette gocce di latte di<br />
pipistrello, sette bacche di belladonna raccolte un attimo prima che fossero baciate dal<br />
sole, sette giunchi tagliati nella notte di luna crescente e per ultimi sette semi di papavero<br />
bianco. Ho lasciato cuocere la pozione a lungo e a tutto bollore, schiumandola e<br />
rischiumandola con le foglie di acanto, ormai è quasi pronta per essere filtrata. Sarà il<br />
plenilunio blu di questa notte a fare il resto.”<br />
“Brava! Allora c’è rimasto solo di aggiungere i semi della neve e abbrustolire i grani e le<br />
noci sul fuoco…”<br />
“Già fatto! Abbrustoliti. Devo solo schiacciarli con il pestello di selce e la poltiglia è pronta.”<br />
Disse la vecchia prendendo il mortaio e incominciando a pestare.<br />
“Perfetto. E tu Ario ragazzo mio, cosa fai qui, non dovresti essere di guardia alla torre?<br />
Vattene lesto, sai bene che nel giorno della tredicesima luna, nessuno può assistere alla<br />
preparazione della mie misture magiche.”<br />
Ario inchinatosi fino a terra, rimane immobile avanti a lei: “Perdonami Grande Madre,<br />
magnifica stella d’Oriente, regina <strong>delle</strong> regine. Io ero alla torre mozzata, ma… prima di<br />
arrabbiarti e taroccarmi, ascolta il canto che sono venuto a cantare. Guardami padrona,<br />
per venire ad avvertirti più presto possibile, ho anche dimenticato d’intrecciare i capelli.<br />
Correndo a scapicollo tra ciclamini e foglie nuove di felce, con i sandali scuciti ai calcagni,<br />
mi sono buttato giù dal monte, ho saltato le pozzanghere e sono scivolato sul muschio<br />
putrido. E, scivola scivola, mi sono intrigato il piede in una radice di ornello, finché, sono<br />
ruzzolato tra i rovi spinosi. Fradicio di rugiada e lacerato dai pruni, ho continuato a<br />
trascinarmi pestandomi e scorticandomi a sangue mani e ginocchia. Guarda.”<br />
9
Gesticolando e lamentandosi pateticamente con le labbra fuori dal mento come un<br />
bambino che sta per piangere, il ragazzo, le mostra i lividi e i graffi con il sangue<br />
raggrumato. “Per servirti meglio padrona bella e gentile, mi sono leccato le ferite e ho<br />
ripreso a scapicollarmi correndo a perdifiato ad avvertirti e adesso, come un viandante<br />
vengo a bussare alla tua dimora portando la novella.”<br />
“Buona o cattiva?”<br />
“Decidi tu gentile padrona. Stanotte, sul battere di un‘ora mentre il pipistrello pescatore,<br />
ronzava nel suo volo ceco, nascosta nell’anima della nebbia, c’era qualcosa che gli<br />
troncava le ali. Sì! Nell’immensa solitudine di macchie e di rocce, spinte dall’aria<br />
salmastra, si sentivano galleggiare arcani lamenti accompagnati da sospiri e sussurri.<br />
Tutto attorno aleggiava un’angoscia strana, pure le gocce di rugiada tremavano<br />
contorcendosi come le verdi anguille imprigionate nella rete dei pescatori. Non capivo da<br />
dove venisse, né cosa fosse, quella misteriosa sensazione.<br />
Per niente impaurito, anzi, già pronto a bagnare col sangue del nemico il mio petto,<br />
cominciai a scrutare attorno con queste pupille selvagge in cerca di un silfo che volasse<br />
nell’aria, ma tutto attorno mi pareva deserto, pure nel mare lontano, le barche dei<br />
pescatori filavano tranquille sull’acqua calma, finché all’improvviso, ho visto apparire nelle<br />
tenebre mille occhi luccicanti che mi guardavano, ma purtroppo, padrona bella, non erano<br />
gli occhi <strong>delle</strong> lucciole.”<br />
“Allora? Di chi erano?”<br />
“Quegli occhi che pareva venissero dall’eternità, anzi, arrivavano da un sentiero senza fine<br />
e avevano il vago tremolio <strong>delle</strong> stelle, appartenevano a un codazzo di spettri scheletrici in<br />
decomposizione. Sì! Erano gli occhi <strong>delle</strong> donne dell’isola morte di parto.”<br />
“Gli spiriti erranti <strong>delle</strong> partorienti sono tornati?”<br />
“Sì! Sparuti tra le tenebre della scogliera affollavano la notte finché con la scala a pioli si<br />
sono arrampicati sulla rupe che parevano ragni sopra un’enorme ragnatela. Per tutto il<br />
tempo le partorienti, hanno squarciato il silenzio trascinando sulla pietra lunge catene di<br />
ferro, il fracasso di quegli anelli, si mescolava al rumore sordo <strong>delle</strong> loro ossa. Poi,<br />
lamentandosi come avessero le doglie, prima dell’alba, si sono messe a picchiare<br />
rumorosamente il martello sull’incudine del fabbro ferraio, finché, dal blocco d’acciaio,<br />
ormai più bruciante della lama del boia, iniziarono a uscire una miriade di scintille viola –<br />
azzurre. Con quelle scintille, gli spettri hanno acceso un grosso fuoco di paglia. Tra urla e<br />
canti, ci hanno saltato sopra come avviene alla festa del solstizio d’inverno. Poi, forse<br />
stufe di tanto ballare, spettegolando e bagnandosi tutte come fossero ancora in vita,<br />
hanno iniziato a lavare i panni nel lavatoio sul greto del fiume battendoli forte con uno<br />
stinco di morto.”<br />
10
Calea dondolando il capo nervosa, agita le trecce rosse che scintillano al sole in un vortice<br />
di fuoco, poi a occhi chiusi quasi cercando di scacciare un presentimento funesto,<br />
sussurra: “Gli spettri <strong>delle</strong> donne morte di parto come gli spiriti dei suicidi che non hanno<br />
avuto sepoltura, quasi sempre portano cattive nuove, ma se battono i panni nel lavatoio<br />
con uno stinco di morto allora è molto più di un cattivo presagio.”<br />
“Quello che pensavo anch’io, mia buona signora.”<br />
Acotinia scandendo le sillabe e scuotendo il capo come una campana senza batacchio,<br />
ripete pensierosa: “Molto più di un cattivo presagio.”<br />
Dopo una pausa Calea continua: “Sì, ma…adesso ragazzo mio, dimmi con calma,<br />
esattamente tutto quello che hai visto e sentito.”<br />
“Pure se terrorizzato dalle grida e dai lamenti funebri <strong>delle</strong> partorienti trapassate, padrona<br />
bella, sono rimasto rannicchiato al mio posto facendo la guardia con gli occhi spalancati<br />
come sempre fino a quando finalmente, gli spettri, reggendo in equilibrio sul teschio di un<br />
bianco abbagliante la cesta dei panni lavati, hanno abbandonato il lavatoio e tutto attorno<br />
è rimasto solo il debole eco dei loro lamenti che a continuato a ripetersi sempre più debole<br />
e sempre più lontano, come il sussurro <strong>delle</strong> anime dannate di due sventurati amanti.”<br />
“Dimmi, quando le partorienti, sono tornate nei loro letti di muschio, il gallo aveva già<br />
cantato?”<br />
“Io non l’ho sentito cantare, il gallo. Invero, padrona bella, tutto il coraggio che c’era in me,<br />
tutta la mia forza avanti a quella vista, si è spezzata come una canna di grano turco, però<br />
ricordo che nel cielo ancora livido, già brillava la stella del mattino e mentre l’astro<br />
regalava rugiada alla terra, lontano nel mare trasparente come un sudario, si rifletteva<br />
scintillando, l’ultimo lume dalla barca di un pescatore...”<br />
“…Dunque, se non era notte e non era ancora giorno… era il magico momento quando le<br />
porte dell’infinito sono aperte e gli spiriti erranti che sono usciti dai loro confini, possono<br />
rientrare.”<br />
“Per niente rasserenato padrona bella, cominciai ad annusare l’aria fiutandola con<br />
addosso un tremore che mi scuoteva il collo e le orecchie. Intanto che m’indugiavo a<br />
pregare Rà, dio del sole e contemplavo il pallido disco dorato che stava sorgendo, un<br />
vento leggero saliva da est mentre la timida alba e il maschio giorno mi venivano incontro<br />
abbracciati giocando come due amanti. Stavo spegnendo la mia lanterna sperando che la<br />
brutta notte fosse finita quando all’improvviso, l’eco della rupe mi ha rimandato l’abbaiare<br />
furioso dei cani in lontananza indicandomi la presenza di qualcuno o molti. Allora, padrona<br />
bella, per servirti meglio come uno scoiattolo mi sono arrampicato pietra su pietra nel<br />
punto in cui le mura s’incontrano a formare una testata d’angolo. Aggrappato con le unghie<br />
a quei sassi, ho continuato a salire fino ad arrivare all’ultimo merlo rimasto ancora intatto.<br />
11
Da quell’avanzo di torre senza arcieri né doccioni, lassù dove i vapori all’orizzonte<br />
confondono la terra e il cielo, col naso in aria mentre gli occhi vagavano lontano ho<br />
guardato attraverso i deserti del mondo e dentro quella luce dorata, interrotta soltanto dai<br />
crepacci spalancati che pareva volessero inghiottirmi in un solo boccone nella loro argilla<br />
umida e rossa, ho visto salire dal profondo della spiaggia, una trottola di polvere che<br />
galleggiando in un subito, si è sollevata come un vortice, scatenando un turbine impetuoso<br />
e violento..”<br />
“Che turbine? Di neve, di polvere, di sabbia?”<br />
“Peggio graziosissima padrona, molto, molto peggio. Era un branco di femmine…”<br />
“Femmine?”<br />
“Giovani e vecchie, avevano il capo inghirlandato con fiori di loto, pennacchi di spighe di<br />
grano e pampini d’uva. Devi sapere che mentre l’abbaiare dei cani risuonava sempre più<br />
forte subito seguito da un coro di strazianti latrati quasi che fossero cento campane<br />
accordate all’unisono, all’improvviso un soffio di vento, una brezza sottile, aprì un varco e<br />
in quel vortice fitto come una bava lattiginosa, una miriade di donne mi apparve. Non so<br />
dire quante fossero, ma di sicuro, più di cento, più di mille, più di duemila, forse… ma sì,<br />
se non erano proprio cinquemila padrona bella, di sicuro erano e sono, molto più<br />
numerose dei sassi del fosso. Quelle femmine, alcune con i figli in spalla, in braccio,<br />
aggrappati alla veste, sfilavano gracchiando come cornacchie impazzite, anzi, appena<br />
uscite dalla foresta, ululavano come baccanti, a prima vista nascoste nella foschia,<br />
sembravano demoni fuggiti dagli inferi, tanto la terra tremava per la loro carica furibonda.<br />
Correvano che parevano inseguite da quel cadavere terrificante che di notte con i denti<br />
affilati morde il collo dei vivi per succhiargli il sangue. Venivano avanti, avanti, avanti per lo<br />
stradone polveroso che pareva volessero salire al cielo e in testa al branco, con in braccio<br />
un tenero, candido agnellino, avanzava un’ultracentenaria, una bisnonna cadaverica, tanto<br />
vecchia da non credere, vecchia, stravecchia, tisica, scarna, alta alta e fina fina come un<br />
giunco. Si vedeva da lontano da come teneva la schiena e la testa accartocciate in avanti<br />
che doveva essere sfinita, pure, la bisnonna, continuava caparbiamente a trascinarsi<br />
avvolta nella tonaca che, scesa floscia fino a terra era diventata più nera della mia ombra<br />
sulla parete di pietra. Solo a guardarla metteva paura.”<br />
“Ebbene cosa ti preoccupa ragazzo? In fondo quella vecchia e le altre, sono solo <strong>delle</strong><br />
povere mortali, solo donne, niente altro.”<br />
“Quelle povere mortali, man mano che avanzavano, mentre con piedi nodosi come zoccoli<br />
di capra, raspavano la sabbia sollevando nuvole e nuvole di polvere rossa…ogni tanto<br />
lanciavano richiami modulando la voce come l’ululato dei lupi. E come in risposa a quegli<br />
ululati stridenti che facevano rabbrividire anche i sassi echeggiando lontano rimbalzando<br />
12
da roccia a roccia, da dirupo a dirupo, come in risposta, per tutto una turba di donne<br />
scapigliate appariva. Alcune lasciavano i campi, i vigneti o si affacciavano dal bosco che<br />
sembrava deserto, altre, sbucavano dalla scogliera e con i figli attaccati al seno si<br />
sporgevano dalle pareti a strapiombo sul mare, altre ancora spuntavano come funghi,<br />
dalla terra, dai cespugli, dalle buche sul terreno. Tutte, appena vedevano la processione,<br />
lasciavano il lavoro e, salmodiando, correvano in avanti per unirsi alla carovana, compatte<br />
e serrate come i nomadi del deserto, quando, con i cammelli, avanzano tra le dune di<br />
sabbia seguendo il sole che gli cammina avanti. Presto, prima di presto, il loro numero<br />
divenne enorme. Ma la cosa più terribile padrona bella, è che quelle povere… mortali, oltre<br />
a tenere le braccia alzate fino al cielo, oltre a imitare l’ululato dei lupi e il verso stridulo<br />
degli uccelli acquatici che volavano basso tra i canneti e persino il gorgheggio <strong>delle</strong><br />
cinciallegre nascoste nei cespugli del mirto in fiore, padrona bella, tra un richiamo e<br />
l’altro…tutte insieme, quelle matrone, urlavano in coro il tuo nome.”<br />
“Veramente?”<br />
Acotinia corrucciando appena le sopracciglia cespugliose sopra gli occhi guardinghi e<br />
acuti, interviene premurosa:” Ascoltami mia buona signora, se è vero che molte donne con<br />
ghirlande e pennacchi in capo, marciano in branco compatte… di certo vengono a<br />
chiederti una grazia. La cosa mi preoccupa parecchio, perché…se sono venute in tante,<br />
troppe, dev’essere solo una grazia impossibile. Sai meglio di me padrona che un assieme<br />
di femmine arrabbiate è pericoloso quanto un gruppo di cavalli selvatici, anzi, quando un<br />
branco di cani idrofobi o peggio, come una mandria di bisonti impazziti. Spesso nella loro<br />
follia, molte femmine assieme, possono travolgere questo mondo e… anche l’altro.”<br />
“E’ giusto quello che cercavo di dire.” Riprese Ario.<br />
“Sono preoccupata anch’io,” disse Calea pensierosa, ”ma prima di bendarci il capo,<br />
sentiamo almeno cosa vogliono. Ario, tu che le hai viste, quando pensi che arriveranno<br />
qui, sono ancora molto lontane?”<br />
“Padrona bella, quando ho avvistato la formicolante processione, questa, aveva già<br />
superato il villaggio dei pescatori oltre la scogliera e si stava avvicinando al bivio<br />
dell’assiolo, laggiù nel canneto. Credo che nel tempo che occorre alla civetta a battere le<br />
ali, sentirai il respiro <strong>delle</strong> donne alle tue terga...”<br />
Mentre il ragazzo continua a parlare si avverte nell’aria, un fievole mormorio, un tremito<br />
appena percettibile, quasi il brontolio di un tuono lontano. Lola e il suo cucciolo, inquieti e<br />
nervosi, ritti sui dirupi tra i cespugli spinosi, allungano le orecchie, si rizzano sulle zampe<br />
posteriori e iniziano a fissare con le pupille diafane, l’Oriente. Che vedevano? Chi<br />
aspettavano? Che dio c’era oltre la luce misteriosa del mattino?<br />
13
Ma nessuno arrivava. Eppure persino le rocce con gli occhi bucati da sfingi, parevano in<br />
attesa di qualcosa. Dopo aver guardato lontano, la cerva con pochi salti decisi, entra nella<br />
caverna seguita dal cerbiatto. Calea, pure essa turbata, mentre con una mano agita i<br />
campanelli della sua collana, si guarda attorno sospettosa, quasi sperando di vedere <strong>delle</strong><br />
nubi temporalesche, addensarsi sui monti, infine, interrompe il racconto di Ario<br />
sussurrando piano:<br />
“Sssst!”<br />
“Che c’è?”<br />
“Non avete sentito anche voi…?<br />
“Cosa?”<br />
“Un suono strano... sembra avvicinarsi da strade diverse.”<br />
“Viene dalla spiaggia” risponde Acotinia volgendo lo sguardo a perlustrare lontano, oltre i<br />
rovi e le spine della fratta.<br />
“E’ un gemito, quasi un lamento di dolore, come un pianto corale di donne che vegliano<br />
corpi senza vita… ricorda quei canti alati che le donne bengalesi fanno echeggiare lungo<br />
la riva del sacro Gange…” senza più attesa Calea prontamente si sdraia in terra, poggia<br />
un orecchio sull’erba e, tesa, rimane in ascolto: “Dei dell’Olimpo,” mormora scuotendo la<br />
testa perplessa “non c’è dubbio sono migliaia di esseri in movimento, la rupe trema, la<br />
foresta s’incurva, le urla stridono e s’intrecciano nell’aria.” La Divina, con un gesto di<br />
disappunto, si alza, “non mi piace.” Ripete più volte. “Ho sentito perfettamente le loro<br />
grida, pure, non riesco a vedere niente.”<br />
Infatti nessuno giungeva. “Ario, ragazzo mio,” riprese Calea, lesto, vai loro incontro, cerca<br />
di tagliare la strada al branco, cerca di fermare quelle femmine in ogni modo.”<br />
Il giovane già all’erta pronto per andare: “Mia signora, devo impedire loro di passare?”<br />
“Sì… no… anzi, dì loro che riceverò soltanto la più anziana del gruppo, tutte le altre falle<br />
accampare ai piedi della rupe. Ora va, ragazzo. Corri, corri.”<br />
“Vado, bella tra le belle. Lascerò passare solo la bisnonna ultracentenaria, vecchia e<br />
stravecchia quella che pare un giunco secco.”<br />
Mentre Acotinia, continua imperterrita a mescolare la sua mistura, Calea, si ritira nella<br />
caverna.<br />
Poco dopo, dal sentiero polveroso che serpeggia sotto i dirupi scoscesi, come tessuta in<br />
una tela dai colori vivaci sbuca una lunga processione di capigliature inghirlandate. E’ un<br />
vortice, un onda di capelli: bianchi, grigi, bruni, castani, biondi, rossicci, neri. Quel vortice,<br />
galleggia nel vento mentre la nebbia ne attutisce i riflessi dai mille colori. Solo quando le<br />
donne arrivano in cima allo stradone, solo allora Ario prontamente le ferma.<br />
“Alto là, non si passa. E’ pericoloso per voi andare oltre, fermi qui.”<br />
14
Poi si rivolge alla vecchia che alta, curva e sdentata, marciava in testa al branco:<br />
“Vecchia, fatti riconoscere. Chi sei, cosa vuoi? cosa vogliono tutte queste donne?”<br />
Domanda dondolando il capo dall’alto del suo lungo collo.<br />
“Parlare con la Divina Calea. Che gli dei la conservino.”<br />
“Chi è che comanda di voi?”<br />
“Nessuna di noi comanda, però le altre, hanno mandato avanti me che sono la più anziana<br />
del villaggio.” Rispose la donna indicando irrequieta con una mano nodosa la treccia<br />
bianchissima che le incorniciava il capo scoperto.<br />
“Come ti chiami vecchia?”<br />
“Attia, figlia di Sima, figlia di Atala.”<br />
“Calea - La - Saggia, ascolterà solo te. Vieni Attia, parlerai per tutte. Vieni vecchia, ti<br />
accompagno, solo tu puoi passare.”<br />
Sono ormai in prossimità della scala quando Acotinia, piantata a gambe aperte avanti il<br />
portale, da sopra la rupe domanda al ragazzo: “Ario, sai tu dirmi chi è e cosa vuole questa<br />
donna?”<br />
“Il suo nome è Attia, figlia di Sima, figlia di Atala. Donna nobile d’animo e di fatto. Attia,<br />
chiede di parlare con la Divina Calea, porta in dono un agnello e se la Divina deciderà di<br />
ascoltarla, parlerà in nome di tutte le donne dell’isola.” Risponde Ario gridando da sotto i<br />
gradini.<br />
“Lunga vita alla Divina Calea.” Disse la vecchia.<br />
“Bene,” riprese la serva “la donna può salire, penserò io ad informare la Grande Madre. Tu<br />
intanto prendi l’agnello, portalo nel recinto dell’ovile assieme alla giovenca e alla coppia di<br />
capretti, già che ci sei, arriva fino alla porcareccia, riempi d’acqua il trogolo di granito poi<br />
getta un secchio di ghianda ai porci, anzi, fai mangiare anche i pavoni che sempre<br />
sonnecchiano sullo steccato, quando hai finito, torna lesto sul monte a fare la guardia e<br />
vedi di farla bene.” Poi Acotinia si rivolge alla vecchia che con fatica, lentamente saliva la<br />
scala. “Vieni Attia, vieni e siedi pure a riposare mentre io vado a vedere se la Grande<br />
Madre può riceverti.”<br />
La serva dopo aver suonato la conchiglia scompare nell’imboccatura della caverna. Non<br />
passa moto tempo che ritorna assieme alla sua padrona e subito le presenta la vecchia.<br />
“Divina Calea, questa donna, Attia, figlia di Sima, figlia di Atala, desidera parlarti.”<br />
“Dunque, tu saresti Attia, figlia di Sima, figlia di Atala… Rasenna?”<br />
“Sì Grande Calea!”<br />
“Conoscevo molto bene tua madre, era una donna di stirpe dura, in lei scorreva il sangue<br />
dell’antica razza etrusca. II sangue di quando tanto tempo fa, in questa terra libera e<br />
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potente, regnavano incontrastate superbe regine. Ma adesso nobile, vecchia Attia, parla,<br />
raccontami. Quale buon vento ti porta alla mia caverna?”<br />
A quella domanda, la donna che era pallida e smunta come una santa martire dipinta<br />
sopra un quadro antico, impacciata scuote con impazienza i lembi del suo scialle plumbeo<br />
che teneva annodato sul petto e, solo dopo un lungo silenzio risponde con tono ieratico:<br />
“Un vento disperato Grande Madre, Divina Calea. Nella nostra terra tutti sanno che sul tuo<br />
manto aleggia la saggezza, per questo osiamo disturbare il tuo riposo con i nostri lamenti.<br />
Quasi tutte le donne dell’isola, con i loro figli, sono qui con me per invocare il tuo aiuto. In<br />
ginocchio, invochiamo l’aiuto della Grande Calea, la Maga - Veggente. Solo tu, attraverso<br />
le tue palpebre chiuse, come dentro un miraggio, puoi vedere quello che c’era prima di noi<br />
e quello che ci sarà dopo i nostri figli.”<br />
Parlando la vecchia, si getta ai suoi piedi, le abbraccia le ginocchia. Calea dolcemente la<br />
solleva da terra:<br />
“Tutte le donne dell’Isola <strong>delle</strong> Rondini con i figli in braccio? Questo non avveniva da<br />
secoli. Se avete lasciato pendere dall’albero i frutti maturi, se avete abbandonato le pecore<br />
gravide, le filari di viti, i covoni, le bionde spighe gonfie di chicchi di grano, allora deve<br />
essere successa una cosa di molto grave.”<br />
“Gravissima. Devi sapere che i nostri uomini, giovani e vecchi, non rovesciano più la terra<br />
con il ferro, non arano con i tori, né seminano l’orzo nei campi dove adesso trionfa<br />
incontrastato solo l’inutile cardo e dove la ruggine cattiva si mangia gli steli dell’erba più<br />
tenera e dolce. Nessuno più pesca, nessuno và sull’altopiano a caccia del cervo, del<br />
cinghiale e dell’orso bruno, ma la cosa più terribile, Grande Madre, è che le giovani spose,<br />
non partoriscono, non custodiscono i figli nel ventre e tu sai bene che una donna senza<br />
figli è inutile come un fascio di spini. Per questo, nessuno più ama la propria donna alla<br />
nostra isola, né i giovanotti guardano più le belle ragazze da marito. Tutto questo a causa<br />
di una giovane lasciva che ha stregato i nostri maschi. Ognuno lascia il lavoro per fermarsi<br />
vicino alla sua fratta. I giovani sono diventati il suo trastullo, oltre a passare il tempo<br />
guardando le sue danze e ascoltando la sua musica, si battono tra loro sognando solo di<br />
cogliere la rosa nascosta nel suo giardino segreto. Giorno e notte sognano quella rosa e,<br />
in molti, troppi, muoiono d’amore.”<br />
“Una giovane lasciva incanta tutti gli uomini dell’isola? Che misteriosa arte, che Dono,<br />
possiede questa affascinante sirena?”<br />
“La malefica potenza di fare perdere il senno a chi ha la ventura d’incontrarla. Con i veli<br />
fluttuanti, simile a una Driade dei boschi danza e canta ed è come se conoscesse parole<br />
magiche, stregate che fanno addormentare ogni dolore.<br />
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Gli occhi ardenti come tizzoni, un filo di perle rosa sulla fronte, un fascio di fiori di campo<br />
attorcigliati nella sua treccia più scintillante dell’oro, all’ombra di querce e faggi,<br />
strusciandosi nei tronchi come una zingara in calore, al primo sibilo di vento, danza a piedi<br />
scalzi e le sue forme scivolano nella carne di ognuno.<br />
Come una fata che nasce dal cavo di un elce, appare danzando, ma…non solo. La sua<br />
musica è ancora più ammagliante. Con il suono del suo flauto lei inchioda chiunque al<br />
suolo, riempie le canne del suo strumento, con note di una musica languida, stregata e<br />
mentre si contorce e s’incurva uguale a un giunco piegato dal vento, inventa melodie<br />
struggenti. Giorno dopo giorno, è come se si strappasse via un velo e sorgesse nuda dalla<br />
sua musica. Quasi avesse versato un succo d’amore negli occhi di ogni maschio, questi,<br />
divorati dalla fiamma di quel suono, manco fossero stati rapiti dalla ninfa <strong>delle</strong> fonti sacre,<br />
quando l’hanno sentita e vista una volta, sciagurati, vogliono sentirla e vederla altre mille e<br />
mille volte ancora. Tutti sognano di dissetarsi al suo fiume per poi buttarsi su di lei<br />
sciogliere quella treccia e dormire avvolti nell’intricato cespuglio dei suoi lunghi capelli<br />
colore del grano non ancora maturo. Ogni uomo, giovane e vecchio desidera solo<br />
accarezzare i suoi seni di madreperla e poi… perdersi.<br />
Il suo canto ammaliatore, spesso si fonde con l’ansare doloroso, con l’angoscia agitata<br />
<strong>delle</strong> spose e madri che inseguono mariti e figli nel disperato tentativo di allontanarli da lei.<br />
Pensare che quella giovane, non è neanche della nostra razza, non ha il nostro sangue<br />
nelle vene e pure se è solo una trovatella figlia di nessuno, una piccola bastarda con gli<br />
occhi dolci, solleva tanto il capo sopra le altre fanciulle come fanno i lecci tra le molli<br />
fratte.”<br />
A un tratto un grido si alza dalla fila <strong>delle</strong> donne: “A morte, a morte la bastarda! A morte la<br />
straniera. All’esilio, all’esilio la meticcia, all’esilio nella torre mozzata.”<br />
“Senti? Oramai non c’è più pace nelle nostre capanne, in tante mi hanno mandato avanti a<br />
chiederti di murare la giovane nella torre di pietra. Ordina ai tuoi schiavi di murarla e di<br />
lasciarla lì a languire fino alla fine dei suoi giorni.”<br />
“Queste donne superbe e pronte all’ira, furiose e sorde come il mare, vorrebbero murare<br />
viva una fanciulla?” Rispose Calea, incredula sgranando gli occhi.<br />
“Rinchiudila nella celletta sotto le fondamenta del ponte levatoio.“<br />
“Tu vecchia intendi la stessa celletta dov’è stato rinchiuso a pane e acqua Peter il giovane<br />
carbonaio condannato alla forca perché accusato di aver rubato i vasi sacri del tempio?”<br />
“Quella!”<br />
“Non ricordi che dopo la tragica fine di quel ragazzo triste, che vacillava e tremava come<br />
un fragile ramoscello a fronte la tramontana, non ricordi vecchia, che solo poche ore dopo<br />
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la sua impiccagione quando ormai era troppo tardi, si è scoperto che il giovane Peter, era<br />
innocente?”<br />
“Certo che ricordo.”<br />
“Anche dopo quell’errore terribile, dopo che il suo sangue innocente come quello di Abele,<br />
grida dalle caverne più profonde chiedendo giustizia, queste donne vorrebbero<br />
imprigionare ancora qualcuno in quell’imbuto cieco e maledetto, quel buco orrido che<br />
durante l’alta marea affonda in una cloaca di fango putrido, abitata da sorci, pipistrelli e<br />
ragni? E tu nobile Attia assecondi questo progetto malvagio? Anzi, all’apice della tua<br />
vecchiezza, ti sei fatta portavoce di questa infamia?”<br />
“Potresti rinchiuderla in quella cella, magari in attesa del giudizio.”<br />
“Giudizio di che? Pure se la ragazza danzasse completamente nuda come una baccante e<br />
se pervasa da una furiosa passione suonasse il suo flauto nel cuore di una tormenta di<br />
neve, secondo la legge sancita nell’undicesimo anno di regno del defunto re, non è<br />
colpevole di nulla. Fin dalla scoperta del selvatico grappolo d’uva, cantare e suonare un<br />
esile flauto non è mai stato un reato. Nessuno merita di morire né può essere punito per<br />
questo.”<br />
“Nemmeno le nostre donne meritano quello che sta loro succedendo.”<br />
“Anche a loro è concesso di danzare, chi non danza non saprà mai nulla dei piaceri della<br />
vita. Secondo me, tu e le tue donne, per chiedermi una cosa simile dovete essere<br />
impazzite o disperate.”<br />
“L’una e l’altra cosa” disse la vecchia.”<br />
“Dimmi, vecchia Attia, che altro ha fatto di tanto grave questa giovane, che crimine ha<br />
commesso oltre a far risuonare nella foresta una canzone silvestre?”<br />
“Soffia melodie eterne, muove il corpo al ritmo lento della luna e canta con tanta grazia…<br />
un motivo sacrilego e struggente che più l’ascolti e più ti affama. E' come se rimembrasse<br />
altre terre, altri lidi…sotto le sue dita, quel flauto, quelle canne, fanno uscire un’anima<br />
spezzata che come il vino degli dei, più che ubriacare, uccide chi non è abituato a berlo.”<br />
“Suonare una musica che emana una forza misteriosa tanto da incantare uomini e bestie,<br />
è arte pura.”<br />
“Ma tutti vogliono sentirla, tutti la cercano come la cerva assetata cerca un corso d’acqua.<br />
Quasi che in un altra vita, in un remoto passato... lei, fosse vissuta in un mondo di sogno,<br />
diverso da quello dove vive ora e adesso…”<br />
“Queste sono solo invenzioni dettate dal veleno dell’odio e della gelosia e la gelosia, è<br />
come il proverbio che và di bocca in bocca e molto spesso, ci sfugge il senso.”<br />
“Ascolta Divina Calea, quindici anni fa, il vecchio Giobbe pescatore di perle, trovò quella<br />
vergine lasciva che era ancora lattante, sopra un frammento di relitto incagliato tra gli<br />
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scogli. Qualcuno disse che i viaggiatori di quella nave venivano da un grande mare<br />
all’estremo sud, mare che si stende da est a ovest per molti mesi di navigazione. Quelle<br />
genti, dovevano appartenere a piccole tribù di cacciatori che d’inverno per scarsità di cibo<br />
si riparavano nelle grotte mangiando solo radici e semi che avevano raccolto e conservato<br />
nella bella stagione. Forse quegli indigeni affamati, abbandonando per sempre il loro<br />
mondo buio e freddo, si erano messi in viaggio nella speranza di trovare terre più<br />
accoglienti, cieli meno ostili di quella tundra dove vivevano, una tundra deserta con<br />
scoscese scogliere a strapiombo che incombevano su abissi vuoti dove nel silenzio di quel<br />
nulla regnava solo l’urlo di terribili venti e l’agghiacciante ululato del cane della steppa, dei<br />
lupi grigi e dei lupi mannari…”<br />
“Ricordo anch’io quel giorno, vecchia Attia. La bimba, unica superstite del naufragio, era<br />
avvolta in pellicce di lupo. “<br />
“Ma oltre a quelle pelli, strette attorno al corpo come fasce di tela, aveva legato alla vita,<br />
quasi fosse un ornamento, un flauto di canne. La cosa sorprendente è che le canne dello<br />
strumento musicale, erano tenute assieme non da corde o lacci di cuoio, ma da ciocche di<br />
capelli, cavicchi d’ossa umane e zanne acuminate di animali a noi completamente<br />
sconosciuti. Reliquie, quasi che queste fossero gli avanzi di un cannibalismo di iniziazione<br />
segreta. Forse quei naviganti venivano da un mondo selvaggio a noi sconosciuto.”<br />
“In fondo vecchia Attia, era pur sempre solo un flauto di canne, un semplice flauto, non un<br />
talismano né una bacchetta magica costruita con denti di drago. E poi il relitto racconta di<br />
un vascello mercantile con tre ponti e cinquecento rematori, una nave che nelle stive<br />
panciute trasportava un carico imponente. I palombari hanno recuperato enormi orci di un<br />
vino raro che nessuno di noi aveva mai assaggiato, di molto più delicato e leggero<br />
dell’idromele che i nostri contadini aromatizzano con fiori di sambuco, timo e rosmarino.<br />
Nella stiva, sono state trovate stoffe ricamate con pietre preziose e gemme di vetro, perle<br />
enormi che mai abbiamo visto nel nostro mare, insomma tutte merci preziose e rare, di<br />
quale mondo selvaggio e misterioso parli, vecchia? Sopra quella imbarcazione, non<br />
c’erano creature soprannaturali, né tribù di cannibali, né pirati e manco indiani sventurati<br />
che erravano per i mari portandosi appresso le sacre ossa dei loro avi. Ma anche fosse<br />
vero, sì anche fosse vero che quei naviganti venivano da terre lontane e sconosciute, la<br />
madre di quella bambina, era pur sempre una donna in carne e ossa. Una fragile mortale,<br />
discendente del primo uomo che fu impastato di terra e sangue nel ventre di una donna e<br />
appena nata, anche lei, ha respirato la stessa nostra aria. Poi da adulta, ha concepito la<br />
sua creatura con amore e fede, per nove mesi l’ha cullata nel suo grembo finché l’ha<br />
partorita con la paura e il delirio della morte, proprio come le donne della nostra isola.<br />
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Invero, nessuno inizia a vivere in altro modo, per tutti c’è una sola maniera di entrare nella<br />
vita e poi di abbandonarla.”<br />
“Divina Calea, anche se quella donna fosse andata come tutte noi ad attingere acqua in<br />
mille sorgenti diverse portando la sua creatura sulle spalle dentro una pelle di castoro,<br />
questo, non giustifica la presenza di quel flauto…”<br />
“Perché no? Magari al momento del disastro, quando la nave si è spezzata in due<br />
tronconi, nel tentativo di salvare la sua bambina, la madre, l’ha lasciata andare tra le onde<br />
assieme al suo prezioso strumento, così come le nostre donne abbandonano le loro<br />
creature sui gradini del tempio, credimi vecchia, la disperazione <strong>delle</strong> madri è terrena, non<br />
viene da altri mondi.”<br />
“Ma allora Divina Calea, come spieghi quel suo modo di danzare meticcio, quel suono di<br />
flauto di canne che incanta? come spieghi quelle pellicce di lupo che l’avvolgevano come<br />
fasce?”<br />
“Forse le pellicce erano l’unica cosa calda che la madre aveva per coprire le sue piccole<br />
membra, magari… non è solo questo… forse la bambina deve la sua salvezza proprio a<br />
quelle pelli di lupo che l’avvolgevano con tanto amore. In quanto alla sua arte sublime,<br />
posso solo dire che certe creature, certi poeti, un tempo accolti nei castelli da re e da<br />
principi amati e onorati come numi, appartengono a una razza divina, possiedono il dono<br />
più grande, l’unico talento incontestabile che il cielo ha donato alla terra. La loro vita è<br />
semplice e insieme difficile, parlano come gli immortali o come i bambini, possono<br />
incantare il mondo, possono spiegare le leggi dell’universo ma… non sanno difendersi<br />
dalle cattiverie della vita. Come puoi ben vedere vecchia, questi cantori, queste creature<br />
divine, spesso restano geni incompresi…”<br />
“E’ che noi,…“ riprese la vecchia, ”ricordiamo ancora il momento del naufragio con terrore.<br />
C’è più di una immagine di quella sera che la mia memoria ha trattenuto.”<br />
“Raccontami la tua versione dei fatti.”<br />
“Eravamo sul promontorio, seduti su serpenti di nebbia, guardavamo le gonfie vele <strong>delle</strong><br />
navi dei mercanti che viaggiavano sui flutti quando all’improvviso vedemmo sbucare dalla<br />
bruma un bellissimo vascello con al centro un enorme albero maestro. La nave era grande<br />
almeno due volte qualsiasi altra avessimo già visto. Non solo la struttura era di legno e<br />
non di pelli cucite tra loro, ma anche il rivestimento era fatto di tavole sigillate con la pece.<br />
L’imbarcazione, manovrata a remi e con il timone, si stava avvicinato alla nostra costa,<br />
quando, è andata a scontrarsi con il grande ghiacciaio.<br />
In principio sentimmo un forte sibilo, un rumore di schianti, tanti piccoli banchi di ghiaccio<br />
precipitarono in mare come spesso accade. Ma poi all’improvviso, un’onda anomala, ha<br />
capovolto la montagna gelata e, dall’acqua, è emersa una gigantesca grotta di ghiaccio<br />
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sorretta da mille colonne. La grotta, urtò lo scafo spezzando l’albero maestro in più parti.<br />
Per un momento il vascello sembrò sparire ma poi subito riemerse. Mentre noi dalla<br />
spiaggia vedevamo gli uomini che tagliavano con le asce le sartie che ancora<br />
imbrigliavano il troncone dell’albero, altre onde altissime iniziarono a flagellare la nave con<br />
un nastro di morte, un nastro sempre più alto, finché tra la schiuma apparve una chimera<br />
mostruosa dalle cento bocche pronte a ingoiare ogni cosa. Il mostro marino, col dorso<br />
coperto di scaglie, aveva abbracciato la nave con i suoi mille tentacoli e pareva volesse<br />
sradicarla e trascinarla nel fondo. Dopo lo schianto, vedemmo quei sventurati sparpagliati<br />
ai quattro venti; qualcuno ancora urlava il tempo di voga sovrastando le grida di chi<br />
chiamava per nome i compagni, le mogli, i figli. Altri, come impazziti, continuavano a<br />
remare combattendo da leoni contro le onde terribili, un marinaio legato all’albero maestro,<br />
cavalcava i flutti come fossero delfini, finché, quel che restava del vascello s’incagliò tra gli<br />
scogli. Allora vedemmo i remi scivolare in mare, vedemmo la nave ruotare su se stessa e<br />
dare il fianco alle onde fino a inabissarsi. Poi si accesero le stelle e la notte indifferente<br />
alla tragedia degli uomini, coprì ogni cosa con il suo manto negro quasi che la battaglia<br />
degli elementi non fosse mai stata. Molti di noi rimasero svegli tutta la notte accucciati<br />
sulla riva annusando l’aria salmastra perdendosi nell’ascoltare con l’anima stretta fra i<br />
denti, il sibilo lugubre, il cigolare stridulo del lento declino del vascello. Infine quando non<br />
c’erano più né urla, né gemiti, per tutto, rimase solo lo sciabordio dell’acqua contro il relitto<br />
e il fruscio del vento sull’ultimo frammento di vela.<br />
Con le prime luci livide dell’alba, alcuni tuffatori si immersero, ma nemmeno i più esperti<br />
palombari, pescatori di spugne, riuscirono a trovare tracce dei naviganti, era come se la<br />
barca nera con il raccoglitore di anime fosse già passata. Il mare non restituì nessuno, tutti<br />
erano stati inghiottiti per sempre dalle acque verdi. Giorni dopo, il vecchio Giobbe andando<br />
come sempre a pescare le perle rosa con la sua canoa vivacemente colorata, tornato in<br />
superficie dopo un’immersione, vide affiorare dall’acqua un branco di delfini che assieme a<br />
un’infinità di uccelli stavano raccolti intorno a qualcosa come per proteggerla. Al vecchio,<br />
bastò un’occhiata per cogliere tutta la scena. Risalito in canoa, mentre le sue lunghe<br />
braccia affondavano energicamente la pagaia, la barca filava sul pelo dell’acqua<br />
avvicinandosi il più veloce possibile alla cosa. E presto, tra mammiferi e uccelli, intrecciato<br />
a germogli di alghe, sotto una nebbia di vapori perlati, gli apparve un minuscolo fagottino<br />
avvolto in pelli di lupo. Guardando meglio, Giobbe si accorse che fasciata in quelle<br />
pellicce, c’era una bimba miracolosamente illesa che dormiva tranquilla sul fondo di un<br />
barile. Gridando al miracolo straordinario, con un solo gesto Giobbe raccolse la creatura<br />
portandola a terra e, giacché era evidente che era stata graziata dagli dei del cielo e del<br />
mare, la chiamò: Meravigliosa.<br />
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Invero mentre noi la guardavamo inquieti e spaventati, facendoci più di mille domande, il<br />
vecchio, da un tronco di noce scavò una culla e mentre lui in un subito, gli fece da padre,<br />
da madre e da nutrice, noi continuavamo a chiederci: se quel piccolo essere era stato<br />
risparmiato dal mostro dai mille tentacoli, come era sopravvissuto per tanto tempo al<br />
freddo e in balia del mare selvaggio? Quale dio straniero l’aveva protetto? Il mistero del<br />
suo ritrovamento incuteva paura e presto la bambina divenne tabù, c’era persino chi aveva<br />
timore anche di un semplice contatto fisico. Non passarono molte lune che fu ritenuta<br />
responsabile della neve a primavera, degli incendi, della siccità, della grandine, dell’arrivo<br />
<strong>delle</strong> cavallette, dei raccolti scarsi, del fieno guasto. Si cominciò a sussurrare che nei<br />
giorni dopo il naufragio la creatura, doveva aver soggiornato nelle caverne più aspre e<br />
oscure dell’Averno, protetta dal dio degli inferi, l’Orco.”<br />
“Vecchia Attia, ragiona. Non permettere alla superstizione di riempirti la testa come a un<br />
contadino ignorante. Dimmi, veramente credi che la bambina possa aver soggiornato<br />
nell’Averno?”<br />
“Perché no? Se…il mostro l’avesse divorata e poi vomitata?… la creatura potrebbe essere<br />
resuscitata a nuova vita. Deve essere andata così, solo una morte temporanea può<br />
spiegare le sue arti magiche.”<br />
“Lo vuoi capire o no, vecchia, che è stata salvata da un delfino? Io e te, sappiamo bene<br />
che dall’oscurità dell’oltre tomba… se un vivo scende nel regno dei morti, nel regno <strong>delle</strong><br />
tenebre dove è facile l’ingresso…non si torna più addietro…”<br />
“Lo so, lo so Divina Calea. Ma certe volte, quando involontariamente qualcuno cade<br />
nell’altro regno, se con infinita fatica, riesce a ritornare, se… straordinariamente ci riesce,<br />
ha certamente acquisito misteriosi poteri ultraterreni, poteri magici e occulti.”<br />
“Dunque tu credi possibile questo, vecchia?”<br />
“Tutti noi lo abbiamo sempre creduto e lo crediamo ancora. Solo Giobbe difese<br />
disperatamente quella creatura dalle nostre fobie, la difese fino a quando si ammalò.<br />
Nessuno dell’isola per paura della sua giovane figlia tabù, andò ad assisterlo nei suoi<br />
ultimi giorni. Nessuno ebbe il coraggio di scuotere piano la catena che chiudeva la sua<br />
porta, chiedere permesso, attraversare il pavimento coperto di giunchi e arrivare al<br />
capezzale del morente. Ma una notte, mentre in molti stavamo a guardare da una certa<br />
distanza le finestre della casa del pescatore: la casa di Giobbe è una costruzione<br />
importante, quasi una fortezza, mentre guardavamo con invidia, la grande porta di legno<br />
con l’architrave a sesto acuto, il cornicione, i due balconi di ferro che la rendono ben<br />
diversa da tutte la altre misere, melanconiche abitazioni del villaggio, piccole, luride<br />
catapecchie di legno e canne intonacate con il tetto di fango ed erba secca che spunta dai<br />
fichi d’India, ci accorgemmo che la casa, era straordinariamente illuminata a giorno.<br />
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Qualcuno disse che l’Orco, ogni sera preceduto da mille portatori di torce, andava a<br />
chiedere in sposa la giovanissima figlia di Giobbe, e per arrivare alla casa indisturbato,<br />
aveva fatto scavare dagli spiriti dell’acqua, un passaggio segreto e misterioso, una fitta<br />
ragnatela di cunicoli che dalla sua caverna, dal suo regno sottomarino, conducevano<br />
all’oscuro muraglione che circondava l’ombroso boschetto di noci del pescatore. Per la<br />
nostra paura, Meravigliosa e suo padre rimasero soli fino a quando il vecchio morì, da<br />
allora più nessuno ha cercato di avvicinarsi alla casa di pietra. La nostra tribù, dopo la<br />
sepoltura di Giobbe, in apparenza riprese la vita di sempre.”<br />
“E Meravigliosa?”<br />
“Accompagnato suo padre al suo ultimo asilo, provata dal dolore si richiuse in se stessa.”<br />
“Dunque vive da sola, come?”<br />
“E’ quello che chiediamo tutti. Giobbe ha cresciuto Meravigliosa come fosse una<br />
principessa. Lei, non sa pescare, non sa cacciare i cervi, non sa prendere in trappola i<br />
conigli, né sa uccidere i cigni con l’arco, neanche sa cercare i frutti selvatici nel bosco,<br />
pure, sopravvive senza chiedere nulla, anche se nessuno le ha insegnato a filare né a<br />
percorrere col pettine la tela al telaio, indossa sempre vesti dai tessuti bellissimi fittamente<br />
ornati con perle e gemme, e le camicie meravigliosamente ricamate che spuntano da sotto<br />
i suoi indumenti, sono del lino più fine che si sia mai visto al villaggio. Invero, da quando è<br />
rimasta sola, lascia la sua casa raramente, a volte siede sui gradini per ore, appoggia un<br />
gomito sul ginocchio, il mento nella mano e mentre canta, sembra come persa... nel<br />
mondo incantato <strong>delle</strong> fate. Ma quando le nuvole celano la luna e le stelle, prende la sua<br />
lampada e, avvolta nel pesante mantello nero del padre si avvia al pozzo, dov’è sepolto<br />
Giobbe. Lì, sotto il grande ulivo saraceno, s’inginocchia e si dondola stringendosi le spalle<br />
con le braccia. Infine, poggia la fronte sulla nuda terra e piange a lungo. Tu credi Divina<br />
Calea che Meravigliosa piange la morte di Giobbe o forse il suo pianto è per il vero padre<br />
che non ha mai conosciuto?”<br />
“Forse piange per entrambi.”<br />
“A nessuno ha confidato il suo segreto. Chiusa nel suo nido di pietra, la sera avanti la casa<br />
accende un grosso fuoco che arde per tutta la notte e mentre le scintille salgono nel cielo<br />
negro, lei, suona in solitudine il suo flauto e spesso accompagna la sua musica con passi<br />
di danza. Ma peggio è quando canta in una lingua a noi completamente sconosciuta… la<br />
lingua di Babele…tu credi possibile, Grande Madre, che la ragazza possa essersi unita<br />
carnalmente con il principe degli angeli ribelli…? E’ come se possedesse tutte le virtù per<br />
comunicare con l’universo, quasi che una voce le avesse insegnato i misteri del mondo i<br />
segreti imprigionati nel tempo quelli che vengono perpetuati dalle streghe attraverso le<br />
generazioni. Non è solo un semplice sospetto. Quando in molti presero a spiarla, c’era un<br />
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maestro di pietra, innamorato pazzo di lei che di nascosto la seguiva ovunque e una volta,<br />
dopo essersi ubriacato all’osteria del Nespolo, ha raccontato di aver visto Meravigliosa<br />
oltre la siepe di melograni che la coprivano come una muraglia, l’ha vista con un velo<br />
azzurro che le ombreggiava misteriosamente il volto, in piedi con le braccia levate in atto<br />
di preghiera come una sacerdotessa, ma subito dopo, mentre il suo mantello nero si<br />
apriva volando come le ali di un corvo, l’ha vista buttarsi in ginocchio con le braccia tese<br />
nella tremenda posa adottata dalle streghe per scagliare le maledizioni…”<br />
“…Attenta vecchia, la calunnia, è come la fattura a morte, spesso torna addietro.”<br />
“E la superstizione, Divina Calea, è come una serpe, si arrotola attorno alle gambe e…non<br />
ti lascia più. Dal giorno di quel racconto, la paura tiene tutti col fiato sospeso. Chi è<br />
veramente questa giovane? Da quale stella è scesa, che poteri ha? Se è veramente l’Orco<br />
il misterioso dio che l’ha protetta durante il naufragio, quale altro dio potente le ha<br />
insegnato a suonare, danzare, cantare in un modo così diverso da noi? Il resto della sua<br />
storia è facile da capire, più gli uomini della nostra tribù innamorati folli, incominciarono a<br />
battersi per averla, più le donne presero a odiarla, ma lei non vede nessuno, lascia<br />
ognuno appeso a un chiodo come un mantello nell'attesa del freddo.”<br />
Mentre Attia continua il suo racconto, da sotto la rupe le donne con voci sempre più<br />
rauche, strillano: “Grande Calea, mura la strega nella tua torre di pietra. Tramutala in un<br />
mostro marino, in una serpe, in un porco. Falla bollire nella tua pentola magica. Mandala<br />
in esilio. Tagliale la treccia d’oro. Falla smettere di suonare.”<br />
Calea con un leggero sorriso di derisione che illumina la sua bocca sensuale sussurra<br />
come soprappensiero: “L’invidia di queste tue donne, vecchia, le ha fatte inselvatichire<br />
come bestie. L’albero nasce, cresce, con le sue fronde getta ombra sulla terra, non chiede<br />
permesso. La neve cade lenta e bianca ammantando ogni cosa, non chiede permesso e<br />
questa povera orfana, dovrebbe chiedere a voi il premesso di suonare? Non ti pare<br />
vecchia Attia che sarebbe ora di smetterla con questi tabù preistorici di quando i guerrieri<br />
primitivi brindavano nel cranio dei nemici? Basta con le malefiche credenze, basta con la<br />
paura rozza e mostruosa <strong>delle</strong> forze invisibili che circondano l’uomo.”<br />
“Ma il lamento della sua musica carico di pathos arriva all’orecchio simile allo stormire di<br />
ali di fate e cori di angeli. Il suo canto stregato che respira ed entra a spegnersi nel cuore<br />
d’ognuno, fa scatenare la rabbia, la gelosia di tutte le donne.”<br />
“Se lei veramente possiede il Dono, se il fascino della sua arte è così potente da entrare<br />
nella mente di ognuno, allora quella creatura è molto di più di un angelo o di una fata che<br />
hanno solo il potere d’incantare chi ascolta, mentre la magia di chi possiede il Dono è<br />
eterna e universale. Lo sai anche tu vecchia, che uno spirito così grande, nessuno può<br />
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imprigionarlo. Per impedire all’eco del suo flauto di restare nel cuore e nella mente, non<br />
basterebbero cento serrature, né cento chiavistelli né mille sotterranei profondi.”<br />
“Basterebbe smettesse di suonare.”<br />
“Chiunque ha ricevuto dei talenti, deve consacrarli al sevizio degli altri, altrimenti, avrà una<br />
terribile punizione dal cielo.”<br />
Intanto le donne sempre più eccitate continuano ad agitarsi come un branco di cervi in<br />
fuga nel folto della foresta. L’eco <strong>delle</strong> loro urla di rabbia e di dolore rimbalza dai dirupi<br />
scoscesi fino alla roccia del drago:<br />
“Al rogo, al rogo la strega! Divina Calea disperdi la bastarda ai quattro venti. ”<br />
Attia a mani giunte prega: “Solo tu, maga e profeta, puoi fare tornare la pace sull’isola.<br />
Faremo quello che vorrai, ma ricorda che la piccola vergine ha stregato il guerriero e il<br />
calzolaio, il servo e il padrone, quasi che solo lei avesse il sole tra le sue cosce di neve.”<br />
“Vecchia, tieni calme le tue donne. Queste tragiche cacciatrici di comete che si accaldano<br />
quasi dovessero spartirsi l’universo, non sanno ancora che quando la luna piena s’innalza<br />
sopra i rami intricati del leccio, nessuno è capace di prenderla? ”<br />
“Ma tu sei una Maga. “Tu colei che sa.”<br />
“Io so che l’albero del sambuco e la cicuta velenosa per costruire un grande fiore<br />
cesellano tanti minuscoli boccioli filigranati, candidi boccioli pressappoco identici. Ma solo<br />
lo scarabeo verde volandoci sopra decide dove poggiarsi, solo lui come ogni creatura, è<br />
padrone del suo destino e solo lui deciderà se succhiare il fiore velenoso per poi morire o<br />
secernere l’altro. Dunque lo capisci o no vecchia, che nemmeno una maga può impedire<br />
al grillo e alla cicala di cantare?”<br />
“Tu Profeta e Visionaria, tu che sei la radice del Tutto, accendi le tue stelle. Se è vero<br />
com’è vero che sei stata tanto amata dal potente Giove e lui ti ha reso ninfa immortale<br />
custode in perpetuo della sacra selva, se è vero che puoi leggere nella corteccia degli<br />
alberi e nello stormire <strong>delle</strong> foglie, se possiedi i rotoli segreti del Grande Spirito Invisibile,<br />
tu, e tu sola, saprai essere imparziale. ”<br />
Nell’ascoltare quelle parole, la fronte di Calea si corrugò dolorosamente e, per un<br />
momento, si udì solo il crepitare <strong>delle</strong> fiamme sotto la caldaia, poi, con voce terribile la<br />
Divina, continua:<br />
“Dunque tu, vecchia Attia, figlia della razza etrusca, osi sfidarmi? Non puoi dare a me, la<br />
responsabilità del tuo peccato. Dopo quello che mi hai raccontato, non posso prometterti<br />
che i cervi pascoleranno leggeri nel cielo. Una campana sola non va mai ascoltata.”<br />
Calea guardando in faccia la vecchia aggiunge freddamente.<br />
“Non capisci? Proprio perché io sono Calea, la Divina, non posso né voglio commettere<br />
un'ingiustizia. Tu non puoi costringermi vecchia, a fare presagi o profezie su quella<br />
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giovane perché, non esiste un tribunale, un potere capace di giudicare velocemente la<br />
vittima e l’assassino, il ladro e il derubato. Per una condanna ingiusta, gli dei,<br />
scaglierebbero su di noi folgori e maledizioni e non solo non ci sarebbe più pace nella<br />
nostra bella isola ma ogni abitante verrebbe colpito dalla malattia e dall’angoscia le case<br />
brucerebbero e i giovani finirebbero sulla forca a morire tra i più atroci tormenti. Sì! Per la<br />
condanna di un’innocente, le nostre belle Montagne Rosa, potrebbero essere arate come<br />
un campo e in un subito diventare un mucchio di rovine trasformando le foreste in boschi<br />
arsi. Lo capisci o no, vecchia, che nemmeno l’antichissimo supremo tribunale ateniese<br />
lassù, sulla sacra collina dell’Areopago metterebbe alla gogna una fanciulla senza averla<br />
prima sentita a lungo e attentamente? Tu dovevi venire alla mia presenza, faccia a faccia<br />
con l’accusata. Invece solo perché mi hai raccontato i dubbi e le paure di queste povere<br />
donne, io, dovrei prometterti che gli uomini dell’isola d’ora in poi disprezzeranno quella<br />
giovane come il marito disprezza la moglie senza figli? Non voglio scacciare un’ospite<br />
innocente dalla nostra terra. Solo se lei risulterà colpevole di qualche infamia, verrà<br />
allontanata.”<br />
“Io mi fido solo di te. Sima mia madre, diceva sempre che tu oltre ad essere celebre per la<br />
tua magia, per la tua abilità nello scacciare gli spiriti maligni dal corpo <strong>delle</strong> persone e <strong>delle</strong><br />
bestie, sei famosa soprattutto per essere un giudice saggio e giusto. Mia madre diceva<br />
che Calea con la sua grande sapienza, seduta nello scanno avanti la sua caverna è come<br />
Salomone re d’Israele, diceva che solo Calea sa rendere giustizia al povero, all’affamato,<br />
al tradito. Grande Madre tu sola puoi difendere la nostra causa, tu sei l’unica nostra forza,<br />
tu sola puoi salvarci e tu sola saprai dirmi quali parole usare per calmare le sorelle, le<br />
spose e le madri. Da tempo oramai nessuna più canta ninne nanne sopra la culla del<br />
proprio bambino.”<br />
“Dì loro, di adagiare la paura in una rete sospesa ai rami fioriti degli aranci e far dondolare<br />
quella rete dalla brezza della notte accanto ai nidi degli uccelli solo dopo, potranno<br />
accendere la lampada della verità, lampada che le farà smettere di ringhiare come cagne<br />
avanti la luna. Dì questo alle tue donne prima che il loro viso sia segnato per sempre dal<br />
marchio rosso della vergogna, marchio che nessuna acqua potrà più lavare.” E siccome la<br />
vecchia taceva Calea riprese: “Attia, tu sei troppo vecchia per non sapere che anche se<br />
quella giovane sparisse, resterebbe sempre sull’isola una creatura più brava e più bella<br />
<strong>delle</strong> altre. La rabbia di alcune donne cattive e maligne, è dettata semplicemente<br />
dall’invidia, l’invidia accende l’odio che trascina e acceca. Dillo a tutte, e adesso che le mie<br />
orecchie hanno udito i tuoi lamenti, vai, torna pure alla tua casa e prega gli dei contando<br />
serena dodici albe e dodici tramonti e poi prega ancora per sette giorni e sette notti, solo<br />
alla fine di questo tempo, quando la sacra oscillazione lunare avrà compiuto il suo<br />
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misterioso ciclo, se la ragazza è veramente tabù, sarà punita. Ma…se nel destino di quella<br />
giovane c’è la vita, allora lei vivrà ancora e lungamente. Addio, che il dio della foresta e il<br />
dio del mare proteggano i tuoi passi così come proteggono l’uomo sui monti e il marinaio<br />
sull’acqua. Addio addio.”<br />
“Addio Grande Madre. Stanotte, mentre riposi tranquilla sopra il tuo giaciglio selvatico,<br />
fragrante di sole, di selva, di muschio e petali di fiori, ricordati che il nostro destino riposa<br />
sulle tue ginocchia...” La vecchia, dopo un leggero inchino, finalmente si allontana.<br />
Calea, si rivolge ad Acotinia: “Sai cosa penso amica mia?”<br />
“Cosa mia Divina?”<br />
“Che niente è peggio della gelosia e dell’invidia, sorelle solo alla superbia e ipocrisia, così<br />
come ipocrite e superbe, sono le donne che hanno mandato avanti come uno scudo di<br />
ferro, questa povera vecchia.<br />
“Sta scritto nel grande rotolo: cancella le impronte e scuoti sul terreno la cenere della<br />
torcia dell’ipocrita perché costui, guarda la pagliuzza negli occhi dell’altro e non vede la<br />
trave nel proprio occhio.”<br />
“Mia signora, c’è scritto anche, che l’ipocrita è come l’avvoltoio, attende sulla rupe la morte<br />
della preda.”<br />
“Il Supremo, non condanna inesorabilmente il bugiardo, il ladro o l’assassino, ma<br />
condanna l’ipocrita il cui vero volto si cela dietro la maschera. Ma adesso basta, sento<br />
nell’aria qualcosa che non mi convince, ho una gran paura che avremo altre visite. Vieni<br />
Acotinia cerchiamo lesti di finire la nostra mistura.”<br />
Capitolo secondo<br />
Pan<br />
Dal sentiero polveroso, saltando e correndo a rotta di collo sgraziato come sempre appare<br />
Ario con i capelli inzaccherati e irti, fradicio e infangato, ansando quasi arrivasse dall’altro<br />
capo del mondo, percorre urlando i rudimentali gradini e non appena vede Calea<br />
all’ingresso della caverna intenta a contemplare la cerva che allatta il suo cerbiatto, in un<br />
subito si butta in terra stecchito e rimane lì disteso come morto.<br />
“Padrona, padrona bella e gagliarda.”<br />
“Che nuove Ario?” Disse la Divina continuando ad accarezzare il piccolo cerbiatto che<br />
succhiava il latte mentre i grandi, dolci occhi sembravano assorti nel ricordo di quando i<br />
cervi in amore danzavano avanti la luna.<br />
“Perdonami Grande Madre, ma ero tornato da poco alla torre mozzata, i miei piedi erano<br />
stanchi e pure se ero ormai pieno di sonno, per non addormentarmi, per calmare la fame e<br />
soprattutto… per servirti meglio, me ne stavo affacciato con gli occhi spalancati a guardare<br />
di là del mondo oltre le creste <strong>delle</strong> montagne aspettando che succedesse qualcosa.<br />
27
Mentre fantasticando mi smarrivo per le grandi lande al limite <strong>delle</strong> foreste dove il sole<br />
sciabolava i suoi ultimi raggi tra le foglie, ascoltavo rapito i muggiti di sfida dei tori selvatici<br />
che si preparavano alle battaglie d’amore. All’improvviso un uragano come un enorme<br />
cavallo alato, si è alzato dal mare mettendo in fuga mille nuvole paonazze che iniziarono<br />
a correre nell’alto dei cieli come un esercito vigliacco. Allora la macchia e tutte gli alberi<br />
attorno si sono fatte negre, cigni e fenicotteri si nascondevano tra le canne, ogni scoiattolo<br />
cercava il suo nido. Padrona bella, guardavo l’orizzonte inorridito, quando, quasi per<br />
incanto, i gomitoli di tempesta si arrestarono sul mio capo e dai loro crepacci è partito un<br />
terribile fulmine celeste che dopo avermi accecato, ha colpito la quercia secolare quella<br />
sotto la torre, incendiandola e squarciandola con le sue unghie di brace, intanto che le<br />
prime gocce di pioggia si spegnevano nella terra con piccoli tonfi sordi, la quercia<br />
spezzata in più di mille parti, era già ai miei piedi.”<br />
“Ho visto anch’io tra le nuvole livide a settentrione, saettare con violenza la capigliatura in<br />
fiamme di un serpente di fuoco subito seguito da un fragoroso collerico tuono che ha<br />
squassato l’aria, come avrei potuto non vederlo? Assieme al brusio dell’incendio, al<br />
frastuono dei venti, ho sentito anche il gemito degli alberi, l’urlo <strong>delle</strong> bestie feroci, però il<br />
tuo racconto sulla quercia mi lascia perplessa. Quando il Grande Spirito, dio <strong>delle</strong> folgori<br />
comanda agli elementi infuriati di avvampare il sacro albero di quercia, lo fa solo per<br />
annunciare ai mortali, una visita inaspettata.” Risponde Calea pensierosa.<br />
“Quello che pensavo anch’io padrona bella. Speriamo che gli dei ci assistano e sia una<br />
visita buona. Per la grande paura, il mio cuore, ha iniziato a battere come una campana<br />
impazzita e mi pareva di vedere le ombre dei cadaveri correre sopra le tombe dei vivi,<br />
finché lontano sul fiume ho visto galleggiare la barca dei morti con il barcaiolo ritto, tutto<br />
vestito di bianco, anzi, era fasciato dalla testa ai piedi, da candide bende. Pure se credevo<br />
di morire anch’io, non fuggii, non mossi nemmeno una ciglia e, intanto che dentro quel<br />
buio pesto aspettavo solo si aprissero le cateratte del cielo e una folgore mi colpisse il<br />
cuore, vidi un papavero bianco cresciuto tra le radici di un agrifoglio. Lo strappai alzandolo<br />
al cielo come un calice per misurare la velocità del vento. In quel turbine spaventoso i<br />
petali, scapigliati come capelli di zingara, si persero volando e…”<br />
Dalla caverna esce Acotinia e subito lo interrompe: “Finiscila con le tue bislacche visioni<br />
malefiche. Ma…avvicinati, fatti vedere meglio. Sei finito nel pozzo dell’uragano o cosa?<br />
Guardami, perché i tuoi occhi hanno questa strana luce di pazzia? Ma certo…le pupille<br />
dilatate, un alone febbrile nello sguardo, la follia è nel profondo dei tuoi occhi. Vergognati<br />
ragazzo scellerato. Accidenti a te, confessa disgraziato! Hai di nuovo masticato le capsule<br />
del papavero selvatico, il candido papavero sacro a Cerere, non è vero?.”<br />
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“Solo per servire meglio la mia padrona, la grande stella d’Oriente. Pure se avevo la gola<br />
che bruciava e stavo per perdermi anch’io nell’oblio di quel nero livido, continuai a servirla<br />
lo stesso, subito ho ordinato all’aquila dal capo bianco, di seguire i petali e, mentre il<br />
rapace ad ali spiegate si tuffava dentro il vortice, scomparendo alla mia vista, attraverso i<br />
suoi terribili artigli, per virtù di quel succo che ancora avevo in bocca, per un attimo solo,<br />
forse meno di un attimo, le nubi si sono lacerate e lui mi apparve. Cavalcava il suo<br />
caprone alato dentro i gomitoli di nuvole, vedendolo la mia fame infinita è aumentata. E’<br />
vero Grande Madre che merito una porzione di arrosto di…”<br />
“…Cane!” Lo interrompe ancora Acotinia sorridendo fredda e beffarda. “ Magari prima di<br />
finire il tuo intrigato racconto, senza capo né coda, vorresti sederti tra bracieri d’incenso<br />
attorniato da giovani ancelle che servono boccali di vino e dolciumi bollenti su foglie di viti<br />
come era in uso per gli eroi di Atene quando tornavano dalla battaglia.”<br />
Alla vecchia in fondo poco importava cosa avesse visto veramente il ragazzo pure, riprese<br />
solerte: “Vuoi dire alla Grande Calea chi hai visto? Rispondi lesto, chi volava? Chi ti<br />
apparve attraverso gli artigli dell’aquila? Chi? Di cosa parli moccioso di uno schiavo<br />
pazzo? Sei gravido di sonno e d’oblio? Se almeno fossi rimasto impiccato quella volta che<br />
ti legai alla luna con il filo d’argento della tela del ragno.”<br />
“Per mia fortuna, non ti bastò il filo.”<br />
“Dunque, vuoi deciderti a parlare e poi sparire?”<br />
Intanto Ario si era seduto sulla roccia a gambe aperte e mentre dondolava le braccia tra le<br />
cosce, con un sorriso forzato che voleva essere spavaldo, ripeteva come un eterno<br />
ritornello: “Sì Acotinia, subito Acotinia, certo Acotinia, ma appena avrò parlato, mi regalerai<br />
un cosciotto di porco arrostito?”<br />
Calea con un gesto d’impazienza. “Oh, basta, smettetela dunque una buona volta. E tu<br />
Ario deciditi a parlare, lesto.”<br />
“Divina Calea, stella d’Oriente devi sapere che non è la pigrizia a fiaccarmi le membra, ma<br />
il digiuno. Ed essendo i maiali allevati a ceste di ghianda proprio per essere mangiati…<br />
fammi la grazia. Capirai da sola che per calmare la fame non posso sempre andare a<br />
bacchiare con una pertica noci e castagne. Anche se il mio palato sopporta i frutti <strong>delle</strong><br />
siepi più aspre e selvatiche, non posso mangiare solo more di rovo e bacche di ginepro.<br />
Appena saprai cosa ho da dire Grande Madre, sono certo che mi darai un boccone di<br />
carne di porco, oppure una coscia di agnello ammantato di grasso o preferisci regalarmi<br />
un pezzo di spalla di cervo dal dolce profumo…? Se vuoi, in un attimo preparo con legno<br />
fresco di ginepro uno spiedo splendidamente intagliato e poi…”<br />
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Acotinia gridando spazientita solleva minacciosa il suo bastone di radica come fosse una<br />
clava: “Se vuoi essere strozzato con le tue stesse budella… continua pure a vagheggiare<br />
così.”<br />
“Va bene, ho capito ho capito niente arrosto, ma almeno dopo che avrò parlato, potrò<br />
avere un grappolo di nera uva?”<br />
“Se ti accontenti di un grappolo d’uva, perché no?”<br />
“Dopo l’uva, ci vorrebbe una trota alla brace, una scodella di pancotto accompagnata da<br />
un bicchiere di latte candido come neve e magari…una fetta di pane e lardo, oppure una<br />
frittella di cicoria con un piccolo pezzo di torrone, una melacotogna, una spremuta di<br />
limone, una manciata di noci, una corona di fichi secchi...”<br />
“Basta! Questa tua frenesia del cibo, veramente sta passando ogni misura, ma adesso,<br />
per tutti gli dei dell’Olimpo, se non parli subito, a furia di calci, ti farò sanguinare il naso e i<br />
denti, anzi, sarà meglio che scendi da solo negli inferi altrimenti dopo che ti avrò dato a<br />
bere una coppa intera… di cicuta, ti rinchiuderò nelle stalle, io in persona, Acotinia,<br />
prometto e giuro di strapparti l’anima e buttarla in pasto a quei porci che ami tanto.” Poi<br />
urlando. “Vuoi dire chi hai visto?”<br />
Ario seriamente spaventato sussurra a testa china: “Va bene, va bene, ora comincio.<br />
Imprimis, sta venendo su per il sentiero pieno di fango, secundum, il suo corteggio di<br />
ninfe, fauni e satiri, lo segue danzando e ... “<br />
“Maledizione, di chi parli, chi è che viene, chi?”<br />
“Il dio Pan e il suo corteggio, stanno venendo qui.”<br />
“Che favola racconti, ragazzo!” Interviene Calea preoccupata. ” Possibile che Pan sia<br />
sceso dall’Olimpo in pieno giorno? L’ultima volta che è stato visto alla luce del sole, ha<br />
fatto prendere ai contadini il panico. Per andarsene senza spaventarli di nuovo, si è dovuto<br />
nascondere vestito da monaco dentro un carro di fieno.”<br />
“Un carro di fieno? Padrona bella, a me avevano raccontato che era rimasto infilato per<br />
ore sotto la larga tunica di una giovane carbonaia che scendeva la montagna guidando un<br />
mulo stracarico di fascine.”<br />
“Lo vedi? No, no non può essere lui.”<br />
“Se non è lui, frustami pure a morte padrona bella, ma è già qui, l’ho visto in faccia.”<br />
Acotinia “Se è veramente lui, se non è stato l’oppio a darti una visione illusoria, allora<br />
avanti, raccontaci tutto quello che hai visto e anche quello che non hai visto. Parla, che<br />
faceva Pan, chi cercava? Con chi stava? Com’era?”<br />
“Cornuto… e accigliato come sempre. L’unico vezzo nuovo, è che appesi alle sue lunghe<br />
orecchie puntute, aveva <strong>delle</strong> scodelline di ghiande dove c’erano nascosti un’infinità di elfi<br />
e gnomi. L’ho visti sobbalzare mentre lui vestito solo di zeffiro, saltava giù dal suo caprone<br />
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come una folgore. Poi ha iniziato a correre con i piedi caprini sulla sabbia e mentre le sue<br />
cento ninfe lo seguivano danzando, lui, sudava così tanto che le corna e la coda<br />
sgocciolavano come piovesse mentre la faccia era del colore della mela granata. Al suo<br />
confronto il branco di donne al seguito di Attia, erano fresche come sirene. Il dio, con urla<br />
terribili acciaccava tutta l’acqua del mare. Era mostruoso e inferocito tanto che la sua<br />
apparizione ha spaventato pesci e uccelli. Sono sicuro che non ci porterà nulla di buono.”<br />
“Acotinia amica mia, penso che stavolta il ragazzo ha ragione, stiamo allerta, ricordiamoci<br />
che io, purtroppo, gli devo ancora un favore.”<br />
“Un favore? Di che favore parli Grande Madre?”<br />
“Di un antico favore…piuttosto imbarazzante, ma…tu non eri ancora nata. Se adesso quel<br />
peccatore di Pan è sceso dal suo Olimpo d’oro, per mescolarsi alla polvere dei mortali,<br />
non è solo per fecondare qualche pastorella…”<br />
“Non potrebbe essere anche lui geloso del suono del flauto della trovatella di Giobbe come<br />
le donne del branco?”<br />
“Può essere, gli dei spesso sono così stravaganti. Ario, sei sicuro di aver riconosciuto tra<br />
le nuvole paonazze il dio Pan?”<br />
“Sicurissimo padrona bella.”<br />
“Allora deve aver volato sul grande mare come un uccello pazzo.”<br />
“Se ne stava avvinto al suo caprone alato e fino a quando l’ho potuto seguire con lo<br />
sguardo l’ho visto affrontare urlando i gomitoli di nuvole nere.”<br />
“Pensi sia ancora molto lontano?”<br />
“Padrona bella, grande stella d’Oriente, Pan, sarà qui da un momento all’altro. Quando io<br />
sono sceso dal monte per avvertirti, lui era già a mezza costa oltre il crocicchio dell’osteria<br />
del Gobbo vicino allo stagno. L’ho visto mentre inseguiva con un fiore di sambuco in<br />
bocca, la giovane ostessa, fino all’ingresso della cava di carbone. Sono sicuro che nel<br />
tempo che occorre alla civetta per battere le ali sentirai il rumore dei suoi zoccoli e il suo<br />
respiro affannoso alle tue terga.”<br />
“Per sapere cosa vuole Pan, entriamo lesti nella caverna, anche se non c’è tempo per uno<br />
studio cabalistico, possiamo sempre spargere il mazzo dei tarocchi sul tavolo di nenfro<br />
dalle sette punte o leggere nelle scintille il responso del sacro fuoco, ma voi fate silenzio,<br />
vi voglio muti come pesci.”<br />
Entrano nell’antro semibuio, sopra il grande tavolo di pietra, tra ampolle, sfere, ciotole,<br />
vasi, fiale, crani di gatto, di cavallo, di volpe, di cinghiale e manoscritti aperti e chiusi<br />
rimasti lì come dimenticati. Acotinia cerca e trova i tarocchi, li consegna a Calea che in un<br />
subito li getta alla rinfusa sul piano. Mentre la Divina resta a contemplare le carte<br />
studiandole una per una, Acotinia, avvicinatasi al braciere dove giorno e notte si<br />
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conservava il sacro fuoco, prende qualcosa dalla sua tasca nascosta, a occhi chiusi, la<br />
getta sulle braci. Non passa molto tempo che fuori la caverna arriva Pan: Il dio, s’avvicina<br />
al portale, dalla nicchia prende la conchiglia e soffia.<br />
Calea da dentro domanda: “Chi mi chiama? Chi da fiato alla mia conchiglia?”<br />
“Sono io.”<br />
“Io, chi?”<br />
“Io, Pan, sorella cara.”<br />
Calea, a capo scoperto, esce e sorridendo, gli corre incontro a braccia aperte baciandolo<br />
sulla barba ispida e azzurra:<br />
“Tu dolce Pan? non credo ai miei occhi.»<br />
«Sono io sorella cara, ho bisogno dei tuoi incantesimi.»<br />
«Benvenuto dolce amico mio, ieri, una tua ninfa, appena ritornata da un lungo sogno, è<br />
venuta a curarsi le sue ali avvizzite con le stille di rugiada appesi alle felci di capelvenere<br />
nella mia cascata. A lei ho chiesto tue notizie. Sapessi quanto mi sei mancato. Senza di te,<br />
tutto è molto triste. Però, avresti dovuto avvisarmi del tuo arrivo, sai bene che ti sarei<br />
venuta incontro correndo, ormai è diventato così raro vederti fuori dalle scintillanti vette del<br />
tuo Olimpo.”<br />
Pan stringendola forte sul petto. “Sorella…sorella cara, quante lune sono passate. E’ vero,<br />
raramente scendo dal mio amato monte, se non fosse per le greggi e le selve…ma ora ho<br />
un grosso problema.”<br />
Calea indietreggia di un passo guardando Pan negli occhi piena di stupore.<br />
“Un problema? Un radioso dio come te, ha un problema? Ma se è così, dolce amico mio,<br />
fratello caro, non avere fretta, non aggiungere una parola di più, sediamoci attorno al<br />
fuoco e prima di affrontare qualsiasi cosa, dobbiamo libare insieme, alla nostra vecchia<br />
maniera, libare fino a fare affogare ogni dolore. Vieni, celebriamo il nostro incontro con i<br />
prodotti della terra, vuoi?”<br />
Calea batte le mani e subito appare Acotinia: “Qual è il tuo comando mia signora?”<br />
“Fai portare dagli schiavi uno scanno, degli sgabelli e un bacile d’argento colmo di acqua<br />
di rose e petali di fiori per rinfrescare il dio Pan e manda qui Ario con miele e sidro.”<br />
Mentre i servi portano un ampio scanno foderato con una pelle di orso e il bacile con<br />
l’acqua, Ario arriva con una zucca colma di sidro e miele, una cesta con <strong>delle</strong> focacce<br />
ancora calde e un vaso di acero pieno di mandorle e noci abbrustolite.<br />
“Adesso, dolce Pan, centelliniamo insieme questa bevanda offrendola a tutti gli dei<br />
dell’Olimpo e per un momento solo lasciamo che il mondo vada come vuole andare.”<br />
Dopo aver bevuto più volte a turno dalla zucca, quando questa è ormai vuota, Calea batte<br />
di nuovo le mani, subito ritorna Ia serva.<br />
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“Comanda mia signora.”<br />
“Acotinia, apri una piccola botte di legno.”<br />
“Intendi un caratello di rovere?”<br />
“Sì! Portaci vino, molto vino, ma bada bene che non sia né rosolio né aleatico. Per il dio<br />
Pan, ci vuole del vino forte, denso e nero. Lo voglio versato nei calici di legno intarsiato<br />
con le decorazioni di pampini e grappoli d’uva. Anzi… no no aspetta, lo voglio nelle antiche<br />
coppe d’oro ornate di gemme e cesellate d’argento, quelle che portano scolpito sul fondo il<br />
quadrato magico numerico, prezioso regalo del mio amico Giove.”<br />
Acotinia ritorna con una brocca, due calici e versa il vino finché non trabocca dalla coppa.”<br />
Solo quando i due hanno finito di brindare nelle preziose coppe che la serva prontamente<br />
riempiva, Calea fa portare via tutto e riprende a parlare: “Ora che abbiamo libato, dolce<br />
amico mio, raccontami pure il tuo problema. Dimmi, ti prego, dimmi, a cosa pensi? Perché<br />
il tuo respiro è pieno di affanno? Come mai c’è tanta pena nel tuo sguardo?”<br />
“Cara compagna, sorella, ascolta, secondo te, io, il dio Pan, dovrei dividere con una<br />
piccola mortale la gloria della mia divinità? Posso io sopportare che la musica di una<br />
giovane destinata a morire sia paragonata alla mia musica immortale?”<br />
A fronte di tanta eloquenza, le labbra di Calea s’incresparono e mentre risponde, la Divina,<br />
a fatica riesce a trattenere un sorriso ironico.<br />
“La tua musica dolce compagno? Ma se è l’unico, il solo…cibo dell’amore, nessuno mai<br />
potrà suonare il flauto meglio di Pan dio <strong>delle</strong> greggi. Non disperarti, chiunque sia colei<br />
che sta godendo gli onori a te dovuti, dovrà pentirsi di essere nata.”<br />
“E’ esattamente quello che volevo sentirti dire. Pure se potrei bruciare subito il suo flauto,<br />
ho deciso di fare in altro modo. Voglio farla soffrire e di molto, Per questo mi servirò dei<br />
tuoi incantamenti.”<br />
“Il forte dio Pan, metà uomo e metà caprone, cornuto e barbuto, danzatore leggiadro come<br />
pochi, dio <strong>delle</strong> greggi e <strong>delle</strong> selve, figlio del grande Zeus, adulato da pescatori e<br />
cacciatori, amato da ninfe e sirene, ha bisogno della piccola magia di Calea? Dolce amico<br />
mio, posso farti una domanda un po’… personale?”<br />
“Parla.”<br />
“Tu che sai cavalcare le tempeste come un’amazzone, tu che potresti con un gesto solo<br />
raggruppare tutti i granelli di sabbia del deserto, come mai cerchi me? Forse ti serve la<br />
mia mistura magica per mutare in porci le tue innumerevoli, insolenti amanti?”<br />
“Solo la magia della Grande Madre, regina di incantesimi, tu sola che sei stata unta con<br />
l’olio sacrale e hai il permesso di fermare le stelle, mi puoi salvare. Ascolta grande Calea il<br />
mio triste pianeta. Qui nella tua isola, vive una giovane, una piccola, mortale fanciulla che<br />
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suona il flauto, pare che lo suoni così bene che donne e uomini osano paragonarla a me.<br />
Punisci duramente quella vergine arrogante.”<br />
“E’ noto fin lassù nell’alto dell’Olimpo che ti devo un grosso favore amico mio. Dimmi solo il<br />
nome di questa impertinente e subito getterò un filtro velenoso nella fonte, nel pozzo dove<br />
beve.”<br />
“I mortali la chiamano Meravigliosa. E’ la giovane che ancora in fasce, Giobbe il pescatore<br />
di perle, ha trovato miracolosamente illesa dopo che quella nave si era frantumata tra gli<br />
scogli. La bambina, aveva annodato tra le pellicce di lupo che la fasciavano, uno<br />
strumento composto da una serie di canne aperte a zufolo, insomma una sorta di flauto<br />
misterioso di molto simile al mio.”<br />
“Mi hanno già parlato di questa vergine e del suo flauto magico, credo sia arrivato il<br />
momento di vederla e di sentire la sua musica.”<br />
Calea batte le mani e all’ingresso della grotta riappare Acotinia: “Pronta padrona.”<br />
Subito dopo arriva Ario: “Sono pronto anch’io, ordina padrona bella tra le belle.”<br />
“Portatemi il telo stregato, quello grande, l’arco e la freccia rituale con la punta di selce.”<br />
Acotinia e Ario portano il telo: “Ecco il telo e l’arco, padrona.”<br />
Calea, con movimenti precisi, tende l’arco, lancia la freccia puntandola in terra. Subito<br />
dopo, estrae la freccia, dove la punta era andata a conficcarsi, traccia un triplo cerchio,<br />
dentro il cerchio disegna un quadrato nel quadrato con una serie di numeri dispari<br />
compone una croce, infine, scrive.<br />
PATER MEUS.<br />
Poi ordina ai servi: “Aprite il telo dentro il cerchio magico di Zoroastro e tenetelo ritto, che<br />
sia ben steso a fronte al mare.”<br />
Quando i servi hanno sistemato il telo, Calea allarga le braccia gridando per tre volte una<br />
misteriosa parola, una sola:<br />
“PANTASION – PANTASION – PANTASION.”<br />
Subito nel telo appare Meravigliosa. I capelli chiarissimi, attraversati dai raggi del sole, per<br />
un momento paiono incolore, mentre il corpo galleggia dentro un alone luminoso.<br />
Meravigliosa, piccola, sottile, sembra una bambina che gioca danzando e cantando.<br />
Il suo è un canto melanconico, una strana vecchia canzone che racconta di una foresta<br />
fossile dove animali e alberi, riposano nel profondo del mare.<br />
“Questa esile, piccola creatura con le mani ancora velate di mistero, sarebbe l’audace,<br />
terribile, sfrontata fanciulla che senza un filo di modestia balla la danza orgiastica in onore<br />
di altri mondi…?” Chiede beffarda e incredula Calea.<br />
“E’ questa la cicala felice.”<br />
“Ma è innocente come una monella che suona uno zufolo di grano.”<br />
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“Era quello il giocattolo che doveva suonare, al massimo poteva accontentarsi di una<br />
cornamusa, di cembali o tamburelli, invece pretende di…”<br />
“…suonare il tuo magnifico strumento. Ho capito la sua terribile colpa. Pure, a me sembra<br />
solo un cucciolo ibrido che gioca sognando. Una creatura che danza con le sottane<br />
sollevate sulle gambe dritte da cerbiatta, pensare che le matrone della nostra isola la<br />
chiamano femmina impudica... A dare ascolto a quelle scellerate gelose, dovrei legare la<br />
giovane nuda e trascinarla tra rovi spinosi, regalando il suo sangue e i suoi lunghi capelli,<br />
al feroce dio della macchia.”<br />
“Attraverso il tuo telo stregato, amica mia, questa creatura appare solo come una piccola<br />
martire, una vittima del suo bel canto, invece è una fata, una sirena ammagliatrice, anch’io<br />
lo confesso, guardando la sua immagine piena di grazia, mi sento in imbarazzo ma…<br />
credimi non è così ingenua. Lei riesce veramente ad affascinare ognuno e...”<br />
“Tutti ne parlate come se fosse una seduttrice diabolica.”<br />
“E’ molto di più. La sua bocca sensuale, è un rosso garofano di sangue, sopra i suoi<br />
candidi seni, danzano e s’intrecciano serpenti di fiume e di fosso, è un’arpia che miscela la<br />
sua arte nera, con sostanze afrodisiache per ingannare e corrompere le sue prede.”<br />
“Possibile? Avanti a questa ninfa con ancora il seno acerbo e il latte acido sulle labbra,<br />
queste accuse paiono assurde e non reggono. Posso capire l’invidia dei mortali, loro, sono<br />
schiavi della vita, camminano trascinando a fatica le loro pesanti catene. E’ l’invidia che<br />
riempie le loro giornate di angoscia e di dolore. Guardala, Pan, amico mio, guarda questa<br />
fanciulla, vedi bene anche tu che è appena poco più di un cucciolo di donna, che male può<br />
fare? Inoltre nessuna creatura terrena vive per sempre, niente è eterno a questo mondo,<br />
mentre tu caro Pan… tu sei un dio immortale.”<br />
“E’ vero, la tua piccola protetta è solo un bocciolo di rosa che dura un giorno e nella notte<br />
si sfoglia. Eppure dolce amica mia, devi credermi, il carisma della sua musica incanta tutti i<br />
mortali ma il peggio è che questi mentre l’ascoltano rapiti, s’inventano misteriose favole su<br />
di lei. Narrano persino che essa sia mia figlia e che per caso sia caduta dall’arca dove<br />
viveva. Un’arca misteriosa e segreta che io le avrei costruito. Ma quello che più conta, è<br />
che da quando ha iniziato a suonare il suo flauto, in molti osano paragonarla a me, e io dal<br />
dolore, non banchetto più con gli immortali lassù tra le nuvole, non bevo più il biondo,<br />
dolce nettare né gusto più in piatti d’oro, l’ambrosia, e soprattutto, amica mia, non riesco<br />
più a danzare.”<br />
“Tu, divino Pan, non riesci più a danzare?”<br />
“Ascoltami Calea, io che sono il creatore, il padre, l’unico dio della musica, non posso<br />
sopportate oltre questo affronto, poi mi conosco, per questo dispiacere, peggioro di giorno<br />
in giorno.”<br />
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“Allora pure se non vedo malizia in questa vergine, per farti danzare ancora, anche se con<br />
dolore, getterò il suo flauto in un luogo profondo dove nessuno potrà più andare a<br />
riprenderlo, dove il grande fuoco arde senza legna. Dimmi se è questo che vuoi, sarà<br />
subito fatto.”<br />
“Grande Calea, sorella mia, tu, che con la tua ampolla magica comandi pure i pianeti<br />
erranti e sai riaccendere il fuoco dai vulcani spenti, se e vero com’è vero che entri pure nei<br />
sogni <strong>delle</strong> creature ceche, tu sola saprai trovare la giusta punizione per la piccola mortale<br />
che mi offende.”<br />
Calea batte di nuovo le mani, tornano i servi: “Portate via l’arco e il telo stregato ormai non<br />
servono più, subito dopo, cancellate con cura i numeri e le scritte dentro il sacro cerchio di<br />
Zoroastro.” Infine rivolta a Pan, continua. ”Se ho ben capito, è una punizione corporale che<br />
vuoi. Allora, che punizione corporale sia. Toccherò la giovane con la mia verga incantata e<br />
la tramuterò in una serpe, per sette lune sarà condannata a strisciare nel fango.”<br />
“Ma…veramente, dolce amica mia, sette lune…”<br />
“Forse sette lune non bastano? O vuoi un altro animale, dimmi cosa vuoi. Mi basterà un<br />
cucchiaio di pozione di mandragola… una spremuta di sanguigne bacche di sambuco e in<br />
un subito, diventerà un cervo, nemmeno l’erba moli renderà vano questo mio sortilegio.<br />
Comanda dolce amico mio, che bestia vuoi che diventi? Un asino, un oca, un porco, un<br />
rospo? Ma… ti vedo indeciso, forse vuoi farla addormentare sulla neve…forse per lei vuoi<br />
un lungo sonno senza sogni e magari… senza più dolore?”<br />
Pan rimane in silenzio per un lungo momento. “Sì!” Disse infine.<br />
”Allora se è questo che vuoi, ci vorrà una coppa… colma di latte si papavero e in un subito<br />
sarà finita. Ordina amico mio, e sarà fatto.”<br />
“Però…ripensandoci, voglio solo che muoia il suo canto, voglio solo farla soffrire, non<br />
voglio il suo sangue. La piccola cicala… muoia senza morire.”<br />
“Dolce amico mio, io posso ordinare al serpente dalle dodici teste, di trascinarla per<br />
sempre nel suo covo, posso tagliarle la folta chioma e offrirla in dono agli dei infernali,<br />
potrei mutarla in un pupazzo, in un ridicolo fantoccio di creta, di terra cotta, di sale, di cera,<br />
di bronzo, di legno, di marmo, di pietra. Invece tu vuoi soltanto…”<br />
“Toglierle il mana, il pathos e tutta la magia che scaturisce dalla sua musica. Senza<br />
quell’incanto divino, la vergine diventerà un’ombra e solo se osasse ancora guardare in<br />
alto, verso di me, solo allora che resti accecata dalla mia luce.”<br />
“Le tue parole dolcissimo Pan, sono faville che escono infuocate dalla brace. Ho capito,<br />
farò cucire per lei dai miei schiavi calzolai, moltissime paia di scarpe tutte diverse:<br />
ciabattine con stringhe, zoccoli, sandali, stivali di foglie di palma, di papiro, di stoffa, di<br />
feltro. altre ancora di pelle di serpente, di lucertola, di coccodrillo, di foca, di struzzo, di<br />
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emù. Solo quando avrà consumato tutte queste scarpe, cercando inutilmente il suo flauto,<br />
l’ultima calzatura, sarà uno stivale di ferro lungo fin sopra le ginocchia, le servirà per<br />
correre nel fuoco trascinando a fatica l’anima sua nella cenere.”<br />
“D’accordo, questa punizione potrebbe bastare, però, che resti senza musica da subito.<br />
Da questo stesso istante voglio che sia messa in un cantone senza più flauto. Dolce amica<br />
mia, sorella cara, tu che vedi le lacrime profonde nei recessi della mia anima, fammi<br />
addormentare queste pene, fammi dimenticare tutto.”<br />
“Vai tranquillo, Pan amico mio. Parola di Calea, nessuna acqua toglierà la sete a quella<br />
vergine, sarà come un albero cresciuto in una grotta, non darà né fiori, né frutti.”<br />
Il dio tese le mani, a Calea sembrò che tremasse mentre gli occhi pareva ardessero di<br />
febbre e dolore. “Grazie sorella cara.“ disse, e scegliendo con cura le parole, continua,<br />
“Però… promettimi, anzi, giura, che nessuno mai farà il nido nel suo ramo.”<br />
“Anche se non amo giurare, per te e per te solo, lo giuro, nessuno mai farà il nido nel suo<br />
ramo!”<br />
“Bene, allora addio sorella cara. Ci vedremo a primavera, tornerò assieme alla prima<br />
rondine.”<br />
“Addio. Le stelle ti proteggano.”<br />
Pan, dopo aver salutato con un leggero scuotere di corna, la Grande Madre, sorridendo<br />
felice, s’allontana a grandi passi. Calea batte ancora le mani e appare Ario: “Pronto.<br />
Eccomi! Ordina Divina stella d’Oriente, padrona bella e gagliarda.”<br />
La Divina scrive un messaggio sopra una foglia: “Ario, lega questo messaggio agli artigli<br />
dell’aquila dal capo bianco, deve portarlo in fretta. Pensi che farà presto?”<br />
“Graziosissima padrona, nel tempo che occorre alla civetta a battere le ali, la tua aquila dal<br />
capo bianco, sarà già di ritorno.”<br />
Capitolo terzo<br />
Otto lune dopo.<br />
Nell’ultima luce del meriggio, mentre un esercito di cavallette spinto dal vento caldo<br />
dell’Africa sorvola la roccia del drago dalle sette teste, dove una torcia già è accesa,<br />
Acotinia attinge acqua dalla Cascata del Diluvio di fianco alla rupe. Nella sua folle corsa la<br />
cascata, sbatte sui massi e, mentre la schiuma pullula in un turbine che, come il fumo di<br />
un enorme incendio, si leva al di sopra del bosco, l’acqua, saltando e roteando sul granito<br />
oltre a riempire le ore di arcane armonie, scolpisce le rocce modellandole. Sono statue di<br />
mostruosi giganti, colossi, idoli antichi, senza occhi né braccia, vampiri coperti di alghe,<br />
maschere, appena abbozzati da un esercito di artisti folli.<br />
La vecchia serva, come un avvoltoio in riposo, contempla con gli occhi da sfinge, quello<br />
spettacolo terribile e affascinante e, intanto che alcune cavallette le cadono addosso inerti,<br />
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sbattute a terra da una forza misteriosa, lei, indifferente, ritira la secchia ricolma e non si<br />
avvede che dal sentiero serpeggiante laggiù sotto la scogliera alle sue spalle, coperto dal<br />
fragore della cascata, arriva il rullare del tamburo del vecchio zingaro venditore di favole.<br />
Il cantastorie, salito lo stradone, lega l’asino all’anello di ferro, prende nascosta tra i<br />
pennacchi del carrettino giallo, una mannella di dolce fieno, l’avvicina alla bestia e mentre<br />
questa rumina, lui, zoppicando, a fatica sale i rozzi gradini e, avvicinatosi alla caverna,<br />
senza più attesa inizia il suo canto.<br />
“Ninnananna vagabondo che vai errando per il mondo, senza bisaccia e senza regina…<br />
Favoleeeee, vecchie e stravecchie.<br />
C’era una volta, più di tremila lune fa, il figlio del sole che innamorato di un’incantevole<br />
fanciulla mortale, decide di scendere sulla terra, si unisce a lei e per lei, costruisce un<br />
magnifico castello circondato da una superba fortezza. Al posto <strong>delle</strong> colonne per<br />
sostenere le torri, il figlio del sole, decide di mettere trenta Centauri giganti, poi ordinò che<br />
le tegole da mettere sui merli <strong>delle</strong> torri, fossero di corallo vivo, corallo appena pescato in<br />
fondo al mare e, invece dei doccioni, ordinò che si alternassero col becco sempre aperto,<br />
stormi di pellicani e cicogne. Ma la cosa più sorprendente di quel castello era la strana<br />
polvere d’oro che come fuliggine scendeva dai sette camini sempre accesi e…<br />
Favole, vendo favole esotiche, favole antiche, storie di pirati, di orchi, di streghe e di fate.<br />
Cerco, compro, vendo, baratto e…se mi è possibile rubo, mappe di tesori scomparsi.”<br />
Arrivato alle spalle di Acotinia, il tamburo del giramondo smette di rullare. L’uomo<br />
avvicinatosi le sfiora delicatamente la schiena con una mano, poi azzarda una domanda:<br />
“Tu compri favole vecchia?”<br />
“Vattene!” Disse la donna senza voltarsi. Al suono metallico e duro di quella voce, un<br />
brivido attraversò il vecchio facendogli tremare le mani e le ginocchia. Pure, qualcosa di<br />
arcano e di irresistibile lo attirava così tanto che il fabulatore insistendo testardo, ripete:<br />
“Compri o non compri favole, vecchia?” Allora Acotinia voltandosi di scatto lo guarda in<br />
faccia bucandolo con due occhi che come spine di rovo fuoriescono dal viso livido.<br />
“Ah!” Grida lo zingaro, e intanto che la parola gli muore in gola, la serva, simile a un<br />
serpente a sonagli, solleva il mento puntuto, scuote energicamente i capelli, e mentre i<br />
sistri attorcigliati alle frange consunte della fascia che le copriva la fronte, mandavano un<br />
suono lugubre, a gambe aperte si para avanti lo zingaro, minacciosa e terribile, dura e<br />
nera più di uno scoglio di selce.<br />
Eppure, l’uomo, aveva visto tante volte quella figura di vecchia preistorica, però sempre da<br />
lontano, sempre da sotto le scale e adesso per lo spavento avanti a quegli occhi pungenti<br />
che ferivano il nulla, indietreggia verso il precipizio, quasi indeciso se scapicollarsi giù per<br />
quella gola spalancata e farla finita una volta per tutte o fuggire a gambe levate per il<br />
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ianco stradone. Infine, l’istinto di sopravvivenza la vince, il fabulatore, sospirando,<br />
riprende la scala all’inverso e, percuotendo con la mazza il suo tamburo, ricomincia da<br />
capo la sua litania:<br />
Favole, compro, baratto e vendo favole unte e bisunte, vecchie e stravecchie, del tempo di<br />
Apuleio, di Esopo, del Cucco e dello Stento.”<br />
Mentre il suono del singhiozzante tamburo scompare in lontananza nel macchione del<br />
bosco assieme al venditore di favole, all’asino e al carrettino giallo, dallo stradone,<br />
ululando a suo modo, arriva Ario. Dopo che ha salito a due a due le scale si ferma un<br />
momento, ansante a riprendere fiato avanti il portale e poi subito inizia a chiamare Calea:<br />
“Padrona, padrona bella tra le belle, meravigliosa stella d’Oriente...”<br />
Acotinia ritta, immobile con la secchia ancora in mano che pareva una statua di marmo<br />
incompiuta, una statua innalzata in onore del Genio della montagna, nel vedere il ragazzo<br />
che si avvicina alla conchiglia e sta per suonarla, in un subito si anima e facendolo<br />
trasalire, urla:<br />
“No! Fermati infame, figlio del demonio, fermati.”<br />
“Mi hai spaventato vecchia,” disse il ragazzo risentito. “Perché non posso suonare la<br />
conchiglia se devo vedere la Divina Calea?”<br />
“lo sai che prima di disturbare la Divina, devi parlare con me, schiavo insolente e<br />
insensato.” Riprese la donna dandogli uno spintone.<br />
“Lasciami entrare.”<br />
“No, prima devo suonare la conchiglia.”<br />
“Va bene, va bene, suona, però sbrigati, ho un messaggio urgente.”<br />
“Urgente? Per questo corri a sbalzi come una lepre azzoppata? Bada solo che un giorno o<br />
l’altro, io non ti stronchi le gambe.”<br />
“Suona presto,” insiste Ario ansimando sfiatato.<br />
“Perché, cosa è successo di nuovo? Per tutti gli dei, invece di gracchiare come un corvo<br />
del malaugurio, parla.”<br />
Ario rassegnato, di malavoglia incomincia il suo racconto:<br />
“Mentre ero seduto sopra una pietra corrosa dal muschio, di sentinella sulle Montagne<br />
Rosa, il vento del mare fischiando, trasportava il polline dei fiori. Poco lontano un capriolo<br />
passava sotto il ponte levatoio, faceva molto freddo e pareva che le mura della torre,<br />
fossero state innalzate dai ciclopi solo per gareggiare col vento inchiodandolo alle sue<br />
pietre. Così per riscaldarmi, sfregando due bastoncini, ho acceso un fuoco. Ero lì<br />
rannicchiato, con i piedi sfioravo le fiamme, quando ho sentito, alternato al suono<br />
melanconico dei campanelli appesi al collo del gregge, come un lungo, interminabile<br />
lamento umano. Allora per meglio vedere, mi sono arrampicato sul fumo. Dall’alto, ho visto<br />
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la capanna di legno di Lelio l’eremita, costruita tra i rami dell’albero di leccio, sembrava un<br />
alveare di api, poi il fumo, seguendo una nuvola in fuga, mi ha trasportato fino al vulcano<br />
che brucia in mezzo all’isola. Quando ho superato il cratere e stavo per toccare il cielo ho<br />
guardato oltre la foresta negra, oltre la macchia grande e laggiù, nei lunghi spazi dove i<br />
fiumi diventano sottili come i fili di seta della tela del ragno, ho potuto contemplare dall’uno<br />
all’altro mare fino ai confini del mondo, fino all’estremità della terra e…”<br />
“Finiscila con le tue visioni scellerate. Parla, scarto della natura, parla, racconta, cosa è<br />
successo veramente?”<br />
“Lo so, lo so, vecchia, tu non puoi credere a quello che pure ho visto con questi miei occhi,<br />
ma, laggiù, lontano lontano, ho visto l’Africa con i monti della Luna dove nasce il Nilo, e<br />
sotto le cascate, c’era un uomo che assieme alla moglie e ai figli scavava una fornace per<br />
mattoni. Poi ho visto una fiera allestita sulla riva del fiume avanti a un magnifico tempio, ho<br />
visto anche il sorriso di un bambino che aveva appena comprato un fischietto ricavato da<br />
una foglia di palma. All’argine, nel folto canneto dell’altra riva, sui bordi della distesa<br />
scintillante del Nilo, gli uccelli acquatici deponevano le uova nella calda aria del meriggio,<br />
mentre sotto l’ombra proiettata da una lunga fila di alberi di mango, di cocco e di banano,<br />
uomini e bestie attraversavano il fiume e il barcaiolo cantando, riscuoteva il pedaggio,<br />
ma…adesso basta, tanto tu, non puoi capire. Presto, presto suona la conchiglia, suona la<br />
conchiglia, serva malefica.”<br />
“Che tu possa essere scorticato vivo, nel tuo racconto strampalato ci manca solo l’albero<br />
della cuccagna e un grosso bufalo sdraiato nei pressi del fiume con le corna coperte di<br />
fango. Vedo che ti sei di nuovo affumicato il cervello, schiocco di uno schiavo. Hai detto<br />
tutto, meno quello che dovevi dire. Sì, che gli dei ti castighino cento volte e una volta<br />
ancora.”<br />
“Non scomodare gli dei per me vecchia, tranquilla parlerò, parlerò.”<br />
“Sicuro che parlerai perché…se non dici subito cosa hai visto, farò schioccare la mia frusta<br />
e poi ti metterò sotto i piedi, ti schiaccerò come una noce, come una mandorla secca o<br />
meglio, ti pesterò come si pesta l’uva nella tinozza.”<br />
Ario ingrugnato guardando di traverso la serva con quegli occhi neri che pareva covassero<br />
il sonno, risponde: “Mentre correvo a scapicollo per avvisare la padrona, io scendevo per il<br />
sentiero e loro venivano da esso...”<br />
“Loro chi?”<br />
“Loro! Le femmine urlanti guidate da quel cadavere vivo a nome Attia. Ricordi? Ma sì, la<br />
vecchia bisnonna ultracentenaria.”<br />
“Attia, figlia di Sima, figlia di Atala?”<br />
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“Sì, la vecchia con la pelle rinsecchita e il corpo fino fino come un giunco che è arrivata qui<br />
nella prima stagione. E’ lei che sta ritornando seguita da un rosario di anime in pena.<br />
Mentre la lunga e ininterrotta processione <strong>delle</strong> sue donne avanzava lenta e cupa, da rupe<br />
a rupe fino alla spiaggia, i bagliori <strong>delle</strong> fiaccole accese che stringevano nelle mani si<br />
riflettevano ondeggiando nell’acqua come un arcobaleno in lacrime e, per il dolore, pure il<br />
mare pareva incendiarsi. Il peggio è che la moritura e almeno altre cinque femmine<br />
anziane dell’isola, in segno di dolore, indossano tuniche di sacco sbiancato con un<br />
cordone di canapa indiana stretto attorno alla vita e hanno il capo completamente<br />
ricoperto di cenere. Ma… non è tutto, le vergini, indossano il costume antico quello che…<br />
lascia scoperti i candidi seni mentre… i bambini, sono vestiti di corteccia e hanno la fronte<br />
e le guance pitturate con la calce bianca che sembrano minuscoli scheletri rosi dall’acqua<br />
e dal sole...”<br />
“Stai dicendo, zucca vuota,” lo interrompe Acotinia mentre con rabbia rivolta l’acqua della<br />
secchia in una bigoncia colma di latte e miele, “stai dicendo che le matrone dell’isola, in<br />
lutto, assieme alle vergini in costume antico e ai bambini vestiti di sughero, pitturati con i<br />
segni della morte e del dolore, stanno tornando e marciano pure a quest’ora della sera?”<br />
“Proprio così! La carovana sta tornando. Ci sono anche le giovani spose bianco vestite<br />
con il capo coperto dal velo flammeo. Sembrano le statue di legno tarlato del tempio. Il<br />
corteo, ha già superato la piana grande e sta venendo su, su, su, che è già a metà<br />
sentiero, solo che l’altra volta, le femmine, inghirlandate come baccanti e saturnali,<br />
marciavano ululando in preda a una incontenibile eccitazione. Adesso invece, adesso che<br />
è il tempo dell’uva, tempo di vendemmia e l’aria è impregnata del dolce profumo del mosto<br />
cotto e di saggina tagliata, avanzano scalze, lamentandosi. Mentre la luce d’oro affondava<br />
nel pulviscolo, ho visto sfilare quelle figure in una sequenza interminabile ritmata dai pianti<br />
e dai lamenti che si facevano sempre più vicini e sempre più reali come in un terribile<br />
incubo notturno.”<br />
“Pianti? Vuoi dure che piangevano, che… stanno ancora piangendo?”<br />
“Quelle femmine piangono un pianto inconsolabile e, il loro oscuro concerto di dolore,<br />
come il gemito di un popolo morente, rotola da roccia a roccia fino alle rupi più lontane.”<br />
“Non può essere vero!” ruggì all’’improvviso Acotinia fuori di sé e mentre i suoi occhi<br />
mandavano lampi di fuoco, la sua mano come l’artiglio di una pantera aggancia il polso del<br />
ragazzo che fissandola resta interdetto. “dimmi che non è vero” continua la vecchia, “lesto<br />
dimmi che ti sei inventato tutto come sempre.”<br />
“Puoi anche frustarmi, vecchia, ma è così.”<br />
Acotinia urlando e stringendogli il braccio tanto che pareva volesse stritolarlo: “Che tu sia<br />
stramaledetto per settanta lune e altre sette ancora, brutto uccello del malaugurio. Infame,<br />
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ti colga la peste più maligna, mangia pane a ufo, cialtrone presuntuoso e insolente, sei<br />
sempre messaggero di cattive novelle. La padrona questa volta t’impiccherà, io ti<br />
strapperò gli occhi ti farò prendere le sembianze d’una serpe, mai più tornerai nella forma<br />
umana.”<br />
“Aiuto, aiuto nessuno ti ha mai detto vecchia scimunita, baldracca di una strega nera, che<br />
ambasciatore non porta pena? Aiuto, aiuto.”<br />
“Che il diavolo ti scortichi.” Disse morsicandosi i pugni. “Baldracca, strega nera a me? Ti<br />
concerò come si deve, ci saranno per te, cento bastonate e altre cento ancora.” Nella<br />
furia, Acotinia si curva a raccogliere nel fango della cascata, una, due, tre, quattro pietre e,<br />
con le sue mani adunche, le scaglia con rabbia contro il giovane schiavo continuando a<br />
inveire. “Pidocchio, rospo, vedi di tornare subito sul monte e di non provocarmi oltre<br />
perché altrimenti per te, è finito ogni spasso.”<br />
Intanto che Ario, schivando a fatica le pietre, grida disperato, da sotto la scogliera arrivano<br />
spezzati dal vento come un mormorio sordo e lontano, arrivano i canti di dolore <strong>delle</strong><br />
donne. Finché all’improvviso, il miserere di quelle anime che parevano incamminate verso<br />
l’abisso dell’Eterno, zittisce. Tutto attorno rimane solo il tremolare dei ceri accesi e un<br />
grave silenzio.<br />
Attia, dopo aver salito con prudente lentezza la prima rampa di scale, sostando sui vari<br />
pianerottoli, riprende la salita e, gradino dopo gradino, spunta in cima alla scala con una<br />
tavoletta votiva in mano. La vecchia che appare stravolta dalla fatica, si ferma e, con occhi<br />
appannati, si guarda attorno. Ha le labbra smunte, la treccia dei capelli arruffata, cosparsa<br />
di cenere.<br />
Assieme a lei, c’é una giovane vedova con il volto emaciato e pallidissimo, i bruni capelli<br />
scapigliati le ricadevano sui grandi occhi felini di un verde sorprendente ancora gonfi dal<br />
troppo pianto, mentre la bella bocca sensuale e carnosa non riusciva a nasconde una<br />
profonda piega amara.<br />
La vedova, vestita a lutto, ha il viso coperto dal velo nero. Si muove a scatti, dura e<br />
legnosa, persino la veste di canapa scura e lo scialle sfrangiato e senza ricami che<br />
indossa, paiono intagliati a colpi di accetta dal tronco di un albero di noce. Tiene in braccio<br />
un bambino lattante che pare di cera e, per mano porta una ragazzina bruna, di cinque o<br />
sei anni che cammina con la faccia rivolta all’indietro scalciando infagottata dentro un<br />
vestitino color mela. Aggrappata alla veste della donna, trascinando i piedi e succhiandosi<br />
il pollice, un’altra figlia più piccola la segue timidamente. La donna che sta in piedi a stento<br />
e pare l’ombra del suo cadavere, solo a tratti si rianima e, quasi volesse torcere il polso<br />
sottile della monella più grande, agita nervosamente le dita pure esse, dure e legnose.<br />
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Acotinia, mascherando la rabbia scatenata da Ario, si avvicina alla vecchia guardandola<br />
fissamente: “Ah, sei tu, sei Attia, figlia di Sima, figlia di Atala, mi ricordo benissimo di te,<br />
vuoi parlare con la mia signora?”<br />
“Sì! Ho urgenza di parlarle.” Sussurra la vecchia mentre tremando le consegna l’offerta.<br />
“Ti scongiuro, per le stelle che si vedono e quelle che non si vedono, per gli spiriti dei tuoi<br />
padri t’imploro, fammi la carità di suonare la conchiglia.”<br />
“Tranquilla, siediti e aspetta, invece di suonare la conchiglia, vado ad avvisarla<br />
personalmente. Tu Ario, prima che possa fare uno sproposito, vattene lesto, liberami della<br />
tua presenza, torna pure a strombazzare sul monte.”<br />
Mentre Ario, si allontana sgattaiolando contro il bagliore accecante del sole al tramonto,<br />
Acotinia entra nella caverna e poco dopo ritorna con la sua padrona. Calea, vedendo Attia<br />
stravolta, con la schiena adunca, la pelle rinsecchita e la bocca aperta come quella di un<br />
morto, l’abbraccia stringendola teneramente.<br />
“Attia figlia di Sima, figlia di Atala, ben tornata amica mia, ti rivedo con gioia.” Disse e<br />
passandole le mani sul volto, le allontana con dolcezza una ciocca di capelli dalla fronte<br />
sudata infine, turbata, riprende: “Ma…fatti guardare meglio vecchia mia, sembri sfinita,<br />
queste ultime lune ti hanno segnato duramente, adesso dimmi, racconta, quale misterioso,<br />
strano destino ti spinge ancora alla mia caverna? Forse il servigio che ti ho reso otto lune<br />
fa non è stato buono? No, no, non rispondere… aspetta aspetta, prima di parlare siediti<br />
vicino a me accanto al fuoco, riposati, riscaldati, bevi un po’ di vino dal mio otre e poi con<br />
calma, mi racconterai tutto. ”<br />
Calea si fa da parte lasciando passare la donna. Attia con la mano scheletrica fa un gesto<br />
istintivo come per scacciare un’ombra avanti gli occhi poi con uno slancio tragico e pieno<br />
di passione, si abbandona sopra uno sgabello tendendo le mani verso la fiamma, infine<br />
prende l’otre che Calea le offre, si bagna appena le labbra screpolate, passa in segno di<br />
dolore una mano sui capelli cosparsi di cenere e… subito un fiume di lacrime dai suoi<br />
occhi spenti scivola sulle guance avvizzite. Soffocata da quel pianto la vecchia, si copre il<br />
volto con le mani e, gemendo si abbandona sulla spalla della Divina.<br />
”Dimmi, cos’è andato storto vecchia Attia?” chiese Calea accostandosi al suo orecchio per<br />
non perdere neanche un sospiro.<br />
“Tutto” risponde la donna a voce bassissima: “perdono Grande Madre, perdono. Sì, è<br />
vero, sono sfinita, le ginocchia non mi reggono più, ma avevo paura di morire per strada,<br />
morire e scendere col cuore pieno di tristezza nel paese <strong>delle</strong> anime, nella casa dell’Ade…<br />
Avevo paura che mi coprissero con la terra del sonno senza prima averti parlato. Ascolta,<br />
Grande Calea, il tuo servigio è stato perfetto ma la vita a volte, è veramente ingrata. Come<br />
puoi vedere il mio tempo su questa terra sta per finire, io sono pronta, ma per morire in<br />
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pace, ho bisogno ancora di una carezza pietosa della tua mano. Prima che il mio giorno<br />
finisca, devo riparare all’infamia che ho commesso.”<br />
Appena la vecchia ha finito di sussurrare quelle parole, dalla foresta, come un segnale<br />
convenuto, arriva forte il frinire <strong>delle</strong> cicale e l’urlo <strong>delle</strong> scimmie, allora Attia, si getta in<br />
ginocchio e si avvinghia ai piedi della Divina.<br />
“Senti? Pure la natura mi ha condannato a morte.”<br />
“A morte?” Chiede Calea con voce gentile e pietosa mentre la risolleva da terra e, per<br />
rincuorarla, la stringe ancora tra le braccia cullandola come fosse una bambina. Attia,<br />
sempre più debole, tremando, si aggrappa al suo petto. “Vecchia mia,“ continua la Divina,<br />
“come vedi Calea è ben poco saggia, se malgrado la sua fama di saggezza, ahimé, non<br />
riesce a farti parlare. Dimmi, perché credi di dover morire?”<br />
“Devo,” sospirò la vecchia, “il rimorso mi consuma. “ Ripete Attia soffocata dai singhiozzi.<br />
“Ho prestato la mia bocca all’inganno ho venduto la mia anima e adesso devo e voglio<br />
morire. Ormai manca poco, non avverto più il freddo alle gambe e alle mani. Sono solo<br />
una vecchia lupa, bianca d’inverni e non ho più desiderio di vivere, anzi, sono un fantasma<br />
che ancora non conosce l’ora della sua nascita, ma… povera me, per fare riposare le mie<br />
fragili ossa in un letto di argilla, ho bisogno ancora del tuo aiuto.”<br />
“Parla!”<br />
La donna confusa, abbassa gli occhi per un momento, poi, stringendo con le sue mani<br />
secche le mani della Divina, fissandola in volto, riprende: “Forse l’angelo della morte mi ha<br />
lasciato questo ultimo lasso di tempo affinché io possa fare penitenza. Ora che l’eternità<br />
sta per inghiottirmi e vado a presentarmi avanti al Giudice Supremo, liberami Divina del<br />
mio peccato, un peccato terribile che mi attacca alle spalle rendendomi l’anima inquieta e<br />
un senso disperato di tristezza. E’ lo stesso peccato che m’impedisce di morire, per questo<br />
mi vedi di nuovo a pregarti in ginocchio. Liberami, mia Divina, dal rimorso.”<br />
“Questo dolore, è solo tuo vecchia? Le tue lacrime, sono sorelle alle lacrime <strong>delle</strong> donne<br />
che con te sono salite?”<br />
“Il mio peccato è anche il loro peccato!” Rispose Attia, poi, calmatasi un poco, le indica la<br />
donna al suo fianco. “Riconosci questa donna, Divina Calea? Si chiama Maia.”<br />
“Credo di ricordarmi di lei. I suoi antenati non erano i capotribù dell’arte dei vasai? Tutti<br />
uomini alti e robusti che decoravano le ceramiche con bellissimi motivi ornamentali e<br />
fantastici disegni a spirale?”<br />
“Sì! Erano e sono, artisti, maestri dell’argilla. Anche Maia prima di accasarsi è stata a<br />
lungo una grande e stimata tornitrice. Fino a poco tempo fa, la sua casa era pregna solo di<br />
odore di culla, una culla che non è mai rimasta vuota. Purtroppo… da quattro lune, nel<br />
mese della messi, Maia, è rimasta vedova. Suo marito, Lorenzo Cicogna, era famoso per<br />
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aver costruito sull’altopiano una superba capanna dove è possibile allevare bachi da seta<br />
in tutte le stagioni. E’ proprio in quella capanna in grado di contenere molte persone, che<br />
io, Maia e tante altre abbiamo fatto penitenza, siamo state senza dormire, senza mangiare<br />
e senza bere, digiunando e pregando per sette giorni e sette notti prima di osare di nuovo<br />
disturbarti. Pure se quella veglia ci ha incanutito e indebolito il fisico e la vista, non ci<br />
muoveremo di qui, finché non ci avrai ascoltato, se necessario, siamo pronte a morire di<br />
stenti.” Poi respirando a fatica, Attia, continua con un esile filo di voce: “Perdonaci,<br />
perdonaci Divina Calea ma… questa volta, siamo veramente disperate...”<br />
La voce della vecchia si rompe e lei riprende a singhiozzare. Calea commossa, allunga di<br />
nuovo le braccia:<br />
“Non chiedere perdono a me, amica mia. Se il tuo dolore è così grande, vuol dire che hai<br />
un’anima grande e un cuore capace di contenere tanto amore.”<br />
Attia continuava a singhiozzare e mentre tra le labbra screpolate la sua voce stava<br />
morendo, la Divina, con infinita delicatezza le prende le mani, le stringe tra le sue e,<br />
avvolgendola di dolcezza, abbassa il capo fino a bisbigliarle all’orecchio: “Calmati vecchia<br />
Attia, calmati e parla senza paura, lascia pure volare i tuoi lamenti affinché io possa<br />
aiutarti.”<br />
La vecchia pallida e scarna, con le ombre della morte già dipinte sul volto spettrale,<br />
fissava a occhi socchiusi il vuoto e mentre faceva sì con la testa, le sue labbra erano<br />
serrate nel silenzio. L’unico segno di vita oltre le gocce di sudore che scorrevano lente<br />
sulla sua fronte, era quel lieve agitarsi <strong>delle</strong> dita erranti dentro le mani di Calea. Infine,<br />
Attia, muove appena le labbra ma poi eguale a un moribondo che già conversa con gli<br />
spiriti invisibili, raccoglie le mani nel grembo, reclina il capo sul petto e… pietrificata più di<br />
una colonna di marmo, rimane avvolta nel suo dolore.<br />
“La vecchia Attia è troppo stanca per parlare, io, continuerò il suo racconto. ”Disse Maia<br />
risoluta scandendo le sillabe e, con uno scatto nervoso della testa, getta indietro i<br />
scapigliati capelli che molli e lucenti, teneva attorcigliati come serpi attorno al viso affilato<br />
dal profilo d’uccello. “Devi sapere Grande Calea che questi ultimi mesi per noi, sono stati<br />
mesi maledetti. Una forza oscura, sconosciuta e implacabile ci perseguita e se questo non<br />
bastasse, come ha già detto Attia, ci sentiamo in colpa e il rimorso ci uccide. Forse è il<br />
destino di noi donne sentirsi in colpa per ogni cosa. Qualsiasi cosa facciamo o non<br />
facciamo, sempre, ci sentiamo in colpa. Ma basta, siamo venute in tante a supplicarti<br />
perché, tutte pensiamo di essere noi la causa di un evento doloroso. Da troppe lune, nel<br />
nostro villaggio, ogni notte, si sente il tambureggiare furioso degli zoccoli di un cavallo al<br />
galoppo, l’eco di quel rombo sordo e inquietante, è accompagnato da acuti nitriti che<br />
risuonano per tutto sempre più vicini e sempre più possenti. Le unghie di bronzo di<br />
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quell’animale, graffiano le rocce, le lastre di pietra <strong>delle</strong> strade buie, i muri, le porte chiuse<br />
<strong>delle</strong> nostre case, finché, all’alba, dopo aver a lungo raspato il terreno gelato la bestia, si<br />
allontana. Nessuno è mai riuscito a vedere né lui, e neanche il suo cavaliere.”<br />
“Un cavallo fantasma dunque. Cattivo presagio.” Sussurra Calea.<br />
“Proprio un cattivo presagio” ripete Acotinia facendo l’eco e, mettendo i pugni sui fianchi,<br />
scuote ripetutamente il capo in modo da non fare presagire nulla di buono.<br />
“Però una notte… anche se non ho avuto il coraggio di raccontarlo a nessuno, una notte,<br />
io l’ho visto.” Riprese la vedova guardando Calea con occhi ardenti. “In principio ho sentito<br />
solo il rumore inconfondibile dei ferri dei suoi zoccoli, pareva si strappassero sulle pietre<br />
del selciato, poi e arrivato un nitrito disperato e assordante. Allora sono scesa dal letto, ho<br />
guardato fuori e, come scolpito dentro l’acre, pungente notte, mi è apparso. Era un<br />
corsiero bianco – azzurro, aveva la spuma alla bocca e dalle froge coperte di brina,<br />
soffiava nubi di vapore miste a scintille. Dalle orecchie gli schizzavano fuori fumo e fiamme<br />
e mentre flagellava l’aria con la coda scuotendo la superba criniera, mi fissava con grandi<br />
occhi sbarrati. Una donna lo cavalcava, all’amazzone.”<br />
“Una donna? Sei sicura?”<br />
“Sì!”<br />
L’hai vista in volto?”<br />
“Sì!” Rispose la vedova.<br />
“L’hai vista bene? “insiste Calea.<br />
“Sì!” Disse ancora la vedova mentre un fremito di paura camminava nei suoi occhi. E dopo<br />
essersi passata sul viso un fazzoletto orlato di nero Maia, come stralunata, quasi vedesse<br />
ancora la scena, riprende il racconto:<br />
“La donna cavalcava quel corsiero tenendo in mano una pesante ascia di pietra di selce,<br />
legata a un manico di quercia mentre con l’altra mano, stringeva la lunga criniera del<br />
cavallo. Pure se era intabarrata fino agli occhi, da sotto il cappuccio di fuoco, i capelli<br />
intrecciati uscivano contorti galleggiando nell’aria, come serpenti vivi e forse… lo erano<br />
davvero…serpenti e anche vivi. Passando avanti la mia finestra, la donna, con il manico<br />
dell’ascia, ha bussato due volte ai vetri. E’ stato come se mi avesse toccato la tempia con<br />
la sua mano di ghiaccio. Subito dopo, il cavallo, scalpitando, ha briglia sciolta è fuggito<br />
quasi volando finché quel rumore flagellante si è perso lontano nei flutti della pallida luce<br />
lunare. Purtroppo, più tardi l’ho sentito tornare, con un nitrito di sfida e uno sbuffare<br />
ansante, si era impennato e continuava a scalciare in aria avanti all’uscio della mia casa.<br />
Paralizzata dalla paura non mi sono mossa, tremando, con i capelli molli di sudore ritti sul<br />
capo, sono rimasta attaccata al mio letto finché lo zoccolo bianco della bestia inferocita,<br />
con un colpo sordo, ha sfondato il legno della porta. Mentre i cardini gemevano, l’uscio si è<br />
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spalancato. Allora urlando mi sono rizzata sui cuscini e, prima che i battenti si<br />
richiudessero, ho visto gli occhi dell’animale, erano iniettati di sangue e, per un attimo, un<br />
attimo solo, l’amazzone mi è apparsa….<br />
Era completamente ammantata dalla pelle di un ariete e aveva le corna dell’animale, ritte<br />
sul capo.”<br />
Nel parlare la giovane vedova scossa continuamente da un tremito incontrollabile, si era<br />
appoggiata di peso alla rupe. Mentre il bimbo che teneva in braccio, aggrappato con le<br />
manine al suo corsetto livido succhiava la frangia dello scialle, l’altra figlia, la ragazzina<br />
che lei stringeva forte per il polso, nel tentativo disperato di scappare, si tirava addietro<br />
scalciando e torcendosi tutta come un ossessa, solo la sorellina più piccola era rimasta<br />
impassibile, col pollice stretto tra le labbra se ne stava tranquillamente attaccata alla veste<br />
della madre.<br />
“Ho tanta paura Divina Calea,” riprese Maia, guardando con infinita pena i suoi bambini.<br />
“Questa povera figlia mia,” con un cenno del capo indica la monella più grande, ”questa<br />
mia figlia, l’ho partorita da sola tra le canne del fiume. All’improvviso, ha deciso di lasciare<br />
il mondo degli angeli ed è arrivata da me, con molto anticipo. Pure se ero incinta e con il<br />
ventre ormai gonfio, come ogni giorno, ero andata a prendere l’argilla alla fornace.<br />
Procedevo felice con il passo dondolante e incerto <strong>delle</strong> donne gravide. Ogni tanto<br />
accarezzavo la mia creatura, quando, un dolore folle mi ha bloccato al fiume, poi, il mio<br />
ventre si è aperto… Era già buio quando sono tornata a casa con le gambe e le vesti<br />
insanguinate mentre mia figlia che riposava pacifica sul mio braccio, ascoltava lo scorrere<br />
lento di quel latte tiepido che andava riempiendo il mio petto. Prima che quell’amazzone<br />
arrivasse a bussare alla mia finestra, questa creatura, era bella come il sole e buona come<br />
il pane, subito dopo invece, si è ammalata gravemente. Ora è smunta e macilenta, le sue<br />
convulsioni continuano ad aumentare giorno dopo giorno mentre i colori dei fiori di pesco<br />
ormai, sono svaniti per sempre dal suo volto. Ti prego aiutala, aiutaci tutti.” disse mentre le<br />
lacrime che le velavano gli occhi presero a sgorgare copiose e da sotto le palpebre<br />
scesero lente fino agli angoli <strong>delle</strong> labbra. “Ti scongiuro Grande Madre, libera questa<br />
creatura dal male. Liberaci dallo spauracchio del cavallo fantasma che ha profanato le<br />
strade e le mura <strong>delle</strong> nostre case e… se ti è possibile… Grande Calea, rendici quello che<br />
ci hai preso.”<br />
Calea fissava intensamente la vedova e pure se leggeva su quel volto pallido la paura,<br />
rispose incredula:<br />
“Cosa intendi donna? Vedo bene che sei stravolta. Tremi e ti agiti come una partoriente<br />
solo al ricordo di quel cavallo, ma…” Calea si rivolge ad Attia ”in nome di tutti gli dei<br />
dell’Olimpo, almeno tu, vecchia, puoi spiegarmi, cosa dovrei rendervi?”<br />
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Attia con le mani che le tremavano e gli occhi intrisi di dolore, sussurra: “Ricordi Divina<br />
Calea, che nella prima stagione, io, questa donna e tante altre, con la mente accecata<br />
dall’odio, siamo venute a chiederti di allontanare da noi quella vergine a nome<br />
Meravigliosa che danzava, cantava e suonava il flauto come un dio? Adesso, con la<br />
stessa solerzia ti preghiamo in ginocchio di rendercela di nuovo.”<br />
“Veramente volete che la fanciulla, la straniera, l’ospite indesiderata torni a danzare,<br />
cantare e a suonare quel suo flauto stregato?”<br />
“Lei non era straniera tra noi ma una figlia che ci donò tanti sogni da sognare. Tutte noi la<br />
rivogliamo. Appena lei è sparita, la notte è diventata più lunga e più buia. Con la sua<br />
musica i nostri malati guarivano.”<br />
La vedova mostrandole il bimbo lattante: “Prima questo mio giglio d’oro, si addormentava<br />
lieto come tutti i fanciulli dell’isola. Adesso guardalo, pure se resta attaccato al mio collo,<br />
non mendica più latte,” la donna continua a parlare sottovoce come in agonia: “anche<br />
perché… dai miei capezzoli scaturivano ruscelli di tiepido latte, adesso questo mio petto è<br />
solo carne appassita… Ho due seni ciechi sotto il vestito, ciechi, ispidi, avvizziti come cardi<br />
secchi.”<br />
“Ogni partoriente dopo aver allattato i suoi figli, ha i seni tristi come fossero di cera. Non lo<br />
sapevi ancora donna, che con il latte il bambino succhia gli ultimi, teneri germogli di<br />
gioventù della madre? Prima di aspettare un figlio, ogni donna è una baccante che danza<br />
a piedi nudi incoronata di verdi pampini di uva, ma dopo il parto… Dopo… i seni non sono<br />
più duri, le spalle iniziano a incurvarsi e quando i neri capelli si mutano in argento,<br />
incomincia la nebbia dell’autunno.”<br />
La vedova alzò la testa e il suo sguardo torbido era velato di una follia disperata. Come<br />
non avesse sentito, continua a parlare della bambina più grande: “Aiutami Grande Madre,<br />
non mi lasciare sola contro il demonio. Questa mia figlia Divina Calea, credo, anzi, ne<br />
sono certa, è posseduta dal genio del male, rimane muta per ore e quando parla, non<br />
riconosco la sua voce. Non mangia niente, il sonno è fuggito per sempre dai suoi occhi e<br />
solo quando sente il rumore di quegli zoccoli, si rianima e cerca di scappare. Ma… da<br />
cosa scappa mia figlia?”<br />
“Dunque tu credi possibile donna, che con la scomparsa di Meravigliosa se ne andò anche<br />
il sonno dai suoi occhi?”<br />
“Ne sono certa. Adesso chi le renderà il sonno rubato? Voglio che il sorriso torni ad<br />
aleggiare sulle labbra di mia figlia…sulle labbra di tutti i miei figli, sono povere creature<br />
che più non giocano con le conchiglie vuote, né costruiscono barchette di carta da varare<br />
al fiume e hanno dimenticato la gioia d’imbrattarsi la faccia con il fango. Voglio che i sogni<br />
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dei miei bambini tornino a dondolarsi fra i pistilli incantati dei fiori all’ombra <strong>delle</strong> lucciole,<br />
assieme ai giganti della foresta e...”<br />
La vecchia Attia, interrompe la vedova:<br />
“Pure noi vecchi stanchi dei troppi acciacchi, noi con le creste canute, gemiamo e ci<br />
lagniamo. Con lei, il nostro villaggio pareva quello dei racconti <strong>delle</strong> fate e tutti noi<br />
provavamo un gran sollievo a udire i suoi dolci canti. Adesso la nostra isola, senza più la<br />
musica della figlia di Giobbe è come morta, ovunque, regna solo il burbero inverno,<br />
nessuno più sorride. I gradini <strong>delle</strong> case sono invasi di ortiche e gramigne, per la tristezza<br />
il contadino non ara più la dura zolla, lo scalpellino non spacca più le pietre, anche le<br />
nostre ragazze sono ormai tutte pallide come l’avorio e pure le più belle, hanno il petto<br />
scarno e lo stomaco gonfio dalle febbri di malaria. Per il rimorso, tutti camminiamo a testa<br />
china guardando il suolo polveroso racchiusi dentro tuniche lacere e sporche. Falla<br />
tornare, falla tornare. Sì! Falla tornare. Nessuno più soffierà fuoco velenoso sul suo collo.<br />
Da quando essa è partita, le donne non tessono più i rossi mantelli, né empiono le<br />
brocche al fiume. Falla tornare. Quando Meravigliosa cantava, il raccolto sfondava i granai<br />
e la nostra gioia era senza fine. Ora la terra non dà più frutti, il grano non germoglia, le<br />
foglie rugginose cadono dagli alberi come uccelli morti. I campi avvampano solo di steli<br />
moribondi come paglia bruciata e nonostante abbiamo avuto una dolce primavera e una<br />
calda estate, è bastata una sola grandinata violenta per rovinare tutta l’uva nelle vigne.<br />
Persino le fontane si rifiutano di dare acqua, i pastori non raccolgono più il bianco latte, né<br />
preparano la dolce giuncata. I cigni più non fanno il nido tra le canne della riva di fronte al<br />
nostro villaggio, le pecore non partoriscono più come una volta centinaia e centinaia di<br />
candidi agnelli e così le capre, i conigli e le cagne. Gli alberi non germogliano e tutta la<br />
campagna sembra addormentata. Ti prego, falla tornare, falla tornare per carità.”<br />
“Sì” continua testarda la vedova” rendici quello che ci hai preso, riconsegnaci la vergine.”<br />
“La senti Acotinia? Senti ronzare nelle orecchie la fantastica presunzione del mondo?<br />
Quando le cose vanno male, donne e uomini scellerati, pazzi e spergiuri, sono pronti a<br />
incolpare <strong>delle</strong> loro sciagure le stelle, il sole, la luna, gli dei o più semplicemente chi gli sta<br />
accanto, in questo caso la giovane Meravigliosa, la stessa che volevano mettere al rogo.”<br />
“Mia signora, è sempre stato così, non si apprezzano le qualità degli altri, se non quando li<br />
abbiamo perduti.”<br />
Intanto che parlavano, la ragazzina con l’abitino color mela, non la finiva più di contorcersi<br />
e nel tentativo disperato di liberarsi per poi fuggire, mordeva con rabbia il polso della<br />
madre e tra un morso e l’altro, con la mano che aveva libera, graffiava il volto alla sorellina<br />
poi le strappava i capelli, gridando con la bava alla bocca e un vocione da maschio:<br />
“Vattene a bruciare nelle fiamme dell’inferno. Cattiva, vattene all’inferno, cattiva, cattiva,<br />
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cattiva.” E mentre grosse lacrime cadevano lungo il viso della vedova, Calea, impietosita a<br />
quella vista, chiede dolcemente alla monella: “Come ti chiami piccola?”<br />
“Rachele.” Risponde la bambina fissando con occhi vitrei, qualcosa che non c’era.<br />
“Vieni piccola Rachele, vieni, facciamo un bel gioco.”<br />
Calea stacca con fatica la bambina dalla sorella, poi, tenendo la monella per mano, si<br />
avvicina al ciglio della rupe e rivolta a Oriente, sottovoce, sussurra tre nomi sacri finché, a<br />
voce alta, invoca:<br />
“PATER MEUS ASCOLTAMI.”<br />
Subito dopo Calea, dalla rupe alle sue spalle, tra fratte di lamponi, amaranti rinsecchiti,<br />
stecchi spinosi di biancospino, fitti cespugli di mirto e di ginepro, sceglie un ramo, lo<br />
spezza con le mani e dopo averlo velocemente scortecciato con un piccolo pugnale di<br />
selce, inventa un bastone empirico. Con quel prolungamento del suo braccio, disegna in<br />
terra un occhio e al centro della pupilla, ci mette la ragazzina e mentre questa riprende a<br />
scalciare e a imprecare con la sua voce da maschio, Calea, dalla rupe, coglie una foglia di<br />
fico selvatico, s’inginocchia accanto alla bambina che ancora stringe con tutte le sue forze<br />
i capelli strappati alla sorella. Con il pollice la Grande Madre raccoglie una goccia di latte<br />
di fico fuoriuscito dal gambo della foglia che ha appena strappato e per tre volte passa<br />
quel latte denso sulle dita della monella, finché queste, allentano la presa. Poi dal rovo alle<br />
sue spalle, Calea, coglie un frutto maturo, infine pittura la fronte e le tempie di Rachele con<br />
il colore sanguigno <strong>delle</strong> more, segnandola e magnetizzandola per sempre, in ultimo<br />
ordina alla monella:<br />
“Chiudi gli occhi Rachele.”<br />
E come per incanto la piccola ossessa che per tutto il rito era scossa da un tremito<br />
convulso con la fronte imperlata di sudore quasi che avesse un chiodo piantato nel petto,<br />
come per incanto, zittisce.<br />
La Divina, poggiata la mano sul suo cranio recita un’invocazione dal significato misterioso:<br />
“MAA - NE - HRA.”<br />
Calea lasciò che il silenzio per un momento calasse su quel gesto poi con voce ferma ma<br />
in tono sommesso, ripete di nuovo la formula:<br />
“MAA – NE – HRA.”<br />
Infine urla una frase dal significato inequivocabile.<br />
RETRO SATANA TOTO OPERE ASPER.<br />
Questa volta il grido non più trattenuto, permette all’erba, alle foglie, ai fiori e persino agli<br />
alberi del ciglione di rimanere incantati assieme alla ragazzina che con un ultimo,<br />
lunghissimo urlo, stramazza a terra come una bambola gettata via mentre la mano che<br />
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Calea teneva poggiata sul suo capo rimane ancora immobile, sospesa in aria con le dita<br />
adunche, uguale alla zampa di un misterioso uccello rapace preistorico.<br />
Passato lo shock, l’altra monella, la sorellina più piccola che aveva assistito alla scena con<br />
i grandi occhi sgranati, dondolandosi imperterrita su di una gamba e poi sull’altra, riprende<br />
tranquillamente a succhiarsi il pollice. La vedova invece, continua a tremare sempre più<br />
forte, più forte, più forte. Le tremavano le labbra, le mani, tremavano persino le lacrime<br />
nascoste sotto le ciglia brune e, piegata in due da quella commozione violenta, scossa dai<br />
singhiozzi irrefrenabili, con il bambino in braccio che agita le manine, s’inginocchia per<br />
baciare la veste di Calea. Ma il volto della Divina è pallido e duro. Concluso il rito, dopo<br />
aver aiutato la monella a rialzarsi, allontana la madre con le braccia tese e un cenno<br />
sdegnoso del capo, infine, guardandola con occhi fiammeggianti, con un tono di voce<br />
forte, severo e terribile, le vomita addosso tutto il suo rancore:<br />
“Donna, tu, sì, tu, donna, riprenditi tua figlia, ora starà bene, ma tu, tu stai molto lontana da<br />
me. Sì, allontanati e ascolta bene, memorizza quello che dirò una volta sola.<br />
Nel tronco di una quercia millenaria sono incisi questi versi, versi che né il tempo, né<br />
muschio, né licheni, hanno potuto cancellare. Non date ai cani ciò che è santo affinché<br />
non si voltino contro di voi per sbranarvi, né gettate le perle ai porci perché non le<br />
calpestino con le loro luride zampe.<br />
Questo è quanto hai fatto tu. Sì, tu, donna. Tu che hai amato tanto il tuo peccato anche se<br />
ora il rimorso ti fa galleggiare dentro fiamme immaginarie, tu sola sei la sola colpevole dei<br />
tuoi guai. La tua invidia eguale alle chele dello scorpione, ha stritolato, calpestato,<br />
disprezzato, odiato, l’arte di Meravigliosa e tutto il male che le hai procurato si è rivoltato<br />
contro il tuo stesso sangue, povero sangue innocente. E adesso tu, infelice creatura, tu,<br />
vedova Maia, assieme alla tribù <strong>delle</strong> altre meschine, misere donne, osi chiedete a me di<br />
fare tornare al villaggio quella fanciulla dopo che tutte avete chiesto a gran voce l’esilio,<br />
dopo che avete chiesto per lei persino il rogo? E se fosse stata abbandonata nella foresta<br />
in balia di branchi di lupi famelici? Se io avessi assecondato il vostro scellerato progetto,<br />
dimmi donna, illuminami, come credi che potrei farla tornare ora? Come potrebbe ritornare<br />
Meravigliosa se le livide ali della morte avessero già prelevato il suo corpo dalla rossa<br />
bara di corallo dove voi volevate seppellirla?”<br />
Il dispetto, la delusione, i lampi che le incendiavano gli occhi accesi di furore, rendevano<br />
Calea, mentre continuava la sua appassionata arringa, bella e maestosa più di un angelo<br />
vendicatore. Un angelo che con un invisibile arco, scagliava frecce di fuoco.<br />
“Ma se pure la vergine fosse ancora sotto terra, se fosse dentro quella bara di corallo<br />
rosso, coperta di papaveri insanguinati, anche se la dissotterrassi con le mia stesse<br />
unghie, pensi donna, che potrebbe tornare a vivere? Può una sepolta viva, murata nella<br />
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torre di pietra già traghettata dalla barca del tenebroso Caronte nel profondo degli Inferi,<br />
tornare a respirare soltanto perché tu hai cambiato idea? E io, come potrei io trovare la<br />
strada per farla tornare? E tu vecchia Attia, dall’alto dei tuoi tanti anni, dimmi, hai mai visto<br />
ritornare qualcuno dall’invisibile, nero, segreto regno dell’Ade?”<br />
Attia con un filo di voce risponde: “Io ho visto di anno in anno ritornare la primavera, ho<br />
visto la luna piena ritornare a splendere nel cielo e i fiori ritornare a germogliare sugli alberi<br />
e nel prato. Dunque Divina Calea, che altro devo credere?”<br />
“Che la vita è un’altalena, dà oggi per toglierci domani, dà e toglie, dà e toglie, finché, non<br />
ci arrendiamo al sonno finale. Pure sono sicura, che se la giovane miracolosamente fosse<br />
ancora viva e tornasse alla sua casa, tempo poche lune, in molte vorreste di nuovo<br />
sbranarla perchè, sempre sarete invidiose del suo canto.”<br />
“Lo giuro su Sima mia madre, lo giuro sui miei antenati Etruschi, Divina Calea, giuro e<br />
prometto che non succederà più, ormai abbiamo capito. Per il nostro orrendo peccato ogni<br />
creatura è triste, persino le piante dentro i vasi slabbrati attorno ai pozzi allungano gli steli<br />
tisici senza più un solo fiore. Se tu volessi… prova a farla tornare, provaci per carità,<br />
Ormai sull’isola pesa una maledizione, non solo i bambini ma anche le nostre ragazze,<br />
persino le più giovani e belle sono scarne e pallide come l’avorio, il rimorso le consuma<br />
peggio che avessero la febbre di malaria.”<br />
Intanto che Attia continuava a supplicare, si udì provenire da sotto la rupe una voce<br />
concitata mista a grida selvagge. Era Ario che, saltando e nitrendo come un puledro,<br />
ritornava dal monte chiamando a perdifiato come sempre, la Divina:<br />
“Grande Calea, magnifica stella d’Oriente, bella tra le belle. Divina Madre ascoltami.”<br />
“Ma insomma ricominci con le tue stramberie? Si può sapere che altro c’è?”<br />
“Graziosissima padrona, dopo averti servito, tornavo tranquillo alla mia capanna.<br />
Il bosco era completamente allagato dentro una melanconica nebbia colore di perla, io<br />
camminavo tenendomi a mezza costa sulla cresta montagnosa lassù, sotto la torre<br />
mozzata. Per calmare la fame masticavo una fava di carruba, sullo stradone a mietere con<br />
la falce l’erba per i conigli, c’era Cecilia la figlia minore di Toni, l’Orbo, ma la lama non<br />
tagliava perché l’erba era fradicia. Dappertutto c’era un mantello di brina che come una<br />
bambagia di vetro, ammantava ogni cosa. Anzi, non avevo mai visto in vita mia, così tanti<br />
piccoli grani di ghiaccio che come aghi trasparenti pareva volessero trafiggere il mondo.<br />
Infreddolito fin dentro le ossa, non vedevo l’ora di andarmi a rannicchiare nel mio<br />
pagliericcio di lana. Così per sbrigarmi avanzavo a testa bassa come un somaro stracco,<br />
assieme a me camminava solo qualche donna, alcune tornavano a casa con l’anfora di<br />
terracotta traboccante poggiata sul fianco o con la conca ricolma in bilico sul capo, altre,<br />
con la brocca di rame attaccata alla cintola andavano in senso contrario alla fonte. Poi<br />
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oltre ai contadini che portavano le ulive al torchio o i grani al mulino per ridurli in farina,<br />
c’era solo la vecchia Tullia con la sua cesta piena di frutti di bosco sotto braccio e, sulle<br />
spalle, l’immancabile fascina di bacche rosse, timo, fiori bianchi di asfodelo, alloro, radici di<br />
ortica, malve, gramigna e altre mille e mille erbe medicinali. Come ogni giorno, Tullia,<br />
portava il suo carico di elisir, alla bottega di Rocco lo speziale per fare medicinali e<br />
amuleti.<br />
Io, graziosa padrona, senza impicciarmi di niente, senza guardare in faccia nessuno e<br />
senza rispondere al saluto dei villani né dei maestri di pietra, procedevo spedito<br />
rasentando il muraglione preistorico che da un lato costeggia il campo di grano saraceno<br />
e, dall’altro, le immense distese di piante di lino con i bellissimi fiori azzurri. Camminavo<br />
masticando il frutto dolce e carnoso del carruba e ogni tanto mi fermavo a sputare i suoi<br />
semi durissimi. Mentre sputavo in aria padrona bella, nella speranza di colpire gli uccelli di<br />
passaggio, contemporaneamente, ammiravo il tramonto che avvicinandosi come un<br />
sicario incappucciato, succhiava gli ultimi raggi d’oro del giorno. Il campo affondava<br />
sempre più nelle tenebre e le spighe senza più sole, giacevano silenziose. Ma quando le<br />
mie gambe sfiorarono l’albero di noce avanti le stalle di Checco il guaritore, non ho potuto<br />
fare a meno di fermarmi. Sai bene padrona bella che posso fare ore e ore di marcia senza<br />
mai una sosta, ma… pure fossi incatenato, non riesco a non fermarmi a guardare<br />
nascosto dietro il grande noce, Artemisia, la figlia di Checco mentre raccoglie ruscelli di<br />
latte fumante dalle mammelle <strong>delle</strong> mucche…”<br />
“Allora, dov’è la novità, non fai questo ogni giorno, tutti i giorni? Avanti, cos’altro devi dirmi,<br />
ragazzo mio?”<br />
“Perdonami padrona bella e gagliarda, ma… Artemisia, è uno stordimento, una vertigine,<br />
una malia. Tu lo sai che potrei restare immobile a contemplarla all’infinito quando, seduta<br />
curva sullo sgabello, con la sua corta tunica ancora da bambina che a fatica le arriva alle<br />
ginocchia, gli occhi languidi, un fiore di magnolia tra i bruni capelli, la secchia di rame<br />
poggiata sulle gambe, le mani tenere come burro, con le labbra che ricordano il sapore<br />
dell’uva, canta dolcissime nenie e mentre dalle sue lunghe dita esce la luna ancora calda<br />
come un bambino appena nato, Artemisia, ripete all’infinito i versi di un poeta antico di<br />
nome Salomone, questi padrona.<br />
Non state a guardare se sono bruna, bruciata dal sole.<br />
I miei fratelli si sono adirati con me; mi hanno messo a guardia <strong>delle</strong> vigne...<br />
Così, cantando, mentre l’eco della sua bella voce, si perde nei torrenti, nelle foreste, nelle<br />
praterie e arriva fino al cuore nei deserti più silenziosi, una dopo l’altra, Artemisia, munge<br />
tutte le bestie del padre.”<br />
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“Fin qui, hai solo dipinto a grandi pennellate, il ritratto di Artemisia che munge le mucche,<br />
ricordati ragazzo che anche la mia pazienza ha un limite. Allora cosa devi dirmi?”<br />
“Padrona bella e gentile, lo straordinario sta proprio in questo racconto. Pure se…ogni<br />
volta che la vedo, mi invade una smania, una voglia matta di correre sulle onde verde del<br />
mare oppure sull’altipiano, nei sentieri incavati colmi di ginestra d’oro, correre lanciando<br />
grida selvagge. Sì! Lasciamelo dire padrona bella, pure se ero lì incantato a guardarla che<br />
mi pareva di sentire misto al profumo del fieno, del grano maturo, dei papaveri e dei gigli di<br />
campo, mi pareva di sentire cantare gli angeli, non ho smesso di servirti, anzi, quando uno<br />
storno di avvoltoi si è alzato in volo da un folto cespuglio alle mie spalle, riempiendo il cielo<br />
di un gracchiare rauco e sinistro, lasciando alle spalle la nostra bella isola, per servirti<br />
meglio mi sono risvegliato e, pure se a malincuore, in un subito, per correre ad avvertirti<br />
gentile padrona ho ripreso la mia strada.”<br />
“Avvoltoi che abbandonano l’isola? Finalmente un buon presagio.”<br />
“Sapevo che era un buon presagio. E solo per servirti meglio graziosa padrona ho ripreso<br />
il cammino ma in vero, stavo ancora pensando ad Artemisia quando all’improvviso,<br />
un’ombra curva sotto una macchia di sterpi mi è venuta incontro come un fantasma anzi,<br />
come una larva d’uomo e poi è subito scomparsa eguale a un sogno, solo la sua voce<br />
strana ha continuato a echeggiarmi attorno. Per paura che fosse un ladrone, sono rimasto<br />
immobile aspettando, finché, attraverso la bruma, si è materializzato un misterioso<br />
personaggio. Allertato, incominciai a squadrarlo come faccio sempre con i foresti e, per<br />
servirti meglio, graziosissima padrona, incominciai a chiedermi, chi era, che voleva, che ci<br />
faceva nella nostra bella isola un uomo così ispirato e carismatico, perché devi sapere che<br />
mentre attraversava la tua terra padrona, lasciava andare nell’aria l’eco del suo racconto<br />
sulle origini del mondo e sulla nascita degli dei.”<br />
“Sarà stato un pastore - poeta che inseguiva la sua musa recitando una canzone bucolica,<br />
una poesia, uno stornello.”<br />
“Sono sicurissimo, quel vecchio dal corpo ossuto disfatto e miserando, con occhiaie<br />
oscure e profonde che si reggeva in piedi a fatica e pareva un albero mezzo sradicato,<br />
non poteva essere né un poeta, né un pastore. Sì è vero, vagava errando sulle lune come<br />
un poeta pazzo ma… aveva qualcosa… che andava oltre la sua pazzia. Indossava una<br />
tunica e un mantello dal colore della vite bruciata mentre <strong>delle</strong> strane bende gialle gli<br />
fasciavano strettamente le tempie e il cranio che aveva molto, ma molto allungato. Portava<br />
una mappa appesa al collo, una bisaccia a tracolla e sulle spalle teneva un bastone di<br />
bambù con un fagotto e un boccale di rame sulla cima e...”<br />
“Allora, che c’è di strano? Sara stato un viandante oppure un monaco del deserto.”<br />
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“Anche se aveva i piedi scalzi e infangati, non era un monaco né un viandante, né l’uno né<br />
l’altro hanno l’abitudine di legarsi le caviglie con <strong>delle</strong> corde sudice, inoltre costui, non<br />
camminava, saltellava cantando lodi sconosciute, pareva percorresse il sentiero sassoso e<br />
coperto di pruni che conduce nel mondo dell’oltre tomba. Per paura che fosse un<br />
appestato, senza farmi vedere e da molto lontano, passo dopo passo, ho seguito le sue<br />
orme restando nascosto tra le canne e il fango dello stagno, così potevo vedere le sue<br />
mosse senza essere visto.”<br />
“Se non era né un pastore, né un viandante, né un pellegrino e manco un monaco, allora<br />
sarà stato un asceta, un eremita alla ricerca di un rifugio dal mondo e dai suoi affanni,<br />
oppure un semplice penitente che segue la disciplina.”<br />
“Così ho pensato anch’io, stavo per andarmene senza disturbarlo, quando ho visto che<br />
arrivato alla caverna dove sono dipinti gli animali preistorici, non si è fermato ad ammirare<br />
i mammut, né le altre magiche scene di caccia, ma ha proseguito fino alla sorgente e,<br />
sotto l’albero di fichi dove i viandanti vanno a lavarsi i piedi stanchi, finalmente si è<br />
fermato. A mani giunte ha raccolto dell’acqua poi, stranamente, è rimasto ritto, con gli<br />
occhi vitrei perso in confuse visioni.”<br />
“Magari pregava.”<br />
“Pareva come affascinato, continuava a contemplare la sua immagine riflessa nel cavo<br />
<strong>delle</strong> mani quasi che il volto che appariva in quello specchio, dentro una luce di cristallo<br />
verde fosse un totem, un simulacro del suo culto. Infine, con un’espressione di dolore, ha<br />
lasciato andare l’acqua, si è seduto sulla riva e senza sciogliere le corde, ha cavato dal<br />
fagotto una focaccia, un pugno di castagne secche e ha iniziato a mangiare tranquillo.<br />
Beato lui! Finito il pasto, non ha messo il fagotto in spalla, non ha rimboccato la tunica<br />
sopra i ginocchi per guadare il ruscello e andarsene come fanno tutti i penitenti, ma con un<br />
doppio salto mortale, ha attraversato le acque come volasse.”<br />
“Saltava con le caviglie legate?”<br />
“Simile un grande uccello con le falde del mantello svolazzanti è rimasto in bilico precario,<br />
sospeso sopra un fragile ramo di salcigno, ma un ramo così fragile padrona bella che non<br />
avrebbe tenuto neanche un passero, pure, lui è rimasto lì a meditare a lungo, tanto era<br />
assorto nelle sue preghiere che non si è accorto di me che lo contemplavo a bocca aperta.<br />
Infine, penzolando da ramo a ramo eguale ad una scimmia, ha attraversato tutto il<br />
macchione di cornioli finché è sceso a terra e come in trance, costeggiando le mura, è<br />
arrivato al grande ponte sotto la torre mozzata e lì, con la pazienza di un ragno quando<br />
tesse la tela, ha iniziato a razzolare in terra frugando tra gli scogli poi ha preso a palmare<br />
le pietre una per una.”<br />
“Veramente?”<br />
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“Certo. Spostando felci, violacciocche, finocchio selvatico, viti di capperi e di edera,<br />
cercava nascosta nel muschio, una fenditura, un’apertura per entrare, ma noi sappiamo<br />
bene padrona bella che il triplo muro del ponte è solido e sicuro come e più di una<br />
fortezza. Nel tentativo di continuare a seguire le sue mosse però, senza volerlo, mi sono<br />
imbrogliato il passo in una liana rampicante che era più intricata di una rete da pesca. La<br />
rete, mi ha fatto cadere a terra e nel rialzarmi, ho schiacciato un piccolo ramo che<br />
frantumandosi ha fatto un rumore infernale. Il penitente, vedendomi apparire all’improvviso<br />
dal nulla, a poco più di un cubito di distanza, ha sussultato come si fosse scottato e, con<br />
un balzo eguale a un’anima dannata che fuoriesce dagli inferi mi si è lanciato contro. Per<br />
un momento solo, mi è sembrato che diventasse alto, terribile e grandioso come il gran<br />
sacerdote al tempio, ma poi è tornato il povero vecchio che a stento si teneva in piedi.<br />
Ragazzo, mi ha detto con una voce rauca, nascosta in qualche parte di questa isola, vive<br />
una vergine di nome Meravigliosa, devo vederla, sai dirmi dove la posso trovare? Poi mi<br />
ha confessato più con i gesti che con le parole, di essere in viaggio da parecchie lune, di<br />
aver attraversato i sentieri più impervi tra le montagne rocciose affrontando persino le<br />
piogge torrenziali e solo seguendo l’anima di un suo antenato morto è riuscito ad arrivare<br />
al ponte della torre. Infine mi ha chiesto insistentemente se conoscevo il camminamento<br />
segreto, il labirinto scavato in epoche preistoriche, dai giganti della foresta. Padrona bella,<br />
quell’uomo sa che esiste un percorso che conduce alla cella segreta dove è stata<br />
imprigionata la creatura che suona il flauto come e meglio di un dio.”<br />
Calea, in silenzio abbassa il capo a raccogliere i pensieri. “Sai che significa tutto questo<br />
ragazzo mio? Se quell’uomo è riuscito ad arrivare al ponte della torre seguendo l’anima di<br />
un antenato morto ed è a conoscenza del labirinto segreto, può essere solo uno stregone<br />
o uno sciamano capace di comunicare con le potenze superiori. Hai sentito vecchia Attia?<br />
Adesso anche i santoni - guaritori cercano la nostra Meravigliosa.”<br />
“Sono tornato addietro, proprio per dirti questo padrona. Quello sciamano, mi ha confidato<br />
che presto molti cacciatori di anime con i loro aiutanti, da tutte le isole vicine verranno qui<br />
per liberare la vergine. Che facciamo? Che facciamo? Che facciamo?”<br />
“Niente! Nessun foresto conosce la formula magica per entrare nella torre e poi veramente<br />
a me pare che si esageri con questa storia. Meravigliosa non è la vergine Cassandra, figlia<br />
di Priamo e la sua musica, non è sacra. Comunque, tu Ario torna subito sul monte, lesto,<br />
non ti fermare a perdere tempo contemplando ogni cosa come fai sempre, anzi, vedi di<br />
non tornare addietro per nessun motivo.”<br />
“Ma gentile padrona,” protestò il giovane, “il mio turno è finito. La sera è giunta, non senti<br />
alla tua porta la musica del sonno? Nella palude già dormono le anitre selvatiche e tu mi<br />
chiami di nuovo alla veglia?”<br />
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“Finché c’è qualcuno che prova ad attraversare il ponte levatoio, dormirai con un occhio<br />
solo lassù alla torre, così sarai pronto a buttare al fiume chiunque tenti di passare.”<br />
Il ragazzo gettò addietro le lunghe trecce e con una smorfia spezzante riprese: “Se posso<br />
buttare al fiume chiunque, graziosa padrona, bella tra le belle, lascio alle fratte il mio<br />
sonno e i miei sogni e corro al tuo appello. In un subito mi metterò di sentinella ai piedi<br />
della torre e resterò a spiare ogni più piccolo lamento. Addio addio.”<br />
“Addio ragazzo!”<br />
Andato via Ario rimase nell’aria un lungo imbarazzato silenzio. Calea con un impeto di<br />
pietosa tenerezza domanda al Attia con tono dolce: “Vecchia, ti senti meglio adesso?” La<br />
donna non fa in tempo a rispondere che all’improvviso Lola, comincia a saltare andando<br />
avanti e indietro nervosa e mentre attorno si faceva sempre più scuro, la cerva, si rizza<br />
sulle zampe e resta lì, con le orecchie tese.<br />
“Che c’è, che succede alla tua cerva, mia Divina?” chiese Attia.<br />
“La spaventano i lupi, non li senti anche tu? sulle Montagne Rosa, stanno ululando.”<br />
“Forse inizia la stagione degli amori.”<br />
“No, è solo che si avvicina la notte del plenilunio, e i lupi, sentono crescere la luna.<br />
Ascolta, nel fitto della foresta, non si sente più picchiare l’accetta e nel bosco, nessun<br />
pastore richiama i porci o le capre.“<br />
“Ormai è l’ora dei fiori e degli animali notturni.”<br />
“E’ vero vecchia Attia, è giunta l’ora in cui si spengono le voci degli uomini, pure il deserto<br />
tace, le foreste s’immergono in una calma universale, la spiaggia si è abbrunata e fa<br />
freddo. Guarda, il dio sonno, ha posato il suo respiro sulla bocca della terra, lontano già si<br />
vedono fumare i tetti <strong>delle</strong> capanne dei pescatori. Anch’io come te e come tutte le creature<br />
diurne ho bisogno di dormire, mi casca la testa dal sonno, l’umidità della sera, mi penetra<br />
fin dentro le ossa, ma vedrai che la notte come sempre ci porterà consiglio. Ora tu, Maia, i<br />
bambini e le altre donne andate in pace, prima che le stelle si affaccino dalla negra<br />
terrazza del cielo dovete essere a casa. Stasera filate pure tranquille la vostra conocchia<br />
di lana vicino alle culle dei bambini e, avanti un grande fuoco lasciate uscire dalle labbra<br />
una dolce ninnananna. Cantate serene e mentre con le vostre forti braccia attorcigliate il<br />
tenue filo del fuso intrecciandolo assieme ai capelli della notte, ricamate al telaio con i<br />
germogli <strong>delle</strong> alghe, una sciarpa di pace e questo finché le lampade notturne si<br />
spegneranno, poi all’alba, vecchia Attia, fai andare le tue donne al lavoro. Senza paura<br />
che tornino pure a sbrogliare le reti da pesca sotto l’ombra nera dei ceppi dei fichi d’India.<br />
Io ti ascolterò domani e forse con le prime luci dell’aurora noi due insieme, riusciremo a<br />
sbrogliare questa intrigata matassa e se mai ci riusciremo, mi auguro che tu possa vivere<br />
ancora molto a lungo e… serenamente. Ma ora andiamo a dormire e non preoccuparti<br />
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troppo per il domani che ogni giorno ha il suo dolore, ogni giorno la sua pena. Addio,<br />
addio.”<br />
La vecchia Attia, tremando, come se tutto il dolore del mondo gravasse sul suo petto<br />
secco, le scivola ai piedi, le posa la fronte sul grembo e dopo averle baciato le mani, con<br />
un respiro affannoso le sussurra all’orecchio: “Addio Grande Madre, prega per me e<br />
ricorda; quando la mia anima salirà nel vasto cielo, dopo che mi avranno chiuso gli occhi e<br />
incrociato le braccia sul seno, fammi la carità, seppelliscimi col mio peccato tra gli aranci e<br />
i limoni del tuo giardino. Sì! Portami con te.”<br />
Calea guardandola teneramente, le solleva il cappuccio della tunica che Attia teneva libero<br />
sulle spalle e dopo averle accarezzato con le lunghe candide mani i radi capelli di neve, le<br />
copre il capo ammantato di cenere dicendo:<br />
“Prometto vecchia mia che quando l’angelo della morte passerà le sue dita sulle tue labbra<br />
delicate, quando fendendo l’aria con le sue ali livide ti porterà con sé oltre questo mondo,<br />
quello che resterà di te, tutto quello che resterà, lo avvolgerò in un sudario e rimarrà con<br />
me per sempre.”<br />
Dopo un ultimo inchino, la vecchia, pure se con le forze stremate, il corpo ricurvo come un<br />
albero sradicato, rasserenata da quella promessa, quasi sorridendo con lo scintillio di<br />
un’ultima lacrima che rendeva più profondo il cerchio livido attorno ai suoi occhi, si<br />
risolleva e, faticosamente, inizia a scendere le ruvide scale; dietro di lei, la vedova Maia,<br />
vestita a lutto, con in braccio il bambino che pare di cera, la figlia guarita per mano e<br />
l’altra, attaccata alla veste.<br />
Capitolo quarto<br />
Il principe Orfeo<br />
Lentamente cala la notte. Quando la luna nascendo diafana e fragile dalle nebbie del mare<br />
illumina l’ingresso preistorico della caverna di Calea velando la roccia vulcanica di una<br />
luce di madreperla azzurra, dal sentiero arriva un nitrito seguito da uno scalpitare di<br />
zoccoli.<br />
E’ il corsiero dell’ambasciatore del principe Orfeo.<br />
L’uomo, che ha la veste piena di polvere, i capelli irti, la fronte rugosa e infilata alla cintola<br />
come un tesoro, tiene una pergamena chiusa da un laccio di cuoio, sprona il suo cavallo<br />
su per il sentiero livido e deserto. Ogni tanto si volta a guardare indietro quasi che fosse<br />
inseguito da una ciurma di pirati. Arrivato alla rupe, scende da cavallo, lega l’animale<br />
all’anello di ferro, dalla groppa prende il cesto <strong>delle</strong> offerte da dove sborda un fascio di<br />
gigli bianchi e una lanterna. Con i calzari chiodati, sale lesto i gradini sconnessi e si dirige<br />
velocemente all’entrata. Avanti al portale della grotta, si ferma in ascolto, l’unico suono che<br />
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esce dal buio, è lo squittire <strong>delle</strong> nottole appese alle pareti della roccia, sono strida acute<br />
che contrastano con la calma apparente della notte. Dopo essersi guardato attorno,<br />
l’ambasciatore, dalla nicchia prende la conchiglia e suona più volte ininterrottamente<br />
senza quasi prendere fiato. Acotinia, che dormiva con un occhio solo come un brigante,<br />
grugnendo si alza, si avvicina al tripode di bronzo dove ardevano tre torce, ne prende una<br />
ed esce dalla caverna con la fiaccola in mano. E’ in camicia, buttato di traverso sulle spalle<br />
ossute, porta un sudicio scialle nero, ha le trecce arruffate e gufando, dopo aver<br />
smoccolato a bassa voce un rosario di bestemmie, con l’aspetto di un’orsa esce dalla<br />
tana.<br />
Ruggendo, aggredisce l’intruso :<br />
“Bestia! Chiunque tu sia, finiscila di ragliare.”<br />
“Chi è là, chi sei vecchia?”<br />
“Chi sono io?”<br />
“Sì! Chi sei?”<br />
“Ma chi sei tu. Anzi, vieni avanti, babbeo, fatti riconoscere. Dimmi, chi cerchi?” Poi<br />
guardandolo meglio, sussurra a bassa voce come un ruggito. ”E tu… chi saresti, da dove<br />
spunti? che vuoi, che ci fai qui, straniero?”<br />
“Ho un messaggio urgente per la Divina Calea. Sai dirmi dove posso trovarla?“<br />
“Il tuo nome.”<br />
“Sono il messaggero del principe Orfeo, futuro re di Babilonia.”<br />
“In questo tempo tardo della notte, da noi, girano solo ladri o cacciatore di stelle.”<br />
“Ti ripeto che ho un messaggio per la Divina.”<br />
“Anche se recassi nella tua cintola messaggi di comete e cieli ancora sconosciuti, dove<br />
credi di correre col cesto in questa ora? non sai che il mercato è finito da un pezzo? Non<br />
sai che al buio, solo gufi, civette e barbagianni possono alzarsi in volo impunemente sulla<br />
roccia del drago? E tu con questi peli fulvi, con questi occhietti rotondi e gialli, che razza di<br />
uccello tonto sei? Come ti chiami? Da quale albero scendi per non sapere che sulla terra<br />
come sul mare, di notte, le cose animate devono dormire?”<br />
Nel parlare Acotinia avvicina di più la torcia al volto dell’uomo e mentre lo sfrigolio della<br />
fiamma si spande nell’aria greve, la vecchia continua a guardarlo con gli occhi socchiusi e<br />
un’aria di bestia sospettosa. L’uomo era abituato a tutto e non aveva paura né dei vivi, né<br />
dei morti ma, quella donna,… quella donna che come una statua pietrificata parlava senza<br />
neanche muovere le labbra, aveva il potere di terrorizzarlo, a fatica riprese:<br />
“Se sei, come credo, la custode dell’ingresso della caverna di Calea - la - Saggia, sveglia<br />
la tua illustre padrona e annunciami lesta, a dispetto del buio della notte, devo<br />
consegnarle subito il mio messaggio. Lo so che è un’ora insolita, ma ci sono circostanze<br />
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molto gravi, il mio signore ha bisogno di incontrarsi immediatamente con lei; si tratta di vita<br />
o di morte.”<br />
“Di vita o di morte? Dimmi forestiero, in questa notte di luna, è forse stato un Arcangelo<br />
con le piume d’argento oppure una renna incantata, a indicarti la roccia del drago e poi il<br />
ponte, la via, il sentiero che conduce alla caverna di Calea la Divina? Chi ti ha fatto da<br />
guida?”<br />
“Nessuno. Durante il viaggio, in terra, in mare e anche mentre risalivamo la corrente di un<br />
fiume limaccioso, il nocchiero del re si è orientato seguendo gli astri; le Pleiadi, le Iadi ma,<br />
soprattutto, la chioma di una splendente cometa che lacerava il cielo come una ferita.<br />
Infine, una volta arrivato all’isola, al lume <strong>delle</strong> radici della luna, ho solo seguito il muschio<br />
sugli alberi finché ho individuato tra le Montagne Rosa, la cresta del drago dalle sette<br />
teste.”<br />
“Dunque, per osare disturbare il riposo sacro della Grande Madre Calea, unica signora del<br />
regno della foresta e signora di tutta l’Isola <strong>delle</strong> Rondini, il tuo, dev'essere un messaggio<br />
che veramente brucia le dita.”<br />
“Sì! Un messaggio dal sigillo regale. Devi sapere che vengo da un reame lontano, dal<br />
settimo regno. Ho il grande privilegio di servire il giovane Orfeo. Il mio signore e padrone,<br />
anche se ha con sé un carico di grandi doni per la Divina Calea, mantelli di pellicce rare e<br />
preziose, avorio, cammelli, cavalli, vesti di seta, di broccato, di piume di cigno e scrigni<br />
colmi di ambra, perle, mirra e pure se a Babilonia le miniere l’argento e d’oro sono<br />
numerose come i sassi, tuttavia, il mio signore, per la Divina Calea, ha fatto cercare gioielli<br />
fin nel profondo del mare e adesso viene a bussare alla sua caverna, come un mendicante<br />
aspettando che lei si degni di riceverlo. Perché è scritto nelle stelle e in un libro antico, che<br />
né re, né magi, possono negare un attimo del loro tempo a un malato che supplica<br />
squarciando il buio con la lanterna accesa recando nella cesta <strong>delle</strong> offerte, un fascio di<br />
candidi gigli, anzi, dimmi dove posso lasciare i miei doni.”<br />
“Nel fango.”<br />
“Dimmelo per favore.”<br />
“Non intendo farti favori. Ti ho detto che la mia signora dorme, ma se proprio insisti, lascia<br />
la tua cesta là, nel sedile sulla roccia.”<br />
“No, devo consegnare i gigli personalmente.” Il messaggero fa un passo in avanti verso<br />
l’ingresso della grotta, Acotinia con un salto lo afferra alle spalle e, stringendogli un<br />
braccio con una violenza convulsa, grida:<br />
“Fermo! Non un passo di più o sei morto.”<br />
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Il messaggero si rivolta incredulo, gli sembrava di avere infilato il gomito dentro la<br />
mascella di un cavallo e mentre fissa affascinato gli occhi giallo – verdi, stravolti e orribili di<br />
Acotinia, continua:<br />
“Calmati vecchia. Va bene, ho capito…ma…almeno indicami l’altare dei profumi affinché<br />
possa agitare il mio aspersorio, e se non c’è l’altare, portami un incensiere devo e voglio<br />
fare un rito propiziatorio, desidero bruciare una coppa di farfalle d’incenso e di cedro per<br />
venerare così la tua illustre padrona.”<br />
“Non tocca a te straniero, agitare l’incensiere in onore di Calea, e poi sollevare nuvole e<br />
nuvole di fumo aromatico, adesso, sarebbe solo uno spreco, la Divina, non ama incensi e<br />
ceri, ma il frutto del sudore della fronte, il frutto del lavoro quotidiano. Comunque, la mia<br />
signora non riceve nessuno nelle ore della notte.”<br />
“Che razza di ospitalità regola questa isola? Quale barbaro costume impedisce di<br />
accogliere i naviganti che sbarcano al buio? Dopo aver percorso terre e mari, seguendo<br />
costantemente le sette stelle dell’Orsa Maggiore, secondo te vecchia, dovremmo<br />
nasconderci nel lido deserto aspettando l’alba come pirati di un equipaggio ubriaco?”<br />
“Ogni cosa ha il suo tempo e tu foresto, pretenderesti di toglierci anche il riposo notturno?<br />
Non sai che la solitudine della notte è sacra? Nessuno v’impedisce di fermare le navi,<br />
d’imbrogliare le vele, raggiungere a remi la riva, gettare l’ancora e tirarle a secco. Per<br />
me… potete buttarvi tutti a mare e poi accamparvi sulla spiaggia e volendo, potete dormite<br />
fino…al giorno del Giudizio.”<br />
“Perché parli così vecchia? le strade, i sentieri e finanche le rupi, non sono forse libere per<br />
me come per te?” L’uomo sospira come per trattenere a stento la rabbia, infine, riprende:<br />
“Le nostre navi, vecchia, sono già a secco ma, il mio principe non dorme, non dorme mai,<br />
è malato, cerca qualcuno che vive qui, su questa isola. Per arrivare prima, la nostra flotta<br />
col vento di traverso, ha sfidato le onde negre che lo scirocco faceva ribollire di schiuma<br />
livida. Lo capisci o no, vecchia, che abbiamo volato sul mare vogando con i remi mentre<br />
un dio invidioso ci spingeva sempre più lontano e…”<br />
“…E tu mi senti, o sei tardo? Rispondi, mi senti ho hai le orecchie arrugginite? Ti ripeto<br />
che la mia signora dorme e non ho nessuna intenzione di svegliarla.”<br />
“Non me ne andrò finché non la svegli. Ma se ti ostini ancora vecchia, catturerò la tua<br />
padrona con la forza perché se è la guerra che vuoi, che guerra sia. Il mio principe è un<br />
grande guerriero, ha un enorme esercito fornito di scudi, lance, elmi, corazze, archi e<br />
fionde. Presto sentirai il fremere della lotta, il clamore della battaglia e…”<br />
“…Amen e così sia!”<br />
“Adesso basta, la tua padrona deve ricevermi.”<br />
“Insisti? Perché mai dovrebbe riceverti?”<br />
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“Fosse solo perché vengo da tanto lontano e poi…”<br />
“…prima di strombazzare a vanvera, piccolo uomo, se veramente vuoi arrivare dove devi<br />
arrivare, cerca di domandare con più umiltà la strada perduta, e dopo, vedi di darti una<br />
calmata. In quest’isola, noi, con le tue ridicole fionde, ci ammazziamo le anatre al fiume e i<br />
conigli… sulla neve. Forse non sai che ogni giorno alla caverna della Divina Calea c’è una<br />
processione continua. Da Oriente e da Occidente arrivano principi, re, eroi, guerrieri,<br />
condottieri che si prostrano qui come fossero avanti il Sancta Sanctorum del sacro tempio<br />
di Gerusalemme. Perfino gli dei scendono dal sacro Olimpo e tu, buffone di un giullare<br />
pagliaccio infangato, credi di farmi impallidire con le tue bizzarre minacce? Forse speri di<br />
ferirmi le orecchie ragliando come un somaro? Pensi che non ho mai sentito una castagna<br />
scoppiare nel fuoco o non abbia mai visto un cinghiale schiumare bava dalla bocca prima<br />
di essere infilzato? T’illudi uomo se credi che io non possa sopportare il clamore di una<br />
tromba stonata. E adesso ascoltami attentamente; anche se il tuo principe portasse in<br />
dono, un carico di pregiatissimo legno di sandalo, una carovana di asini stracarichi di rame<br />
del Sinai, oppure una mandria di unicorni alati, se la mia padrona decide che il tuo principe<br />
non deve attraversare questa soglia, non l’attraverserà e sarà condannato a rimanere fuori<br />
nelle tenebre, mi sono spiegata? Lo vedi piccolo uomo tutto questo territorio? Da questa<br />
linea a quella, riesci a vedere al lume della luna le ombrose foreste, le ricche campagne, i<br />
fiumi, le sconfinare praterie, le scogliere a strapiombo sul mare, insomma tutto quello che<br />
vedi e anche quello che non vedi, appartiene in perpetuo alla Divina Calea. Dunque, se<br />
hai ancora qualcosa da dire vuota lesto il sacco, altrimenti vattene lesto a suonare le tue<br />
trombe attraverso regni di re che non hanno storia. Sì! Via di qui, togliti dalla mia vista. ”<br />
Disse Acotinia minacciandolo con il pugno chiuso che pareva fatto di filo di ferro.<br />
“Ah…per la mia spada…Mi sento ribollire il sangue. Se non fosse per i tuoi tanti canuti,<br />
vecchia…”<br />
“Cosa faresti mai, vigliacco di un foresto. Guardati, la natura stessa ti rinnega.”<br />
“Dunque questa terra è proprio una terra inospitale. Ascoltami, vecchia, per il bene di tutti,<br />
fai in modo che la tua padrona mi riceva, adesso, subito o altrimenti andrò io stesso a<br />
uccidere il suo sonno…Sì! Ucciderò il suo sonno e il sonno di tutta questa terra barbara.”<br />
“La mia signora e le stelle sono addormentate, ma tu invece… sei ben sveglio… mi ricordi<br />
un tale…un povero folle che con i capelli arruffati e coperto di fuliggine andava girando di<br />
notte con la torcia di catrame accesa cercando tra le faville del suo piccolo falò, la pietra di<br />
paragone.”<br />
“Basta ciarlare vecchia, è bene che tu sappia subito che il mio principe sarà furioso e non<br />
se ne andrà da qui a costo di farci radici. Se questa è la grotta della Divina Calea la Maga,<br />
se lei è qui e non sta volando sulla sua giumenta attorno al mondo, se non sta cavalcando<br />
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la sua cerva bianca, ti consiglio di annunciarmi lesta, serva malevola, perché tanto<br />
abbiamo navigato che non possiamo più aspettare.”<br />
Dopo un ultimo scambio di insulti a raffica, seguì una calma innaturale, un silenzio<br />
tombale, quasi che l’uno avesse dato da ruminare all’altro, finché, finalmente la vecchia<br />
serva, riprende il filo del discorso: “Ascoltami bene,” disse e, appoggiatasi al suo bastone<br />
di radica, zoppicando si avvicina di nuovo all’ambasciatore fino a respirargli sul volto.<br />
Acotinia, con gli occhi che brillavano alla luna, fissandolo, continua. “Volendo, potrei pure<br />
andare a scomodare la Divina Calea, però che sia ben chiaro, non vado perché credo al<br />
tuo somaro che vola, buffone di un foresto, ma… solo per la mia voglia di non vederti oltre.<br />
Aspettami, vado a prevenirla, anzi, consegnami il messaggio e ripetimi lesto il nome del<br />
tuo grande...guerriero.”<br />
“E’ tutto scritto qui.” L’uomo le porge il plico. “Comunque di pure alla tua Maga che è<br />
arrivato il principe Orfeo futuro re di Babilonia.”<br />
“Mi proverò, ma non garantisco che essa venga.” Disse Acotinia prendendo di malavoglia<br />
il messaggio e ciondolandolo annoiata tra le sue dita ossute, continua a borbottare frasi<br />
incomprensibili, finché, entra nella grotta, s’incammina in un labirinto, scende una scala<br />
che conduce sottoterra, arrivata avanti a una porta serrata con chiavistelli di bronzo, si<br />
ferma, da una tasca della camicia prende le chiavi, apre, entra, sveglia la padrona che<br />
dorme avanti al fuoco, mentre accovacciati in un canto stavano la cerva e il piccolo<br />
cerbiatto. Calea, saputa la novella, si getta un mantello sul corpo nudo e seguita da Lola,<br />
s’affaccia con le trecce sciolte e, bella come una divinità della notte, và incontro all’ospite.<br />
L’ambasciatore s’avvicina. Nelle braccia ha in fascio di gigli, s’inchina, depone ai suoi piedi<br />
fiori e lanterna accesa:<br />
“Gli dei e i loro angeli, proteggano la tua bellezza e ti facciano rimanere a lungo<br />
ornamento di questa terra selvaggia, Divina Calea. Tu, Profeta e famosa Maga -<br />
Veggente, abbi pietà, ascolta il tuo servo o mia regina. Io sono…”<br />
“So bene chi sei,” disse Calea e dopo avergli lanciato uno sguardo altero, continua: “so<br />
anche cosa cerca il tuo padrone. Purtroppo è tardi. Puoi dirgli che ha fatto il viaggio<br />
invano. La figlia del mare, la fanciulla che veniva da oltre le montagne di ghiaccio, lei, che<br />
viaggiando attraverso le nuvole era arrivata a noi dai confini del mondo, la stessa che è<br />
stata salvata da un delfino e poi trovata dal vecchio Giobbe pescatore di perle tra i relitti<br />
della nave incagliata sugli scogli, è scomparsa.”<br />
“Scomparsa…? Che altro sai di lei? Cosa sai ancora?”<br />
“Niente! Solo che è scomparsa assieme al suo flauto magico.”<br />
“T’imploro mia signora, non dirmi che la fanciulla che con la sua musica incantava pure i<br />
sassi è …”<br />
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“…Fuggita, sparita nel nulla! Era il nono giorno dopo il decimo della luna di Sivan, durante<br />
i festeggiamenti <strong>delle</strong> nozze tra l’Uomo e la Terra, la fanciulla che Giobbe ha chiamato<br />
Meravigliosa, è scomparsa come polvere, quasi che non fosse mai esistita. Nessuno sa<br />
dove sia andata, mi dispiace, tutta l’isola è rimasta vedova della sua musica. Puoi dire al<br />
tuo padrone di tornare da dove è venuto.”<br />
L’ambasciatore cade in ginocchio cacciando un grido: “Non può essere fuggita come una<br />
schiava, il mio principe a questa notizia, si piegherà in due incurvandosi come nel fango<br />
della palude s’incurva il giunco sulla bocca del vento o peggio, potrebbe anche morire.<br />
Come posso dirgli che la dolce allodola non è più nel suo nido? La sirena che sogna ogni<br />
notte, sparita come polvere nel nulla? Ma vogliamo scherzare? Niente e nessuno svanisce<br />
così. Anche un ramo secco se bruciato lascia un segno, lascia migliaia di granelli di<br />
cenere.”<br />
“La vita amico mio, è come un freccia scoccata contro un bersaglio, l’aria la lascia passare<br />
ma poi ogni cosa ritorna al posto di prima. Così è l’uomo, appena nato già inizia a<br />
scomparire.”<br />
“Ma io devo trovarla a ogni costo, il mio padrone è molto ammalato, un male oscuro lo<br />
consuma, né vivi né morti lo possono guarire, solo la musica divina di quella giovane lo<br />
potrà sollevare dalla sua tombale tristezza.”<br />
“Che sintomi avrebbe questo tuo padrone?”<br />
“Un delirio continuo lo incatena, sente sopra di se tutto il peso del male nel mondo. E’ nato<br />
sotto il segno forte del toro e quando sta in salute, di lui si loda la generosità, la cultura, il<br />
coraggio, la fierezza. Ma, quando il male lo prende, non ha più voglia di regnare, non<br />
dedica il suo tempo né alla sciabola né alla danza e neanche alla caccia. Lascia il nobile<br />
cervo vagare libero nei suoi giardini. Quando troverà la vergine dal flauto magico, il re suo<br />
padre darà una grande festa.”<br />
“Nella sua dolce follia il tuo padrone crede di poter guarire ascoltando della semplice<br />
musica?”<br />
“Solo la musica magica e divina di quella fanciulla, lo farà guarire.”<br />
“Sei veramente testardo, la tua è una convinzione ceca e caparbia. Ma non sai ancora che<br />
nemmeno un principe può aggiogare il suo carro a cavalli divini? In ogni caso, io ti ho<br />
avvisato, adesso che sai come stanno le cose, fai pure tutto quello che vuoi.”<br />
Ma l’ambasciatore cocciuto continua a insistere: “Ti prego, se sei quella grande Maga di<br />
cui si narra fin oltre gli oceani, in nome <strong>delle</strong> tue arti magiche, in nome dei tuoi segreti<br />
occulti, fammi la grazia di aiutare il mio padroncino, solo il suono di quel flauto potrà<br />
guarirlo.”<br />
“A quanto vedo sei un suddito davvero tenace e fedele, non ti arrendi facilmente.”<br />
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“Io amo il mio giovane principe e sono in ansia per la sua preziosa salute.”<br />
“Ti credo, la luce della dedizione brilla nei tuoi occhi. Beato il tuo padrone. Ascolta, poiché<br />
hai tanto amato, voglio premiare la tua fedeltà. Se il tuo principe sta così male, sono<br />
disposta a riceverlo.”<br />
“Grazie Grande Madre. Vado e in un baleno, tornerò col principe Orfeo.”<br />
Acotinia rivolgendosi preoccupata alla padrona le chiede: “Se ho capito bene mia signora,<br />
questo principe babilonese, sarebbe infatuato…anzi, peggio, geme d’amore e secondo il<br />
suo messaggero, parrebbe innamorato pazzo di una fanciulla che manco ha visto?”<br />
“Proprio così, innamorato pazzo già prima d’incontrarla, prima di conoscerla. Non esiste al<br />
mondo forza maggiore del desiderio, e poi, è notorio che solo i pazzi sanno combattere<br />
con quella dolce - amara, indomabile belva che i poeti chiamano amore.”<br />
“Dunque è vero padrona che la ragione e l’amore vanno di rado assieme.”<br />
“Esatto amica mia, ma ora entriamo a consultare i tarocchi.”<br />
Poco dopo Acotinia torna ad affacciarsi dall’alto della rupe:<br />
“Mia signora, l’ospite è giunto. Il messaggero è tornato con il giovane innamorato pazzo.”<br />
Il principe Orfeo, magro, pallido, silenzioso, avvolto nel suo lungo, ampio caftano a righe<br />
colorate, è sdraiato sopra un palanchino tutto d’oro. Appena Calea esce dalla grotta,<br />
l’ambasciatore, inchinandosi si avvicina:<br />
“Divina Calea, avanti a te vedi il principe Orfeo futuro re di Babilonia.”<br />
Il giovane Orfeo: grandi occhi azzurri, melanconici e uno sguardo triste, fa posare il<br />
palanchino in terra e con un gesto della mano allontana portatori e ambasciatore.<br />
“Dunque saresti tu quel tale che i tarocchi mi segnalano come grande viaggiatore figlio di<br />
re, dallo spirito irrequieto? Saresti tu, il gaio nottambulo che è giunto a me dalla lontana<br />
Babilonia ad accendere le lucciole nel cuore della notte? Le carte raccontano che sei<br />
arrivato fin qui seguendo uno strano messaggio <strong>delle</strong> stelle, un messaggio che parla<br />
dell’arte di una fanciulla. Ma, dimmi principe, nel caso riuscirai a trovarla, quella fanciulla,<br />
cosa pensi di fare?”<br />
Il principe cercando di scacciare quell’ombra di malinconia che aveva appiccicata nello<br />
sguardo si getta indietro nel palanchino e chiude gli occhi senza parlare.<br />
“Allora sei o non sei quel tale?”<br />
“Sì, sono io, Divina Calea.” Risponde infine Orfeo con un sorriso agro.<br />
“Dunque se non vuoi dirmi cosa farai nel caso riuscissi a trovarla, almeno dimmi quale<br />
appello ti spinge nell’oscurità a cercarla in questa ora di morti, quale misterioso<br />
incantesimo ti lega a lei in questa notte silenziosa?”<br />
“Lei è l’altra parte di me e vive nei miei sogni, e quando la troverò voglio rimanere per una<br />
intera notte fuori la fratta del suo giardino assieme ai fiori che appena sbocciati già<br />
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muoiono d’amore, poi voglio addormentarmi tra le sue braccia come un ape sulla<br />
magnolia. Al mio risveglio, dopo averla cullata nell’altalena dell’amore, per lei e per lei<br />
sola, intreccerò con teneri boccioli di loto, ghirlande per i suoi polsi, poi all’ombra di rami<br />
frondosi accenderò sette fiaccole mentre i raggi della luna lotteranno tra le foglie per<br />
baciare un lembo della sua veste bianca.”<br />
“Principe Orfeo, nelle tue vene scorre il sangue del poeta.”<br />
“Non ho questa pretesa.”<br />
“Oh, sicuro che sei un poeta. Sì, sono certa che lo sei, perché…solo i poeti camminano<br />
nell’ombroso sentiero dei sogni seminati nella vita precedente. Solo loro inseguono<br />
l’amore incontrato nell’altra vita.”<br />
“Ma in questa vita, in questa, se lei mi vorrà, mentre il mio braccio le farà da scudo,<br />
metterò ai suoi piedi un manto regale, una splendida corona e tutte le mie ricchezze.”<br />
“Tutte le immense ricchezze di Babilonia per una semplice naufraga, un’orfana - straniera<br />
senza patria?”<br />
“Ha forse bisogno di patria una creatura splendente più di una rosa nel rovo? Una creatura<br />
che tutto l’Oriente chiamerà padrona? Dunque la Divina Calea non sa che ogni poeta, ogni<br />
artista è straniero specialmente tra la sua gente? A Babilonia, al tempo di Nabucodonosor,<br />
quando il regno del re di Persia, Assuero, si estendeva dai confini dell’India fino all’Etiopia<br />
ed era diviso in centoventisette province, una giovane donna dagli occhi nerissimi, un<br />
ebrea della tribù di Beniamino nata da genitori deportati in Babilonia rimase orfana di<br />
madre e padre. La ragazza che si chiamava Adassa ma tutti la chiamavano Ester, fu<br />
adottata da uno zio di nome Mardocheo, ma il destino per la piccola orfana, per la<br />
straniera, aveva in serbo un grandioso futuro. Talmente era bella e affascinate che fu<br />
scelta dal re come sposa. Lui, con le sue stesse mani ha riscaldato i piedi nudi di quella<br />
giovane preferendola a tutte le donne che aveva già conosciuto nel suo harem e nel<br />
settimo anno del decimo mese del suo regno, le mise in testa il turbante regale.<br />
Ester, l’orfana - straniera, riuscì a cangiare il destino della storia ebraica. Il mio mago nero,<br />
divino cartomante e maestro degli indovini del regno, studiando le carte e le stelle e<br />
confrontandole con il contenuto kabbalistico di un antico mosaico di Pompei, ha trovato<br />
<strong>delle</strong> similitudini tra la giovane ebrea della tribù di Beniamino e la creatura salvatasi dal<br />
naufragio qui, nell’Isola <strong>delle</strong> Rondini. Pure se in tempi diversi, entrambe erano e sono,<br />
destinate a diventare regine, una per la sua bellezza, l’altra, per la sua arte capace di<br />
guarire ogni male.<br />
Da sempre quando sono inquieto, quando il dolore è insopportabile e colpisce al cuore,<br />
nel mio delirio, nei miei sogni a occhi aperti vedo lei come mia sposa, e quando mi sveglio<br />
o credo di svegliarmi, lei è già china sul mio cuscino che sorride e la sera è di nuovo con<br />
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me, insieme, con le nostre dita intrecciate, camminiamo nei campi arati di fresco, insieme<br />
ascoltiamo il canto degli uccelli cercando con gli occhi dell’anima dove nasce e dove<br />
finisce l’orizzonte. Io sono incatenato alla sua musica, lei e solo lei, è la felicità, l’amore.<br />
Né tu né altri potete chiedermi di rinunciare alla mia regina, alla mia giovane sposa, la<br />
sposa che il mago nero ha visto nella costellazione. ”<br />
“Forse il tuo mago ha detto il vero. Lo spirito incantatore della vergine guariva veramente<br />
ogni male, ma l’invidia è una serpe con il dente avvelenato e…”<br />
“L’invidia?”<br />
“Sì! Tutte le donne dell’isola provavano invidia e gelosia ascoltando la sua arte, ma<br />
purtroppo non solo loro…bevevano coppe di vino acido.”<br />
“Che vuoi dire?”<br />
“Che l’invidia e la gelosia sono sorelle di latte e di letto, non per niente cavalcano lo stesso<br />
delfino. Quella giovane, destava sì ammirazione per il suo talento, ma più forte era<br />
l’invidia… Ascolta principe e…impara. Pure se non dovrei dirlo, voglio confidarti un<br />
segreto; anche gli abitanti <strong>delle</strong> nuvole sono venuti a protestare per la sua musica.”<br />
“Gli abitanti <strong>delle</strong> nuvole?”<br />
“Esatto! L’invidia degli dei… è la più terribile di tutte. Anche loro soffrono e a volte<br />
perseguitano le creature ricche di Doni, anche loro si arrampicano sul dolore degli uomini<br />
come piante parassite e quell’invidia…dev’esserle stata fatale, se è vero com’è vero che la<br />
giovane è sparita e di lei non è rimasto neanche il flauto.”<br />
“Non è possibile, solo lei sarà la mia giovane sposa. Solo dalle sue labbra berrò la magia<br />
dell’amore. Ti ripeto che il mio mago nero, studiando da sopra la torre di Babele, il genio<br />
alato della costellazione dello zodiaco, è certo che proprio qui respira la vergine che<br />
suonando il suo flauto come un dio mi guarirà, lei è l’anello mancante tra il mio male e la<br />
mia guarigione. Nella caverna incantata del mio cuore, lei giace e dorme nascosta agli<br />
occhi del mondo. Ogni volta che sento i morsi della fame della sua musica, impasto la sua<br />
immagine con lacrime e argilla plasmandola e riplasmandola come un dolce e delicato<br />
fiore di loto.”<br />
“Mi è noto che nella tua terra ci sono grandi sacerdoti astronomi cultori di numerologia e<br />
d’astrologia che fanno complicati calcoli e misurazioni della volta celeste nel solitario<br />
tentativo di risolvere il più grande mistero dei cieli, ma per una volta almeno possono<br />
sbagliare anche loro.”<br />
“No! Non si sbagliano, le stelle mandano dei segni precisi e pure se dovessi cercarla tra gli<br />
eremiti <strong>delle</strong> caverne, io la troverò.”<br />
“Come la riconoscerai?”<br />
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“Le mie dita come coltelli affilati l’hanno incisa nella corteccia del mio petto, lei è scolpita<br />
nei miei occhi. Per lei costruirò su quest’isola una capanna di salcigno, lascerò scorrere i<br />
giorni senza contarli, con la luce del sole mi farò incatenare e, al lume della luna correrò<br />
per l’isola urlando il suo nome finché l’eco risuonerà per mari e monti e pure l’aria ripeterà<br />
le mie parole. Sì! La chiamerò dalla pianura fiorita e dalle montagne innevate, se i fati<br />
ancora la serbano in vita, se ancora respira, se non è scivolata nella tana <strong>delle</strong> ombre<br />
crudeli della morte, essa mi ascolterà, ma se questo non avvenisse, continuerò a cercarla<br />
finché una bianca lanugine ricoprirà per sempre il mio corpo…”<br />
“Che follia è mai la tua, principe?”<br />
Chiese la Divina interrompendolo; si era accorta che parlando Orfeo, diventava sempre<br />
più pallido. Pareva stesse per svenire da un momento all’altro, trasaliva senza ragione,<br />
solo i suoi occhi ardenti e appassionati continuavano a brillare. Calea intenerita ma anche<br />
preoccupata, riprese il discorso con tono affettuoso: “Spero che tutto vada come tu<br />
desideri! Ma adesso calmati, raccontami della tua malattia.”<br />
“Fin dal tempo di Nabucodonosor la mia famiglia soffre di melanconia. Io, il grande re mio<br />
padre, mio nonno e sua madre prima di lui, siamo tutte vittime dello stesso male. Nelle mie<br />
notte agitate, nei momenti di delirio, quando brucio senza ragione e sento colarmi dentro<br />
come fiotti di lava ardente, per non impazzire mi affaccio dai giardini pensili e resto lassù a<br />
contemplare il nulla finché tramonta la stella della sera. Per questo non mi arrenderò<br />
facilmente, troverò quella vergine e la porterò con me in Babilonia.”<br />
“Se questo è quanto vuoi, cercarla pure principe, io ti ho solo avvisato. A me pare inutile<br />
continuare a ronzare come un ape sopra un fiore che il vento dell’angoscia ha trascinato<br />
via, ma tu continua pure a cercare.”<br />
“Anche se smarrissi per mille volte e mille volte ancora, la via, continuerei a camminare e,<br />
cammina cammina alla fine, sono sicuro che la troverò. E tu, mia Divina, sono certo che<br />
sai qualcosa.”<br />
“E’ vero,” mormora Calea, “io so che la ragazza è viva. Lo so, perché l’ho vista in un<br />
sogno...era adulta e aveva un bimbo in braccio... “<br />
“Dimmi dov’è.”<br />
“Vive nel mio sogno. E per ora è l’unica cosa che posso dirti. Ma ricorda che qualsiasi<br />
cosa tu decida di fare, anzi, qualsiasi cosa farai, se è nel tuo destino trovarla, la troverai .<br />
Altrimenti, la terra continuerà a girare indifferente e… né vivi né morti potranno scendere<br />
dalla sua giostra impazzita. Adesso scusami,” disse Calea alzandosi per salutare l’ospite<br />
“l’umida nebbia che penetra fin dentro le ossa, m’impedisce d‘ascoltarti ancora. Giorno<br />
verrà che seduti tranquilli faccia a faccia avanti al fuoco, parleremo a lungo.”<br />
Orfeo abbassa mesto il capo stringendo con le mani il parapetto del palanchino.<br />
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“A presto mia Divina, vai, vai, vai pure, tu che puoi dormire, io resterò sveglio a raccontare<br />
alla luna le mie disgrazie. Per chi non riesce a riposare, il dolore, di notte si fa più forte.”<br />
“Prova a vedere se aspettandolo con calma, il sonno, possa farti un dono, se così non<br />
fosse, che gli dei proteggano la tua veglia e la buona fortuna stenda sotto i tuoi piedi un<br />
tappeto di petali di fiori. Ma se decidi di aspettare il luccicante cocchio della dea della<br />
notte, per poi incamminarti con lei verso la luna, ricordati di portare con te la tua ombra.<br />
Addio.”<br />
E mentre l’aria diventava ancora più fredda e dalla terra un vapore diafano danzando,<br />
strisciava come uno spettro imperlando di rugiada i cespugli e i rami <strong>delle</strong> fratte, Calea<br />
seguita da Lola e Acotinia torna nella gotta.<br />
Capitolo quinto<br />
Meravigliosa<br />
Mentre rotola la notte, Orfeo, sempre più melanconico, si avvolge in un grande mantello di<br />
pelliccia, scende dal palanchino e, accompagnato dallo struggente canto dell’usignolo,<br />
s’inoltra nel sentiero.<br />
In quella dolce trasparenza lunare Orfeo, a passi lenti percorre il pendio finché arriva alla<br />
spiaggia. Per un poco cammina sulla battigia poi si accovaccia come una lepre sulla<br />
sabbia e, al buio, con un gomito poggiato sulle ginocchia, la testa sulla mano, rimane<br />
avvolto nei suoi pensieri dolci – amari, finché inizia a gettare piccoli ciottoli sull’acqua.<br />
Intanto che la luce della luna baciava le rocce facendole scintillare come cristalli liquidi,<br />
mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa, un tintinnio di campanelli e un passo lieve di piedi<br />
scalzi, gli fanno sollevare gli occhi, e come colto da un improvviso incantesimo, si chiede<br />
dove mai aveva già sentito quei passi. Sì, dove? quando? come?<br />
L’unica cosa certa è che è sicuro di riconoscerlo quel passo, è familiare, delicato e triste,<br />
tenero e lieve: il passo di una creatura di altri mondi. Per meglio vedere senza essere<br />
visto, mentre il cuore comincia a battergli forte, rimane raggomitolato su se stesso finché<br />
all’improvviso avanti a lui, sulla spiaggia, una fragile figura si materializza dal nulla. Eguale<br />
alla bruma leggera che nasce dall’acqua, appare Meravigliosa con una treccia che le<br />
ricade fino alle calcagna. Senza avvedersi del principe, la fanciulla avanza tra i giunchi<br />
bagnati dalla luna e, con una voce simile all’eco che ritorna da valli lontane inizia a<br />
sussurrare antichi versi.<br />
Uccelli rapaci rubano dal mio rovo tutte le more negre.<br />
Rubano e raspano così forte che tremano i miei fiori,<br />
solo le gemme restano dentro l’anima che muore.<br />
Dal becco spalancato il succo del mio frutto gli cola lentamente,<br />
le zampe adorne di petali di fiori, i miei fiori.<br />
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Le ali ricoperte di un mantello di spore, le mie spore.<br />
Ma non c’è amore dentro gli occhi quando,<br />
con apatia continuano a raspare sempre più forte.<br />
Poi se ne vanno lasciandomi sola,<br />
in questo buio rosso con l’anima che muore.”<br />
A un tratto la giovane s’inginocchia e prega. La sua è una preghiera primitiva,<br />
un’invocazione che è quasi un canto. Una domanda uguale a quella che gli uomini<br />
preistorici rivolgevano alla foresta madre, alla duna fiorita di gigli selvatici, alle onde che<br />
graffiavano la sabbia infuocata:<br />
“Padre, padre mio, quanto mi manchi, dove sei? Su quale spiaggia, su quale mare, ai piedi<br />
di quale collina, nel regno di quale re ti nascondi padre adorato? Tu che quando il vento<br />
ruggiva e lottava violento tra le foglie del mandorlo come una fiera presa nella rete, mi<br />
coprivi con pelli di lupo per proteggermi, tu che ogni giorno per me suonavi la cetra mentre<br />
io ricamavo violacciocche sulla tovaglia verde del prato e poi insieme danzavamo di gioia<br />
cantando le lodi al nostro Dio, dove ti sei nascosto padre? Tu che mi hai sempre difeso dal<br />
bugiardo, dimmi, chi mi salverà dal nemico? Chi mi salverà da questo mondo dove un dio<br />
fatto d’oro e d’argento, imprigiona la mente rendendola malvagia e maligna? Nessuno più<br />
guarirà le mie ali spezzate? Se solo potessi trovare pace dentro questo mare selvaggio,<br />
potessi dimenticarti padre mio. Dimenticarti e dimenticarmi, buttando l’anima lontano, oltre<br />
il peso dell’esistenza oltre quello che poteva essere e non è stato e… perdermi per<br />
sempre tra i marmi gelidi del tempio, dove vagano le ancelle sonnambule che hanno<br />
rinunciato all’amore terreno.”<br />
Delicatamente prende una lucciola, poi, tenendola nel palmo della mano continua: ”Beata<br />
te, piccola lucciola che felice bevi stille di rugiada senza chiederti da dove scendano. Tu<br />
come il minuscolo ragno che smerletta con la sua bava d’argento un velo per la sua<br />
sposa, non ti chiedi se le candide falde che scendono dal cielo sono respiri di neve o petali<br />
di fiori di mandorlo.” Lascia andare la lucciola, raccoglie una conchiglia, avvicina l’apertura<br />
ovale all’orecchio per sentirne il rumore. “Beata anche te, conchiglia dorata che nelle tue<br />
curve di madreperla, nascondi l’eco, il sussurro <strong>delle</strong> profondità marine. Dentro quelle<br />
profondità, vive Rasum, il mio cavallo invisibile, lo senti nitrire? Con esso io cavalcavo le<br />
onde del vento e, a ogni svolta, a ogni ostacolo, sia sulla cima dei monti o nei limiti del<br />
bosco, nei fossati o nei torrenti, il mio desiderio correva appeso alla sua criniera rosso -<br />
fuoco.”<br />
Meravigliosa, posa sulla sabbia la conchiglia, si alza, fa per andarsene. Orfeo, che fino a<br />
quel momento era rimasto in silenzio, nascosto nel buio come fosse precipitato in un<br />
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incantesimo liquido e sotterraneo, in punta di piedi risale a galla, per sentire ancora il soffio<br />
della sua voce, fà rotolare un ciottolo ai piedi della giovane e si svela, dicendo:<br />
“Non andartene dolce, ombrosa creatura che parli alla notte, permettimi di riposare per un<br />
momento al tuo fianco e farti compagnia.”<br />
La voce che nell’oscurità aveva parlato, suonò all’orecchio della giovane come la voce<br />
stessa del destino, quasi parlando tra sé domanda piano: “Che vuoi da me Destino?” Poi<br />
con un tono spaventato chiede. “Chi c’è? Chi sei?” ripete più volte quasi stordita da quella<br />
improvvisa richiesta che nasce dal buio.<br />
“Io come te, sono un respiro della notte, a occhi chiusi, cammino sulla via dei sogni in<br />
cerca di una dea.”<br />
“Un respiro che si nasconde al buio come un ladro?”<br />
“Non sono un ladro, come te sono sacerdote della notte.” continua Orfeo con una nota di<br />
tenerezza nella voce.<br />
“Sacerdote della notte, se non sei un ladro, ma un respiro del tempo che si fa voce per<br />
accompagnare la mia solitudine, dimmi, perché ti nascondo nel buio?”<br />
Il giovane principe, dopo un attimo di esitazione, riprende: “Come te, osservavo la luna<br />
nascosta dietro un fascio di spini e mentre i rami secchi con la brezza notturna si<br />
battevano come spade di fuoco, io…No, no, no, non è questo, guardavo la luna come in<br />
attesa di qualcosa che non saprei definire, la verità, è che non riesco a dormire, sono<br />
malato. Una misteriosa malattia mi prosciuga il sangue nel cuore e nel cervello, certe volte<br />
desidero morire. Sì, mille volte preferirei morire piuttosto che diventare un albero spoglio<br />
dove gli uccelli non faranno mai il nido. Sono malato e vado errando per il mondo<br />
cercando la mia fata”<br />
“La tua fata?”<br />
“Sì! Cerco la creatura che con il suo canto, la sua musica, mi guarirà.”<br />
“Che tipo di musica? Forse l’hai già sentita?”<br />
“E’ già tanto che ruba i miei pensieri. La prima volta che l’ho sentita, era un meriggio del<br />
quinto mese, mentre la brezza saliva da sud, sostavo in un prato, assieme a me uno<br />
scoiattolo ascoltava rapito il tintinnio del campanello <strong>delle</strong> capre che pascolavano, quando<br />
da una stella arrivò un sussurro, un respiro accompagnato dal suono incantatore di un<br />
flauto magico. Per un attimo rimasi ad ascoltare quella strana melodia carica di antiche<br />
memorie che evocava immagini lontane, dimenticate da millenni. In quel momento di<br />
stupore, non mi curai di comprendere il senso di quel canto che correndo impetuoso in<br />
avanti illuminava il mondo. Passava da cielo a cielo superava i vulcani, le rupi di granito,<br />
intanto che il mio cuore ripeteva la melodia, all’improvviso scomparve. Subito un nodo mi<br />
serrò la gola, una nostalgia struggente m’invase l’anima e mentre un sudore freddo<br />
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copriva tutta la mia persona, nel mio cielo tramontarono le stelle. Così, è nato il mio<br />
dolore.”<br />
“E’ questo il tuo male?”<br />
“Non solo, però, alcuni giorni dopo, nel silenzio della notte, ho udito di nuovo quel<br />
sussurro, scendeva lento dalla luna, per incantare le anime degli amanti, portava i ricordi<br />
di un lontano passato riempiendo i cuori e l’aria di uno struggente incanto. D’allora, con lo<br />
sguardo fisso sulla stella del piccolo carro, ho attraversato monti e mari inseguendo quel<br />
suono, lo sento in tutte le vie, sgorga dall’acqua che nasce nella roccia dove bevo e per<br />
raccogliere anche solo una stilla di quel nettare, la mia vita si è fatta fiume. Sì! Lo respiro<br />
nella cenere, nel fumo che si leva dalla brace, tante sono le emozioni che, come l’amore,<br />
quel suono, crea.”<br />
“C’è molta poesia in quello che dici sacerdote della notte.”<br />
“La poesia è l’unico nutrimento che conosce la mia anima.”<br />
“Dunque, sei un poeta.” Disse Meravigliosa avvertendo uno strano languore alle ginocchia.<br />
E senza spiegarsi il motivo della sua commozione, per un momento gli occhi le si<br />
riempirono di lacrime.<br />
“Non so se sono un poeta, ma di certo sono un assetato di poesia.”<br />
“In questa ora tarda e silenziosa della notte, la rugiada si posa sulla criniera di tutte le<br />
creature. Si posa sulla testa dell’artista - poeta, sul cappuccio del monaco, sulla sentinella,<br />
sull’eroe in fuga, sull’innamorato respinto che cerca rifugio nelle stelle, ma anche… sul<br />
capo del brigante, del pirata, dell’assassino, del ladro.”<br />
Orfeo sussurrando: “Non aver paura di me, dimmi, sono troppo ardito se oso chiedere il<br />
tuo nome?”<br />
“Io non ho nome e questa è la mia unica ricchezza. Senza nome io non esisto, posso<br />
fermarmi a guardare ai bordi di cieli sconosciuti, posso ascoltare i messaggi portati dalla<br />
luna mentre il respiro della brezza dell’imbrunire passa avanti il cancello del mio giardino<br />
invisibile.<br />
In questa isola mi ha portato un vascello caduto in disgrazia, spezzato da una montagna di<br />
ghiaccio. All’improvviso nuvole azzurre oscurarono il sole scatenando una terribile ondata.<br />
Nessuno di quelli che era con me si è salvato, nessuno ha più ritrovato la strada tra le<br />
onde né ha più visto le stelle della notte. D’allora, io scrivo la mia storia a grosse lettere<br />
sopra una barca di carta poi la spingo nell'acqua sperando che qualcuno, in qualche<br />
spiaggia del mondo la trovi e sappia dove sono, mentre aspetto con l’anima bagnata di<br />
pioggia acida, continuo a camminare sulle pietre…Sono una creatura del buio, senza<br />
amici e senza nome, come…”<br />
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Meravigliosa, emozionata interrompe il racconto e Orfeo continua per lei. “…come una<br />
stella ancora sconosciuta?”<br />
“Sì! Prima sentivo sempre l’eco di quella stella, la sua voce mi chiamava da lontananze<br />
infinite e spesso, dalla sua immensità rispondeva al mio grido disperato. Ma ora la sua<br />
luce remota non brilla più o forse non ha mai brillato. Uscita dal suo carro, ha proseguito il<br />
viaggio attraverso i deserti del cielo cercando di lasciare una piccola traccia, un segno, ma<br />
poi quando in tanti le hanno strappato la luce… Sì! La piccola stella, si è seduta in un<br />
angolo dell’universo e come una giovane prigioniera, ha iniziato a mordere le corde<br />
preparandosi alla fuga.”<br />
“Da come parli sembra che anche tu soffri come me e forse come me, non puoi riposare?<br />
Se non sei ammalata di melanconia, dimmi quale è il tuo male?”<br />
“A te straniero è la melanconia a tenerti sveglio?”<br />
“Sì! Il malato di melanconia si affaccia da un’oscurità senza limiti come fosse sospeso in<br />
un vuoto nero e misterioso, quel malato è eguale a chi è morto nel giorno della nascita e<br />
non è stato mai sepolto.”<br />
“Non essere così disperato, la tua malattia, forse non è altro che un sogno, un ricordo<br />
ancestrale di vite precedentemente vissute o magari una fantasia dolorosa che esiste<br />
soltanto nella tua anima, ma… appena il mattino verrà, con esso svaniranno le tenebre e<br />
le nuvole negre. La luce entrerà nei nidi degli uccelli e dai rami degli alberi sgorgheranno<br />
gocce di rugiada che mentre bagneranno la terra come lacrime di angeli, nelle tue mani<br />
cresceranno rose selvatiche e persino i papaveri di creta sbocceranno tra le tue dita<br />
gravide di polline.”<br />
“Lo pensi davvero?”<br />
“Certo! Quando vivevo nella casa di mio padre adottivo, Giobbe, nell’ora che il disco di<br />
fuoco si preparava ad affogare a ponente, seduta sopra uno scoglio del nostro orto, tra<br />
aranci e ulivi saraceni, all’ombra di un albero centenario guardavo sempre lontano, laggiù<br />
oltre il mare dove l’orizzonte liquido s’incurva e cangia di colore. Più crescevo, più mi<br />
chiedevo; che terre, che città, che castelli ci saranno oltre il rudere della torre coperto dalle<br />
bacche rosse della rosa canina? Oltre l’alveo del nostro fiume, oltre le macchie di olivi e di<br />
noci, che ci sarà? E laggiù, più lontano ancora, oltre quei profili di montagne di un azzurro<br />
tenero, evanescente, oltre quelle foreste zeppe di leggende di briganti e di sogno, che<br />
cieli, che creature fantastiche, che angeli, che spiriti, vi abiteranno? Se fosse vero, come<br />
raccontava mio padre la sera per farmi addormentare, se fosse vero, che lì, vivono animali<br />
che parlavano con gli uomini, fiori che crescono fino a bucare le nuvole e pergole di frutti<br />
giganti? Se fosse vero che scorrono infiniti sorgenti e ruscelli per riempire le mani e<br />
dissetarsi senza attesa? Pure se non avevo risposte sempre più mi struggevo dal<br />
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desiderio di andare al di là e fuggire come un uccello fugge dalle mani di un pazzo. Altre<br />
volte immaginavo di salire la scala di nebbia che sorge all’estremità <strong>delle</strong> Montagne Rosa,<br />
salivo lassù, dove il gelo imbiancava le cime e induriva i cespugli camminavo sulla neve<br />
finché poi scendevo dall’altro lato. Sì! Con la testa ammantata di nevischio, dalla neve<br />
gelata arrivavo ai campi di grano per poi fuggire ancora, via, via, via, come se mi<br />
mancasse sempre qualcosa dimenticando come a volte dimentico ancora che non ho ali<br />
per volare e sono legata a questa terra per sempre. E’ questo che senti nel tuo male?”<br />
“Questo e non solo, a volte non riesco neanche a parlare per giorni e giorni. Nei miei<br />
accessi di disperazione piego il capo aspettando un castigo severo dal cielo.”<br />
“Non dire così. Non sai ancora che le montagne non sono lì per impedirci di passare?<br />
Nessuno ha messo pietre una sull’altra. E’ la terra che non potendo parlare con noi, alza le<br />
mani per chiamarci, quello è il suo segnale. Quindi non sopportare in silenzio, difenditi.”<br />
“Come?”<br />
“Come fa la fragile goccia di rugiada che non si ammala mai in tutta la sua vita. Per vivere<br />
un attimo di più la gaia brezza dell’alba, dopo aver danzato sulla corolla del narciso e della<br />
primula gialla, passando sopra ogni filo d’erba tenera come una perla splendente, quasi<br />
per gioco, si nasconde nel cavo buio di una foglia, fai qualcosa anche tu.”<br />
“A volte sogno di avere la forza del seme quando buca la terra per far crescere la spiga,<br />
ma, lontano dalla mia fata non conosco né tregua né riposo. La mia vita diventa una pena<br />
senza fine, un mare sconfinato di dolore, per questo la cerco e mi struggo di una fiamma<br />
segreta.”<br />
“Veramente credi di poter guarire incontrandola?”<br />
“Come l’assetato si disseta bevendo l’acqua di fonte.”<br />
“Se lei apparisse dal buio guariresti?”<br />
“Pure uscisse dalla caverna più nera, guarirei.”<br />
“Se ora potesse ascoltarti, cosa le diresti?”<br />
“Le direi…vieni, non indugiare. Abbandona tutto e vieni come sei. Se i tuoi capelli non<br />
sono intrecciati non importa, vieni come sei. Se i tuoi sandali sono sciolti, non importa,<br />
vieni come sei, se la tua brocca non è colma, abbandona il pozzo, vieni come sei. Vieni!<br />
“Ma… se il tuo amore s’inganna, come puoi essere sicuro di riconoscerla tra mille? Sarà<br />
difficile com’è difficile ricordare la mappa esatta <strong>delle</strong> sabbie del deserto.”<br />
“La riconoscerò perché, in un paradiso primitivo, in un’alba remota della creazione noi già<br />
ci siamo incontrati e anche se le tracce del nostro passaggio sono state cancellate, io non<br />
ho mai smesso di cercarla. La riconoscerò così come un bambino anche a occhi chiusi,<br />
riconosce la madre mentre beve il latte dai suoi seni, la riconoscerò perché lei vive nel<br />
fondo della mia anima, ogni giorno l’ha plasmo con lacrime e argilla chiudendola nella<br />
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nicchia del mio cuore e la notte sogno le sue piccole, bianche mani sulle mie labbra, la sua<br />
fronte lunata sulla mia fronte, solo pensando a lei io respiro ancora. Per lei ho fermato le<br />
ore che fuggono leste ammantate di nero, ho fermato il tempo e mentre aspetto<br />
d’incontrarla, intreccio mille ghirlande di gelsomini.”<br />
“Gelsomini? Conoscevo una vergine che sempre si riempiva le mani e il petto di gelsomini<br />
sognando una veste da sposa tessuta con quei fiori che nelle ore notturne, si<br />
arrampicavano fino alla sua finestra come farfalle impazzite… sognava pure un velo fatto<br />
soltanto di luce e di vento.” Sussurra Meravigliosa abbassando lo sguardo.<br />
“Solo così il velo nuziale non appassisce come foglie secche e muschio.” Continua Orfeo,<br />
poi prende il mento di lei con due dita e la costringe ad alzare gli occhi. “Dimmi, misteriosa<br />
creatura, dimmi dov’è quella fanciulla ora? Forse si è nascosta tra gli artigli del tempo in<br />
attesa di un calice di neve? non rispondi? Se non vuoi raccontare, lascia pure che parli il<br />
tuo silenzio.”<br />
“Lei è… rimasta abbracciata a quel velo, nel fondo di una foresta dove si smarrisce la via.”<br />
“Come posso incontrarla?”<br />
“Non puoi, nessuno può. Dopo che uomini e donne l’hanno condannata, lei è diventata<br />
solo un delicato soffio d’aria, per accarezzarla basta stendere le mani quando l’alba<br />
impallidisce solitaria. E quando la pioggia cade a scrosci sulle foglie di vite e sull’uva<br />
acerba, in certe notti tempestose, lei, come in un sogno, nasce da ogni goccia di acqua e<br />
poi scivola nelle palpebre socchiuse degli amanti fino a entrare nelle pupille dei bambini<br />
non ancora nati.”<br />
“Perché dici che non posso incontrarla?”<br />
“Perché, in una notte di tenebra, degli sciacalli le strapparono le ali, la coprirono di insulti e<br />
la gettarono in una gabbia come un usignolo che più non canta né più costruisce il suo<br />
nido dondolandosi sui rami sottili del fiore e, in un subito, lei…ha dovuto imparare a<br />
nascondere i suoi gelsomini, sotto i rovi. Ma guarda, sacerdote della notte, guarda, il cielo<br />
trascolora, la luna e le stelle tramontano, tra poco mentre l’alba salirà dal mare col suo<br />
mantello di nebbia scarlatto, si abbasserà la marea, prima di allora, io devo essere<br />
lontana. Addio, addio.”<br />
“Aspetta, aspetta solo un momento ancora, almeno dimmi il tuo nome ombrosa creatura.”<br />
“E’ inutile insistere, ho già risposto. Io non ho nome, ma se vorrai cercarmi ancora,<br />
cercami nel regno dell’anima.”<br />
Meravigliosa fugge e Orfeo stordito, barcollando l’insegue.<br />
“Aspettami. Fermati dolce creatura in fuga verso l’eterno, fermati e dimmi, lo senti il mio<br />
pianto? Lo senti? si arrampica fino al tuo cuore.” E dopo averla chiamata con mille<br />
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nomignoli diversi come un fanciullo chiama la madre quando ha freddo o ha paura, il<br />
principe, s’inginocchia e prega.<br />
“Dove sei? Dove…?<br />
Se è vero che nelle tenebre esistono spiriti pronti a raccogliere l’ultimo respiro di un<br />
moribondo, se esistono fili invisibili tra le anime erranti, se ci siete, è con voi che parlo.<br />
Ascoltate il mio lamento che corre aldilà dello spazio e degli oceani e difendete il mio<br />
amore, aiutatemi a ritrovare la mia compagna.”<br />
Ma attorno a lui, tutto è silenzio, corrono solo ombre evanescenti, sagome oscure che si<br />
formano al chiarore lunare per poi dileguarsi nell’oscurità come creature di sogno. Nella<br />
notte umida di rugiada resta solo lo sciabordio provocato dalla corsa sull’acqua bassa e il<br />
tintinnio beffardo dei campanelli d’argento che Meravigliosa aveva appesi alle caviglie.<br />
Dopo aver cercato inutilmente di seguire le impronte sulla sabbia, il giovane, disperato e<br />
perso in un labirinto di nebbia ritorna alla caverna di Calea. Suona la conchiglia. Appare<br />
Acotinia.<br />
“Donna, chiama la tua padrona presto.”<br />
“Non so se è sveglia, o dorme ancora.”<br />
“Se dorme, svegliala, lesta.”<br />
“Padrona, padrona…”<br />
Calea: “Sono sveglia, sono sveglia. Neanche m’avessero colpito con una mazza di piombo<br />
proprio in mezzo al capo potrei dormire con questo baccano. Ancora tu principe? Dunque<br />
è una tua regale abitudine quella di non riposare? Tu non dormi e non lasci dormire.”<br />
Acotinia interviene sollecita: “Padrona, stanotte quando è arrivato mezzo moribondo, steso<br />
lungo stecchito sul suo palanchino, solo a guardarlo avrei giurato che stava esalando<br />
l’ultimo respiro, adesso invece...”<br />
Orfeo si volta verso la serva ma il suo sguardo sembra fissare qualcosa oltre le rughe del<br />
suo volto di cartapecora.<br />
“Adesso mi sento benissimo vecchia, anche se ho vegliato tutta la notte, i miei occhi non<br />
sono pesanti di sonno, anzi, è come se avessi dormito più di cento ore, mi sento rinato,<br />
guarito. Ho parlato laggiù, sulla spiaggia, con una fanciulla e il male è scomparso. La sua<br />
dolcezza, le sue parole, il tintinnio dei campanelli che aveva alle caviglie erano pura<br />
musica, musica che bagnava l’anima, anche se non ha detto il nome, sono sicuro che era<br />
Meravigliosa, la mia regina, la mia piccola sposa…”<br />
“Meravigliosa?” Lo interrompe Calea. ”Che vai farneticando, principe. Né lei né altre<br />
vergini vagano di notte sulla spiaggia nell’Isola <strong>delle</strong> Rondini. Per tutto ci sono solo le<br />
sentinelle di guardia. Certamente sognando hai sentito il lamento degli sciacalli, il<br />
gorgheggio solitario dell’usignolo, lo stridere della rana, del grillo, il verso della civetta o i<br />
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ichiami di altri rapaci notturni e, nel sogno, l’hai scambiato quei suoni per il canto della tua<br />
misteriosa fata.”<br />
“No! L’ho incontrata davvero, al suo apparire il mio mantello è rotolato avanti a lei e mentre<br />
gli uccelli notturni beccavano le orme dei suoi piedi scalzi sulla sabbia, ha parlato con me<br />
e sono guarito!”<br />
“Dunque se l’hai incontrata veramente, se non è stato solo un sogno ardente, se la tua<br />
apparizione non è stata di una creatura che vive solo nei canti del poeta, allora descrivimi<br />
il tono della sua voce, le sue fattezze, gli anni, il colore dei capelli, degli occhi, <strong>delle</strong><br />
ciglia…dimmi se è alta se è…”<br />
“…fragile… come una farfalla, evanescente come un fiore notturno.<br />
Appena l’ho vista avrei voluto camminare vicino a lei in silenzio, ma non ne ho avuto il<br />
coraggio. Sì! Eguale a un angelo, è arrivata all’improvviso. Avanzava con un’andatura<br />
arcana quasi scivolando sul bordo dell’acqua avvolta in un lungo mantello di lana<br />
sbiancata, sotto il mantello indossava una veste di foglie. Mentre aspettavo che apparisse,<br />
ho contato i suoi passi, dieci, venti, trenta, erano gli stessi che sempre ho sentito<br />
echeggiare di stella in stella. Dal suo corpo etereo come un’ostia fine, è uscita la luna e la<br />
sua fronte mi è apparsa candida come neve. Sì! L’ho incontrata. In principio, sono rimasto<br />
incantato a guardare la sua ombra che si allungava nel mare, un’ombra elegante e<br />
leggera, come… come le ali di una cicogna, poi…lei è apparsa dal nulla coperta di rugiada<br />
e dei suoi verginali pensieri. Il debole grappolo del riflesso lunare, che incorniciava i suoi<br />
capelli con un aura d’argento, non mi ha permesso di distinguere il vero colore della<br />
treccia che legata assieme a rami di corallo scendeva fino a lambire dolcemente le onde.<br />
Ma gli occhi…Sì! Gli occhi dal taglio obliquo, dove lottavano le fiamme dell’amore, li ho<br />
visti bene, erano ammantati da nere, lunghe, vellutate ciglia da cerbiatto e scintillavano<br />
come diamanti liquefatti.”<br />
“Ti senti principe? La tua immaginazione, il biancheggiare della luna con la complicità <strong>delle</strong><br />
ali della notte, ti hanno permesso di vedere niente di più che un’ombra, non un essere<br />
umano. Magari era solo un’entità imprigionata nella memoria del tempo, uno spirito che si<br />
è adeguato alla tua percezione terrena o forse hai contemplato il riflesso <strong>delle</strong> stelle dentro<br />
una pozzanghera di spuma. Il tuo amore folle, ha guardato tra le pieghe della notte con gli<br />
occhi di un dio cercando di carpire i segnali dell’aldilà.”<br />
“Il mio, non è un amore folle.”<br />
“Il tuo racconto è l’apice della follia. Un racconto folle e fantastico, conferma solo che<br />
chiunque poteva indugiare su quel lido deserto. La stessa Diana signora dei monti, <strong>delle</strong><br />
selve e <strong>delle</strong> radure, poteva vagare in quella remota spiaggia selvaggia.”<br />
“Ma solo Meravigliosa poteva rendermi libero dalla prigionia del mio male.”<br />
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A quel punto Acotinia interviene premurosa: “Mia signora, è piuttosto strano, ma laggiù alla<br />
scogliera dov’era stanotte il principe Orfeo, molti pescatori narrano che, certe volte sul<br />
finire della notte, alle prime luci dell’alba, prima che il gallo canti, oppure rientrando nell’ora<br />
del crepuscolo, spesso vedono apparire tra i vapori del mare, a distanza di un sospiro,<br />
vedono <strong>delle</strong> ombre. Quei pescatori, sorpresi e atterriti, giurano che le ombre liquefatte,<br />
che galleggiano nel buio, ricordano Meravigliosa e suo padre Giobbe.”<br />
“Ma io e te, amica mia, sappiamo bene che, alcuni individui, in momenti di grande stress<br />
emotivo vedono o credono di vedere <strong>delle</strong> presenze. Può accadere in sogno, in trance<br />
estatica, in visioni o in momenti di illuminazione spirituale. In quei momenti, sono in grado<br />
di legare la loro anima con quella del desiderio o <strong>delle</strong> paure.” Poi Calea si rivolge al<br />
principe. ”Avrai visto solo un ectoplasma vagare sopra uno scoglio e al lume della luna,<br />
l’hai scambiato per la tua vergine. Povero principe ti sei trascinato nel tuo sogno come un<br />
prigioniero si trascina in catene.”<br />
“Non è andata così Divina Calea. Pure se tra il popolo dell’eternità e quello della terra c’è<br />
una continua comunicazione, io posso giurare di non aver avuto una visione, io ho<br />
incontrato la mia regina viva e vera. Le parole non bastano per esprimere la felicità che ho<br />
provato ascoltandola. All’inizio era distante, spaventata, rigida, accigliata, malinconica,<br />
quasi come un angelo di legno, poi…il suo profilo è diventato dolcissimo come il volto degli<br />
angeli di marmo scolpiti da Aristodemo allievo di Lisippo, laggiù nell’antica Grecia. Ma…<br />
niente, non devo, né voglio convincerti, Divina Calea. Io l’aspetterò ogni sera e se anche di<br />
qui dovesse passare una ninfa del paradiso, con un tralcio di vite e una corona di papaveri<br />
sul capo biondo invitandomi ad andare nei suoi giardini incantati, oppure passasse Titania<br />
stessa, unica regina <strong>delle</strong> fate per portarmi con lei nella sua caverna incantata, il mio<br />
amore per Meravigliosa la manderebbe addietro. Però… ti prego, fammi una carità, fammi<br />
parlare con la sentinella che era di ronda stanotte.”<br />
“Forse l’amore ti ha bruciato il cervello, ma… voglio assecondare la tua dolce follia.<br />
Acotinia, sai dirmi chi ha fatto i turni di guardia stanotte?”<br />
“Mia signora, sulle creste <strong>delle</strong> Montagne Rosa vegliavano appostate ventisei sentinelle. Al<br />
canto del gallo, ancora si levavano dalle cime, nuvole e nuvole di fumo azzurro. Quel fumo<br />
andava a scontrarsi con le nebbie grigio diafano che salivano senza tregua dal mare solo<br />
per potersi perdere tra le mille e mille faville dorate in fuga dei fuochi ancora accesi, ma<br />
nell’insenatura della spiaggia sotto la nostra scogliera, come sempre era di guardia solo<br />
Ario.”<br />
“Sentito? Per tutta la spiaggia, solo un giovane schiavo vegliava.”<br />
“Cerchiamolo voglio parlarci, voglio sapere se almeno lui al contrario di me, ha visto nel<br />
buio livido le orme di lei addormentate sulla sabbia. Ma…no, no, non ho bisogno di parlare<br />
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con nessuno, non mi posso sbagliare, era lei la mia piccola sposa, mentre mi stava<br />
accanto, ho sentito il freddo gelo che mi penetra nelle ossa, andarsene per sempre.”<br />
“Vuoi dire che sei guarito senza neanche ascoltare il suono del flauto magico né il suo<br />
canto?”<br />
“I suoi fianchi cantavano, le sue labbra cantavano e mentre lei parlava la magia usciva<br />
anche dal fango. Il mio cuore non si può ingannare. L’amore mi ha guarito e chi dubita di<br />
quello che affermo, dubita di sé di fronte agli dei e agli uomini”<br />
Calea guardando il principe con tenerezza: “Certo, grande mistero è l’amore. Nessuno sa<br />
dove si nasconde, l’amore è indefinito, appare, scompare, riappare, eguale al sorriso che<br />
trema tra le labbra di un bimbo appena nato e…”<br />
Le parole di Calea vengono interrotte dalle grida confusionarie di Ario che, saltando più di<br />
un puledro selvatico, gesticolando a braccia alzate tracciava segni nell’aria con le sue dita<br />
tozze e, in preda a un entusiasmo folle, come in un delirio, correndo tutto sciamannato,<br />
continua a urlare.<br />
Per quella corsa tutta in salita e per l’enormità della notizia che porta alla Divina, al<br />
ragazzo, tutto rosso in viso per l’eccitazione, gli gira la testa, saliti i gradini, in un subito si<br />
butta lungo steso per terra come una pecora stracca.<br />
“Graziosa padrona, padrona bella e gentile, Grande Madre, Divina Calea, regina <strong>delle</strong><br />
regine, ti porto un fagotto di notizie. ” Riesce a dire col poco fiato che gli è rimasto in gola.<br />
“Calmati ragazzo. Che c’è ancora?”<br />
“Se parlo, bella tra le belle, se ti porto finalmente una buona nuova, in cambio mi regalerai<br />
un cosciotto di porco arrostito?”<br />
“Spero sia veramente una buna nuova ragazzo, ma sì, deve essere così, perché… da<br />
come correvi in salita, sembravi il soldato Filippide quando andava ad annunciare ad<br />
Atene, la vittoria sui Persiani.”<br />
“Padrona bella e gentile, la mia, è una notizia ancora più grande.”<br />
“Più grande di una guerra vinta? Forse hai visto un buon segno nelle nuvole, nella tela<br />
dell’insetto architetto, negli uccelli del cielo, o dove altro? Se è così, invece di sturbarti e<br />
inginocchiarti come un cipresso sotto il vento, alzati, racconta lesto, che presagio, che<br />
buona nuova, che fagotto di notizie?”<br />
“Ascoltami graziosa padrona, stupenda stella d’Oriente,” riprese Ario, “non crederai alle<br />
tue gentili orecchie bella signora. Per correre ad avvertirti mi sono quasi scapicollato giù<br />
dalla rupe e per servirti meglio, strada facendo, non mi sono fermato neanche un istante a<br />
guardare come invece faccio sempre, la solita folla di scalpellini, tagliapietre che se ne<br />
stanno seduti attorno a un tavolo all’osteria del Gobbo e mentre l’ostessa versa loro coppe<br />
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di birra e barili di vino, imprecando contro la mala sorte continuano imperterriti a giocare a<br />
dati…”<br />
“Scalpellini?... ricominci con le tue storie? Tu… invece di andare in cerca di grilli, non<br />
dovevi essere nel giardino degli aranci?”<br />
“Certo, ma per arrivarci padrona bella, non devo forse attraversare il crocicchio tra l’osteria<br />
del Gobbo e le stalle di Checco? Però devi sapere che nel percorso inverso, per correre<br />
ad avvertirti, non mi sono fermato neanche ad aiutare Artemisia che stanchissima, usciva<br />
dalla stalla reggendo a fatica, con le sue piccole mani candide come burro, reggeva, il<br />
paiolo dove sgocciolava un latte denso e fumante appena munto e …”<br />
“Basta, non ricominciare.”<br />
“Lo so bene padrona bella e gagliarda che tu potresti punirmi, frustarmi, anzi, sono io<br />
stesso che vengo a pregarti in ginocchio di legarmi a un albero finché la tentazione non<br />
avrà smesso di tormentarmi ma...<br />
“Finiscila, allora?”<br />
“Allora,” riprese con vivacità Ario “sai bene padrona bella che mi avevi ordinato di fare la<br />
guardia negli orti e nei giardini nei pressi dello stagno. Per calmare la fame avevo appena<br />
rubato dalla zampe <strong>delle</strong> api una borsa di miele, dopo averlo mangiato, me ne stavo<br />
tranquillo a contemplare una poiana che con il suo becco uncinato, aveva appena scavato<br />
dalle radici di un oleandro una serpe e si accingeva a divorarla. Il vento forte che sempre<br />
soffia laggiù nei tuoi aranceti, cangiando di continuo, apriva e chiudeva i rami degli alberi<br />
come fossero ventagli di seta, all’improvviso, avanti a me, uno scoiattolo, rubò un frutto<br />
rotondo da una pianta. Ero lì che lo seguivo con gli occhi quando, attraverso la fragranza<br />
dei petali bianchi dei fiori d’arancio, come in un sogno, ho intravisto la coda ma<br />
soprattutto… le lunghe corna del tuo amico, il dio Pan.”<br />
“Davvero? Se è così, racconta lesto, ma non farmi un affresco, non fermarti come sempre<br />
a dipingere il suo ritratto.”<br />
“Nello splendore del tramonto, Pan, è arrivato cavalcando il suo caprone alato. E’ sceso ed<br />
è venuto avanti danzando allegramente sul bagnasciuga seguito dal suo solito corteggio di<br />
satiri, ninfe e ninfette. Mentre danzava, queste ultime gli servivano in piatti d’argento,<br />
albicocche, mirtilli, uva rossa, verdi fichi e more. Per servirti meglio padrona bella, ho<br />
lasciato il mio lavoro, ho abbandonato capre e cavoli e correndo a scapicollo, gli sono<br />
andato incontro festoso nella speranza di ballare certo, ma soprattutto di poter assaggiare<br />
qualcosa anch’io. Però, non appena mi sono presentato a lui come il più fedele di tuoi<br />
schiavi, invece di farmi mangiare o danzare assieme alle sue ninfette, il dio, subito mi ha<br />
ordinato di precipitarmi a portarti questo messaggio. Ascolta è tutto qui:<br />
Puoi liberare la giovanissima figlia di Giobbe.”<br />
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“Possibile?”<br />
“Sì! Per quanto ho potuto capire, padrona bella, pare che il dio Pan, finalmente ha<br />
superato la sorpresa, lo shock di non essere il solo nell’universo a suonare cosi bene il<br />
flauto.”<br />
“Alleluia. Questo è il vero principio di ogni saggezza.”<br />
“Anzi, Pan, mi ha confidato che quando Meravigliosa suonava il flauto, per la prima volta<br />
dopo millenni, non essendo costretto a sottostare alle voglie degli umani, ha potuto di<br />
nuovo andare a caccia del cervo dorato. Adesso invece ogni volta che qualsiasi mortale<br />
della terra pregando lo invoca, deve di nuovo suonare il suo flauto.”<br />
Calea ridendo felice ”Allora se è così, se possiamo liberare Meravigliosa, qualcuno dovrà<br />
andare subito a prenderla.”<br />
“Manda me padrona bella,”disse Ario, “manda me, sarò veloce, conosco bene la negra<br />
foresta impenetrabile, so a memoria la formula magica per aprire la porta invisibile del suo<br />
rifugio.”<br />
“Sì, andrai tu ragazzo mio, ora che tutti la rivogliono, corri Ario nel bosco, corri più veloce<br />
del vento, trova Meravigliosa e portala subito qui. Se hai fortuna potresti tornare per l’ora<br />
di cena, prometto che al tuo arrivo ti farò trovare arrostito, un bel cosciotto di porco<br />
selvatico appena preso in trappola e… non solo quello. Farai presto?”<br />
Ario rialzandosi da terra con l’elasticità di una molla, mentre gli occhi scuri e sornioni gli<br />
scintillavano più del lume di una lucciola in cerca del compagno, pieno di maliziosa gioia,<br />
rispose: “Per un cosciotto, padrona bella, per un cosciotto di porco arrostito posso anche<br />
volare e nel giro di una clessidra…anzi, nel tempo che occorre alla civetta a battere le ali,<br />
sentirai il mio respiro affannoso alle tue terga.” E saltando come una lepre, iniziò subito a<br />
scendere le scale.<br />
“Aspetta, aspetta Ario. Voglio che venga con te anche il principe Orfeo, ma…anzi, ho<br />
deciso di fare in altro modo. Per non rischiare di trovare impraticabile il sentiero, ecco,<br />
prendi con te questa brocca colma di miele ibleo, portala alla mia aquila dal capo bianco,<br />
appena essa avrà divorato il miele, sedete pure tranquilli sulle sue ali larghe, cavalcatela e<br />
lasciatevi condurre attraverso la macchia. L’aquila, volerà in alto, sempre più in alto, molto<br />
più in alto della foresta stessa, presto sorvolerà la scogliera, le bocche del fiume e, come<br />
una freccia scoccata dall’arco di una vergine guerriera, in un baleno vi porterà al ponte<br />
levatoio.<br />
E tu, principe, per convincere il tuo bianco giglio, la tua piccola… la nostra… piccola,<br />
grande regina a tornare tra noi, da parte mia dille che…perdoni le nostre colpe, il nostro<br />
cieco letargo. Dille che se fino a ieri, il suo dolce canto di allodola, singhiozzava<br />
incompreso e solitario nascosto tra le pieghe nel manto negro della notte, ora, in un subito,<br />
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come una marea che trascina e piega ogni cosa portandosi appresso tutto quello che<br />
incontra, il suo canto, si arrampica nel cuore della gente e arriva all’azzurro più azzurro<br />
scrivendo il suo nome a lettere di fuoco tra le gelide stelle.<br />
E…aggiungi pure, principe, che qualcuno…<br />
Sì! Qualcuno farà il nido sul suo ramo… prima di sera.”<br />
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