Pensavo fosse una scheda telefonica ed invece ... - Stefano Petrucci

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31.05.2013 Views

PENSAVO FOSSE UNA SCHEDA TELEFONICA E INVECE ERA UN CALESSE Stamattina non si vede Airo che va a caccia di lucertole e insetti nel nostro prato. C'è comunque sempre qualche cosa da osservare qui fuori: un movimento da carpire nel cielo o nell'erba, un fugace “savà” o “salaam, nagadef” dei passanti. La mia attenzione, però, è per le ultime pagine di un libro: “La via della fame”, di Ben Okri . Il sole è alto e i suoi raggi tagliano implacabili l'aria asciutta del vento dell'est. Chiudo il libro, lo stringo a me e porgo il viso al sole, con occhi chiusi. I miei pensieri se ne vanno in giro, tra le pagine della storia di un bambino nigeriano. Un bambino che vive e cresce nella fame africana. Un bambino magico che fa delle sofferenze una dolce melodia. Quante vite ci sono nel mondo. Ogni vita è diversa, ma pur sempre una lotta . Per qualcuno la lotta è più dura, priva di speranze. Forse è questo che veste i bambini africani di grandi sorrisi: l'incapacità di sognare. Con troppe speranze, troppi sogni, troppe ambizioni nel cuore si vive in un tempo che non c'è e non riesce a cogliere la felicità con semplicità. Non si riesce a catturare la vita nella sua essenza. Nel suo immobile fluire. In Africa i bambini non guardano la TV non navigano in Internet , non giocano con i capricci. In Africa i bambini vivono in strada, sulla terra e, con un barattolo di latta vanno in cerca di un pezzo pane, di un pesce, di un dattero. Qui la lotta è più dura, ma i sorrisi sono più belli. «Eh! Stef!». La voce di tamburo squillante di Adamo si inserisce bene nel pentagramma dei miei pensieri. «Adamo! Nagadef?». E ' ormai una abitudine la visita mattutina di Adamo. Dopo il solito saluto verbale e una sequenza coreografica di innumerevoli strette di mano che durano un paio di minuti, ci sediamo e restiamo un po' in silenzio. Solo quando uno di noi ha qualcosa da dire o da chiedere si rivolge all'altro con acrobazie linguistiche. E' come uno slalom. Appena il nostro vocabolario di francese si inceppa passiamo all'inglese, poi all'italiano e perfino al wolof e allo spagnolo. E così alla fine riusciamo a capirci, o perlomeno questa è la sensazione. E ' una malattia della quale non ho mai sofferto, ma sono curioso di sapere se nella loro lingua (il wolof) c'è una parola che indica la “noia”. Mi risponde di sì (....) e così lo informo che esistono delle popolazioni nel mondo come alcune tribù indigene sudamericane o delle isole tropicali o degli aborigeni d'Australia che non hanno nella loro lingua un termine che significa “noia”. Adamo non sembra stupito né interessato e così mi guarda interrogativo come se cercasse di capire che cosa c'è ne può importare a noi, stamattina, che qualcuno nel mondo non sappia cosa sia la noia. Ci accordiamo di andare insieme a Mbour per comprare la carta telefonica internazionale per il mio cellulare. Sono due settimane che manco dall'Italia e la necessità di essere aggiornato sull'andamento della mia agenzia è sempre più pressante. Decidiamo di partire alle 16.00, questa volta con un calesse. Nel frattempo lui si sarebbe informato sulla possibilità di acquistare una carta telefonica che mi consenta di parlare con l'estero. Silvia prepara una busta piena di “bon bon” e “cadeaux” (biscotti, pane, caramelle) e ci raggiunge in spiaggia dove la aspettiamo già sul calesse. Sarà un bel somaro fulvo a condurci a Mbour, sotto le frustate di Abdui Ai. Adamo ci fa da accompagnatore e tutti e quattro siamo seduti alla meglio su un pianale di legno appoggiato su

PENSAVO FOSSE UNA SCHEDA TELEFONICA<br />

E INVECE ERA UN CALESSE<br />

Stamattina non si v<strong>ed</strong>e Airo che va a caccia di lucertole e insetti nel nostro prato.<br />

C'è comunque sempre qualche cosa da osservare qui fuori: un movimento da carpire nel cielo o nell'erba, un<br />

fugace “savà” o “salaam, nagadef” dei passanti.<br />

La mia attenzione, però, è per le ultime pagine di un libro: “La via della fame”, di Ben Okri .<br />

Il sole è alto e i suoi raggi tagliano implacabili l'aria asciutta del vento dell'est.<br />

Chiudo il libro, lo stringo a me e porgo il viso al sole, con occhi chiusi. I miei pensieri se ne vanno in giro, tra le<br />

pagine della storia di un bambino nigeriano. Un bambino che vive e cresce nella fame africana. Un bambino<br />

magico che fa delle sofferenze <strong>una</strong> dolce melodia.<br />

Quante vite ci sono nel mondo. Ogni vita è diversa, ma pur sempre <strong>una</strong> lotta . Per qualcuno la lotta è più dura,<br />

priva di speranze.<br />

Forse è questo che veste i bambini africani di grandi sorrisi: l'incapacità di sognare.<br />

Con troppe speranze, troppi sogni, troppe ambizioni nel cuore si vive in un tempo che non c'è e non riesce a<br />

cogliere la felicità con semplicità. Non si riesce a catturare la vita nella sua essenza. Nel suo immobile fluire.<br />

In Africa i bambini non guardano la TV non navigano in Internet , non giocano con i capricci. In Africa i<br />

bambini vivono in strada, sulla terra e, con un barattolo di latta vanno in cerca di un pezzo pane, di un pesce, di<br />

un dattero. Qui la lotta è più dura, ma i sorrisi sono più belli.<br />

«Eh! Stef!». La voce di tamburo squillante di Adamo si inserisce bene nel pentagramma dei miei pensieri.<br />

«Adamo! Nagadef?».<br />

E ' ormai <strong>una</strong> abitudine la visita mattutina di Adamo. Dopo il solito saluto verbale e <strong>una</strong> sequenza coreografica<br />

di innumerevoli strette di mano che durano un paio di minuti, ci s<strong>ed</strong>iamo e restiamo un po' in silenzio. Solo<br />

quando uno di noi ha qualcosa da dire o da chi<strong>ed</strong>ere si rivolge all'altro con acrobazie linguistiche.<br />

E' come uno slalom. Appena il nostro vocabolario di francese si inceppa passiamo all'inglese, poi all'italiano e<br />

perfino al wolof e allo spagnolo. E così alla fine riusciamo a capirci, o perlomeno questa è la sensazione.<br />

E '<br />

<strong>una</strong> malattia della quale non ho mai sofferto, ma sono curioso di sapere se nella loro lingua (il wolof) c'è <strong>una</strong><br />

parola che indica la “noia”. Mi risponde di sì (....) e così lo informo che esistono delle popolazioni nel mondo<br />

come alcune tribù indigene sudamericane o delle isole tropicali o degli aborigeni d'Australia che non hanno<br />

nella loro lingua un termine che significa “noia”. Adamo non sembra stupito né interessato e così mi guarda<br />

interrogativo come se cercasse di capire che cosa c'è ne può importare a noi, stamattina, che qualcuno nel<br />

mondo non sappia cosa sia la noia.<br />

Ci accordiamo di andare insieme a Mbour per comprare la carta <strong>telefonica</strong> internazionale per il mio cellulare.<br />

Sono due settimane che manco dall'Italia e la necessità di essere aggiornato sull'andamento della mia agenzia è<br />

sempre più pressante.<br />

Decidiamo di partire alle 16.00, questa volta con un calesse. Nel frattempo lui si sarebbe informato sulla<br />

possibilità di acquistare <strong>una</strong> carta <strong>telefonica</strong> che mi consenta di parlare con l'estero.<br />

Silvia prepara <strong>una</strong> busta piena di “bon bon” e “cadeaux” (biscotti, pane, caramelle) e ci raggiunge in spiaggia<br />

dove la aspettiamo già sul calesse. Sarà un bel somaro fulvo a condurci a Mbour, sotto le frustate di Abdui Ai.<br />

Adamo ci fa da accompagnatore e tutti e quattro siamo s<strong>ed</strong>uti alla meglio su un pianale di legno appoggiato su


di un telaio in tubi ferro arrugginito. Le ruote sono copertoni di automobile, <strong>una</strong> diversa dall'altra, un po' sgonfie <strong>ed</strong><br />

ovalizzate. Le briglie sono ritagli di stoffe diverse annodate qua e là. Abdui Ai incita il somaro e, con un colpo di<br />

frusta fatta di corda e schioccando le labbra, il calesse comincia la sua lenta corsa. Sono fatti così i calesse qui. I più<br />

ricchi hanno il cavallo, s<strong>ed</strong>ili per tre o quattro persone e decorazioni molto vivaci. Il nostro percorso è sul lungo<br />

mare di sabbia che per circa quattro chilometri divide Saly da Mbour .<br />

A destra (ovest) c'è l'oceano, a sinistra (est) si alternano ricchi hotel europei a poveri villaggi di capanne e dune di<br />

sabbia. Noi andiamo verso sud e sappiamo che nonostante il tragitto sarà breve saranno tante le cose che v<strong>ed</strong>remo.<br />

Soffia ancora il vento fresco dell'est, ma il sole che a ovest comincia la lenta discesa verso il tramonto continua a<br />

infuocare la pelle.<br />

Di tanto in tanto, mentre il calesse continua placido la sua andatura a singhiozzo, Adamo scende per raccogliere tra<br />

le alghe dei coralli viola per Silvia.<br />

Grandi distese di sabbia color avorio fanno da sfondo a rari corpi neri scolpiti come statue. La spiaggia ora diviene<br />

<strong>una</strong> palestra all'aperto e così i più atletici vengono qui ad allenarsi. Ecco <strong>una</strong> falcata da pantera fendere l'aria<br />

ritmando con il passo il battito della terra. Il sudore, come l'olio sul mogano, leviga e fa brillare i muscoli in<br />

tensione. Collo eretto, sguardo in avanti e spalle modellate dal vento. Ora un altro, con molleggi felini, salta la<br />

corda. Più in là qualcuno si flette a terra per tonificare i pettorali.<br />

Ecco davanti a noi si scorgono le gesta di due lottatori. Intorno a loro un cerchio di bambini e ragazzi che, in attesa<br />

del loro turno, formano il ring. Al centro le tracce di sabbia e sudore sui lottatori segnati dalla fatica. Nei pressi dei<br />

villaggi la vita sulla spiaggia si fa più movimentata.<br />

Decine di bambini affamati, un po' per gioco, un po' per guadagnarsi qualcosa si lanciano all'inseguimento del<br />

nostro calesse.<br />

In pochi minuti la nostra scia è formata da uno stuolo di bambini festanti che urlano «Messieur, ...Madame,<br />

...Tubab, ...cadeaux, cadeaux, cadeaux...».<br />

Non appena apro la busta con i biscotti, il pane e le caramelle scoppia il finimondo. Altri bambini spuntano dal<br />

mare, da dietro le barche e dai cespugli.<br />

Voci di bambini che gridano,... il calesse aumenta la velocità, ma io vivo tutto al rallentatore. Sotto shock.<br />

Ora le manine con i palmi scuri rivolti al cielo sono decine e decine. Le braccine secche, come un grande ventaglio,<br />

<strong>una</strong> sull'altra convergono tutte verso un unico punto: <strong>una</strong> mano bianca che porge un pezzo di pane. Scelgo <strong>una</strong> delle<br />

mani supplichevoli che al contatto col pane si stringe, si ritira. Quel bimbo ora non corre più. E ' rimasto indietro. Ha<br />

guadagnato un pezzo di pane e sorride.<br />

All'inseguimento del calesse ci sono però tutti gli altri e altri ancora. Da quando ho dato il primo pezzo di pane, nei<br />

loro volti non c'è più un sorriso ma <strong>una</strong> smorfia di terrore. Il terrore di rimanere a mani vuote. Le loro bocche sono<br />

semiaperte, gli occhi imploranti sono sgranati e trasformati dalla tristezza. Improvvisamente avverto un vuoto, non<br />

mi sento appagato a dare solo delle briciole, anzi provo un profondo disagio. Non posso fare altro: la mia misera<br />

parte di turista tubab che dispensa beneficenza come se giocasse con un souvenir. E così la mia mano impazzita<br />

pesca dalla busta e con un gesto improvviso riempie un'altra mano. Anche Silvia comincia a distribuire attingendo<br />

alla stessa busta. Siamo completamente circondati dai bambini. A questo punto il calesse non può che fermarsi. Le<br />

voci dei bambini si fanno sempre più forti.<br />

Adamo e Abdul Ai, anche loro spaventati dall'idea di finire il cibo, ci indicano premurosamente i bimbi più<br />

bisognosi. Eccone uno dietro a tre file di altri bambini più lesti. Si tiene indietro. Sembra stordito. Non chi<strong>ed</strong>e nulla<br />

e <strong>invece</strong> ha più bisogno di tutti. E '<br />

vestito di <strong>una</strong> sola canottiera bucata, unta a tal punto da essere del colore della sua<br />

pelle. E' retta dalla sola spallina destra. In mano ha un bastoncino che porta al volto con un gesto di timidezza. Gli<br />

occhi e i denti sono in fuori. La pelle è macchiata di sale e sudore rappreso. Dal naso due tracce di muco antico<br />

scendono fino al mento. Gli lancio un pezzo di pane che gli cade a terra. Lo raccoglie e mentre molto lentamente<br />

comincia a mangiarlo, mi guarda fissandomi con i suoi grandi occhi. Noto il suo ventre gonfio, dilatato dalla fame.<br />

In pochi minuti tutto il contenuto del nostro sacchetto è svanito. Una dozzina di bambini non hanno ricevuto niente


e così riprendono a inseguirci.<br />

Chi<strong>ed</strong>iamo ad Adamo di dirgli di aspettare lì, che torneremo a portargli qualcosa.<br />

Così molti di loro si fermano subito, altri, <strong>invece</strong>, instancabili proseguono la corsa. Tra loro c'è <strong>una</strong> bambina<br />

che mentre corre si esibisce con grandi sorrisi in danze, saltelli e moine. Con sé ha <strong>una</strong> grande bacinella di<br />

latta, vuota, segnata solo dalla sporcizia. La porta sulla testa miniando le donne che vanno al mercato con i<br />

calabas sulla testa.<br />

Ha un vestito sudicio che tradisce <strong>una</strong> fantasia a fiorellini. E' magrissima, quasi uno scheletro. Sembra abbia<br />

perso tutti i capelli. Anche lei ha i denti e gli occhi in fuori su di un volto di pelle tirata. Ma lei, come se<br />

attingesse energie da <strong>una</strong> misteriosa fonte, continua a correre, a danzare e gridare nonostante il sudore e il<br />

fiatone. Sono preoccupato per lei e per quest'altro bambino di massimo quattro anni che ora ha <strong>una</strong> bolla di<br />

muco che gli spunta da <strong>una</strong> narice. E' molto stanco. Ha un'espressione disperata, ma appena i nostri sguardi si<br />

incontrano accenna un sorriso. Supplico Adamo di spiegarli che torneremo, di non correre più, di aspettarci lì.<br />

Niente da fare: ci seguono fino a Mbour.<br />

Preso dai bambini quasi non avvertivo il crescere del tanfo del pesce che preannuncia il porto di Mbour.<br />

Superiamo le piroghe messe a secco dalle quali sbucano teste di altri bambini, tagliamo la distesa di pesce<br />

secco attraverso <strong>una</strong> leggera salita che fa inclinare pericolosamente il calesse. Infiliamo <strong>una</strong> stradina di sabbia<br />

e terra che gira intorno a capanne adibite a botteghe e abitazioni. Sono tutte aperte, a vista. Dentro ora c'è<br />

qualcuno che dorme, ora qualcuno che prepara un tè. Qualcun'altro sembra indaffarato in qualcosa di poco<br />

conto. Pian piano l'odore di pesce lascia il posto a profumi diversi , dolciastri, ma anche questi molto intensi.<br />

Di tanto in tanto fetori robusti schiaffeggiano l'olfatto. Le mosche volteggiano a migliaia ,<br />

inebriate dall'aria


intrisa di prelibate essenze.<br />

Non tutte le capanne hanno un tetto. Alcune hanno perfino dei mattoni messi qua e là come sostegno. Il resto<br />

viene messo su con materiali di fort<strong>una</strong>. All'interno non c'è nulla. Non c'è pavimento, non ci sono tavoli,<br />

armadietti, utensili. Niente. Solo qualche stuoia, <strong>una</strong> due ciotole e se va bene <strong>una</strong> s<strong>ed</strong>ia rotta.<br />

Le strade della periferia di Mbour si presentano come dei resti di baracche dopo un uragano.<br />

Pian piano che si arriva sulle vie commerciali del villaggio le strade si fanno più sporche e più affollate. I<br />

calesse sfrecciano sulla sabbia e tra loro e i p<strong>ed</strong>oni si infilano le poche macchine in circolazione che, come in<br />

un rally senza regole, zig-zagano strombazzando. Sono decine gli incidenti mancati per poco. I p<strong>ed</strong>oni appena<br />

scampati agli incidenti, sembrano abituati a questo e non fanno cenni di protesta. In un cortile adiacente a un<br />

cantiere dove alcuni operai fanno <strong>una</strong> lunga siesta, troviamo finalmente il negozio delle carte telefoniche. E'<br />

chiuso. Oggi è venerdì: il primo dell'anno. Bisognerà tornare lun<strong>ed</strong>ì. E' per questo che siamo venuti fìn qui, ma<br />

non importa. In Africa da subito abbiamo imparato che se esci per fare qualcosa rischi di dimenticarne il<br />

motivo perché ti capita sempre tutt'altro. «Al diavolo la carta <strong>telefonica</strong>» propone Silvia «Perché non<br />

spendiamo quei soldi per comprare qualche indumento e qualcosa da mangiare per quei<br />

bambini?» «Giusto, meglio così» rispondo. Così risaliamo sul calesse e ci dirigiamo verso il mercato delle<br />

stoffe.<br />

Alle spalle delle prime anguste baracche di stoffe colorate si apre <strong>una</strong> piccola piazza formata da <strong>una</strong> distesa di<br />

bancarelle piene di maglie, tessuti, calze, mutande, pantaloni. C'è sia il nuovo che l'usato. Spesso sulle cataste<br />

di merce c'è qualcuno che dorme. Camminiamo in fila indiana scivolando tra gli stretti passaggi del labirinto<br />

di bancarelle e gente.<br />

A Mbour, rispetto ad altri villaggi è più facile incontrare dei tubab . Ma è comunque un fatto raro. Per questo<br />

alle nostre spalle si crea sempre <strong>una</strong> coda di gente che ci invita a visitare la propria bottega o bancarella e<br />

perfino la casa, nella speranza di riuscire a guadagnare qualche CFA (sefà) dal nostro fugace passaggio . Le<br />

donne con <strong>una</strong> mano ci afferrano per il gomito e con l'altra ci mostrano la loro mercanzia. Hanno vestiti<br />

coloratissimi di gialli accecanti, verdi e azzurri squillanti, rossi aggressivi. Alcune di loro sono bellissime: le<br />

più giovani vestite di sole t-shirt e gonne annodate ai fianchi, quando si muovono con le loro andature<br />

musicali, non possono celare forme sensuali dalle perfette proporzioni. Queste non hanno il turbante del<br />

colore del vestito come le donne più anziane, ma sfoggiano capelli stupendi, curati.<br />

Al mercato è più facile trovare venditori e venditrici che hanno vinto la fame. Qui incontriamo Saliou, un<br />

amico che ci ha accompagnato nella nostra prima visita a Mbour. E ' lui che ci indica <strong>una</strong> bancarella fatta al<br />

nostro caso. Qui compriamo dieci completini di magliette e pantaloncini di buona qualità per i bimbi che ci<br />

aspettano sulla spiaggia.<br />

Prima di rimetterci in cammino compriamo un casco di banane, due papaia, un po' di pane e bon bon fritti per i<br />

bambini. Do cento sefà a Saliou e lasciamo il centro del villaggio per avviarci verso il porto e il mercato del<br />

pesce, al di là dei quali c'è la via del ritorno per Saly.<br />

Nei press i<br />

delle ultime coloratissime e giganti piroghe tirate a secco, ecco i bambini che aspettavano il nostro<br />

ritorno. Sono moltissimi, più di prima. E così ricomincia lo spietato gioco della fame. Di fronte a noi molte<br />

corde tese imp<strong>ed</strong>irebbero il cammino al nostro calesse se premurosamente due dei bambini, uno a destra e<br />

l'altro a sinistra non mettessero velocemente sotto i loro pi<strong>ed</strong>i i lunghi fili che tengono legate alla spiaggia<br />

alcune barche ferme in mare per pescare.<br />

Lo strano corteo, come <strong>una</strong> valanga nera che si gonfia lungo il cammino, non smette di richiamare altri<br />

bambini urlanti. In pochi secondi tutte le nostre scorte sono esaurite e così siamo costretti a dargli anche le<br />

buste vuote per far capire che è tutto finito. La scia nera di bambini si blocca. Non corre più. Ora ci salutano,<br />

sorridono e ringraziano. Alcuni di loro non demordono: sono qui come incollati tutt'intorno al calesse. Ora che


sono rimasti in pochi e più tenaci decidiamo di regalare i completini. I bambini rimasti indietro capiscono.<br />

La corsa ricomincia. In brevissimo riacciuffano il calesse per conquistarsi <strong>una</strong> maglietta nuova. Per<br />

accontentare più bimbi possibile non diamo i completini interi, ma magliette e pantaloncini separati. Tra di<br />

loro dapprima si azzuffano tirandosi gli indumenti da un capo all'altro. Ma presto stabiliscono un accordo.<br />

Tra loro c'è generosità. Sanno dividere nel bisogno. Così ora sembrano tutti felici. Cominciano a scambiarsi<br />

le robe e le indossano subito. Ora salutano più contenti, ci sono riconoscenti. Da lontano alcune mamme<br />

salutano e ringraziano.<br />

Ci allontaniamo dal villaggio e presto la spiaggia diviene deserta.<br />

Una maglietta, la più bella, l'abbiamo messa da parte per il figlio di Adamo che accetta il regalo con stupore<br />

e felicità.<br />

Ora c'è silenzio sul calesse. Ognuno sembra rapito da <strong>una</strong> pioggia di pensieri. Sento persistere un puzzo di<br />

pesce e guardandomi intorno scorgo un sacco di iuta sotto il mio s<strong>ed</strong>ere: è pieno di pesce secco che Abdui Ai<br />

ha comprato al mercato come provvista. Tra l'altro non mi ero neanche accorto che sul calesse c'è <strong>una</strong> quinta<br />

persona. Usman, un amico di Adamo al quale diamo un passaggio per Ngaparù, un villaggio non molto<br />

distante da Saly. Con se ha un bellissimo tronco di tek rosso appena scortecciato.<br />

Anche il mare si è addolcito, continua a infrangersi, ma lo fa come se stesse sonnecchiando. Il sole è <strong>una</strong><br />

palla di fuoco rosso arancione e comincia a nascondersi dietro il mare. Sulle dune gli atleti fanno gli ultimi<br />

esercizi.<br />

Sono stordito dal fascino di questi bambini. Nauseato dalla differenza tra me e loro. Insoddisfatto degli<br />

effimeri cadeaux.<br />

Ma c'è qualcosa che mi rattrista di più: di non aver incontrato al ritorno la bambina con il vestito a fiori, la


grande ciotola e le moine da attrice. Forse lei aveva più bisogno degli altri. Il mio cuore piange. Gonfio d'amore e di desiderio di cambiare.<br />

Ho la certezza che da questo giorno nulla sarà lo stesso per la mia vita. Non si può partecipare a questo<br />

gioco senza essere segnato duramente dagli impietosi e opposti ruoli.<br />

Oggi l'Italia è molto lontana. La mia vita, il mio mondo sono in un altro pianeta. Vorrei perdere<br />

l'indirizzo di quel pianeta e trovarmi eterno vagabondo a nutrirmi delle bellezze della terra.<br />

So che con me ci sarà sempre Dio, che per me, per Silvia e per quei bambini ha preparato grandi disegni.<br />

Senza staccare gli occhi dal sole che ora per metà galleggia sull'orizzonte dirigo i miei pensieri ad alta<br />

voce a Silvia: «Se il lavoro ci aiuterà viaggeremo di più, ancora di più. Per tutto il mondo. In te ho il<br />

migliore compagno di viaggio».<br />

«Anche io lo vorrei. <strong>Pensavo</strong> proprio a questo» mi risponde come se avessi letto nel suo cuore. Anche<br />

lei ha gli occhi tristi, ma pieni d'amore.<br />

Il sole con un ultimo bagliore scompare dietro al mondo, ma lascia un ricordo di se nel rosso viola delle<br />

nuvole striate. Il somaro si ferma. E' esausto, ma ha fatto egregiamente il suo lavoro.<br />

Abdui Ai e Adamo guardano gli ultimi raggi di sole con la massima concentrazione e con l'acquolina in<br />

bocca. Dopo il tramonto finisce il digiuno del Ramadan, così subito e quasi con avidità sorseggiano un<br />

po' d'acqua e mangian o<br />

due datteri.<br />

Ci lasciano davanti la nostra casa e fugacemente ci salutano per poi ripartire più veloci di prima: ora c'è<br />

un pasto caldo che gli aspetta.

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