UN'INAUGURAZIONE E DUE ACCORATI APPELLI - FIAP
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UN’INAUGURAZIONE<br />
E <strong>DUE</strong> <strong>ACCORATI</strong> <strong>APPELLI</strong><br />
Nella mattinata del 9 maggio<br />
2009 è stato inaugurato,<br />
nella sede del Centro Studi<br />
“Piero Ginocchi”, dinanzi<br />
ad un centinaio di invitati,<br />
il Centro di Documentazione Arabo-<br />
Africano, costituito con le donazioni di<br />
Angelo Del Boca e di Anwar Fekini. Qui<br />
di seguito pubblichiamo il testo del mio<br />
intervento.<br />
1. Oggi, 9 maggio 2009, apriamo qui a Crodo,<br />
agli studiosi, il Centro di Documentazione<br />
Arabo-Africano. Si tratta di una biblioteca<br />
costituita da alcune migliaia di volumi, nelle<br />
principali lingue europee, che illustrano principalmente<br />
la storia, gli orientamenti politici,<br />
i costumi dei paesi dell’Africa mediterranea e<br />
sub-sahariana. Ad integrare e ad arricchire<br />
questa già enorme collezione di libri, affianchiamo<br />
una seconda raccolta, molto più difficile<br />
da reperire in Italia, perchè in lingua originale<br />
araba. Questa seconda raccolta è destinata<br />
soprattutto a quegli studiosi che già<br />
conoscono l’arabo, ma può essere consultata<br />
anche da persone che ignorano questa lingua,<br />
perchè di ogni volume abbiamo fatto redigere<br />
una scheda che comprende la traduzione in<br />
italiano e in inglese del titolo e di una breve<br />
sintesi del testo.<br />
Vi chiederete perché il sottoscritto e l’avvocato<br />
libico Anwar Fekini hanno deciso di costituire<br />
questo Centro di Documentazione<br />
Arabo-Africano. I motivi di questa scelta sono<br />
molteplici. Innanzitutto abbiamo avvertito<br />
l’esigenza di creare un fondo, di notevole rilevanza,<br />
che possa colmare una lacuna fin troppo<br />
evidente, quella della conoscenza<br />
dell’Africa, oggi appannaggio soltanto degli<br />
specialisti.<br />
Il secondo motivo, non meno importante, è la<br />
constatazione che il nostro paese è investito,<br />
da qualche tempo, da un’ondata di razzismo<br />
che ha già prodotto molti e ripugnanti episodi.<br />
Quegli africani che giungono a migliaia<br />
sulle nostre coste meridionali, in gran parte<br />
EDITORIALE<br />
di Angelo DEL BOCA<br />
in cerca di lavoro, altri per sfuggire a regimi<br />
tirannici, non sono percepiti come esseri<br />
umani, con gli stessi nostri diritti, ma come<br />
esseri “diversi”, appartenenti ad un altro<br />
mondo, il cui contagio è definito da taluni<br />
come pericoloso e insopportabile. Si è giunti a<br />
proporre di respingerli in mare a forza di cannonate.<br />
E il massimo dell’ospitalità è fornito<br />
nei cosiddetti “campi di permanenza temporanea”,<br />
che non sono molti diversi, per la<br />
durata del soggiorno obbligatorio e per il tipo<br />
di trattamento alberghiero, ai campi di concentramento.<br />
Contro questa marea montante di razzismo e<br />
di prescrizioni incivili, Fekini ed io ci siamo<br />
ribellati. Ad imporci questo atteggiamento è<br />
la stessa storia delle nostre vite. Anwar Fekini<br />
è nipote di Hadj Mohamed Khalifa Fekini,<br />
capo della cabila dei Tarabulsi e Rogebani, il<br />
quale per vent’anni si è opposto alla dominazione<br />
degli italiani sulla Libia, perdendo nell’aspra<br />
lotta due figli e altri parenti. La mia<br />
scelta di campo è nota. Sessantacinque anni<br />
fa, nel maggio radioso del 1945, ero a<br />
Piacenza, che avevamo liberata dopo tre giorni<br />
di combattimenti contro i nazi-fascisti. Da<br />
allora ho sempre cercato di essere coerente<br />
con la mia scelta antifascista.<br />
C’è infine un terzo motivo che ci ha spinto a<br />
costituire il Centro di Documentazione<br />
Arabo-Africano, e a scegliere quale sede<br />
Crodo, in Val d’Ossola. Una terra alla quale<br />
sono personalmente legato per motivi famigliari<br />
e sentimentali.<br />
Una terra dove la popolazione, abituata da<br />
secoli a difendere con ogni mezzo i propri<br />
diritti e le proprie autonomie, non accettò mai<br />
supinamente la presenza brutale dei nazisti e<br />
dei loro servitori fascisti. Per quarantaquattro<br />
giorni, nell’autunno del 1944, si costituì in<br />
repubblica partigiana stimolando in<br />
Gianfranco Contini questo splendido ricordo:<br />
“Chi è stato nell’Ossola fra il settembre e l’ottobre<br />
’44 ha veramente respirato l’aria esilarante<br />
della libertà, non corrotta dalla consuetudine.(...)<br />
Se qualcuno osa discorrere di<br />
Lettera ai compagni<br />
3
EDITORIALE<br />
“avventura”: ebbene valeva la pena di viverla”.<br />
A questa terra ossolana, dunque, leghiamo<br />
questo Centro di Documentazione Arabo-<br />
Africano, le cui finalità ci sembrano in sintonia<br />
con le pagine di storia che la Giunta provvisoria<br />
di governo dell’Ossola ha scritto nel<br />
1944, in quell’irripetibile laboratorio di<br />
democrazia. A questa terra ho anche deciso di<br />
donare, oltre alla mia biblioteca africana, l’intera<br />
mia collezione di libri, i miei archivi, le<br />
decine di migliaia di lettere che raccontano la<br />
storia di “Studi Piacentini” e de “I sentieri<br />
della ricerca”, le due riviste di storia contemporanea<br />
che ho diretto dal 1987 ad oggi.<br />
Infine, per costituire un unicum del mio<br />
patrimonio librario, dispongo che il 24 maggio<br />
2025, alla scadenza del “deposito” che ho<br />
effettuato presso la biblioteca dell’Istituto<br />
Storico della Resistenza di Piacenza, siano<br />
trasferiti al Centro Studi di Crodo i 4.437<br />
volumi e 6.812 riviste depositati a Piacenza in<br />
base alla convenzione tra il Comune di<br />
Piacenza e il sottoscritto.<br />
Non è stato facile ordinare, classificare e poi<br />
ospitare queste montagne di libri. Per cominciare<br />
abbiamo dovuto far costruire, in legno<br />
massello, dalla ditta De Giovanni di Cuneo,<br />
50 scaffali alti quattro metri, con una spesa di<br />
oltre 60 mila euro, interamente pagati da due<br />
generosi sponsor, l’avvocato Anwar Fekini e<br />
l’assessorato alla Cultura della Regione<br />
Piemonte, che qui ringraziamo. Quando salirete<br />
al primo piano, nella sala di lettura, lo<br />
spettacolo offerto dai giganteschi scaffali non<br />
potrà non stupirvi.<br />
2. Poiché il tema di questo incontro è l’Africa,<br />
è con soddisfazione che ricordiamo una<br />
buona notizia. Il 2 marzo scorso è stato infatti<br />
ratificato a Sirte, in Libia, il trattato di amicizia,<br />
partenariato e cooperazione che il premier<br />
Silvio Berlusconi e il leader libico<br />
Muammar Gheddafi hanno firmato il 30 agosto<br />
2008 a Bengasi.<br />
Si tratta di un avvenimento di importanza<br />
storica. Dopo decenni di tensioni fra i nostri<br />
due paesi, finalmente si è chiusa una vertenza<br />
che non ci faceva onore. Si è chiusa con le<br />
parole che il popolo libico, che dalla dominazione<br />
italiana ha sofferto danni incalcolabili e<br />
il tragico bilancio di 100 mila morti, si aspettava<br />
da più di sessant’anni. “Ancora una volta<br />
e formalmente - ha dichiarato il premier ita-<br />
4 Lettera ai compagni<br />
liano - accuso il nostro passato di prevaricazione<br />
e vi chiedo perdono. Il passato che con<br />
questo trattato vogliamo mettere alle spalle è<br />
un passato di cui noi, figli dei figli, sentiamo<br />
una colpa di cui chiedervi perdono. Nessun<br />
popolo può avere il diritto di sottomettere e<br />
governare un altro popolo, sottraendogli la<br />
propria cultura e le proprie tradizioni”.<br />
“Accettiamo le scuse dell’Italia per l’occupazione<br />
colonialista - ha risposto il colonnello<br />
Gheddafi - e prego tutti i libici di vincere i<br />
risentimenti e tendere la mano ai loro amici<br />
italiani in un rapporto paritario, di rispetto<br />
reciproco”.<br />
Qualche giorno dopo, a Villa Madama,<br />
Berlusconi replicava le scuse nei confronti del<br />
popolo libico, denunciando le malefatte del<br />
colonialismo giolittiano e fascista, non limitandosi<br />
ad una critica generica ma entrando<br />
nei dettagli delle atrocità compiute fra il 1911<br />
e il 1932 : “Centotrentamila persone messe in<br />
campo di concentramento. Bombe avvelenate<br />
sulle oasi.<br />
I nostri aerei hanno mitragliato questi poveracci,<br />
lasciando una marea di cadaveri, e<br />
migliaia di altre persone sono state confinate<br />
alle Tremiti”. Commentando l’intervento del<br />
presidente del Consiglio scrivevamo sul<br />
“Corriere della Sera”: “Finalmente le parole<br />
giuste”. Ma aggiungevamo: “Se Berlusconi, o<br />
uno dei premier che lo hanno preceduto,<br />
avesse parlato prima con chiarezza, facendo<br />
meno promesse, avremmo potuto ora sborsare<br />
meno denaro”. Perchè ai risarcimenti<br />
materiali, i libici hanno sempre preferito<br />
quelli morali, ossia il riconoscimento chiaro,<br />
inequivocabile delle colpe coloniali.<br />
Il risultato ottenuto è comunque confortante.<br />
Ma avendo finalmente imboccato la strada<br />
giusta, potremmo fare di più estendendo la<br />
nostra richiesta di perdono a tutti popoli africani<br />
che l’Italia ha invaso e dominato a partire<br />
dal 1885.<br />
Nel marzo del 2007 suggerivo, dalle colonne<br />
del quotidiano “la Repubblica”, di istituire<br />
una Giornata della memoria per i 500 mila<br />
africani che l’Italia crispina, giolittiana e<br />
fascista hanno sacrificato nel corso delle loro<br />
campagne di conquista. La mia proposta<br />
veniva raccolta da un gruppo di ventitrè parlamentari<br />
del centrosinistra, che metteva a<br />
punto una proposta di legge, in tre articoli, il<br />
cui primo firmatario era Jacopo Venier. Il 12
aprile 2007 l’iniziativa veniva discussa a<br />
Roma, alla Facoltà di Lettere della Sapienza.<br />
Successivamente la proposta di legge è stata<br />
depositata in Parlamento, ma non è arrivata<br />
neppure in commissione perchè il governo<br />
Prodi è caduto.<br />
Rattristato per la fine ingloriosa della mia<br />
proposta, scrivevo nel mio ultimo libro autobiografico:<br />
“Pensare che in questa atmosfera<br />
melmosa si possa ancora fare affidamento sui<br />
sentimenti dell’onore e della pietà è una vana<br />
speranza. I cinquecentomila africani senza<br />
nome e senza volto, uccisi due volte, riposino<br />
in pace”. Ma qualcosa è cambiato in questi<br />
ultimi tempi.<br />
Se le parole hanno un significato e un peso, e<br />
quelle pronunciate da Berlusconi a Sirte e a<br />
Villa Madama non possono non averlo, allora<br />
posso ancora nutrire la speranza che la mia<br />
proposta di legge possa essere ripresentata in<br />
Parlamento, e questa volta dalla maggioranza<br />
e dall’opposizione. Con questo atto si raggiungerebbe<br />
l’obiettivo di riconoscere ufficialmente,<br />
per tutte le colonie fasciste e prefasciste,<br />
le colpe e gli orrori del nostro passato<br />
coloniale nella maniera più<br />
esplicita, nobile e definitiva.<br />
Per una volta, avremmo raggiunto<br />
un traguardo che altre<br />
nazioni colonialiste, come la<br />
Gran Bretagna e la Francia,<br />
non hanno neppure ipotizzato,<br />
pur essendo più avanti di<br />
noi nella discussione sul fenomeno<br />
del colonialismo.<br />
3. Da questo lembo dell’Ossola<br />
partigiana, vorrei lanciare un<br />
altro appello, ancora più pressante<br />
e significativo. Era in<br />
discussione, sino a qualche<br />
giorno fa, alla Commissione<br />
Difesa della Camera dei<br />
Deputati, il progetto di legge<br />
n. 1360, presentato il 23 giugno<br />
2008 da quarantadue<br />
parlamentari della maggioranza.<br />
Si tratta del quarto tentativo,<br />
dopo quelli del 1994,<br />
2001 e 2006, di equiparare<br />
tutti i combattenti della seconda<br />
guerra mondiale, in modo<br />
particolare porre sullo stesso<br />
EDITORIALE<br />
piano i partigiani del Corpo Volontari della<br />
Libertà e i soldati che hanno combattuto per<br />
la Repubblica di Salò.<br />
Ancora una volta le organizzazioni partigiane<br />
hanno cercato di convincere i patrocinatori<br />
del progetto di legge che non si può equiparare<br />
chi ha combattuto per la libertà dell’Italia<br />
con chi la voleva soffocare. La storia non la si<br />
riscrive, non la si può falsificare.<br />
Sulla proposta di legge n. 1360 Giuliano<br />
Vassalli, presidente emerito della Corte<br />
Costituzionale, è stato chiarissimo: “Non si<br />
può riconoscere a chi ha contrastato lo Stato<br />
italiano sovrano, schierandosi con la<br />
Repubblica Sociale, il titolo di combattente.<br />
La Cassazione è chiara. Tutte quelle pronunce<br />
sono concordi nel definire i repubblichini<br />
come nemici. Hanno avuto tutto: l’amnistia<br />
Togliatti, la legittimazione democratica<br />
immediata, l’MSI in Parlamento, adesso sono<br />
al potere.<br />
Eppure vanno avanti, incuranti del fatto che<br />
non esiste paese in Europa dove i collaborazionisti<br />
del nazismo sono premiati”.<br />
Nell’istituire l’“Ordine del Tricolore”, la pro-<br />
Lettera ai compagni<br />
5
EDITORIALE<br />
posta di legge n. 1360 recita ad un certo<br />
punto: “Non s’intende, proponendo l’istituzione<br />
di questo Ordine, sacrificare la verità<br />
storica di una feroce guerra civile sull’altare<br />
della memoria comune, ma riconoscere, con<br />
animo ormai pacificato, la pari dignità di una<br />
partecipazione al conflitto avvenuta in uno<br />
dei momenti più drammatici e difficili da<br />
interpretare della storia d’Italia”.<br />
Ma, di grazia, come è possibile porre sullo<br />
stesso piano, attribuire la stessa dignità, a<br />
figure luminose come Teresio Olivelli,<br />
Giancarlo Puecher, Bruno e Fofi Vigorelli,<br />
Mariolino Greppi, i fratelli Cervi, e ai torturatori<br />
delle bande Koch e Carità, ai rastrellatori<br />
della Muti e delle Brigate Nere, che hanno<br />
consegnato a migliaia partigiani ed ebrei ai<br />
nazisti perchè li avviassero nei lager e nei<br />
forni crematori?<br />
Come ben ricorda lo storico Arturo Colombo,<br />
prima dell’arresto e della tragica fine nel lager<br />
di Hersbruk, Teresio Olivelli aveva scritto la<br />
Preghiera del Ribelle, un documento di altissimo<br />
valore, non solo dal punto di vista religioso.<br />
Dice la preghiera: “Sui monti ventosi e<br />
nelle catacombe delle città, dal fondo delle<br />
prigioni, ascolta la preghiera del ribelle per<br />
amore”. Ribelli per amore significa per amore<br />
del prossimo, per amore della libertà, per<br />
amore del riscatto: dunque, mai ribelli per<br />
odio, né per volontà di sopraffazione, né per<br />
spirito di morte”.<br />
È ricordando il sacrificio di Teresio Olivelli,<br />
che sino all’ultimo assiste e conforta gli altri<br />
deportati nel lager di Hersbruck, e che muore<br />
dopo un calcio brutale allo stomaco, che pensavamo<br />
di rivolgerci ai 42 parlamentari che<br />
hanno presentato la proposta di legge n. 1360<br />
perché riflettessero sulla loro iniziativa<br />
e trovassero la forza morale e il<br />
senso civile per ritirarla. Non si capisce,<br />
del resto, perché ci si accanisce<br />
tanto per questa pacificazione storicamente<br />
ingiusta e impossibile da<br />
realizzare quando il presidente della<br />
Camera, Gianfranco Fini, ha più<br />
volte giudicato il fascismo “un male<br />
assoluto” quella di Salò “una scelta<br />
profondamente sbagliata”, e l’antifascismo<br />
un requisito essenziale della<br />
democrazia repubblicana.<br />
Deve inoltre far riflettere la decisione,<br />
assunta il 20 marzo 2009, dal<br />
6 Lettera ai compagni<br />
sindaco di Domodossola, Michele Marinello,<br />
della Lega Nord, di approvare un documento<br />
che chiede al Parlamento di non accogliere la<br />
legge che istituisce l’Ordine del Tricolore. In<br />
quella stessa sala, dove operò Ettore Tibaldi<br />
durante i gloriosi giorni della Repubblica partigiana<br />
dell’Ossola, non era del resto possibile<br />
prendere una diversa decisione.<br />
Michele Marinello, sindaco di una città<br />
medaglia d’oro della Resistenza, ha avuto la<br />
sensibilità di ricordare il suo illustre predecessore.<br />
Anche lì sindaco di Roma, Gianni<br />
Alemanno, ha votato qualche giorno dopo<br />
contro questa legge infausta.<br />
Comunque, come è noto, la proposta di legge<br />
n. 1360 è stata ritirata il 25 aprile dal premier<br />
Silvio Berlusconi, dietro richiesta del segretario<br />
del Partito Democratico Franceschini.<br />
L’annuncio della decisione del presidente del<br />
Consiglio di ritirare la proposta di legge è<br />
stata accolta dai firmatari con qualche mugugno.<br />
Lucio Barani, primo firmatario, rispondeva<br />
“obbedisco” alla telefonata di Berlusconi<br />
e commentava: “È un grosso riconoscimento<br />
ad una legge che ho fatto io. Ritirandola,<br />
favorisco la pacificazione”. Meno conciliante<br />
il senatore di AN Marcello De Angelis, per il<br />
quale la “questione è soltanto rinviata”.<br />
Ancora più ostile Alessandra Mussolini, la<br />
quale ha affermato: “Se Berlusconi la ritira, si<br />
ripresenterà. Trovo importante l’equiparazione<br />
e il ricordo di quei giovani. Ritirare la proposta<br />
di legge assolutamente no”.<br />
C’è da sperare che la proposta non venga<br />
ripresentata per la quinta volta. Sarebbe proprio<br />
una decisione insopportabile, anche in<br />
un clima nel quale tutto è possibile.
CELEBRATO IN TUTTA ITALIA IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE<br />
DAL NAZIFASCISMO<br />
UN 25 APRILE A DIFESA<br />
DELLA COSTITUZIONE<br />
L’Italia ha celebrato anche<br />
quest’anno il 25 Aprile, la<br />
festa della Liberazione nazionale,<br />
con grande partecipazione<br />
di popolo. A Roma, a<br />
Milano e a Torino le manifestazioni più<br />
significative. Nel capoluogo piemontese,<br />
Giorgio Napolitano, Piero Fassino,<br />
Mercedes Bresso e le autorità locali<br />
hanno reso omaggio ai cento partigiani<br />
trucidati dai nazisti recandosi al sacrario<br />
di Coazze, vicino a Giaveno in<br />
Piemonte.<br />
Il Presidente della Repubblica ha invitato gli<br />
italiani a festeggiarlo uniti: “La Resistenza -<br />
ha detto - non è di parte. Piaccia o no, la<br />
Resistenza ha generato la Costituzione italiana.<br />
L’esperienza partigiana - ha aggiunto - fu<br />
determinante per restituire libertà e dignità<br />
al nostro Paese”.<br />
Dopo l’appassionata difesa della<br />
Costituzione, al teatro Regio di Torino,<br />
Napoletano ha sottolineato con forza questi i<br />
temi e questi principi durante la celebrazione<br />
del 25 aprile a Mignano Montelungo.<br />
Tema di fondo della ricorrenza di quest’anno,<br />
infatti, è che La Costituzione è intoccabile<br />
nelle sue linee - guida, in quanto nata con la<br />
Resistenza, che fu una lotta “di popolo, di<br />
partigiani e di militari”, alla base della quale<br />
si collocano le radici solide e profonde della<br />
democrazia italiana.<br />
“La Resistenza non può essere denigrata.<br />
Serve rispetto per tutti i caduti, e nessuna<br />
delle forze politiche può rivendicare in esclusiva<br />
l’eredità del 25 aprile.<br />
RESISTENZA<br />
Il presidente emerito Scalfaro e il segretario della Cgil Epifani<br />
(a nome delle tre Confederazioni sindacali) a Milano ribadiscono<br />
con forza che i principi e i valori della nostra Carta,<br />
nata dalla Resistenza, non si toccano - La svolta di Berlusconi<br />
L’intervento di Mario Artali per la Fiap<br />
La Resistenza fu una straordinaria prova di<br />
riscatto civile e patriottica e non appartiene a<br />
una sola parte”. Il capo dello Stato ha anche<br />
ricordato “l’odissea dei 600 mila militari italiani<br />
internati in Germania nei campi di concentramento”<br />
invitando a “rendere omaggio a<br />
nome della Repubblica all’eroismo delle formazioni<br />
partigiane il cui sacrificio, piaccia o<br />
meno, fu determinante per restituire dignità,<br />
indipendenza e libertà all’Italia”.<br />
Quest’anno la novità assoluta è stata la partecipazione<br />
al 25 Aprile del Presidente del<br />
Consiglio Silvio Berlusconi che, su invito del<br />
capo del Pd Franceschini, ha parlato a Onna,<br />
il paesino abruzzese annientato dal sisma.<br />
“Sono con chi ha combattuto per la libertà”,<br />
ha sottolineato Berlusconi parlando della<br />
Resistenza come di una pagina sulla quale “si<br />
fonda la nostra Costituzione, la nostra libertà.<br />
Comunisti e cattolici, socialisti e liberali, azionisti<br />
e repubblicani accantonarono le differenze<br />
e scrissero una grande pagina della<br />
nostra storia”.<br />
Ed ha aggiunto: “Il rispetto che si deve ai<br />
caduti che combatterono dalla parte sbagliata,<br />
per una causa già perduta, non significa<br />
neutralità, indifferenza perché siamo noi tutti<br />
italiani dalla parte di chi ha combattuto per la<br />
nostra libertà, per la nostra dignità, per l’onore<br />
della nostra patria”.<br />
E quando Franceschini ha rilevato che per<br />
coerenza la maggioranza dovrebbe ritirare l’iniziativa<br />
legislativa di un gruppo di parlamentari<br />
del centrodestra che vuole la parificazione<br />
tra partigiani e militi di Salò,<br />
Berlusconi è subito intervenuto bocciando<br />
quella iniziativa.<br />
Lettera ai compagni<br />
7
RESISTENZA<br />
Un 25 Aprile come questo, se alle parole<br />
seguiranno i fatti, i partigiani e tutti quelli che<br />
sono loro vicini da sempre, lo ricorderanno<br />
con commozione: ora, dopo tanti attacchi e<br />
tante denigrazioni, i riconoscimenti arrivano<br />
da tutte le parti, il che riscatta l’onore dei partigiani<br />
ripagandoli di tante amarezze e di<br />
tanti torti subiti da revisionisti faziosi e in<br />
malafede che, specie in questi ultimi tempi,<br />
hanno infangato e insultato la storia e la verità<br />
pur di far passare le loro tesi antistoriche.<br />
A Milano la manifestazione più intensa. Si è<br />
cominciato giovedì sera con la visita al monumento<br />
ai Caduti all’Idroscalo per proseguire,<br />
il giorno dopo, con l’omaggio reso ai partigiani<br />
assassinati dai nazifascisti e tumulati presso<br />
il Campo della Gloria nel Cimitero<br />
Maggiore.<br />
Sabato 25 Aprile, prima della grande manifestazione<br />
in piazza Duomo, visita al monumento<br />
alla guardia di Finanza, a Palazzo<br />
Isimbardi davanti alla lapide che ricorda i<br />
caduti, a Palazzo Marino davanti alla lapide<br />
assegnata a Milano città medaglia d’oro della<br />
Resistenza, alla Loggia dei Mercanti, per<br />
deporre corone ai caduti per la libertà, al<br />
sacrario dei caduti di tutte le guerre in piazza<br />
Sant’Ambrogio, a piazzale Loreto per rendere<br />
omaggio ai 17 martiri trucidati dai nazifascismi,<br />
alla lapide dei caduti presso il Campo<br />
Giuriati.<br />
Poi il raduno, nel primo pomeriggio, in piaz-<br />
8 Lettera ai compagni<br />
zale Oberdan da<br />
dove si sono<br />
mossi i cortei per<br />
raggiungere il<br />
sagrato del<br />
Duomo. Una folla<br />
immensa e<br />
festante che ha<br />
seguito la manifestazione<br />
con<br />
grande partecipazione<br />
e compostezza.<br />
In piazza Duomo<br />
sul palco sono<br />
intervenuti:<br />
Gerardo Agostini,<br />
presidente della<br />
Confederazione<br />
delle Associazioni<br />
militari e partigiane;<br />
per l’Aned, la figlia di un deportato,<br />
Giovanna Massariello; il vicepresidente<br />
nazionale della Fiap Mario Artali, che ha parlato<br />
in rappresentanza del presidente nazionale<br />
Avv. Francesco Berti; Terzi per il Comue<br />
di Milano, Vincenzo Ortolina, presidente del<br />
Consiglio della provincia di Milano; Roberto<br />
Formigoni, Presidente della Regione<br />
Lombardia. Hanno concluso Guglielmo<br />
Epifani, segretario generale della Cgil, a<br />
nome delle tre organizzazioni sindacali (Cgil,<br />
Cisl e Uil) e il presidente emerito della<br />
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che ancora<br />
una volta ha difeso i valori e gli ideali della<br />
nostra Costituzione indissolubilmente legata<br />
alla guerra di Liberazione nazionale e alla<br />
Resistenza.<br />
Una delegazione della Fiap si poi è recata al<br />
famedio, presso il Cimitero Monumentale,<br />
per deporre una corona alla tomba di Aldo<br />
Aniasi, per dieci anni sindaco di Milano e<br />
Presidente della Fiap fino ai suoi ultimi giorni<br />
di vita.<br />
Pubblichiamo, infine, l’intervento del dottor<br />
Mario Artali, Vice Presidente nazionale della<br />
Fiap: “Porto con orgoglio a questa grande<br />
manifestazione il saluto della <strong>FIAP</strong>, la<br />
Federazione Italiana delle Associazioni<br />
Partigiane fondata nel 1949 da Ferruccio<br />
Parri e presieduta, fino alla sua morte, da<br />
“Iso” Aniasi, l’indimenticabile Sindaco della<br />
Milano dello sviluppo, della integrazione, del
decentramento e della partecipazione.<br />
La Fiap raccolse, in una fase di forte diversificazione<br />
tra le forze che avevano vittoriosamente<br />
condotto la guerra di liberazione, molti<br />
di coloro che avevano combattuto nelle formazioni<br />
di “Giustizia e Libertà”, “Matteotti”,<br />
“Mazzini”, anarchici e libertari ma anche<br />
garibaldini come Aniasi e combattenti<br />
dell’Esercito.<br />
Alla Fiap aderirono anche Piero Calamandrei,<br />
Antonio Greppi, Ezio Vigorelli, Giorgio Spini,<br />
Leo Valiani, Giuliano Vassalli, Nuto Revelli,<br />
Norberto Bobbio,Gaetano Arfè.<br />
È convinta la nostra adesione alle parole di<br />
Giorgio Napolitano: “Gli italiani mantengano<br />
costantemente viva la memoria e consapevole<br />
la coscienza delle diverse tappe del processo<br />
che portò alla liberazione ed alla democrazia”.<br />
Siamo quindi pronti - e la nostra storia lo<br />
dimostra - all’invito a lavorare “Senza appropriazioni,<br />
senza esclusioni, senza spirito di<br />
parte, ma invece con una ispirazione che sappia<br />
unire tutti gli italiani”.<br />
Pensiamo che all’orgoglio di una storia “unitaria<br />
e plurale” come fu quella della lotta per<br />
la libertà non servano, ed anzi siano di grave<br />
nocumento settarismi ed estremismi, e così<br />
anche pulsioni egemoniche.<br />
Non può certo dividere l’umano gesto di<br />
posare un fiore sulla tomba di chi è morto a<br />
vent’anni per i suoi ideali, giusti o sbagliati<br />
che fossero poco importa, ma quello che chiediamo<br />
con forza è la condivisione della storia,<br />
che ha da tempo pronunciato<br />
il suo verdetto.<br />
La risorgente Italia<br />
democratica, come ci<br />
ha scritto in un Suo<br />
messaggio Carlo<br />
Azeglio Ciampi, ha le<br />
sue radici in una<br />
Resistenza che “ha<br />
avuto una pluralità<br />
di manifestazioni:<br />
dal comportamento<br />
della maggior parte<br />
dei nostri militari<br />
(prima nei giorni<br />
successivi all’8 settembre<br />
e poi nei<br />
campi di interna-<br />
RESISTENZA<br />
mento) all’azione delle forze partigiane, alle<br />
battaglie combattute dal Corpo Italiano di<br />
Liberazione.”<br />
L’onore del Paese - e più di tutti dovrebbe<br />
sostenerlo il Ministro della Difesa- è stato salvato<br />
dai soldati che si sacrificarono a<br />
Cefalonia, dagli internati che dissero di no,<br />
dai partigiani che combatterono nelle città e<br />
sulle montagne.<br />
Se abbiamo scelto, per questo 25 Aprile, il<br />
tema della difesa della Costituzione, è perché<br />
la Costituzione nasce dalla Resistenza, è la<br />
risposta unitaria alla legittima diversità delle<br />
posizioni politiche.<br />
Non è un tabù, si può e si deve adeguare ai<br />
tempi, ma non è nemmeno, come ha sottolineato<br />
ancora Napolitano, un residuato bellico.<br />
Mi piace qui ricordare il giudizio di uno dei<br />
Costituenti viventi, Giulio Andreotti il quale<br />
dice che, sotto la guida di Piero Calamandrei<br />
e di Benedetto Croce la Carta fu scritta con<br />
grande senso di equilibrio tra i poteri. Una<br />
Costituzione garantista, al riparo anche da<br />
incursioni populiste che non sono la democrazia<br />
ma il suo opposto.<br />
Riformare non vuole dire sfasciare.<br />
Se la “scelta coraggiosa è quella di rinunciare<br />
alle rispettive rigidità per produrre una tavola<br />
di valori condivisi” non si può prescindere<br />
dalle scelte della Costituente.<br />
Viva la Costituzione repubblicana nata dalla<br />
Resistenza, viva la Resistenza”.<br />
Lettera ai compagni<br />
9
RESISTENZA<br />
10<br />
I TANTI MODI DI RICORDARE UNA DATA IMPORTANTE<br />
COME IL 25 APRILE DEL ’45<br />
COSÌ GLI ANTIFASCISTI<br />
DIFESERO BARI DALL’ASSALTO NAZISTA<br />
Fu attaccato prima il porto e poi l’ufficio delle Poste<br />
Quella prima manifestazione democratica contro il regime<br />
soffocata nel sangue: 30 morti<br />
Raccontare le esperienze di<br />
una generazione del 1900 è<br />
necessario, perché le nuove<br />
generazioni, prive di<br />
memoria storica, non ripetano<br />
più lo scempio e le distruzioni<br />
provocate dalle violenze politiche e<br />
dalle guerre.<br />
La memoria storica è utile ai giovani, perché<br />
non vengano, in occasione di questa imperante<br />
crisi economica e sociale, deviati dalla propaganda,<br />
priva di valori umani.<br />
Se possiamo vivere in uno stato laico, libero e<br />
democratico, progressista, lo dobbiamo a<br />
tutti coloro che, vissuti in tempi oscuri e privi<br />
di pietà umana, desideravano opporsi e lottare<br />
per principi ed ideali alti e nobili.<br />
Lettera ai compagni<br />
di Giuseppe Michele STALLONE<br />
Questi valori, nobili e democratici, ci vengono<br />
dai Padri del Risorgimento, uomini ricchi di<br />
passione e dotati di lungimiranza, i quali<br />
sacrificarono se stessi, perdendo posizioni<br />
sociali, salute, famiglia, libertà personali, vita<br />
e Patria (esilio, deportazione, ecc...), ma alla<br />
fine riuscirono a coinvolgere la zona grigia<br />
della popolazione facendola sentire partecipe<br />
delle scelte decisive per la vita nazionale.<br />
La nostra famiglia di origini mazziniane e<br />
garibaldine, che durante il ventennio fu<br />
impegnata a lottare per la libertà e la democrazia,<br />
cercò nel momento giusto di partecipare<br />
attivamente alla nascita dell’Italia<br />
repubblicana, libera e democratica. Il 28<br />
luglio del ’43, dopo la caduta del fascismo,<br />
mio padre Pietro Stallone, insieme ad altri<br />
antifascisti, organizzò a Bari la prima manifestazionecontro<br />
il regime.<br />
Questa meravigliosaespressione<br />
di<br />
libertà, di italianità,<br />
di fedeltà,<br />
ai principi<br />
dettati<br />
dalla dichiarazione<br />
dei<br />
diritti dell’uomo<br />
francese e<br />
dalla carta di<br />
Filadelfia e<br />
dai mazziniani,<br />
finì tragicamente<br />
sotto<br />
la sede della
Federazione fascista a Bari, provocando<br />
30 morti e moltissimi feriti e arresti da<br />
parte della polizia fascista. Il 9 settembre<br />
del ’43, a seguito dell’armistizio firmato<br />
da Vittorio Emanuele III e dal governo<br />
legale guidato dal maresciallo Pietro<br />
Badoglio, in ogni città italiana e nei territori<br />
occupati una furibonda reazione nazista<br />
seminò morte, lutti, atrocità. Tanti italiani,<br />
(antifascisti, democratici, ebrei,<br />
oppositori di Mussolini) finirono deportati<br />
in Germania. Ai prigionieri italiani in<br />
Germania non vennero applicate le leggi<br />
delle convenzioni internazionali: tutti<br />
furono internati e molti di loro non fecero<br />
più ritorno a casa, falcidiati dagli stenti e<br />
dalle torture.<br />
Di fronte allo sfaldamento generale, in<br />
alcune città, come a Bari per esempio,<br />
comandanti gelosi custodi della dignità<br />
della divisa che indossavano, decisero di<br />
reagire con l’aiuto della popolazione civile,<br />
stanca di una guerra inutile, impreparata<br />
e priva di logica politica ed economico-<br />
sociale.<br />
A Bari un valoroso comandante, il generale<br />
Bellomo, organizzò la difesa della città<br />
contro l’assalto nazista al porto e all’interno<br />
dell’intero territorio urbano. Alla direzione<br />
delle Poste Telegrafi e Telefoni di<br />
Stato e Radio, il personale in servizio e i carabinieri<br />
si organizzarono per impedire la<br />
distruzione di questa importante struttura<br />
strategico- militare.<br />
Mio padre Pietro, segretario della ricostituenda<br />
Federazione Italiana Postelegrafici e<br />
Telefonici, essendo stato un ufficiale radiotelegrafista<br />
nella prima guerra mondiale, riunì<br />
la milizia postale convincendo la stragrande<br />
maggioranza che era doveroso assicurare<br />
fedeltà all’Italia: era giunta l’ora di difendere<br />
anche con la vita il posto di lavoro, la patria,<br />
la libertà.<br />
Pietro Stallone, nato a Bitonto (Bari) nel<br />
1898, dopo aver ricostruito il sindacato unitario<br />
dei Postelegrafonici, si batté per far istituire<br />
il Ministero delle Poste e<br />
Telecomunicazioni, riuscendo a far assorbire<br />
dal nuovo ministero tutte le ricevitorie PT<br />
situate nei paesi e nei quartieri, facendo passare<br />
di ruolo tutto il personale avventizio,<br />
giornaliero, diurnista.<br />
Nel 1953, quale consigliere Enaps, riuscì a far<br />
RESISTENZA<br />
estendere il diritto all’ assistenza sanitaria a<br />
tutti i pensionati pubblici.<br />
Il Comune di Roma gli ha dedicato un largo<br />
nel V Municipio e il Comune di Bari ha deliberato<br />
di intitolargli una via cittadina.<br />
La famiglia Stallone annovera diversi partecipanti<br />
alla lotta di Liberazione: il maggiore<br />
della Finanza Nicolò Stallone, deportato in<br />
Germania e caduto nell’adempimento dei suo<br />
dovere a Fullen in Germania nel 1944: il brigadiere<br />
dei carabinieri, comandante della<br />
Stazione di Apuania, Luigi Stallone, il quale<br />
partecipò attivamente alla Resistenza; il soldato<br />
Antonio Stallone, deportato in<br />
Germania per non aver voluto tradire il suo<br />
paese.<br />
La famiglia Stallone rappresenta un esempio<br />
di completa dedizione e incoraggiamento per<br />
i giovani per educarli al senso di appartenenza,<br />
di responsabilità, di amor patrio e di unità<br />
nazionale, cultura molto oggi più che mai<br />
necessaria per la rinascita morale e lo sviluppo<br />
economico-sociale del nostro Paese.<br />
Lettera ai compagni<br />
11
LIBERAZIONE<br />
Tra le altre manifestazioni, il<br />
25 Aprile a Roma è stato celebrato<br />
a Porta San Paolo. Ecco<br />
il discorso del presidente<br />
della Fiap romana Vittorio<br />
Cimiotta:<br />
“Amici, compagni, vi porto il saluto della<br />
F.I.A.P. - Federazione italiana Associazioni<br />
Partigiane che rappresenta le Formazioni<br />
Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, le<br />
Brigate Matteotti e le Brigate Giuseppe<br />
Mazzini.<br />
La nostra presenza testimonia che la<br />
Resistenza non fu opera di una sola parte<br />
politica, per intenderci quella comunista.<br />
C’erano anche le nostre formazioni azioniste,<br />
socialiste e repubblicane.<br />
C’erano quelle cattoliche, quelle liberali, quelle<br />
monarchiche.<br />
Resistenza fu anche quella dei deportati nei<br />
campi di sterminio dove furono inceneriti<br />
complessivamente 12 milioni di esseri umani;<br />
Resistenza fu quella dei militari deportati nei<br />
campi di lavoro tedeschi per non avere aderito<br />
alla R.S.I.; Resistenza fu quella dei martiri<br />
delle Fosse Ardeatine e di tutte le stragi nazifasciste.<br />
Sessantaquattro anni addietro molti giovani,<br />
dinanzi al deserto morale e materiale lasciato<br />
dal fascismo, si sono svegliati da un lungo<br />
letargo di vent’anni di narcosi e di falsa propaganda.<br />
Questi giovani non avevano ricevuto<br />
ordini da nessuno e rispondendo solamente<br />
al richiamo della loro coscienza sono accorsi<br />
con le armi in pugno a combattere contro<br />
l’invasore. La Resistenza prima di essere una<br />
azione fu un richiamo morale.<br />
Oggi, 25 Aprile 2009, Festa della Liberazione,<br />
il mio pensiero commosso e riconoscente va a<br />
12 Lettera ai compagni<br />
LA CELEBRAZIONE DEL 25 APRILE A ROMA: PORTA SAN PAOLO<br />
LA RESISTENZA FU<br />
UN RICHIAMO MORALE<br />
L’intervento del presidente<br />
della Fiap romana Vittorio Cimiotta<br />
quanti non tornarono, a quanti sacrificarono<br />
la vita per la nostra libertà, la libertà di tutti,<br />
anche di quelli che l’hanno avversata. In tale<br />
ricorrenza mi pare opportuno leggere un<br />
brano di una lettera di un condannato a<br />
morte della Resistenza:<br />
Ai miei cari figli.<br />
Una vita onesta è il migliore ornamento di<br />
chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una<br />
religione e siate sempre solleciti verso il<br />
bisogno e le sofferenze dei vostri simili.<br />
Amate la libertà e ricordate che questo bene<br />
deve essere pagato con continui sacrifici e<br />
qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù<br />
è meglio non viverla. Amate la madrepatria,<br />
ma ricordate che la patria vera è il<br />
mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli<br />
sono i vostri fratelli.<br />
Forse, se tale è il mio destino, potrò sopravvivere<br />
a questa prova; ma se cosi non può<br />
essere io muoio nella certezza che la primavera<br />
che tanto io ho atteso brillerà presto<br />
anche per voi. E questa speranza mi dà la<br />
forza di affrontare serenamente la vita.<br />
Pietro Benedetti<br />
Questo martire fu fucilato per la sua attività<br />
antifascista il 29 Aprile 1944 sugli spalti del<br />
Forte Bravetta di Roma dal plotone della PAI<br />
(Polizia Africa italiana).<br />
In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />
Resistenza traspare una luce, una pace interiore<br />
immensa.<br />
In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />
Resistenza, in uomini di diversa fede religiosa<br />
e politica, sono riscontrabili gli stessi valori<br />
della giustizia, della libertà, dell’onestà e<br />
della solidarietà.
In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />
Resistenza c’è la comune speranza di un<br />
mondo migliore.<br />
A noi che ci riteniamo gli eredi della<br />
Resistenza, a noi che abbiamo condiviso questi<br />
valori e queste speranze ci si pone un problema<br />
di coscienza, anzi, un esame di<br />
coscienza. Siamo degni di questo lascito<br />
pagato duramente fino al sacrificio estremo<br />
della vita? Purtroppo, dobbiamo constatare<br />
che, oggi, c’è una deriva, un degrado morale e<br />
civile.<br />
UNA FRASE<br />
LIBERAZIONE<br />
I nostri maestri sono Giovanni Amendola,<br />
Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, i fratelli<br />
Rosselli, Pilo Albertelli, Don Minzoni,<br />
Antonio Gramsci e tanti altri che hanno onorato<br />
il nostro paese.<br />
Nel loro insegnamento, nel loro esempio dobbiamo<br />
rilanciare i nostri valori.<br />
Amici, compagni, in questa giornata di festa<br />
non possiamo dimenticare la nostra<br />
Costituzione. In essa sono custoditi i valori<br />
per cui hanno sacrificato la loro vita i nostri<br />
martiri.<br />
La nostra Costituzione è nata dalla<br />
Resistenza.<br />
La nostra Costituzione è tra le più democratiche<br />
del mondo.<br />
Lasciatemi finire il mio intervento con le<br />
parole di un grande azionista Piero<br />
Calamandrei:<br />
La Costituzione è un testamento, un testamento<br />
di 100 mila morti. Se voi volete andare<br />
in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la<br />
nostra Costituzione, andate nelle montagne<br />
dove caddero i partigiani, nelle carceri dove<br />
furono imprigionati, nei campi dove furono<br />
impiccati, dovunque è morto un italiano per<br />
riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o<br />
giovani, col pensiero, perché lì è nata la<br />
nostra Costituzione.<br />
di Renzo BIONDO<br />
Anche quest’anno alcuni giellisti veneziani sono andati, in occasione dell’anniversario della<br />
Liberazione, a colloquiare con i ragazzi nelle scuole superiori. Il tema era appunto: “I ragazzi<br />
della Resistenza incontrano i ragazzi di oggi”.<br />
Centinaia di ragazze e ragazzi hanno assistito con grande partecipazione ed interesse, dopo un<br />
breve preambolo interrogandoci con domande serie e centrate, si sentiva che avevano capito<br />
cos’era stato il fenomeno Resistenza.<br />
Al liceo Marco Foscarini, dopo quasi due ore, prima della proiezione del film corto “In montagna<br />
ci si sente liberi” che abbiamo prodotto come <strong>FIAP</strong> - Gielle nel 1998, ho detto: “Adesso vorrei<br />
farvi una domanda. Come ci vedete, che impressione vi facciamo?”<br />
È uscita una ragazza, la quale ci ha ringraziato per le risposte che abbiamo dato in un clima<br />
allegro e disinibito, ed ha concluso: “Ciascuno di noi vorrebbe avere nella propria famiglia una<br />
persona come voi”.<br />
Una frase che abbiamo scritto nel nostro diario e nel nostro cuore.<br />
Lettera ai compagni<br />
13
IL RACCONTO<br />
RICORDO DI UNA PAGINA TRAGICA ED EROICA DELLA STORIA ITALIANA<br />
Quel venticinque aprile noi ci<br />
trovavamo dall’altra parte.<br />
Anzi, come la gran parte<br />
degli italiani eravamo in<br />
mezzo, ma più di là che di<br />
qua. In mezzo lo eravamo davvero perché<br />
la casa del nonno, dove tutta la<br />
famiglia si era rifugiata dopo il primo<br />
bombardamento di Milano del 23 ottobre<br />
del 1942, stava in terra di nessuno,<br />
a un paio di chilometri dal lago sulla<br />
strada per Premeno.<br />
Di giorno la zona era sporadicamente pattugliata<br />
dai fascisti repubblichini, accompagnati,<br />
ma solo nelle grandi occasioni, dai tedeschi.<br />
Di notte i partigiani scendevano per lo<br />
stradone con la venti millimetri per andare a<br />
sparare alla Casa del Fascio di Intra dal giardino<br />
della Villa Tranquillini al Motto. La venti<br />
era montata su un carro che, di giorno, come<br />
tutti in paese sapevano benissimo, stava<br />
nascosto sotto il fieno nel garage dell’architetto<br />
Minali su a Cargiago. Ma il più delle<br />
volte era proprio terra di nessuno, cioè di chi<br />
ci abitava, ma sopratutto dei bambini del<br />
paese che, grazie a quella straordinaria situazione,<br />
se ne erano totalmente impadroniti<br />
con la massima libertà, tanto che in certi<br />
momenti il paese mi appariva veramente<br />
come Timpetill la città senza genitori, uno dei<br />
miei livres de chevet di allora.<br />
La casa del nonno giaceva allungata sul pendio<br />
come una nave a poppa quadra, con la<br />
prua rivolta in giù. Il giardino era triangolare<br />
e finiva a valle con un terrazzino rialzato<br />
coperto di glicini. A metà stava il cubo della<br />
casa, quattro lati e un tetto rosso, con un terrazzino<br />
a due piani sul fronte, vera plancia di<br />
comando e ponte panoramico della casa,<br />
mentre la base del triangolo stava a monte<br />
verso Premeno. Qui si trovavano il garage, il<br />
pollaio e una seconda casetta dove il nonno,<br />
che non andava più in negozio a Milano dopo<br />
il colpo che gli aveva lasciata la bocca storta,<br />
stava tutto il giorno rintanato a curare i polli,<br />
14 Lettera ai compagni<br />
QUEL MIO 25 APRILE DEL ’45<br />
di Guido MARTINOTTI<br />
far la posta ai piccioni con strane trappole a<br />
ghigliottina da lui stesso costruite e generalmente<br />
a starsene al riparo dalla famiglia. La<br />
casetta del nonno era collegata alla casa principale<br />
con un cavo elettrico: se il nonno stava<br />
male o voleva qualcosa girava un grosso<br />
interruttore a vista e faceva suonare da noi un<br />
campanello grosso come quello di una doppia<br />
sveglia a molla.<br />
Noi bambini razzolavamo dappertutto, ma<br />
sopratutto sul castello di prua ricoperto di glicini,<br />
punto di osservazione avanzata per guardare<br />
chi saliva lungo il bianco stradone che<br />
costeggiava la casa. La prua si affacciava<br />
anche su un piccolo crocicchio su cui convergevano<br />
anche le stradine che, da un lato, portavano<br />
alla frazione di Biganzolo e, dall’altro,<br />
a un torrente che si chiamava “ il Riale” e poi<br />
a San Giorgio, quattro case in fila collocate su<br />
un costone dietro cui spuntavano in lontananza<br />
le cime del Monterosa. Oltre la prua lo<br />
stradone scendeva verso lago fino al curvone<br />
del Brusati che ci chiudeva la vista dopo un<br />
centinaio di metri.<br />
LA CAMPAGNA<br />
I bambini non avevano un nome per questa<br />
località, ma con il tempo ho scoperto che<br />
veniva chiamata “La Campagna” come se il<br />
resto fosse una gran città. Questa posa di<br />
urbanità trovava eco nella pretesa delle maestre<br />
che a scuola si adottasse il testo di lettura<br />
per le classi urbane e non quello per le classi<br />
rurali, con effetti catastroficamente esilaranti<br />
quando l’inconsapevole autore cercava<br />
di spiegare a quella espertissima scolaresca a<br />
piedi scalzi la vita di lucertole e uccellini, che<br />
lui probabilmente non aveva mai visto dal<br />
vero. In effetti, se guardiamo ai nomi, il paese<br />
era tutto campagnolo. La scuola elementare,<br />
l’osteria, che poi passò in gestione alla cooperativa<br />
rossa, e la villa a castellozzo (con i merli<br />
di prammatica) della signora del paese, si<br />
affacciavano su uno spiazzo chiamato La<br />
Pastura, nel quale i bambini giocavano al calcio,<br />
ma che più in generale serviva alle feste
del paese e da balera per la cooperativa.<br />
Un’altra frazione si chiamava Antoliva, anche<br />
se le olive ai miei tempi non c’erano più, e un’<br />
altra, La Selva. I corsi d’acqua erano un torrentello<br />
chiamato il Riale, dietro casa mia, e<br />
un torrente più consistente che scorreva dentro<br />
un forrone chiamato La Valle.<br />
Però a coltivare i campi davvero erano rimasti<br />
in pochini. Il Cecchin Brusati, uno spilungone<br />
cupo e solitario mezzo gozzuto, considerato<br />
omosessuale, ma non pericoloso, visto<br />
che ci andavo tutti i giorni a prendere il latte<br />
e non mi è mai successo niente.<br />
E “Il Veneto”, che abitava nella grande cascina<br />
dietro alla Pastura e sgobbava dalla mattina<br />
presto a notte tarda, sette giorni su sette,<br />
incatenando a questa schiavitù la moglie e le<br />
due figlie da marito con urla belluine. Un po’<br />
di coltivazione, però, la facevano tutti, anche<br />
se l’economia locale - come ho imparato dopo<br />
dai libri - era una tipica economia da parttime<br />
farming, con le industrie di valle della<br />
prima industrializzazione giù vicino al lago,<br />
che impiegavano la maggior parte degli abitanti.<br />
Come le acque di decine di ruscelli,<br />
poco prima delle 8 di ogni mattina, quando<br />
suonavano le sirene della Nestlé o della<br />
Viscosa, da tutte le strade della montagna<br />
scendevano a valle le migliaia di biciclette<br />
degli operai che abitavano nei paesi sparsi<br />
sulle pendici venendo anche da Premeno,<br />
quattro o cinque chilometri più a monte.<br />
E poco dopo le sirene delle cinque, come in<br />
un perpetuo playback, gli stessi operai e operaie,<br />
in gruppetti di due o tre, risalivano<br />
chiacchierando lo stradone bianco di polvere,<br />
con la bicicletta a mano, stringendo la crocetta<br />
del manubrio con la destra, con la tipica<br />
cadenza pendolante dei camminatori di montagna.<br />
Qualcuno dei più giovani ogni tanto<br />
risaliva pigiando sui pedali e dondolando a<br />
destra e sinistra.<br />
Erano in genere biciclette di tubolare pesante,<br />
alcune a scatto fisso, altre con lo scatto<br />
libero, ma solo pochi fortunati avevano il<br />
cambio. I freni a filo e il manubrio sagomato<br />
erano più diffusi, sopratutto nelle bici da<br />
donna, quelle senza la “canna”, il tubolare<br />
orizzontale delle bici da uomo, su cui spesso<br />
sedeva al traverso, in discesa, una seconda<br />
persona.<br />
In paese, salvo noi e una manciata di “sfollati”<br />
dalle città bombardate, erano tutti con i<br />
IL RACCONTO<br />
partigiani. Mio padre era fascista, come lo<br />
erano stati quasi tutti gli italiani, ma forse con<br />
un impegno civile maggiore. Certamente non<br />
era stato un picchiatore, ma, come si diceva<br />
allora, “uno che ci credeva”.<br />
Intendendosi nel codice non scritto della borghesia<br />
italiana, uno un po’ fesso, che credeva<br />
ai valori sbandierati dal regime senza approfittarne.<br />
Figlio di un militare di carriera piemontese,<br />
morto dalle parti di Misurina nei<br />
primi giorni della Grande Guerra, vittima<br />
della ritardata eliminazione della “sciabola<br />
lucida” e della pessima logistica che lo aveva<br />
lasciato dissanguare, era “orfano con madre<br />
vedova di guerra”, e non era stato richiamato<br />
in guerra nell’esercito regolare.<br />
Per questo si era presentato come volontario<br />
nella milizia nazionale fascista per la campagna<br />
in Africa Settentrionale. E, come benvenuto,<br />
lui che lasciava un posto direttivo in<br />
una grande assicurazione, si era sentito dire<br />
dal perenne sportellista italiano: “ecco un<br />
altro morto di fame”.<br />
Un primo significativo contatto con il mondo<br />
degli “otto milioni di baionette”, di cui mio<br />
padre ha riportato una straordinaria testimonianza<br />
fotografica, avendo comperato da un<br />
ufficiale tedesco una Contax a tendina, scatti<br />
fino a 1/1250 con obiettivo Zeiss anteguerra<br />
che ho ancora.<br />
I rullini delle pellicole, raccattati qui e là di<br />
sottobanco, li nascondeva cucendoli nel<br />
bordo del cappotto grigioverde che diventava<br />
via via più rigido dandogli un’aria pomposa<br />
da uno sempre sull’attenti.<br />
È il racconto di una guerra di poveri straccioni,<br />
morti di fame per davvero, mandati allo<br />
sbaraglio da un dittatore buffone, commediante<br />
tragico che, come spiegherà bene<br />
Denis Mac Smith, nel suo splendido libro<br />
sulla propaganda fascista, era soprattutto un<br />
formidabile esperto di comunicazioni di<br />
massa, da giornalista di professione. Ma<br />
sopratutto da retore ignorante e senza vergogne:<br />
“Noi spezzeremo le reni alla Grecia”; e,<br />
tecchete, la Iulia sterminata a Perati e il corpo<br />
di spedizione praticamente buttato fuori<br />
dall’Albania regnicola in una settimana.<br />
“Li fermeremo sul bagnasciuga” e, tecchete,<br />
perdiamo la Sicilia. Non parliamo dell’Armir,<br />
mandato sulla neve con le scarpe di cartone<br />
solo per imporsi con Hitler, che non ne voleva<br />
assolutamente sapere. Visto oggi, con la<br />
Lettera ai compagni<br />
15
IL RACCONTO<br />
pancetta mal celata in grottesche divise pronte<br />
a scoppiare, il Cavalier Benito fa ridere, ma<br />
perché si possa oggi ridere sono state versate<br />
molte lacrime. E, là nella terra di nessuno, ma<br />
in realtà sotto la giurisdizione partigiana, le<br />
divise della milizia fascista non facevano ridere<br />
nessuno e chi le aveva indossate, sia pure<br />
per difendere la Patria, come si usava dire,<br />
era meglio che non si facesse vedere troppo in<br />
giro. Ma evidentemente mio padre godeva di<br />
stima generale, perché poco prima della liberazione,<br />
quando ormai i destini erano segnati,<br />
si rifiutò di passare in Svizzera con altri che<br />
temevano a torto o ragione rappresaglie da<br />
parte dei partigiani vittoriosi. Che non mancarono<br />
perché sulle montagne del Verbano e<br />
dell’Ossola la lotta era stata dura e per vario<br />
tempo dopo la fine della guerra, verso sera si<br />
sentivano le raffiche di mitra delle esecuzioni<br />
provenire dal Campo sportivo di Intra.<br />
L’OIKOS<br />
Della casa e del giardino avevo una conoscenza<br />
minuta, ossessiva, ora ovviamente ingigantita<br />
dai ricordi e dalla sproporzione fisica dei<br />
luoghi visti dai bambini. Come in una sorta di<br />
ingenuo palazzo della memoria avevo associato<br />
le immagini della casa e del giardino alle<br />
preghiere della sera. Con l’Ave Maria entravo<br />
dalla porta di casa e mi avviavo per il corridoio,<br />
“tinello” a destra e sala da pranzo a sinistra<br />
e, con la fine della prima strofa, arrivavo<br />
all’inizio della scala, con la cucina a destra.<br />
Chissà perchè associavo questa parte della<br />
preghiera al prezzemolo che veniva preparato<br />
in cucina sul tagliere da mia madre o da mia<br />
nonna, che intravedevo con la coda dell’occhio<br />
mentre mi avviavo su peri gradini di<br />
rugosa pietra nera.<br />
Con il Santa Maria, giravo il pianerottolo<br />
dove d’inverno stavano i due portavasi di<br />
ferro battuto dei limoni e mi infilavo sui tre o<br />
quattro gradini della seconda rampa che conduceva<br />
al corridoio di sopra dove stavano le<br />
camere da letto e il bagno che ripercorrevo a<br />
180 gradi finendo il ritornello. C’era anche<br />
una seconda rampa di scale che portava al<br />
solaio. Ma quello non rientrava nella preghiera<br />
perchè il solaio, come la cantina, erano il<br />
regno del Demonio.<br />
Inteso come Diavolo con le corna, ispiratore<br />
di terrore assoluto. Terra incognita da evitare,<br />
anche se poi ci andavo spesso. Sopratutto<br />
16 Lettera ai compagni<br />
in solaio, che era abbastanza ampio con quattro<br />
stanze con meravigliosi lucernari a botola:<br />
“Guido chiudili che viene il temporale”. Anzi<br />
una stanza era la camera della donna, non<br />
sempre occupata in modo fisso, dove stava<br />
anche il “cassone”, un contenitore di zinco<br />
con galleggiante collegato al motore del pozzo<br />
per la provvista d’acqua. Che rientrava nel più<br />
generale concetto di “scorta”, che dominava<br />
l’economia domestica durante la guerra.<br />
Il cassone non si doveva toccare per non sporcare<br />
l’acqua e per via del galleggiante che era<br />
pericoloso perché collegato con un contatto.<br />
In effetti mi domando ancora come non sia<br />
mai morto nessuno, perché un’occhiata a<br />
questo congegno meraviglioso si dava quasi<br />
sempre alzando il coperchio di zinco. Né<br />
come non siamo mai andati a fuoco con fili<br />
semiscoperti che giravano da tutte le parti.<br />
Ma forse la corrente del tempo di guerra, che<br />
del resto era a 120 volts, era così deboluccia<br />
che quasi non faceva nemmeno scintille.<br />
E poi in solaio c’erano tutti i libri del babbo,<br />
che in famiglia passava per un bibliofilo e a<br />
suo modo lo era. Quei libri li ho più o meno<br />
letti tutti in tenera età e li ho più o meno<br />
ancora tutti.<br />
Tra gli altri c’era una enorme Divina<br />
Commedia illustrata dal Dorè e quando volevo<br />
veramente tremare andavo su a vedere<br />
quel Satana con la coda turgida di serpentone<br />
che sta in fondo all’Inferno e che, ne ero sicuro,<br />
faceva paura anche al Dorè mentre lo<br />
dipingeva. In ogni caso quando non ero li a<br />
guardarlo, lui se ne veniva fuori. Ecco perché<br />
in solaio di notte non ci andavo. Ma in un<br />
sogno ricorrente lo sentivo battere colpi rimbombanti<br />
nei muri e allora io e la Nonna<br />
Alice, tenendoci per mano, pazzi dal terrore,<br />
ma gridando a tutto spiano, correvano su per<br />
cacciarlo via.<br />
Il giardino era invece associato al Padre<br />
Nostro e alla terza preghiera che dicevo, quella<br />
all’Angelo custode, che non mi ricordo neppure<br />
più. E non mi ricordo neppure bene che<br />
cosa era associato a che cosa. Salvo che quando<br />
si parlava di pane quotidiano ero vicino al<br />
lavatoio che stava dietro l’entrata del gabbiotto<br />
dove c’era il motore del pozzo.<br />
Che col pane non c’entrava nulla. Neppure le<br />
altre parti c’entravano nulla, era solo un<br />
modo per fare il giro della casa sempre uguale<br />
mentre dicevo preghiere sempre eguali.
Ossessivo, ma rassicurante.<br />
BOMBE E PALLOTTOLE<br />
Insomma eravamo stati sbattuti là dalla gran<br />
risacca della guerra e tutto sommato ci trovavamo<br />
come su un’isola inquietantemente felice,<br />
nell’occhio del tifone, come leggevamo nei<br />
romanzi di Salgari, che rappresentavano una<br />
delle letture principali dei due o tre intellettualini<br />
della classe. Che discussero a lungo sul<br />
modo in cui si dovesse pronunciare la Y, deliberando<br />
poi che stava per una V. Cosicché lo<br />
yacht di Yanez suonava il Vact di Vanez.<br />
Attorno a noi la guerra si aggirava piuttosto<br />
all’orizzonte degli eventi.<br />
Ogni tanto là sulle montagne si sentiva il “tah<br />
pum!” del ’91. “Ecco il tapum” commentavano<br />
i ragazzetti più esperti con l’aria di chi sa<br />
tutto. O qualche raffichetta di Sten, che arrivava<br />
assai più attutita. Più di frequente arrivavano<br />
gli aerei. Quelli facevano paura, aveva<br />
un bel dire mio padre che quando erano<br />
sopra la testa il pericolo era già passato. In<br />
genere, venendo dalla Svizzera, sganciavano<br />
proprio all’altezza di casa nostra e la bomba<br />
esplodendo qualche centinaio di metri più in<br />
basso, faceva un frastuono tremendo.<br />
Quando suonava l’allarme tutti scappavamo<br />
in casa tirandoci dietro anche quelli che in<br />
quel momento passavano sulla strada li<br />
davanti. Mi ricordo che una volta c’era anche<br />
un signore alto di Arizzano o Cargiago, uno<br />
dei paesi più a monte, entrato nel corridoio<br />
tenendosi stretta la sua bicicletta e con il suo<br />
bel cappello in testa, che, mentre ci stringevamo<br />
tutti tremebondi nel retro della casa sotto<br />
le scale, incitava gli Alleati a bombardare e,<br />
quando finalmente si è sentito il botto gridava,<br />
cercando di indovinare da dove veniva,<br />
“l’ha centrata, l’ha centrata!”.<br />
Intendendosi la caserma della X Mas di Intra,<br />
che forse il pilota non sapeva neppure dove si<br />
trovasse, ma forse sì. In realtà si seppe poi<br />
che la bomba era andata a finire sul campo<br />
sportivo, ma il giorno dopo, quando come al<br />
solito stavo a spiare dalla siepe l’anabasi dei<br />
ciclisti, il signore col cappello, che ormai era<br />
entrato a far parte delle nostre conoscenze,<br />
passando gridava “l’hanno mancata di poco”<br />
e ci faceva vedere con le mani giostrando sul<br />
manubrio quanto vicino era andata la bomba<br />
all’obiettivo che lui le aveva assegnato.<br />
E poi c’era il Pippo, che capitava di solito a<br />
IL RACCONTO<br />
metà mattinata con il ronzio regolare dell’elica<br />
che a un certo punto aumentava di frequenza<br />
e tutti sapevamo che stava scendendo<br />
in picchiata su un bersaglio. Un paio di volte<br />
il Pippo è passato fragorosamente sopra la<br />
scuola senza che avessimo neppure il tempo<br />
di evacuare. Cosi tutti, scolaresca e maestre,<br />
stavano lì seduti e impietriti in attesa della<br />
esplosione finché il rumore non si allontanava.<br />
Ma il rumore più terrorizzante era quello<br />
sordo e notturno degli squadroni che a ondate<br />
andavano a bombardare Milano.<br />
Passavano per ore parecchio alti sopra di noi,<br />
ma erano tanti e il rombo faceva tremare i<br />
vetri della casa.<br />
Allora la zia veniva in camera dalla mamma e<br />
stavano a torcersi le mani e a consolarsi a<br />
vicenda, al lume delle abat-jours, perché un<br />
poco dopo il passaggio della prima ondata si<br />
cominciava a sentire il rumore delle bombe<br />
su Milano. Un brontolio sordo, proprio come<br />
si legge sui libri, lungo, insistente e senza<br />
sosta, che si accompagnava ai bagliori della<br />
contraerea che si intravedevano nella foschia<br />
verso la fine del lago, come un mostruoso<br />
budino di cioccolata che tremolava là nel<br />
fondo nella notte. Dentro al quale stavano gli<br />
uomini della casa, mio padre e lo zio Dodo,<br />
che lavoravano in città e che sicuramente in<br />
quel momento erano da qualche parte là<br />
sotto.<br />
Io affinavo e temperavo il mio udito al calor<br />
bianco del mio terrore, un terrore metafisico,<br />
non collegato a un pericolo immediato, perché<br />
avevo imparato che in quei casi pericolo<br />
per noi non c’era e forse non riuscivo neppure<br />
a concepire il pericolo per papà, che per me<br />
era una entità immortale che prima o poi<br />
rispuntava sempre dalla curva dello stradone.<br />
Ma c’erano il rumore, la tensione delle donne,<br />
i tremori della veglia notturna e tutte le altre<br />
paure collegate al buio fragoroso e minaccioso<br />
che ci circondava.<br />
Quanto a rumori di aerei, io ero l’esperto<br />
incontestato della maison. Si diceva in famiglia<br />
perché avevo le orecchie a sventola, che<br />
poi a guardar bene non era neppur vero, sta<br />
di fatto che io sentivo gli aerei in arrivo un<br />
buon cinque minuti prima degli altri. In realtà<br />
la spiegazione positivistica, o ingegneristica<br />
che dir si voglia, era del tutto sbagliata. La<br />
mia straordinaria capacità aerofona non<br />
dipendeva dalla superficie auricolare, ma era<br />
Lettera ai compagni<br />
17
IL RACCONTO<br />
direttamente proporzionale al terrore per i<br />
bombardamenti che aveva le sue radici dall’esperienza<br />
del primo attacco aereo dell’ottobre<br />
del ’42, subìto in una cantina di Piazza Diaz.<br />
Di giorno però, quando capitava, gli aerei si<br />
dovevano guardare bene perché poi a scuola<br />
seguivano lunghi dibattiti sullo spotting. Di<br />
aerei nostri non ce n’era praticamente più,<br />
ma una prova sicura che fossero americani<br />
era il loro scintillio. Tutti gli altri erano<br />
mimetizzati, color cachi od oliva a macchie,<br />
ma le fortezze volanti “Liberator” (gli americani<br />
erano già bravini con le parole) attraversavano<br />
il cielo scintillando con l’improntitudine<br />
di chi se ne sbatte nel modo più assoluto.<br />
Era un gran bel vedere, soprattutto quando<br />
passavano un po’ in là.<br />
E noi, i ragazzini del paese, ma certo anche gli<br />
adulti, stavamo lì con il naso in su, rapiti a<br />
vedere questi uccelli dai baluginai brillanti<br />
come un’arborella nello stagno. Così, appena<br />
i miei padiglioni auricolari fisici, potenziati<br />
dalla paura, mi segnalavano un aereo in avvicinamento,<br />
io correvo fuori sul terrazzino per<br />
fare il rilevamento. Spesso erano lontani, ma<br />
un giorno che il rumore veniva forte dal di<br />
dietro, ho fatto appena in tempo ad aprire il<br />
portoncino a vetro verso l’orto, che in mezzo<br />
18 Lettera ai compagni<br />
a un frastuono assordante sono spuntati gli<br />
spitfires, con quel movimento danzante con<br />
le ali che fanno mentre mitragliano e con le<br />
fiammelle dei cannoncini che ci avresti potuto<br />
accendere il fuoco. Ma la visione non è<br />
durata molto perché mia madre urlando,<br />
immemore delle affermazioni paterne che di<br />
pericolo non ce n’era, mi risucchiò in casa,<br />
così che non ho mai più capito se la visione<br />
fosse stata così fulminea perché gli aerei<br />
erano passati in un batter d’occhio sopra gli<br />
alberi delle pere limoncine, oppure se mia<br />
madre era stata più rapida di loro a tirarmi<br />
dentro per il colletto della maglietta.<br />
Effettivamente per noi il pericolo era passato,<br />
ma non per altri, perché quello fu il famoso<br />
mitragliamento del San Giorgio, il traghetto<br />
Laveno-Intra colpito in mezzo al lago che,<br />
senza più comandante, chi ha preso il timone<br />
ha portato istintivamente in acque alte invece<br />
che farlo incagliare sulla spiaggia bassa<br />
davanti a Villa Taranto e così le sessanta persone<br />
sono ancora, là sul fondo del lago,<br />
davanti alla villa dello zio, che lì è profondo<br />
davvero. Per tutta la vita sono stato perseguitato<br />
da quello sbaglio, domandandomi se l’avrei<br />
fatto anche io nella concitazione di un<br />
dilettante marinaio che rifiuta istintivamente
di portare la barca su un basso fondo. Ma<br />
adesso, se mi capitasse, saprei come fare.<br />
E comunque quel giorno non sapevo niente,<br />
ma pensavo solo ai miei spitfires, ai cannoncini,<br />
ai bossoli e alle maglie brunite della bandoliera<br />
dei cannoncini che erano in effetti<br />
cadute in quantità nel mio giardino e nei dintorni,<br />
subito oggetto di una raccolta affannosa<br />
ed efficacissima dei ragazzini balzati fuori<br />
dalle case.<br />
I PARTIGIANI<br />
Che in paese tutti fossero con i partigiani,<br />
salvo i pochi borghesi sfollati, e le pochissime<br />
famiglie impegnate con la Repubblica di Salò,<br />
lo si capiva benissimo perché trai miei compagni<br />
di scuola ero l’unico che, ripetendo le<br />
cose che sentivo in casa, prendevo talvolta le<br />
parti dei fascisti. E un giorno che eravamo<br />
tutti sulla prua del giardino con i miei compagni,<br />
mia madre mi chiamò in casa e mi<br />
disse bruscamente di non usare quegli argomenti.<br />
Ma i partigiani rimanevano soprattutto<br />
una entità mitica che si muoveva nella<br />
notte. Un giorno si sparse la voce che c’era in<br />
giro Moscatelli. Furono chiuse tutte le persiane<br />
e ci mettemmo alla spia.<br />
Allora dallo stradone deserto reso più bianco<br />
dalla tensione, come nelle pellicole neorealiste,<br />
vedemmo salire un drappello di quattro o<br />
cinque uomini mezzovestiti da militari, forse<br />
uno era senza un braccio, con il mitra di traverso.<br />
Si sono fermati a dare un’occhiata in<br />
giro al crocevia della Campagna e poi sono<br />
scomparsi di nuovo nei sentieri verso la montagna<br />
dalle parti San Giorgio.<br />
Una sera, mentre eravamo nel soggiorno, che<br />
veniva chiamato tinello, bussano alla porta.<br />
Rapidamente il papà e lo zio vanno ad aprire,<br />
mentre si diffonde il clima delle emergenze e<br />
si chiude ritualmente la porta tra il soggiorno<br />
e l’anticamera.<br />
Non tanto rapidamente però perché non si<br />
faccia in tempo a intravedere qualcuno che<br />
entra con un mitra in mano a canna in giù. I<br />
partigiani!<br />
Si sente confabulare e poi qualcuno sale al<br />
piano di sopra mentre chi è rimasto scambia<br />
rade parole con i visitatori piazzati mezzo<br />
dentro e mezzo fuori sulla porta. Finalmente<br />
chi è salito scende e dopo un altro breve<br />
scambio gli ospiti se ne vanno mentre gli<br />
uomini di casa chiudono la porta di ingresso<br />
IL RACCONTO<br />
e riaprono quella della cittadella, rientrando<br />
in salotto con l’aria soddisfatta. La tensione<br />
esplode in una serie di domande confuse.<br />
Cosa volevano. Chi erano.<br />
Gli uomini spiegano che erano tre partigiani e<br />
che avevano chiesto “molto educatamente”<br />
dei vestiti. Al che lo zio era salito per prendere<br />
una giacca a vento, dei golf e delle calze e<br />
guanti di lana. Non credo che abbiano lesinato<br />
nel dare, il sollievo di essersela cavata a<br />
buon prezzo era tale che delle cose date, che<br />
pure non erano abbondanti neppure per noi,<br />
quasi non si è parlato. Ma volevano dei soldi?<br />
Pare di no, non li hanno chiesti.<br />
Il punto è stato dibattuto a lungo nel solito<br />
timore borghese di essersi inimicati una qualche<br />
divinità e di aver fatto brutta figura.<br />
“Dovevi dargli qualcosa.” Ma la conclusione<br />
fu che i soldi non servivano.<br />
E poi non avevano intenzioni aggressive; mio<br />
padre, che era stato in guerra, ripeteva con<br />
soddisfazione di essersene accorto subito perchè<br />
non avevano il caricatore innestato.<br />
Li conoscevo bene questi caricatori del<br />
Beretta adattato o dello Sten, 9 mm corto<br />
parabellum. Una scatoletta rettangolare di<br />
lamierino nero di un paio di centimetri per<br />
uno, alto un venti centimetri con una molla in<br />
fondo che si poteva togliere sfilando a slitta il<br />
fondalino di lamiera.<br />
La molla terminava con un soppalchino di<br />
alluminio sagomato tondeggiante a due piani<br />
che, a caricatore vuoto, si bloccava su due ricciolini<br />
della lamiera del caricatore. Le pallottole<br />
si infilavano facilmente dall’alto a una a<br />
una premendo in basso la molla e facendole<br />
poi scivolare dentro in due file parallele sfalsate<br />
di mezza pallottola.<br />
Questo marchingegno spingeva su una pallottola<br />
alla volta verso la camera da sparo del<br />
mitra che poi buttava fuori il bossolo da<br />
un’altra parte.<br />
Noi, dico noi bambini e bambine piccolissimi,<br />
passavamo ore a riempire un caricatore e a<br />
svuotarlo, o togliendo la slittina del fondo o<br />
spingendo fuori le pallottole a una a una dall’alto<br />
con il pollice. Un marchingegno di una<br />
semplicità ipnotizzante, mi domando quanto<br />
spesso si inceppasse quando lavorava davvero.<br />
Vuoto non pesava nulla, ma con le due file<br />
di una ventina di pallottole aveva una consistenza<br />
rassicurante.<br />
Di pallottole di mitra ce n’erano tante che non<br />
Lettera ai compagni<br />
19
IL RACCONTO<br />
mi ricordo che fosse mai un problema riempire<br />
un paio di caricatori che venivano poi<br />
ostentati alla cintura nella repubblica dei<br />
bambini.<br />
IL PARTIGIANO MANZONI<br />
Chi aveva condotto le trattative era un certo<br />
Manzoni, quello dei tre entrato in casa e che,<br />
forse, mi era sembrato di capire, aveva anche<br />
tenuto a bada pretese più spinte di qualcuno<br />
che era rimasto minaccioso nel buio brontolando.<br />
Ma in ogni caso, un po’ per la paura<br />
passata un po’ per genuina simpatia, la serata<br />
finì con la generale soddisfazione di aver stabilito<br />
un contatto con qualcuna delle divinità<br />
minori che si aggiravano nel buio della notte<br />
fuori dai confini del compound e che si manifestavano<br />
spesso con spari secchi, tonfi di<br />
bombe lontane, sbrillii di mitraglia e cattivi<br />
ronzii di pallottole.<br />
Da quella sera il partigiano Manzoni fu adottato<br />
dalla famiglia e probabilmente ritornò<br />
altre volte, non so se a chiedere soldi, ma non<br />
credo. A poco a poco la sua figura emergeva<br />
dall’ombra, anche perché era uno abbastanza<br />
conosciuto in paese e le sue gesta venivano<br />
amplificate enormemente nei racconti degli<br />
scolari. Una volta fummo presi in mezzo a<br />
una scaramuccia proprio all’uscita della scuola<br />
e ci gettammo tutti a ridosso di un muro<br />
dove stavano già accovacciati un gruppetto di<br />
partigiani, compreso il Manzoni che ci strizzava<br />
l’occhio sopra la spalla per rassicurarci.<br />
Me lo ricordo bene con i pantaloni tesi che<br />
aspettava l’occasione per saltare via.<br />
Non mi ricordo però, perché a un certo punto<br />
cominciarono a sparare i mortai e a me le<br />
bombe facevano una paura dannata, di aver<br />
visto la scheggia che, secondo la testimonianza<br />
unanime, ma un po’ sospetta, della classe,<br />
aveva segato i pantaloni del Manzoni giusto<br />
lungo la fessa. Ma la leggenda si consolidò,<br />
attraverso i racconti ripetuti ed entusiasti di<br />
chi come me non solo c’era, ma era anche<br />
riuscito a vedere l’evento miracoloso prima<br />
che, allontanandosi i tiri, tutti scappassero<br />
dalle loro parti come lepri.<br />
Comunque, il “Partigiano Manzoni” era<br />
diventato un nume tutelare della casa e quando,<br />
dopo un primo non riuscito assalto qualche<br />
settimana prima della Liberazione, la<br />
colonna dei partigiani si ritirava risalendo<br />
verso Premeno, noi eravamo tutti sul terraz-<br />
20 Lettera ai compagni<br />
zino del primo piano a guardare lo stradone e<br />
a un certo punto il Partigiano Manzoni ci ha<br />
visto e ci ha salutato, consolidando definitivamente<br />
il tutelage con il farci vedere a grandi<br />
gesti la giacca a vento dello zio con dentro<br />
qualche foro di pallottola o forse solo strappi.<br />
E ci gridava tutto allegro, “adesso ci ritiriamo,<br />
ma torneremo presto”.<br />
Nella mia memoria la Liberazione coincide<br />
con l’immagine anticipatoria della colonna<br />
del Partigiano Manzoni che si ritirava in allegria.<br />
Del giorno preciso del 25 Aprile non ho<br />
altri ricordi, salvo che eravamo tutti in strada<br />
e io ho visto che sull’erba del Prato Comune<br />
era caduta una spolverata di neve.
25 APRILE: LA SVOLTA<br />
DI SILVIO BERLUSCONI<br />
Il Presidente del Consiglio Silvio<br />
Berlusconi, il 25 aprile, dopo 14<br />
anni nei quali non ha mai voluto<br />
partecipare alle celebrazioni<br />
ufficiali, si è recato all’altare<br />
della Patria con il presidente della<br />
Repubblica Napoletano, ma ha scelto<br />
Onna, il paesino distrutto dal terremoto<br />
nel capoluogo abruzzese, per pronunciare<br />
il suo discorso.<br />
La scelta di Onna non è stata casuale. Ma ha<br />
avuto un doppio significato: fare sentire sua<br />
la vicinanza al paese duramente colpito dal<br />
sisma e commemorare le vittime di una feroce<br />
rappresaglia dei nazisti che avevano fucilato<br />
proprio nella piazza di Onna 17 cittadine<br />
inermi.<br />
Contrariamente a quanto sostenuto negli<br />
anni precedenti, nel suo discorso, il<br />
Presidente del Consiglio ha riconosciuto i<br />
valori della resistenza come fondamento della<br />
ritrovata libertà e come base della nostra<br />
costituzione.<br />
Non so se queste dichiarazioni corrispondano<br />
ad un interno sentire o se si tratti di un puro<br />
calcolo elettorale. Vogliamo provare a fidarci.<br />
Dopo queste dichiarazioni, il capo del maggior<br />
partito di opposizione, ha chiesto al<br />
Presidente del Consiglio di essere coerente<br />
con quanto dichiarato ritirarando la proposta<br />
di legge 1360 che propone l’istituzione<br />
dell’Ordine del Tricolore, legge che pretende<br />
di che conferire un riconoscimento a tutti i<br />
combattenti della guerra 41/45 compresi i<br />
partigiani e le truppe della repubblica sociale<br />
di Salò. Proposta aberrante perché non si<br />
può, come più volte affermato sulla nostra<br />
rivista, mettere insieme in un unico ordine<br />
cavalleresco torturati e torturatori, perseguitati<br />
e persecutori.<br />
Il Presidente del Consiglio Berlusconi, il giorno<br />
successivo nel corso della sua visita al<br />
LA NOTA<br />
di Mario ANIASI<br />
Salone del mobile di Milano, ha dichiarato<br />
che la proposta di legge che di fatto creava<br />
una equiparazione fra partigiani e repubblichini<br />
sarà ritirata, affermando inoltre, forse<br />
come giustificazione tardiva, che non era a<br />
conoscenza della presentazione di tale proposta.<br />
Ci sembra molto strana questa dichiarazione<br />
in quanto dell’iniziativa, e delle polemiche<br />
che ne erano seguite, avevano dettagliatamente<br />
parlato tutti i giornali e tutte le televisioni.<br />
Ma, come ho detto in precedenza, dobbiamo<br />
fidarci.<br />
Non so, però, come si possa in un regime<br />
democratico parlamentare ritirare un progetto<br />
di legge già presentato.<br />
Ma ammesso che ciò sia possibile, a nostro<br />
parere, è errato sia chiedere al Presidente del<br />
Consiglio, che non è un dittatore, di ritirare il<br />
progetto di legge di cui sopra, sia da parte<br />
dello stesso dichiararne il ritiro.<br />
Avremmo di gran lunga preferito che il progetto<br />
di legge fosse sottoposto all’esame del<br />
Parlamento e votato a scrutinio segreto.<br />
Avremmo finalmente saputo quanti sono,<br />
anche se non quali, nel nostro parlamento i<br />
sostenitori della dittatura fascista.<br />
Comunque, già i primi dissensi sul ritiro del<br />
progetto di legge incominciano a manifestarsi,<br />
primo fra tutti quello di Pino Rauti, suocero<br />
del sindaco di Roma Alemanno.<br />
Non vogliamo, però, tornare sui pro e i contro<br />
del progetto di legge 1360. Ci basta, per confermare<br />
la nostra avversione alla proposta di<br />
legge, citare qui il giuramento delle SS italiane<br />
della Rsi:<br />
“Davanti a Dio presto questo giuramento: che<br />
nella lotta per la mia Patria Italiana contro i<br />
suoi nemici, sarò in maniera assolutamente<br />
obbediente ad Adolf Hitler, comandante<br />
dell’Esercito Tedesco e quale valoroso soldato<br />
sarò pronto in ogni momento a dare la vita<br />
per questo giuramento”.<br />
Lettera ai compagni<br />
21
L’evoluzione della sicurezza.<br />
www.civis.it<br />
Milano Novara Treviso Rovigo Padova Verona Venezia Vicenza
INTERESSANTE TESTIMONIANZA DI RICCARDO ZERBA RACCOLTA<br />
DA LUCA BESANA<br />
IL PARTIGIANO DI VILLA CORTESE<br />
Il libro fa parte di una collana realizzata per iniziativa<br />
dell’amministrazione comunale e ha lo scopo, come dice<br />
il sindaco Alborghetti, di sottolineare il contributo dato,<br />
durante la Resistenza, da questo piccolo centro<br />
“alla costruzione della nuova Italia”<br />
Il Comune di Villa Cortese, un<br />
piccolo centro non molto distante<br />
da Milano, ha ricordato in<br />
modo singolare la ricorrenza del<br />
25 Aprile con una serie di manifestazioni<br />
culminate nella presentazione<br />
del libro “Il Partigiano”, una testimonianza<br />
del combattente Riccardo<br />
Zerba raccolta da Luca Besana, che -<br />
fra l’altro - è anche assessore di questa<br />
amministrazione. Il volume è stato<br />
presentato dal direttore di “Lettera ai<br />
Compagni”, Gino Morrone.<br />
La serata si è conclusa con la proiezione di<br />
alcune foto che corredano il libro di Zerba e la<br />
lettura di brani del racconto da parte di<br />
ragazzi di Villa Cortese e con il gradevole sottofondo<br />
musicale di un gruppo locale. Una<br />
bella serata, che ha richiamato un folto pubblico.<br />
Il sindaco dottor Giovanni Alborghetti<br />
ha sottolineato che, con il libro di Zerba, edito<br />
a cura dell’amministrazione comunale,<br />
“anche da Villa Cortese, anche dalla<br />
Curtascia, si è dato un piccolo contributo alla<br />
costruzione della nostra nuova Italia”.<br />
Pubblichiamo uno dei capitoli più significativi<br />
de “Il Partigiano”.<br />
LE AZIONI E GLI SCONTRI ARMATI<br />
Eravamo già in marzo.<br />
Il tempo in montagna passava inesorabile e la<br />
guerra proseguiva con i suoi vinti, vincitori ed<br />
eroi.<br />
Erano giorni tranquilli, si stava avvicinando<br />
la Pasqua, anche la temperatura invernale si<br />
stava chetando e la neve pian piano lasciava<br />
far capolino al verde dell’erba sottostante.<br />
Alla mattina del Sabato Santo la nostra staffetta<br />
ci avvisò che un gruppo di fascisti si<br />
RESISTENZA<br />
stava preparando a risalire la montagna per<br />
effettuare un rastrellamento; per tutto il giorno<br />
e la notte le due sentinelle si appostarono<br />
all’imbocco dei due sentieri che riportavano a<br />
Miazzina, pronte a dare l’allarme in caso di<br />
pericolo.<br />
La mattina successiva, quindi il giorno di<br />
Lettera ai compagni<br />
23
RESISTENZA<br />
L’AUTORE DEL LIBRO “ZERBA” (PRIMO A SINISTRA) E L’EX STAFFETTA VILMA LOSCHI<br />
Pasqua, verso le undici, sentimmo alcuni<br />
spari, le due sentinelle vennero di corsa al<br />
rifugio gridando: “Arrivano i fascisti!”.<br />
Dovemmo interrompere il frugale pasto mentre<br />
Chiovini ci ordinava di prendere le armi e<br />
di tenerci pronti a rispondere al fuoco, in caso<br />
di attacco.<br />
Il gruppo era composto da una decina di<br />
unità, li sentimmo avvicinarsi perché urlavano<br />
e cantavano, ogni tanto sparavano in aria<br />
qualche colpo; appena furono sotto tiro,<br />
24 Lettera ai compagni<br />
Chiovini intimò loro di non avanzare oltre,<br />
ma quelli cominciarono a caricare le armi e a<br />
sparare.<br />
Si sentì un rumore di caricatori e poi una violenta<br />
raffica di colpi che arrivavano da ogni<br />
parte, lo scontro durò una decina di minuti<br />
circa, finché ad un tratto si levò in aria un<br />
urlo lancinante di dolore e vidi un “nero”<br />
accasciarsi a terra.<br />
Era stato colpito, alcuni suoi compagni lo raggiunsero<br />
per soccorrerlo, ma non ci fu nulla<br />
da fare; uno di loro ordinò la ritirata e così<br />
fuggirono.<br />
Pochi minuti dopo la situazione rientrò nella<br />
normalità e la calma della montagna ritornò a<br />
regnare. Una sera, dopo aver cenato, mentre<br />
eravamo all’aperto, sotto un bel cielo stellato,<br />
a ridere e a scherzare, sentimmo la voce di<br />
Peppo: “Entrate!”.<br />
Entrammo nel salone e vedemmo Peppo con<br />
le mani dietro la schiena, davanti alla stufa,<br />
impassibile.<br />
All’improvviso si girò verso di noi e ci disse:<br />
“Ragazzi c’è un’azione importante da fare.<br />
Non è semplice, ci va soltanto chi se la<br />
sente!”.<br />
Non avevo mai visto Chiovini così serio e<br />
preoccupato.<br />
Tra di noi ci fu una serie di sguardi, tutti fra il<br />
perplesso e la paura per le parole del comandante.<br />
Vidi che per primi si fecero avanti<br />
Sozzi e Brighel, “Ci siamo!” risposero, poi alzò<br />
la mano Tucci: “Anch’io ci sono!” fu poi la<br />
volta di Ugo Pini e infine Benvenuto, così era<br />
il suo nome di battaglia. Chiovini fece un giro<br />
di sguardi, in attesa che qualcun altro partecipasse.<br />
I miei compagni senza sapere di cosa si trattasse<br />
non avevano indugiato, così spinto dal<br />
quello spirito, mi risolsi ad alzare la mano:<br />
“Presente!” dissi<br />
e guardando gli altri ci scambiammo uno<br />
sguardo d’intesa, quasi si aspettassero la mia<br />
presenza. Sedemmo intorno al tavolo e<br />
Chiovini iniziò a spiegarci la faccenda: “Si<br />
tratta di andare a Premevo e assalire la caserma<br />
dei carabinieri!”.<br />
Ci fu un attimo di silenzio. Fino ad ora le azioni<br />
compiute si limitavano all’assalto di semplici<br />
posti di blocco, prendere un’intera caserma<br />
non era per niente facile.<br />
Poi Peppo riprese: “Girano voci di un possibile<br />
rastrellamento da parte di fascisti, non si sa
quando, perciò dobbiamo recuperare tutte le<br />
armi che troviamo e farlo alla svelta, perché<br />
quelli non vedono l’ora di fucilarci”.<br />
Da subito ci accorgemmo che la situazione<br />
era delicata, noi non eravamo dei militari<br />
preparati a compiere certe azioni, eravamo<br />
ragazzi che a malapena sapevano tenere in<br />
mano un fucile, certo il coraggio non ci mancava,<br />
ma purtroppo non sarebbe bastato solo<br />
quello per mettere in scacco una caserma.<br />
Passammo l’intera sera a studiare il piano di<br />
attacco. Dopo aver speso molte parole e confrontato<br />
molte idee, Tucci disse: “Ragazzi,<br />
meglio andare a letto e riposare, altrimenti<br />
quelli domani ci fanno secchi ancora prima di<br />
arrivare”.<br />
Non passai una bella notte; mi svegliai in continuazione,<br />
agitato da oscuri pensieri e sogni.<br />
La mattina, quando ancora non si scorgeva la<br />
luce del sole, Sozzi mi svegliò dicendomi: “È<br />
ora. Bisogna andare”. Indossai i pantaloni e il<br />
maglione, presi un fucile, misi in tasca un<br />
pezzo di pane e partimmo alla volta di<br />
Premevo.<br />
Arrivati in paese facemmo un giro di perlustrazione,<br />
assicurandoci che non ci fossero<br />
dei “neri”, così Peppo disse al Tucci: “Tu<br />
rimani qui per vedere se arriva qualcuno”. Il<br />
campanile batté le dodici.<br />
Ci recammo alla caserma dei carabinieri che<br />
si trovava appena fuori dal paese. Per nostra<br />
fortuna non c’erano sentinelle appostate all’esterno,<br />
per cui ci avvicinammo di soppiatto<br />
senza farci vedere ed entrammo; Brighel aprì<br />
la porta dello stanzino e Chiovini gridò:<br />
“Alzate le mani! Siete circondati!”.<br />
Vennero presi di sorpresa, non avendo sentito<br />
alcun rumore, si misero ad urlare ed a pregare<br />
di non far loro del male: si trovarono<br />
tutto d’un tratto cinque fucili puntati addosso<br />
e così si arresero all’istante.<br />
Ci consegnarono tutte le armi che avevano, 14<br />
moschetti, lo bombe a mano e 4 o 5 pistole:<br />
“Ce ne hanno di roba questi venduti!” disse<br />
Pini, mentre sequestrava il bottino.<br />
Usciti dalla caserma, galvanizzati dalla riuscita<br />
dell’azione, ci abbracciammo tutti insieme<br />
e Peppo ci fece i complimenti per il nostro<br />
coraggio.<br />
In effetti avevamo compiuto un’azione degna<br />
di militari esperti, pur non avendo né dimestichezza<br />
né esperienza in questo campo.<br />
La felicità in un baleno venne spazzata via da<br />
RESISTENZA<br />
un vento di terrore; ad un tratto, mentre stavamo<br />
andando verso la piazza a recuperare<br />
Tucci, un paesano ci corse incontro tutto spaventato<br />
e ci disse: “Andate via! In piazza ci<br />
sono i fascisti! Hanno preso un partigiano!”.<br />
Immediatamente ci guardammo tutti negli<br />
occhi ed in coro esclamammo: “Tucci!”.<br />
Ci fu un attimo di gelo, non eravamo pronti<br />
ad un attacco del genere, soprattutto non<br />
sapevamo quanti nemici avevamo davanti, lo<br />
sgomento iniziò ad assalirci e sapevamo bene<br />
quanto il terrore può far commettere degli<br />
errori. Chiovini ordinò agli altri di cominciare<br />
a salire verso il rifugio: “State attenti a non<br />
farvi beccare”, poi guardandomi mi disse:<br />
Francesco vieni con me”.<br />
Il paesano ci riferì che i fascisti erano andati<br />
verso la stazione ferroviaria e così corremmo<br />
alla svelta verso tale luogo, con la speranza di<br />
salvare il nostro compagno, ci rincuorò il<br />
fatto di non aver sentito nessuno sparo.<br />
Incominciai ad avere paura.<br />
Raggiungemmo la stazione e ci nascondemmo<br />
dietro un terrapieno, poco distante dall’ingresso,<br />
una posizione favorevole in caso di<br />
scontro armato, in quanto eravamo ben riparati,<br />
ma soprattutto avevamo una buona<br />
visuale.<br />
Dalla stazione non uscì nessuno per circa una<br />
decina di minuti, avevamo il timore che avessero<br />
preso il primo treno per Milano o per<br />
qualche carcere vicino.<br />
Quando ormai avevamo perso ogni speranza,<br />
ad un tratto la porta si aprì ed uscirono i due<br />
“neri”, vedemmo che in mezzo a loro c’era<br />
Tucci, con un braccio lo tenevano stretto, nell’altra<br />
mano impugnavano la pistola, minacciandolo<br />
se avesse continuato a dimenarsi.<br />
I due venivano proprio verso di noi, senza<br />
accorgersi della nostra presenza, continuamente<br />
insultavano Tucci con ogni tipo di volgarità;<br />
Peppo mi disse: “Tieniti pronto! Al<br />
mio segnale facciamo fuoco!”.<br />
I due si avvicinarono sempre di più, ormai<br />
erano a pochi metri di distanza, feci appena<br />
in tempo a togliere la sicura dal mitra, che<br />
Peppo disse: “Via.!”.<br />
Ci alzammo e iniziammo a sparare a più non<br />
posso contro i due “neri” che subito arretrarono,<br />
coprendosi il viso con le mani e di corsa<br />
cercarono di rientrare nella stazione, ma la<br />
nostra raffica li raggiunse lasciandoli a terra.<br />
Tucci al momento cadde in terra, cercò di<br />
Lettera ai compagni<br />
25
RESISTENZA<br />
ripararsi con le mani vedendo poi i suoi aguzzini<br />
scappare, venne verso di noi e si gettò<br />
dietro il terrapieno.<br />
Lo abbracciammo, era sudato e non riusciva a<br />
parlare per lo spavento preso, gli scesero<br />
anche due lacrime di gioia.<br />
Peppo notò che perdeva sangue da un braccio,<br />
un colpo lo aveva sfiorato, provocando<br />
una ferita. “Cerca di tenere ben premuto!<br />
Adesso andiamo in ospedale così ti medicano”<br />
disse Chiovini.<br />
Chiovini accompagnò Tucci all’ospedale,<br />
mentre io presi il solito sentiero che riportava<br />
a Pian Cavallone.<br />
Da quel giorno non lo rividi più. Solo 40 anni<br />
dopo, mentre mi trovavo a Daverio a trovare<br />
degli amici, lo rividi. Fu una grande emozione<br />
e mi commossi appena ci stringemmo nuovamente<br />
la mano dopo tutto quel tempo.<br />
In aprile ci fu un lancio di indumenti.<br />
Quel giorno eravamo tutti in uno stato di<br />
calma, c’era chi giocava a carte, chi puliva il<br />
suo fucile, chi scriveva qualche parola d’amore<br />
per la sua amata o per i genitori, che ormai<br />
non vedevamo da parecchi mesi.<br />
Ad un tratto si sentì un rumore fortissimo,<br />
ognuno di noi lasciò immediatamente la sua<br />
26 Lettera ai compagni<br />
occupazione, rientrammo nell’albergo a prendere<br />
le armi pronti ad entrare in azione.<br />
Volgemmo lo sguardo verso il cielo e vedemmo<br />
che si trattava di un aereo e notammo che<br />
da esso venivano lanciati dei fagottini ad una<br />
velocità incredibile, subito pensammo ad un<br />
bombardamento, ma immediatamente ci<br />
accorgemmo che ci sbagliavamo.<br />
Erano dei fagottini che contenevano indumenti,<br />
alimentari qualche medicinale, così di<br />
corsa iniziammo il recupero.<br />
Una volta fatta la scorta per l’intera brigata,<br />
Chiovini mi disse di recarmi a Ponte Casletto<br />
per portare le scorte anche alle altre Brigate,<br />
in particolare quella guidata dal comandante<br />
Dionigi Superti.<br />
Allora presi alcuni fagotti, li legai sulle spalle<br />
e cominciai il cammino verso il luogo stabilito;<br />
trovai il distaccamento della Brigata e<br />
incontrai con mia grande sorpresa un mio<br />
concittadino, Arnaldo Rabbolini, detto ingegner<br />
Carlini; mentre gli consegnavo il fagotto<br />
d’indumenti, mi raccontò di essere scappato<br />
da Villa Cortese a causa delle persecuzioni dei<br />
fascisti.<br />
Dopo averlo abbracciato, gli augurai buona<br />
fortuna e ritornai al mio rifugio.
ALLA PRESENTAZIONE DEL FUTURO MUSEO IN MEMORIA DELLA SHOAH<br />
ORA ALEMANNO AMMETTE:<br />
FASCISMO DISUMANO<br />
PROVO DOLORE E RIPUGNANZA<br />
Le leggi razziali furono aberranti e coinvolsero<br />
il regime di Mussolini e il nazismo<br />
Il sindaco di Roma Gianni<br />
Alemanno non finisce mai di stupire.<br />
Dopo essere entrato in<br />
rotta di collisione con il suo leader,<br />
Gianfranco Fini, che definì<br />
il fascismo male assoluto (concetto<br />
peraltro ribadito in più occasioni<br />
anche di recente), ora ammette: il<br />
fascismo fu disumano, provo dolore e<br />
ripugnanza.<br />
Alemanno ha scelto, per questa clamorosa<br />
retromarcia, la presentazione del nascituro<br />
Museo in memoria dell’Olocausto a Roma.<br />
Con questa sortita il primo cittadino di Roma<br />
spera di chiudere l’incidente di qualche<br />
tempo fa a Gerusalemme esplicitando la sua<br />
“ripugnanza per la condotta disumana del<br />
fascismo” nei confronti degli ebrei.<br />
A Gerusalemme Alemanno, che ha sempre<br />
vantato le sue origini missine, in occasione<br />
della prima visita da sindaco, aveva preso in<br />
parte le distanze da Gianfranco Fini, sostenendo<br />
che il fascismo non è stato “un male<br />
assoluto”, ma piuttosto “un fenomeno complesso:<br />
molti vi aderirono in buona fede”.<br />
Male assoluto sono state semmai “le leggi razziali,<br />
che furono un cedimento al nazismo”.<br />
ATTUALITÀ<br />
Una puntualizzazione che aveva suscitato<br />
non poche polemiche da parte della comunità<br />
ebraica. Per quelle dichiarazioni Walter<br />
Veltroni si era dimesso dal comitato per il<br />
museo della Shoah mentre il presidente della<br />
Camera Fini non aveva nascosto il suo imbarazzo.<br />
Alemanno adesso si dice convinto che “la<br />
Shoah è stato senza dubbio uno degli eventi<br />
più tragici e aberranti che il genere umano<br />
abbia conosciuto: i regimi coinvolti meritano<br />
perennemente la massima condanna possibile”.<br />
Condanna piena insomma, “da italiano”,<br />
per le leggi razziali in quanto “imposte dal<br />
regime fascista”. A novembre, nel primo viaggio<br />
con gli studenti ad Auschwitz che riprendeva<br />
la tradizione avviata dal predecessore<br />
Veltroni, il sindaco aveva rilanciato l’equazione<br />
“fascismo come il nazismo”, ammettendo<br />
di aver compiuto “gravi errori comunicativi”.<br />
Ce n’è abbastanza per dire che si tratta di un<br />
Alemanno assolutamente inedito, completamente<br />
“convertito”. Ma è proprio così?<br />
Qualche dubbio lo avanza proprio Walter<br />
Veltroni, il quale partecipando alla stessa<br />
cerimonia del futuro Museo della Shoah,<br />
ammonisce: “Quando sento dire (il riferimento<br />
è al Presidente del Consiglio Silvio<br />
Berlusconi): noi non vogliamo una società<br />
multietnica, mi chiedo che cosa voglia dire.<br />
Alla base di ciò che è accaduto, la persecuzione<br />
degli ebrei, c’era la volontà di avere un’unica<br />
etnia che veniva definita razza.<br />
Questo è stato l’inizio della fine”. E il rabbino<br />
capo di Roma Riccardo Di Segni aggiunge:<br />
“prima della Shoah c’era una nave piena di<br />
ebrei, la Saint Louis, partita da Amburgo, che<br />
nessuno aiutò. Oggi navi simili non si aggirano<br />
più per l’Atlantico ma stanno a poche<br />
miglia dalle nostre coste”.<br />
Lettera ai compagni<br />
27
IL “BOMBAROLO”<br />
IN UN’ INTERVISTA A TUTTO CAMPO DELL’UTRI CONTINUA A SPARARLE GROSSE<br />
“I SALOINI? ERANO<br />
PARTIGIANI DI DESTRA”<br />
E ancora: Mussolini fu un dittatore buono e le leggi razziali<br />
in fondo erano blande - Attacco alla Rai: “è tutta in mano<br />
alla sinistra, bisognerebbe occuparla”<br />
Mentre il Presidente della<br />
Camera Gianfranco Fini,<br />
con apprezzabile onestà<br />
intellettuale, continua a<br />
prendere le distanze da<br />
Mussolini e dal fascismo, c’è un esponente<br />
del centrodestra, Marcello<br />
Dell’Utri, che non perde occasione per<br />
spararle grosse a vanto e gloria di quel<br />
regime che costo milioni e milioni di<br />
morti all’Europa. Stavolta il bibliofilo<br />
della destra si cimenta su un argomento<br />
sul quale la storia ha dato la sua sentenza<br />
definitiva: i ragazzi di Salò e le leggi<br />
razziali.<br />
Sapete cosa dice Dell’Utri? “I militi della Rsi<br />
erano dei partigiani di destra, Mussolini era un<br />
dittatore troppo buono e le leggi razziali in<br />
Italia erano in fondo “blande”.<br />
Quanto ad amenità, il senatore siciliano non<br />
finisce proprio di stupire. In un’intervista a<br />
tutto campo a Klaus Davi per il programma<br />
“Klauscondicio”, lo stesso nel quale un anno fa,<br />
alla vigilia delle elezioni politiche, aveva definito<br />
Vittorio Mangano, stalliere di Arcore, un<br />
“eroe”, il braccio destro di Silvio Berlusconi<br />
attacca la Rai, “che è di sinistra”, parla delle<br />
nomine dei vertici sostenendo che bisognerebbe<br />
addirittura occupare la sede di Saxa Rubra.<br />
“Perché no? - aggiunge - Ma naturalmente speriamo<br />
di non doverla occupare. E in mano alla<br />
sinistra, non so come stia in piedi, un’altra<br />
azienda sarebbe fallita”.<br />
Difende, naturalmente il suo capo (Silvio<br />
Berlusconi), intervenendo anche nelle polemiche<br />
e nei veleni di questi giorni per affermare<br />
con sicurezza: “Le veline laureate e preparate<br />
politicamente sono di gran lunga più apprezzabili<br />
di alcune tele-giornaliste, che non conoscono<br />
l’italiano”.<br />
Tornando al fascismo, Dell’Utri prosegue:<br />
“Mussolini ha perso la guerra perché era troppo<br />
buono. Non era affatto un dittatore spietato e<br />
28 Lettera ai compagni<br />
sanguinario come Stalin”.<br />
Dell’Utri sostiene di aver letto e riletto i diari<br />
del Duce ricavandone l’idea che “Mussolini era<br />
straordinario, di grande cultura”. E non è stata<br />
affatto colpa sua se “il fascismo è stato un<br />
orrendo regime”. Secondo Dell’Utri, anche l’alleanza<br />
con Hitler non fu una scelta del duce. E<br />
questo, dice Dell’Utri (che ricordiamo, è ancora<br />
sotto accusa per concorso esterno in un processo<br />
per mafia) non per “fare dell’apologia del<br />
fascismo”. E secondo lui va ridimensionata<br />
anche la persecuzione degli ebrei in Italia : “nei<br />
suoi diari, Mussolini scrive che le leggi razziali<br />
devono essere blande”. E i ragazzi di Salò, sottolinea:<br />
“In fondo erano al 100% partigiani di<br />
destra, credevano in alcuni valori”. Parole che<br />
fanno a pugni con quelle spese più volte e a più<br />
riprese da Fini sulla Resistenza e sul fascismo<br />
nonché con quelle di Silvio Berlusconi che, celebrando<br />
il 25 Aprile, ha ricordato l’eroismo dei<br />
partigiani grazie ai quali l’Italia fu liberata,<br />
sostenendo che essi non vanno confusi con i<br />
ragazzi di Salò che stavano dalla parte sbagliata,<br />
e facendo ritirare il progetto di legge di iniziativa<br />
di un gruppo di deputati del suo schieramento<br />
che volevano la totale parificazione tra<br />
partigiani e saloini. Il Centrosinistra accusa<br />
Dell’Utri di revisionismo. “È la conferma che il<br />
paese è a rischio: dicendo che la Rai va occupata,<br />
che Mussolini non era poi tanto male e che<br />
le veline sono meglio delle giornaliste Rai,<br />
Dell’Utri getta la maschera” - punta il dito il Pd<br />
Roberto Cuillo. Francesco Pardi, senatore Idv,<br />
lo invita a fare una visita in via Tasso a Roma<br />
(luogo delle torture delle SS) “dove forse perfino<br />
lui sa che cosa succedeva al tramonto del<br />
regime”. A definire “sconcertanti” le parole di<br />
Dell’Utri è anche l’Udc, con Roberto Rao, membro<br />
della Vigilanza Rai, preoccupato per l’ipotesi<br />
“occupazione”: “Il cda saprà rispondere a<br />
questo tentativo con nomine autorevoli”. La<br />
Federazione della stampa respinge l’insulto alle<br />
giornaliste tv e definisce “ignorante chi vanta<br />
un dittatore o auspica occupazioni”.
MEMORIA<br />
IL RASTRELLAMENTO<br />
NAZISTA DELLA BENEDICTA di Mario ANIASI<br />
La Benedicta, un antico monastero<br />
benedettino medioevale,<br />
diventato prima della<br />
seconda guerra mondiale la<br />
cascina di una proprietà terriera,<br />
ora è ridotto ad un rudere dopo<br />
anni e anni di colpevole incuria.<br />
La Benedicta è situata a 750 metri di quota, in<br />
comune di Bosio in provincia di Alessandria,<br />
nella località denominata Parco regionale<br />
Capanne di Magarolo alle pendici del monte<br />
Tobio sull’appennino ligure fra le province di<br />
Alessandria e di Genova. È stato uno dei luoghi<br />
simbolo della lotta partigiana.<br />
Nella zona, subito dopo l’8 settembre del ’43<br />
si formarono i primi gruppi partigiani costituiti<br />
principalmente da antifascisti genovesi e<br />
da alcuni prigionieri di guerra sfuggiti all’internamento.<br />
La zona di insediamento prossima alla camionale<br />
Milano-Genova e ad altre importanti vie<br />
di comunicazione stradali e ferroviarie si prestava<br />
ad azioni di sabotaggio a danno delle<br />
forze tedesche che avevano occupato tutta<br />
l’Italia continentale anche con l’aiuto della<br />
neonata repubblica sociale costituitasi dopo<br />
la liberazione di Mussolini.<br />
I gruppi partigiani, che inizialmente agivano<br />
in ordine sparso, successivamente si organizzarono<br />
in due tronconi: la III Brigata<br />
Garibaldi Liguria e la Brigata autonoma<br />
Alessandria.<br />
Nella primavera del ’44 gli effettivi dei due<br />
raggruppamenti, che nel corso dell’inverno<br />
non raggiungevano le 100 unità, oltretutto<br />
scarsamente armate, si ingrossarono enormemente<br />
sia per il crescente affermarsi dell’antifascismo<br />
nella popolazione della zona<br />
che sperava nella fine della guerra, sia per<br />
effetto dei tristemente famosi “Bandi<br />
Graziani”, che minacciavano la pena di morte<br />
nei confronti di tutti i militari che, dopo l’armistizio<br />
dell’8 settembre avevano lasciato i<br />
rispettivi corpi, non si fossero presentati ai<br />
distretti più vicini per essere inquadrati nelle<br />
forze della repubblica sociale di Salò , sia nei<br />
confronti di tutti i richiamati alle armi delle<br />
classi più giovani che eventualmente non si<br />
fossero presentati all’appello.<br />
In pochissimo tempo alla fine di febbraio i<br />
partigiani e renitenti, che si erano accampati<br />
alle falde del monte Tobio, erano diventati<br />
alcune centinaia.<br />
Un così numeroso concentramento di resistenti,<br />
per la gran parte disarmati, creava<br />
numerosi problemi: occorreva fornire a tutti<br />
il cibo, gli alloggiamenti, il vestiario, le armi e<br />
sopratutto l’addestramento.<br />
Il Cln di Genova, che cercava di coordinare le<br />
azioni dei partigiani in questa, zona, oltre a<br />
dare, per quanto poteva, aiuti concreti, aveva<br />
deciso di riservare la zona principalmente<br />
all’addestramento, del quale i giovani partigiani,<br />
per la maggioranza privi di una qualsiasi<br />
esperienza militare, avevano assolutamente<br />
bisogno.<br />
Completato un pur sommario addestramento,<br />
il Cln aveva deciso di spostare sia la terza<br />
brigata Garibaldi Liguria sia la brigata autonoma<br />
Alessandria in altre zone essendo l’attuale<br />
collocazione, per la sua vicinanza a<br />
grandi vie di comunicazione, a rischio di<br />
accerchiamento.<br />
Il trasferimento, completato un minimo di<br />
addestramento, era previsto per per alcuni<br />
gruppi ad ovest verso l’acquese per altri ad est<br />
verso val Curone.<br />
La formazione più organizzata era la terza<br />
brigata Garibaldi Liguria che alla fine di febbraio<br />
del ’44 era forte di circa 700 effettivi,<br />
divisi in una decina di distaccamenti di cui il<br />
più importante era quello situato alla<br />
Benedicta con circa 100 unità.<br />
La brigata autonoma Alessandria, anch’essa<br />
forte di alcune centinaia di giovani, era dislocata<br />
in modo sparpagliato nella zona dellea<br />
capanne di Mortarolo, alle pendici del monte<br />
Tobio.<br />
Solo la terza brigata Garibaldi Liguria dispo-<br />
Lettera ai compagni<br />
29
MEMORIA<br />
neva di un piano di sganciamento in caso di<br />
rastrellamento da parte di tedeschi e fascisti,<br />
gli altri avevano solo l’ordine di nascondersi<br />
nei boschi.<br />
Nella primavera del ’44, fra i fascisti delle<br />
zone confinati, montava gradatamente una<br />
forte irritazione dovuta non tanto ad azioni<br />
partigiane di sabotaggio, quanto invece allo<br />
scarso successo delle leve di reclutamento<br />
della neonata Repubblica sociale e alla sparizione<br />
di gran parte dei giovani dai paesi di<br />
residenza: tutto ciò aveva come diretta conseguenza<br />
l’aumento del sentimento antifascista<br />
nella popolazione.<br />
Per questa ragione i fascisti locali chiedevano<br />
fossero eseguiti rastrellamenti nella zona in<br />
modo da stanare le bande partigiano verso le<br />
quali erano confluiti i giovani.<br />
A tal fine avevano predisposto un piano ad<br />
hoc con forti contingenti di militi della Gnr ed<br />
di altre truppe.<br />
Questo piano fu bocciato dai tedeschi , non si<br />
sa se per scarsa fiducia nelle truppe fasciste o<br />
perché ritenevano necessario un progetto di<br />
più ampie dimensioni.<br />
È un fatto, comunque, accertato dalle varie<br />
ricerche storiche sull’eccidio della Benedicta,<br />
che, nonostante ci fossero avvisaglie di un<br />
possibile e imminente rastrellamento da<br />
parte dei nazifascismi, non fu adottata alcuna<br />
contromisura di contrasto.<br />
Solo la terza brigata Garibaldi Liguria aveva<br />
abbozzato un piano di sganciamento ad est<br />
verso la val d’Orba e l’acquese e a sud ovest<br />
verso Voltri e Arenzano.<br />
Nessuno in definitiva credeva<br />
che un rastrellamento in grande<br />
stile fosse imminente.<br />
Invece il 6 aprile il rastrellamento<br />
ebbe inizio.<br />
Da direzioni diverse (Lerma,<br />
Carrosio e Voltaggio, Masone,<br />
Rossiglione e Campomorrone<br />
e Pontedecimo) si mossero<br />
colonne costituite principalmente<br />
da truppe tedesche ma<br />
anche da militi della Gnr e da<br />
bersaglieri repubblichini.<br />
Un gran dibattere si è fatto<br />
sull’effettiva consistenza dei<br />
rastrellatori, alcuni parlarono<br />
addirittura di 20.000 uomini.<br />
Ricerche più recenti (partico-<br />
30 Lettera ai compagni<br />
larmente di fonte tedesca) hanno dimostrato<br />
inequivocabilmente che si trattava di circa<br />
1500 militari tedeschi, tutti di fanteria, di<br />
circa 500 militi della Gnr e di poche decine di<br />
bersaglieri.<br />
Comunque sia, il numero di coloro che parteciparono<br />
al rastrellamento era superiore a<br />
quello dei partigiani, ma sicuramente ciò che<br />
faceva la grande differenza era l’armamento.<br />
Le truppe tedesche erano equipaggiate con<br />
armi automatiche, mitragliatrici, mortai¸<br />
lanciafiamme, alcuni pezzi di artiglieria da<br />
montagna ed erano appoggiati da autoblindo,<br />
cingolati e oltretutto avevano il sostegno<br />
aereo, in quanto un velivolo leggero ( la famigerata<br />
“cicogna”) sorvolava continuamente la<br />
zona segnalando posizioni e spostamenti dei<br />
partigiani.<br />
Per contro, per avere una idea dell’armamento<br />
dei resistenti è sufficiente elencare una<br />
fonte non sospetta: il giornale di guerra del<br />
gruppo di armate naziste che traccia il bilancio<br />
dell’operazione: 145 partigiani morti e<br />
368 prigionieri a fronte di soli 4 morti (di cui<br />
un soldato italiano) fra le le file tedesche e a<br />
proposito dell’armamento partigiano scrive:”<br />
1 automobile, 120 fucili da caccia, 9 revolver,<br />
9 pistole, 11 pistole ad avancarica, 15 fucili<br />
(italiani e francesi), 7 fucili mitragliatori<br />
(americani) un fucile mitragliatore (italiano)<br />
piccole quantità di munizioni.<br />
Questa era la differenza.<br />
Stando così le cose, i partigiani, salvo piccoli<br />
gruppi che riuscirono a sganciarsi, furono<br />
FERRUCCIO PARRI ALLA BENEDICTA
accerchiati e credendo di fare la cosa corretta,<br />
anziché sparpagliarsi, confluirono verso la<br />
Benedicta alcuni in quanto sapevano che là vi<br />
erano i partigiani meglio armati, altri invece<br />
perché riunendosi tutti nel medesimo luogo<br />
sarebbero stati fatti prigionieri. E non uccisi.<br />
Invece non fu così: arrivati alla Benedicta i<br />
rastrellatori chiamarono fuori i resistenti a<br />
cinque per volta e li fucilarono. Morirono così<br />
più di cento partigiani. Come sempre accade<br />
in ogni fucilazione di massa, uno si salvoìò<br />
perché vicino a un ferito che cadendo lo coprì<br />
con il suo corpo. Come nell’eccidio dei 43<br />
“banditen” di Fondotoce.<br />
I componenti del plotone di esecuzione non<br />
furono però i tedeschi ma i bersaglieri repubblichini.<br />
I lavori più sporchi venivano riservati<br />
agli italiani.<br />
Il rastrellamento continuò anche nei giorni<br />
successivi. Il bilancio delle perdite fra le file<br />
partigiane divenne sempre più pesante: già<br />
nel corso della nottata altre 21 vittime si<br />
aggiunsero a quelle della Benedica mentre a<br />
Villa Bagnara caddero 13 dei 40 catturati e a<br />
Voltaggio ne furono fucilati altri cinque e così<br />
via.<br />
Assai difficile è fare un computo totale delle<br />
vittime, specie se si considerano i contadini<br />
uccisi per rappresaglia.<br />
Una stima approssimativa la dà il cippo ele-<br />
MEMORIA<br />
vato a memoria, che elenca i nomi di 98 fucilati<br />
alla Benedicta, 87 caduti in combattimento,<br />
179 deceduti a Mauthasen tra i 400 deportati.<br />
La furia nazifascista non si è scatenò, però,<br />
solo contro le persone: anche l’edificio della<br />
Benedicta (antico convento benedettino) fu<br />
minato e fatto saltare in aria trasformandolo<br />
in un cumulo di macerie.<br />
Negli anni si sono susseguite le commemorazioni<br />
dei fatti della Benedica: senza avere la<br />
pretesa di elencarle tutte, vale la pena di<br />
ricordare quelle di Ferruccio Parri, primo<br />
Presidente del Consiglio dopo la Liberazione,<br />
e dei vari Presidenti della Repubblica, da<br />
Giuseppe Saragat a Sandro Pertini a Carlo<br />
Azeglio Ciampi assieme, naturalmente, a<br />
tutte le autorità regionali di Piemonte e<br />
Liguria.<br />
I fatti narrati non sono stati senza insegnamenti<br />
positivi: dopo la Bededicta furono<br />
modificate le strategie della lotta partigiana, e<br />
non solo sull’Appennino ligure. Si imparò che<br />
le armi bisognava conquistarle e non attendere<br />
che piovessero dal cielo. Si imparò che la<br />
lotta partigiana doveva essere fatta da veloci<br />
sganciamenti dal nemico in caso di rastrellamento<br />
e con precisi piani al riguardo.<br />
Nel 1999, per ricordare l’evento, è sorto un<br />
comitato per il ricupero della Benedicta che<br />
nel 2003 si è trasformato in<br />
Associazione memoria della<br />
Benedicta con la partecipazione<br />
di tutte le realtà istituzionali<br />
locali, provinciali e regionali<br />
e delle varie associazioni<br />
partigiane, oltre agli istituti<br />
storici piemontesi e liguri,<br />
comitato che ha come scopo<br />
non solo la valorizzazione dell’area<br />
trasformandola in vera<br />
e propria zona monumentale,<br />
con un sacrario per i caduti e<br />
un parco della pace, ma anche<br />
quello di organizzare tutti gli<br />
anni la commemorazione dell’evento,<br />
oltre naturalmente a<br />
diffondere la memoria con<br />
varie iniziative.<br />
L’associazione è molto attiva:<br />
ha iniziato la pubblicazione di<br />
tre collane di memorie, di dvd<br />
sull’argomento.<br />
Lettera ai compagni<br />
31
L’INTERVENTO<br />
Ho letto con interesse nell’ultimo<br />
numero della<br />
“Lettera” la recensione di<br />
Diego Giachetti su tre<br />
pubblicazioni relative al<br />
“fenomeno” della contestazione sessantottina,<br />
dalla Valsesia a Catanzaro.<br />
Vorrei aggiungere la segnalazione di un altro<br />
interessante libro sull’argomento, evidenziante<br />
qualche altro aspetto: “Frammenti<br />
d’Italia, prima e dopo il Sessantotto” di<br />
Sandro Boato, Temi Editrice, Trento. Pagg.<br />
168, Euro 10,00. Con prefazione di Adriano<br />
Sofri e illustrazioni di Matteo Boato, pittore<br />
figlio dell’autore.<br />
Un primo aspetto sono le radici, anche inconsce,<br />
che il Sessantotto ha avuto nella<br />
Resistenza.<br />
Sandro Boato, urbanista e poeta, è nato a<br />
Venezia nel 1938, da una famiglia intransigentemente<br />
antifascista. Il padre Angelin,<br />
partigiano di Giustizia e Libertà, aderente al<br />
Partito d’Azione con la moglie Rita de Felip e<br />
la sorella Emma, aveva trasformato la casa in<br />
base di appoggio della Resistenza, nascondendo<br />
(e trasportando) armi e munizioni, ed<br />
anche in magazzino un partigiano sceso dalla<br />
montagna, nutrendolo per tutto il duro inverno<br />
1944 - 45. Sul ponte di Rialto, venne un<br />
giorno aggredito con bastoni e catene da un<br />
gruppo di camicie nere.<br />
In questa atmosfera nascono e crescono cinque<br />
figli: Sandro, Maurizio, Stefano, Marco e<br />
Michele. Marco assieme a Mauro Rostagno è<br />
l’ispiratore e guida della contestazione nel<br />
neonato Istituto Superiore di Scienze Sociali<br />
che diventerà l’Università di Trento; con il<br />
fratello Michele e Nico Nordio provoca anche<br />
l’occupazione dell’Università di Ca’ Foscari a<br />
32 Lettera ai compagni<br />
ANCORA SUL ’68<br />
LA FAMIGLIA BOATO, DALLA RESISTENZA<br />
ALLA CONTESTAZIONE,<br />
ALL’AMBIENTALISMO<br />
di Renzo BIONDO<br />
Venezia.<br />
Il secondo aspetto interessante: una piccola<br />
facoltà periferica a Trento diventa uno dei<br />
primi centri della rivolta sociale del 1968, in<br />
una città che vota al 56% per la Democrazia<br />
Cristiana, ma è una D.C. a due facce: quella<br />
bigotta e tradizionalista di Flaminio Piccoli, e<br />
quella moderna e riformatrice di Kessler che<br />
inventa l’Università, e chiama docenti come<br />
Samonà, Alberoni, Beniamino Andreatta con<br />
l’assistente Romano Prodi.<br />
Ricordiamo che la rivolta sociale che va sotto<br />
la sigla del ’68 ha cambiato radicalmente la<br />
società italiana, i rapporti fra persone e generazioni,<br />
in campo familiare, sessuale, stili di<br />
vita, modi di vestire, musica e letteratura, il<br />
tutto con metodi diversi dai tradizionali.<br />
Mario Capanna nel suo libro “Lettere a mio<br />
figlio” scrive: “L’obiettivo non è stato prendere<br />
il posto dei potenti, ma essere diversi da<br />
loro”.<br />
Marco sarà un protagonista della vita politica<br />
italiana, prima con Lotta Continua, poi come<br />
uno dei fondatori del Movimento Ecologista,<br />
di volta in volta deputato e senatore, capogruppo,<br />
ma anche severo critico della deriva<br />
del gruppo dirigente dei Verdi nella disastrosa<br />
“Sinistra Arcobaleno” alle elezioni 2008; e<br />
richiama l’esperienza del padre Angelin nel<br />
“piccolo - grande Partito d’Azione”.<br />
Altri due fratelli, Stefano e Michele, restano a<br />
Venezia, eletti in vari incarichi amministrativi.<br />
In particolar Stefano, per lunghi anni assessore<br />
all’Urbanistica, blocca numerose operazioni<br />
di speculazione edilizia perniciose per il tessuto<br />
urbano, Michele è tuttora sentinella fantasiosa<br />
delle aspirazioni ambientaliste.<br />
Sandro, il primo e forse il più appassionato<br />
dei fratelli, nel 1961 si trasferisce a Trento,<br />
con Alexander Langer diventa un punto di
iferimento dell’ambientalismo.<br />
Architetto all’Ufficio Tecnico del Comune, poi<br />
dirigente dell’Urbanistica della Provincia<br />
autonoma di Trento, collabora al piano regolatore<br />
cittadino, al primo piano urbanistico<br />
d’Italia a scala regionale - provinciale; pubblica<br />
opere monumentali sui Parchi e riserve<br />
naturali del Trentino, e una documentata rassegna<br />
dei Parchi in Italia, in Europa e nel<br />
mondo. Ed insieme ha una continua produzione<br />
poetica garbata e toccante, in italiano e<br />
dialetto veneziano, ed anche in altre lingue<br />
europee, della quale ci sono campioni anche<br />
nel libro.<br />
È stato anche eletto consigliere provinciale<br />
per i Verdi.<br />
La sua partecipazione ai movimenti del ’68 è<br />
generosa, ma nel libro quasi in ombra, centrato<br />
com’è sul “prima” e sul “dopo”. Dei sei<br />
capitoli in cui si articola (tutti rigorosamente<br />
divisi in sette sottocapitoli) più un’introduzione<br />
ed una chiusura, solo i due centrali (La<br />
sveglia e Il riflusso) sono dedicati espressamente<br />
alla contestazionesessantottesca.<br />
Dall’episodio<br />
di Paolo che in<br />
Duomo alzò il dito<br />
per contestare il<br />
quaresimale del<br />
Vescovo (“Uomini<br />
vestiti di scuro, mai<br />
usciti dai filari dei<br />
banchi … si levano<br />
come morsi dal<br />
marasso ruggendo<br />
“Fuori”) e poi organizza<br />
un controquaresimale<br />
fuori<br />
della porta, fino<br />
alle occupazioni<br />
della facoltà, ai cortei<br />
ed assemblee di<br />
massa, studentesche<br />
ed operaie,<br />
alle nuove affermazioni<br />
femministe.<br />
Gli altri capitoli<br />
sono una lenta e<br />
fatale preparazione<br />
all’evento, o la rincorsa<br />
agli impegni<br />
successivi, nei<br />
L’INTERVENTO<br />
quali “Andrea” alter ego dell’autore, compie<br />
excursus nel tempo e nello spazio, dalla città<br />
in cui è nato, (e nella quale ogni tanto ritorna,<br />
trovando prezzi stratosferici, torme di turisti<br />
che nascondono i pochi nativi rimasti), alla<br />
Trento in cui imperversa il partito onnipresente,<br />
alle valli tranquille ma aggredite dalle<br />
speculazioni di vario genere, ad un lago ed un<br />
paese con l’acciottolato che cede all’asfalto e<br />
le fontane di ferro e pietra (Levico?), ma<br />
anche al milione di Marco Polo, all’Argentina<br />
in cui papà Angelin è andato giovane a lavorare<br />
(per tornare e partecipare alla<br />
Resistenza) da Peron a Dubcek, da Masaryk a<br />
Lech Walesa, c’è dentro un bel pezzo di storia<br />
moderna.<br />
Il libro, che l’autore dedica alla moglie (e<br />
compagna di avventure) Odilia, ed alla<br />
memoria di Livia Battisti (figlia del martire<br />
Cesare), battagliera consigliera comunale, è<br />
di facile lettura e molto coinvolgente e ben<br />
illustrato da Matteo Boato.<br />
Lo consiglio a tutti.<br />
MARCO BOATO<br />
Lettera ai compagni<br />
33
LA RICERCA<br />
Cos’è rimasto nella letteratura<br />
italiana e nella nostra<br />
memoria collettiva del ruolo<br />
svolto dalle donne partigiane<br />
tra il settembre 1943 e l’aprile<br />
1945?<br />
Questo l’argomento generale dell’incontro,<br />
coordinato dal Presidente della F.I.A.P. di<br />
Roma Vittorio Cimiotta, che si è svolto lunedì<br />
2 marzo 2009 a Roma, presso la Biblioteca<br />
della Casa della memoria e della storia, in<br />
occasione della presentazione del libro<br />
“Resisting Bodies Narratives of Italian<br />
Partisan Women”, a cura di Rosetta D’Angelo<br />
e Barbara Zaczek, Annali di Italianistica Studi<br />
e Testi vol. 9, Chapel Hill, 2008.<br />
Resisting Bodies, è una ricca e significativa<br />
antologia sulle partigiane italiane nella narrativa<br />
e tiene insieme tanti fili diversi.<br />
Innanzitutto attraverso la scelta di generi<br />
narrativi differenti che le curatrici dividono<br />
in due sezioni: la prima dedicata ai ricordi<br />
personali; l’altra alla finzione letteraria, sia<br />
pure spesso ispirata da un coinvolgimento<br />
diretto degli autori nella Resistenza (pensiamo<br />
a Beppe Fenoglio).<br />
Altro aspetto importante, come d’altra parte è<br />
messo in rilievo nella prefazione delle curatrici,<br />
è la scelta di scritti ambientati in diverse<br />
parti d’Italia: Roma, Firenze, l’Emilia<br />
Romagna, il nord ovest ed il nord est. Ma quel<br />
che soprattutto emerge da questo lavoro è che<br />
non possiamo parlare di una sola tipologia di<br />
resistenti: non esiste “la donna” antifascista<br />
ma ci sono tanti tipi di donne che si oppongono<br />
ai tedeschi e alla Repubblica sociale.<br />
Una caratteristica dell’antologia di D’Angelo<br />
34 Lettera ai compagni<br />
INTERESSANTE INCONTRO CULTURALE ORGANIZZATO DALLA <strong>FIAP</strong><br />
ALLA CASA DELLA MEMORIA DI ROMA<br />
LE DONNE PARTIGIANE<br />
NELLA LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE<br />
Presentata l’antologia “Resisting Bodies”, una ricca<br />
e importante raccolta sul ruolo e la partecipazione<br />
delle italiane nella Resistenza<br />
di Anna BALZARRO<br />
e Zaczeck, è la scelta di brani che ruotano<br />
attorno alla rappresentazione del corpo femminile,<br />
come suggerisce il titolo e come le<br />
curatrici indicano subito nella nota che apre il<br />
libro.<br />
Anche in questo caso, tuttavia, il plurale è<br />
d’obbligo e non è corretto parlare tanto di<br />
corpo ma di corpi e delle loro diverse immagini.<br />
I corpi delle partigiane possono esprimere<br />
affetto e angoscia, o possono esprimere la<br />
resistenza estrema alla fatica; sono oggetto di<br />
ricatto sessuale, o sono scrutati con sospetto<br />
dalle donne del paese che le ritengono di facili<br />
costumi. Ci sono i fisici attraenti di Jole (in<br />
Fenoglio) e Giglia (in Calvino) ma c’è anche<br />
quello, fuori dai canoni della seduzione, di<br />
Agnese (nel romanzo di Viganò) con i suoi<br />
piedi gonfi, deformi e dolenti.<br />
Ecco dunque che anche dalla prospettiva dei<br />
corpi possiamo notare e valorizzare le intensità<br />
di resistenza al dolore, alla fatica, allo<br />
sguardo scrutatore degli altri; possiamo<br />
costruire una storia fatta di tante storie diverse<br />
eppure tenute insieme da comuni valori e<br />
sofferenze condivise.<br />
Nella prefazione al libro le curatrici si soffermano<br />
sulla descrizione fisica di Vera, la partigiana<br />
protagonista di un racconto di Marcello<br />
Venturi, sulle sue mani asciutte rivelatrici del<br />
suo carattere forte e privo di esitazioni emotive.<br />
Ed è proprio con la lettura per intero di questo<br />
racconto di Venturi “La ragazza se ne va<br />
con il Diavolo”, che, subito dopo i saluti del<br />
Presidente dell’A.N.P.I. di Roma, Massimo<br />
Rendina, Gaudia Sciacca apre i lavori del 2<br />
marzo. L’immagine asciutta e sicura della giovane<br />
Vera lascia spazio, nel successivo inter-
vento di Stefano Gambari, responsabile della<br />
Biblioteca della Casa della memoria e della<br />
storia, alla figura di Agnese, protagonista del<br />
romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a<br />
morire che, secondo Gambari, riassume in sé<br />
le tante tipologie di donna partigiana. In questo<br />
intervento viene al tempo stesso tratteggiata<br />
l’intera produzione dell’autrice Renata<br />
Viganò, e si riflette sul significato, anche<br />
didattico, di uno strumento come l’antologia<br />
che, in quanto selezione di testi, sceglie ed<br />
indica un percorso ai lettori.<br />
Le due autrici D’Angelo e Zaczeck, d’altra<br />
parte, si soffermano nel loro intervento proprio<br />
sulle ragioni che le hanno spinte a scrivere<br />
l’antologia, nata dall’esigenza di far<br />
conoscere il ruolo delle donne nella<br />
Resistenza italiana al pubblico americano e<br />
soprattutto agli studenti universitari. In particolare<br />
Zaczeck racconta le sue ragioni autobiografiche<br />
di donna polacca che ha avuto<br />
una famiglia coinvolta dalle vicende della<br />
guerra e, come studiosa, narra di essere rimasta<br />
colpita da alcuni volumi sulla seconda<br />
guerra mondiale e in particolare da un testo<br />
(La guerra nei tuoi occhi) che aveva sulla<br />
copertina l’immagine di una donna a seno<br />
nudo. E dal legame guerra/corpo delle donne<br />
passa poi a riflettere sul gioco d’identità sessuale<br />
che emerge da tanti scritti sulla partecipazione<br />
partigiana femminile: dal racconto di<br />
Venturi alle memorie di Carla Capponi.<br />
D’Angelo, dopo aver lamentato lo scarto tra<br />
partecipazione femminile e l’ oblio in cui questa<br />
è caduta fin dal dopoguerra, ricorda i progressi<br />
svolti dalla storiografia negli ultimi<br />
decenni e si sofferma sull’importanza delle<br />
memorie. In particolare parla della lunga<br />
intervista di Tersilla Fenoglio Oppedisano e<br />
riflette sulla partecipazione politica femminile<br />
nell’Italia del dopoguerra, che ha inevitabilmente<br />
portato tante donne a dover rinunciare<br />
ad una parte di sé per adattarsi ai canoni<br />
maschili della politica.<br />
Solo per fare un esempio, Tersilla Fenoglio<br />
appoggia in pieno, anche a distanza di tanti<br />
anni, la scelta dei compagni di non far partecipare<br />
le donne garibaldine nelle sfilate della<br />
Torino liberata: una scelta dettata dalla paura<br />
che la presenza di donne armate, che avevano<br />
diviso per mesi la vita clandestina con degli<br />
uomini, potesse gettar discredito non solo<br />
sulle dirette interessate ma sull’intero movi-<br />
LA RICERCA<br />
mento partigiano.<br />
Prendono parte all’incontro Anna Balzarro e<br />
Raffaella Puggioni docenti di The American<br />
University of Rome (Balzarro) e della John<br />
Cabot University (Puggioni). Balzarro fa una<br />
presentazione generale dell’antologia e delle<br />
problematiche che solleva, mentre Puggioni<br />
mette in luce lo scarto tra l’importanza della<br />
partecipazione femminile alla Resistenza e la<br />
mancata opportunità di utilizzare quell’esperienza<br />
per capovolgere i ruoli di genere. Al<br />
contrario, sottolinea Puggioni, dalla lettura di<br />
diversi brani dell’antologia emerge l’accettazione<br />
piena degli stereotipi di genere (nel diario<br />
di Fulvia Ripa di Meana, ad esempio, c’è la<br />
riaffermazione della figura, tradizionalmente<br />
maschile, di eroe che muore per la patria)<br />
anche da parte di donne che hanno rischiato<br />
la vita in prima persona.<br />
Il pomeriggio del 2 marzo non è stato solo<br />
una giornata dedicata alla presentazione di<br />
un libro, per quanto valido e innovativo. È<br />
stata l’occasione di una riflessione comune<br />
sul significato della presenza delle donne nel<br />
movimento partigiano, sui valori della<br />
Resistenza e sulla necessità di riferirsi ancora<br />
a quei valori e di difenderli dagli attacchi del<br />
presente, come ha messo in luce il ricco dibattito,<br />
in chiusura dell’incontro, che è stato stimolato<br />
anche dalla testimonianza di due partigiane,<br />
Lucia Corti e Anna Maria Ventura,<br />
invitate da Vittorio Cimiotta a prendere la<br />
parola.<br />
Negli anni di guerra Corti e Ventura erano<br />
entrambe giovanissime spose; la prima viveva<br />
a Torino, l’altra in provincia di Piacenza e<br />
nell’Oltrepo’ Pavese.<br />
Dai loro racconti emerge la forza dei legami<br />
che si sono stabiliti nel corso della lotta e la<br />
specificità della sensibilità femminile: in quei<br />
contesti le donne sentivano una sorta di<br />
maternità universale verso qualunque persona<br />
sofferente, ricorda Lucia Corti. D’altra<br />
parte il presentarsi ai nemici nelle vesti di<br />
madri di famiglia (Anna Maria Ventura andava<br />
a parlare con tedeschi e fascisti tenendo in<br />
braccio il figlioletto di un anno) serviva a<br />
mascherare il coinvolgimento attivo di una<br />
donna nella Resistenza, utilizzando a proprio<br />
vantaggio gli stereotipi di genere, secondo un<br />
gioco di identità sessuale che le curatrici di<br />
Resisting bodies hanno evidenziato all’interno<br />
di tanti brani autobiografici e letterari.<br />
Lettera ai compagni<br />
35
RINTRACCIATO UN DOCENTE UNIVERSITARIO TEDESCO CONVERTITOSI<br />
E DIVENTATO EBREO<br />
UN NIPOTINO DI HITLER<br />
ORA INSEGNA<br />
IL TALMUD IN ISRAELE<br />
Ha cambiato nome per evitare di essere continuamente<br />
discriminato assieme ai suoi familiari, ma la sua scelta<br />
è convinta e definitiva - Non è il solo ex nazista<br />
che vive a Tel Aviv<br />
Ha 52 anni, lavora in una<br />
università d’Israele ed<br />
insegna il Talmud. Niente<br />
di strano e di straordinario,<br />
se non si trattasse<br />
nientedimeno che del nipote di Adolf<br />
Hitler. A scovarlo è stato un giornalista<br />
di “Repubblica”, Marco Ansaldo, che è<br />
riuscito a intervistarlo. Vive da 25 anni<br />
in Israele, ha un nome e un cognome<br />
tedesco, ma non vuole rivelarli. È lui<br />
stesso a spiegare il perché. Racconta:<br />
“Il nome di nonna era Ema Patra<br />
Hitler. Dopo la guerra, per non farsi<br />
riconoscere, fece cadere la “t” e cambiò<br />
il suo nome in “Hiler”. Hans Hitler, il<br />
suo secondo marito, era il nipote del<br />
Fuehrer.<br />
“Quel che a lui mancava in termini di rudezza,<br />
non difettava invece alla moglie, mia<br />
nonna appunto”. Questo pronipote del capo<br />
del nazismo viene così descritto: alto e snello,<br />
con un misto di accento tedesco, inglese ed<br />
ebraico. Disponibile e gentile. È nato<br />
Francoforte nel 1952, ma - come detto - da 5<br />
lustri vive e lavora in Israele. Ha un nome e<br />
un cognome, un numero di telefono, una<br />
mail, ma non è disposto a rivelarli pubblicamente:<br />
dimostrerebbero in modo inequivocabile<br />
non solo l’origine teutonica, ma l’origine<br />
della sua famiglia.<br />
Da tempo - scrive “Repubblica” si è convertito.<br />
Oggi, addirittura, insegna il Talmud, il<br />
libro sacro dell’ebraismo, in una Università<br />
israeliana.<br />
LA CURIOSITÀ<br />
“Mia nonna era una nazista fervente. Lei credeva<br />
nell’ideologia nazionalsocialista, prima,<br />
durante e dopo la guerra. Era orgogliosa che<br />
suo suocero fosse il fratello di Hitler, benché<br />
egli si fosse tenuto lontano dalla politica.<br />
Lui gestiva un caffè a Berlino, e tutta la dirigenza<br />
nazista frequentava il locale. I miei<br />
genitori erano entrambi cattolici protestanti.<br />
Tutti e due nella Wehrmacht, l’esercito del<br />
Terzo Reich. Mio padre, ardente sostenitore<br />
del partito, divorziò da mia madre poco dopo<br />
la mia nascita.<br />
Così fui cresciuto da lei, che a quel punto non<br />
ricevette alcun sostegno, né finanziario né<br />
tantomeno morale da nonna Erna, una donna<br />
Lettera ai compagni<br />
37
LA CURIOSITÀ<br />
indifferente alle pene e alle sofferenze altrui.<br />
Ho avuto un’infanzia piena di problemi.<br />
Con mia madre passavamo da una casa all’altra,<br />
buttati fuori quando non c’erano più i<br />
soldi per l’affitto. Però lei mi ha raccontato<br />
sempre tutto, mostrandomi i documenti con<br />
le svastiche, le lettere e le fotografie dei nostri<br />
parenti - compresa lei stessa - mentre indossavano<br />
le divise. E quando le chiesi, visto che<br />
sapeva le condizioni in cui vivevano gli ebrei<br />
polacchi a Lodz, perché avesse continuato a<br />
obbedire, mi disse semplicemente, con molta<br />
vergogna, “avevo paura”. Le credetti”.<br />
Adolf Hitler non ebbe figli, ma un fratellastro,<br />
Alois junior, che è il padre di Hans. “Hans -<br />
dice ancora il pronipote di Hitler - sposò<br />
nonna Erna quando lei divorziò dall’altro mio<br />
nonno. Io, dunque, non ho alcun legame di<br />
sangue con il Fuehrer, non ho Dna in comune.<br />
Incontrai Hans solo una volta. Gli Hitler<br />
vennero a casa per un té. Lui era un uomo<br />
molto simpatico.<br />
Nonna era elettrizzata di avere sposato uno<br />
del loro clan. Rimase nazista fino al termine<br />
dei suoi giorni”.<br />
“Mio padre morì quando avevo 19 anni. L’ho<br />
visto di rado, e quelle poche volte ero così<br />
contento che non gli chiesi mai che cosa avesse<br />
fatto durante la guerra. Seppi dopo che era<br />
un maggiore della Wehrmacht. Mia madre mi<br />
picchiava. Un tempo così forte da non poter<br />
andare a lavorare dopo perché aveva le dita<br />
troppo gonfie per battere a macchina”.<br />
“Lessi “Mein Kampf”, il libro di Hitler, da<br />
ragazzo. E ne<br />
rima-<br />
si imbarazzato. Come ha potuto la gente essere<br />
così stupida da eleggere un uomo che scriveva<br />
cose simili? Il mio percorso verso l’ebraismo<br />
è stato lungo. Dopo la maturità, al<br />
momento di fare il servizio militare in<br />
Germania, ho scelto teologia.<br />
Il corso prevedeva un periodo di sei settimane<br />
in Israele. Era l’inizio degli Anni Settanta.<br />
Una volta arrivato, mi sono sentito a casa.<br />
Sono rimasto. E mi sono convertito”.<br />
Scrive ancora il giornale: “Secondo alcune<br />
stime sono circa 300 i tedeschi convertiti che<br />
vivono oggi in Israele.<br />
Molti di loro tuttavia non vogliono rivelare la<br />
loro identità, preferendo nascondere il passato.<br />
Diversi sono docenti universitari. Uno di<br />
questi è proprio il nipote di Hitler che utilizza<br />
un altro nome anche se in Israele qualcuno lo<br />
ha già identificato.<br />
“Non mi piace - continua l’intervistato - sentir<br />
parlare dei palestinesi con sufficienza.<br />
L’Olocausto e il Terzo Reich mi hanno forgiato.<br />
Sono pacifista, e penso che la democrazia<br />
provi sé stessa rispettando i diritti delle<br />
minoranze. Ho sempre cercato di essere onesto<br />
sulle mie origini: non le ho mai nascoste.<br />
Ne ho anzi parlato con i miei studenti, e uno<br />
di loro mi ha detto: “Immagina, tuo nonno<br />
potrebbe aver saponificato mia nonna”.<br />
Quando la mia storia ha iniziato a circolare,<br />
diverse persone con cui parlavo normalmente,<br />
non mi hanno più stretto la mano.<br />
Cambiavano strada. E ai miei figli, a scuola, i<br />
bambini sputavano addosso chiamandoli<br />
“nazisti”. Ho imparato la lezione. Certa gente<br />
non vuole che tu cambi. Mai”.<br />
IL TALMUD (CHE SIGNIFICA INSEGNA-<br />
MENTO, STUDIO, DISCUSSIONE DALLA<br />
RADICE EBRAICA LMD) È UNO DEI TESTI<br />
SACRI DELL’EBRAISMO. È RICONOSCIU-<br />
TO SOLO DALL’EBRAISMO CHE LO CONSI-<br />
DERA COME LA TORAH ORALE, RIVELATA<br />
SUL SINAI A MOSÈ E TRASMESSA A<br />
VOCE, DI GENERAZIONE IN GENERAZIO-<br />
NE, FINO ALLA CONQUISTA ROMANA. IL<br />
TALMUD FU FISSATO PER ISCRITTO SOLO<br />
QUANDO, CON LA DISTRUZIONE DEL<br />
SECONDO TEMPIO, GLI EBREI TEMETTE-<br />
RO CHE LE BASI RELIGIOSE DI ISRAELE<br />
POTESSERO SPARIRE.
LA SCOPERTA<br />
SORPRENDENTE RITROVAMENTO IN UN EX CAMPO DI STERMINIO NAZISTA<br />
SOS DA AUSCHWITZ IN UNA BOTTIGLIA<br />
TROVATO DOPO 65 ANNI<br />
Nel messaggio, nascosto in un muro nel 1944,<br />
ci sono i nomi di 7 prigionieri<br />
Dai luoghi del dolore e degli<br />
orrori ogni tanto affiorano<br />
particolari che riaprono<br />
vecchie e mai rimarginate<br />
ferite. Durante i lavori di<br />
scavo e di abbattimento di un muro in<br />
quell’orrenda prigionia che fu il campo<br />
di Auschwtiz è saltato fuori un messaggio-appello,<br />
nascosto in una bottiglia,<br />
contenente 7 nomi di deportati tenuti<br />
rinchiusi nella macelleria<br />
dell’Olocausto.<br />
Il biglietto è stato già riconosciuto come<br />
autentico da uno dei sette prigionieri sopravvissuto,<br />
oggi ottantacinquenne.<br />
In una corrispondenza da Berlino, Danilo<br />
Taino sul “Corriere della Sera” ha così ricostruito<br />
la vicenda.<br />
“Un messaggio in una bottiglia, abbandonato<br />
un giorno del 1944 nel mare dell’orrore, è<br />
riemerso pochi giorni fa. E, ieri, uno dei prigionieri<br />
del lager simbolo dell’Olocausto ha<br />
detto che sì, lui era uno dei sette uomini il cui<br />
nome appare su quel pezzo di sacco di cemento,<br />
uno dei naufraghi della storia del<br />
Novecento che cercò di lasciare la prova della<br />
sua esistenza al caso. Anche il numero di registrazione<br />
sul messaggio corrisponde: è lo<br />
stesso 12063 che Albert Veissid, 85 anni,<br />
ancora oggi ha sul braccio.<br />
Durante la demolizione di un muro in una<br />
scuola di Oswiecim, il villaggio polacco che<br />
dal 1940 i tedeschi iniziarono a rendere famoso<br />
come Auschwitz, il 20 aprile<br />
scorso - a poche centinaia di<br />
metri dal campo di concentramento<br />
- è stata scoperta una<br />
bottiglia: dentro, arrotolato,<br />
c’era un pezzo di carta con un<br />
messaggio scritto a matita e<br />
sette nomi a ognuno dei quali<br />
corrisponde un numero di registrazione. I<br />
responsabili del Memoriale che oggi ricorda<br />
quegli anni hanno verificato l’autenticità del<br />
documento (del quale non si conosce il testo<br />
completo) e hanno ricostruito i fatti in questo<br />
modo: “Nel 1944, dei prigionieri edificarono<br />
un rifugio per i soldati, nelle vicinanze del<br />
lager, e devono avere messo la bottiglia nel<br />
muro a cui stavano lavorando”.<br />
“Non un grido di aiuto - scrive ancora Taino,<br />
che nessuno in un muro avrebbe trovato per<br />
chissà quanto tempo, dunque.<br />
Ma, probabilmente, un ponte verso il futuro<br />
che vedevano svanire attorno a loro ogni giorno.<br />
Forse il desiderio di fare<br />
sapere, a vent’anni, comunque<br />
fosse finita, che erano passati<br />
da questa terra ma gli era stato<br />
reso impossibile lasciare un<br />
segno diverso dalle poche<br />
parole su un pezzo di sacco di<br />
cemento che essi stessi, lavoratori<br />
schiavi, avevano portato<br />
Lettera ai compagni<br />
39
LA SCOPERTA<br />
sulle spalle”.<br />
Un paio di giorni fa, le autorità che gestiscono<br />
il Memoriale - Museo di Auschwitz -<br />
Birkenau hanno reso noti i nomi dei sette prigionieri<br />
- sei polacchi e un francese - che<br />
misero le loro speranze nella bottiglia: sapevano<br />
che almeno due erano usciti vivi dal<br />
campo di concentramento. Letta la notizia,<br />
un uomo del Nord della Polonia, attraverso<br />
Google, ha rintracciato Veissid a Marsiglia.<br />
L’ex internato non ricorda della bottiglia ma,<br />
dice oggi: “quelli sul messaggio sono assolutamente<br />
il mio nome e il mio numero di registrazione”.<br />
Le autorità polacche del Mausoleo<br />
cercano anche notizie su eventuali altri<br />
sopravvissuti, tra coloro che firmarono il<br />
messaggio. Oltre a Veissid, sono: Bronislaw<br />
Jankowiak di Pozzan, numero 121313;<br />
Stanislaw Dubla di Laskowice, numero<br />
130208; Jan Jasik di Radoma, numero<br />
131491; Waclaw Sobczak di Konina, numero<br />
145664; Karol Czekalski di Lodz, numero<br />
151090; Waldemar Bialobrzeski di Ostroleka,<br />
numero 157582. Sicuramente, i signori<br />
CzekaIski e Sobczak sopravvissero al campo<br />
di sterminio.<br />
“Il complesso di campi di lavoro e di stermi-<br />
40 Lettera ai compagni<br />
nio di Auschwitz - Birkenau - si legge sempre<br />
nella corrispondenza - fu il luogo dove il maggior<br />
numero di ebrei, prigionieri polacchi e<br />
Rom venneno sterminati: più di un milione.<br />
Aperto nel 1940, dopo l’occupazione della<br />
Polonia, inizialmente con scopi militari e di<br />
produzione, nel 1942 divenne il lager principale<br />
nel quale si realizzò la “soluzione finale”<br />
della questione ebraica decisa dai nazisti. Era<br />
gestito dalle SS e, sulla base delle esigenze<br />
belliche, destinava un certo numero di internati<br />
al lavoro, in media il 25 per cento, mentre<br />
il resto, la parte più debole dei prigionieri,<br />
era inviato alle camere a gas. Il 27 gennaio<br />
1945 arrivò l’Armata Rossa sovietica e almeno<br />
tre dei ragazzi che avevano scritto il loro<br />
nome su quel pezzo di carta furono liberi”.<br />
“Un altro messaggio in una bottiglia fu trovato<br />
nel 2003, sempre in un muro ma questa<br />
volta nel lager di Sachsenhausen, non lontano<br />
da Berlino. Era stato scritto nell’aprile del<br />
1944 da uno studente polacco, Tadeusz<br />
Witkowski, e da un comunista tedesco, Anton<br />
E., il quale annotava: “Voglio andare a casa.<br />
Quando vedrò i miei cari a Colonia? Ma il mio<br />
spirito non è spezzato. Presto, tutto sarà<br />
meglio”.
LA GERMANIA PROCESSA IL NAZISTA<br />
UCRAINO CHE STERMINÒ 29 MILA EBREI<br />
John Demjanjuk, meglio conosciuto<br />
come il boia di Soribor e<br />
responsabile dello sterminio<br />
di 29 mila ebrei, è stato estradato<br />
dagli USA e sarà processato<br />
in Germania. Del personaggio, che<br />
è uno dei più feroci criminali nazisti<br />
rimasti in vita, la “Lettera” si era occupata<br />
nel numero precedente quando<br />
Berlino ne aveva chiesto l’estradizione,<br />
al termine di una lunga e complicata<br />
vicenda che aveva coinvolto gli Usa e<br />
Israele.<br />
Ora, finalmente, il criminale nazista sarà condotto<br />
nell’aula di un tribunale per rendere<br />
conto dei suoi numerosi efferati omicidi alla<br />
magistratura tedesca, all’opinione pubblica<br />
mondiale, al Centro Wiesenthal che gli ha<br />
dato la caccia per tutti questi anni, alla comunità<br />
ebraica, ai sopravvissuti all’Olocausto.<br />
Naturalmente gli avvocati della difesa e la<br />
famiglia dell’imputato sostengono che il boia<br />
di Soribor è innocente e quindi vittima di un<br />
clamoroso errore giudiziario.<br />
John Demjanjuk, identificato dai superstiti<br />
come responsabile diretto nella morte di oltre<br />
29 mila deportati in quel campo di sterminio,<br />
una volta giunto in Germania dagli Stati<br />
Uniti, è stato rinchiuso nel carcere di<br />
Stadelheim, lo stesso che nel ’22 ebbe un altro<br />
“ospite” molto più illustre, Adolf Hitler.<br />
La Germania è determinata ad affrontare e<br />
chiudere il suo terribile passato.<br />
Il processo e la condanna del boia di Soribor<br />
rientra in questa finalità. Certo Demjanjuk<br />
non è in piena forma: ha 89 anni, in carcere<br />
è entrato assistito da un medico, da un’infermiera<br />
e da un prete, sta su una sedia a<br />
rotelle, si aiuta con un apparecchio respiratore,<br />
anche se il suo look non è da vecchietto<br />
(giacca di cuoio, berretto da baseball) e<br />
un video in Usa lo mostrava in tutt’altre condizioni<br />
fisiche.<br />
Il processo, indipendentemente dall’età e dal<br />
suo stato di salute, è un atto dovuto: ha sulla<br />
coscienza 29 mila vite umane distrutte, è uno<br />
GIUSTIZIA<br />
dei super ricercati del centro Wiesenthal, che<br />
lo considera, come criminale nazista, alla<br />
stessa stregua del “dottor Morte” Aribert<br />
Heim o Alois Brunner, nascosto e protetto in<br />
Siria. “E un segnale importante - dice la<br />
comunità ebraica -. Non si tratta di mettere<br />
alla sbarra un vecchio, ma di dimostrare che<br />
il braccio della giustizia sa colpire ovunque”.<br />
Per la presidente, Charlotte Knobloch, non si<br />
tratta di vendetta, bensì di rendere giustizia<br />
alle vittime. L’avvocato tedesco di<br />
Demjanjuk, Ulrich Busch, però insiste: il suo<br />
cliente non è la persona riconosciuta dagli<br />
internati sopravvissuti e contesta la competenza<br />
tedesca a giudicarlo. Come già abbiamo<br />
ricordato, il boia di Soribor nel 1988, estradato<br />
in Israele, fu processato e condannato a<br />
morte per poi essere assolto a causa dei dubbi<br />
sorti sulla sua reale identità.<br />
“Voglio la verità, deve dire tutto perché sa<br />
molto”, afferma Thomas Blatt, 82 anni, uno<br />
dei sopravvissuti di Sobibor chiamati a testimoniare.<br />
E ricorda: “Le guardie ucraine come<br />
lui erano le più accanite, uccidevano sul posto<br />
vecchi e malati, spingevano con le baionette i<br />
deportati nudi verso le camere a gas”.<br />
Demjanjuk, soldato ucraino dell’Armata<br />
rossa catturato dai nazisti, sarebbe passato<br />
dalla parte dei collaborazionisti a fianco del<br />
Terzo Reich. A Sobibor, sarebbe stato responsabile<br />
- come più volte detto - della morte di<br />
almeno 29mila ebrei deportati là dal Lager di<br />
transito olandese di Westerbork.<br />
“Dopo la guerra, - ricostruisce la<br />
“Repubblica” - riuscì ad andare negli Usa e a<br />
ottenerne la cittadinanza facendosi passare<br />
per deportato. La prima richiesta d’estradizione<br />
tedesca era stata sospesa, quando si era<br />
visto Demjanjuk in sedia a rotelle, boccheggiante,<br />
moribondo. Ma giorni fa un video lo<br />
ha mostrato camminare vigoroso davanti<br />
casa, e la giustizia americana ha cambiato<br />
idea. Perizie mediche tedesche ora diranno la<br />
parola decisiva. Se anche dovesse essere<br />
dichiarato incapace di affrontare processo e<br />
carcere, dovrà restare in Germania dopo l’espulsione<br />
dagli States”.<br />
Lettera ai compagni<br />
41
MEMORIA<br />
Acura del centro studi di lettura<br />
di Rivergaro, è uscito il<br />
bel libro “Dieci anni di guai<br />
(1943-1952)” di Gianni<br />
Mariani, dirigente socialista<br />
e per tanti anni vicepresidente della<br />
Provincia di Milano. Si tratta di un racconto<br />
intenso giocato sul filo della<br />
memoria, dallo stile secco, cronistico e<br />
coinvolgente. Eccone un piccolo significativo<br />
brano.<br />
“Il paese dove sono nato ed in cui sono<br />
ambientate gran parte delle cronache che mi<br />
accingo a raccontare è Rivergaro, comune<br />
piacentino della bassa Valtrebbia. Il paese,<br />
capoluogo dell’omonimo comune, contava<br />
poco più di duemila abitanti all’epoca in cui<br />
questi fatti avvennero, abitanti che con le frazioni<br />
si raddoppiavano.<br />
Il borgo è ubicato in riva alla Trebbia, sulle<br />
prime pendici dell’Appennino, lungo la strada<br />
statale che attraversando le montagne<br />
porta direttamente al porto di Genova; e ai<br />
commerci attivati da tale strada, costruita<br />
pare in epoca napoleonica, si deve con tutta<br />
probabilità lo sviluppo del paese avvenuto a<br />
partire dall’ottocento. La Trebbia, il fiume di<br />
questo racconto, la si vede scorrere mite e<br />
limpida nel proprio letto di ghiaia, d’estate<br />
come d’inverno, e solo qualche volta la si scopre<br />
selvaggia e devastatrice sotto l’impeto<br />
della piena…”<br />
“A Rivergaro è persistito a lungo il ricordo di<br />
quel che avvenne in una notte primaverile del<br />
1922, quando un centinaio di squadristi della<br />
bassa piacentina aveva circondato la casa (di<br />
una famiglia antifascista, quella dei Mariani,<br />
ndr) in Piazza Nuova, con l’intento di incendiarla.<br />
Tutto questo era stato organizzato per<br />
vendicare uno dei “ras” del fascismo della<br />
zona, un tal Barbieri, grande fittavolo di<br />
Ottavello, picchiato nel pomeriggio dallo zio<br />
Emilio in risposta alle violenze commesse<br />
dalla squadra d’azione di Gossolengo in vari<br />
42 Lettera ai compagni<br />
UN LIBRO DI GIANNI MARIANI RICORDA LA LOTTA A MUSSOLINI<br />
E AL SUO REGIME<br />
DIECI ANNI DI GUAI: COSÌ RIVERGARO<br />
COMBATTÈ IL FASCISMO<br />
paesi e villaggi dell’Alta Valtrebbia.<br />
Nella casa erano rinchiusi in quattro: mio<br />
padre, lo zio Emilio, il nonno Giuseppe, allora<br />
settantatreenne, e la zia Marietta.<br />
Mio padre impugnava l’unica arma, una<br />
pistola a tamburo, mentre lo zio ed il nonno si<br />
apprestavano ad una disperata difesa, armati<br />
rispettivamente di una scure e di una mazza<br />
da minatore.<br />
La zia Marietta passò dal solaio al tetto per<br />
invocare aiuto ma dovette scendere perché i<br />
fascisti sparavano con le doppiette da caccia,<br />
armi da fuoco tradizionali del fascismo agrario.<br />
La vicenda si risolse tuttavia senza danni poiché<br />
i carabinieri della locale stazione, comandati<br />
dal maresciallo Avanzi, sottufficiale efficiente<br />
e soprattutto coraggioso, si fecero largo<br />
fra i squadristi ed arrestarono i fratelli<br />
Mariani salvandoli, se non da morte sicura, o<br />
per lo meno da un pestaggio di grosse proporzioni.<br />
Ma la vicenda non si era ancora conclusa:<br />
infatti gli squadristi, passata la sorpresa per<br />
l’intervento dell’Arma, che non era affatto<br />
scontato in quel periodo, si riorganizzarono al<br />
comando di un ufficiale in congedo appena<br />
arrivato in auto da Piacenza in compagnia di<br />
altri gerarchi. Fu dunque deciso l’assalto alla<br />
caserma dei Carabinieri, che allora era situata<br />
sulla strada per Bobbio e Genova, alla periferia<br />
meridionale del paese.<br />
I carabinieri erano in sei, compreso il maresciallo<br />
e l’unico modo per far fronte a quel<br />
centinaio e passa di camicie nere era di far<br />
appello alla “solidarietà” degli arrestati e cioè<br />
dei due fratelli Mariani e di altri quattro giovanotti,<br />
che nel tardo pomeriggio avevano<br />
collaborato con lo zio Emilio alla “picchiatura”<br />
dei fascisti: tutti giovani con la recente<br />
esperienza della guerra e che perciò sapevano<br />
impiegare le armi con una certa perizia.<br />
Il maresciallo Avanzi fece dunque distribuire<br />
i moschetti con cinque caricatori a testa ed a<br />
mio padre fu riconsegnata la rivoltella.<br />
E fu così che quando i fascisti, armati di fuci-
li da caccia e di revolver, circondarono l’edifico<br />
ed iniziarono la sparatoria, si trovarono di<br />
fronte ad un fuoco di sbarramento del tutto<br />
inatteso che frenò di molto il loro slancio<br />
offensivo. Inoltre il maresciallo aveva già telefonato<br />
al comando dei carabinieri di Piacenza<br />
chiedendo rinforzi che infatti arrivarono di lì<br />
a un paio d’ore con un camion militare. A<br />
quel punto i fascisti pensarono bene di svignarsela,<br />
non senza però aver sparacchiato<br />
altri colpi ed aver lanciato roventi minacce al<br />
maresciallo, che per sua fortuna il massimo<br />
della carriera l’aveva già raggiunto.<br />
Il plotone dei carabinieri arrivato dalla città<br />
prese in consegna i “sovversivi”, che avevano<br />
immediatamente riconsegnato le armi per<br />
evitare ulteriori problemi ad un sottufficiale<br />
che già ne aveva parecchi, e con loro prelevarono<br />
uno squadrista che per non so quale<br />
ragione si era venuto a trovare in una stanza<br />
di sicurezza della caserma e che, tanto<br />
per restare nel clima della serata, era<br />
stato sonoramente schiaffeggiato<br />
dall’Angiolino Maretti, uno dei più giovani<br />
e indubbiamente il più spregiudicato<br />
della compagnia.<br />
A Piacenza i sei stettero in galera per<br />
un paio di settimane, in attesa di un<br />
processo che fu svolto con rito direttissimo<br />
sulla base giuridica di due denunce<br />
concomitanti: quella del fascio provinciale<br />
per le botte ricevute dal capobanda<br />
Barbieri ad opera del “sovversivo”<br />
Emilio Mariani in concorso con<br />
altri e quella presentata dal collegio di<br />
difesa dei sei antifascisti per il minacciato<br />
incendio dell’abitazione dei fratelli<br />
Mariani in Rivergaro (la benzina era<br />
già stata versata prima dell’arrivo dei<br />
carabinieri), per la sparatoria e per il<br />
tentativo d’assalto alla caserma<br />
dell’Arma.<br />
Dopo tre giorni di udienze polemiche e<br />
molto dibattute il processo si concluse<br />
con il proscioglimento degli imputati,<br />
fra gli schiamazzi e le minacce dei molti<br />
fascisti che affollavano il tribunale. I<br />
carabinieri scortarono i sei all’autocorriera<br />
per la Valtrebbia e l’autista della<br />
stessa, socialista militante, saltò volutamente<br />
la fermata di Niviano Chiesa,<br />
ove stazionavano da ore una ventina di<br />
squadristi armati di bastone per una<br />
MEMORIA<br />
“giusta e fascista” punizione. La sorpresa fu<br />
tale che costoro, tutti appiedati perché abitanti<br />
del luogo, non ce la fecero a tentare il<br />
benché minimo inseguimento.<br />
La vicenda tuttavia non si risolse senza conseguenze:<br />
se infatti mio padre se ne andò a<br />
lavorare a Monfalcone prima ed in Istria poi,<br />
lo zio Emilio, uomo senza paura, non si rassegnò<br />
a cambiare le sue abitudini e di lì a poco<br />
subì un’aggressione da parte di cinque ceffi in<br />
camicia nera.<br />
L’agguato avvenne sulla strada di<br />
Gossolengo, mentre lo zio, che integrava i<br />
suoi magri redditi facendo il carrettiere, tornava<br />
da Piacenza con un carro carico di carbone<br />
trainato da due cavalli.<br />
Lo zio si difese così bene con la frusta da carrettiere<br />
da costringere alla fuga gli aggressori<br />
limitando i danni ad un’ammaccatura al<br />
gomito sinistro.<br />
Lettera ai compagni<br />
43
CANTIERI APERTI<br />
Si è da poco conclusa a Torino<br />
(7-9 maggio) la quinta edizione<br />
del seminario annuale<br />
nazionale “Giellismo e<br />
Azionismo. Cantieri aperti”,<br />
dedicata a Vittorio Foa, che della stagione<br />
giellista e azionista è stato protagonista<br />
essenziale e testimone. Ideato<br />
e organizzato dall’Istituto piemontese<br />
per la storia della Resistenza e della<br />
società contemporanea “Giorgio<br />
Agosti” (Istoreto), anche quest’anno il<br />
seminario ha potuto contare sull’attiva<br />
collaborazione della Fiap.<br />
Si è giovato del prezioso sostegno della<br />
Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo oltre<br />
che dell’Associazione nazionale Riccardo<br />
Lombardi e di un contributo del Ministero per i<br />
Beni e le Attività culturali.<br />
La già nutrita rete di istituzioni culturali coinvolte<br />
nell’iniziativa tra il 2008 e il 2009 si è<br />
ulteriormente arricchita e sono ben dieci quelle<br />
che hanno dato la propria adesione:<br />
l’Associazione per studi e ricerche Manlio<br />
Rossi-Doria di Roma, la Biblioteca Archivio<br />
Storico Piero Calamandrei di Montepulciano, il<br />
Centro Studi e Ricerca Silvio Trentin di Jesolo,<br />
il Centro Studi Piero Calamandrei di Jesi, il<br />
Centro Studi Piero Gobetti di Torino, la<br />
Fondazione Bruno Zevi di Roma, la Fondazione<br />
Centro di iniziativa giuridica Piero<br />
Calamandrei di Roma, la Fondazione Europea<br />
Luciano Bolis di Pavia, la Fondazione Rosselli<br />
di Torino, la Fondazione Ugo La Malfa di<br />
Roma.<br />
Anche in questa quinta edizione è stata riproposta<br />
l’articolazione dei lavori in due parti,<br />
rispettivamente dedicate alla ricognizione di<br />
ricerche in corso - quest’anno davvero numerose<br />
- e alla rassegna di opere edite, cinque in particolare,<br />
scelte tra quelle uscite tra il 2008 e il<br />
2009. Molti gli spazi di dibattito tra i partecipanti,<br />
coordinati dal direttore del seminario e<br />
44 Lettera ai compagni<br />
GRANDE INTERESSE PER LA 5ª EDIZIONE DEL SEMINARIO<br />
ORGANIZZATO DALL’ISTORETO<br />
GIELLISMO E AZIONISMO: RIFLESSIONI<br />
SU ANTIFASCISMO E RESISTENZA<br />
di Chiara COLOMBINI<br />
vicepresidente dell’Istoreto, Giovanni De Luna,<br />
e dai presidenti delle sessioni che hanno scandito<br />
i lavori: Francesco Berti Arnoaldi Veli, presidente<br />
della Fiap, Mario Giovana, Aldo Agosti,<br />
Franzo Grande Stevens, presidente della<br />
Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo, e<br />
Nerio Nesi, presidente dell’Associazione nazionale<br />
Riccardo Lombardi.<br />
Al centro della prima sessione dei lavori - introdotta<br />
da Gianni Oliva, assessore alla Cultura<br />
della Regione Piemonte, e da Claudio<br />
Dellavalle, presidente dell’Istoreto, e tenutasi<br />
alla presenza di Sesa Tatò - sono state la figura<br />
e l’esperienza di Vittorio Foa; si è discusso<br />
prima delle sue riflessioni politiche sviluppate<br />
sia nel periodo della cospirazione giellista sia<br />
nella fase della militanza nel PdA (Andrea<br />
Ricciardi), poi del suo rapporto personale, politico<br />
e sindacale con Bruno Trentin nei decenni<br />
del dopoguerra (Alessandro Casellato).<br />
La discussione, nel corso della seconda sessione,<br />
si è concentrata sulla stagione di Giustizia e<br />
Libertà, soffermandosi su numerosi protagonisti<br />
- da Nello Rosselli e Giustino Fortunato<br />
(Simone Visciola), a Barbara Allason e Ada<br />
Gobetti (Noemi Crain Merz), a Luigi<br />
Salvatorelli (Giovanni Scirocco) -, sulla battaglia<br />
condotta dal movimento attraverso il settimanale<br />
“Giustizia e Libertà” pubblicato a Parigi<br />
(Chiara Colombini), su realtà periferiche e poco<br />
note, come quella di Parma, dell’area dell’antifascismo<br />
democratico riconducibile a GL<br />
(Marco Minardi).<br />
Nella terza sessione del seminario sono stati<br />
tratteggiati i profili di alcuni importanti protagonisti<br />
della stagione giellista e azionista.<br />
Gianni Cisotto e Carlo Verri, impegnati nello<br />
studio di Silvio Trentin, hanno analizzato<br />
rispettivamente la sua esperienza nell’ambito<br />
della democrazia radicale nelle elezioni succedutesi<br />
tra il 1919 e il 1924 e il suo rapporto epistolare<br />
con Pietro Nenni nel corso degli anni<br />
Trenta. Di Carlo Levi hanno parlato Elisa<br />
Oggero, che ha tracciato la storia della sceneggiatura<br />
cinematografica (L’ultimo fascista) da
lui scritta con Alberto Moravia, e Filippo<br />
Benfante, che ha ripercorso l’esperienza di Levi<br />
tra la Francia e l’Italia dalla metà degli anni<br />
Trenta al periodo della Resistenza, fino ai primi<br />
anni del dopoguerra. In questa sede si è infine<br />
dibattuto di Emilio Lussu, dello sviluppo del<br />
suo pensiero politico, dal sardismo alla cospirazione<br />
giellista in Francia, dall’adesione al PdA<br />
(Paolo Giaccone) al suo impegno nello studio e<br />
nella ricostruzione delle convulse vicende legate<br />
alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre<br />
1943 (Renzo Ronconi).<br />
Nella quarta sessione sono stati al centro dell’attenzione<br />
molti temi, legati sia all’impegno<br />
culturale degli azionisti, sia ai loro percorsi<br />
politici all’indomani della dissoluzione del partito.<br />
È stato analizzato il ricco e lungo dialogo<br />
tra Alessandro Galante Garrone e Franco<br />
Venturi sulla figura di Filippo Buonarroti, alla<br />
ricerca delle radici dell’eguaglianza e del socialismo<br />
(Manuela Albertone); ha avuto spazio la<br />
riflessione sulle culture giuridiche chiamate a<br />
confrontarsi nella Costituente (Fulvio Cortese);<br />
ci si è soffermati sul fitto confronto tra Enzo<br />
Enriques Agnoletti e Tristano Codignola circa<br />
lo scioglimento del PdA e le prospettive politiche<br />
allora apertesi davanti ai protagonisti della<br />
diaspora azionista (Andrea Becherucci), sull’impegno<br />
riformatore di Manlio Rossi-Doria<br />
declinato in particolare sulle problematiche del<br />
Mezzogiorno (Simone Misiani), sulle posizioni<br />
assunte da Aldo Garosci, Carlo Ludovico<br />
Ragghianti e Leo Valiani di fronte alla nascita<br />
del Partito radicale (Elena Savino).<br />
Un’intera sessione dei lavori è stata dedicata a<br />
una ricognizione di fonti archivistiche.<br />
L’illustrazione dell’ordinamento e della digitalizzazione<br />
dell’archivio di lavoro di Alessandro<br />
Galante Garrone (Michelarcangelo Casasanta),<br />
la mappatura dei molteplici archivi che conservano<br />
le carte di Piero Calamandrei (Francesca<br />
Cenni) e la descrizione delle carte di Franco<br />
Antonicelli custodite a Jesi (Valentina Conti)<br />
hanno lasciato emergere l’importanza storiografica<br />
di queste fonti in grado di offrire squarci<br />
significativi per la conoscenza della storia del<br />
Novecento italiano. I lavori del seminario si<br />
sono conclusi con la presentazione di alcune<br />
novità editoriali. Simon Levis Sullam ha discusso<br />
con Davide Grippa, autore di “Un antifascista<br />
tra Italia e Stati Uniti. Democrazia e identità<br />
nazionale nel pensiero di Max Ascoli (1898-<br />
1947)” (FrancoAngeli 2009). Scelto per la pubblicazione<br />
tra le ricerche al centro dell’edizione<br />
CANTIERI APERTI<br />
2008 dei Cantieri, questo studio costituisce oggi<br />
il terzo titolo della collana dell’Istoreto<br />
“Testimoni della libertà”, realizzata grazie al<br />
sostegno della Fondazione avvocato Faustino<br />
Dalmazzo. Ersilia Alessandrone Perona, direttore<br />
dell’Istoreto, ha presentato il volume di<br />
Patrizia Gabrielli “Tempio di virilità.<br />
L’antifascismo, il genere, la storia” (Franco-<br />
Angeli 2008), riprendendo e sviluppando il tema<br />
del ruolo della partecipazione politica femminile<br />
già affrontato nel corso delle precedenti giornate<br />
del seminario. La figura di Andrea Caffi è emersa<br />
dal confronto tra due recenti studi: “La rivoluzione<br />
perduta. Andrea Caffi nell’Europa del<br />
Novecento” (il Mulino 2009), di Marco<br />
Bresciani, e Scritti scelti di un socialista libertario<br />
(Biblion 2008), a cura di Sara Spreafico,<br />
entrambi presentati da Antonello Venturi.<br />
Domenico Scarpa si è confrontato con Giorgio<br />
Panizza, curatore di Scritti sul fascismo e sulla<br />
Resistenza di Carlo Dionisotti (Einaudi 2008),<br />
sul nesso esistente tra filologia e letteratura da<br />
un lato e impegno politico dall’altro. Sono due le<br />
principali riflessioni che gli ampi spazi di dibattito<br />
di questa quinta, ricca, edizione dei Cantieri<br />
hanno lasciato emergere. I Cantieri sono la testimonianza<br />
diretta del fiorire di studi sul giellismo<br />
e sull’azionismo portati avanti da una generazione<br />
di giovani storici libera dai condizionamenti,<br />
anche ideologici, del passato. Un rigoglio<br />
che contrasta con il silenzio di questi ultimi anni<br />
sul discorso dell’antifascismo e della Resistenza<br />
da parte di altri filoni culturali e storiografici (in<br />
particolare quelli legati all’ex Pci), travolti dalle<br />
trasformazioni politiche dovute al declino della<br />
forma partito novecentesca, che nei decenni<br />
passati è stata punto di riferimento essenziale<br />
anche per la raccolta organica di fonti archivistiche.<br />
Tutto ciò - ha sottolineato Giovanni De Luna<br />
- lascia a quest’ambito di studi una forte responsabilità<br />
e pone la sfida di intraprendere una narrazione<br />
storica pervasiva su tutta la storia<br />
d’Italia, che assuma come cardine proprio la stagione<br />
giellista e azionista e i suoi protagonisti. È<br />
in questa direzione che si sono sviluppati i<br />
Cantieri del 2009, da un lato mettendo in luce le<br />
radici culturali dei giellisti e degli azionisti (in<br />
particolare con la mostra documentaria<br />
“Dall’Università alla cospirazione alla<br />
Resistenza”, organizzata nella propria sede<br />
dall’Archivio storico dell’ateneo torinese, in collaborazione<br />
con l’Istoreto), dall’altro approfondendone<br />
i percorsi biografici, esistenziali e politici<br />
nei decenni del dopoguerra.<br />
Lettera ai compagni 45
CHE TEMPI!<br />
Grande subbuglio a<br />
Vigevano, in provincia di<br />
Pavia, per la singolare e<br />
sgradevolissima iniziativa<br />
di un sagrestano della parrocchia<br />
di San Francesco, nelle vicinanze<br />
della centralissima e famosa<br />
Piazza Ducale: all’ora della messa, ha<br />
accolto i fedeli sul sagrato con una<br />
vistosa fascia al braccio riproducente<br />
una svastica nazista.<br />
Qualcuno avrà pensato che il sagrestano,<br />
Angelo Idi, fosse all’improvviso impazzito o<br />
che volesse fare uno scherzo di pessimo<br />
gusto, tanto per mettersi in mostra. Ma lui,<br />
imperturbabile, ha spiegato: “Sono di estrema<br />
destra e questa fascia non è altro che una<br />
libera espressione del mio pensiero”.<br />
“È semplicemente una cosa vergognosa”<br />
hanno replicato numerosi parrocchiani, ma<br />
Angelo Idi, 51 anni, che da 5 anni fa il sacrista<br />
della chiesa di San Francesco, lì sul sagrato<br />
non si mostra particolarmente turbato, anzi<br />
sembra addirittura stupito della reazione dei<br />
fedeli. E ribadisce: «È stata una mia libera<br />
espressione. Siamo ancora in un Paese libero,<br />
o no?». Va aggiunto che per questa inqualificabile,<br />
spudorata sceneggiata, il sacrista ha<br />
scelto proprio la giornata dedicata alla commemorazione<br />
delle vittime della Shoah. E,<br />
quasi a rincarare la dose, aggiunge:<br />
“Veramente non lo sapevo, ma non mi pare<br />
comunque che in questi anni gli israeliani<br />
abbiano avuto la mano leggera con i palestinesi”.<br />
Capelli cortissimi e occhialini tondi,<br />
Angelo Idi ha dichiarato al “Corriere della<br />
Sera”: “Sì, io sono di estrema destra e sono<br />
fiero di esserlo. Mi sento il portavoce delle<br />
Brigate Nere, dei giovani combattenti della<br />
Repubblica di Salò che non hanno svenduto il<br />
46 Lettera ai compagni<br />
INCREDIBILE EPISODIO SUL SAGRATO DELLA PARROCCHIA<br />
S. FRANCESCO VICINO A PIAZZA DUCALE<br />
IL SACRESTANO DI VIGEVANO<br />
CON LA SVASTICA AL BRACCIO<br />
Il suo primo commento: “Sono di destra, è libera espressione”<br />
Dure le reazioni: va subito rimosso<br />
loro onore e la patria, come invece hanno<br />
fatto coloro che, definendosi combattenti,<br />
hanno fomentato una guerra fratricida”.<br />
Al periodico «La Legione » ha scritto una lettera<br />
per porgere le scuse dell'Italia alla famiglia<br />
Mussolini spiegando: “In chiesa lavoro<br />
col massimo dell'impegno. Del resto quanti<br />
buoni cattolici votano a sinistra e quanti si<br />
sono espressi a favore dell'aborto?”. Come<br />
dire: per la Chiesa è meglio un sacrista nazista<br />
che di sinistra.<br />
La trovata di questo Idi, al di là di quello che<br />
faranno le autorità ecclesiastiche, il suo parroco,<br />
o l’autorità giudiziaria (rischia come<br />
minimo di essere denunciato per violazione<br />
della legge), merita di essere sottolineata per<br />
la sua impudenza e per la sua gravità.<br />
La domanda è: come può un sacrista proporsi<br />
ai suoi fedeli con idee che sono state rifiutate<br />
dalla civiltà e dalla storia: idee aberranti che<br />
inneggiano alle camere a gas, ai campi di sterminio,<br />
alle deportazioni, alla violenza più<br />
cieca?. Un uomo con queste idee, che le ostenta<br />
con protervia sulla piazza principale del suo<br />
paese e davanti a una chiesa, non può quantomeno<br />
continuare a fare il lavoro che fa. Ma in<br />
Italia, ormai, non c’è limite al peggio.
COMPLESSA VICENDA GIUDIZIARIA A MENAGGIO, SULLE RIVE<br />
DEL LAGO DI COMO<br />
VITTIME GRECHE DEI NAZISTI<br />
IPOTECANO UNA LUSSUOSA VILLA<br />
È di proprietà del governo tedesco - Berlino<br />
e l’Italia si oppongono alla richiesta di pignoramento<br />
Il risarcimento riguarda l’eccidio di Distomo<br />
Una bellissima villa sul lago<br />
di Como, di proprietà del<br />
governo tedesco, è al centro<br />
di una vicenda giudiziaria<br />
complessa: la Grecia ne<br />
ha chiesto il pignoramento per risarcire<br />
le vittime di un eccidio avvenuto a<br />
Distomo da parte delle truppe naziste.<br />
Non si sa se quanto la richiesta greca sia fondata:<br />
nel merito dovrà decidere il tribunale di<br />
Como che dovrà tenere anche conto dell’opposizione<br />
alla richiesta da parte sia dell’Italia<br />
sia di Berlino.<br />
Per ora, comunque, su Villa Vigoni, splendida<br />
e lussuosa residenza affacciata sul lago di<br />
Como a Menaggio, sventola la bandiera tedesca.<br />
Ma l'ipoteca avanzata dai familiari delle<br />
vittime della strage compiuta dalla<br />
Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale<br />
in Grecia potrebbe approdare a un cambio<br />
di proprietà dell’immobile.<br />
La strada che ha portato all'udienza davanti<br />
al giudice civile di Como Vito Febbraro - così<br />
come viene ricostruita dal “Corriere della<br />
Sera” - è assai più tortuosa. “I governi tedesco<br />
e italiano, da un lato, chiedono la cancellazione<br />
dell'ipoteca per ragioni formali (la richiesta<br />
è stata tardiva e redatta su documenti non<br />
tradotti dall'originale, ha sostenuto in udienza<br />
l'avvocato Virginia Marzi; gli eredi delle<br />
LA LITE<br />
vittime della strage nazista - difesi dall'avvocato<br />
tedesco Joachim Lau - chiedono invece<br />
che venga mantenuta l’ipoteca su Villa<br />
Vigoni, a mo’ di garanzia per il risarcimento<br />
richiesto allo Stato tedesco e già sancito da<br />
una sentenza della Cassazione”.<br />
“Per capire, occorre fare un balzo nel tempo e<br />
nello spazio e riandare al ’44 e al piccolo villaggio<br />
di Distomo, nel nord della Grecia.<br />
Nel giugno del ’44 i soldati del Fuhrer compiono<br />
un eccidio, ammazzando 218 civili, tra<br />
i quali 34 bambini. Il Tribunale della Grecia<br />
ha già riconosciuto il diritto degli eredi ad<br />
avere un risarcimento, ma il problema è come<br />
ottenerlo. A questo punto la storia approda in<br />
Italia, dove da quasi trent'anni l’avvocato Lau<br />
si batte a difesa delle vittime del nazismo,<br />
siano essi ex deportati in lager e campi di<br />
lavoro o discendenti di civili ammazzati.<br />
Lau ha fatto dichiarare dalla Corte di<br />
Cassazione che la sentenza pronunciata in<br />
Grecia è “eseguibile” anche in Italia; possono<br />
dunque essere aggrediti beni del governo<br />
tedesco presenti nel nostro Paese.<br />
La vicenda, partita 65 anni fa dalle montagne<br />
della Grecia, approda dunque sul Lario, dove<br />
c’è Villa Vigoni, donata da un privato, nell’83<br />
alla Germania e divenuta centro culturale di<br />
rilievo internazionale. Non è sede diplomatica<br />
- anche se di recente è stata teatro di incontri<br />
tra ambasciatori - e per questo può essere<br />
eventualmente pignorata e “congelata” come<br />
garanzia per il risarcimento delle vittime.<br />
Tutto questo se il giudice di Como confermerà<br />
nei prossimi mesi il pignoramento”.<br />
La sentenza è attesa anche dai familiari di<br />
altre vittime di stragi naziste o fasciste perché<br />
potrebbe fare da apripista per ulteriori<br />
vicende giudiziarie con relative richieste di<br />
risarcimenti.<br />
Lettera ai compagni<br />
47
IL LIBRO<br />
UN GRUPPO DI LAVORO STA ORGANIZZANDO LO STUDIO DELLA FIGURA<br />
DEL SINDACALISTA<br />
Acura di Iginio Ariemma,<br />
coordinatore del gruppo di<br />
lavoro incaricato di organizzare<br />
lo studio della figura e<br />
dell’opera di Bruno Trentin,<br />
è uscito il volume “Bruno Trentin, tra il<br />
Partito d’Azione e il Partito Comunista,<br />
per i tipi dll’editrice romana Ediesse.<br />
Nell’introduzione Ariemma scrive: “Il convegno<br />
di Padova “Bruno Trentin. La cultura del<br />
lavoro e della libertà” - tenuto nell’Aula<br />
Magna dell’Università il 16 ottobre 2008 - ha<br />
consentito di approfondire un periodo molto<br />
importante per la formazione culturale e politica<br />
di Bruno Trentin. Bruno si laurea a<br />
Padova il 16 ottobre 1949. Poco dopo lascerà<br />
il Veneto e si trasferirà a Roma all’Ufficio<br />
studi della CGIL nazionale. Dopo la caduta di<br />
Mussolini era arrivato nel Veneto dalla<br />
Francia i primi di settembre, con suo padre e<br />
suo fratello, ed era andato ad abitare a<br />
Treviso nella casa del nonno Nardari, il padre<br />
di sua madre. Si iscrive quasi subito, il 1°<br />
novembre, all’Università di Padova, alla<br />
Facoltà di Giurisprudenza, sebbene la sua<br />
confessata vocazione fosse l’economia, per<br />
cui, privatamente, prende lezioni di matematica.<br />
Assiste, insieme al padre, all’inaugurazione<br />
dell’anno accademico, durante la quale<br />
Concetto Marchesi respinge l’aggressione<br />
fascista (9 novembre). Dieci giorni dopo verrà<br />
arrestato con suo padre; e dopo la morte di<br />
Silvio, nel marzo 1944, salirà in montagna<br />
nelle file di Giustizia e Libertà, prima nelle<br />
Prealpi venete, poi a Milano.<br />
In quegli anni, a parte la parentesi di Milano<br />
durante la guerra partigiana, l’impegno nel<br />
Pda fino allo scioglimento (autunno 1944 -<br />
autunno 1947) e il viaggio negli Stati Uniti, ad<br />
Harvard (1947), il triangolo Padova Treviso<br />
Venezia è stato al centro della sua vita.<br />
L’università di Padova ha avuto dunque una<br />
decisiva influenza sulla sua formazione. In<br />
particolare l’ha avuta l’Istituto di Filosofia del<br />
48 Lettera ai compagni<br />
BRUNO TRENTIN AZIONISTA ASSETATO<br />
DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ<br />
diritto, diretto da Norberto Bobbio che aveva<br />
come primo assistente Enrico Opocher, il<br />
futuro rettore dell’Università, che sarebbe<br />
stato il relatore della sua tesi di laurea.<br />
Bobbio lascerà la cattedra di Padova per trasferirsi<br />
a Torino alla fine dell’anno accademico<br />
1947-48 e al suo posto verrà nominato<br />
appunto Opocher, il 30 novembre 1948. Il<br />
rapporto tra Bruno e Opocher finora non è<br />
stato approfondito. Ma deve essere stato<br />
molto intenso. Entrambi erano militanti e<br />
dirigenti del Pda. Opocher, di radice trevigiana<br />
come il padre Silvio e lo stesso Bruno,<br />
aveva partecipato alla prima riunione della<br />
fondazione dell’azionismo veneto.<br />
Il “Bo” aveva nel suo insieme - professori e<br />
studenti - un orientamento in prevalenza<br />
antifascista. Anzi era diventato il centro animatore<br />
e organizzatore della cospirazione e<br />
della Resistenza veneta, non soltanto culturale<br />
e politica, ma anche armata, come ricordano<br />
la testimonianza di Franco Busetto e la<br />
relazione di Silvio Lanaro. Padova è l’università<br />
dell’appello ai giovani di Concetto<br />
Marchesi, che scuote gli atenei italiani, di<br />
Egidio Meneghetti, di Eugenio Curiel. Forse<br />
per questo la Repubblica Sociale di Mussolini<br />
aveva insediato il Ministero dell’Educazione<br />
nazionale proprio a Padova. Insieme ai nomi<br />
citati parecchi altri erano i professori antifascisti,<br />
tra cui gli stessi Bobbio e Opocher. Lo<br />
sapevano bene le squadracce fasciste, che<br />
erano state sbeffeggiate da Marchesi e pertanto<br />
davano la caccia senza sosta allo stesso<br />
Marchesi e a Meneghetti, e arrestarono prima<br />
Silvio e Bruno Trentin, poi Norberto Bobbio,<br />
e infine assassinarono Curiel a Milano.<br />
In questa temperie culturale, che permarrà<br />
anche dopo la guerra partigiana, si forma<br />
Bruno. Una temperie molto vivace se, il 14<br />
marzo 1949, Enrico Opocher tiene la sua prolusione<br />
che porta come titolo Il diritto senza<br />
verità: la crisi dell’ideologia laica nell’esperienza<br />
giuridica contemporanea, in cui<br />
denuncia la crisi dello Stato di diritto, e
soprattutto la “dipendenza diretta o indiretta<br />
del diritto dalla volontà statuale”. “La sua<br />
forma positiva - dice - , pur necessaria a<br />
garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo<br />
della sua validità, l’unico criterio della sua<br />
giuridicità, e per questa via esso è diventato<br />
l’indispensabile strumento per realizzare,<br />
perpetuare e giustificare la volontà dominante,<br />
per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi<br />
avventura, per assicurare validità oggettiva<br />
allo stesso arbitrio”. Frasi molto forti, e<br />
soprattutto antiformaliste, che sono diverse<br />
da quelle di Norberto Bobbio, allora fautore<br />
del positivismo logico, che mira a rendere<br />
rigoroso il linguaggio giuridico del legislatore.<br />
“Impresa disperata” commenta Opocher,<br />
perché “idealizza e gigantizza il legislatore”.<br />
Anche Bobbio abbandonò presto questa tesi<br />
“originale, ma tutt’altro che fondata”.<br />
La tesi di laurea di Bruno risente più dell’insegnamento<br />
di Opocher che di quello di<br />
Bobbio. A cominciare dal titolo: La funzione<br />
del giudizio di equità nella crisi giuridica contemporanea<br />
(con particolare rifèrimento<br />
all’esperienza giuridica nordamericana). Ma<br />
il debito maggiore è sui contenuti principali<br />
della tesi: non esiste certezza del diritto senza<br />
equità e senza adeguamento del diritto alle<br />
trasformazioni e ai movimenti della realtà<br />
sociale, come mette bene in luce la relazione<br />
di Giuseppe Zaccaria, rilevandone i meriti,<br />
ma anche le ombre e le contraddizioni.<br />
L’influenza di Opocher non si limita a questo.<br />
Probabilmente ha riflessi anche sulla concezione<br />
del potere che Bruno si porterà con sé<br />
anche in futuro. Opocher sosteneva che il<br />
potere politico è “del tutto irrazionale”, in<br />
quanto alcuni individui, o meglio le élites<br />
politiche, “possono, hic et nunc, condizionare<br />
la volontà e l’azione di altri individui, malgrado<br />
l’assoluta estraneità della loro vita”.<br />
La soluzione - dice Opocher - non è la razionalizzazione<br />
del potere, mediante la conquista<br />
di esso, ma “la denuncia dell’esercizio<br />
abusivo del potere”. Quanto sia rimasto in<br />
Bruno di questa concezione filosofica è difficile<br />
dirlo, è certo che Bruno ha sempre avuto<br />
una sorta di diffidenza verso il potere politico<br />
e verso il verticismo politico che prescinda<br />
dal rapporto fondante e dal controllo della<br />
società civile.<br />
Giustamente Zaccaria ha osservato che la tesi<br />
di Bruno è anche un omaggio a suo padre<br />
IL LIBRO<br />
Silvio, che nel 1935 aveva pubblicato La crise<br />
du Droit et de l’Etat, in cui netta è la presa di<br />
distanza nei confronti del formalismo giuridico<br />
e persino costituzionale. Il federalismo,<br />
che è il grande sogno di Silvio, va ben oltre il<br />
disegno di architettura istituzionale per divenire<br />
una costruzione, per così dire, strutturale,<br />
che si radica nell’economia, nella società e<br />
nella vita quotidiana e soprattutto nella libertà<br />
delle persone. Un federalismo, pertanto,<br />
non basato sulla spesa pubblica e sul suo gonfiamento,<br />
centrale o decentrato che sia, come<br />
si sta delineando oggi, ma sull’autogoverno<br />
dei cittadini, della società civile, degli enti<br />
locali e delle istituzioni intermedie, economiche<br />
e sociali, che via via possono crearsi per<br />
dare maggiore solidità al tessuto federale.<br />
Questa idea è di grande attualità; e ho visto<br />
con favore che è stata rilanciata dal<br />
Presidente della Repubblica, Giorgio<br />
Napolitano.<br />
Bruno non si laureò con un voto alto - 99/110<br />
- ma occorre tener conto che non volle nessun<br />
sconto, come rivendicarono altri reduci della<br />
guerra partigiana, e che praticamente il corso<br />
degli studi si era concentrato in due anni,<br />
1947-49, per giunta con notevoli difficoltà<br />
relative alla cultura e alla lingua italiana,<br />
avendo frequentato i precedenti gradi scolastici<br />
in Francia.<br />
Gli anni dell’Università di Padova sono<br />
importanti non soltanto per la sua formazione<br />
culturale, ma anche per la sua formazione<br />
politica. Presumibilmente nel 1950 si iscriverà<br />
infatti al Partito comunista, in cui militerà<br />
tutta la vita, mentre prima, dal rientro in<br />
Italia nel settembre 1943 fino allo scioglimento<br />
nel 1947, era stato iscritto e dirigente di<br />
Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Il<br />
suo impegno per la costruzione del movimento<br />
giovanile azionista, di cui era responsabile<br />
nazionale, è stato molto intenso subito dopo<br />
la Liberazione.<br />
Tra le sue carte sono state ritrovate due lettere<br />
ad un giovane di nome Guido che viveva in<br />
Francia, probabilmente a Tolosa (non meglio<br />
identificato), a questo proposito di sicuro<br />
interesse, poiché Bruno dichiara che intende<br />
costruire un nuovo partito, che abbia basi storiche<br />
e che sia internazionale, di massa, “non<br />
un piccolo partito di gente per bene” come<br />
vogliono alcuni. E che per questo scopo è<br />
necessaria l’alleanza con il Partito socialista”.<br />
Lettera ai compagni<br />
49
RECENSIONE<br />
Allo Spazio Chiamamilano è<br />
stata presentata la pubblicazione<br />
di Alessia Potecchi:<br />
“Dal PSI al PD: il mio impegno<br />
politico nel Circolo W.<br />
Sabbadin”, con prefazione di Carlo<br />
Fontana. Sono intervenuti Carlo<br />
Grezzi, presidente della Fondazione<br />
Giuseppe Di Vittorio, il deputato Carlo<br />
Carli, il prof. Alceo Riosa, il senatore<br />
Carlo Fontana e l’autrice.<br />
Il libro ripercorre le tappe e il percorso politico<br />
della giovane Alessia Potecchi che dalla<br />
militanza nel Psi l’hanno portata alla recente<br />
adesione al Partito democratico e alla fondazione<br />
del Circolo dedicato alla memoria di<br />
Walter Sabbadin.<br />
In particolare, il libro si sofferma proprio su<br />
questo passaggio politico importante che ha<br />
condotto i Ds nel Pd: una scelta coraggiosa e<br />
difficile nello stesso tempo, che portava con<br />
sé numerosi punti interrogativi soprattutto<br />
per chi, come l’autrice, proveniva dalla tradizione<br />
socialista e nel 1998, dopo<br />
Tangentopoli, aveva deciso di aderire ai Ds,<br />
convinta che questo partito potesse diventare<br />
una moderna forza socialista e riformista che<br />
avesse l’Europa come punto di riferimento.<br />
Vi era poi la questione della collocazione europea<br />
che non dava certamente per scontata l’adesione<br />
al Pse del nuovo partito e quindi risultava<br />
un ulteriore passo indietro rispetto alle<br />
scelte che si erano compiute in precedenza e<br />
poi ancora la laicità. L’ultimo congresso dei Ds,<br />
è stato un passaggio sofferto: alcuni compagni<br />
socialisti che militavano nei Ds decisero di<br />
abbandonare il partito perché non si ritrovavano<br />
nel progetto del Pd e aderirono ad altre formazioni<br />
politiche. Alessia e altri hanno invece<br />
voluto hanno riflettuto sul fatto che comunque<br />
valesse la pena di provare, per citare le parole<br />
di Giorgio Ruffolo, con la convinzione che la<br />
cultura socialista non potesse mancare a questo<br />
traguardo: riunire le culture riformiste che<br />
50 Lettera ai compagni<br />
PRESENTATO UN LIBRO DI ALESSIA POTECCHI,<br />
SEGRETARIA REGIONALE DELLA <strong>FIAP</strong><br />
APPASSIONATO IMPEGNO<br />
PER RIUNIRE LE CULTURE RIFORMISTE<br />
hanno fatto la storia politica del nostro paese e<br />
che ora non hanno più ragione di essere divise<br />
come lo erano un tempo. Proprio qui, in questa<br />
fase, nasce il Circolo Walter Sabbadin, per<br />
ricordare e continuare il lavoro di un dirigente<br />
politico che ha speso gran parte della sua vita<br />
in un impegno costante e gratuito al servizio<br />
della politica e di altre numerose attività, e per<br />
testimoniare la presenza della cultura socialista<br />
all’interno del Pd.<br />
Questo il motivo per cui al nome del Circolo,<br />
che aderisce al forum milanese e nazionale<br />
delle Associazioni per il Pd, è stato aggiunto<br />
l’aggettivo laburista, proprio per testimoniare<br />
e sottolineare la presenza dei socialisti all’interno<br />
del nuovo soggetto politico.<br />
La seconda parte del libro è dedicata alle attività<br />
e al gran lavoro svolto dal Circolo a due<br />
anni dalla fondazione. Vi sono raccolte tutte<br />
le locandine degli eventi, dei convegni e delle<br />
iniziative realizzate dal Circolo con i nomi<br />
degli ospiti che vi hanno preso parte. Sono<br />
iniziative importanti con relatori di spessore<br />
e di livello che testimoniano come il Circolo<br />
sia radicato e interagisca anche con altre<br />
associazioni; proprio di recente è stata stipulata,<br />
a tal proposito, una convenzione di collaborazione<br />
con la Fondazione Giuseppe Di<br />
Vittorio presieduta da Carlo Grezzi.<br />
Purtroppo le ultime vicende politiche non<br />
hanno dato i frutti e i risultati sperati, come<br />
sottolinea l’autrice nelle conclusioni: il Pd ha<br />
fatto e fa fatica a radicarsi, a creare consenso<br />
e a svolgere un’azione politica matura anche a<br />
causa delle numerose ed importanti questioni<br />
rimaste irrisolte. Il Circolo laburista di cultura<br />
e politica Walter Sabbadin continuerà ad<br />
impegnarsi affinché si arrivi alla costruzione<br />
di un partito che sia davvero una forza riformista<br />
di stampo europeo in grado di dare le<br />
giuste risposte ai travagli di una società sempre<br />
più in cambiamento avendo come obiettivo<br />
quello di tenere sempre viva la cultura<br />
socialista che ha ancora tantissimo da dare e<br />
per questo merita di essere valorizzata.