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UN'INAUGURAZIONE E DUE ACCORATI APPELLI - FIAP

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UN’INAUGURAZIONE<br />

E <strong>DUE</strong> <strong>ACCORATI</strong> <strong>APPELLI</strong><br />

Nella mattinata del 9 maggio<br />

2009 è stato inaugurato,<br />

nella sede del Centro Studi<br />

“Piero Ginocchi”, dinanzi<br />

ad un centinaio di invitati,<br />

il Centro di Documentazione Arabo-<br />

Africano, costituito con le donazioni di<br />

Angelo Del Boca e di Anwar Fekini. Qui<br />

di seguito pubblichiamo il testo del mio<br />

intervento.<br />

1. Oggi, 9 maggio 2009, apriamo qui a Crodo,<br />

agli studiosi, il Centro di Documentazione<br />

Arabo-Africano. Si tratta di una biblioteca<br />

costituita da alcune migliaia di volumi, nelle<br />

principali lingue europee, che illustrano principalmente<br />

la storia, gli orientamenti politici,<br />

i costumi dei paesi dell’Africa mediterranea e<br />

sub-sahariana. Ad integrare e ad arricchire<br />

questa già enorme collezione di libri, affianchiamo<br />

una seconda raccolta, molto più difficile<br />

da reperire in Italia, perchè in lingua originale<br />

araba. Questa seconda raccolta è destinata<br />

soprattutto a quegli studiosi che già<br />

conoscono l’arabo, ma può essere consultata<br />

anche da persone che ignorano questa lingua,<br />

perchè di ogni volume abbiamo fatto redigere<br />

una scheda che comprende la traduzione in<br />

italiano e in inglese del titolo e di una breve<br />

sintesi del testo.<br />

Vi chiederete perché il sottoscritto e l’avvocato<br />

libico Anwar Fekini hanno deciso di costituire<br />

questo Centro di Documentazione<br />

Arabo-Africano. I motivi di questa scelta sono<br />

molteplici. Innanzitutto abbiamo avvertito<br />

l’esigenza di creare un fondo, di notevole rilevanza,<br />

che possa colmare una lacuna fin troppo<br />

evidente, quella della conoscenza<br />

dell’Africa, oggi appannaggio soltanto degli<br />

specialisti.<br />

Il secondo motivo, non meno importante, è la<br />

constatazione che il nostro paese è investito,<br />

da qualche tempo, da un’ondata di razzismo<br />

che ha già prodotto molti e ripugnanti episodi.<br />

Quegli africani che giungono a migliaia<br />

sulle nostre coste meridionali, in gran parte<br />

EDITORIALE<br />

di Angelo DEL BOCA<br />

in cerca di lavoro, altri per sfuggire a regimi<br />

tirannici, non sono percepiti come esseri<br />

umani, con gli stessi nostri diritti, ma come<br />

esseri “diversi”, appartenenti ad un altro<br />

mondo, il cui contagio è definito da taluni<br />

come pericoloso e insopportabile. Si è giunti a<br />

proporre di respingerli in mare a forza di cannonate.<br />

E il massimo dell’ospitalità è fornito<br />

nei cosiddetti “campi di permanenza temporanea”,<br />

che non sono molti diversi, per la<br />

durata del soggiorno obbligatorio e per il tipo<br />

di trattamento alberghiero, ai campi di concentramento.<br />

Contro questa marea montante di razzismo e<br />

di prescrizioni incivili, Fekini ed io ci siamo<br />

ribellati. Ad imporci questo atteggiamento è<br />

la stessa storia delle nostre vite. Anwar Fekini<br />

è nipote di Hadj Mohamed Khalifa Fekini,<br />

capo della cabila dei Tarabulsi e Rogebani, il<br />

quale per vent’anni si è opposto alla dominazione<br />

degli italiani sulla Libia, perdendo nell’aspra<br />

lotta due figli e altri parenti. La mia<br />

scelta di campo è nota. Sessantacinque anni<br />

fa, nel maggio radioso del 1945, ero a<br />

Piacenza, che avevamo liberata dopo tre giorni<br />

di combattimenti contro i nazi-fascisti. Da<br />

allora ho sempre cercato di essere coerente<br />

con la mia scelta antifascista.<br />

C’è infine un terzo motivo che ci ha spinto a<br />

costituire il Centro di Documentazione<br />

Arabo-Africano, e a scegliere quale sede<br />

Crodo, in Val d’Ossola. Una terra alla quale<br />

sono personalmente legato per motivi famigliari<br />

e sentimentali.<br />

Una terra dove la popolazione, abituata da<br />

secoli a difendere con ogni mezzo i propri<br />

diritti e le proprie autonomie, non accettò mai<br />

supinamente la presenza brutale dei nazisti e<br />

dei loro servitori fascisti. Per quarantaquattro<br />

giorni, nell’autunno del 1944, si costituì in<br />

repubblica partigiana stimolando in<br />

Gianfranco Contini questo splendido ricordo:<br />

“Chi è stato nell’Ossola fra il settembre e l’ottobre<br />

’44 ha veramente respirato l’aria esilarante<br />

della libertà, non corrotta dalla consuetudine.(...)<br />

Se qualcuno osa discorrere di<br />

Lettera ai compagni<br />

3


EDITORIALE<br />

“avventura”: ebbene valeva la pena di viverla”.<br />

A questa terra ossolana, dunque, leghiamo<br />

questo Centro di Documentazione Arabo-<br />

Africano, le cui finalità ci sembrano in sintonia<br />

con le pagine di storia che la Giunta provvisoria<br />

di governo dell’Ossola ha scritto nel<br />

1944, in quell’irripetibile laboratorio di<br />

democrazia. A questa terra ho anche deciso di<br />

donare, oltre alla mia biblioteca africana, l’intera<br />

mia collezione di libri, i miei archivi, le<br />

decine di migliaia di lettere che raccontano la<br />

storia di “Studi Piacentini” e de “I sentieri<br />

della ricerca”, le due riviste di storia contemporanea<br />

che ho diretto dal 1987 ad oggi.<br />

Infine, per costituire un unicum del mio<br />

patrimonio librario, dispongo che il 24 maggio<br />

2025, alla scadenza del “deposito” che ho<br />

effettuato presso la biblioteca dell’Istituto<br />

Storico della Resistenza di Piacenza, siano<br />

trasferiti al Centro Studi di Crodo i 4.437<br />

volumi e 6.812 riviste depositati a Piacenza in<br />

base alla convenzione tra il Comune di<br />

Piacenza e il sottoscritto.<br />

Non è stato facile ordinare, classificare e poi<br />

ospitare queste montagne di libri. Per cominciare<br />

abbiamo dovuto far costruire, in legno<br />

massello, dalla ditta De Giovanni di Cuneo,<br />

50 scaffali alti quattro metri, con una spesa di<br />

oltre 60 mila euro, interamente pagati da due<br />

generosi sponsor, l’avvocato Anwar Fekini e<br />

l’assessorato alla Cultura della Regione<br />

Piemonte, che qui ringraziamo. Quando salirete<br />

al primo piano, nella sala di lettura, lo<br />

spettacolo offerto dai giganteschi scaffali non<br />

potrà non stupirvi.<br />

2. Poiché il tema di questo incontro è l’Africa,<br />

è con soddisfazione che ricordiamo una<br />

buona notizia. Il 2 marzo scorso è stato infatti<br />

ratificato a Sirte, in Libia, il trattato di amicizia,<br />

partenariato e cooperazione che il premier<br />

Silvio Berlusconi e il leader libico<br />

Muammar Gheddafi hanno firmato il 30 agosto<br />

2008 a Bengasi.<br />

Si tratta di un avvenimento di importanza<br />

storica. Dopo decenni di tensioni fra i nostri<br />

due paesi, finalmente si è chiusa una vertenza<br />

che non ci faceva onore. Si è chiusa con le<br />

parole che il popolo libico, che dalla dominazione<br />

italiana ha sofferto danni incalcolabili e<br />

il tragico bilancio di 100 mila morti, si aspettava<br />

da più di sessant’anni. “Ancora una volta<br />

e formalmente - ha dichiarato il premier ita-<br />

4 Lettera ai compagni<br />

liano - accuso il nostro passato di prevaricazione<br />

e vi chiedo perdono. Il passato che con<br />

questo trattato vogliamo mettere alle spalle è<br />

un passato di cui noi, figli dei figli, sentiamo<br />

una colpa di cui chiedervi perdono. Nessun<br />

popolo può avere il diritto di sottomettere e<br />

governare un altro popolo, sottraendogli la<br />

propria cultura e le proprie tradizioni”.<br />

“Accettiamo le scuse dell’Italia per l’occupazione<br />

colonialista - ha risposto il colonnello<br />

Gheddafi - e prego tutti i libici di vincere i<br />

risentimenti e tendere la mano ai loro amici<br />

italiani in un rapporto paritario, di rispetto<br />

reciproco”.<br />

Qualche giorno dopo, a Villa Madama,<br />

Berlusconi replicava le scuse nei confronti del<br />

popolo libico, denunciando le malefatte del<br />

colonialismo giolittiano e fascista, non limitandosi<br />

ad una critica generica ma entrando<br />

nei dettagli delle atrocità compiute fra il 1911<br />

e il 1932 : “Centotrentamila persone messe in<br />

campo di concentramento. Bombe avvelenate<br />

sulle oasi.<br />

I nostri aerei hanno mitragliato questi poveracci,<br />

lasciando una marea di cadaveri, e<br />

migliaia di altre persone sono state confinate<br />

alle Tremiti”. Commentando l’intervento del<br />

presidente del Consiglio scrivevamo sul<br />

“Corriere della Sera”: “Finalmente le parole<br />

giuste”. Ma aggiungevamo: “Se Berlusconi, o<br />

uno dei premier che lo hanno preceduto,<br />

avesse parlato prima con chiarezza, facendo<br />

meno promesse, avremmo potuto ora sborsare<br />

meno denaro”. Perchè ai risarcimenti<br />

materiali, i libici hanno sempre preferito<br />

quelli morali, ossia il riconoscimento chiaro,<br />

inequivocabile delle colpe coloniali.<br />

Il risultato ottenuto è comunque confortante.<br />

Ma avendo finalmente imboccato la strada<br />

giusta, potremmo fare di più estendendo la<br />

nostra richiesta di perdono a tutti popoli africani<br />

che l’Italia ha invaso e dominato a partire<br />

dal 1885.<br />

Nel marzo del 2007 suggerivo, dalle colonne<br />

del quotidiano “la Repubblica”, di istituire<br />

una Giornata della memoria per i 500 mila<br />

africani che l’Italia crispina, giolittiana e<br />

fascista hanno sacrificato nel corso delle loro<br />

campagne di conquista. La mia proposta<br />

veniva raccolta da un gruppo di ventitrè parlamentari<br />

del centrosinistra, che metteva a<br />

punto una proposta di legge, in tre articoli, il<br />

cui primo firmatario era Jacopo Venier. Il 12


aprile 2007 l’iniziativa veniva discussa a<br />

Roma, alla Facoltà di Lettere della Sapienza.<br />

Successivamente la proposta di legge è stata<br />

depositata in Parlamento, ma non è arrivata<br />

neppure in commissione perchè il governo<br />

Prodi è caduto.<br />

Rattristato per la fine ingloriosa della mia<br />

proposta, scrivevo nel mio ultimo libro autobiografico:<br />

“Pensare che in questa atmosfera<br />

melmosa si possa ancora fare affidamento sui<br />

sentimenti dell’onore e della pietà è una vana<br />

speranza. I cinquecentomila africani senza<br />

nome e senza volto, uccisi due volte, riposino<br />

in pace”. Ma qualcosa è cambiato in questi<br />

ultimi tempi.<br />

Se le parole hanno un significato e un peso, e<br />

quelle pronunciate da Berlusconi a Sirte e a<br />

Villa Madama non possono non averlo, allora<br />

posso ancora nutrire la speranza che la mia<br />

proposta di legge possa essere ripresentata in<br />

Parlamento, e questa volta dalla maggioranza<br />

e dall’opposizione. Con questo atto si raggiungerebbe<br />

l’obiettivo di riconoscere ufficialmente,<br />

per tutte le colonie fasciste e prefasciste,<br />

le colpe e gli orrori del nostro passato<br />

coloniale nella maniera più<br />

esplicita, nobile e definitiva.<br />

Per una volta, avremmo raggiunto<br />

un traguardo che altre<br />

nazioni colonialiste, come la<br />

Gran Bretagna e la Francia,<br />

non hanno neppure ipotizzato,<br />

pur essendo più avanti di<br />

noi nella discussione sul fenomeno<br />

del colonialismo.<br />

3. Da questo lembo dell’Ossola<br />

partigiana, vorrei lanciare un<br />

altro appello, ancora più pressante<br />

e significativo. Era in<br />

discussione, sino a qualche<br />

giorno fa, alla Commissione<br />

Difesa della Camera dei<br />

Deputati, il progetto di legge<br />

n. 1360, presentato il 23 giugno<br />

2008 da quarantadue<br />

parlamentari della maggioranza.<br />

Si tratta del quarto tentativo,<br />

dopo quelli del 1994,<br />

2001 e 2006, di equiparare<br />

tutti i combattenti della seconda<br />

guerra mondiale, in modo<br />

particolare porre sullo stesso<br />

EDITORIALE<br />

piano i partigiani del Corpo Volontari della<br />

Libertà e i soldati che hanno combattuto per<br />

la Repubblica di Salò.<br />

Ancora una volta le organizzazioni partigiane<br />

hanno cercato di convincere i patrocinatori<br />

del progetto di legge che non si può equiparare<br />

chi ha combattuto per la libertà dell’Italia<br />

con chi la voleva soffocare. La storia non la si<br />

riscrive, non la si può falsificare.<br />

Sulla proposta di legge n. 1360 Giuliano<br />

Vassalli, presidente emerito della Corte<br />

Costituzionale, è stato chiarissimo: “Non si<br />

può riconoscere a chi ha contrastato lo Stato<br />

italiano sovrano, schierandosi con la<br />

Repubblica Sociale, il titolo di combattente.<br />

La Cassazione è chiara. Tutte quelle pronunce<br />

sono concordi nel definire i repubblichini<br />

come nemici. Hanno avuto tutto: l’amnistia<br />

Togliatti, la legittimazione democratica<br />

immediata, l’MSI in Parlamento, adesso sono<br />

al potere.<br />

Eppure vanno avanti, incuranti del fatto che<br />

non esiste paese in Europa dove i collaborazionisti<br />

del nazismo sono premiati”.<br />

Nell’istituire l’“Ordine del Tricolore”, la pro-<br />

Lettera ai compagni<br />

5


EDITORIALE<br />

posta di legge n. 1360 recita ad un certo<br />

punto: “Non s’intende, proponendo l’istituzione<br />

di questo Ordine, sacrificare la verità<br />

storica di una feroce guerra civile sull’altare<br />

della memoria comune, ma riconoscere, con<br />

animo ormai pacificato, la pari dignità di una<br />

partecipazione al conflitto avvenuta in uno<br />

dei momenti più drammatici e difficili da<br />

interpretare della storia d’Italia”.<br />

Ma, di grazia, come è possibile porre sullo<br />

stesso piano, attribuire la stessa dignità, a<br />

figure luminose come Teresio Olivelli,<br />

Giancarlo Puecher, Bruno e Fofi Vigorelli,<br />

Mariolino Greppi, i fratelli Cervi, e ai torturatori<br />

delle bande Koch e Carità, ai rastrellatori<br />

della Muti e delle Brigate Nere, che hanno<br />

consegnato a migliaia partigiani ed ebrei ai<br />

nazisti perchè li avviassero nei lager e nei<br />

forni crematori?<br />

Come ben ricorda lo storico Arturo Colombo,<br />

prima dell’arresto e della tragica fine nel lager<br />

di Hersbruk, Teresio Olivelli aveva scritto la<br />

Preghiera del Ribelle, un documento di altissimo<br />

valore, non solo dal punto di vista religioso.<br />

Dice la preghiera: “Sui monti ventosi e<br />

nelle catacombe delle città, dal fondo delle<br />

prigioni, ascolta la preghiera del ribelle per<br />

amore”. Ribelli per amore significa per amore<br />

del prossimo, per amore della libertà, per<br />

amore del riscatto: dunque, mai ribelli per<br />

odio, né per volontà di sopraffazione, né per<br />

spirito di morte”.<br />

È ricordando il sacrificio di Teresio Olivelli,<br />

che sino all’ultimo assiste e conforta gli altri<br />

deportati nel lager di Hersbruck, e che muore<br />

dopo un calcio brutale allo stomaco, che pensavamo<br />

di rivolgerci ai 42 parlamentari che<br />

hanno presentato la proposta di legge n. 1360<br />

perché riflettessero sulla loro iniziativa<br />

e trovassero la forza morale e il<br />

senso civile per ritirarla. Non si capisce,<br />

del resto, perché ci si accanisce<br />

tanto per questa pacificazione storicamente<br />

ingiusta e impossibile da<br />

realizzare quando il presidente della<br />

Camera, Gianfranco Fini, ha più<br />

volte giudicato il fascismo “un male<br />

assoluto” quella di Salò “una scelta<br />

profondamente sbagliata”, e l’antifascismo<br />

un requisito essenziale della<br />

democrazia repubblicana.<br />

Deve inoltre far riflettere la decisione,<br />

assunta il 20 marzo 2009, dal<br />

6 Lettera ai compagni<br />

sindaco di Domodossola, Michele Marinello,<br />

della Lega Nord, di approvare un documento<br />

che chiede al Parlamento di non accogliere la<br />

legge che istituisce l’Ordine del Tricolore. In<br />

quella stessa sala, dove operò Ettore Tibaldi<br />

durante i gloriosi giorni della Repubblica partigiana<br />

dell’Ossola, non era del resto possibile<br />

prendere una diversa decisione.<br />

Michele Marinello, sindaco di una città<br />

medaglia d’oro della Resistenza, ha avuto la<br />

sensibilità di ricordare il suo illustre predecessore.<br />

Anche lì sindaco di Roma, Gianni<br />

Alemanno, ha votato qualche giorno dopo<br />

contro questa legge infausta.<br />

Comunque, come è noto, la proposta di legge<br />

n. 1360 è stata ritirata il 25 aprile dal premier<br />

Silvio Berlusconi, dietro richiesta del segretario<br />

del Partito Democratico Franceschini.<br />

L’annuncio della decisione del presidente del<br />

Consiglio di ritirare la proposta di legge è<br />

stata accolta dai firmatari con qualche mugugno.<br />

Lucio Barani, primo firmatario, rispondeva<br />

“obbedisco” alla telefonata di Berlusconi<br />

e commentava: “È un grosso riconoscimento<br />

ad una legge che ho fatto io. Ritirandola,<br />

favorisco la pacificazione”. Meno conciliante<br />

il senatore di AN Marcello De Angelis, per il<br />

quale la “questione è soltanto rinviata”.<br />

Ancora più ostile Alessandra Mussolini, la<br />

quale ha affermato: “Se Berlusconi la ritira, si<br />

ripresenterà. Trovo importante l’equiparazione<br />

e il ricordo di quei giovani. Ritirare la proposta<br />

di legge assolutamente no”.<br />

C’è da sperare che la proposta non venga<br />

ripresentata per la quinta volta. Sarebbe proprio<br />

una decisione insopportabile, anche in<br />

un clima nel quale tutto è possibile.


CELEBRATO IN TUTTA ITALIA IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE<br />

DAL NAZIFASCISMO<br />

UN 25 APRILE A DIFESA<br />

DELLA COSTITUZIONE<br />

L’Italia ha celebrato anche<br />

quest’anno il 25 Aprile, la<br />

festa della Liberazione nazionale,<br />

con grande partecipazione<br />

di popolo. A Roma, a<br />

Milano e a Torino le manifestazioni più<br />

significative. Nel capoluogo piemontese,<br />

Giorgio Napolitano, Piero Fassino,<br />

Mercedes Bresso e le autorità locali<br />

hanno reso omaggio ai cento partigiani<br />

trucidati dai nazisti recandosi al sacrario<br />

di Coazze, vicino a Giaveno in<br />

Piemonte.<br />

Il Presidente della Repubblica ha invitato gli<br />

italiani a festeggiarlo uniti: “La Resistenza -<br />

ha detto - non è di parte. Piaccia o no, la<br />

Resistenza ha generato la Costituzione italiana.<br />

L’esperienza partigiana - ha aggiunto - fu<br />

determinante per restituire libertà e dignità<br />

al nostro Paese”.<br />

Dopo l’appassionata difesa della<br />

Costituzione, al teatro Regio di Torino,<br />

Napoletano ha sottolineato con forza questi i<br />

temi e questi principi durante la celebrazione<br />

del 25 aprile a Mignano Montelungo.<br />

Tema di fondo della ricorrenza di quest’anno,<br />

infatti, è che La Costituzione è intoccabile<br />

nelle sue linee - guida, in quanto nata con la<br />

Resistenza, che fu una lotta “di popolo, di<br />

partigiani e di militari”, alla base della quale<br />

si collocano le radici solide e profonde della<br />

democrazia italiana.<br />

“La Resistenza non può essere denigrata.<br />

Serve rispetto per tutti i caduti, e nessuna<br />

delle forze politiche può rivendicare in esclusiva<br />

l’eredità del 25 aprile.<br />

RESISTENZA<br />

Il presidente emerito Scalfaro e il segretario della Cgil Epifani<br />

(a nome delle tre Confederazioni sindacali) a Milano ribadiscono<br />

con forza che i principi e i valori della nostra Carta,<br />

nata dalla Resistenza, non si toccano - La svolta di Berlusconi<br />

L’intervento di Mario Artali per la Fiap<br />

La Resistenza fu una straordinaria prova di<br />

riscatto civile e patriottica e non appartiene a<br />

una sola parte”. Il capo dello Stato ha anche<br />

ricordato “l’odissea dei 600 mila militari italiani<br />

internati in Germania nei campi di concentramento”<br />

invitando a “rendere omaggio a<br />

nome della Repubblica all’eroismo delle formazioni<br />

partigiane il cui sacrificio, piaccia o<br />

meno, fu determinante per restituire dignità,<br />

indipendenza e libertà all’Italia”.<br />

Quest’anno la novità assoluta è stata la partecipazione<br />

al 25 Aprile del Presidente del<br />

Consiglio Silvio Berlusconi che, su invito del<br />

capo del Pd Franceschini, ha parlato a Onna,<br />

il paesino abruzzese annientato dal sisma.<br />

“Sono con chi ha combattuto per la libertà”,<br />

ha sottolineato Berlusconi parlando della<br />

Resistenza come di una pagina sulla quale “si<br />

fonda la nostra Costituzione, la nostra libertà.<br />

Comunisti e cattolici, socialisti e liberali, azionisti<br />

e repubblicani accantonarono le differenze<br />

e scrissero una grande pagina della<br />

nostra storia”.<br />

Ed ha aggiunto: “Il rispetto che si deve ai<br />

caduti che combatterono dalla parte sbagliata,<br />

per una causa già perduta, non significa<br />

neutralità, indifferenza perché siamo noi tutti<br />

italiani dalla parte di chi ha combattuto per la<br />

nostra libertà, per la nostra dignità, per l’onore<br />

della nostra patria”.<br />

E quando Franceschini ha rilevato che per<br />

coerenza la maggioranza dovrebbe ritirare l’iniziativa<br />

legislativa di un gruppo di parlamentari<br />

del centrodestra che vuole la parificazione<br />

tra partigiani e militi di Salò,<br />

Berlusconi è subito intervenuto bocciando<br />

quella iniziativa.<br />

Lettera ai compagni<br />

7


RESISTENZA<br />

Un 25 Aprile come questo, se alle parole<br />

seguiranno i fatti, i partigiani e tutti quelli che<br />

sono loro vicini da sempre, lo ricorderanno<br />

con commozione: ora, dopo tanti attacchi e<br />

tante denigrazioni, i riconoscimenti arrivano<br />

da tutte le parti, il che riscatta l’onore dei partigiani<br />

ripagandoli di tante amarezze e di<br />

tanti torti subiti da revisionisti faziosi e in<br />

malafede che, specie in questi ultimi tempi,<br />

hanno infangato e insultato la storia e la verità<br />

pur di far passare le loro tesi antistoriche.<br />

A Milano la manifestazione più intensa. Si è<br />

cominciato giovedì sera con la visita al monumento<br />

ai Caduti all’Idroscalo per proseguire,<br />

il giorno dopo, con l’omaggio reso ai partigiani<br />

assassinati dai nazifascisti e tumulati presso<br />

il Campo della Gloria nel Cimitero<br />

Maggiore.<br />

Sabato 25 Aprile, prima della grande manifestazione<br />

in piazza Duomo, visita al monumento<br />

alla guardia di Finanza, a Palazzo<br />

Isimbardi davanti alla lapide che ricorda i<br />

caduti, a Palazzo Marino davanti alla lapide<br />

assegnata a Milano città medaglia d’oro della<br />

Resistenza, alla Loggia dei Mercanti, per<br />

deporre corone ai caduti per la libertà, al<br />

sacrario dei caduti di tutte le guerre in piazza<br />

Sant’Ambrogio, a piazzale Loreto per rendere<br />

omaggio ai 17 martiri trucidati dai nazifascismi,<br />

alla lapide dei caduti presso il Campo<br />

Giuriati.<br />

Poi il raduno, nel primo pomeriggio, in piaz-<br />

8 Lettera ai compagni<br />

zale Oberdan da<br />

dove si sono<br />

mossi i cortei per<br />

raggiungere il<br />

sagrato del<br />

Duomo. Una folla<br />

immensa e<br />

festante che ha<br />

seguito la manifestazione<br />

con<br />

grande partecipazione<br />

e compostezza.<br />

In piazza Duomo<br />

sul palco sono<br />

intervenuti:<br />

Gerardo Agostini,<br />

presidente della<br />

Confederazione<br />

delle Associazioni<br />

militari e partigiane;<br />

per l’Aned, la figlia di un deportato,<br />

Giovanna Massariello; il vicepresidente<br />

nazionale della Fiap Mario Artali, che ha parlato<br />

in rappresentanza del presidente nazionale<br />

Avv. Francesco Berti; Terzi per il Comue<br />

di Milano, Vincenzo Ortolina, presidente del<br />

Consiglio della provincia di Milano; Roberto<br />

Formigoni, Presidente della Regione<br />

Lombardia. Hanno concluso Guglielmo<br />

Epifani, segretario generale della Cgil, a<br />

nome delle tre organizzazioni sindacali (Cgil,<br />

Cisl e Uil) e il presidente emerito della<br />

Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che ancora<br />

una volta ha difeso i valori e gli ideali della<br />

nostra Costituzione indissolubilmente legata<br />

alla guerra di Liberazione nazionale e alla<br />

Resistenza.<br />

Una delegazione della Fiap si poi è recata al<br />

famedio, presso il Cimitero Monumentale,<br />

per deporre una corona alla tomba di Aldo<br />

Aniasi, per dieci anni sindaco di Milano e<br />

Presidente della Fiap fino ai suoi ultimi giorni<br />

di vita.<br />

Pubblichiamo, infine, l’intervento del dottor<br />

Mario Artali, Vice Presidente nazionale della<br />

Fiap: “Porto con orgoglio a questa grande<br />

manifestazione il saluto della <strong>FIAP</strong>, la<br />

Federazione Italiana delle Associazioni<br />

Partigiane fondata nel 1949 da Ferruccio<br />

Parri e presieduta, fino alla sua morte, da<br />

“Iso” Aniasi, l’indimenticabile Sindaco della<br />

Milano dello sviluppo, della integrazione, del


decentramento e della partecipazione.<br />

La Fiap raccolse, in una fase di forte diversificazione<br />

tra le forze che avevano vittoriosamente<br />

condotto la guerra di liberazione, molti<br />

di coloro che avevano combattuto nelle formazioni<br />

di “Giustizia e Libertà”, “Matteotti”,<br />

“Mazzini”, anarchici e libertari ma anche<br />

garibaldini come Aniasi e combattenti<br />

dell’Esercito.<br />

Alla Fiap aderirono anche Piero Calamandrei,<br />

Antonio Greppi, Ezio Vigorelli, Giorgio Spini,<br />

Leo Valiani, Giuliano Vassalli, Nuto Revelli,<br />

Norberto Bobbio,Gaetano Arfè.<br />

È convinta la nostra adesione alle parole di<br />

Giorgio Napolitano: “Gli italiani mantengano<br />

costantemente viva la memoria e consapevole<br />

la coscienza delle diverse tappe del processo<br />

che portò alla liberazione ed alla democrazia”.<br />

Siamo quindi pronti - e la nostra storia lo<br />

dimostra - all’invito a lavorare “Senza appropriazioni,<br />

senza esclusioni, senza spirito di<br />

parte, ma invece con una ispirazione che sappia<br />

unire tutti gli italiani”.<br />

Pensiamo che all’orgoglio di una storia “unitaria<br />

e plurale” come fu quella della lotta per<br />

la libertà non servano, ed anzi siano di grave<br />

nocumento settarismi ed estremismi, e così<br />

anche pulsioni egemoniche.<br />

Non può certo dividere l’umano gesto di<br />

posare un fiore sulla tomba di chi è morto a<br />

vent’anni per i suoi ideali, giusti o sbagliati<br />

che fossero poco importa, ma quello che chiediamo<br />

con forza è la condivisione della storia,<br />

che ha da tempo pronunciato<br />

il suo verdetto.<br />

La risorgente Italia<br />

democratica, come ci<br />

ha scritto in un Suo<br />

messaggio Carlo<br />

Azeglio Ciampi, ha le<br />

sue radici in una<br />

Resistenza che “ha<br />

avuto una pluralità<br />

di manifestazioni:<br />

dal comportamento<br />

della maggior parte<br />

dei nostri militari<br />

(prima nei giorni<br />

successivi all’8 settembre<br />

e poi nei<br />

campi di interna-<br />

RESISTENZA<br />

mento) all’azione delle forze partigiane, alle<br />

battaglie combattute dal Corpo Italiano di<br />

Liberazione.”<br />

L’onore del Paese - e più di tutti dovrebbe<br />

sostenerlo il Ministro della Difesa- è stato salvato<br />

dai soldati che si sacrificarono a<br />

Cefalonia, dagli internati che dissero di no,<br />

dai partigiani che combatterono nelle città e<br />

sulle montagne.<br />

Se abbiamo scelto, per questo 25 Aprile, il<br />

tema della difesa della Costituzione, è perché<br />

la Costituzione nasce dalla Resistenza, è la<br />

risposta unitaria alla legittima diversità delle<br />

posizioni politiche.<br />

Non è un tabù, si può e si deve adeguare ai<br />

tempi, ma non è nemmeno, come ha sottolineato<br />

ancora Napolitano, un residuato bellico.<br />

Mi piace qui ricordare il giudizio di uno dei<br />

Costituenti viventi, Giulio Andreotti il quale<br />

dice che, sotto la guida di Piero Calamandrei<br />

e di Benedetto Croce la Carta fu scritta con<br />

grande senso di equilibrio tra i poteri. Una<br />

Costituzione garantista, al riparo anche da<br />

incursioni populiste che non sono la democrazia<br />

ma il suo opposto.<br />

Riformare non vuole dire sfasciare.<br />

Se la “scelta coraggiosa è quella di rinunciare<br />

alle rispettive rigidità per produrre una tavola<br />

di valori condivisi” non si può prescindere<br />

dalle scelte della Costituente.<br />

Viva la Costituzione repubblicana nata dalla<br />

Resistenza, viva la Resistenza”.<br />

Lettera ai compagni<br />

9


RESISTENZA<br />

10<br />

I TANTI MODI DI RICORDARE UNA DATA IMPORTANTE<br />

COME IL 25 APRILE DEL ’45<br />

COSÌ GLI ANTIFASCISTI<br />

DIFESERO BARI DALL’ASSALTO NAZISTA<br />

Fu attaccato prima il porto e poi l’ufficio delle Poste<br />

Quella prima manifestazione democratica contro il regime<br />

soffocata nel sangue: 30 morti<br />

Raccontare le esperienze di<br />

una generazione del 1900 è<br />

necessario, perché le nuove<br />

generazioni, prive di<br />

memoria storica, non ripetano<br />

più lo scempio e le distruzioni<br />

provocate dalle violenze politiche e<br />

dalle guerre.<br />

La memoria storica è utile ai giovani, perché<br />

non vengano, in occasione di questa imperante<br />

crisi economica e sociale, deviati dalla propaganda,<br />

priva di valori umani.<br />

Se possiamo vivere in uno stato laico, libero e<br />

democratico, progressista, lo dobbiamo a<br />

tutti coloro che, vissuti in tempi oscuri e privi<br />

di pietà umana, desideravano opporsi e lottare<br />

per principi ed ideali alti e nobili.<br />

Lettera ai compagni<br />

di Giuseppe Michele STALLONE<br />

Questi valori, nobili e democratici, ci vengono<br />

dai Padri del Risorgimento, uomini ricchi di<br />

passione e dotati di lungimiranza, i quali<br />

sacrificarono se stessi, perdendo posizioni<br />

sociali, salute, famiglia, libertà personali, vita<br />

e Patria (esilio, deportazione, ecc...), ma alla<br />

fine riuscirono a coinvolgere la zona grigia<br />

della popolazione facendola sentire partecipe<br />

delle scelte decisive per la vita nazionale.<br />

La nostra famiglia di origini mazziniane e<br />

garibaldine, che durante il ventennio fu<br />

impegnata a lottare per la libertà e la democrazia,<br />

cercò nel momento giusto di partecipare<br />

attivamente alla nascita dell’Italia<br />

repubblicana, libera e democratica. Il 28<br />

luglio del ’43, dopo la caduta del fascismo,<br />

mio padre Pietro Stallone, insieme ad altri<br />

antifascisti, organizzò a Bari la prima manifestazionecontro<br />

il regime.<br />

Questa meravigliosaespressione<br />

di<br />

libertà, di italianità,<br />

di fedeltà,<br />

ai principi<br />

dettati<br />

dalla dichiarazione<br />

dei<br />

diritti dell’uomo<br />

francese e<br />

dalla carta di<br />

Filadelfia e<br />

dai mazziniani,<br />

finì tragicamente<br />

sotto<br />

la sede della


Federazione fascista a Bari, provocando<br />

30 morti e moltissimi feriti e arresti da<br />

parte della polizia fascista. Il 9 settembre<br />

del ’43, a seguito dell’armistizio firmato<br />

da Vittorio Emanuele III e dal governo<br />

legale guidato dal maresciallo Pietro<br />

Badoglio, in ogni città italiana e nei territori<br />

occupati una furibonda reazione nazista<br />

seminò morte, lutti, atrocità. Tanti italiani,<br />

(antifascisti, democratici, ebrei,<br />

oppositori di Mussolini) finirono deportati<br />

in Germania. Ai prigionieri italiani in<br />

Germania non vennero applicate le leggi<br />

delle convenzioni internazionali: tutti<br />

furono internati e molti di loro non fecero<br />

più ritorno a casa, falcidiati dagli stenti e<br />

dalle torture.<br />

Di fronte allo sfaldamento generale, in<br />

alcune città, come a Bari per esempio,<br />

comandanti gelosi custodi della dignità<br />

della divisa che indossavano, decisero di<br />

reagire con l’aiuto della popolazione civile,<br />

stanca di una guerra inutile, impreparata<br />

e priva di logica politica ed economico-<br />

sociale.<br />

A Bari un valoroso comandante, il generale<br />

Bellomo, organizzò la difesa della città<br />

contro l’assalto nazista al porto e all’interno<br />

dell’intero territorio urbano. Alla direzione<br />

delle Poste Telegrafi e Telefoni di<br />

Stato e Radio, il personale in servizio e i carabinieri<br />

si organizzarono per impedire la<br />

distruzione di questa importante struttura<br />

strategico- militare.<br />

Mio padre Pietro, segretario della ricostituenda<br />

Federazione Italiana Postelegrafici e<br />

Telefonici, essendo stato un ufficiale radiotelegrafista<br />

nella prima guerra mondiale, riunì<br />

la milizia postale convincendo la stragrande<br />

maggioranza che era doveroso assicurare<br />

fedeltà all’Italia: era giunta l’ora di difendere<br />

anche con la vita il posto di lavoro, la patria,<br />

la libertà.<br />

Pietro Stallone, nato a Bitonto (Bari) nel<br />

1898, dopo aver ricostruito il sindacato unitario<br />

dei Postelegrafonici, si batté per far istituire<br />

il Ministero delle Poste e<br />

Telecomunicazioni, riuscendo a far assorbire<br />

dal nuovo ministero tutte le ricevitorie PT<br />

situate nei paesi e nei quartieri, facendo passare<br />

di ruolo tutto il personale avventizio,<br />

giornaliero, diurnista.<br />

Nel 1953, quale consigliere Enaps, riuscì a far<br />

RESISTENZA<br />

estendere il diritto all’ assistenza sanitaria a<br />

tutti i pensionati pubblici.<br />

Il Comune di Roma gli ha dedicato un largo<br />

nel V Municipio e il Comune di Bari ha deliberato<br />

di intitolargli una via cittadina.<br />

La famiglia Stallone annovera diversi partecipanti<br />

alla lotta di Liberazione: il maggiore<br />

della Finanza Nicolò Stallone, deportato in<br />

Germania e caduto nell’adempimento dei suo<br />

dovere a Fullen in Germania nel 1944: il brigadiere<br />

dei carabinieri, comandante della<br />

Stazione di Apuania, Luigi Stallone, il quale<br />

partecipò attivamente alla Resistenza; il soldato<br />

Antonio Stallone, deportato in<br />

Germania per non aver voluto tradire il suo<br />

paese.<br />

La famiglia Stallone rappresenta un esempio<br />

di completa dedizione e incoraggiamento per<br />

i giovani per educarli al senso di appartenenza,<br />

di responsabilità, di amor patrio e di unità<br />

nazionale, cultura molto oggi più che mai<br />

necessaria per la rinascita morale e lo sviluppo<br />

economico-sociale del nostro Paese.<br />

Lettera ai compagni<br />

11


LIBERAZIONE<br />

Tra le altre manifestazioni, il<br />

25 Aprile a Roma è stato celebrato<br />

a Porta San Paolo. Ecco<br />

il discorso del presidente<br />

della Fiap romana Vittorio<br />

Cimiotta:<br />

“Amici, compagni, vi porto il saluto della<br />

F.I.A.P. - Federazione italiana Associazioni<br />

Partigiane che rappresenta le Formazioni<br />

Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, le<br />

Brigate Matteotti e le Brigate Giuseppe<br />

Mazzini.<br />

La nostra presenza testimonia che la<br />

Resistenza non fu opera di una sola parte<br />

politica, per intenderci quella comunista.<br />

C’erano anche le nostre formazioni azioniste,<br />

socialiste e repubblicane.<br />

C’erano quelle cattoliche, quelle liberali, quelle<br />

monarchiche.<br />

Resistenza fu anche quella dei deportati nei<br />

campi di sterminio dove furono inceneriti<br />

complessivamente 12 milioni di esseri umani;<br />

Resistenza fu quella dei militari deportati nei<br />

campi di lavoro tedeschi per non avere aderito<br />

alla R.S.I.; Resistenza fu quella dei martiri<br />

delle Fosse Ardeatine e di tutte le stragi nazifasciste.<br />

Sessantaquattro anni addietro molti giovani,<br />

dinanzi al deserto morale e materiale lasciato<br />

dal fascismo, si sono svegliati da un lungo<br />

letargo di vent’anni di narcosi e di falsa propaganda.<br />

Questi giovani non avevano ricevuto<br />

ordini da nessuno e rispondendo solamente<br />

al richiamo della loro coscienza sono accorsi<br />

con le armi in pugno a combattere contro<br />

l’invasore. La Resistenza prima di essere una<br />

azione fu un richiamo morale.<br />

Oggi, 25 Aprile 2009, Festa della Liberazione,<br />

il mio pensiero commosso e riconoscente va a<br />

12 Lettera ai compagni<br />

LA CELEBRAZIONE DEL 25 APRILE A ROMA: PORTA SAN PAOLO<br />

LA RESISTENZA FU<br />

UN RICHIAMO MORALE<br />

L’intervento del presidente<br />

della Fiap romana Vittorio Cimiotta<br />

quanti non tornarono, a quanti sacrificarono<br />

la vita per la nostra libertà, la libertà di tutti,<br />

anche di quelli che l’hanno avversata. In tale<br />

ricorrenza mi pare opportuno leggere un<br />

brano di una lettera di un condannato a<br />

morte della Resistenza:<br />

Ai miei cari figli.<br />

Una vita onesta è il migliore ornamento di<br />

chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una<br />

religione e siate sempre solleciti verso il<br />

bisogno e le sofferenze dei vostri simili.<br />

Amate la libertà e ricordate che questo bene<br />

deve essere pagato con continui sacrifici e<br />

qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù<br />

è meglio non viverla. Amate la madrepatria,<br />

ma ricordate che la patria vera è il<br />

mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli<br />

sono i vostri fratelli.<br />

Forse, se tale è il mio destino, potrò sopravvivere<br />

a questa prova; ma se cosi non può<br />

essere io muoio nella certezza che la primavera<br />

che tanto io ho atteso brillerà presto<br />

anche per voi. E questa speranza mi dà la<br />

forza di affrontare serenamente la vita.<br />

Pietro Benedetti<br />

Questo martire fu fucilato per la sua attività<br />

antifascista il 29 Aprile 1944 sugli spalti del<br />

Forte Bravetta di Roma dal plotone della PAI<br />

(Polizia Africa italiana).<br />

In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />

Resistenza traspare una luce, una pace interiore<br />

immensa.<br />

In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />

Resistenza, in uomini di diversa fede religiosa<br />

e politica, sono riscontrabili gli stessi valori<br />

della giustizia, della libertà, dell’onestà e<br />

della solidarietà.


In tutte le lettere dei condannati a morte della<br />

Resistenza c’è la comune speranza di un<br />

mondo migliore.<br />

A noi che ci riteniamo gli eredi della<br />

Resistenza, a noi che abbiamo condiviso questi<br />

valori e queste speranze ci si pone un problema<br />

di coscienza, anzi, un esame di<br />

coscienza. Siamo degni di questo lascito<br />

pagato duramente fino al sacrificio estremo<br />

della vita? Purtroppo, dobbiamo constatare<br />

che, oggi, c’è una deriva, un degrado morale e<br />

civile.<br />

UNA FRASE<br />

LIBERAZIONE<br />

I nostri maestri sono Giovanni Amendola,<br />

Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, i fratelli<br />

Rosselli, Pilo Albertelli, Don Minzoni,<br />

Antonio Gramsci e tanti altri che hanno onorato<br />

il nostro paese.<br />

Nel loro insegnamento, nel loro esempio dobbiamo<br />

rilanciare i nostri valori.<br />

Amici, compagni, in questa giornata di festa<br />

non possiamo dimenticare la nostra<br />

Costituzione. In essa sono custoditi i valori<br />

per cui hanno sacrificato la loro vita i nostri<br />

martiri.<br />

La nostra Costituzione è nata dalla<br />

Resistenza.<br />

La nostra Costituzione è tra le più democratiche<br />

del mondo.<br />

Lasciatemi finire il mio intervento con le<br />

parole di un grande azionista Piero<br />

Calamandrei:<br />

La Costituzione è un testamento, un testamento<br />

di 100 mila morti. Se voi volete andare<br />

in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la<br />

nostra Costituzione, andate nelle montagne<br />

dove caddero i partigiani, nelle carceri dove<br />

furono imprigionati, nei campi dove furono<br />

impiccati, dovunque è morto un italiano per<br />

riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o<br />

giovani, col pensiero, perché lì è nata la<br />

nostra Costituzione.<br />

di Renzo BIONDO<br />

Anche quest’anno alcuni giellisti veneziani sono andati, in occasione dell’anniversario della<br />

Liberazione, a colloquiare con i ragazzi nelle scuole superiori. Il tema era appunto: “I ragazzi<br />

della Resistenza incontrano i ragazzi di oggi”.<br />

Centinaia di ragazze e ragazzi hanno assistito con grande partecipazione ed interesse, dopo un<br />

breve preambolo interrogandoci con domande serie e centrate, si sentiva che avevano capito<br />

cos’era stato il fenomeno Resistenza.<br />

Al liceo Marco Foscarini, dopo quasi due ore, prima della proiezione del film corto “In montagna<br />

ci si sente liberi” che abbiamo prodotto come <strong>FIAP</strong> - Gielle nel 1998, ho detto: “Adesso vorrei<br />

farvi una domanda. Come ci vedete, che impressione vi facciamo?”<br />

È uscita una ragazza, la quale ci ha ringraziato per le risposte che abbiamo dato in un clima<br />

allegro e disinibito, ed ha concluso: “Ciascuno di noi vorrebbe avere nella propria famiglia una<br />

persona come voi”.<br />

Una frase che abbiamo scritto nel nostro diario e nel nostro cuore.<br />

Lettera ai compagni<br />

13


IL RACCONTO<br />

RICORDO DI UNA PAGINA TRAGICA ED EROICA DELLA STORIA ITALIANA<br />

Quel venticinque aprile noi ci<br />

trovavamo dall’altra parte.<br />

Anzi, come la gran parte<br />

degli italiani eravamo in<br />

mezzo, ma più di là che di<br />

qua. In mezzo lo eravamo davvero perché<br />

la casa del nonno, dove tutta la<br />

famiglia si era rifugiata dopo il primo<br />

bombardamento di Milano del 23 ottobre<br />

del 1942, stava in terra di nessuno,<br />

a un paio di chilometri dal lago sulla<br />

strada per Premeno.<br />

Di giorno la zona era sporadicamente pattugliata<br />

dai fascisti repubblichini, accompagnati,<br />

ma solo nelle grandi occasioni, dai tedeschi.<br />

Di notte i partigiani scendevano per lo<br />

stradone con la venti millimetri per andare a<br />

sparare alla Casa del Fascio di Intra dal giardino<br />

della Villa Tranquillini al Motto. La venti<br />

era montata su un carro che, di giorno, come<br />

tutti in paese sapevano benissimo, stava<br />

nascosto sotto il fieno nel garage dell’architetto<br />

Minali su a Cargiago. Ma il più delle<br />

volte era proprio terra di nessuno, cioè di chi<br />

ci abitava, ma sopratutto dei bambini del<br />

paese che, grazie a quella straordinaria situazione,<br />

se ne erano totalmente impadroniti<br />

con la massima libertà, tanto che in certi<br />

momenti il paese mi appariva veramente<br />

come Timpetill la città senza genitori, uno dei<br />

miei livres de chevet di allora.<br />

La casa del nonno giaceva allungata sul pendio<br />

come una nave a poppa quadra, con la<br />

prua rivolta in giù. Il giardino era triangolare<br />

e finiva a valle con un terrazzino rialzato<br />

coperto di glicini. A metà stava il cubo della<br />

casa, quattro lati e un tetto rosso, con un terrazzino<br />

a due piani sul fronte, vera plancia di<br />

comando e ponte panoramico della casa,<br />

mentre la base del triangolo stava a monte<br />

verso Premeno. Qui si trovavano il garage, il<br />

pollaio e una seconda casetta dove il nonno,<br />

che non andava più in negozio a Milano dopo<br />

il colpo che gli aveva lasciata la bocca storta,<br />

stava tutto il giorno rintanato a curare i polli,<br />

14 Lettera ai compagni<br />

QUEL MIO 25 APRILE DEL ’45<br />

di Guido MARTINOTTI<br />

far la posta ai piccioni con strane trappole a<br />

ghigliottina da lui stesso costruite e generalmente<br />

a starsene al riparo dalla famiglia. La<br />

casetta del nonno era collegata alla casa principale<br />

con un cavo elettrico: se il nonno stava<br />

male o voleva qualcosa girava un grosso<br />

interruttore a vista e faceva suonare da noi un<br />

campanello grosso come quello di una doppia<br />

sveglia a molla.<br />

Noi bambini razzolavamo dappertutto, ma<br />

sopratutto sul castello di prua ricoperto di glicini,<br />

punto di osservazione avanzata per guardare<br />

chi saliva lungo il bianco stradone che<br />

costeggiava la casa. La prua si affacciava<br />

anche su un piccolo crocicchio su cui convergevano<br />

anche le stradine che, da un lato, portavano<br />

alla frazione di Biganzolo e, dall’altro,<br />

a un torrente che si chiamava “ il Riale” e poi<br />

a San Giorgio, quattro case in fila collocate su<br />

un costone dietro cui spuntavano in lontananza<br />

le cime del Monterosa. Oltre la prua lo<br />

stradone scendeva verso lago fino al curvone<br />

del Brusati che ci chiudeva la vista dopo un<br />

centinaio di metri.<br />

LA CAMPAGNA<br />

I bambini non avevano un nome per questa<br />

località, ma con il tempo ho scoperto che<br />

veniva chiamata “La Campagna” come se il<br />

resto fosse una gran città. Questa posa di<br />

urbanità trovava eco nella pretesa delle maestre<br />

che a scuola si adottasse il testo di lettura<br />

per le classi urbane e non quello per le classi<br />

rurali, con effetti catastroficamente esilaranti<br />

quando l’inconsapevole autore cercava<br />

di spiegare a quella espertissima scolaresca a<br />

piedi scalzi la vita di lucertole e uccellini, che<br />

lui probabilmente non aveva mai visto dal<br />

vero. In effetti, se guardiamo ai nomi, il paese<br />

era tutto campagnolo. La scuola elementare,<br />

l’osteria, che poi passò in gestione alla cooperativa<br />

rossa, e la villa a castellozzo (con i merli<br />

di prammatica) della signora del paese, si<br />

affacciavano su uno spiazzo chiamato La<br />

Pastura, nel quale i bambini giocavano al calcio,<br />

ma che più in generale serviva alle feste


del paese e da balera per la cooperativa.<br />

Un’altra frazione si chiamava Antoliva, anche<br />

se le olive ai miei tempi non c’erano più, e un’<br />

altra, La Selva. I corsi d’acqua erano un torrentello<br />

chiamato il Riale, dietro casa mia, e<br />

un torrente più consistente che scorreva dentro<br />

un forrone chiamato La Valle.<br />

Però a coltivare i campi davvero erano rimasti<br />

in pochini. Il Cecchin Brusati, uno spilungone<br />

cupo e solitario mezzo gozzuto, considerato<br />

omosessuale, ma non pericoloso, visto<br />

che ci andavo tutti i giorni a prendere il latte<br />

e non mi è mai successo niente.<br />

E “Il Veneto”, che abitava nella grande cascina<br />

dietro alla Pastura e sgobbava dalla mattina<br />

presto a notte tarda, sette giorni su sette,<br />

incatenando a questa schiavitù la moglie e le<br />

due figlie da marito con urla belluine. Un po’<br />

di coltivazione, però, la facevano tutti, anche<br />

se l’economia locale - come ho imparato dopo<br />

dai libri - era una tipica economia da parttime<br />

farming, con le industrie di valle della<br />

prima industrializzazione giù vicino al lago,<br />

che impiegavano la maggior parte degli abitanti.<br />

Come le acque di decine di ruscelli,<br />

poco prima delle 8 di ogni mattina, quando<br />

suonavano le sirene della Nestlé o della<br />

Viscosa, da tutte le strade della montagna<br />

scendevano a valle le migliaia di biciclette<br />

degli operai che abitavano nei paesi sparsi<br />

sulle pendici venendo anche da Premeno,<br />

quattro o cinque chilometri più a monte.<br />

E poco dopo le sirene delle cinque, come in<br />

un perpetuo playback, gli stessi operai e operaie,<br />

in gruppetti di due o tre, risalivano<br />

chiacchierando lo stradone bianco di polvere,<br />

con la bicicletta a mano, stringendo la crocetta<br />

del manubrio con la destra, con la tipica<br />

cadenza pendolante dei camminatori di montagna.<br />

Qualcuno dei più giovani ogni tanto<br />

risaliva pigiando sui pedali e dondolando a<br />

destra e sinistra.<br />

Erano in genere biciclette di tubolare pesante,<br />

alcune a scatto fisso, altre con lo scatto<br />

libero, ma solo pochi fortunati avevano il<br />

cambio. I freni a filo e il manubrio sagomato<br />

erano più diffusi, sopratutto nelle bici da<br />

donna, quelle senza la “canna”, il tubolare<br />

orizzontale delle bici da uomo, su cui spesso<br />

sedeva al traverso, in discesa, una seconda<br />

persona.<br />

In paese, salvo noi e una manciata di “sfollati”<br />

dalle città bombardate, erano tutti con i<br />

IL RACCONTO<br />

partigiani. Mio padre era fascista, come lo<br />

erano stati quasi tutti gli italiani, ma forse con<br />

un impegno civile maggiore. Certamente non<br />

era stato un picchiatore, ma, come si diceva<br />

allora, “uno che ci credeva”.<br />

Intendendosi nel codice non scritto della borghesia<br />

italiana, uno un po’ fesso, che credeva<br />

ai valori sbandierati dal regime senza approfittarne.<br />

Figlio di un militare di carriera piemontese,<br />

morto dalle parti di Misurina nei<br />

primi giorni della Grande Guerra, vittima<br />

della ritardata eliminazione della “sciabola<br />

lucida” e della pessima logistica che lo aveva<br />

lasciato dissanguare, era “orfano con madre<br />

vedova di guerra”, e non era stato richiamato<br />

in guerra nell’esercito regolare.<br />

Per questo si era presentato come volontario<br />

nella milizia nazionale fascista per la campagna<br />

in Africa Settentrionale. E, come benvenuto,<br />

lui che lasciava un posto direttivo in<br />

una grande assicurazione, si era sentito dire<br />

dal perenne sportellista italiano: “ecco un<br />

altro morto di fame”.<br />

Un primo significativo contatto con il mondo<br />

degli “otto milioni di baionette”, di cui mio<br />

padre ha riportato una straordinaria testimonianza<br />

fotografica, avendo comperato da un<br />

ufficiale tedesco una Contax a tendina, scatti<br />

fino a 1/1250 con obiettivo Zeiss anteguerra<br />

che ho ancora.<br />

I rullini delle pellicole, raccattati qui e là di<br />

sottobanco, li nascondeva cucendoli nel<br />

bordo del cappotto grigioverde che diventava<br />

via via più rigido dandogli un’aria pomposa<br />

da uno sempre sull’attenti.<br />

È il racconto di una guerra di poveri straccioni,<br />

morti di fame per davvero, mandati allo<br />

sbaraglio da un dittatore buffone, commediante<br />

tragico che, come spiegherà bene<br />

Denis Mac Smith, nel suo splendido libro<br />

sulla propaganda fascista, era soprattutto un<br />

formidabile esperto di comunicazioni di<br />

massa, da giornalista di professione. Ma<br />

sopratutto da retore ignorante e senza vergogne:<br />

“Noi spezzeremo le reni alla Grecia”; e,<br />

tecchete, la Iulia sterminata a Perati e il corpo<br />

di spedizione praticamente buttato fuori<br />

dall’Albania regnicola in una settimana.<br />

“Li fermeremo sul bagnasciuga” e, tecchete,<br />

perdiamo la Sicilia. Non parliamo dell’Armir,<br />

mandato sulla neve con le scarpe di cartone<br />

solo per imporsi con Hitler, che non ne voleva<br />

assolutamente sapere. Visto oggi, con la<br />

Lettera ai compagni<br />

15


IL RACCONTO<br />

pancetta mal celata in grottesche divise pronte<br />

a scoppiare, il Cavalier Benito fa ridere, ma<br />

perché si possa oggi ridere sono state versate<br />

molte lacrime. E, là nella terra di nessuno, ma<br />

in realtà sotto la giurisdizione partigiana, le<br />

divise della milizia fascista non facevano ridere<br />

nessuno e chi le aveva indossate, sia pure<br />

per difendere la Patria, come si usava dire,<br />

era meglio che non si facesse vedere troppo in<br />

giro. Ma evidentemente mio padre godeva di<br />

stima generale, perché poco prima della liberazione,<br />

quando ormai i destini erano segnati,<br />

si rifiutò di passare in Svizzera con altri che<br />

temevano a torto o ragione rappresaglie da<br />

parte dei partigiani vittoriosi. Che non mancarono<br />

perché sulle montagne del Verbano e<br />

dell’Ossola la lotta era stata dura e per vario<br />

tempo dopo la fine della guerra, verso sera si<br />

sentivano le raffiche di mitra delle esecuzioni<br />

provenire dal Campo sportivo di Intra.<br />

L’OIKOS<br />

Della casa e del giardino avevo una conoscenza<br />

minuta, ossessiva, ora ovviamente ingigantita<br />

dai ricordi e dalla sproporzione fisica dei<br />

luoghi visti dai bambini. Come in una sorta di<br />

ingenuo palazzo della memoria avevo associato<br />

le immagini della casa e del giardino alle<br />

preghiere della sera. Con l’Ave Maria entravo<br />

dalla porta di casa e mi avviavo per il corridoio,<br />

“tinello” a destra e sala da pranzo a sinistra<br />

e, con la fine della prima strofa, arrivavo<br />

all’inizio della scala, con la cucina a destra.<br />

Chissà perchè associavo questa parte della<br />

preghiera al prezzemolo che veniva preparato<br />

in cucina sul tagliere da mia madre o da mia<br />

nonna, che intravedevo con la coda dell’occhio<br />

mentre mi avviavo su peri gradini di<br />

rugosa pietra nera.<br />

Con il Santa Maria, giravo il pianerottolo<br />

dove d’inverno stavano i due portavasi di<br />

ferro battuto dei limoni e mi infilavo sui tre o<br />

quattro gradini della seconda rampa che conduceva<br />

al corridoio di sopra dove stavano le<br />

camere da letto e il bagno che ripercorrevo a<br />

180 gradi finendo il ritornello. C’era anche<br />

una seconda rampa di scale che portava al<br />

solaio. Ma quello non rientrava nella preghiera<br />

perchè il solaio, come la cantina, erano il<br />

regno del Demonio.<br />

Inteso come Diavolo con le corna, ispiratore<br />

di terrore assoluto. Terra incognita da evitare,<br />

anche se poi ci andavo spesso. Sopratutto<br />

16 Lettera ai compagni<br />

in solaio, che era abbastanza ampio con quattro<br />

stanze con meravigliosi lucernari a botola:<br />

“Guido chiudili che viene il temporale”. Anzi<br />

una stanza era la camera della donna, non<br />

sempre occupata in modo fisso, dove stava<br />

anche il “cassone”, un contenitore di zinco<br />

con galleggiante collegato al motore del pozzo<br />

per la provvista d’acqua. Che rientrava nel più<br />

generale concetto di “scorta”, che dominava<br />

l’economia domestica durante la guerra.<br />

Il cassone non si doveva toccare per non sporcare<br />

l’acqua e per via del galleggiante che era<br />

pericoloso perché collegato con un contatto.<br />

In effetti mi domando ancora come non sia<br />

mai morto nessuno, perché un’occhiata a<br />

questo congegno meraviglioso si dava quasi<br />

sempre alzando il coperchio di zinco. Né<br />

come non siamo mai andati a fuoco con fili<br />

semiscoperti che giravano da tutte le parti.<br />

Ma forse la corrente del tempo di guerra, che<br />

del resto era a 120 volts, era così deboluccia<br />

che quasi non faceva nemmeno scintille.<br />

E poi in solaio c’erano tutti i libri del babbo,<br />

che in famiglia passava per un bibliofilo e a<br />

suo modo lo era. Quei libri li ho più o meno<br />

letti tutti in tenera età e li ho più o meno<br />

ancora tutti.<br />

Tra gli altri c’era una enorme Divina<br />

Commedia illustrata dal Dorè e quando volevo<br />

veramente tremare andavo su a vedere<br />

quel Satana con la coda turgida di serpentone<br />

che sta in fondo all’Inferno e che, ne ero sicuro,<br />

faceva paura anche al Dorè mentre lo<br />

dipingeva. In ogni caso quando non ero li a<br />

guardarlo, lui se ne veniva fuori. Ecco perché<br />

in solaio di notte non ci andavo. Ma in un<br />

sogno ricorrente lo sentivo battere colpi rimbombanti<br />

nei muri e allora io e la Nonna<br />

Alice, tenendoci per mano, pazzi dal terrore,<br />

ma gridando a tutto spiano, correvano su per<br />

cacciarlo via.<br />

Il giardino era invece associato al Padre<br />

Nostro e alla terza preghiera che dicevo, quella<br />

all’Angelo custode, che non mi ricordo neppure<br />

più. E non mi ricordo neppure bene che<br />

cosa era associato a che cosa. Salvo che quando<br />

si parlava di pane quotidiano ero vicino al<br />

lavatoio che stava dietro l’entrata del gabbiotto<br />

dove c’era il motore del pozzo.<br />

Che col pane non c’entrava nulla. Neppure le<br />

altre parti c’entravano nulla, era solo un<br />

modo per fare il giro della casa sempre uguale<br />

mentre dicevo preghiere sempre eguali.


Ossessivo, ma rassicurante.<br />

BOMBE E PALLOTTOLE<br />

Insomma eravamo stati sbattuti là dalla gran<br />

risacca della guerra e tutto sommato ci trovavamo<br />

come su un’isola inquietantemente felice,<br />

nell’occhio del tifone, come leggevamo nei<br />

romanzi di Salgari, che rappresentavano una<br />

delle letture principali dei due o tre intellettualini<br />

della classe. Che discussero a lungo sul<br />

modo in cui si dovesse pronunciare la Y, deliberando<br />

poi che stava per una V. Cosicché lo<br />

yacht di Yanez suonava il Vact di Vanez.<br />

Attorno a noi la guerra si aggirava piuttosto<br />

all’orizzonte degli eventi.<br />

Ogni tanto là sulle montagne si sentiva il “tah<br />

pum!” del ’91. “Ecco il tapum” commentavano<br />

i ragazzetti più esperti con l’aria di chi sa<br />

tutto. O qualche raffichetta di Sten, che arrivava<br />

assai più attutita. Più di frequente arrivavano<br />

gli aerei. Quelli facevano paura, aveva<br />

un bel dire mio padre che quando erano<br />

sopra la testa il pericolo era già passato. In<br />

genere, venendo dalla Svizzera, sganciavano<br />

proprio all’altezza di casa nostra e la bomba<br />

esplodendo qualche centinaio di metri più in<br />

basso, faceva un frastuono tremendo.<br />

Quando suonava l’allarme tutti scappavamo<br />

in casa tirandoci dietro anche quelli che in<br />

quel momento passavano sulla strada li<br />

davanti. Mi ricordo che una volta c’era anche<br />

un signore alto di Arizzano o Cargiago, uno<br />

dei paesi più a monte, entrato nel corridoio<br />

tenendosi stretta la sua bicicletta e con il suo<br />

bel cappello in testa, che, mentre ci stringevamo<br />

tutti tremebondi nel retro della casa sotto<br />

le scale, incitava gli Alleati a bombardare e,<br />

quando finalmente si è sentito il botto gridava,<br />

cercando di indovinare da dove veniva,<br />

“l’ha centrata, l’ha centrata!”.<br />

Intendendosi la caserma della X Mas di Intra,<br />

che forse il pilota non sapeva neppure dove si<br />

trovasse, ma forse sì. In realtà si seppe poi<br />

che la bomba era andata a finire sul campo<br />

sportivo, ma il giorno dopo, quando come al<br />

solito stavo a spiare dalla siepe l’anabasi dei<br />

ciclisti, il signore col cappello, che ormai era<br />

entrato a far parte delle nostre conoscenze,<br />

passando gridava “l’hanno mancata di poco”<br />

e ci faceva vedere con le mani giostrando sul<br />

manubrio quanto vicino era andata la bomba<br />

all’obiettivo che lui le aveva assegnato.<br />

E poi c’era il Pippo, che capitava di solito a<br />

IL RACCONTO<br />

metà mattinata con il ronzio regolare dell’elica<br />

che a un certo punto aumentava di frequenza<br />

e tutti sapevamo che stava scendendo<br />

in picchiata su un bersaglio. Un paio di volte<br />

il Pippo è passato fragorosamente sopra la<br />

scuola senza che avessimo neppure il tempo<br />

di evacuare. Cosi tutti, scolaresca e maestre,<br />

stavano lì seduti e impietriti in attesa della<br />

esplosione finché il rumore non si allontanava.<br />

Ma il rumore più terrorizzante era quello<br />

sordo e notturno degli squadroni che a ondate<br />

andavano a bombardare Milano.<br />

Passavano per ore parecchio alti sopra di noi,<br />

ma erano tanti e il rombo faceva tremare i<br />

vetri della casa.<br />

Allora la zia veniva in camera dalla mamma e<br />

stavano a torcersi le mani e a consolarsi a<br />

vicenda, al lume delle abat-jours, perché un<br />

poco dopo il passaggio della prima ondata si<br />

cominciava a sentire il rumore delle bombe<br />

su Milano. Un brontolio sordo, proprio come<br />

si legge sui libri, lungo, insistente e senza<br />

sosta, che si accompagnava ai bagliori della<br />

contraerea che si intravedevano nella foschia<br />

verso la fine del lago, come un mostruoso<br />

budino di cioccolata che tremolava là nel<br />

fondo nella notte. Dentro al quale stavano gli<br />

uomini della casa, mio padre e lo zio Dodo,<br />

che lavoravano in città e che sicuramente in<br />

quel momento erano da qualche parte là<br />

sotto.<br />

Io affinavo e temperavo il mio udito al calor<br />

bianco del mio terrore, un terrore metafisico,<br />

non collegato a un pericolo immediato, perché<br />

avevo imparato che in quei casi pericolo<br />

per noi non c’era e forse non riuscivo neppure<br />

a concepire il pericolo per papà, che per me<br />

era una entità immortale che prima o poi<br />

rispuntava sempre dalla curva dello stradone.<br />

Ma c’erano il rumore, la tensione delle donne,<br />

i tremori della veglia notturna e tutte le altre<br />

paure collegate al buio fragoroso e minaccioso<br />

che ci circondava.<br />

Quanto a rumori di aerei, io ero l’esperto<br />

incontestato della maison. Si diceva in famiglia<br />

perché avevo le orecchie a sventola, che<br />

poi a guardar bene non era neppur vero, sta<br />

di fatto che io sentivo gli aerei in arrivo un<br />

buon cinque minuti prima degli altri. In realtà<br />

la spiegazione positivistica, o ingegneristica<br />

che dir si voglia, era del tutto sbagliata. La<br />

mia straordinaria capacità aerofona non<br />

dipendeva dalla superficie auricolare, ma era<br />

Lettera ai compagni<br />

17


IL RACCONTO<br />

direttamente proporzionale al terrore per i<br />

bombardamenti che aveva le sue radici dall’esperienza<br />

del primo attacco aereo dell’ottobre<br />

del ’42, subìto in una cantina di Piazza Diaz.<br />

Di giorno però, quando capitava, gli aerei si<br />

dovevano guardare bene perché poi a scuola<br />

seguivano lunghi dibattiti sullo spotting. Di<br />

aerei nostri non ce n’era praticamente più,<br />

ma una prova sicura che fossero americani<br />

era il loro scintillio. Tutti gli altri erano<br />

mimetizzati, color cachi od oliva a macchie,<br />

ma le fortezze volanti “Liberator” (gli americani<br />

erano già bravini con le parole) attraversavano<br />

il cielo scintillando con l’improntitudine<br />

di chi se ne sbatte nel modo più assoluto.<br />

Era un gran bel vedere, soprattutto quando<br />

passavano un po’ in là.<br />

E noi, i ragazzini del paese, ma certo anche gli<br />

adulti, stavamo lì con il naso in su, rapiti a<br />

vedere questi uccelli dai baluginai brillanti<br />

come un’arborella nello stagno. Così, appena<br />

i miei padiglioni auricolari fisici, potenziati<br />

dalla paura, mi segnalavano un aereo in avvicinamento,<br />

io correvo fuori sul terrazzino per<br />

fare il rilevamento. Spesso erano lontani, ma<br />

un giorno che il rumore veniva forte dal di<br />

dietro, ho fatto appena in tempo ad aprire il<br />

portoncino a vetro verso l’orto, che in mezzo<br />

18 Lettera ai compagni<br />

a un frastuono assordante sono spuntati gli<br />

spitfires, con quel movimento danzante con<br />

le ali che fanno mentre mitragliano e con le<br />

fiammelle dei cannoncini che ci avresti potuto<br />

accendere il fuoco. Ma la visione non è<br />

durata molto perché mia madre urlando,<br />

immemore delle affermazioni paterne che di<br />

pericolo non ce n’era, mi risucchiò in casa,<br />

così che non ho mai più capito se la visione<br />

fosse stata così fulminea perché gli aerei<br />

erano passati in un batter d’occhio sopra gli<br />

alberi delle pere limoncine, oppure se mia<br />

madre era stata più rapida di loro a tirarmi<br />

dentro per il colletto della maglietta.<br />

Effettivamente per noi il pericolo era passato,<br />

ma non per altri, perché quello fu il famoso<br />

mitragliamento del San Giorgio, il traghetto<br />

Laveno-Intra colpito in mezzo al lago che,<br />

senza più comandante, chi ha preso il timone<br />

ha portato istintivamente in acque alte invece<br />

che farlo incagliare sulla spiaggia bassa<br />

davanti a Villa Taranto e così le sessanta persone<br />

sono ancora, là sul fondo del lago,<br />

davanti alla villa dello zio, che lì è profondo<br />

davvero. Per tutta la vita sono stato perseguitato<br />

da quello sbaglio, domandandomi se l’avrei<br />

fatto anche io nella concitazione di un<br />

dilettante marinaio che rifiuta istintivamente


di portare la barca su un basso fondo. Ma<br />

adesso, se mi capitasse, saprei come fare.<br />

E comunque quel giorno non sapevo niente,<br />

ma pensavo solo ai miei spitfires, ai cannoncini,<br />

ai bossoli e alle maglie brunite della bandoliera<br />

dei cannoncini che erano in effetti<br />

cadute in quantità nel mio giardino e nei dintorni,<br />

subito oggetto di una raccolta affannosa<br />

ed efficacissima dei ragazzini balzati fuori<br />

dalle case.<br />

I PARTIGIANI<br />

Che in paese tutti fossero con i partigiani,<br />

salvo i pochi borghesi sfollati, e le pochissime<br />

famiglie impegnate con la Repubblica di Salò,<br />

lo si capiva benissimo perché trai miei compagni<br />

di scuola ero l’unico che, ripetendo le<br />

cose che sentivo in casa, prendevo talvolta le<br />

parti dei fascisti. E un giorno che eravamo<br />

tutti sulla prua del giardino con i miei compagni,<br />

mia madre mi chiamò in casa e mi<br />

disse bruscamente di non usare quegli argomenti.<br />

Ma i partigiani rimanevano soprattutto<br />

una entità mitica che si muoveva nella<br />

notte. Un giorno si sparse la voce che c’era in<br />

giro Moscatelli. Furono chiuse tutte le persiane<br />

e ci mettemmo alla spia.<br />

Allora dallo stradone deserto reso più bianco<br />

dalla tensione, come nelle pellicole neorealiste,<br />

vedemmo salire un drappello di quattro o<br />

cinque uomini mezzovestiti da militari, forse<br />

uno era senza un braccio, con il mitra di traverso.<br />

Si sono fermati a dare un’occhiata in<br />

giro al crocevia della Campagna e poi sono<br />

scomparsi di nuovo nei sentieri verso la montagna<br />

dalle parti San Giorgio.<br />

Una sera, mentre eravamo nel soggiorno, che<br />

veniva chiamato tinello, bussano alla porta.<br />

Rapidamente il papà e lo zio vanno ad aprire,<br />

mentre si diffonde il clima delle emergenze e<br />

si chiude ritualmente la porta tra il soggiorno<br />

e l’anticamera.<br />

Non tanto rapidamente però perché non si<br />

faccia in tempo a intravedere qualcuno che<br />

entra con un mitra in mano a canna in giù. I<br />

partigiani!<br />

Si sente confabulare e poi qualcuno sale al<br />

piano di sopra mentre chi è rimasto scambia<br />

rade parole con i visitatori piazzati mezzo<br />

dentro e mezzo fuori sulla porta. Finalmente<br />

chi è salito scende e dopo un altro breve<br />

scambio gli ospiti se ne vanno mentre gli<br />

uomini di casa chiudono la porta di ingresso<br />

IL RACCONTO<br />

e riaprono quella della cittadella, rientrando<br />

in salotto con l’aria soddisfatta. La tensione<br />

esplode in una serie di domande confuse.<br />

Cosa volevano. Chi erano.<br />

Gli uomini spiegano che erano tre partigiani e<br />

che avevano chiesto “molto educatamente”<br />

dei vestiti. Al che lo zio era salito per prendere<br />

una giacca a vento, dei golf e delle calze e<br />

guanti di lana. Non credo che abbiano lesinato<br />

nel dare, il sollievo di essersela cavata a<br />

buon prezzo era tale che delle cose date, che<br />

pure non erano abbondanti neppure per noi,<br />

quasi non si è parlato. Ma volevano dei soldi?<br />

Pare di no, non li hanno chiesti.<br />

Il punto è stato dibattuto a lungo nel solito<br />

timore borghese di essersi inimicati una qualche<br />

divinità e di aver fatto brutta figura.<br />

“Dovevi dargli qualcosa.” Ma la conclusione<br />

fu che i soldi non servivano.<br />

E poi non avevano intenzioni aggressive; mio<br />

padre, che era stato in guerra, ripeteva con<br />

soddisfazione di essersene accorto subito perchè<br />

non avevano il caricatore innestato.<br />

Li conoscevo bene questi caricatori del<br />

Beretta adattato o dello Sten, 9 mm corto<br />

parabellum. Una scatoletta rettangolare di<br />

lamierino nero di un paio di centimetri per<br />

uno, alto un venti centimetri con una molla in<br />

fondo che si poteva togliere sfilando a slitta il<br />

fondalino di lamiera.<br />

La molla terminava con un soppalchino di<br />

alluminio sagomato tondeggiante a due piani<br />

che, a caricatore vuoto, si bloccava su due ricciolini<br />

della lamiera del caricatore. Le pallottole<br />

si infilavano facilmente dall’alto a una a<br />

una premendo in basso la molla e facendole<br />

poi scivolare dentro in due file parallele sfalsate<br />

di mezza pallottola.<br />

Questo marchingegno spingeva su una pallottola<br />

alla volta verso la camera da sparo del<br />

mitra che poi buttava fuori il bossolo da<br />

un’altra parte.<br />

Noi, dico noi bambini e bambine piccolissimi,<br />

passavamo ore a riempire un caricatore e a<br />

svuotarlo, o togliendo la slittina del fondo o<br />

spingendo fuori le pallottole a una a una dall’alto<br />

con il pollice. Un marchingegno di una<br />

semplicità ipnotizzante, mi domando quanto<br />

spesso si inceppasse quando lavorava davvero.<br />

Vuoto non pesava nulla, ma con le due file<br />

di una ventina di pallottole aveva una consistenza<br />

rassicurante.<br />

Di pallottole di mitra ce n’erano tante che non<br />

Lettera ai compagni<br />

19


IL RACCONTO<br />

mi ricordo che fosse mai un problema riempire<br />

un paio di caricatori che venivano poi<br />

ostentati alla cintura nella repubblica dei<br />

bambini.<br />

IL PARTIGIANO MANZONI<br />

Chi aveva condotto le trattative era un certo<br />

Manzoni, quello dei tre entrato in casa e che,<br />

forse, mi era sembrato di capire, aveva anche<br />

tenuto a bada pretese più spinte di qualcuno<br />

che era rimasto minaccioso nel buio brontolando.<br />

Ma in ogni caso, un po’ per la paura<br />

passata un po’ per genuina simpatia, la serata<br />

finì con la generale soddisfazione di aver stabilito<br />

un contatto con qualcuna delle divinità<br />

minori che si aggiravano nel buio della notte<br />

fuori dai confini del compound e che si manifestavano<br />

spesso con spari secchi, tonfi di<br />

bombe lontane, sbrillii di mitraglia e cattivi<br />

ronzii di pallottole.<br />

Da quella sera il partigiano Manzoni fu adottato<br />

dalla famiglia e probabilmente ritornò<br />

altre volte, non so se a chiedere soldi, ma non<br />

credo. A poco a poco la sua figura emergeva<br />

dall’ombra, anche perché era uno abbastanza<br />

conosciuto in paese e le sue gesta venivano<br />

amplificate enormemente nei racconti degli<br />

scolari. Una volta fummo presi in mezzo a<br />

una scaramuccia proprio all’uscita della scuola<br />

e ci gettammo tutti a ridosso di un muro<br />

dove stavano già accovacciati un gruppetto di<br />

partigiani, compreso il Manzoni che ci strizzava<br />

l’occhio sopra la spalla per rassicurarci.<br />

Me lo ricordo bene con i pantaloni tesi che<br />

aspettava l’occasione per saltare via.<br />

Non mi ricordo però, perché a un certo punto<br />

cominciarono a sparare i mortai e a me le<br />

bombe facevano una paura dannata, di aver<br />

visto la scheggia che, secondo la testimonianza<br />

unanime, ma un po’ sospetta, della classe,<br />

aveva segato i pantaloni del Manzoni giusto<br />

lungo la fessa. Ma la leggenda si consolidò,<br />

attraverso i racconti ripetuti ed entusiasti di<br />

chi come me non solo c’era, ma era anche<br />

riuscito a vedere l’evento miracoloso prima<br />

che, allontanandosi i tiri, tutti scappassero<br />

dalle loro parti come lepri.<br />

Comunque, il “Partigiano Manzoni” era<br />

diventato un nume tutelare della casa e quando,<br />

dopo un primo non riuscito assalto qualche<br />

settimana prima della Liberazione, la<br />

colonna dei partigiani si ritirava risalendo<br />

verso Premeno, noi eravamo tutti sul terraz-<br />

20 Lettera ai compagni<br />

zino del primo piano a guardare lo stradone e<br />

a un certo punto il Partigiano Manzoni ci ha<br />

visto e ci ha salutato, consolidando definitivamente<br />

il tutelage con il farci vedere a grandi<br />

gesti la giacca a vento dello zio con dentro<br />

qualche foro di pallottola o forse solo strappi.<br />

E ci gridava tutto allegro, “adesso ci ritiriamo,<br />

ma torneremo presto”.<br />

Nella mia memoria la Liberazione coincide<br />

con l’immagine anticipatoria della colonna<br />

del Partigiano Manzoni che si ritirava in allegria.<br />

Del giorno preciso del 25 Aprile non ho<br />

altri ricordi, salvo che eravamo tutti in strada<br />

e io ho visto che sull’erba del Prato Comune<br />

era caduta una spolverata di neve.


25 APRILE: LA SVOLTA<br />

DI SILVIO BERLUSCONI<br />

Il Presidente del Consiglio Silvio<br />

Berlusconi, il 25 aprile, dopo 14<br />

anni nei quali non ha mai voluto<br />

partecipare alle celebrazioni<br />

ufficiali, si è recato all’altare<br />

della Patria con il presidente della<br />

Repubblica Napoletano, ma ha scelto<br />

Onna, il paesino distrutto dal terremoto<br />

nel capoluogo abruzzese, per pronunciare<br />

il suo discorso.<br />

La scelta di Onna non è stata casuale. Ma ha<br />

avuto un doppio significato: fare sentire sua<br />

la vicinanza al paese duramente colpito dal<br />

sisma e commemorare le vittime di una feroce<br />

rappresaglia dei nazisti che avevano fucilato<br />

proprio nella piazza di Onna 17 cittadine<br />

inermi.<br />

Contrariamente a quanto sostenuto negli<br />

anni precedenti, nel suo discorso, il<br />

Presidente del Consiglio ha riconosciuto i<br />

valori della resistenza come fondamento della<br />

ritrovata libertà e come base della nostra<br />

costituzione.<br />

Non so se queste dichiarazioni corrispondano<br />

ad un interno sentire o se si tratti di un puro<br />

calcolo elettorale. Vogliamo provare a fidarci.<br />

Dopo queste dichiarazioni, il capo del maggior<br />

partito di opposizione, ha chiesto al<br />

Presidente del Consiglio di essere coerente<br />

con quanto dichiarato ritirarando la proposta<br />

di legge 1360 che propone l’istituzione<br />

dell’Ordine del Tricolore, legge che pretende<br />

di che conferire un riconoscimento a tutti i<br />

combattenti della guerra 41/45 compresi i<br />

partigiani e le truppe della repubblica sociale<br />

di Salò. Proposta aberrante perché non si<br />

può, come più volte affermato sulla nostra<br />

rivista, mettere insieme in un unico ordine<br />

cavalleresco torturati e torturatori, perseguitati<br />

e persecutori.<br />

Il Presidente del Consiglio Berlusconi, il giorno<br />

successivo nel corso della sua visita al<br />

LA NOTA<br />

di Mario ANIASI<br />

Salone del mobile di Milano, ha dichiarato<br />

che la proposta di legge che di fatto creava<br />

una equiparazione fra partigiani e repubblichini<br />

sarà ritirata, affermando inoltre, forse<br />

come giustificazione tardiva, che non era a<br />

conoscenza della presentazione di tale proposta.<br />

Ci sembra molto strana questa dichiarazione<br />

in quanto dell’iniziativa, e delle polemiche<br />

che ne erano seguite, avevano dettagliatamente<br />

parlato tutti i giornali e tutte le televisioni.<br />

Ma, come ho detto in precedenza, dobbiamo<br />

fidarci.<br />

Non so, però, come si possa in un regime<br />

democratico parlamentare ritirare un progetto<br />

di legge già presentato.<br />

Ma ammesso che ciò sia possibile, a nostro<br />

parere, è errato sia chiedere al Presidente del<br />

Consiglio, che non è un dittatore, di ritirare il<br />

progetto di legge di cui sopra, sia da parte<br />

dello stesso dichiararne il ritiro.<br />

Avremmo di gran lunga preferito che il progetto<br />

di legge fosse sottoposto all’esame del<br />

Parlamento e votato a scrutinio segreto.<br />

Avremmo finalmente saputo quanti sono,<br />

anche se non quali, nel nostro parlamento i<br />

sostenitori della dittatura fascista.<br />

Comunque, già i primi dissensi sul ritiro del<br />

progetto di legge incominciano a manifestarsi,<br />

primo fra tutti quello di Pino Rauti, suocero<br />

del sindaco di Roma Alemanno.<br />

Non vogliamo, però, tornare sui pro e i contro<br />

del progetto di legge 1360. Ci basta, per confermare<br />

la nostra avversione alla proposta di<br />

legge, citare qui il giuramento delle SS italiane<br />

della Rsi:<br />

“Davanti a Dio presto questo giuramento: che<br />

nella lotta per la mia Patria Italiana contro i<br />

suoi nemici, sarò in maniera assolutamente<br />

obbediente ad Adolf Hitler, comandante<br />

dell’Esercito Tedesco e quale valoroso soldato<br />

sarò pronto in ogni momento a dare la vita<br />

per questo giuramento”.<br />

Lettera ai compagni<br />

21


L’evoluzione della sicurezza.<br />

www.civis.it<br />

Milano Novara Treviso Rovigo Padova Verona Venezia Vicenza


INTERESSANTE TESTIMONIANZA DI RICCARDO ZERBA RACCOLTA<br />

DA LUCA BESANA<br />

IL PARTIGIANO DI VILLA CORTESE<br />

Il libro fa parte di una collana realizzata per iniziativa<br />

dell’amministrazione comunale e ha lo scopo, come dice<br />

il sindaco Alborghetti, di sottolineare il contributo dato,<br />

durante la Resistenza, da questo piccolo centro<br />

“alla costruzione della nuova Italia”<br />

Il Comune di Villa Cortese, un<br />

piccolo centro non molto distante<br />

da Milano, ha ricordato in<br />

modo singolare la ricorrenza del<br />

25 Aprile con una serie di manifestazioni<br />

culminate nella presentazione<br />

del libro “Il Partigiano”, una testimonianza<br />

del combattente Riccardo<br />

Zerba raccolta da Luca Besana, che -<br />

fra l’altro - è anche assessore di questa<br />

amministrazione. Il volume è stato<br />

presentato dal direttore di “Lettera ai<br />

Compagni”, Gino Morrone.<br />

La serata si è conclusa con la proiezione di<br />

alcune foto che corredano il libro di Zerba e la<br />

lettura di brani del racconto da parte di<br />

ragazzi di Villa Cortese e con il gradevole sottofondo<br />

musicale di un gruppo locale. Una<br />

bella serata, che ha richiamato un folto pubblico.<br />

Il sindaco dottor Giovanni Alborghetti<br />

ha sottolineato che, con il libro di Zerba, edito<br />

a cura dell’amministrazione comunale,<br />

“anche da Villa Cortese, anche dalla<br />

Curtascia, si è dato un piccolo contributo alla<br />

costruzione della nostra nuova Italia”.<br />

Pubblichiamo uno dei capitoli più significativi<br />

de “Il Partigiano”.<br />

LE AZIONI E GLI SCONTRI ARMATI<br />

Eravamo già in marzo.<br />

Il tempo in montagna passava inesorabile e la<br />

guerra proseguiva con i suoi vinti, vincitori ed<br />

eroi.<br />

Erano giorni tranquilli, si stava avvicinando<br />

la Pasqua, anche la temperatura invernale si<br />

stava chetando e la neve pian piano lasciava<br />

far capolino al verde dell’erba sottostante.<br />

Alla mattina del Sabato Santo la nostra staffetta<br />

ci avvisò che un gruppo di fascisti si<br />

RESISTENZA<br />

stava preparando a risalire la montagna per<br />

effettuare un rastrellamento; per tutto il giorno<br />

e la notte le due sentinelle si appostarono<br />

all’imbocco dei due sentieri che riportavano a<br />

Miazzina, pronte a dare l’allarme in caso di<br />

pericolo.<br />

La mattina successiva, quindi il giorno di<br />

Lettera ai compagni<br />

23


RESISTENZA<br />

L’AUTORE DEL LIBRO “ZERBA” (PRIMO A SINISTRA) E L’EX STAFFETTA VILMA LOSCHI<br />

Pasqua, verso le undici, sentimmo alcuni<br />

spari, le due sentinelle vennero di corsa al<br />

rifugio gridando: “Arrivano i fascisti!”.<br />

Dovemmo interrompere il frugale pasto mentre<br />

Chiovini ci ordinava di prendere le armi e<br />

di tenerci pronti a rispondere al fuoco, in caso<br />

di attacco.<br />

Il gruppo era composto da una decina di<br />

unità, li sentimmo avvicinarsi perché urlavano<br />

e cantavano, ogni tanto sparavano in aria<br />

qualche colpo; appena furono sotto tiro,<br />

24 Lettera ai compagni<br />

Chiovini intimò loro di non avanzare oltre,<br />

ma quelli cominciarono a caricare le armi e a<br />

sparare.<br />

Si sentì un rumore di caricatori e poi una violenta<br />

raffica di colpi che arrivavano da ogni<br />

parte, lo scontro durò una decina di minuti<br />

circa, finché ad un tratto si levò in aria un<br />

urlo lancinante di dolore e vidi un “nero”<br />

accasciarsi a terra.<br />

Era stato colpito, alcuni suoi compagni lo raggiunsero<br />

per soccorrerlo, ma non ci fu nulla<br />

da fare; uno di loro ordinò la ritirata e così<br />

fuggirono.<br />

Pochi minuti dopo la situazione rientrò nella<br />

normalità e la calma della montagna ritornò a<br />

regnare. Una sera, dopo aver cenato, mentre<br />

eravamo all’aperto, sotto un bel cielo stellato,<br />

a ridere e a scherzare, sentimmo la voce di<br />

Peppo: “Entrate!”.<br />

Entrammo nel salone e vedemmo Peppo con<br />

le mani dietro la schiena, davanti alla stufa,<br />

impassibile.<br />

All’improvviso si girò verso di noi e ci disse:<br />

“Ragazzi c’è un’azione importante da fare.<br />

Non è semplice, ci va soltanto chi se la<br />

sente!”.<br />

Non avevo mai visto Chiovini così serio e<br />

preoccupato.<br />

Tra di noi ci fu una serie di sguardi, tutti fra il<br />

perplesso e la paura per le parole del comandante.<br />

Vidi che per primi si fecero avanti<br />

Sozzi e Brighel, “Ci siamo!” risposero, poi alzò<br />

la mano Tucci: “Anch’io ci sono!” fu poi la<br />

volta di Ugo Pini e infine Benvenuto, così era<br />

il suo nome di battaglia. Chiovini fece un giro<br />

di sguardi, in attesa che qualcun altro partecipasse.<br />

I miei compagni senza sapere di cosa si trattasse<br />

non avevano indugiato, così spinto dal<br />

quello spirito, mi risolsi ad alzare la mano:<br />

“Presente!” dissi<br />

e guardando gli altri ci scambiammo uno<br />

sguardo d’intesa, quasi si aspettassero la mia<br />

presenza. Sedemmo intorno al tavolo e<br />

Chiovini iniziò a spiegarci la faccenda: “Si<br />

tratta di andare a Premevo e assalire la caserma<br />

dei carabinieri!”.<br />

Ci fu un attimo di silenzio. Fino ad ora le azioni<br />

compiute si limitavano all’assalto di semplici<br />

posti di blocco, prendere un’intera caserma<br />

non era per niente facile.<br />

Poi Peppo riprese: “Girano voci di un possibile<br />

rastrellamento da parte di fascisti, non si sa


quando, perciò dobbiamo recuperare tutte le<br />

armi che troviamo e farlo alla svelta, perché<br />

quelli non vedono l’ora di fucilarci”.<br />

Da subito ci accorgemmo che la situazione<br />

era delicata, noi non eravamo dei militari<br />

preparati a compiere certe azioni, eravamo<br />

ragazzi che a malapena sapevano tenere in<br />

mano un fucile, certo il coraggio non ci mancava,<br />

ma purtroppo non sarebbe bastato solo<br />

quello per mettere in scacco una caserma.<br />

Passammo l’intera sera a studiare il piano di<br />

attacco. Dopo aver speso molte parole e confrontato<br />

molte idee, Tucci disse: “Ragazzi,<br />

meglio andare a letto e riposare, altrimenti<br />

quelli domani ci fanno secchi ancora prima di<br />

arrivare”.<br />

Non passai una bella notte; mi svegliai in continuazione,<br />

agitato da oscuri pensieri e sogni.<br />

La mattina, quando ancora non si scorgeva la<br />

luce del sole, Sozzi mi svegliò dicendomi: “È<br />

ora. Bisogna andare”. Indossai i pantaloni e il<br />

maglione, presi un fucile, misi in tasca un<br />

pezzo di pane e partimmo alla volta di<br />

Premevo.<br />

Arrivati in paese facemmo un giro di perlustrazione,<br />

assicurandoci che non ci fossero<br />

dei “neri”, così Peppo disse al Tucci: “Tu<br />

rimani qui per vedere se arriva qualcuno”. Il<br />

campanile batté le dodici.<br />

Ci recammo alla caserma dei carabinieri che<br />

si trovava appena fuori dal paese. Per nostra<br />

fortuna non c’erano sentinelle appostate all’esterno,<br />

per cui ci avvicinammo di soppiatto<br />

senza farci vedere ed entrammo; Brighel aprì<br />

la porta dello stanzino e Chiovini gridò:<br />

“Alzate le mani! Siete circondati!”.<br />

Vennero presi di sorpresa, non avendo sentito<br />

alcun rumore, si misero ad urlare ed a pregare<br />

di non far loro del male: si trovarono<br />

tutto d’un tratto cinque fucili puntati addosso<br />

e così si arresero all’istante.<br />

Ci consegnarono tutte le armi che avevano, 14<br />

moschetti, lo bombe a mano e 4 o 5 pistole:<br />

“Ce ne hanno di roba questi venduti!” disse<br />

Pini, mentre sequestrava il bottino.<br />

Usciti dalla caserma, galvanizzati dalla riuscita<br />

dell’azione, ci abbracciammo tutti insieme<br />

e Peppo ci fece i complimenti per il nostro<br />

coraggio.<br />

In effetti avevamo compiuto un’azione degna<br />

di militari esperti, pur non avendo né dimestichezza<br />

né esperienza in questo campo.<br />

La felicità in un baleno venne spazzata via da<br />

RESISTENZA<br />

un vento di terrore; ad un tratto, mentre stavamo<br />

andando verso la piazza a recuperare<br />

Tucci, un paesano ci corse incontro tutto spaventato<br />

e ci disse: “Andate via! In piazza ci<br />

sono i fascisti! Hanno preso un partigiano!”.<br />

Immediatamente ci guardammo tutti negli<br />

occhi ed in coro esclamammo: “Tucci!”.<br />

Ci fu un attimo di gelo, non eravamo pronti<br />

ad un attacco del genere, soprattutto non<br />

sapevamo quanti nemici avevamo davanti, lo<br />

sgomento iniziò ad assalirci e sapevamo bene<br />

quanto il terrore può far commettere degli<br />

errori. Chiovini ordinò agli altri di cominciare<br />

a salire verso il rifugio: “State attenti a non<br />

farvi beccare”, poi guardandomi mi disse:<br />

Francesco vieni con me”.<br />

Il paesano ci riferì che i fascisti erano andati<br />

verso la stazione ferroviaria e così corremmo<br />

alla svelta verso tale luogo, con la speranza di<br />

salvare il nostro compagno, ci rincuorò il<br />

fatto di non aver sentito nessuno sparo.<br />

Incominciai ad avere paura.<br />

Raggiungemmo la stazione e ci nascondemmo<br />

dietro un terrapieno, poco distante dall’ingresso,<br />

una posizione favorevole in caso di<br />

scontro armato, in quanto eravamo ben riparati,<br />

ma soprattutto avevamo una buona<br />

visuale.<br />

Dalla stazione non uscì nessuno per circa una<br />

decina di minuti, avevamo il timore che avessero<br />

preso il primo treno per Milano o per<br />

qualche carcere vicino.<br />

Quando ormai avevamo perso ogni speranza,<br />

ad un tratto la porta si aprì ed uscirono i due<br />

“neri”, vedemmo che in mezzo a loro c’era<br />

Tucci, con un braccio lo tenevano stretto, nell’altra<br />

mano impugnavano la pistola, minacciandolo<br />

se avesse continuato a dimenarsi.<br />

I due venivano proprio verso di noi, senza<br />

accorgersi della nostra presenza, continuamente<br />

insultavano Tucci con ogni tipo di volgarità;<br />

Peppo mi disse: “Tieniti pronto! Al<br />

mio segnale facciamo fuoco!”.<br />

I due si avvicinarono sempre di più, ormai<br />

erano a pochi metri di distanza, feci appena<br />

in tempo a togliere la sicura dal mitra, che<br />

Peppo disse: “Via.!”.<br />

Ci alzammo e iniziammo a sparare a più non<br />

posso contro i due “neri” che subito arretrarono,<br />

coprendosi il viso con le mani e di corsa<br />

cercarono di rientrare nella stazione, ma la<br />

nostra raffica li raggiunse lasciandoli a terra.<br />

Tucci al momento cadde in terra, cercò di<br />

Lettera ai compagni<br />

25


RESISTENZA<br />

ripararsi con le mani vedendo poi i suoi aguzzini<br />

scappare, venne verso di noi e si gettò<br />

dietro il terrapieno.<br />

Lo abbracciammo, era sudato e non riusciva a<br />

parlare per lo spavento preso, gli scesero<br />

anche due lacrime di gioia.<br />

Peppo notò che perdeva sangue da un braccio,<br />

un colpo lo aveva sfiorato, provocando<br />

una ferita. “Cerca di tenere ben premuto!<br />

Adesso andiamo in ospedale così ti medicano”<br />

disse Chiovini.<br />

Chiovini accompagnò Tucci all’ospedale,<br />

mentre io presi il solito sentiero che riportava<br />

a Pian Cavallone.<br />

Da quel giorno non lo rividi più. Solo 40 anni<br />

dopo, mentre mi trovavo a Daverio a trovare<br />

degli amici, lo rividi. Fu una grande emozione<br />

e mi commossi appena ci stringemmo nuovamente<br />

la mano dopo tutto quel tempo.<br />

In aprile ci fu un lancio di indumenti.<br />

Quel giorno eravamo tutti in uno stato di<br />

calma, c’era chi giocava a carte, chi puliva il<br />

suo fucile, chi scriveva qualche parola d’amore<br />

per la sua amata o per i genitori, che ormai<br />

non vedevamo da parecchi mesi.<br />

Ad un tratto si sentì un rumore fortissimo,<br />

ognuno di noi lasciò immediatamente la sua<br />

26 Lettera ai compagni<br />

occupazione, rientrammo nell’albergo a prendere<br />

le armi pronti ad entrare in azione.<br />

Volgemmo lo sguardo verso il cielo e vedemmo<br />

che si trattava di un aereo e notammo che<br />

da esso venivano lanciati dei fagottini ad una<br />

velocità incredibile, subito pensammo ad un<br />

bombardamento, ma immediatamente ci<br />

accorgemmo che ci sbagliavamo.<br />

Erano dei fagottini che contenevano indumenti,<br />

alimentari qualche medicinale, così di<br />

corsa iniziammo il recupero.<br />

Una volta fatta la scorta per l’intera brigata,<br />

Chiovini mi disse di recarmi a Ponte Casletto<br />

per portare le scorte anche alle altre Brigate,<br />

in particolare quella guidata dal comandante<br />

Dionigi Superti.<br />

Allora presi alcuni fagotti, li legai sulle spalle<br />

e cominciai il cammino verso il luogo stabilito;<br />

trovai il distaccamento della Brigata e<br />

incontrai con mia grande sorpresa un mio<br />

concittadino, Arnaldo Rabbolini, detto ingegner<br />

Carlini; mentre gli consegnavo il fagotto<br />

d’indumenti, mi raccontò di essere scappato<br />

da Villa Cortese a causa delle persecuzioni dei<br />

fascisti.<br />

Dopo averlo abbracciato, gli augurai buona<br />

fortuna e ritornai al mio rifugio.


ALLA PRESENTAZIONE DEL FUTURO MUSEO IN MEMORIA DELLA SHOAH<br />

ORA ALEMANNO AMMETTE:<br />

FASCISMO DISUMANO<br />

PROVO DOLORE E RIPUGNANZA<br />

Le leggi razziali furono aberranti e coinvolsero<br />

il regime di Mussolini e il nazismo<br />

Il sindaco di Roma Gianni<br />

Alemanno non finisce mai di stupire.<br />

Dopo essere entrato in<br />

rotta di collisione con il suo leader,<br />

Gianfranco Fini, che definì<br />

il fascismo male assoluto (concetto<br />

peraltro ribadito in più occasioni<br />

anche di recente), ora ammette: il<br />

fascismo fu disumano, provo dolore e<br />

ripugnanza.<br />

Alemanno ha scelto, per questa clamorosa<br />

retromarcia, la presentazione del nascituro<br />

Museo in memoria dell’Olocausto a Roma.<br />

Con questa sortita il primo cittadino di Roma<br />

spera di chiudere l’incidente di qualche<br />

tempo fa a Gerusalemme esplicitando la sua<br />

“ripugnanza per la condotta disumana del<br />

fascismo” nei confronti degli ebrei.<br />

A Gerusalemme Alemanno, che ha sempre<br />

vantato le sue origini missine, in occasione<br />

della prima visita da sindaco, aveva preso in<br />

parte le distanze da Gianfranco Fini, sostenendo<br />

che il fascismo non è stato “un male<br />

assoluto”, ma piuttosto “un fenomeno complesso:<br />

molti vi aderirono in buona fede”.<br />

Male assoluto sono state semmai “le leggi razziali,<br />

che furono un cedimento al nazismo”.<br />

ATTUALITÀ<br />

Una puntualizzazione che aveva suscitato<br />

non poche polemiche da parte della comunità<br />

ebraica. Per quelle dichiarazioni Walter<br />

Veltroni si era dimesso dal comitato per il<br />

museo della Shoah mentre il presidente della<br />

Camera Fini non aveva nascosto il suo imbarazzo.<br />

Alemanno adesso si dice convinto che “la<br />

Shoah è stato senza dubbio uno degli eventi<br />

più tragici e aberranti che il genere umano<br />

abbia conosciuto: i regimi coinvolti meritano<br />

perennemente la massima condanna possibile”.<br />

Condanna piena insomma, “da italiano”,<br />

per le leggi razziali in quanto “imposte dal<br />

regime fascista”. A novembre, nel primo viaggio<br />

con gli studenti ad Auschwitz che riprendeva<br />

la tradizione avviata dal predecessore<br />

Veltroni, il sindaco aveva rilanciato l’equazione<br />

“fascismo come il nazismo”, ammettendo<br />

di aver compiuto “gravi errori comunicativi”.<br />

Ce n’è abbastanza per dire che si tratta di un<br />

Alemanno assolutamente inedito, completamente<br />

“convertito”. Ma è proprio così?<br />

Qualche dubbio lo avanza proprio Walter<br />

Veltroni, il quale partecipando alla stessa<br />

cerimonia del futuro Museo della Shoah,<br />

ammonisce: “Quando sento dire (il riferimento<br />

è al Presidente del Consiglio Silvio<br />

Berlusconi): noi non vogliamo una società<br />

multietnica, mi chiedo che cosa voglia dire.<br />

Alla base di ciò che è accaduto, la persecuzione<br />

degli ebrei, c’era la volontà di avere un’unica<br />

etnia che veniva definita razza.<br />

Questo è stato l’inizio della fine”. E il rabbino<br />

capo di Roma Riccardo Di Segni aggiunge:<br />

“prima della Shoah c’era una nave piena di<br />

ebrei, la Saint Louis, partita da Amburgo, che<br />

nessuno aiutò. Oggi navi simili non si aggirano<br />

più per l’Atlantico ma stanno a poche<br />

miglia dalle nostre coste”.<br />

Lettera ai compagni<br />

27


IL “BOMBAROLO”<br />

IN UN’ INTERVISTA A TUTTO CAMPO DELL’UTRI CONTINUA A SPARARLE GROSSE<br />

“I SALOINI? ERANO<br />

PARTIGIANI DI DESTRA”<br />

E ancora: Mussolini fu un dittatore buono e le leggi razziali<br />

in fondo erano blande - Attacco alla Rai: “è tutta in mano<br />

alla sinistra, bisognerebbe occuparla”<br />

Mentre il Presidente della<br />

Camera Gianfranco Fini,<br />

con apprezzabile onestà<br />

intellettuale, continua a<br />

prendere le distanze da<br />

Mussolini e dal fascismo, c’è un esponente<br />

del centrodestra, Marcello<br />

Dell’Utri, che non perde occasione per<br />

spararle grosse a vanto e gloria di quel<br />

regime che costo milioni e milioni di<br />

morti all’Europa. Stavolta il bibliofilo<br />

della destra si cimenta su un argomento<br />

sul quale la storia ha dato la sua sentenza<br />

definitiva: i ragazzi di Salò e le leggi<br />

razziali.<br />

Sapete cosa dice Dell’Utri? “I militi della Rsi<br />

erano dei partigiani di destra, Mussolini era un<br />

dittatore troppo buono e le leggi razziali in<br />

Italia erano in fondo “blande”.<br />

Quanto ad amenità, il senatore siciliano non<br />

finisce proprio di stupire. In un’intervista a<br />

tutto campo a Klaus Davi per il programma<br />

“Klauscondicio”, lo stesso nel quale un anno fa,<br />

alla vigilia delle elezioni politiche, aveva definito<br />

Vittorio Mangano, stalliere di Arcore, un<br />

“eroe”, il braccio destro di Silvio Berlusconi<br />

attacca la Rai, “che è di sinistra”, parla delle<br />

nomine dei vertici sostenendo che bisognerebbe<br />

addirittura occupare la sede di Saxa Rubra.<br />

“Perché no? - aggiunge - Ma naturalmente speriamo<br />

di non doverla occupare. E in mano alla<br />

sinistra, non so come stia in piedi, un’altra<br />

azienda sarebbe fallita”.<br />

Difende, naturalmente il suo capo (Silvio<br />

Berlusconi), intervenendo anche nelle polemiche<br />

e nei veleni di questi giorni per affermare<br />

con sicurezza: “Le veline laureate e preparate<br />

politicamente sono di gran lunga più apprezzabili<br />

di alcune tele-giornaliste, che non conoscono<br />

l’italiano”.<br />

Tornando al fascismo, Dell’Utri prosegue:<br />

“Mussolini ha perso la guerra perché era troppo<br />

buono. Non era affatto un dittatore spietato e<br />

28 Lettera ai compagni<br />

sanguinario come Stalin”.<br />

Dell’Utri sostiene di aver letto e riletto i diari<br />

del Duce ricavandone l’idea che “Mussolini era<br />

straordinario, di grande cultura”. E non è stata<br />

affatto colpa sua se “il fascismo è stato un<br />

orrendo regime”. Secondo Dell’Utri, anche l’alleanza<br />

con Hitler non fu una scelta del duce. E<br />

questo, dice Dell’Utri (che ricordiamo, è ancora<br />

sotto accusa per concorso esterno in un processo<br />

per mafia) non per “fare dell’apologia del<br />

fascismo”. E secondo lui va ridimensionata<br />

anche la persecuzione degli ebrei in Italia : “nei<br />

suoi diari, Mussolini scrive che le leggi razziali<br />

devono essere blande”. E i ragazzi di Salò, sottolinea:<br />

“In fondo erano al 100% partigiani di<br />

destra, credevano in alcuni valori”. Parole che<br />

fanno a pugni con quelle spese più volte e a più<br />

riprese da Fini sulla Resistenza e sul fascismo<br />

nonché con quelle di Silvio Berlusconi che, celebrando<br />

il 25 Aprile, ha ricordato l’eroismo dei<br />

partigiani grazie ai quali l’Italia fu liberata,<br />

sostenendo che essi non vanno confusi con i<br />

ragazzi di Salò che stavano dalla parte sbagliata,<br />

e facendo ritirare il progetto di legge di iniziativa<br />

di un gruppo di deputati del suo schieramento<br />

che volevano la totale parificazione tra<br />

partigiani e saloini. Il Centrosinistra accusa<br />

Dell’Utri di revisionismo. “È la conferma che il<br />

paese è a rischio: dicendo che la Rai va occupata,<br />

che Mussolini non era poi tanto male e che<br />

le veline sono meglio delle giornaliste Rai,<br />

Dell’Utri getta la maschera” - punta il dito il Pd<br />

Roberto Cuillo. Francesco Pardi, senatore Idv,<br />

lo invita a fare una visita in via Tasso a Roma<br />

(luogo delle torture delle SS) “dove forse perfino<br />

lui sa che cosa succedeva al tramonto del<br />

regime”. A definire “sconcertanti” le parole di<br />

Dell’Utri è anche l’Udc, con Roberto Rao, membro<br />

della Vigilanza Rai, preoccupato per l’ipotesi<br />

“occupazione”: “Il cda saprà rispondere a<br />

questo tentativo con nomine autorevoli”. La<br />

Federazione della stampa respinge l’insulto alle<br />

giornaliste tv e definisce “ignorante chi vanta<br />

un dittatore o auspica occupazioni”.


MEMORIA<br />

IL RASTRELLAMENTO<br />

NAZISTA DELLA BENEDICTA di Mario ANIASI<br />

La Benedicta, un antico monastero<br />

benedettino medioevale,<br />

diventato prima della<br />

seconda guerra mondiale la<br />

cascina di una proprietà terriera,<br />

ora è ridotto ad un rudere dopo<br />

anni e anni di colpevole incuria.<br />

La Benedicta è situata a 750 metri di quota, in<br />

comune di Bosio in provincia di Alessandria,<br />

nella località denominata Parco regionale<br />

Capanne di Magarolo alle pendici del monte<br />

Tobio sull’appennino ligure fra le province di<br />

Alessandria e di Genova. È stato uno dei luoghi<br />

simbolo della lotta partigiana.<br />

Nella zona, subito dopo l’8 settembre del ’43<br />

si formarono i primi gruppi partigiani costituiti<br />

principalmente da antifascisti genovesi e<br />

da alcuni prigionieri di guerra sfuggiti all’internamento.<br />

La zona di insediamento prossima alla camionale<br />

Milano-Genova e ad altre importanti vie<br />

di comunicazione stradali e ferroviarie si prestava<br />

ad azioni di sabotaggio a danno delle<br />

forze tedesche che avevano occupato tutta<br />

l’Italia continentale anche con l’aiuto della<br />

neonata repubblica sociale costituitasi dopo<br />

la liberazione di Mussolini.<br />

I gruppi partigiani, che inizialmente agivano<br />

in ordine sparso, successivamente si organizzarono<br />

in due tronconi: la III Brigata<br />

Garibaldi Liguria e la Brigata autonoma<br />

Alessandria.<br />

Nella primavera del ’44 gli effettivi dei due<br />

raggruppamenti, che nel corso dell’inverno<br />

non raggiungevano le 100 unità, oltretutto<br />

scarsamente armate, si ingrossarono enormemente<br />

sia per il crescente affermarsi dell’antifascismo<br />

nella popolazione della zona<br />

che sperava nella fine della guerra, sia per<br />

effetto dei tristemente famosi “Bandi<br />

Graziani”, che minacciavano la pena di morte<br />

nei confronti di tutti i militari che, dopo l’armistizio<br />

dell’8 settembre avevano lasciato i<br />

rispettivi corpi, non si fossero presentati ai<br />

distretti più vicini per essere inquadrati nelle<br />

forze della repubblica sociale di Salò , sia nei<br />

confronti di tutti i richiamati alle armi delle<br />

classi più giovani che eventualmente non si<br />

fossero presentati all’appello.<br />

In pochissimo tempo alla fine di febbraio i<br />

partigiani e renitenti, che si erano accampati<br />

alle falde del monte Tobio, erano diventati<br />

alcune centinaia.<br />

Un così numeroso concentramento di resistenti,<br />

per la gran parte disarmati, creava<br />

numerosi problemi: occorreva fornire a tutti<br />

il cibo, gli alloggiamenti, il vestiario, le armi e<br />

sopratutto l’addestramento.<br />

Il Cln di Genova, che cercava di coordinare le<br />

azioni dei partigiani in questa, zona, oltre a<br />

dare, per quanto poteva, aiuti concreti, aveva<br />

deciso di riservare la zona principalmente<br />

all’addestramento, del quale i giovani partigiani,<br />

per la maggioranza privi di una qualsiasi<br />

esperienza militare, avevano assolutamente<br />

bisogno.<br />

Completato un pur sommario addestramento,<br />

il Cln aveva deciso di spostare sia la terza<br />

brigata Garibaldi Liguria sia la brigata autonoma<br />

Alessandria in altre zone essendo l’attuale<br />

collocazione, per la sua vicinanza a<br />

grandi vie di comunicazione, a rischio di<br />

accerchiamento.<br />

Il trasferimento, completato un minimo di<br />

addestramento, era previsto per per alcuni<br />

gruppi ad ovest verso l’acquese per altri ad est<br />

verso val Curone.<br />

La formazione più organizzata era la terza<br />

brigata Garibaldi Liguria che alla fine di febbraio<br />

del ’44 era forte di circa 700 effettivi,<br />

divisi in una decina di distaccamenti di cui il<br />

più importante era quello situato alla<br />

Benedicta con circa 100 unità.<br />

La brigata autonoma Alessandria, anch’essa<br />

forte di alcune centinaia di giovani, era dislocata<br />

in modo sparpagliato nella zona dellea<br />

capanne di Mortarolo, alle pendici del monte<br />

Tobio.<br />

Solo la terza brigata Garibaldi Liguria dispo-<br />

Lettera ai compagni<br />

29


MEMORIA<br />

neva di un piano di sganciamento in caso di<br />

rastrellamento da parte di tedeschi e fascisti,<br />

gli altri avevano solo l’ordine di nascondersi<br />

nei boschi.<br />

Nella primavera del ’44, fra i fascisti delle<br />

zone confinati, montava gradatamente una<br />

forte irritazione dovuta non tanto ad azioni<br />

partigiane di sabotaggio, quanto invece allo<br />

scarso successo delle leve di reclutamento<br />

della neonata Repubblica sociale e alla sparizione<br />

di gran parte dei giovani dai paesi di<br />

residenza: tutto ciò aveva come diretta conseguenza<br />

l’aumento del sentimento antifascista<br />

nella popolazione.<br />

Per questa ragione i fascisti locali chiedevano<br />

fossero eseguiti rastrellamenti nella zona in<br />

modo da stanare le bande partigiano verso le<br />

quali erano confluiti i giovani.<br />

A tal fine avevano predisposto un piano ad<br />

hoc con forti contingenti di militi della Gnr ed<br />

di altre truppe.<br />

Questo piano fu bocciato dai tedeschi , non si<br />

sa se per scarsa fiducia nelle truppe fasciste o<br />

perché ritenevano necessario un progetto di<br />

più ampie dimensioni.<br />

È un fatto, comunque, accertato dalle varie<br />

ricerche storiche sull’eccidio della Benedicta,<br />

che, nonostante ci fossero avvisaglie di un<br />

possibile e imminente rastrellamento da<br />

parte dei nazifascismi, non fu adottata alcuna<br />

contromisura di contrasto.<br />

Solo la terza brigata Garibaldi Liguria aveva<br />

abbozzato un piano di sganciamento ad est<br />

verso la val d’Orba e l’acquese e a sud ovest<br />

verso Voltri e Arenzano.<br />

Nessuno in definitiva credeva<br />

che un rastrellamento in grande<br />

stile fosse imminente.<br />

Invece il 6 aprile il rastrellamento<br />

ebbe inizio.<br />

Da direzioni diverse (Lerma,<br />

Carrosio e Voltaggio, Masone,<br />

Rossiglione e Campomorrone<br />

e Pontedecimo) si mossero<br />

colonne costituite principalmente<br />

da truppe tedesche ma<br />

anche da militi della Gnr e da<br />

bersaglieri repubblichini.<br />

Un gran dibattere si è fatto<br />

sull’effettiva consistenza dei<br />

rastrellatori, alcuni parlarono<br />

addirittura di 20.000 uomini.<br />

Ricerche più recenti (partico-<br />

30 Lettera ai compagni<br />

larmente di fonte tedesca) hanno dimostrato<br />

inequivocabilmente che si trattava di circa<br />

1500 militari tedeschi, tutti di fanteria, di<br />

circa 500 militi della Gnr e di poche decine di<br />

bersaglieri.<br />

Comunque sia, il numero di coloro che parteciparono<br />

al rastrellamento era superiore a<br />

quello dei partigiani, ma sicuramente ciò che<br />

faceva la grande differenza era l’armamento.<br />

Le truppe tedesche erano equipaggiate con<br />

armi automatiche, mitragliatrici, mortai¸<br />

lanciafiamme, alcuni pezzi di artiglieria da<br />

montagna ed erano appoggiati da autoblindo,<br />

cingolati e oltretutto avevano il sostegno<br />

aereo, in quanto un velivolo leggero ( la famigerata<br />

“cicogna”) sorvolava continuamente la<br />

zona segnalando posizioni e spostamenti dei<br />

partigiani.<br />

Per contro, per avere una idea dell’armamento<br />

dei resistenti è sufficiente elencare una<br />

fonte non sospetta: il giornale di guerra del<br />

gruppo di armate naziste che traccia il bilancio<br />

dell’operazione: 145 partigiani morti e<br />

368 prigionieri a fronte di soli 4 morti (di cui<br />

un soldato italiano) fra le le file tedesche e a<br />

proposito dell’armamento partigiano scrive:”<br />

1 automobile, 120 fucili da caccia, 9 revolver,<br />

9 pistole, 11 pistole ad avancarica, 15 fucili<br />

(italiani e francesi), 7 fucili mitragliatori<br />

(americani) un fucile mitragliatore (italiano)<br />

piccole quantità di munizioni.<br />

Questa era la differenza.<br />

Stando così le cose, i partigiani, salvo piccoli<br />

gruppi che riuscirono a sganciarsi, furono<br />

FERRUCCIO PARRI ALLA BENEDICTA


accerchiati e credendo di fare la cosa corretta,<br />

anziché sparpagliarsi, confluirono verso la<br />

Benedicta alcuni in quanto sapevano che là vi<br />

erano i partigiani meglio armati, altri invece<br />

perché riunendosi tutti nel medesimo luogo<br />

sarebbero stati fatti prigionieri. E non uccisi.<br />

Invece non fu così: arrivati alla Benedicta i<br />

rastrellatori chiamarono fuori i resistenti a<br />

cinque per volta e li fucilarono. Morirono così<br />

più di cento partigiani. Come sempre accade<br />

in ogni fucilazione di massa, uno si salvoìò<br />

perché vicino a un ferito che cadendo lo coprì<br />

con il suo corpo. Come nell’eccidio dei 43<br />

“banditen” di Fondotoce.<br />

I componenti del plotone di esecuzione non<br />

furono però i tedeschi ma i bersaglieri repubblichini.<br />

I lavori più sporchi venivano riservati<br />

agli italiani.<br />

Il rastrellamento continuò anche nei giorni<br />

successivi. Il bilancio delle perdite fra le file<br />

partigiane divenne sempre più pesante: già<br />

nel corso della nottata altre 21 vittime si<br />

aggiunsero a quelle della Benedica mentre a<br />

Villa Bagnara caddero 13 dei 40 catturati e a<br />

Voltaggio ne furono fucilati altri cinque e così<br />

via.<br />

Assai difficile è fare un computo totale delle<br />

vittime, specie se si considerano i contadini<br />

uccisi per rappresaglia.<br />

Una stima approssimativa la dà il cippo ele-<br />

MEMORIA<br />

vato a memoria, che elenca i nomi di 98 fucilati<br />

alla Benedicta, 87 caduti in combattimento,<br />

179 deceduti a Mauthasen tra i 400 deportati.<br />

La furia nazifascista non si è scatenò, però,<br />

solo contro le persone: anche l’edificio della<br />

Benedicta (antico convento benedettino) fu<br />

minato e fatto saltare in aria trasformandolo<br />

in un cumulo di macerie.<br />

Negli anni si sono susseguite le commemorazioni<br />

dei fatti della Benedica: senza avere la<br />

pretesa di elencarle tutte, vale la pena di<br />

ricordare quelle di Ferruccio Parri, primo<br />

Presidente del Consiglio dopo la Liberazione,<br />

e dei vari Presidenti della Repubblica, da<br />

Giuseppe Saragat a Sandro Pertini a Carlo<br />

Azeglio Ciampi assieme, naturalmente, a<br />

tutte le autorità regionali di Piemonte e<br />

Liguria.<br />

I fatti narrati non sono stati senza insegnamenti<br />

positivi: dopo la Bededicta furono<br />

modificate le strategie della lotta partigiana, e<br />

non solo sull’Appennino ligure. Si imparò che<br />

le armi bisognava conquistarle e non attendere<br />

che piovessero dal cielo. Si imparò che la<br />

lotta partigiana doveva essere fatta da veloci<br />

sganciamenti dal nemico in caso di rastrellamento<br />

e con precisi piani al riguardo.<br />

Nel 1999, per ricordare l’evento, è sorto un<br />

comitato per il ricupero della Benedicta che<br />

nel 2003 si è trasformato in<br />

Associazione memoria della<br />

Benedicta con la partecipazione<br />

di tutte le realtà istituzionali<br />

locali, provinciali e regionali<br />

e delle varie associazioni<br />

partigiane, oltre agli istituti<br />

storici piemontesi e liguri,<br />

comitato che ha come scopo<br />

non solo la valorizzazione dell’area<br />

trasformandola in vera<br />

e propria zona monumentale,<br />

con un sacrario per i caduti e<br />

un parco della pace, ma anche<br />

quello di organizzare tutti gli<br />

anni la commemorazione dell’evento,<br />

oltre naturalmente a<br />

diffondere la memoria con<br />

varie iniziative.<br />

L’associazione è molto attiva:<br />

ha iniziato la pubblicazione di<br />

tre collane di memorie, di dvd<br />

sull’argomento.<br />

Lettera ai compagni<br />

31


L’INTERVENTO<br />

Ho letto con interesse nell’ultimo<br />

numero della<br />

“Lettera” la recensione di<br />

Diego Giachetti su tre<br />

pubblicazioni relative al<br />

“fenomeno” della contestazione sessantottina,<br />

dalla Valsesia a Catanzaro.<br />

Vorrei aggiungere la segnalazione di un altro<br />

interessante libro sull’argomento, evidenziante<br />

qualche altro aspetto: “Frammenti<br />

d’Italia, prima e dopo il Sessantotto” di<br />

Sandro Boato, Temi Editrice, Trento. Pagg.<br />

168, Euro 10,00. Con prefazione di Adriano<br />

Sofri e illustrazioni di Matteo Boato, pittore<br />

figlio dell’autore.<br />

Un primo aspetto sono le radici, anche inconsce,<br />

che il Sessantotto ha avuto nella<br />

Resistenza.<br />

Sandro Boato, urbanista e poeta, è nato a<br />

Venezia nel 1938, da una famiglia intransigentemente<br />

antifascista. Il padre Angelin,<br />

partigiano di Giustizia e Libertà, aderente al<br />

Partito d’Azione con la moglie Rita de Felip e<br />

la sorella Emma, aveva trasformato la casa in<br />

base di appoggio della Resistenza, nascondendo<br />

(e trasportando) armi e munizioni, ed<br />

anche in magazzino un partigiano sceso dalla<br />

montagna, nutrendolo per tutto il duro inverno<br />

1944 - 45. Sul ponte di Rialto, venne un<br />

giorno aggredito con bastoni e catene da un<br />

gruppo di camicie nere.<br />

In questa atmosfera nascono e crescono cinque<br />

figli: Sandro, Maurizio, Stefano, Marco e<br />

Michele. Marco assieme a Mauro Rostagno è<br />

l’ispiratore e guida della contestazione nel<br />

neonato Istituto Superiore di Scienze Sociali<br />

che diventerà l’Università di Trento; con il<br />

fratello Michele e Nico Nordio provoca anche<br />

l’occupazione dell’Università di Ca’ Foscari a<br />

32 Lettera ai compagni<br />

ANCORA SUL ’68<br />

LA FAMIGLIA BOATO, DALLA RESISTENZA<br />

ALLA CONTESTAZIONE,<br />

ALL’AMBIENTALISMO<br />

di Renzo BIONDO<br />

Venezia.<br />

Il secondo aspetto interessante: una piccola<br />

facoltà periferica a Trento diventa uno dei<br />

primi centri della rivolta sociale del 1968, in<br />

una città che vota al 56% per la Democrazia<br />

Cristiana, ma è una D.C. a due facce: quella<br />

bigotta e tradizionalista di Flaminio Piccoli, e<br />

quella moderna e riformatrice di Kessler che<br />

inventa l’Università, e chiama docenti come<br />

Samonà, Alberoni, Beniamino Andreatta con<br />

l’assistente Romano Prodi.<br />

Ricordiamo che la rivolta sociale che va sotto<br />

la sigla del ’68 ha cambiato radicalmente la<br />

società italiana, i rapporti fra persone e generazioni,<br />

in campo familiare, sessuale, stili di<br />

vita, modi di vestire, musica e letteratura, il<br />

tutto con metodi diversi dai tradizionali.<br />

Mario Capanna nel suo libro “Lettere a mio<br />

figlio” scrive: “L’obiettivo non è stato prendere<br />

il posto dei potenti, ma essere diversi da<br />

loro”.<br />

Marco sarà un protagonista della vita politica<br />

italiana, prima con Lotta Continua, poi come<br />

uno dei fondatori del Movimento Ecologista,<br />

di volta in volta deputato e senatore, capogruppo,<br />

ma anche severo critico della deriva<br />

del gruppo dirigente dei Verdi nella disastrosa<br />

“Sinistra Arcobaleno” alle elezioni 2008; e<br />

richiama l’esperienza del padre Angelin nel<br />

“piccolo - grande Partito d’Azione”.<br />

Altri due fratelli, Stefano e Michele, restano a<br />

Venezia, eletti in vari incarichi amministrativi.<br />

In particolar Stefano, per lunghi anni assessore<br />

all’Urbanistica, blocca numerose operazioni<br />

di speculazione edilizia perniciose per il tessuto<br />

urbano, Michele è tuttora sentinella fantasiosa<br />

delle aspirazioni ambientaliste.<br />

Sandro, il primo e forse il più appassionato<br />

dei fratelli, nel 1961 si trasferisce a Trento,<br />

con Alexander Langer diventa un punto di


iferimento dell’ambientalismo.<br />

Architetto all’Ufficio Tecnico del Comune, poi<br />

dirigente dell’Urbanistica della Provincia<br />

autonoma di Trento, collabora al piano regolatore<br />

cittadino, al primo piano urbanistico<br />

d’Italia a scala regionale - provinciale; pubblica<br />

opere monumentali sui Parchi e riserve<br />

naturali del Trentino, e una documentata rassegna<br />

dei Parchi in Italia, in Europa e nel<br />

mondo. Ed insieme ha una continua produzione<br />

poetica garbata e toccante, in italiano e<br />

dialetto veneziano, ed anche in altre lingue<br />

europee, della quale ci sono campioni anche<br />

nel libro.<br />

È stato anche eletto consigliere provinciale<br />

per i Verdi.<br />

La sua partecipazione ai movimenti del ’68 è<br />

generosa, ma nel libro quasi in ombra, centrato<br />

com’è sul “prima” e sul “dopo”. Dei sei<br />

capitoli in cui si articola (tutti rigorosamente<br />

divisi in sette sottocapitoli) più un’introduzione<br />

ed una chiusura, solo i due centrali (La<br />

sveglia e Il riflusso) sono dedicati espressamente<br />

alla contestazionesessantottesca.<br />

Dall’episodio<br />

di Paolo che in<br />

Duomo alzò il dito<br />

per contestare il<br />

quaresimale del<br />

Vescovo (“Uomini<br />

vestiti di scuro, mai<br />

usciti dai filari dei<br />

banchi … si levano<br />

come morsi dal<br />

marasso ruggendo<br />

“Fuori”) e poi organizza<br />

un controquaresimale<br />

fuori<br />

della porta, fino<br />

alle occupazioni<br />

della facoltà, ai cortei<br />

ed assemblee di<br />

massa, studentesche<br />

ed operaie,<br />

alle nuove affermazioni<br />

femministe.<br />

Gli altri capitoli<br />

sono una lenta e<br />

fatale preparazione<br />

all’evento, o la rincorsa<br />

agli impegni<br />

successivi, nei<br />

L’INTERVENTO<br />

quali “Andrea” alter ego dell’autore, compie<br />

excursus nel tempo e nello spazio, dalla città<br />

in cui è nato, (e nella quale ogni tanto ritorna,<br />

trovando prezzi stratosferici, torme di turisti<br />

che nascondono i pochi nativi rimasti), alla<br />

Trento in cui imperversa il partito onnipresente,<br />

alle valli tranquille ma aggredite dalle<br />

speculazioni di vario genere, ad un lago ed un<br />

paese con l’acciottolato che cede all’asfalto e<br />

le fontane di ferro e pietra (Levico?), ma<br />

anche al milione di Marco Polo, all’Argentina<br />

in cui papà Angelin è andato giovane a lavorare<br />

(per tornare e partecipare alla<br />

Resistenza) da Peron a Dubcek, da Masaryk a<br />

Lech Walesa, c’è dentro un bel pezzo di storia<br />

moderna.<br />

Il libro, che l’autore dedica alla moglie (e<br />

compagna di avventure) Odilia, ed alla<br />

memoria di Livia Battisti (figlia del martire<br />

Cesare), battagliera consigliera comunale, è<br />

di facile lettura e molto coinvolgente e ben<br />

illustrato da Matteo Boato.<br />

Lo consiglio a tutti.<br />

MARCO BOATO<br />

Lettera ai compagni<br />

33


LA RICERCA<br />

Cos’è rimasto nella letteratura<br />

italiana e nella nostra<br />

memoria collettiva del ruolo<br />

svolto dalle donne partigiane<br />

tra il settembre 1943 e l’aprile<br />

1945?<br />

Questo l’argomento generale dell’incontro,<br />

coordinato dal Presidente della F.I.A.P. di<br />

Roma Vittorio Cimiotta, che si è svolto lunedì<br />

2 marzo 2009 a Roma, presso la Biblioteca<br />

della Casa della memoria e della storia, in<br />

occasione della presentazione del libro<br />

“Resisting Bodies Narratives of Italian<br />

Partisan Women”, a cura di Rosetta D’Angelo<br />

e Barbara Zaczek, Annali di Italianistica Studi<br />

e Testi vol. 9, Chapel Hill, 2008.<br />

Resisting Bodies, è una ricca e significativa<br />

antologia sulle partigiane italiane nella narrativa<br />

e tiene insieme tanti fili diversi.<br />

Innanzitutto attraverso la scelta di generi<br />

narrativi differenti che le curatrici dividono<br />

in due sezioni: la prima dedicata ai ricordi<br />

personali; l’altra alla finzione letteraria, sia<br />

pure spesso ispirata da un coinvolgimento<br />

diretto degli autori nella Resistenza (pensiamo<br />

a Beppe Fenoglio).<br />

Altro aspetto importante, come d’altra parte è<br />

messo in rilievo nella prefazione delle curatrici,<br />

è la scelta di scritti ambientati in diverse<br />

parti d’Italia: Roma, Firenze, l’Emilia<br />

Romagna, il nord ovest ed il nord est. Ma quel<br />

che soprattutto emerge da questo lavoro è che<br />

non possiamo parlare di una sola tipologia di<br />

resistenti: non esiste “la donna” antifascista<br />

ma ci sono tanti tipi di donne che si oppongono<br />

ai tedeschi e alla Repubblica sociale.<br />

Una caratteristica dell’antologia di D’Angelo<br />

34 Lettera ai compagni<br />

INTERESSANTE INCONTRO CULTURALE ORGANIZZATO DALLA <strong>FIAP</strong><br />

ALLA CASA DELLA MEMORIA DI ROMA<br />

LE DONNE PARTIGIANE<br />

NELLA LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE<br />

Presentata l’antologia “Resisting Bodies”, una ricca<br />

e importante raccolta sul ruolo e la partecipazione<br />

delle italiane nella Resistenza<br />

di Anna BALZARRO<br />

e Zaczeck, è la scelta di brani che ruotano<br />

attorno alla rappresentazione del corpo femminile,<br />

come suggerisce il titolo e come le<br />

curatrici indicano subito nella nota che apre il<br />

libro.<br />

Anche in questo caso, tuttavia, il plurale è<br />

d’obbligo e non è corretto parlare tanto di<br />

corpo ma di corpi e delle loro diverse immagini.<br />

I corpi delle partigiane possono esprimere<br />

affetto e angoscia, o possono esprimere la<br />

resistenza estrema alla fatica; sono oggetto di<br />

ricatto sessuale, o sono scrutati con sospetto<br />

dalle donne del paese che le ritengono di facili<br />

costumi. Ci sono i fisici attraenti di Jole (in<br />

Fenoglio) e Giglia (in Calvino) ma c’è anche<br />

quello, fuori dai canoni della seduzione, di<br />

Agnese (nel romanzo di Viganò) con i suoi<br />

piedi gonfi, deformi e dolenti.<br />

Ecco dunque che anche dalla prospettiva dei<br />

corpi possiamo notare e valorizzare le intensità<br />

di resistenza al dolore, alla fatica, allo<br />

sguardo scrutatore degli altri; possiamo<br />

costruire una storia fatta di tante storie diverse<br />

eppure tenute insieme da comuni valori e<br />

sofferenze condivise.<br />

Nella prefazione al libro le curatrici si soffermano<br />

sulla descrizione fisica di Vera, la partigiana<br />

protagonista di un racconto di Marcello<br />

Venturi, sulle sue mani asciutte rivelatrici del<br />

suo carattere forte e privo di esitazioni emotive.<br />

Ed è proprio con la lettura per intero di questo<br />

racconto di Venturi “La ragazza se ne va<br />

con il Diavolo”, che, subito dopo i saluti del<br />

Presidente dell’A.N.P.I. di Roma, Massimo<br />

Rendina, Gaudia Sciacca apre i lavori del 2<br />

marzo. L’immagine asciutta e sicura della giovane<br />

Vera lascia spazio, nel successivo inter-


vento di Stefano Gambari, responsabile della<br />

Biblioteca della Casa della memoria e della<br />

storia, alla figura di Agnese, protagonista del<br />

romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a<br />

morire che, secondo Gambari, riassume in sé<br />

le tante tipologie di donna partigiana. In questo<br />

intervento viene al tempo stesso tratteggiata<br />

l’intera produzione dell’autrice Renata<br />

Viganò, e si riflette sul significato, anche<br />

didattico, di uno strumento come l’antologia<br />

che, in quanto selezione di testi, sceglie ed<br />

indica un percorso ai lettori.<br />

Le due autrici D’Angelo e Zaczeck, d’altra<br />

parte, si soffermano nel loro intervento proprio<br />

sulle ragioni che le hanno spinte a scrivere<br />

l’antologia, nata dall’esigenza di far<br />

conoscere il ruolo delle donne nella<br />

Resistenza italiana al pubblico americano e<br />

soprattutto agli studenti universitari. In particolare<br />

Zaczeck racconta le sue ragioni autobiografiche<br />

di donna polacca che ha avuto<br />

una famiglia coinvolta dalle vicende della<br />

guerra e, come studiosa, narra di essere rimasta<br />

colpita da alcuni volumi sulla seconda<br />

guerra mondiale e in particolare da un testo<br />

(La guerra nei tuoi occhi) che aveva sulla<br />

copertina l’immagine di una donna a seno<br />

nudo. E dal legame guerra/corpo delle donne<br />

passa poi a riflettere sul gioco d’identità sessuale<br />

che emerge da tanti scritti sulla partecipazione<br />

partigiana femminile: dal racconto di<br />

Venturi alle memorie di Carla Capponi.<br />

D’Angelo, dopo aver lamentato lo scarto tra<br />

partecipazione femminile e l’ oblio in cui questa<br />

è caduta fin dal dopoguerra, ricorda i progressi<br />

svolti dalla storiografia negli ultimi<br />

decenni e si sofferma sull’importanza delle<br />

memorie. In particolare parla della lunga<br />

intervista di Tersilla Fenoglio Oppedisano e<br />

riflette sulla partecipazione politica femminile<br />

nell’Italia del dopoguerra, che ha inevitabilmente<br />

portato tante donne a dover rinunciare<br />

ad una parte di sé per adattarsi ai canoni<br />

maschili della politica.<br />

Solo per fare un esempio, Tersilla Fenoglio<br />

appoggia in pieno, anche a distanza di tanti<br />

anni, la scelta dei compagni di non far partecipare<br />

le donne garibaldine nelle sfilate della<br />

Torino liberata: una scelta dettata dalla paura<br />

che la presenza di donne armate, che avevano<br />

diviso per mesi la vita clandestina con degli<br />

uomini, potesse gettar discredito non solo<br />

sulle dirette interessate ma sull’intero movi-<br />

LA RICERCA<br />

mento partigiano.<br />

Prendono parte all’incontro Anna Balzarro e<br />

Raffaella Puggioni docenti di The American<br />

University of Rome (Balzarro) e della John<br />

Cabot University (Puggioni). Balzarro fa una<br />

presentazione generale dell’antologia e delle<br />

problematiche che solleva, mentre Puggioni<br />

mette in luce lo scarto tra l’importanza della<br />

partecipazione femminile alla Resistenza e la<br />

mancata opportunità di utilizzare quell’esperienza<br />

per capovolgere i ruoli di genere. Al<br />

contrario, sottolinea Puggioni, dalla lettura di<br />

diversi brani dell’antologia emerge l’accettazione<br />

piena degli stereotipi di genere (nel diario<br />

di Fulvia Ripa di Meana, ad esempio, c’è la<br />

riaffermazione della figura, tradizionalmente<br />

maschile, di eroe che muore per la patria)<br />

anche da parte di donne che hanno rischiato<br />

la vita in prima persona.<br />

Il pomeriggio del 2 marzo non è stato solo<br />

una giornata dedicata alla presentazione di<br />

un libro, per quanto valido e innovativo. È<br />

stata l’occasione di una riflessione comune<br />

sul significato della presenza delle donne nel<br />

movimento partigiano, sui valori della<br />

Resistenza e sulla necessità di riferirsi ancora<br />

a quei valori e di difenderli dagli attacchi del<br />

presente, come ha messo in luce il ricco dibattito,<br />

in chiusura dell’incontro, che è stato stimolato<br />

anche dalla testimonianza di due partigiane,<br />

Lucia Corti e Anna Maria Ventura,<br />

invitate da Vittorio Cimiotta a prendere la<br />

parola.<br />

Negli anni di guerra Corti e Ventura erano<br />

entrambe giovanissime spose; la prima viveva<br />

a Torino, l’altra in provincia di Piacenza e<br />

nell’Oltrepo’ Pavese.<br />

Dai loro racconti emerge la forza dei legami<br />

che si sono stabiliti nel corso della lotta e la<br />

specificità della sensibilità femminile: in quei<br />

contesti le donne sentivano una sorta di<br />

maternità universale verso qualunque persona<br />

sofferente, ricorda Lucia Corti. D’altra<br />

parte il presentarsi ai nemici nelle vesti di<br />

madri di famiglia (Anna Maria Ventura andava<br />

a parlare con tedeschi e fascisti tenendo in<br />

braccio il figlioletto di un anno) serviva a<br />

mascherare il coinvolgimento attivo di una<br />

donna nella Resistenza, utilizzando a proprio<br />

vantaggio gli stereotipi di genere, secondo un<br />

gioco di identità sessuale che le curatrici di<br />

Resisting bodies hanno evidenziato all’interno<br />

di tanti brani autobiografici e letterari.<br />

Lettera ai compagni<br />

35


RINTRACCIATO UN DOCENTE UNIVERSITARIO TEDESCO CONVERTITOSI<br />

E DIVENTATO EBREO<br />

UN NIPOTINO DI HITLER<br />

ORA INSEGNA<br />

IL TALMUD IN ISRAELE<br />

Ha cambiato nome per evitare di essere continuamente<br />

discriminato assieme ai suoi familiari, ma la sua scelta<br />

è convinta e definitiva - Non è il solo ex nazista<br />

che vive a Tel Aviv<br />

Ha 52 anni, lavora in una<br />

università d’Israele ed<br />

insegna il Talmud. Niente<br />

di strano e di straordinario,<br />

se non si trattasse<br />

nientedimeno che del nipote di Adolf<br />

Hitler. A scovarlo è stato un giornalista<br />

di “Repubblica”, Marco Ansaldo, che è<br />

riuscito a intervistarlo. Vive da 25 anni<br />

in Israele, ha un nome e un cognome<br />

tedesco, ma non vuole rivelarli. È lui<br />

stesso a spiegare il perché. Racconta:<br />

“Il nome di nonna era Ema Patra<br />

Hitler. Dopo la guerra, per non farsi<br />

riconoscere, fece cadere la “t” e cambiò<br />

il suo nome in “Hiler”. Hans Hitler, il<br />

suo secondo marito, era il nipote del<br />

Fuehrer.<br />

“Quel che a lui mancava in termini di rudezza,<br />

non difettava invece alla moglie, mia<br />

nonna appunto”. Questo pronipote del capo<br />

del nazismo viene così descritto: alto e snello,<br />

con un misto di accento tedesco, inglese ed<br />

ebraico. Disponibile e gentile. È nato<br />

Francoforte nel 1952, ma - come detto - da 5<br />

lustri vive e lavora in Israele. Ha un nome e<br />

un cognome, un numero di telefono, una<br />

mail, ma non è disposto a rivelarli pubblicamente:<br />

dimostrerebbero in modo inequivocabile<br />

non solo l’origine teutonica, ma l’origine<br />

della sua famiglia.<br />

Da tempo - scrive “Repubblica” si è convertito.<br />

Oggi, addirittura, insegna il Talmud, il<br />

libro sacro dell’ebraismo, in una Università<br />

israeliana.<br />

LA CURIOSITÀ<br />

“Mia nonna era una nazista fervente. Lei credeva<br />

nell’ideologia nazionalsocialista, prima,<br />

durante e dopo la guerra. Era orgogliosa che<br />

suo suocero fosse il fratello di Hitler, benché<br />

egli si fosse tenuto lontano dalla politica.<br />

Lui gestiva un caffè a Berlino, e tutta la dirigenza<br />

nazista frequentava il locale. I miei<br />

genitori erano entrambi cattolici protestanti.<br />

Tutti e due nella Wehrmacht, l’esercito del<br />

Terzo Reich. Mio padre, ardente sostenitore<br />

del partito, divorziò da mia madre poco dopo<br />

la mia nascita.<br />

Così fui cresciuto da lei, che a quel punto non<br />

ricevette alcun sostegno, né finanziario né<br />

tantomeno morale da nonna Erna, una donna<br />

Lettera ai compagni<br />

37


LA CURIOSITÀ<br />

indifferente alle pene e alle sofferenze altrui.<br />

Ho avuto un’infanzia piena di problemi.<br />

Con mia madre passavamo da una casa all’altra,<br />

buttati fuori quando non c’erano più i<br />

soldi per l’affitto. Però lei mi ha raccontato<br />

sempre tutto, mostrandomi i documenti con<br />

le svastiche, le lettere e le fotografie dei nostri<br />

parenti - compresa lei stessa - mentre indossavano<br />

le divise. E quando le chiesi, visto che<br />

sapeva le condizioni in cui vivevano gli ebrei<br />

polacchi a Lodz, perché avesse continuato a<br />

obbedire, mi disse semplicemente, con molta<br />

vergogna, “avevo paura”. Le credetti”.<br />

Adolf Hitler non ebbe figli, ma un fratellastro,<br />

Alois junior, che è il padre di Hans. “Hans -<br />

dice ancora il pronipote di Hitler - sposò<br />

nonna Erna quando lei divorziò dall’altro mio<br />

nonno. Io, dunque, non ho alcun legame di<br />

sangue con il Fuehrer, non ho Dna in comune.<br />

Incontrai Hans solo una volta. Gli Hitler<br />

vennero a casa per un té. Lui era un uomo<br />

molto simpatico.<br />

Nonna era elettrizzata di avere sposato uno<br />

del loro clan. Rimase nazista fino al termine<br />

dei suoi giorni”.<br />

“Mio padre morì quando avevo 19 anni. L’ho<br />

visto di rado, e quelle poche volte ero così<br />

contento che non gli chiesi mai che cosa avesse<br />

fatto durante la guerra. Seppi dopo che era<br />

un maggiore della Wehrmacht. Mia madre mi<br />

picchiava. Un tempo così forte da non poter<br />

andare a lavorare dopo perché aveva le dita<br />

troppo gonfie per battere a macchina”.<br />

“Lessi “Mein Kampf”, il libro di Hitler, da<br />

ragazzo. E ne<br />

rima-<br />

si imbarazzato. Come ha potuto la gente essere<br />

così stupida da eleggere un uomo che scriveva<br />

cose simili? Il mio percorso verso l’ebraismo<br />

è stato lungo. Dopo la maturità, al<br />

momento di fare il servizio militare in<br />

Germania, ho scelto teologia.<br />

Il corso prevedeva un periodo di sei settimane<br />

in Israele. Era l’inizio degli Anni Settanta.<br />

Una volta arrivato, mi sono sentito a casa.<br />

Sono rimasto. E mi sono convertito”.<br />

Scrive ancora il giornale: “Secondo alcune<br />

stime sono circa 300 i tedeschi convertiti che<br />

vivono oggi in Israele.<br />

Molti di loro tuttavia non vogliono rivelare la<br />

loro identità, preferendo nascondere il passato.<br />

Diversi sono docenti universitari. Uno di<br />

questi è proprio il nipote di Hitler che utilizza<br />

un altro nome anche se in Israele qualcuno lo<br />

ha già identificato.<br />

“Non mi piace - continua l’intervistato - sentir<br />

parlare dei palestinesi con sufficienza.<br />

L’Olocausto e il Terzo Reich mi hanno forgiato.<br />

Sono pacifista, e penso che la democrazia<br />

provi sé stessa rispettando i diritti delle<br />

minoranze. Ho sempre cercato di essere onesto<br />

sulle mie origini: non le ho mai nascoste.<br />

Ne ho anzi parlato con i miei studenti, e uno<br />

di loro mi ha detto: “Immagina, tuo nonno<br />

potrebbe aver saponificato mia nonna”.<br />

Quando la mia storia ha iniziato a circolare,<br />

diverse persone con cui parlavo normalmente,<br />

non mi hanno più stretto la mano.<br />

Cambiavano strada. E ai miei figli, a scuola, i<br />

bambini sputavano addosso chiamandoli<br />

“nazisti”. Ho imparato la lezione. Certa gente<br />

non vuole che tu cambi. Mai”.<br />

IL TALMUD (CHE SIGNIFICA INSEGNA-<br />

MENTO, STUDIO, DISCUSSIONE DALLA<br />

RADICE EBRAICA LMD) È UNO DEI TESTI<br />

SACRI DELL’EBRAISMO. È RICONOSCIU-<br />

TO SOLO DALL’EBRAISMO CHE LO CONSI-<br />

DERA COME LA TORAH ORALE, RIVELATA<br />

SUL SINAI A MOSÈ E TRASMESSA A<br />

VOCE, DI GENERAZIONE IN GENERAZIO-<br />

NE, FINO ALLA CONQUISTA ROMANA. IL<br />

TALMUD FU FISSATO PER ISCRITTO SOLO<br />

QUANDO, CON LA DISTRUZIONE DEL<br />

SECONDO TEMPIO, GLI EBREI TEMETTE-<br />

RO CHE LE BASI RELIGIOSE DI ISRAELE<br />

POTESSERO SPARIRE.


LA SCOPERTA<br />

SORPRENDENTE RITROVAMENTO IN UN EX CAMPO DI STERMINIO NAZISTA<br />

SOS DA AUSCHWITZ IN UNA BOTTIGLIA<br />

TROVATO DOPO 65 ANNI<br />

Nel messaggio, nascosto in un muro nel 1944,<br />

ci sono i nomi di 7 prigionieri<br />

Dai luoghi del dolore e degli<br />

orrori ogni tanto affiorano<br />

particolari che riaprono<br />

vecchie e mai rimarginate<br />

ferite. Durante i lavori di<br />

scavo e di abbattimento di un muro in<br />

quell’orrenda prigionia che fu il campo<br />

di Auschwtiz è saltato fuori un messaggio-appello,<br />

nascosto in una bottiglia,<br />

contenente 7 nomi di deportati tenuti<br />

rinchiusi nella macelleria<br />

dell’Olocausto.<br />

Il biglietto è stato già riconosciuto come<br />

autentico da uno dei sette prigionieri sopravvissuto,<br />

oggi ottantacinquenne.<br />

In una corrispondenza da Berlino, Danilo<br />

Taino sul “Corriere della Sera” ha così ricostruito<br />

la vicenda.<br />

“Un messaggio in una bottiglia, abbandonato<br />

un giorno del 1944 nel mare dell’orrore, è<br />

riemerso pochi giorni fa. E, ieri, uno dei prigionieri<br />

del lager simbolo dell’Olocausto ha<br />

detto che sì, lui era uno dei sette uomini il cui<br />

nome appare su quel pezzo di sacco di cemento,<br />

uno dei naufraghi della storia del<br />

Novecento che cercò di lasciare la prova della<br />

sua esistenza al caso. Anche il numero di registrazione<br />

sul messaggio corrisponde: è lo<br />

stesso 12063 che Albert Veissid, 85 anni,<br />

ancora oggi ha sul braccio.<br />

Durante la demolizione di un muro in una<br />

scuola di Oswiecim, il villaggio polacco che<br />

dal 1940 i tedeschi iniziarono a rendere famoso<br />

come Auschwitz, il 20 aprile<br />

scorso - a poche centinaia di<br />

metri dal campo di concentramento<br />

- è stata scoperta una<br />

bottiglia: dentro, arrotolato,<br />

c’era un pezzo di carta con un<br />

messaggio scritto a matita e<br />

sette nomi a ognuno dei quali<br />

corrisponde un numero di registrazione. I<br />

responsabili del Memoriale che oggi ricorda<br />

quegli anni hanno verificato l’autenticità del<br />

documento (del quale non si conosce il testo<br />

completo) e hanno ricostruito i fatti in questo<br />

modo: “Nel 1944, dei prigionieri edificarono<br />

un rifugio per i soldati, nelle vicinanze del<br />

lager, e devono avere messo la bottiglia nel<br />

muro a cui stavano lavorando”.<br />

“Non un grido di aiuto - scrive ancora Taino,<br />

che nessuno in un muro avrebbe trovato per<br />

chissà quanto tempo, dunque.<br />

Ma, probabilmente, un ponte verso il futuro<br />

che vedevano svanire attorno a loro ogni giorno.<br />

Forse il desiderio di fare<br />

sapere, a vent’anni, comunque<br />

fosse finita, che erano passati<br />

da questa terra ma gli era stato<br />

reso impossibile lasciare un<br />

segno diverso dalle poche<br />

parole su un pezzo di sacco di<br />

cemento che essi stessi, lavoratori<br />

schiavi, avevano portato<br />

Lettera ai compagni<br />

39


LA SCOPERTA<br />

sulle spalle”.<br />

Un paio di giorni fa, le autorità che gestiscono<br />

il Memoriale - Museo di Auschwitz -<br />

Birkenau hanno reso noti i nomi dei sette prigionieri<br />

- sei polacchi e un francese - che<br />

misero le loro speranze nella bottiglia: sapevano<br />

che almeno due erano usciti vivi dal<br />

campo di concentramento. Letta la notizia,<br />

un uomo del Nord della Polonia, attraverso<br />

Google, ha rintracciato Veissid a Marsiglia.<br />

L’ex internato non ricorda della bottiglia ma,<br />

dice oggi: “quelli sul messaggio sono assolutamente<br />

il mio nome e il mio numero di registrazione”.<br />

Le autorità polacche del Mausoleo<br />

cercano anche notizie su eventuali altri<br />

sopravvissuti, tra coloro che firmarono il<br />

messaggio. Oltre a Veissid, sono: Bronislaw<br />

Jankowiak di Pozzan, numero 121313;<br />

Stanislaw Dubla di Laskowice, numero<br />

130208; Jan Jasik di Radoma, numero<br />

131491; Waclaw Sobczak di Konina, numero<br />

145664; Karol Czekalski di Lodz, numero<br />

151090; Waldemar Bialobrzeski di Ostroleka,<br />

numero 157582. Sicuramente, i signori<br />

CzekaIski e Sobczak sopravvissero al campo<br />

di sterminio.<br />

“Il complesso di campi di lavoro e di stermi-<br />

40 Lettera ai compagni<br />

nio di Auschwitz - Birkenau - si legge sempre<br />

nella corrispondenza - fu il luogo dove il maggior<br />

numero di ebrei, prigionieri polacchi e<br />

Rom venneno sterminati: più di un milione.<br />

Aperto nel 1940, dopo l’occupazione della<br />

Polonia, inizialmente con scopi militari e di<br />

produzione, nel 1942 divenne il lager principale<br />

nel quale si realizzò la “soluzione finale”<br />

della questione ebraica decisa dai nazisti. Era<br />

gestito dalle SS e, sulla base delle esigenze<br />

belliche, destinava un certo numero di internati<br />

al lavoro, in media il 25 per cento, mentre<br />

il resto, la parte più debole dei prigionieri,<br />

era inviato alle camere a gas. Il 27 gennaio<br />

1945 arrivò l’Armata Rossa sovietica e almeno<br />

tre dei ragazzi che avevano scritto il loro<br />

nome su quel pezzo di carta furono liberi”.<br />

“Un altro messaggio in una bottiglia fu trovato<br />

nel 2003, sempre in un muro ma questa<br />

volta nel lager di Sachsenhausen, non lontano<br />

da Berlino. Era stato scritto nell’aprile del<br />

1944 da uno studente polacco, Tadeusz<br />

Witkowski, e da un comunista tedesco, Anton<br />

E., il quale annotava: “Voglio andare a casa.<br />

Quando vedrò i miei cari a Colonia? Ma il mio<br />

spirito non è spezzato. Presto, tutto sarà<br />

meglio”.


LA GERMANIA PROCESSA IL NAZISTA<br />

UCRAINO CHE STERMINÒ 29 MILA EBREI<br />

John Demjanjuk, meglio conosciuto<br />

come il boia di Soribor e<br />

responsabile dello sterminio<br />

di 29 mila ebrei, è stato estradato<br />

dagli USA e sarà processato<br />

in Germania. Del personaggio, che<br />

è uno dei più feroci criminali nazisti<br />

rimasti in vita, la “Lettera” si era occupata<br />

nel numero precedente quando<br />

Berlino ne aveva chiesto l’estradizione,<br />

al termine di una lunga e complicata<br />

vicenda che aveva coinvolto gli Usa e<br />

Israele.<br />

Ora, finalmente, il criminale nazista sarà condotto<br />

nell’aula di un tribunale per rendere<br />

conto dei suoi numerosi efferati omicidi alla<br />

magistratura tedesca, all’opinione pubblica<br />

mondiale, al Centro Wiesenthal che gli ha<br />

dato la caccia per tutti questi anni, alla comunità<br />

ebraica, ai sopravvissuti all’Olocausto.<br />

Naturalmente gli avvocati della difesa e la<br />

famiglia dell’imputato sostengono che il boia<br />

di Soribor è innocente e quindi vittima di un<br />

clamoroso errore giudiziario.<br />

John Demjanjuk, identificato dai superstiti<br />

come responsabile diretto nella morte di oltre<br />

29 mila deportati in quel campo di sterminio,<br />

una volta giunto in Germania dagli Stati<br />

Uniti, è stato rinchiuso nel carcere di<br />

Stadelheim, lo stesso che nel ’22 ebbe un altro<br />

“ospite” molto più illustre, Adolf Hitler.<br />

La Germania è determinata ad affrontare e<br />

chiudere il suo terribile passato.<br />

Il processo e la condanna del boia di Soribor<br />

rientra in questa finalità. Certo Demjanjuk<br />

non è in piena forma: ha 89 anni, in carcere<br />

è entrato assistito da un medico, da un’infermiera<br />

e da un prete, sta su una sedia a<br />

rotelle, si aiuta con un apparecchio respiratore,<br />

anche se il suo look non è da vecchietto<br />

(giacca di cuoio, berretto da baseball) e<br />

un video in Usa lo mostrava in tutt’altre condizioni<br />

fisiche.<br />

Il processo, indipendentemente dall’età e dal<br />

suo stato di salute, è un atto dovuto: ha sulla<br />

coscienza 29 mila vite umane distrutte, è uno<br />

GIUSTIZIA<br />

dei super ricercati del centro Wiesenthal, che<br />

lo considera, come criminale nazista, alla<br />

stessa stregua del “dottor Morte” Aribert<br />

Heim o Alois Brunner, nascosto e protetto in<br />

Siria. “E un segnale importante - dice la<br />

comunità ebraica -. Non si tratta di mettere<br />

alla sbarra un vecchio, ma di dimostrare che<br />

il braccio della giustizia sa colpire ovunque”.<br />

Per la presidente, Charlotte Knobloch, non si<br />

tratta di vendetta, bensì di rendere giustizia<br />

alle vittime. L’avvocato tedesco di<br />

Demjanjuk, Ulrich Busch, però insiste: il suo<br />

cliente non è la persona riconosciuta dagli<br />

internati sopravvissuti e contesta la competenza<br />

tedesca a giudicarlo. Come già abbiamo<br />

ricordato, il boia di Soribor nel 1988, estradato<br />

in Israele, fu processato e condannato a<br />

morte per poi essere assolto a causa dei dubbi<br />

sorti sulla sua reale identità.<br />

“Voglio la verità, deve dire tutto perché sa<br />

molto”, afferma Thomas Blatt, 82 anni, uno<br />

dei sopravvissuti di Sobibor chiamati a testimoniare.<br />

E ricorda: “Le guardie ucraine come<br />

lui erano le più accanite, uccidevano sul posto<br />

vecchi e malati, spingevano con le baionette i<br />

deportati nudi verso le camere a gas”.<br />

Demjanjuk, soldato ucraino dell’Armata<br />

rossa catturato dai nazisti, sarebbe passato<br />

dalla parte dei collaborazionisti a fianco del<br />

Terzo Reich. A Sobibor, sarebbe stato responsabile<br />

- come più volte detto - della morte di<br />

almeno 29mila ebrei deportati là dal Lager di<br />

transito olandese di Westerbork.<br />

“Dopo la guerra, - ricostruisce la<br />

“Repubblica” - riuscì ad andare negli Usa e a<br />

ottenerne la cittadinanza facendosi passare<br />

per deportato. La prima richiesta d’estradizione<br />

tedesca era stata sospesa, quando si era<br />

visto Demjanjuk in sedia a rotelle, boccheggiante,<br />

moribondo. Ma giorni fa un video lo<br />

ha mostrato camminare vigoroso davanti<br />

casa, e la giustizia americana ha cambiato<br />

idea. Perizie mediche tedesche ora diranno la<br />

parola decisiva. Se anche dovesse essere<br />

dichiarato incapace di affrontare processo e<br />

carcere, dovrà restare in Germania dopo l’espulsione<br />

dagli States”.<br />

Lettera ai compagni<br />

41


MEMORIA<br />

Acura del centro studi di lettura<br />

di Rivergaro, è uscito il<br />

bel libro “Dieci anni di guai<br />

(1943-1952)” di Gianni<br />

Mariani, dirigente socialista<br />

e per tanti anni vicepresidente della<br />

Provincia di Milano. Si tratta di un racconto<br />

intenso giocato sul filo della<br />

memoria, dallo stile secco, cronistico e<br />

coinvolgente. Eccone un piccolo significativo<br />

brano.<br />

“Il paese dove sono nato ed in cui sono<br />

ambientate gran parte delle cronache che mi<br />

accingo a raccontare è Rivergaro, comune<br />

piacentino della bassa Valtrebbia. Il paese,<br />

capoluogo dell’omonimo comune, contava<br />

poco più di duemila abitanti all’epoca in cui<br />

questi fatti avvennero, abitanti che con le frazioni<br />

si raddoppiavano.<br />

Il borgo è ubicato in riva alla Trebbia, sulle<br />

prime pendici dell’Appennino, lungo la strada<br />

statale che attraversando le montagne<br />

porta direttamente al porto di Genova; e ai<br />

commerci attivati da tale strada, costruita<br />

pare in epoca napoleonica, si deve con tutta<br />

probabilità lo sviluppo del paese avvenuto a<br />

partire dall’ottocento. La Trebbia, il fiume di<br />

questo racconto, la si vede scorrere mite e<br />

limpida nel proprio letto di ghiaia, d’estate<br />

come d’inverno, e solo qualche volta la si scopre<br />

selvaggia e devastatrice sotto l’impeto<br />

della piena…”<br />

“A Rivergaro è persistito a lungo il ricordo di<br />

quel che avvenne in una notte primaverile del<br />

1922, quando un centinaio di squadristi della<br />

bassa piacentina aveva circondato la casa (di<br />

una famiglia antifascista, quella dei Mariani,<br />

ndr) in Piazza Nuova, con l’intento di incendiarla.<br />

Tutto questo era stato organizzato per<br />

vendicare uno dei “ras” del fascismo della<br />

zona, un tal Barbieri, grande fittavolo di<br />

Ottavello, picchiato nel pomeriggio dallo zio<br />

Emilio in risposta alle violenze commesse<br />

dalla squadra d’azione di Gossolengo in vari<br />

42 Lettera ai compagni<br />

UN LIBRO DI GIANNI MARIANI RICORDA LA LOTTA A MUSSOLINI<br />

E AL SUO REGIME<br />

DIECI ANNI DI GUAI: COSÌ RIVERGARO<br />

COMBATTÈ IL FASCISMO<br />

paesi e villaggi dell’Alta Valtrebbia.<br />

Nella casa erano rinchiusi in quattro: mio<br />

padre, lo zio Emilio, il nonno Giuseppe, allora<br />

settantatreenne, e la zia Marietta.<br />

Mio padre impugnava l’unica arma, una<br />

pistola a tamburo, mentre lo zio ed il nonno si<br />

apprestavano ad una disperata difesa, armati<br />

rispettivamente di una scure e di una mazza<br />

da minatore.<br />

La zia Marietta passò dal solaio al tetto per<br />

invocare aiuto ma dovette scendere perché i<br />

fascisti sparavano con le doppiette da caccia,<br />

armi da fuoco tradizionali del fascismo agrario.<br />

La vicenda si risolse tuttavia senza danni poiché<br />

i carabinieri della locale stazione, comandati<br />

dal maresciallo Avanzi, sottufficiale efficiente<br />

e soprattutto coraggioso, si fecero largo<br />

fra i squadristi ed arrestarono i fratelli<br />

Mariani salvandoli, se non da morte sicura, o<br />

per lo meno da un pestaggio di grosse proporzioni.<br />

Ma la vicenda non si era ancora conclusa:<br />

infatti gli squadristi, passata la sorpresa per<br />

l’intervento dell’Arma, che non era affatto<br />

scontato in quel periodo, si riorganizzarono al<br />

comando di un ufficiale in congedo appena<br />

arrivato in auto da Piacenza in compagnia di<br />

altri gerarchi. Fu dunque deciso l’assalto alla<br />

caserma dei Carabinieri, che allora era situata<br />

sulla strada per Bobbio e Genova, alla periferia<br />

meridionale del paese.<br />

I carabinieri erano in sei, compreso il maresciallo<br />

e l’unico modo per far fronte a quel<br />

centinaio e passa di camicie nere era di far<br />

appello alla “solidarietà” degli arrestati e cioè<br />

dei due fratelli Mariani e di altri quattro giovanotti,<br />

che nel tardo pomeriggio avevano<br />

collaborato con lo zio Emilio alla “picchiatura”<br />

dei fascisti: tutti giovani con la recente<br />

esperienza della guerra e che perciò sapevano<br />

impiegare le armi con una certa perizia.<br />

Il maresciallo Avanzi fece dunque distribuire<br />

i moschetti con cinque caricatori a testa ed a<br />

mio padre fu riconsegnata la rivoltella.<br />

E fu così che quando i fascisti, armati di fuci-


li da caccia e di revolver, circondarono l’edifico<br />

ed iniziarono la sparatoria, si trovarono di<br />

fronte ad un fuoco di sbarramento del tutto<br />

inatteso che frenò di molto il loro slancio<br />

offensivo. Inoltre il maresciallo aveva già telefonato<br />

al comando dei carabinieri di Piacenza<br />

chiedendo rinforzi che infatti arrivarono di lì<br />

a un paio d’ore con un camion militare. A<br />

quel punto i fascisti pensarono bene di svignarsela,<br />

non senza però aver sparacchiato<br />

altri colpi ed aver lanciato roventi minacce al<br />

maresciallo, che per sua fortuna il massimo<br />

della carriera l’aveva già raggiunto.<br />

Il plotone dei carabinieri arrivato dalla città<br />

prese in consegna i “sovversivi”, che avevano<br />

immediatamente riconsegnato le armi per<br />

evitare ulteriori problemi ad un sottufficiale<br />

che già ne aveva parecchi, e con loro prelevarono<br />

uno squadrista che per non so quale<br />

ragione si era venuto a trovare in una stanza<br />

di sicurezza della caserma e che, tanto<br />

per restare nel clima della serata, era<br />

stato sonoramente schiaffeggiato<br />

dall’Angiolino Maretti, uno dei più giovani<br />

e indubbiamente il più spregiudicato<br />

della compagnia.<br />

A Piacenza i sei stettero in galera per<br />

un paio di settimane, in attesa di un<br />

processo che fu svolto con rito direttissimo<br />

sulla base giuridica di due denunce<br />

concomitanti: quella del fascio provinciale<br />

per le botte ricevute dal capobanda<br />

Barbieri ad opera del “sovversivo”<br />

Emilio Mariani in concorso con<br />

altri e quella presentata dal collegio di<br />

difesa dei sei antifascisti per il minacciato<br />

incendio dell’abitazione dei fratelli<br />

Mariani in Rivergaro (la benzina era<br />

già stata versata prima dell’arrivo dei<br />

carabinieri), per la sparatoria e per il<br />

tentativo d’assalto alla caserma<br />

dell’Arma.<br />

Dopo tre giorni di udienze polemiche e<br />

molto dibattute il processo si concluse<br />

con il proscioglimento degli imputati,<br />

fra gli schiamazzi e le minacce dei molti<br />

fascisti che affollavano il tribunale. I<br />

carabinieri scortarono i sei all’autocorriera<br />

per la Valtrebbia e l’autista della<br />

stessa, socialista militante, saltò volutamente<br />

la fermata di Niviano Chiesa,<br />

ove stazionavano da ore una ventina di<br />

squadristi armati di bastone per una<br />

MEMORIA<br />

“giusta e fascista” punizione. La sorpresa fu<br />

tale che costoro, tutti appiedati perché abitanti<br />

del luogo, non ce la fecero a tentare il<br />

benché minimo inseguimento.<br />

La vicenda tuttavia non si risolse senza conseguenze:<br />

se infatti mio padre se ne andò a<br />

lavorare a Monfalcone prima ed in Istria poi,<br />

lo zio Emilio, uomo senza paura, non si rassegnò<br />

a cambiare le sue abitudini e di lì a poco<br />

subì un’aggressione da parte di cinque ceffi in<br />

camicia nera.<br />

L’agguato avvenne sulla strada di<br />

Gossolengo, mentre lo zio, che integrava i<br />

suoi magri redditi facendo il carrettiere, tornava<br />

da Piacenza con un carro carico di carbone<br />

trainato da due cavalli.<br />

Lo zio si difese così bene con la frusta da carrettiere<br />

da costringere alla fuga gli aggressori<br />

limitando i danni ad un’ammaccatura al<br />

gomito sinistro.<br />

Lettera ai compagni<br />

43


CANTIERI APERTI<br />

Si è da poco conclusa a Torino<br />

(7-9 maggio) la quinta edizione<br />

del seminario annuale<br />

nazionale “Giellismo e<br />

Azionismo. Cantieri aperti”,<br />

dedicata a Vittorio Foa, che della stagione<br />

giellista e azionista è stato protagonista<br />

essenziale e testimone. Ideato<br />

e organizzato dall’Istituto piemontese<br />

per la storia della Resistenza e della<br />

società contemporanea “Giorgio<br />

Agosti” (Istoreto), anche quest’anno il<br />

seminario ha potuto contare sull’attiva<br />

collaborazione della Fiap.<br />

Si è giovato del prezioso sostegno della<br />

Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo oltre<br />

che dell’Associazione nazionale Riccardo<br />

Lombardi e di un contributo del Ministero per i<br />

Beni e le Attività culturali.<br />

La già nutrita rete di istituzioni culturali coinvolte<br />

nell’iniziativa tra il 2008 e il 2009 si è<br />

ulteriormente arricchita e sono ben dieci quelle<br />

che hanno dato la propria adesione:<br />

l’Associazione per studi e ricerche Manlio<br />

Rossi-Doria di Roma, la Biblioteca Archivio<br />

Storico Piero Calamandrei di Montepulciano, il<br />

Centro Studi e Ricerca Silvio Trentin di Jesolo,<br />

il Centro Studi Piero Calamandrei di Jesi, il<br />

Centro Studi Piero Gobetti di Torino, la<br />

Fondazione Bruno Zevi di Roma, la Fondazione<br />

Centro di iniziativa giuridica Piero<br />

Calamandrei di Roma, la Fondazione Europea<br />

Luciano Bolis di Pavia, la Fondazione Rosselli<br />

di Torino, la Fondazione Ugo La Malfa di<br />

Roma.<br />

Anche in questa quinta edizione è stata riproposta<br />

l’articolazione dei lavori in due parti,<br />

rispettivamente dedicate alla ricognizione di<br />

ricerche in corso - quest’anno davvero numerose<br />

- e alla rassegna di opere edite, cinque in particolare,<br />

scelte tra quelle uscite tra il 2008 e il<br />

2009. Molti gli spazi di dibattito tra i partecipanti,<br />

coordinati dal direttore del seminario e<br />

44 Lettera ai compagni<br />

GRANDE INTERESSE PER LA 5ª EDIZIONE DEL SEMINARIO<br />

ORGANIZZATO DALL’ISTORETO<br />

GIELLISMO E AZIONISMO: RIFLESSIONI<br />

SU ANTIFASCISMO E RESISTENZA<br />

di Chiara COLOMBINI<br />

vicepresidente dell’Istoreto, Giovanni De Luna,<br />

e dai presidenti delle sessioni che hanno scandito<br />

i lavori: Francesco Berti Arnoaldi Veli, presidente<br />

della Fiap, Mario Giovana, Aldo Agosti,<br />

Franzo Grande Stevens, presidente della<br />

Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo, e<br />

Nerio Nesi, presidente dell’Associazione nazionale<br />

Riccardo Lombardi.<br />

Al centro della prima sessione dei lavori - introdotta<br />

da Gianni Oliva, assessore alla Cultura<br />

della Regione Piemonte, e da Claudio<br />

Dellavalle, presidente dell’Istoreto, e tenutasi<br />

alla presenza di Sesa Tatò - sono state la figura<br />

e l’esperienza di Vittorio Foa; si è discusso<br />

prima delle sue riflessioni politiche sviluppate<br />

sia nel periodo della cospirazione giellista sia<br />

nella fase della militanza nel PdA (Andrea<br />

Ricciardi), poi del suo rapporto personale, politico<br />

e sindacale con Bruno Trentin nei decenni<br />

del dopoguerra (Alessandro Casellato).<br />

La discussione, nel corso della seconda sessione,<br />

si è concentrata sulla stagione di Giustizia e<br />

Libertà, soffermandosi su numerosi protagonisti<br />

- da Nello Rosselli e Giustino Fortunato<br />

(Simone Visciola), a Barbara Allason e Ada<br />

Gobetti (Noemi Crain Merz), a Luigi<br />

Salvatorelli (Giovanni Scirocco) -, sulla battaglia<br />

condotta dal movimento attraverso il settimanale<br />

“Giustizia e Libertà” pubblicato a Parigi<br />

(Chiara Colombini), su realtà periferiche e poco<br />

note, come quella di Parma, dell’area dell’antifascismo<br />

democratico riconducibile a GL<br />

(Marco Minardi).<br />

Nella terza sessione del seminario sono stati<br />

tratteggiati i profili di alcuni importanti protagonisti<br />

della stagione giellista e azionista.<br />

Gianni Cisotto e Carlo Verri, impegnati nello<br />

studio di Silvio Trentin, hanno analizzato<br />

rispettivamente la sua esperienza nell’ambito<br />

della democrazia radicale nelle elezioni succedutesi<br />

tra il 1919 e il 1924 e il suo rapporto epistolare<br />

con Pietro Nenni nel corso degli anni<br />

Trenta. Di Carlo Levi hanno parlato Elisa<br />

Oggero, che ha tracciato la storia della sceneggiatura<br />

cinematografica (L’ultimo fascista) da


lui scritta con Alberto Moravia, e Filippo<br />

Benfante, che ha ripercorso l’esperienza di Levi<br />

tra la Francia e l’Italia dalla metà degli anni<br />

Trenta al periodo della Resistenza, fino ai primi<br />

anni del dopoguerra. In questa sede si è infine<br />

dibattuto di Emilio Lussu, dello sviluppo del<br />

suo pensiero politico, dal sardismo alla cospirazione<br />

giellista in Francia, dall’adesione al PdA<br />

(Paolo Giaccone) al suo impegno nello studio e<br />

nella ricostruzione delle convulse vicende legate<br />

alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre<br />

1943 (Renzo Ronconi).<br />

Nella quarta sessione sono stati al centro dell’attenzione<br />

molti temi, legati sia all’impegno<br />

culturale degli azionisti, sia ai loro percorsi<br />

politici all’indomani della dissoluzione del partito.<br />

È stato analizzato il ricco e lungo dialogo<br />

tra Alessandro Galante Garrone e Franco<br />

Venturi sulla figura di Filippo Buonarroti, alla<br />

ricerca delle radici dell’eguaglianza e del socialismo<br />

(Manuela Albertone); ha avuto spazio la<br />

riflessione sulle culture giuridiche chiamate a<br />

confrontarsi nella Costituente (Fulvio Cortese);<br />

ci si è soffermati sul fitto confronto tra Enzo<br />

Enriques Agnoletti e Tristano Codignola circa<br />

lo scioglimento del PdA e le prospettive politiche<br />

allora apertesi davanti ai protagonisti della<br />

diaspora azionista (Andrea Becherucci), sull’impegno<br />

riformatore di Manlio Rossi-Doria<br />

declinato in particolare sulle problematiche del<br />

Mezzogiorno (Simone Misiani), sulle posizioni<br />

assunte da Aldo Garosci, Carlo Ludovico<br />

Ragghianti e Leo Valiani di fronte alla nascita<br />

del Partito radicale (Elena Savino).<br />

Un’intera sessione dei lavori è stata dedicata a<br />

una ricognizione di fonti archivistiche.<br />

L’illustrazione dell’ordinamento e della digitalizzazione<br />

dell’archivio di lavoro di Alessandro<br />

Galante Garrone (Michelarcangelo Casasanta),<br />

la mappatura dei molteplici archivi che conservano<br />

le carte di Piero Calamandrei (Francesca<br />

Cenni) e la descrizione delle carte di Franco<br />

Antonicelli custodite a Jesi (Valentina Conti)<br />

hanno lasciato emergere l’importanza storiografica<br />

di queste fonti in grado di offrire squarci<br />

significativi per la conoscenza della storia del<br />

Novecento italiano. I lavori del seminario si<br />

sono conclusi con la presentazione di alcune<br />

novità editoriali. Simon Levis Sullam ha discusso<br />

con Davide Grippa, autore di “Un antifascista<br />

tra Italia e Stati Uniti. Democrazia e identità<br />

nazionale nel pensiero di Max Ascoli (1898-<br />

1947)” (FrancoAngeli 2009). Scelto per la pubblicazione<br />

tra le ricerche al centro dell’edizione<br />

CANTIERI APERTI<br />

2008 dei Cantieri, questo studio costituisce oggi<br />

il terzo titolo della collana dell’Istoreto<br />

“Testimoni della libertà”, realizzata grazie al<br />

sostegno della Fondazione avvocato Faustino<br />

Dalmazzo. Ersilia Alessandrone Perona, direttore<br />

dell’Istoreto, ha presentato il volume di<br />

Patrizia Gabrielli “Tempio di virilità.<br />

L’antifascismo, il genere, la storia” (Franco-<br />

Angeli 2008), riprendendo e sviluppando il tema<br />

del ruolo della partecipazione politica femminile<br />

già affrontato nel corso delle precedenti giornate<br />

del seminario. La figura di Andrea Caffi è emersa<br />

dal confronto tra due recenti studi: “La rivoluzione<br />

perduta. Andrea Caffi nell’Europa del<br />

Novecento” (il Mulino 2009), di Marco<br />

Bresciani, e Scritti scelti di un socialista libertario<br />

(Biblion 2008), a cura di Sara Spreafico,<br />

entrambi presentati da Antonello Venturi.<br />

Domenico Scarpa si è confrontato con Giorgio<br />

Panizza, curatore di Scritti sul fascismo e sulla<br />

Resistenza di Carlo Dionisotti (Einaudi 2008),<br />

sul nesso esistente tra filologia e letteratura da<br />

un lato e impegno politico dall’altro. Sono due le<br />

principali riflessioni che gli ampi spazi di dibattito<br />

di questa quinta, ricca, edizione dei Cantieri<br />

hanno lasciato emergere. I Cantieri sono la testimonianza<br />

diretta del fiorire di studi sul giellismo<br />

e sull’azionismo portati avanti da una generazione<br />

di giovani storici libera dai condizionamenti,<br />

anche ideologici, del passato. Un rigoglio<br />

che contrasta con il silenzio di questi ultimi anni<br />

sul discorso dell’antifascismo e della Resistenza<br />

da parte di altri filoni culturali e storiografici (in<br />

particolare quelli legati all’ex Pci), travolti dalle<br />

trasformazioni politiche dovute al declino della<br />

forma partito novecentesca, che nei decenni<br />

passati è stata punto di riferimento essenziale<br />

anche per la raccolta organica di fonti archivistiche.<br />

Tutto ciò - ha sottolineato Giovanni De Luna<br />

- lascia a quest’ambito di studi una forte responsabilità<br />

e pone la sfida di intraprendere una narrazione<br />

storica pervasiva su tutta la storia<br />

d’Italia, che assuma come cardine proprio la stagione<br />

giellista e azionista e i suoi protagonisti. È<br />

in questa direzione che si sono sviluppati i<br />

Cantieri del 2009, da un lato mettendo in luce le<br />

radici culturali dei giellisti e degli azionisti (in<br />

particolare con la mostra documentaria<br />

“Dall’Università alla cospirazione alla<br />

Resistenza”, organizzata nella propria sede<br />

dall’Archivio storico dell’ateneo torinese, in collaborazione<br />

con l’Istoreto), dall’altro approfondendone<br />

i percorsi biografici, esistenziali e politici<br />

nei decenni del dopoguerra.<br />

Lettera ai compagni 45


CHE TEMPI!<br />

Grande subbuglio a<br />

Vigevano, in provincia di<br />

Pavia, per la singolare e<br />

sgradevolissima iniziativa<br />

di un sagrestano della parrocchia<br />

di San Francesco, nelle vicinanze<br />

della centralissima e famosa<br />

Piazza Ducale: all’ora della messa, ha<br />

accolto i fedeli sul sagrato con una<br />

vistosa fascia al braccio riproducente<br />

una svastica nazista.<br />

Qualcuno avrà pensato che il sagrestano,<br />

Angelo Idi, fosse all’improvviso impazzito o<br />

che volesse fare uno scherzo di pessimo<br />

gusto, tanto per mettersi in mostra. Ma lui,<br />

imperturbabile, ha spiegato: “Sono di estrema<br />

destra e questa fascia non è altro che una<br />

libera espressione del mio pensiero”.<br />

“È semplicemente una cosa vergognosa”<br />

hanno replicato numerosi parrocchiani, ma<br />

Angelo Idi, 51 anni, che da 5 anni fa il sacrista<br />

della chiesa di San Francesco, lì sul sagrato<br />

non si mostra particolarmente turbato, anzi<br />

sembra addirittura stupito della reazione dei<br />

fedeli. E ribadisce: «È stata una mia libera<br />

espressione. Siamo ancora in un Paese libero,<br />

o no?». Va aggiunto che per questa inqualificabile,<br />

spudorata sceneggiata, il sacrista ha<br />

scelto proprio la giornata dedicata alla commemorazione<br />

delle vittime della Shoah. E,<br />

quasi a rincarare la dose, aggiunge:<br />

“Veramente non lo sapevo, ma non mi pare<br />

comunque che in questi anni gli israeliani<br />

abbiano avuto la mano leggera con i palestinesi”.<br />

Capelli cortissimi e occhialini tondi,<br />

Angelo Idi ha dichiarato al “Corriere della<br />

Sera”: “Sì, io sono di estrema destra e sono<br />

fiero di esserlo. Mi sento il portavoce delle<br />

Brigate Nere, dei giovani combattenti della<br />

Repubblica di Salò che non hanno svenduto il<br />

46 Lettera ai compagni<br />

INCREDIBILE EPISODIO SUL SAGRATO DELLA PARROCCHIA<br />

S. FRANCESCO VICINO A PIAZZA DUCALE<br />

IL SACRESTANO DI VIGEVANO<br />

CON LA SVASTICA AL BRACCIO<br />

Il suo primo commento: “Sono di destra, è libera espressione”<br />

Dure le reazioni: va subito rimosso<br />

loro onore e la patria, come invece hanno<br />

fatto coloro che, definendosi combattenti,<br />

hanno fomentato una guerra fratricida”.<br />

Al periodico «La Legione » ha scritto una lettera<br />

per porgere le scuse dell'Italia alla famiglia<br />

Mussolini spiegando: “In chiesa lavoro<br />

col massimo dell'impegno. Del resto quanti<br />

buoni cattolici votano a sinistra e quanti si<br />

sono espressi a favore dell'aborto?”. Come<br />

dire: per la Chiesa è meglio un sacrista nazista<br />

che di sinistra.<br />

La trovata di questo Idi, al di là di quello che<br />

faranno le autorità ecclesiastiche, il suo parroco,<br />

o l’autorità giudiziaria (rischia come<br />

minimo di essere denunciato per violazione<br />

della legge), merita di essere sottolineata per<br />

la sua impudenza e per la sua gravità.<br />

La domanda è: come può un sacrista proporsi<br />

ai suoi fedeli con idee che sono state rifiutate<br />

dalla civiltà e dalla storia: idee aberranti che<br />

inneggiano alle camere a gas, ai campi di sterminio,<br />

alle deportazioni, alla violenza più<br />

cieca?. Un uomo con queste idee, che le ostenta<br />

con protervia sulla piazza principale del suo<br />

paese e davanti a una chiesa, non può quantomeno<br />

continuare a fare il lavoro che fa. Ma in<br />

Italia, ormai, non c’è limite al peggio.


COMPLESSA VICENDA GIUDIZIARIA A MENAGGIO, SULLE RIVE<br />

DEL LAGO DI COMO<br />

VITTIME GRECHE DEI NAZISTI<br />

IPOTECANO UNA LUSSUOSA VILLA<br />

È di proprietà del governo tedesco - Berlino<br />

e l’Italia si oppongono alla richiesta di pignoramento<br />

Il risarcimento riguarda l’eccidio di Distomo<br />

Una bellissima villa sul lago<br />

di Como, di proprietà del<br />

governo tedesco, è al centro<br />

di una vicenda giudiziaria<br />

complessa: la Grecia ne<br />

ha chiesto il pignoramento per risarcire<br />

le vittime di un eccidio avvenuto a<br />

Distomo da parte delle truppe naziste.<br />

Non si sa se quanto la richiesta greca sia fondata:<br />

nel merito dovrà decidere il tribunale di<br />

Como che dovrà tenere anche conto dell’opposizione<br />

alla richiesta da parte sia dell’Italia<br />

sia di Berlino.<br />

Per ora, comunque, su Villa Vigoni, splendida<br />

e lussuosa residenza affacciata sul lago di<br />

Como a Menaggio, sventola la bandiera tedesca.<br />

Ma l'ipoteca avanzata dai familiari delle<br />

vittime della strage compiuta dalla<br />

Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale<br />

in Grecia potrebbe approdare a un cambio<br />

di proprietà dell’immobile.<br />

La strada che ha portato all'udienza davanti<br />

al giudice civile di Como Vito Febbraro - così<br />

come viene ricostruita dal “Corriere della<br />

Sera” - è assai più tortuosa. “I governi tedesco<br />

e italiano, da un lato, chiedono la cancellazione<br />

dell'ipoteca per ragioni formali (la richiesta<br />

è stata tardiva e redatta su documenti non<br />

tradotti dall'originale, ha sostenuto in udienza<br />

l'avvocato Virginia Marzi; gli eredi delle<br />

LA LITE<br />

vittime della strage nazista - difesi dall'avvocato<br />

tedesco Joachim Lau - chiedono invece<br />

che venga mantenuta l’ipoteca su Villa<br />

Vigoni, a mo’ di garanzia per il risarcimento<br />

richiesto allo Stato tedesco e già sancito da<br />

una sentenza della Cassazione”.<br />

“Per capire, occorre fare un balzo nel tempo e<br />

nello spazio e riandare al ’44 e al piccolo villaggio<br />

di Distomo, nel nord della Grecia.<br />

Nel giugno del ’44 i soldati del Fuhrer compiono<br />

un eccidio, ammazzando 218 civili, tra<br />

i quali 34 bambini. Il Tribunale della Grecia<br />

ha già riconosciuto il diritto degli eredi ad<br />

avere un risarcimento, ma il problema è come<br />

ottenerlo. A questo punto la storia approda in<br />

Italia, dove da quasi trent'anni l’avvocato Lau<br />

si batte a difesa delle vittime del nazismo,<br />

siano essi ex deportati in lager e campi di<br />

lavoro o discendenti di civili ammazzati.<br />

Lau ha fatto dichiarare dalla Corte di<br />

Cassazione che la sentenza pronunciata in<br />

Grecia è “eseguibile” anche in Italia; possono<br />

dunque essere aggrediti beni del governo<br />

tedesco presenti nel nostro Paese.<br />

La vicenda, partita 65 anni fa dalle montagne<br />

della Grecia, approda dunque sul Lario, dove<br />

c’è Villa Vigoni, donata da un privato, nell’83<br />

alla Germania e divenuta centro culturale di<br />

rilievo internazionale. Non è sede diplomatica<br />

- anche se di recente è stata teatro di incontri<br />

tra ambasciatori - e per questo può essere<br />

eventualmente pignorata e “congelata” come<br />

garanzia per il risarcimento delle vittime.<br />

Tutto questo se il giudice di Como confermerà<br />

nei prossimi mesi il pignoramento”.<br />

La sentenza è attesa anche dai familiari di<br />

altre vittime di stragi naziste o fasciste perché<br />

potrebbe fare da apripista per ulteriori<br />

vicende giudiziarie con relative richieste di<br />

risarcimenti.<br />

Lettera ai compagni<br />

47


IL LIBRO<br />

UN GRUPPO DI LAVORO STA ORGANIZZANDO LO STUDIO DELLA FIGURA<br />

DEL SINDACALISTA<br />

Acura di Iginio Ariemma,<br />

coordinatore del gruppo di<br />

lavoro incaricato di organizzare<br />

lo studio della figura e<br />

dell’opera di Bruno Trentin,<br />

è uscito il volume “Bruno Trentin, tra il<br />

Partito d’Azione e il Partito Comunista,<br />

per i tipi dll’editrice romana Ediesse.<br />

Nell’introduzione Ariemma scrive: “Il convegno<br />

di Padova “Bruno Trentin. La cultura del<br />

lavoro e della libertà” - tenuto nell’Aula<br />

Magna dell’Università il 16 ottobre 2008 - ha<br />

consentito di approfondire un periodo molto<br />

importante per la formazione culturale e politica<br />

di Bruno Trentin. Bruno si laurea a<br />

Padova il 16 ottobre 1949. Poco dopo lascerà<br />

il Veneto e si trasferirà a Roma all’Ufficio<br />

studi della CGIL nazionale. Dopo la caduta di<br />

Mussolini era arrivato nel Veneto dalla<br />

Francia i primi di settembre, con suo padre e<br />

suo fratello, ed era andato ad abitare a<br />

Treviso nella casa del nonno Nardari, il padre<br />

di sua madre. Si iscrive quasi subito, il 1°<br />

novembre, all’Università di Padova, alla<br />

Facoltà di Giurisprudenza, sebbene la sua<br />

confessata vocazione fosse l’economia, per<br />

cui, privatamente, prende lezioni di matematica.<br />

Assiste, insieme al padre, all’inaugurazione<br />

dell’anno accademico, durante la quale<br />

Concetto Marchesi respinge l’aggressione<br />

fascista (9 novembre). Dieci giorni dopo verrà<br />

arrestato con suo padre; e dopo la morte di<br />

Silvio, nel marzo 1944, salirà in montagna<br />

nelle file di Giustizia e Libertà, prima nelle<br />

Prealpi venete, poi a Milano.<br />

In quegli anni, a parte la parentesi di Milano<br />

durante la guerra partigiana, l’impegno nel<br />

Pda fino allo scioglimento (autunno 1944 -<br />

autunno 1947) e il viaggio negli Stati Uniti, ad<br />

Harvard (1947), il triangolo Padova Treviso<br />

Venezia è stato al centro della sua vita.<br />

L’università di Padova ha avuto dunque una<br />

decisiva influenza sulla sua formazione. In<br />

particolare l’ha avuta l’Istituto di Filosofia del<br />

48 Lettera ai compagni<br />

BRUNO TRENTIN AZIONISTA ASSETATO<br />

DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ<br />

diritto, diretto da Norberto Bobbio che aveva<br />

come primo assistente Enrico Opocher, il<br />

futuro rettore dell’Università, che sarebbe<br />

stato il relatore della sua tesi di laurea.<br />

Bobbio lascerà la cattedra di Padova per trasferirsi<br />

a Torino alla fine dell’anno accademico<br />

1947-48 e al suo posto verrà nominato<br />

appunto Opocher, il 30 novembre 1948. Il<br />

rapporto tra Bruno e Opocher finora non è<br />

stato approfondito. Ma deve essere stato<br />

molto intenso. Entrambi erano militanti e<br />

dirigenti del Pda. Opocher, di radice trevigiana<br />

come il padre Silvio e lo stesso Bruno,<br />

aveva partecipato alla prima riunione della<br />

fondazione dell’azionismo veneto.<br />

Il “Bo” aveva nel suo insieme - professori e<br />

studenti - un orientamento in prevalenza<br />

antifascista. Anzi era diventato il centro animatore<br />

e organizzatore della cospirazione e<br />

della Resistenza veneta, non soltanto culturale<br />

e politica, ma anche armata, come ricordano<br />

la testimonianza di Franco Busetto e la<br />

relazione di Silvio Lanaro. Padova è l’università<br />

dell’appello ai giovani di Concetto<br />

Marchesi, che scuote gli atenei italiani, di<br />

Egidio Meneghetti, di Eugenio Curiel. Forse<br />

per questo la Repubblica Sociale di Mussolini<br />

aveva insediato il Ministero dell’Educazione<br />

nazionale proprio a Padova. Insieme ai nomi<br />

citati parecchi altri erano i professori antifascisti,<br />

tra cui gli stessi Bobbio e Opocher. Lo<br />

sapevano bene le squadracce fasciste, che<br />

erano state sbeffeggiate da Marchesi e pertanto<br />

davano la caccia senza sosta allo stesso<br />

Marchesi e a Meneghetti, e arrestarono prima<br />

Silvio e Bruno Trentin, poi Norberto Bobbio,<br />

e infine assassinarono Curiel a Milano.<br />

In questa temperie culturale, che permarrà<br />

anche dopo la guerra partigiana, si forma<br />

Bruno. Una temperie molto vivace se, il 14<br />

marzo 1949, Enrico Opocher tiene la sua prolusione<br />

che porta come titolo Il diritto senza<br />

verità: la crisi dell’ideologia laica nell’esperienza<br />

giuridica contemporanea, in cui<br />

denuncia la crisi dello Stato di diritto, e


soprattutto la “dipendenza diretta o indiretta<br />

del diritto dalla volontà statuale”. “La sua<br />

forma positiva - dice - , pur necessaria a<br />

garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo<br />

della sua validità, l’unico criterio della sua<br />

giuridicità, e per questa via esso è diventato<br />

l’indispensabile strumento per realizzare,<br />

perpetuare e giustificare la volontà dominante,<br />

per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi<br />

avventura, per assicurare validità oggettiva<br />

allo stesso arbitrio”. Frasi molto forti, e<br />

soprattutto antiformaliste, che sono diverse<br />

da quelle di Norberto Bobbio, allora fautore<br />

del positivismo logico, che mira a rendere<br />

rigoroso il linguaggio giuridico del legislatore.<br />

“Impresa disperata” commenta Opocher,<br />

perché “idealizza e gigantizza il legislatore”.<br />

Anche Bobbio abbandonò presto questa tesi<br />

“originale, ma tutt’altro che fondata”.<br />

La tesi di laurea di Bruno risente più dell’insegnamento<br />

di Opocher che di quello di<br />

Bobbio. A cominciare dal titolo: La funzione<br />

del giudizio di equità nella crisi giuridica contemporanea<br />

(con particolare rifèrimento<br />

all’esperienza giuridica nordamericana). Ma<br />

il debito maggiore è sui contenuti principali<br />

della tesi: non esiste certezza del diritto senza<br />

equità e senza adeguamento del diritto alle<br />

trasformazioni e ai movimenti della realtà<br />

sociale, come mette bene in luce la relazione<br />

di Giuseppe Zaccaria, rilevandone i meriti,<br />

ma anche le ombre e le contraddizioni.<br />

L’influenza di Opocher non si limita a questo.<br />

Probabilmente ha riflessi anche sulla concezione<br />

del potere che Bruno si porterà con sé<br />

anche in futuro. Opocher sosteneva che il<br />

potere politico è “del tutto irrazionale”, in<br />

quanto alcuni individui, o meglio le élites<br />

politiche, “possono, hic et nunc, condizionare<br />

la volontà e l’azione di altri individui, malgrado<br />

l’assoluta estraneità della loro vita”.<br />

La soluzione - dice Opocher - non è la razionalizzazione<br />

del potere, mediante la conquista<br />

di esso, ma “la denuncia dell’esercizio<br />

abusivo del potere”. Quanto sia rimasto in<br />

Bruno di questa concezione filosofica è difficile<br />

dirlo, è certo che Bruno ha sempre avuto<br />

una sorta di diffidenza verso il potere politico<br />

e verso il verticismo politico che prescinda<br />

dal rapporto fondante e dal controllo della<br />

società civile.<br />

Giustamente Zaccaria ha osservato che la tesi<br />

di Bruno è anche un omaggio a suo padre<br />

IL LIBRO<br />

Silvio, che nel 1935 aveva pubblicato La crise<br />

du Droit et de l’Etat, in cui netta è la presa di<br />

distanza nei confronti del formalismo giuridico<br />

e persino costituzionale. Il federalismo,<br />

che è il grande sogno di Silvio, va ben oltre il<br />

disegno di architettura istituzionale per divenire<br />

una costruzione, per così dire, strutturale,<br />

che si radica nell’economia, nella società e<br />

nella vita quotidiana e soprattutto nella libertà<br />

delle persone. Un federalismo, pertanto,<br />

non basato sulla spesa pubblica e sul suo gonfiamento,<br />

centrale o decentrato che sia, come<br />

si sta delineando oggi, ma sull’autogoverno<br />

dei cittadini, della società civile, degli enti<br />

locali e delle istituzioni intermedie, economiche<br />

e sociali, che via via possono crearsi per<br />

dare maggiore solidità al tessuto federale.<br />

Questa idea è di grande attualità; e ho visto<br />

con favore che è stata rilanciata dal<br />

Presidente della Repubblica, Giorgio<br />

Napolitano.<br />

Bruno non si laureò con un voto alto - 99/110<br />

- ma occorre tener conto che non volle nessun<br />

sconto, come rivendicarono altri reduci della<br />

guerra partigiana, e che praticamente il corso<br />

degli studi si era concentrato in due anni,<br />

1947-49, per giunta con notevoli difficoltà<br />

relative alla cultura e alla lingua italiana,<br />

avendo frequentato i precedenti gradi scolastici<br />

in Francia.<br />

Gli anni dell’Università di Padova sono<br />

importanti non soltanto per la sua formazione<br />

culturale, ma anche per la sua formazione<br />

politica. Presumibilmente nel 1950 si iscriverà<br />

infatti al Partito comunista, in cui militerà<br />

tutta la vita, mentre prima, dal rientro in<br />

Italia nel settembre 1943 fino allo scioglimento<br />

nel 1947, era stato iscritto e dirigente di<br />

Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Il<br />

suo impegno per la costruzione del movimento<br />

giovanile azionista, di cui era responsabile<br />

nazionale, è stato molto intenso subito dopo<br />

la Liberazione.<br />

Tra le sue carte sono state ritrovate due lettere<br />

ad un giovane di nome Guido che viveva in<br />

Francia, probabilmente a Tolosa (non meglio<br />

identificato), a questo proposito di sicuro<br />

interesse, poiché Bruno dichiara che intende<br />

costruire un nuovo partito, che abbia basi storiche<br />

e che sia internazionale, di massa, “non<br />

un piccolo partito di gente per bene” come<br />

vogliono alcuni. E che per questo scopo è<br />

necessaria l’alleanza con il Partito socialista”.<br />

Lettera ai compagni<br />

49


RECENSIONE<br />

Allo Spazio Chiamamilano è<br />

stata presentata la pubblicazione<br />

di Alessia Potecchi:<br />

“Dal PSI al PD: il mio impegno<br />

politico nel Circolo W.<br />

Sabbadin”, con prefazione di Carlo<br />

Fontana. Sono intervenuti Carlo<br />

Grezzi, presidente della Fondazione<br />

Giuseppe Di Vittorio, il deputato Carlo<br />

Carli, il prof. Alceo Riosa, il senatore<br />

Carlo Fontana e l’autrice.<br />

Il libro ripercorre le tappe e il percorso politico<br />

della giovane Alessia Potecchi che dalla<br />

militanza nel Psi l’hanno portata alla recente<br />

adesione al Partito democratico e alla fondazione<br />

del Circolo dedicato alla memoria di<br />

Walter Sabbadin.<br />

In particolare, il libro si sofferma proprio su<br />

questo passaggio politico importante che ha<br />

condotto i Ds nel Pd: una scelta coraggiosa e<br />

difficile nello stesso tempo, che portava con<br />

sé numerosi punti interrogativi soprattutto<br />

per chi, come l’autrice, proveniva dalla tradizione<br />

socialista e nel 1998, dopo<br />

Tangentopoli, aveva deciso di aderire ai Ds,<br />

convinta che questo partito potesse diventare<br />

una moderna forza socialista e riformista che<br />

avesse l’Europa come punto di riferimento.<br />

Vi era poi la questione della collocazione europea<br />

che non dava certamente per scontata l’adesione<br />

al Pse del nuovo partito e quindi risultava<br />

un ulteriore passo indietro rispetto alle<br />

scelte che si erano compiute in precedenza e<br />

poi ancora la laicità. L’ultimo congresso dei Ds,<br />

è stato un passaggio sofferto: alcuni compagni<br />

socialisti che militavano nei Ds decisero di<br />

abbandonare il partito perché non si ritrovavano<br />

nel progetto del Pd e aderirono ad altre formazioni<br />

politiche. Alessia e altri hanno invece<br />

voluto hanno riflettuto sul fatto che comunque<br />

valesse la pena di provare, per citare le parole<br />

di Giorgio Ruffolo, con la convinzione che la<br />

cultura socialista non potesse mancare a questo<br />

traguardo: riunire le culture riformiste che<br />

50 Lettera ai compagni<br />

PRESENTATO UN LIBRO DI ALESSIA POTECCHI,<br />

SEGRETARIA REGIONALE DELLA <strong>FIAP</strong><br />

APPASSIONATO IMPEGNO<br />

PER RIUNIRE LE CULTURE RIFORMISTE<br />

hanno fatto la storia politica del nostro paese e<br />

che ora non hanno più ragione di essere divise<br />

come lo erano un tempo. Proprio qui, in questa<br />

fase, nasce il Circolo Walter Sabbadin, per<br />

ricordare e continuare il lavoro di un dirigente<br />

politico che ha speso gran parte della sua vita<br />

in un impegno costante e gratuito al servizio<br />

della politica e di altre numerose attività, e per<br />

testimoniare la presenza della cultura socialista<br />

all’interno del Pd.<br />

Questo il motivo per cui al nome del Circolo,<br />

che aderisce al forum milanese e nazionale<br />

delle Associazioni per il Pd, è stato aggiunto<br />

l’aggettivo laburista, proprio per testimoniare<br />

e sottolineare la presenza dei socialisti all’interno<br />

del nuovo soggetto politico.<br />

La seconda parte del libro è dedicata alle attività<br />

e al gran lavoro svolto dal Circolo a due<br />

anni dalla fondazione. Vi sono raccolte tutte<br />

le locandine degli eventi, dei convegni e delle<br />

iniziative realizzate dal Circolo con i nomi<br />

degli ospiti che vi hanno preso parte. Sono<br />

iniziative importanti con relatori di spessore<br />

e di livello che testimoniano come il Circolo<br />

sia radicato e interagisca anche con altre<br />

associazioni; proprio di recente è stata stipulata,<br />

a tal proposito, una convenzione di collaborazione<br />

con la Fondazione Giuseppe Di<br />

Vittorio presieduta da Carlo Grezzi.<br />

Purtroppo le ultime vicende politiche non<br />

hanno dato i frutti e i risultati sperati, come<br />

sottolinea l’autrice nelle conclusioni: il Pd ha<br />

fatto e fa fatica a radicarsi, a creare consenso<br />

e a svolgere un’azione politica matura anche a<br />

causa delle numerose ed importanti questioni<br />

rimaste irrisolte. Il Circolo laburista di cultura<br />

e politica Walter Sabbadin continuerà ad<br />

impegnarsi affinché si arrivi alla costruzione<br />

di un partito che sia davvero una forza riformista<br />

di stampo europeo in grado di dare le<br />

giuste risposte ai travagli di una società sempre<br />

più in cambiamento avendo come obiettivo<br />

quello di tenere sempre viva la cultura<br />

socialista che ha ancora tantissimo da dare e<br />

per questo merita di essere valorizzata.

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