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La cultura della guerra e le sue metamorfosi 55<br />
far entrare il cavallo, Parigi non è più la polis protetta da mura fortificate<br />
che le donne non possono attraversare.<br />
Cominciata molto prima dell’inizio dello scontro armato, la guerra non<br />
finisce con l’armistizio o la resa, ma dura ancora <strong>per</strong> un <strong>per</strong>iodo di tran-<br />
sizione in cui continuerà a essere una decisiva influenza culturale. An-<br />
che l’effetto del conflitto sulla città finisce solo molto tempo dopo il ri-<br />
torno alla pace: alla fine della guerra, la città deve modificarsi <strong>per</strong> acco-<br />
gliere i reduci feriti, ad esempio attrezzando i mezzi di trasporto pubbli-<br />
ci con posti riservati ai mutilati (con la guerra atomica gli effetti delle ra-<br />
diazioni sono visibili <strong>per</strong>sino sul corpo dei discendenti di coloro che<br />
hanno vissuto l’attacco). Architettonicamente, la città deve ricostruire la<br />
propria struttura dalle macerie e innalzare monumenti ai suoi caduti.<br />
Ricostruendo si tenta una sorta di rifondazione della civitas, come fa<br />
Enea al suo approdo nel Lazio.<br />
La letteratura è ricchissima di figure di reduci che <strong>per</strong>corrono le<br />
strade urbane con le loro nevrosi, “as veterans carry their wounds and<br />
their trauma home and infect their family” 89 , ma che in qualche modo<br />
devono continuare a vivere: si pensi a Septimus Warren Smith (Mrs.<br />
Dalloway, 1925) e a Shadrak (<strong>per</strong>sonaggio di Toni Morrison, Sula, 1973)<br />
reduci della prima guerra mondiale; a Tayo, reduce della seconda in<br />
Ceremony (1977) di Leslie Marmon Silko e, nel cinema, al protagonista di<br />
89 MARGOT NORRIS, Writing War in the Twentieth Century, Charlottesville and<br />
London: University Press of Virginia, 2000, p. 32.