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il sorcio - Gaffi

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http://www.gaffi.it<br />

© <strong>Gaffi</strong> 2007<br />

www.gaffi.it<br />

ancora alla mia Fiore<br />

«Ignoro <strong>il</strong> corso della Storia. So solo<br />

la bestia che è in me e latra.»<br />

DARIO BELLEZZA


Collana GODOT<br />

IL SORCIO<br />

di Andrea Carraro<br />

GAFFI


Prologo<br />

Il pranzo dalla madre


IL SORCIO 9<br />

Il martedì non è un giorno come tutti gli altri per Nicolò<br />

Consorti. Dopo <strong>il</strong> lavoro infatti ha due fondamentali appuntamenti<br />

settimanali: <strong>il</strong> pranzo da sua madre e la seduta dallo<br />

psicologo. Sua madre vive ancora, sola, nella sua vecchia<br />

casa, all’ultimo piano di un palazzone di fronte alla libreria<br />

Eritrea, in una zona di confine fra <strong>il</strong> ricco quartiere Trieste e<br />

<strong>il</strong> popolare quartiere africano. La donna, settantacinquenne,<br />

ha più di un acciacco, prende una valanga di medicine, ma<br />

considerato che fuma due pacchetti di sigarette al giorno,<br />

per la sua età le cose non vanno tanto male.<br />

Nicolò parcheggia la Vespa nell’isola pedonale alberata al<br />

centro della carreggiata, per pigrizia non la lega, la chiude<br />

solo con <strong>il</strong> bloccasterzo. «Non legare la Vespa è un lusso che<br />

non mi voglio più negare», ha confessato recentemente al<br />

suo analista. Lascia che due o tre autobus in coda sf<strong>il</strong>ino nella<br />

loro corsia riservata, mastodontici, rumorosi e puzzolenti,<br />

poi attraversa la strada, fa passare uno sciame di pedoni<br />

malvestiti, citofona all’interno 19, sua madre risponde come<br />

sempre dopo un bel po’ perché ci sente poco, e finalmente<br />

scatta la serratura dell’alto e massiccio portone di legno con<br />

<strong>il</strong> riquadro a vetri che hanno cambiato da poco, da quando


10 PROLOGO<br />

l’immob<strong>il</strong>e è stato messo in vendita. Sale quattro scalini di<br />

marmo ed entra nell’ingresso oblungo e spartano, che, per<br />

quanto imbiancato di fresco, ha un aspetto ineluttab<strong>il</strong>mente<br />

popolare. Nicolò si vergognava di quel vestibolo e di tutta la<br />

sua casa, ancora oggi gli dà un senso di oppressione e anche<br />

di colpa transitare nell’androne o nei pianerottoli. La salita<br />

in ascensore – stretto e inciso di scritte sul soffitto e sul controsoffitto<br />

di legno – dura un minuto intero d’orologio.<br />

Quando sali con qualcuno è piuttosto imbarazzante. Il tempo<br />

non ti passa mai e bisogna dirsi qualcosa. Oggi grazie a<br />

Dio non c’è nessuno e può salire da solo. Alcune di quelle<br />

scritte sul soffitto le ha incise lui da ragazzo con le chiavi,<br />

alcune falci e martello, anche un I love Stella, che ogni volta<br />

gli dà un brivido di imbarazzo, adornato dai cazzetti che vi<br />

disegnarono i suoi amici tutto intorno a forma di cuore.<br />

Ogni piano, contrassegnato da una sigla in lettere romane<br />

dipinta sul muro grezzo del marcapiano, I II III… fino a X,<br />

vibra un suono come di corde metalliche che stridono e si<br />

sciolgono.<br />

Sua madre non lo fa aspettare alla porta, è restata in attesa<br />

nel vano dell’ingresso, affacciata sul pianerottolo. L’odore<br />

del fumo fresco e stantio si sente subito, in varie gradazioni,<br />

appena metti <strong>il</strong> naso fuori dell’ascensore. Nicolò la bacia sulla<br />

guancia ancora incredib<strong>il</strong>mente fresca, le mette in mano la<br />

borsa blu dei panni sporchi e poi va regolarmente in bagno<br />

per lavarsi le mani e aggiustarsi i pochi capelli biondi e sciupati<br />

che <strong>il</strong> casco gli ha arruffato sul capo. Percorrendo <strong>il</strong> corridoio,<br />

<strong>il</strong> gatto nero di sua madre emerge improvvisamente<br />

dalla penombra e gli salta addosso, azzannandolo sulla gamba.<br />

Lui come sempre lo scaccia rabbioso e quasi impaurito.<br />

IL SORCIO 11<br />

«Cristo, ma questo è pazzo – dice, scalciando forte – mamma,<br />

questo gatto è fuori di testa, ma perché non lo dai via,<br />

finalmente, questo bastardo!?»<br />

Sua madre, che ha le gambe segnate dalle ferite procuratele<br />

dal gatto, dice:<br />

«E che faccio? Lo metto per strada? Morirebbe subito…»<br />

«E chissene frega! Ma morisse una buona volta!»<br />

Sua madre aspetta che lui sia entrato nella piccola cucina<br />

perfino più impregnata di fumo dell’ingresso, prima di<br />

chiudergli la porta alle spalle, per evitare che <strong>il</strong> gatto si intrufoli<br />

e si piazzi trionfante sopra <strong>il</strong> frigo o <strong>il</strong> piccolo televisore<br />

come è accaduto tante volte.<br />

Il tavolinetto traballante, marrone tigrato, è apparecchiato<br />

per due, nudo, senza neppure una tovaglia. Appoggiato sul<br />

lato destro del tavolo è rimasto <strong>il</strong> ferro da stiro, messo in piedi<br />

su un panno ripiegato. Sopra al suo piatto vuoto, ancora<br />

sig<strong>il</strong>lata, la busta del prosciutto crudo che la madre gli ha<br />

comperato al mattino alla Conad. Sempre e solo una busta<br />

di prosciutto di Parma del supermercato. Sua madre da<br />

qualche tempo, diciamo dalla morte di suo padre, avvenuta<br />

sei anni fa, ha smesso di cucinare. Ha smesso di fare un po’<br />

tutto, a dire <strong>il</strong> vero, pure di comprare <strong>il</strong> giornale. Nicolò si<br />

siede, mentre sua madre traffica ancora qualche istante per<br />

l’angusto spazio della cucina con la sigaretta in mano. Infine<br />

la vecchia donna prende posto al suo fianco e schiaccia accuratamente<br />

la cicca nel portacenere rosso di plastica con i<br />

bordi consumati e <strong>il</strong> fondo annerito. Le unghie lunghe e le<br />

dita affusolate di sua madre appaiono ingiallite e annerite<br />

dalla nicotina. Nicolò prende in mano la busta troppo fredda<br />

del prosciutto, poi l’unico panino nel cestello del pane.


12 PROLOGO<br />

Ormai non le chiede più, posso prenderlo? perché sa che è per<br />

lui, la madre non mangia pane.<br />

In tutto si trattiene meno di un’ora. Eppure sostenere una<br />

conversazione con sua madre è faticoso. Ormai parla soltanto<br />

lui. Quando le narra di faccende legate alla sua attività di<br />

scrittore, Nicolò si sente in colpa perché sa che a sua madre<br />

non gliene frega nulla. Allora le racconta le beghe dell’ufficio,<br />

o qualcosa sul figlio piccolo F<strong>il</strong>ippo, con risultati appena<br />

più apprezzab<strong>il</strong>i. Sua madre vorrebbe parlare di suo padre,<br />

forse, del passato, a tutti i vecchi piace ricordare. Ma a lui<br />

non piace farlo, non con sua madre almeno. Fatto è che la<br />

conversazione è sempre sul punto di spirare.<br />

«Vuoi che la prendo io quella belva? Me lo inf<strong>il</strong>i tu nella<br />

gabbietta? Poi lo libero a V<strong>il</strong>la Chigi o a V<strong>il</strong>la Ada, nel verde,<br />

non ti preoccupare… Che vuoi che gli succeda? Troverà altri<br />

gatti… Starà benissimo.»<br />

«No, no, lascia perdere…»<br />

«Così poi ti compro un cucciolo di cane, un barboncino, te<br />

lo regalo <strong>il</strong> prossimo Natale, okay?»<br />

«No, no…»<br />

«Ma perché mi vuoi togliere questo piacere di regalarti un<br />

cucciolo a Natale?»<br />

«No, no, Nicolò, lascia stare…»<br />

Ecco <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio. Un s<strong>il</strong>enzio che gli parla di incancrenita<br />

solitudine, sempre più avara di parole e di sentimenti. Nicolò<br />

osserva sua madre china sul piatto da mangiare e un morso<br />

gli stringe <strong>il</strong> petto.<br />

«Sei triste, mamma?», le dice infine per scaricare <strong>il</strong> senso<br />

di colpa.<br />

«No, no, perché? Be’, che vuoi, un po’ più di compagnia…<br />

IL SORCIO 13<br />

Tua sorella prima veniva qualche pomeriggio, adesso mai, la<br />

trattengono fino a tardi in ufficio poveraccia… La giornata è<br />

lunga…»<br />

Nicolò cambia discorso. Lui le dedica solo un’ora a settimana<br />

alla madre, ed è la stessa volta che le porta le mutande<br />

e le camicie da lavare. Lo psicologo ha fatto di tutto per farlo<br />

vergognare della cosa, ma invano. Nicolò continua alla sua<br />

età di 45 anni a portare la roba sporca a sua madre con un<br />

sopportab<strong>il</strong>e senso di colpa. In fondo è una delle cose che la<br />

tengono occupata, si dice. L’alternativa è la televisione (o <strong>il</strong><br />

solitario).<br />

«Sai, mamma, <strong>il</strong> piccolo ieri mi ha detto che sono <strong>il</strong> papino<br />

migliore del mondo…»<br />

«Ah, sì?»<br />

«Be’, non arriva a fare versi da babbuino come quando<br />

vede la madre, però un po’ deve volermi bene…»<br />

Sua madre accenna un sorriso assai tirato, si vede che le fa<br />

fatica sorridere.<br />

«Per forza dice che sono <strong>il</strong> papino migliore del mondo, ha<br />

avuto solo me!…»<br />

«Anche tuo padre ti voleva bene…»<br />

«Lo so, lo so… Hai sentito zio Fernando? È tornato dall’Argentina?»<br />

«Sì.»<br />

«E ti ha raccontato qualcosa?»<br />

«Dice che hanno visto i pinguini…»<br />

«Ah.»<br />

I fratelli di sua madre e sua sorella Sara costituiscono i cardini<br />

nascosti della sua conversazione con la madre. Le chiede<br />

sempre di loro quando non sa più a che santo votarsi.


14 PROLOGO<br />

«Tutto qua? Non ti ha detto altro?»<br />

Certe volte quasi lo irritano i s<strong>il</strong>enzi di sua madre. Ma si<br />

sforza di non farlo vedere.<br />

Prima di andare via bacia di nuovo in mezzo all’ingresso<br />

dalle gialle pareti sua madre, che gli mette in mano la sacca<br />

della roba pulita e stirata da portare via.<br />

«Ci sentiamo stasera, chiudi, chiudi pure la porta che c’è<br />

corrente…»<br />

Durante la lunga discesa in ascensore, apre la sacca e odora<br />

dentro, per sentire in che misura le camicie abbiano assorbito<br />

l’odore del fumo.<br />

Riprende la Vespa. Neppure un isolato e raggiunge <strong>il</strong> Centro<br />

di Igiene Mentale nel quale si tengono le sue sedute con<br />

lo psicologo. Il Centro – situato in un bel posto, non lontano<br />

da Santa Agnese e dal mausoleo di Santa Costanza dove<br />

Nicolò si è sposato sedici anni fa – è arroccato su una collinetta<br />

di tufo che si ascende attraverso una scalinata immersa<br />

nel verde, oppure attraverso un percorso asfaltato che gira<br />

tutto intorno al poggio. Parcheggia la Vespa in cima alla salita,<br />

nel secondo cort<strong>il</strong>e. Dal quale scende una rampa di scale e<br />

penetra in un ambiente interrato, arredato con mob<strong>il</strong>ia fin<br />

troppo essenziale da ufficio. Si vede subito che si tratta di<br />

una struttura pubblica. Avanza lungo <strong>il</strong> breve corridoio portando<br />

con sé la borsa dei panni puliti (che oggi è quella gialla<br />

con i gladioli bianchi), bussa alla porta del dottor Monaco,<br />

<strong>il</strong> suo analista. Ma nessuno risponde. Si vede che non è<br />

ancora rientrato dal pranzo, del resto Nicolò è arrivato come<br />

sempre in anticipo di una decina di minuti e allora aspetta<br />

nel corridoio seduto su un divanetto foderato di lanosa stoffa<br />

verde, non troppo dissim<strong>il</strong>e dal divano del suo ufficio.<br />

IL SORCIO 15<br />

Mentre aspetta invia al suo amico Miccia questo messaggio<br />

telefonico: «Test omosex – Inf<strong>il</strong>ati un dito nel culo. Puzza di<br />

minchia?» e ride un bel po’ del suo umorismo da caserma.<br />

Invia quel messaggio ad altri amici, anche a un paio che non<br />

frequenta più. Poi si mette a leggere distrattamente una rivista<br />

di quartiere buttata sul tavolino di vetro insieme a dei<br />

rotocalchi. È un mens<strong>il</strong>e ben fatto graficamente, ma davvero<br />

povero nei contenuti. Ci scrive <strong>il</strong> sindaco, che gli dà un lustro<br />

immeritato. A pagina 28 la firma del suo amico Dario campeggia<br />

sopra un articolo che parla di barche a vela e panf<strong>il</strong>i<br />

da diporto. Si sta specializzando, Dario. Nicolò si legge tutto<br />

<strong>il</strong> pezzo, che è ben scritto quanto noioso per lui che nulla sa<br />

di nautica. Le fotografie patinate che lo corredano – scattate<br />

sempre da Dario – rappresentano gli interni lussuosi di un<br />

paio di mega-yacht. Si sistema meglio a sedere e resta per<br />

qualche istante imbambolato a pensare con pena al suo amico<br />

che non vuole più vederlo, poi arriva <strong>il</strong> dottore e allora<br />

molla la rivista sul divano, raccoglie la sua vezzosa borsa<br />

gialla ed entra nello studio.


PARTE PRIMA


IL SORCIO 19<br />

«Lavoro in banca da sedici anni, dottore, e mi deve credere<br />

se le dico che, fino a un anno fa, non avevo mai avuto problemi<br />

seri con nessuno dei miei colleghi…»<br />

«Questo sappiamo che non è del tutto esatto…»<br />

Ha pochi capelli lisci spartiti lateralmente, l’analista. Gli<br />

occhialetti con sott<strong>il</strong>e e quasi invisib<strong>il</strong>e montatura sul naso<br />

aff<strong>il</strong>ato, la figura asciutta e magra, la posa quasi sempre<br />

riflessiva e seria, ma pronta ad aprirsi al sorriso come in questo<br />

momento. Volendolo descrivere una volta per tutte, si<br />

potrebbe dire che rientra benissimo nel tipo dello psicanalista,<br />

almeno secondo <strong>il</strong> canone di Nicolò, coltivato più al<br />

cinema e nei libri che nella realtà. Magro ma non smunto,<br />

nel suo completo di velluto a coste con le immancab<strong>il</strong>i<br />

Clarks o con i mocassini Lotus color testa di moro ai piedi.<br />

Si veste proprio come si vestiva Nicolò prima che gli venisse<br />

la pancia. Gli occhialetti tondi gli danno, all’analista, una<br />

certa aria intellettuale che non guasta. Non è soltanto un<br />

uomo colto e intelligente che è piacevolissimo sentir parlare.<br />

Dev’essere anche un uomo che acchiappa, come si dice.<br />

Nicolò ci giurerebbe. E questo gli conferisce un ulteriore elemento<br />

di fascino.


20 PARTE PRIMA<br />

«Be’, diciamo che ho attraversato, come tutti, qualche piccola<br />

scaramuccia, qualche frizione, sono stato oggetto di pettegolezzi<br />

acidi, maldicenze, ho subìto più di una rampogna<br />

dai capi… Roba insomma di normale amministrazione…»<br />

«Più che sufficiente comunque a indurle una certa… come<br />

vogliamo chiamarla… alienazione?»<br />

«Già, ma niente però che minacciasse seriamente me stesso,<br />

la mia dignità, come succede quasi quotidianamente<br />

oggi…»<br />

Nicolò racconta, partendo dall’inizio, parte sempre dall’inizio<br />

lui, per non sbagliare, per non tralasciare niente, sa<br />

bene che anche le cose che non gli sembrano dapprincipio<br />

importanti nella terapia possono avere molto valore. E allora<br />

comincia da quando è stato di fatto declassato, trasferito<br />

dal Centro Elaborazione Dati della banca al Back Office<br />

(rapporti con la clientela).<br />

Ha cambiato posto di lavoro, Nicolò Consorti, finendo,<br />

assieme agli altri dieci impiegati del settore, in una sede<br />

periferica, un enorme scantinato che nasconde malamente<br />

la sua originale destinazione di garage condominiale, non<br />

lontano dall’ospedale S. Giovanni. I nuovi proprietari della<br />

sua azienda per prima cosa hanno pensato bene di chiudere<br />

al pubblico la sede centrale – un palazzotto del Seicento<br />

appena restaurato vicino a piazza di Pietra – per togliersi di<br />

torno la questuante clientela dei mutuatari, dirottandola ai<br />

loro uffici distaccati. Ma le rogne pur sensib<strong>il</strong>i del lavoro, la<br />

scomodità e la lontananza della sede, non c’entrano quasi<br />

nulla con <strong>il</strong> problema di Nicolò. Il suo problema si chiama<br />

Sorcio, soprannome di Eraldo Martelli, un collega di lavoro<br />

basso, pelato, panciuto, che per oscure ragioni lo disprezza e<br />

IL SORCIO 21<br />

quasi quotidianamente gli infligge grevi minacce, ingiurie,<br />

maledizioni varie. Il nomignolo – di cui va fierissimo (lui<br />

stesso si chiama così, Sorcio, o per fare dello spirito, dottor<br />

Sorcio) – gliel’ha affibbiato qualcuno in relazione alla sua<br />

attività di responsab<strong>il</strong>e del CRAL aziendale. Quando Nicolò<br />

fu assunto in azienda lui ricopriva da anni questo incarico, <strong>il</strong><br />

Sorcio era già un’istituzione nell’Istituto. Non ha mai capito<br />

come un essere così rozzo, ignorante e volgare possa aver<br />

conquistato la stima e la fiducia di tanti colleghi che anno<br />

dopo anno l’hanno sempre riconfermato nel suo incarico.<br />

Vero è che Nicolò non ha una grande considerazione dei<br />

suoi colleghi.<br />

«Si sente superiore a loro?»<br />

«Be’, che vuole che le dica…»<br />

«La verità, dica la verità, a noi ci interessa la verità!»<br />

«Allora è esatto.»<br />

Di nemici <strong>il</strong> Sorcio ne ha sempre avuti molti. Anche quel<br />

poveraccio di Sergio Lerici, <strong>il</strong> collega sordomuto, si becca un<br />

giorno sì e l’altro pure le sue battute volgari, i suoi lazzi e i<br />

suoi moccoli. Forse li odia entrambi perché non hanno mai<br />

aderito al CRAL aziendale, già, questa potrebbe essere una<br />

ragione. Ma a che serve rimontare alle originali motivazioni:<br />

<strong>il</strong> suo odio si nutre di ancestrali e irragionevoli furori. Lui li<br />

disprezza, perché li vede diversi e deboli, fuori dal gregge (<strong>il</strong><br />

sordomuto a causa del suo handicap, Nicolò per la sua morbosa<br />

riservatezza).<br />

«Che potremmo chiamare anche aristocratico distacco o<br />

alterigia…»<br />

Con Lerici <strong>il</strong> Sorcio diventa perfino demoniaco, dice su di<br />

lui le cose peggiori ad alta voce anche passandogli accanto,


22 PARTE PRIMA<br />

tanto non può sentire… Lerici si è più volte sfogato con<br />

Nicolò, finché in lacrime gli ha detto: «Ma ti rendi conto,<br />

passa davanti alla mia scrivania e mi spara una scoreggia,<br />

facendo anche la mossa…» Nicolò non ha assistito personalmente<br />

all’accaduto ma dei colleghi sì, e gliel’hanno confermato<br />

alla lettera. Ma poi ineffab<strong>il</strong>mente hanno concluso:<br />

«Ma sì, è fatto così, ma è un pezzo di pane, non farebbe male<br />

a una mosca!» Il Sorcio gli soffia <strong>il</strong> fumo del sigaro in faccia,<br />

al muto, come è solito chiamarlo, oppure smanaccia sopra la<br />

sua scrivania mettendogli in subbuglio le carte… Con Nicolò<br />

è appena più cauto. Si limita a insultarlo in modo indiretto,<br />

parlando con altri, anche al telefono: «Sta’ sicuro che prima<br />

d’annammene je rompo er culo a quer verme che scrive i<br />

libbri… M’abbasta una mano sola… Nun ce credi?»<br />

Un giorno che a Nicolò scorreva nelle vene un po’ di sangue<br />

in più del solito, ebbe <strong>il</strong> fegato di attaccare <strong>il</strong> calendario<br />

sul vetro del separé per nascondersi agli occhi del Sorcio. Lui<br />

se ne avvide immediatamente.<br />

«Me togli la luce, leva quer cazzo de calendario…»<br />

«Ma io ho bisogno di attaccare <strong>il</strong> calendario e questi fogli,<br />

sai, i numeri dei notai… Come si fa?» rispose Nicolò.<br />

Il Sorcio si alzò, afferrò con una mano <strong>il</strong> calendario e lo<br />

staccò dal vetro con violenza facendolo cadere per terra.<br />

«Ecco, se fa così…»<br />

Nicolò, anziché aggredirlo o riattaccare <strong>il</strong> calendario, si<br />

sedette e stette per dieci minuti a osservare lo screen saver<br />

del computer. Il Sorcio aveva ripreso <strong>il</strong> suo lavoro.<br />

«Be’, grazie a Dio mi sono spostato, almeno non ho più <strong>il</strong><br />

suo fiato velenoso sul collo: adesso fra noi c’è una mezza<br />

parete ricolma di faldoni e un paio di separé.»<br />

IL SORCIO 23<br />

Dovrebbe andarsene in pensione fra un paio d’anni, <strong>il</strong> Sorcio,<br />

cosicché Consorti e Lerici non possono che aspettare<br />

impazienti. Un giorno, davanti alle erogatrici automatiche<br />

dei caffè, Lerici gli ha detto: «Non reagire, Nicolò, dammi<br />

retta, ormai manca poco…» Ma Nicolò non ha seguito <strong>il</strong> suo<br />

consiglio. Si è più volte lamentato con <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e, un<br />

quadro mite e scoglionato, anch’egli vicino alla pensione,<br />

che non ha fatto mai nulla per far cessare quegli abusi. «Io<br />

vedo tutto – gli ha detto ambiguamente alludendo nella stessa<br />

misura al fatto che Nicolò scrive le sue cose nei tempi<br />

morti e alle reazioni scostumate e violente del Sorcio – non<br />

sembra, ma io vedo tutto e sento tutto.» Il responsab<strong>il</strong>e è<br />

uno che ne ha le palle piene di ogni cosa e non vuole grane,<br />

una scelta, da svariati punti di vista, del tutto rispettab<strong>il</strong>e,<br />

secondo Nicolò, che non si sente certo di biasimarlo.<br />

Due parole sul suo capo ch’è sottomesso con i superiori e<br />

spesso galante con le impiegate più giovani. Ha superato i<br />

sessanta, <strong>il</strong> suo capo, eppure è ancora un bell’uomo dall’aria<br />

vissuta. Ha capelli neri non più folti che ricadono in un ciuffo<br />

ribelle e un po’ anacronistico sulla fronte scolpita di rughe.<br />

Il volto è regolare, aff<strong>il</strong>ato, anch’esso segnato da rughe lunghe<br />

e profonde. In perfetta forma fisica, asciutto, senza un f<strong>il</strong>o di<br />

pancia. Vestito in modo convenzionale, quasi sempre in cravatta,<br />

estate e inverno con interi grigi di vari tessuti che gli<br />

assicurano un’aria compassata e affidab<strong>il</strong>e da travet.<br />

Lo ha dunque scavalcato, Nicolò, <strong>il</strong> suo capo, e si è rivolto<br />

al sindacato e per <strong>il</strong> suo tramite ha inviato vibrate proteste al<br />

capo del Personale, con cui ha poi avuto un breve scambio<br />

epistolare via ema<strong>il</strong>. «Fra poco, massimo fra una ventina di<br />

giorni, le assicuro che <strong>il</strong> Martelli verrà trasferito, per intanto


24 PARTE PRIMA<br />

mi curerò io stesso di richiamare l’interessato.» Nicolò non<br />

sa se <strong>il</strong> Sorcio sia mai stato richiamato, fatto sta che non è<br />

stato ancora trasferito e continua a insultarlo e sbeffeggiarlo<br />

impunemente.<br />

Sua moglie, Stella, gli ha consigliato di prenderlo di petto,<br />

ma lui ha paura, da sempre, dello scontro fisico.<br />

«Lei ha piuttosto paura di aver paura, perdoni <strong>il</strong> gioco di<br />

parole…»<br />

«Comunque <strong>il</strong> risultato è che abbozzo, consumandomi <strong>il</strong><br />

fegato.»<br />

Una ventina di giorni fa <strong>il</strong> sordomuto gli ha posato sulla<br />

scrivania un foglietto pubblicitario azzurro di una certa<br />

Patrizia Coraggio, maga e cartomante. Gli ha fatto cenno di<br />

leggerlo e poi di raggiungerlo al bagno. Così ha fatto. Lo ha<br />

preso per un braccio e si è guardato attorno circospetto nella<br />

bianca sala da bagno di fronte ai candidi e traslucidi pisciatoi.<br />

Poi gli ha detto con la sua inconfondib<strong>il</strong>e voce satura di<br />

vibrazioni: «Ho preso appuntamento per domani pomeriggio,<br />

alle sei, è qui vicino… Tu vieni?» Non ha mai creduto a<br />

queste cose, Nicolò, un tempo lo facevano anche incazzare.<br />

Ma lo stesso ha fatto cenno di sì e gli ha dato una robusta<br />

stretta di mano, qualcosa di intimo e cameratesco. Il sordomuto<br />

non gli è simpatico, prova una istintiva diffidenza, e<br />

perfino repulsione, verso di lui: qualcosa di sconcio gli pare<br />

che sempre trasudi dal suo aspetto prospero, dal suo largo<br />

sorriso a comando. Non ha mai accettato prima d’ora niente<br />

di più di una formale e dignitosa confidenza. Ha rifiutato un<br />

sacco di volte i suoi inviti per <strong>il</strong> caffè alle macchinette. Cambia<br />

sempre discorso quando accenna alla sua incasinatissima<br />

vita privata (tradimenti f<strong>il</strong>mati, figli seviziati dai nonni,<br />

IL SORCIO 25<br />

robaccia del genere che sembra inventata lì per lì per stupirti<br />

e che invece probab<strong>il</strong>mente è vera).<br />

L’indomani i due colleghi si trovano in f<strong>il</strong>a in un’angusta e<br />

puzzolente scalinata di un vecchio palazzone popolare. L’ascensore<br />

è rotto e gli toccano sei piani a piedi. Nicolò si sente<br />

le narici intasate dall’odore del cavolo lesso, persistente e<br />

disgustoso, che ha appestato la tromba delle scale. Il sordomuto<br />

arriva abbastanza in forma, Nicolò ansima come un<br />

moribondo. Eppure ha solo quattro anni più di lui. Lerici gli<br />

dice qualcosa sullo sport e l’allenamento che Nicolò non<br />

ascolta mentre aspettano davanti alla porta ridipinta di rosa<br />

dell’appartamento.<br />

Appare sulla soglia un omino magro magro, sciupato, con<br />

un toupet corvino malamente calzato sul capo. Costui dopo<br />

alcune cerimonie scambiate con Lerici, li introduce in un<br />

largo e spoglio corridoio e poi in una rustica sala d’aspetto,<br />

con teste di animali impagliati alle pareti. Due donnette<br />

sedute su una panca di legno – una delle due di colore –<br />

aspettano <strong>il</strong> loro turno come fossero dal dentista. Nicolò<br />

dedica qualche istante del suo pensare al contrasto fra la<br />

porta rosa e quella sala d’aspetto campagnola. Si accomodano.<br />

Il suo collega non sta zitto un attimo, maledizione, è al<br />

settimo cielo per questo loro inaspettato rapporto che deve<br />

scambiare follemente per uno sbocciare di amicizia. Gli parla<br />

delle sue proprietà, si vanta di aver rifatto tutto l’impianto<br />

idraulico della sua casa in montagna da solo, e poi passa ai<br />

figli, che si fa tutto per loro, e poi alla politica…<br />

«Spara ovvietà, condite di stomachevole buonsenso, a raffica<br />

e in ogni direzione. È <strong>il</strong> classico rappresentante di quella<br />

che veniva un tempo chiamata con giusto disprezzo maggio-


26 PARTE PRIMA<br />

ranza s<strong>il</strong>enziosa.» Nicolò lo fredda così: «Stiamo un po’ zitti,<br />

vuoi, Lerici, così pensiamo a quello che cazzo dobbiamo<br />

dire…»<br />

«Gli si può dire qualunque cosa al sordomuto, tanto non si<br />

offende mai. Gli rimbalza tutto, è di gomma… Non so se ha<br />

presente <strong>il</strong> tipo, dottore?»<br />

Mezz’ora dopo l’omino (che somiglia in modo impressionante<br />

al pasticciere sotto casa sua, sia nei capelli posticci che<br />

nell’aspetto mac<strong>il</strong>ento) li accompagna dalla maga, che è una<br />

donna dall’aria qualunque, una cinquantenne minuta totalmente<br />

priva di appeal. Non hanno nulla di particolare,<br />

eccentrico o tanto meno sinistro né lei, né <strong>il</strong> locale nel quale<br />

riceve, un banale salottino finto coloniale con pochi ninnoli<br />

solo vagamente esoterici, proprio a volerli definire tali a tutti<br />

i costi, e quadri da quattro soldi – st<strong>il</strong>e metafisico con cavalli<br />

e rovine – alle pareti.<br />

Neppure un ritratto del demonio, pensa Nicolò. O forse sì,<br />

quel satiro fra le fronde potrebbe esserne una personificazione.<br />

Lei sta dietro una scrivania di rovere lunga e stretta<br />

con un riquadro di pelle bordeaux a fregi dorati. Il piano è<br />

ingombro di svariati oggetti di cancelleria, di qualche libro<br />

r<strong>il</strong>egato, dello schermo del computer, di alcuni vasetti di<br />

porcellana cinese, di una copia r<strong>il</strong>egata del Kamasutra. Poi<br />

c’è un minuscolo televisore tascab<strong>il</strong>e acceso su un programma,<br />

per l’appunto, di consigli astrologici ed esoterici, con <strong>il</strong><br />

volume tenuto al minimo.<br />

La donna fuma lunghe sigarette bianche e sott<strong>il</strong>i, di marca<br />

Capri. Lerici le <strong>il</strong>lustra la faccenda, con poche frasi evidentemente<br />

preparate. La donna guarda i due impiegati, un sorriso<br />

non molto convinto le indugia sugli zigomi pronunciati:<br />

IL SORCIO 27<br />

«Mi serve una foto del vostro collega, i suoi dati anagrafici e<br />

astrologici», dice. Quindi alza lo sguardo: «E poi, come vi ho<br />

già detto al telefono, qualcosa di personale, dei peli, dei capelli,<br />

un fazzoletto, che servono da oggetti di trasferimento…»<br />

Lerici si <strong>il</strong>lumina tutto (aspettava da un po’ questo momento)<br />

e cava dalla tasca della giacca una fotografia scattata<br />

durante l’ultimo rinfresco di Natale, nell’archivio, in una<br />

selva di faldoni grigi contenenti pratiche di mutuo sotto un<br />

neon giallastro da ospedale. «Ecco, è <strong>il</strong> terzo, quello pelato<br />

che non ride… La data di nascita è 5 novembre 1948, scorpione,<br />

ascendente toro.» Porge alla maga un pezzetto di stoffa,<br />

che sostiene appartenere a una giacca del Sorcio.<br />

La maga prende un pennarello rosso e fa un cerchio attorno<br />

al Sorcio sulla foto. Poi cava da un sacchetto del muschio<br />

grigio che ci spiega essere un misto di verbena e stramonio e<br />

petali di rosa canina, lo cosparge sulla foto, che poi copre<br />

con le due tozze mani appuntate sul piano della scrivania.<br />

Nicolò nota soltanto ora le unghie laccate di un colore neutro,<br />

trasparente.<br />

Sul grasso dito mignolo r<strong>il</strong>uce un anello d’argento tempestato<br />

di rubini.<br />

«Ha qualche malattia, che voi sappiate?»<br />

«È cardiopatico… Ha avuto due piccoli infarti…» lo anticipa<br />

puntualmente Lerici.<br />

La maga ci pensa un po’ su. Pronuncia una serie di parole<br />

incomprensib<strong>il</strong>i, ora in rima e ora no, che Nicolò non si<br />

sforza neanche di decifrare. Gli resta in testa qualcosa come:<br />

La nuvola del tetto magico letto arinui arinui…<br />

«Vi accontentate di un avvertimento, immagino… Come<br />

vogliamo regolarci per <strong>il</strong> momento?»


28 PARTE PRIMA<br />

«Morto!», scandisce Nicolò, prendendo finalmente la<br />

parola. La sua voce lascia nell’aria una nota solenne, così<br />

almeno gli pare. La donna deve averla colta, e lo guarda con<br />

affettazione di rispetto.<br />

«C’è qualcun altro che odiate così, oltre al vostro collega?»<br />

«No.» dice <strong>il</strong> sordomuto. Ma la maga continua a guardare<br />

Nicolò.<br />

«Be’, no.»<br />

«Ne è sicuro?… Guardi, non deve mentirmi…»<br />

Si alza ed esce dalla stanza. Ricompare due minuti dopo<br />

con un pupazzetto di crine inf<strong>il</strong>zato all’altezza del petto da<br />

uno sp<strong>il</strong>lone dorato. Estrae da un cassetto della scrivania<br />

una candela nera e chiede a Nicolò di accenderla. Si siede,<br />

posa l’oggetto sul tavolo, riempie l’interno della bamboletta<br />

col suo muschio olezzante e con <strong>il</strong> piccolo riquadro di stoffa.<br />

Ripete la formula esoterica di prima o forse è un’altra. Ora al<br />

pupazzo è attaccata non sa come la foto e nella stanza c’è<br />

penombra e odore di acido fenico. Lerici fissa la fiammella<br />

della candela con una faccia credulona e ammirata, da vero<br />

coglione, riflette Nicolò seguendone <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o tremolante<br />

alla luce della candela con tutto <strong>il</strong> disprezzo di cui è capace.<br />

Il suo disprezzo, se ne rende conto, è esorbitante.<br />

«Mi dà fastidio tutto di quell’handicappato, ma è soprattutto<br />

fisicamente che nasce la mia ripulsa. Quel suo corpo<br />

goffo, deformato dal grasso, quella sua faccia prospera che<br />

non sembra mai sfiorata dal dubbio, la sua smania di comunicare,<br />

quale patetica rivalsa sociale…»<br />

«Eppure lei ha deciso di seguirlo…»<br />

«Già… Questo può darle la misura di quello che provo per<br />

<strong>il</strong> Sorcio…»<br />

IL SORCIO 29<br />

«Sentite che qui, combinazione proprio sul cuore, è più<br />

molle <strong>il</strong> tessuto…» continua la maga. «Dovremmo avere i<br />

primi effetti <strong>il</strong> primo giorno di luna piena, che è sabato 10…»<br />

Estrae lo sp<strong>il</strong>lone e lo inf<strong>il</strong>a nuovamente nello stesso punto<br />

dicendo: «Sp<strong>il</strong>la, io ti prendo affinché tu possa servire ad<br />

allontanare e a causare del male a tutti coloro che io vorrò,<br />

nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.» Una<br />

pausa piuttosto lunga e poi esclama con la voce arrochita:<br />

«Fuland!, Surgat!, Mora<strong>il</strong>!», facendo gesti rituali in direzione<br />

della bamboletta. Lo sp<strong>il</strong>lone trapassa agevolmente la stoffa<br />

del pupazzo, sbucando sulla schiena. «Causa <strong>il</strong> male al Sorcio,<br />

fino a quando ti toglierò.»<br />

Nicolò scende in garage con <strong>il</strong> piccolo. Stella lo aspetta<br />

davanti all’ingresso di casa. Fa manovra con fatica perché<br />

tanto per cambiare è sbronzo.<br />

«Ti dispiace guidare tu?» chiede a Stella mentre monta in<br />

macchina. Da quando hanno litigato perché lui guidava<br />

fumato in una strada di montagna, sulle Dolomiti, le chiede<br />

spesso di guidare.<br />

«No, ti prego…» fa lei, e si accomoda la gonna sotto al<br />

sedere, e aggiunge a mezzavoce per non farsi udire dal piccolo:<br />

«Hai bevuto Nicolò?»<br />

«No, no, che palle!»<br />

Il piccolo gli chiede di accendere lo stereo.<br />

«No, F<strong>il</strong>ippo, ti prego…» dice Stella, annusando l’aria<br />

sospettosa.<br />

Ma lui ha già messo <strong>il</strong> frontalino dell’autoradio e ha inserito<br />

la prima cassetta che trova sotto <strong>il</strong> cruscotto, e cioè una


30 PARTE PRIMA<br />

comp<strong>il</strong>ation di Guccini. A metà del primo pezzo, Stella si fa<br />

muta e pensierosa. Stanno già sul raccordo all’altezza dei<br />

palazzoni universitari di Tor Vergata quando comincia la<br />

canzone Culodritto. È un pezzo dedicato alla figlia piccola<br />

del cantautore. Sul finestrino sf<strong>il</strong>ano, in una assorta e distonica<br />

sequenza, un campo arido, due vecchi operai su un’Ape<br />

arancione, e lungo la linea dell’orizzonte, alti palazzi di vetro<br />

che riflettono le gru e <strong>il</strong> cielo azzurro punteggiato di nubi.<br />

Alla fine del pezzo, che hanno ascoltato tutti, anche F<strong>il</strong>ippo,<br />

in religioso s<strong>il</strong>enzio, Stella fa:<br />

«Bella, eh?»<br />

«Carina, sì…»<br />

«No, non carina, bella, bellissima anzi. E tu è inut<strong>il</strong>e che<br />

dici carina con quell’aria di superiorità e degnazione, perché<br />

tu non saresti mai capace di scriverla!»<br />

«Non credo, infatti…»<br />

«Continui a fare dello spirito ma guarda che dico sul serio,<br />

tu non sei capace di raccontare quei sentimenti semplici,<br />

sani, naturali…»<br />

«Chi te l’ha detto che non sono capace?»<br />

«Lo so. Tu sai scrivere solo di mostri… E poi ti meravigli<br />

che non ti leggono!»<br />

Nicolò si mette con <strong>il</strong> muso. Intanto ascoltano altri gloriosi<br />

pezzi di Guccini: La locomotiva, Argentina, Eskimo…<br />

«Diciamo, dottore, che mi piace Guccini, ma non mi piace<br />

affatto la parte di quello a cui piace Guccini…»<br />

«Papà, leva questo strazio!» esclama <strong>il</strong> piccolo, F<strong>il</strong>ippo, che<br />

un mese fa ha compiuto sei anni.<br />

«No, no, no! – sbotta Stella – lo voglio sentire. Per una volta<br />

che voglio sentire io qualcosa accidenti…»<br />

IL SORCIO 31<br />

L’atmosfera immediatamente si guasta.<br />

«Papà, papà, metti Jesus Christ, dai, oppure Anime salve…»<br />

«No, F<strong>il</strong>ippo, lasciamole sentire Guccini ché le piace tanto…»<br />

«Sì, mi piace! E allora?»<br />

«E che soprattutto le fa bene all’umore…»<br />

«Pensa al tuo, di umore…»<br />

Ascoltano Eskimo, alla fine della canzone la donna ha gli<br />

occhi gonfi e si deve soffiare <strong>il</strong> naso. Lui vorrebbe trattarla<br />

male. Comincia a guidare a scatti per farla arrabbiare. Suona<br />

spesso <strong>il</strong> clacson. Fa sorpassi azzardati lungo la Pontina. Ma<br />

Stella non protesta, sta lacrimando, si soffia <strong>il</strong> naso più volte,<br />

si guarda nello specchietto del parasole, asciugandosi gli<br />

angoli degli occhi truccati.<br />

All’altezza di Pomezia e dei suoi sempre anonimi e tristi<br />

agglomerati, dice:<br />

«Commoventi queste canzoni, eh…»<br />

«Dipende chi le ascolta», le fa lui, mentre i colori accesi di<br />

un distributore della Esso chiazzano di rosso e nero <strong>il</strong> finestrino.<br />

Intanto le canzoni tristi e malinconiche di Guccini continuano<br />

a suonare.<br />

«Che vuoi dire?»<br />

«Niente.»<br />

Stella seguita a piangere fino a che non arrivano al mare.<br />

Mentre Nicolò fa manovra per entrare nel giardino, lei gli fa,<br />

soffiandosi <strong>il</strong> naso per l’ennesima volta:<br />

«A me Guccini mi fa piangere, che ti devo dire?»<br />

«Ah, sì? Non me n’ero accorto…»<br />

La donna scoppia a ridere. Bene, finalmente la smette,


32 PARTE PRIMA<br />

pensa Nicolò. E però si trova a dire, senza volerlo, severamente:<br />

«Non c’è un cazzo da ridere!»<br />

«Papà non dire le parolacce!» interviene da dietro <strong>il</strong> piccolo.<br />

«Ecco, te lo dice pure lui…» fa Stella mentre la risata le si<br />

squaglia sulla faccia come cera bruciata.<br />

Scaricano lo sm<strong>il</strong>zo bagaglio per <strong>il</strong> weekend, fanno le scale<br />

nel retro, e salgono in casa. Abitano al piano di sopra, che è<br />

stato costruito da poco da una ditta altoatesina ed è accogliente<br />

e ben messo, mentre l’appartamento di sotto è vecchio<br />

di trent’anni e cade a pezzi.<br />

Abbandonano <strong>il</strong> bagaglio sul pavimento dell’ampio<br />

ingresso e Nicolò accende la luce debole dei faretti d<strong>il</strong>igentemente<br />

allineati sul soppalco di legno. Quindi Stella gli si<br />

para davanti e gli fa: «Sei arrabbiato?»<br />

«Tu che dici?»<br />

«Be’, perché?, sentiamo…» fa lei, incrociando le gambe e<br />

dondolando appena su un’anca in una posa incrongruamente<br />

sensuale.<br />

«Sentiamo!? – esclama Nicolò – ti pare normale piangere<br />

per tutto <strong>il</strong> tragitto?… Dovrei essere contento?»<br />

«Tu non c’entri!»<br />

«Appunto, io non c’entro…»<br />

«Sono un po’ malinconica, che è?, non si può?… Il tuo<br />

romanzo non è nostalgico? Da quando sei in analisi non fai<br />

che ricordare, ricordare, ricordare…»<br />

«Okay, ma poi non è questo…» fa Nicolò, scacciando con<br />

un movimento secco della mano una ridda di pensieri<br />

molesti.<br />

«E cos’è allora?» fa Stella, ma già si allontana a sistemare <strong>il</strong><br />

bagaglio e a fare cose in cucina.<br />

IL SORCIO 33<br />

«Non te ne frega un cazzo, eh?» le fa affacciandosi alla porta.<br />

«Di cosa?»<br />

«Di sapere, di sapere che ho…»<br />

«No, dimmi, mi frega, mi frega, è solo che se non mi do da<br />

fare stasera non mangiamo.»<br />

«Intanto non sopporto quei ridicoli paragoni fra me e<br />

Guccini, ecco. Fino a questo punto non ami più quello che<br />

scrivo, fino al punto di paragonarlo a un cantautore?!…»<br />

Stella sbuffa seguitando a ficcare roba dentro <strong>il</strong> congelatore.<br />

«Anzitutto Guccini è anche uno scrittore… E comunque…<br />

Qual è <strong>il</strong> punto? Devo stare continuamente a farti i<br />

complimenti?»<br />

«Non ti piace più quello che scrivo, ecco <strong>il</strong> punto, e dunque<br />

non ti piaccio più io… Non mi ami più.»<br />

Nicolò, crogiolandosi nel suo umore nero e nel suo vittimismo,<br />

si chiude in camera, tira fuori la fiaschetta di vodka<br />

polacca dalla tasca esterna della borsa da viaggio, e se la ficca<br />

sotto la cintura.<br />

«Mi fumo un sigaro fuori…» le dice poi ed esce nel buio<br />

del giardino. C’è un odore forte di legna bruciata, di sambuco,<br />

di salsedine. È un odore che ama. La notte sta scendendo<br />

lentamente, <strong>il</strong> cielo grigio e blu è già crivellato di<br />

stelle ed è spettacoloso e immenso. In città non è mai così <strong>il</strong><br />

cielo notturno. È al contrario sempre un po’ sbieco, povero,<br />

spezzato.<br />

Rientra facendo attenzione a non barcollare. Siede sul<br />

divanetto giallo accanto al piccolo, e fissa lo schermo della<br />

tivù dove scorrono fotogrammi di uomini a cavallo, parrucche<br />

che volano fuori da una finestra, <strong>il</strong> fondo argenteo di<br />

una piscina attraversato da una pioggia di coriandoli rossi.


34 PARTE PRIMA<br />

Prende la mano del piccolo e la tiene stretta nella sua finché<br />

<strong>il</strong> bimbo non s’addormenta con la testa adagiata sulla sua<br />

gamba. Poco dopo gli chiede tutto impastato di sonno:<br />

«Mammina?»<br />

«È in bagno a prepararsi per la notte…»<br />

«A mammina non piacciono i tuoi romanzi, vero? Per<br />

questo avete litigato…»<br />

«Sì, ma adesso abbiamo fatto pace… Stai tranqu<strong>il</strong>lo, piccolo,<br />

dormi…»<br />

«Papà, puzzi di alcol, non ti far sentire da mammina.»<br />

«Okay, piccolo, grazie.»<br />

Nicolò ha cominciato a sognarselo la notte, <strong>il</strong> Sorcio, e sono<br />

quasi sempre incubi di sue grevi e pubbliche sopraffazioni.<br />

«Cristo, io non campo più!» ha sospirato stamattina a Stella<br />

dinanzi al caffè bollente e alla sua figura ancora stravolta dal<br />

sonno al di là del tavolo da cucina. Per Nicolò questo è uno<br />

dei momenti più piacevoli della giornata, malgrado la prospettiva<br />

del lavoro da cominciare. L’unico momento in cui<br />

sono davvero soli. Purtroppo dura solo un paio di minuti.<br />

«Ma ti puoi rovinare la vita per un collega?»<br />

«Non è un collega qualsiasi, è <strong>il</strong> Sorcio.»<br />

«Okay, è <strong>il</strong> Sorcio. E allora?»<br />

«E allora si tratta di un essere perfido, ripugnante, capace<br />

di tutto… Mi ha augurato di crepare in poche settimane di<br />

cancro al fegato. Ti rendi conto?»<br />

«Secondo me se tiri fuori i denti, lui s’ammoscia…»<br />

«Ecco perché parli!… Perché non sai!… Ti ho mai detto di<br />

Follini, quel collega piccolino mezzo alcolizzato col diabete?<br />

IL SORCIO 35<br />

Be’, un giorno ha provato a rispondergli male al Sorcio, che<br />

lo tiranneggiava anche a lui… Il Sorcio gli è saltato al collo, e<br />

ha cominciato a stringere, stringere… Se non interveniva <strong>il</strong><br />

capo e due altri colleghi lo strozzava…»<br />

«Ah!»<br />

«Quello è capace di tutto, per questo <strong>il</strong> capo stesso lo teme<br />

e non gli dice niente, e lo copre con <strong>il</strong> Personale… È uno<br />

matto, capisci?, uno che potrebbe fare qualunque cosa…<br />

anche manomettermi la Vespa, magari, oppure darmi una<br />

coltellata…»<br />

«Questa è paranoia. Ti senti perseguitato… Che dice lo<br />

psicologo freudiano?»<br />

Tiene per un po’ la tazza del latte a mezz’aria, riflettendo.<br />

«E se fosse l’alcol? è normale che… Guarda che si inizia<br />

così, e poi si comincia a odiare tutto <strong>il</strong> mondo…»<br />

Nicolò si è chiuso in bagno, ha aperto la doccia al massimo,<br />

per non sentire le geremiadi di sua moglie e cacciare<br />

nell’oblio le minacciose parole dello psichiatra: «Alla lunga<br />

mi chiede… Alla lunga si assume tutti lo stesso atteggiamento<br />

irritab<strong>il</strong>e e asociale…»<br />

Il solito imbarazzante s<strong>il</strong>enzio e lo psicologo che si guarda la<br />

punta delle scarpe.<br />

«Stava pensando a qualcosa?…»<br />

«Sì… Ripensavo a un momento magico con Dario, l’amico<br />

con cui ho rotto da un po’… Stavamo a Ostia con i tossici,<br />

quattro o cinque anni fa…»<br />

«Con i tossici?…»<br />

«Sì, eravamo andati a Ostia, allora eravamo amici, direi al


36 PARTE PRIMA<br />

massimo dell’amicizia… Prima che io gli rovesciassi addosso,<br />

tramite ma<strong>il</strong> e telefono, un mare di insulti…»<br />

«Non me ne ha mai parlato!»<br />

«Sì, non mi va di parlarne, forse un giorno lo farò. Comunque<br />

io dovevo scrivere un pezzo per un settimanale…»<br />

Era perfettamente a suo agio, Dario, del tutto presente a se<br />

stesso al contrario di Nicolò che se la faceva sotto. Quel fatto<br />

di presentarsi entrambi come giornalisti della carta stampata<br />

faceva chiaramente molto piacere a Dario, che aveva<br />

appena cominciato a collaborare al settimanale di quartiere<br />

e anche a Nicolò che poteva togliersi di dosso per qualche<br />

ora la divisa del bancario frustrato. I contatti con l’unità di<br />

strada li aveva presi Dario, che faceva le notti da un po’ in un<br />

ricovero di tossici. Aveva organizzato ogni cosa anche per<br />

Nicolò.<br />

«Era magnifico trovarsi la pappa pronta, e poi lavorare con<br />

<strong>il</strong> proprio migliore amico, naturalmente, ma non stavo bene<br />

e certi dettagli di Amore tossico e di Christiane F. e di Tondelli<br />

e chissà che altro, mi mulinavano sgradevolmente nella<br />

testa…»<br />

«Parla di f<strong>il</strong>m?»<br />

«Certo. Di f<strong>il</strong>m, di scrittori…»<br />

I due amici arrivano nel luogo convenuto alle undici di<br />

mattina. Il pulmino blu è già posizionato al margine di via<br />

Carolina, poco prima che la pineta sbocchi sulla zona abitata.<br />

Stanno per scendere quando uno degli operatori, quello<br />

che conosce Dario, gli viene incontro pregandoli di parcheggiare<br />

più lontano.<br />

IL SORCIO 37<br />

Dario sf<strong>il</strong>a lo stereo dalla guida interrompendo di botto<br />

l’assolo del sax di Donna Cuncè di Pino Daniele. Mentre<br />

scendono Nicolò sentenzia:<br />

«Pino Daniele oggi è <strong>il</strong> nulla, ma allora era davvero grande!»<br />

«Era grande anche perché noi eravamo giovani e le sue<br />

note si sono appiccate a immagini di noi che ci sono care…»<br />

Dice sempre cose sensate e interessanti, Dario, per questo<br />

gli vuole bene e sta bene con lui.<br />

L’unità di strada è composta da tre persone: un medico,<br />

uno psicologo e un operatore volontario ex tossico. «Se<br />

vedono altre macchine intorno possono insospettirsi – gli<br />

spiega quest’ultimo, che non porta affatto <strong>il</strong> marchio dell’eroina,<br />

deve aver smesso da parecchio – pensano subito alla<br />

polizia. E poi spesso arrivano che stanno proprio a rota e<br />

allora magari frenano sgommando e se non trovano la strada<br />

libera è un guaio, vanno a sbattere dove capita… È una<br />

precauzione per voi, capite?»<br />

Dario entra subito nella parte, comincia a parlare con <strong>il</strong><br />

medico, Ces<strong>il</strong>io, un ragazzo calvo che prima lavorava al Sert<br />

di Ostia, a pochi isolati da qui. Nicolò sulle prime ascolta<br />

distratto. È ancora sotto l’impressione della scena appena<br />

descritta. La mattinata che li aspetta non si annuncia come<br />

una passeggiata sotto <strong>il</strong> sole. L’istinto è andar via subito, al<br />

diavolo <strong>il</strong> reportage, ne farà un altro, ma deluderebbe Dario.<br />

Comunque, prima di poter prendere decisioni, già cominciano<br />

ad arrivare i primi gruppetti di tossici che gettano le<br />

siringhe usate in un secchio giallo posto sul marciapiede<br />

dove spicca la scritta Rifiuti ospedalieri trattati. I tre operatori<br />

li accolgono con sobria cordialità, gli danno le siringhe nel


38 PARTE PRIMA<br />

numero richiesto e accessori quali garze, kleenex inzuppati<br />

di spirito o di acqua ossigenata, raccoglitori di siringhe usate.<br />

Gli allungano un foglio dove sono tenuti a scrivere <strong>il</strong><br />

nome, <strong>il</strong> numero di siringhe fornite e quelle rese. La maggior<br />

parte si va a infrattare dietro un cespuglio di rovi poco<br />

distante, pochi riprendono la macchina per bucarsi altrove.<br />

«Ma non capita mai che chiedano le siringhe e poi non le<br />

restituiscano?» chiede Dario.<br />

«Altroché se capita! Almeno capitava.»<br />

Entra nel pulmino e ne riesce subito dopo con un una<br />

tabella che gli mostra tutto orgoglioso. «Vedete, siamo partiti<br />

due anni fa con una percentuale del 94 per cento di siringhe<br />

non restituite. Un valore altissimo. Scrivetelo sui vostri<br />

giornali. E oggi, guardate, lo scorso mese appena <strong>il</strong> 4 per<br />

cento.»<br />

I due amici si complimentano in un modo un po’ goffo,<br />

manieristico, quasi lo stessero prendendo per i fondelli. Lui<br />

sorride e dice – rivolto a Dario – che quel risultato è assai<br />

meno trascurab<strong>il</strong>e di quanto non sembri a prima vista. A<br />

parte l’ut<strong>il</strong>e servizio sociale di favorire lo smantellamento<br />

urbano delle siringhe usate, c’è un altro aspetto, più importante,<br />

che va considerato. E cioè che le unità di strada rappresentano,<br />

per i tossici, l’unico veicolo di comunicazione<br />

non conflittuale con <strong>il</strong> resto della società. «Noi mettiamo<br />

subito le cose in chiaro con loro. Se si rivolgono alla nostra<br />

struttura debbono sottostare alle regole che vigono qui. Prima<br />

regola, restituire le siringhe che gli forniamo. E poi, poca<br />

confidenza. Non facciamo gli amiconi, non gli offriamo<br />

sigarette o caffè. Rapporti di cordialità e di massimo rispetto,<br />

certo, ma niente di più. Se abbassassimo la guardia,<br />

IL SORCIO 39<br />

immediatamente entreremmo a far parte del loro mondo, e<br />

verrebbe meno quella distinzione dei ruoli che è <strong>il</strong> principio<br />

su cui si basa tutto <strong>il</strong> nostro lavoro, e che ci permette di rappresentare<br />

ai loro occhi una zona franca, un punto di riferimento<br />

e un eventuale punto di fuga.»<br />

Continuano ad affluire tossici come in un supermercato.<br />

Diffic<strong>il</strong>e trarne un identikit. Ce n’è di tutti i tipi. Dal ragazzetto<br />

con tutta la famiglia che lo aspetta in macchina, nonna<br />

compresa, sul lato opposto della strada, al quarantacinquenne<br />

meccanico in tuta da lavoro, al figlio di papà di Casal<br />

Palocco, che scende da un’auto di grossa c<strong>il</strong>indrata e si presenta<br />

con un’aria di degnazione e poi si va a bucare altrove,<br />

perché, spiega <strong>il</strong> medico, conserva ancora la nozione della<br />

propria superiorità sociale: «Ma già tende a omologarsi, fra<br />

qualche settimana o qualche mese, anche lui comincerà a<br />

comportarsi e perfino a vestirsi come loro e a bucarsi dietro<br />

la siepe.» Poi è la volta di una ragazza di colore, Esther,<br />

accompagnata dal pappone su una Thema verde metallizzato,<br />

un mingherlino slavato e mezzo calvo con occhiali scuri<br />

che gli nascondono gli occhi. L’uomo si tiene parecchio lontano<br />

dal pulmino, saluta la ragazza con un bacetto sulla<br />

guancia e aspetta di vederla arrivare a destinazione come un<br />

papà premuroso che accompagna la figlioletta a scuola.<br />

Tutti i clienti guardano i due giornalisti con aria un poco<br />

diffidente, sospettosa. Ma non è soltanto questo a rendere<br />

Nicolò inquieto. Il fatto è che da quando sono arrivati prova<br />

la sgradevolissima sensazione di navigare in un voyeurismo<br />

compiaciuto, morboso, come quando al cinema assisti a stupri<br />

e sbudellamenti seduto su una comoda poltrona. Nei gesti<br />

dei tossici e degli operatori, in quelli ansiosi dei primi e in


40 PARTE PRIMA<br />

quelli apparentemente neutri e asettici ed efficienti dei secondi,<br />

sembrano convivere in una perfetta sintesi la tragedia e la<br />

quotidianità, al punto da rendere impensab<strong>il</strong>e un mondo<br />

diverso da questo. Accentua questa sinistra impressione l’isolamento<br />

in cui sono calati. A via Carolina di gente normale ne<br />

passa davvero poca: tanto che lo stesso Ces<strong>il</strong>io è quasi trasecolato<br />

vedendo a un tratto passare una ragazzina con un cane al<br />

guinzaglio. «La gente ci è ost<strong>il</strong>e. Anche la polizia. Qualcuno ci<br />

ha perfino accusato di alimentare <strong>il</strong> fenomeno.»<br />

Si sente sopraggiungere un’Ape tutta sferragliante sull’altro<br />

lato della strada. «Scusate un attimo» gli fa Ces<strong>il</strong>io con<br />

un sorrisetto tirato. «Questi sono un po’ diffic<strong>il</strong>i, vi consiglio<br />

di…» Non riesce a concludere la frase, che i passeggeri dell’Ape<br />

sono già presso <strong>il</strong> pulmino. Si tratta di due fratelli sui<br />

vent’anni e una ragazzina, la moglie del più giovane. Tutti e<br />

tre sono piuttosto malridotti, specie Mimmo, <strong>il</strong> più estroso<br />

ed eccitato del gruppo, che si annuncia con un «Daje<br />

Roma!» e un sonoro fischio da pecoraro. Poi stringe la mano<br />

al medico, che gli porge la sua con una certa r<strong>il</strong>uttanza.<br />

Indossa jeans tutti sforacchiati e un camicione a righe lacero<br />

e, annondata attorno al collo, una vistosa sciarpa giallorossa.<br />

Dietro le spalle, uno zainetto, pure giallorosso. «Allora, tutto<br />

a posto?» fa al medico accostandoglisi sempre più sino ad<br />

alitargli in faccia. «Niente sigarette, eh? Niente caffè… Me<br />

dai la mano che pare che ci ho la lebbra…» Ride con un’aria<br />

spavalda, di sfida, mettendo in mostra uno scempio di denti<br />

guasti. Si rivolge agli altri due: «Ci avemo la lebbra…»<br />

Ces<strong>il</strong>io si prova a quietarlo: «No, Mimmo, no, così non va<br />

bene, che è questo atteggiamento oggi?»<br />

«Che atteggiamento, ma de che parla questo?»<br />

IL SORCIO 41<br />

«Okay, okay, lasciamo perdere, avete riportato le siringhe?»<br />

«Ce l’avemo, ce l’avemo…», fa Mimmo, consentendo<br />

pigramente con <strong>il</strong> capo e frattanto si toglie di dosso lo zainetto<br />

e comincia frugarvi dentro e a tirare fuori della roba<br />

che poggia sul cofano del pulmino: due panini, un barattolo<br />

vuoto, un paio di cucchiaini di metallo anneriti.<br />

«Nun ce stanno più…» Si rivolge al fratello: «Ahò, a Marco,<br />

’ndo cazzo l’hai messe…»<br />

«L’ho già buttate nel secchio.»<br />

«E dimmelo, no? Me fai tira’ fòri tutto, li mortacci tua…»<br />

Il medico lancia un’occhiata interrogativa ai suoi colleghi<br />

che confermano. Mimmo è l’ultimo a fare rifornimento,<br />

mentre Marco e la moglie ragazzina si sono già incamminati<br />

verso <strong>il</strong> cespuglione di rovi.<br />

«Damme una siringa, l’ovatta… Sì, così, bagna, bagna, de<br />

più, de più, vòi risparmia’? Eppoi un guanto…»<br />

«Un guanto?»<br />

«Sì, sì, hai capito, hai capito, un guanto, damme un guanto.»<br />

Interviene <strong>il</strong> medico:<br />

«Il guanto di gomma non è previsto. La lista la conosci:<br />

siringhe, preservativi, cotone idrof<strong>il</strong>o…»<br />

«Sì, sì, lo so, lo so… Me serve un guanto, avanti, non la fate<br />

tanto lunga, che ve frega…»<br />

«Ma a che ti serve?»<br />

«So’ cazzi mia…»<br />

Il medico fa cenno di assecondarlo. Presa tutta la roba,<br />

Mimmo si avvia verso la fratta, ma si arresta quasi subito e,<br />

tornando sui suoi passi e camminando all’indietro come un<br />

gambero, chiede al medico di tirargli su la manica della<br />

camicia e di versargli dello spirito: «Puoi farlo da solo.»


42 PARTE PRIMA<br />

«Ci ho le mano occupate, nun lo vedi?»<br />

Il medico lo asseconda ancora. Mimmo lo osserva canzonatorio,<br />

paraculo, mentre quello gli tira su con due dita le<br />

maniche sudice della camicia.<br />

«Te fa schifo, eh? Te cachi sotto…» poi, rivolto a noi, «E<br />

pure voi ve cacate sotto, ve’?, pure te, pennellone, che ridi<br />

con quella bella faccia da cazzo…»<br />

«Non va bene, Mimmo, – fa <strong>il</strong> medico, mentre Dario va<br />

perdendo i colori – oggi non va bene proprio. La prossima<br />

volta bisogna che facciamo un discorsetto noi due.»<br />

«Come no?, se dovemo di’ ’na cifra de cose…»<br />

Finalmente è pronto per andare. Ma esita, li guarda alternativamente,<br />

affettando stupore come se si fosse accorto di<br />

loro solo in quel momento.<br />

«E ’sti due?», dice.<br />

«Sono amici – gli fa <strong>il</strong> medico – non ti preoccupare, vai, vai<br />

pure…»<br />

«E chi se preoccupa… Però si so’ veramente amici, dateje<br />

’na spada pure a loro… Così devono torna’…» Poi, rivolgendosi<br />

a Dario: «La vòi ’na spada pennello’?»<br />

Dario fa cenno di no con <strong>il</strong> capo a lungo, con stolida insistenza.<br />

Mimmo corre verso la fratta, agitando con una mano<br />

la spada e con l’altra lo sciarpone giallorosso e gridando a<br />

pieni polmoni un motto da stadio. Mentre i tre si bucano<br />

dietro la siepe, <strong>il</strong> medico gli parla di Mimmo, ch’è malato di<br />

Aids da due anni e peggiora di salute di giorno in giorno e<br />

tuttavia continua a farsi come e più di prima non avendo più<br />

niente da perdere e per lo stesso motivo è assai diffic<strong>il</strong>e contenerlo<br />

nel comportamento. Il fratello invece è sieropositivo<br />

e tempo fa gli ha chiesto di informarne la moglie poiché lui<br />

IL SORCIO 43<br />

non ne aveva <strong>il</strong> coraggio. «Ci siamo rifiutati, naturalmente.<br />

Non sta a noi prendere decisioni del genere.»<br />

Quando tornano, Mimmo ha un braccio tutto insanguinato.<br />

Gli altri due gettano d<strong>il</strong>igentemente le siringhe usate nel<br />

secchio giallo. Mimmo esita.<br />

«Perché cazzo dovete mettelo laggiù!» dice dopo un po’,<br />

indicando <strong>il</strong> secchio posto a tre o quattro metri di distanza.<br />

Lo pregano di non fare storie. «’Sto cazzo! Lo vojo qua… È<br />

’na questione de principio…»<br />

«Adesso basta!» esplode <strong>il</strong> fratello rabbioso. «Va’ a butta’<br />

quella spada, stronzo!»<br />

Lui ubbidisce, guardandolo impaurito. Soltanto in questo<br />

momento sono emersi i reali rapporti di forza fra i due.<br />

«Mimmo fa solo teatro» gli spiegheranno più tardi. «Marco<br />

invece è violento e imprevedib<strong>il</strong>e e <strong>il</strong> fratello lo teme. Un<br />

giorno l’ha picchiato qui stesso, dopo <strong>il</strong> buco. Se non intervenivamo<br />

era capace d’ammazzarlo. Pareva impazzito.»<br />

A un certo punto Mimmo comincia a tossire forte, poi strabuzza<br />

gli occhi e per un paio di minuti se ne sta imbambolato,<br />

dondolando sulle anche e fissando <strong>il</strong> vuoto innanzi a sé come<br />

un demente. Dario domanda preoccupato se si sente male.<br />

«Un po’ sì, un po’ finge…», spiega Ces<strong>il</strong>io.<br />

«No, finge e basta! – dice <strong>il</strong> fratello Marco. – Forza, a Mimmo,<br />

che famo tardi, datte ’na mossa…»<br />

Quando Mimmo si riprende, prima di congedarsi, pretende<br />

di dare la mano a tutti. Si è pulito e disinfettato, pure<br />

mentre stringe quella mano gelida e rasposa, non riesce a<br />

censurarsi un moto quasi di terrore. Anche Dario ha ceduto<br />

ormai definitivamente all’angoscia: è terreo e ha la bocca<br />

impastata.


44 PARTE PRIMA<br />

Come l’Ape smarmittata e strombazzante si d<strong>il</strong>egua alla<br />

svolta della via, Nicolò domanda al medico se quella stretta<br />

di mano può comportare dei rischi. Il medico lo rassicura,<br />

ripetendogli cose che sa benissimo, e che magari ha anche<br />

detto a sua volta in qualche occasione, biasimando le forme<br />

di ghettizzazione verso i malati di Aids.<br />

Tornando a casa, Nicolò e Dario furono taciturni e pensierosi.<br />

«Ce la farai a scriverne?», gli disse Dario. Lui non rispose<br />

e si chiese a lungo <strong>il</strong> senso di quella domanda.<br />

Lo psicologo, le gambe accavallate dietro la scrivania, ha<br />

un sorriso di vanitosa soddisfazione sul volto, che soltanto<br />

adesso Nicolò si accorge quanto somigli a quello di Dario, la<br />

stessa radice del naso, la stessa piega malinconica del labbro.<br />

Senza dire nulla al sordomuto, Nicolò ha preso contatto<br />

nuovamente con la maga, con la quale si è lamentato per<br />

telefono dell’inefficacia della fattura.<br />

«E <strong>il</strong> Sorcio continua a schizzare veleno, oppure si è calmato?»<br />

gli ha chiesto, sorprendendolo per la memoria, ma non<br />

ha aspettato la sua risposta. «Parliamone a voce. L’aspetto<br />

venerdì alle diciotto, le va bene?»<br />

«Altri trem<strong>il</strong>a?»<br />

«Non per telefono, abbia pazienza, dottore…»<br />

«Mi scusi, allora okay. A venerdì.»<br />

«Venga da solo per favore. Ho bisogno di vederla da solo. Il<br />

suo amico è tornato e mi ha fatto strani discorsi… Vuole che<br />

si lavori anche sulla moglie e sul suocero…»<br />

«Sarei venuto solo comunque.»<br />

Arriva con mezz’ora abbondante di anticipo, Nicolò, sic-<br />

IL SORCIO 45<br />

ché aspetta come la prima volta nella sala d’attesa in piedi<br />

perché non gli va di sedersi. Ad attendere oltre lui stavolta<br />

c’è un prete, con vestiti civ<strong>il</strong>i e clergyman. Dopo dieci minuti<br />

di attesa, non ce la fa più a trattenere oltre la curiosità.<br />

«Ma anche lei sta aspettando per parlare con la maga<br />

Coraggio?»<br />

«Già.» risponde <strong>il</strong> prete laconicamente e con l’aria un po’<br />

seccata. Dopo l’arrivo di un terzo ospite, una signora molto<br />

elegante e scosciata sui quaranta, esclama:<br />

«Si può sapere che accidente ci venite a fare tutti qui? Che<br />

cosa vi aspettate di trovarci?»<br />

Immediatamente l’omino col toupet interviene:<br />

«Eh no, padre Ferruccio, lei non è qui per fare prediche…»<br />

«Lo dico anch’io!» esclama la donna scosciata che, Nicolò<br />

se ne accorge solo adesso, è proprio una bella fica e lo sta<br />

guardando in cerca di un assenso che lui però non se la sente<br />

di concederle, chissà perché.<br />

Il prete sbuffa rumorosamente, ma non replica.<br />

Quando l’omino si toglie di mezzo, Nicolò va a sedersi<br />

accanto al prete. La donna ora non lo guarda più e lui si sente<br />

più tranqu<strong>il</strong>lo.<br />

«Padre, – gli fa a bassa voce, accostandosi per non farsi<br />

sentire – mi scusi se glielo chiedo, ma perché lei è qui?»<br />

«Perché… – risponde senza abbassare <strong>il</strong> tono – Perché un<br />

cretino come voi ci è rimasto fregato… E adesso piange!»<br />

Ma non fa in tempo a spiegare oltre che l’omino – miracolosamente<br />

ricomparso alle sue spalle – lo interrompe: «Venga,<br />

padre, venga ad aspettare di qua, la prego…»<br />

«Oh, finalmente!», fa la donna sospirando. «Così la smette<br />

di insultare <strong>il</strong> prossimo!»


46 PARTE PRIMA<br />

Il prete li guarda con disprezzo, poi scompare dietro una<br />

tenda che Nicolò non aveva notato. Fissa a lungo la testa di<br />

un cervo impagliato sulla parete. Poi si mette a leggere una<br />

rivista di gossip. Ogni tanto lancia un’occhiata vaga alle<br />

cosce bianche e accavallate della donna, che calza scarpe<br />

appuntite, dal tacco assai alto, lucidissime, con un lembo di<br />

pelle nera stesa sopra la scarpa come una foglia.<br />

«Bel modo di fare <strong>il</strong> prete!» commenta quasi fra sé la donna,<br />

ma lui non solleva la testa.<br />

Finalmente è <strong>il</strong> suo turno.<br />

«Ha fatto bene a venire da solo…» lo accoglie la maga.<br />

«C’era un prete in anticamera…»<br />

«Sì, padre Ferruccio, è appena andato via… Abbiamo buoni<br />

rapporti con la parrocchia, anzi ottimi…»<br />

«Lui non sembrava tanto contento! Fra l’altro mi ha anche<br />

dato del cretino… Non a me direttamente, ma…»<br />

«Ha un brutto carattere…» taglia corto la donna. «Ma<br />

veniamo a noi, al nostro Sorcio… Che novità?»<br />

«Vede, – dice Nicolò – io sono tornato perché non ne posso<br />

davvero più, sono esasperato, anzi ossessionato, me lo<br />

sogno la notte, mi sta rovinando la vita, devo fare qualcosa…»<br />

Dicendo questo Nicolò nota che sulla scrivania c’è uno<br />

schema disegnato, ripartito per i giorni della settimana, delle<br />

ore magiche del giorno e della notte.<br />

«Vuole vedere, guardi, guardi pure – dice la donna porgendogli<br />

<strong>il</strong> foglio. – Vede, la prima ora del giorno è sempre quella<br />

dominata dal pianeta che regola l’intera giornata e gli altri<br />

pianeti si susseguono sempre nello stesso ordine…»<br />

Nicolò osserva senza capire ma consentendo con la testa.<br />

IL SORCIO 47<br />

«Lei ha uno sguardo scettico. Lei non crede a niente, vero?<br />

Non a Dio, non ai pianeti, né a me…»<br />

Nicolò prende la domanda molto seriamente. Così, fissando<br />

le mani tozze e inanellate della donna, dice: «Qualche<br />

anno fa le avrei risposto di sì, oggi non lo so, non so più…<br />

Non sopporto quelli che ostentano la loro fede come se fosse<br />

una griffe. Alla figura di Gesù però ci credo, ecco, diciamo<br />

questo. Credo alla sua soprannaturale pietà, credo alla sua<br />

passione.»<br />

Mentre lo dice, si accorge che non è quella la sede per<br />

strologare sulla Trinità, allora si blocca improvvisamente.<br />

«Lei ha una paura fottuta del Sorcio…», cambia infatti discorso<br />

la donna.<br />

«Sì.»<br />

«Perché? Il suo collega, vede, posso capirlo… È sordomuto,<br />

è in un perenne stato di inferiorità… Ma lei, alto, ben<br />

messo… bell’uomo…»<br />

«Grazie.»<br />

«Perché mai?»<br />

«Ma lei fa la maga o la psicologa?»<br />

«Vuole che la aiuti?»<br />

Nicolò fa cenno di sì, la donna pure:<br />

«Ho bisogno di capire fino a che punto, fino a che punto<br />

sarebbe disposto ad andare…»<br />

«Lei mi aveva promesso…» dice Nicolò abbassando un po’<br />

<strong>il</strong> tono di voce e accennando una croce nell’aria con l’indice.<br />

«Io non le ho promesso niente. Il Sorcio non è uno come<br />

tutti gli altri tanto per cominciare…»<br />

«Cioè?»<br />

«Cioè…»


48 PARTE PRIMA<br />

Resta sospesa inseguendo con gli occhi, come fosse un<br />

moscerino, un pensiero.<br />

«Parliamoci chiaro… <strong>il</strong> Sorcio è protetto dal malocchio<br />

come un blindato. Ma è bene essere consapevoli che, una<br />

volta lanciato un incantesimo, si dà inizio a una catena di<br />

eventi che non potrà più essere spezzata. Una volta in moto,<br />

non c’è più possib<strong>il</strong>ità di ritorno, e ogni eventuale sv<strong>il</strong>uppo<br />

dovrà essere affrontato con coraggio e salda fermezza. Si<br />

potranno alterare in misura limitata le conclusioni, ma non<br />

si potranno riportare le cose allo stato in cui erano all’inizio,<br />

prima dell’intervento. È chiaro questo?»<br />

Nicolò assente ancora pure se non riesce a capire dove<br />

intende arrivare la maga, la quale aggiunge che ci vuole del<br />

tempo perché faccia effetto la fattura, di questo sostiene che<br />

lo aveva avvertito.<br />

«Ma noi, se vogliamo qualche risultato subito, dobbiamo<br />

arrangiarci in un’altra maniera…»<br />

«Quale maniera? Una pozione?»<br />

«No, niente magia, potremmo dargli un avvertimento, una<br />

lezioncina, da fargli passare l’estro di rompere i coglioni,<br />

non so se mi spiego…»<br />

«Si spiega benissimo.»<br />

«Conosco qualcuno che potrebbe aiutarla.»<br />

«E cosa le fa credere che poi smetterà di molestarmi?»<br />

«Di solito si calmano…»<br />

«Potrebbe vendicarsi…»<br />

«Be’, questo non si può escludere.»<br />

«Voglio pensarci.»<br />

«Bene, intanto prenda questo.»<br />

Gli mette in mano un biglietto da visita smagliante di tipo-<br />

IL SORCIO 49<br />

grafia con la scritta in r<strong>il</strong>ievo: «Dottor Mike Lozzi. Investigatore.»<br />

Sotto c’è <strong>il</strong> numero di un cellulare e nessun indirizzo.<br />

Dopo l’ennesima um<strong>il</strong>iazione inflittagli dal Sorcio, ha aspettato<br />

<strong>il</strong> primo momento libero del telefono e ha composto<br />

quel numero di cellulare. C’è stato a lungo <strong>il</strong> messaggio di<br />

libero, poi è scattata una segreteria. Dopo <strong>il</strong> bip, ha detto:<br />

«Salve, sono Nicolò Consorti, questo numero me lo ha dato<br />

la signora Coraggio…»<br />

Ha indugiato un bel po’, alla fine ha attaccato senza lasciare<br />

alcun recapito telefonico. Certo, la maga conosce <strong>il</strong> suo cellulare,<br />

l’investigatore-picchiatore o quello che è potrebbe<br />

averlo da lei… Sicché forse gli telefonerà… Ma ha scartato<br />

come improbab<strong>il</strong>e l’ipotesi. Altre due o tre volte nel corso<br />

della mattinata è stato sul punto di rifare quel numero, ma le<br />

telefonate a ripetizione dei mutuatari gliel’hanno impedito.<br />

Al ritorno dal bagno <strong>il</strong> sordomuto gli ha fatto: «Se ne vanno<br />

tutti, rimaniamo solo noi due in questa fogna piena di merda,<br />

sei contento?»<br />

C’è stato un rinfresco all’ora di pranzo per l’addio a una collega<br />

che se ne va in pensione. Si tratta di una collega ancora<br />

giovane, ficcata nel fondo esuberi e spedita in prepensionamento.<br />

Se ne è andato in questo modo metà dell’Istituto.<br />

Tutta la fascia dei cinquantatreenni. La collega in questione<br />

– la sua amica Paola, una delle poche persone con cui Nicolò<br />

ha legato in azienda – finge di sentirsi sollevata dalla prospettiva<br />

di starsene a casa a poco più di cinquant’anni con <strong>il</strong>


50 PARTE PRIMA<br />

90 per cento dell’ultimo stipendio. Ma in realtà dentro è<br />

malcerta e assai preoccupata per <strong>il</strong> futuro.<br />

«Questa infernale macchina del lavoro le ha avvelenato <strong>il</strong><br />

sangue al punto che la libertà seppure sempre agognata le fa<br />

paura.»<br />

«Ma sì Nicolò, – gli ha detto abbracciandolo stretto – ho<br />

paura di non farcela. Sai, qui sai sempre cosa devi fare: ti<br />

devi alzare la mattina alle sei e correre in mezzo al traffico<br />

per timbrare in tempo <strong>il</strong> cartellino, poi devi rispondere sei<br />

ore al telefono, poi se ti avanza <strong>il</strong> tempo leggi <strong>il</strong> giornale, poi<br />

alle cinque nuovamente <strong>il</strong> cartellino. E poi finalmente a<br />

casa, ma alla sera, quando la giornata è finita o quasi… Bella<br />

vita di merda, sì, però intanto sai cosa devi fare. Da<br />

domani chi mi dice cosa cazzo devo fare? C’è da impazzire a<br />

pensarci…»<br />

«Non è fac<strong>il</strong>e scrollarsi di dosso questa divisa da carcerati.<br />

Comunque impazzirei volentieri al posto tuo…»<br />

«Lo so.»<br />

Nicolò si fa consolare, come se fosse lui ad andare via, e lei<br />

torna ad approntare <strong>il</strong> fondo della sala per <strong>il</strong> suo rinfresco.<br />

Ha portato tutto lei: la pasta e fagioli (cucinata dal marito:<br />

un gagliardo e atticciato sindacalista cinquantenne), i tramezzini,<br />

<strong>il</strong> salame piccante, <strong>il</strong> pane, <strong>il</strong> pecorino del suo paesello<br />

toscano… Ecco, <strong>il</strong> capo dà <strong>il</strong> segnale di via libera, sono<br />

le tredici e un quarto in punto, gli impiegati possono staccare.<br />

C’è un gran strisciare di seggiole sul pavimento, un<br />

contrappunto di sospiri più o meno catarrosi. Ci si avvicina<br />

alla zona rinfresco in fondo allo stanzone. Le vivande sono<br />

state sistemate sopra a una lunga tavolata ottenuta mettendo<br />

le scrivanie in f<strong>il</strong>a per lungo e vecchi, ingialliti tabulati<br />

IL SORCIO 51<br />

elettronici stesi sopra a mo’ di apparecchiatura. Paola fa le<br />

porzioni di pasta e fagioli assieme a un paio di colleghe.<br />

Nicolò si guarda intorno, sono tutti accalcati in un pugno<br />

di pochi metri quadri. Non vede <strong>il</strong> Sorcio. Si avvicina a Paola,<br />

le sussurra nell’orecchio: «Non hai invitato quella merda,<br />

grazie, sei stata un angelo…» Lei gli sorride: «No, Nicolò, io<br />

l’ho invitato ma lui non viene… A proposito, aspetta, aspetta<br />

che ci riprovo…» Si approssima con un piatto di pasta e<br />

fagioli alla scrivania del Sorcio, intento a leggere <strong>il</strong> giornale,<br />

in fondo allo stanzone.<br />

«Allora, Eraldo, che fai, vieni?»<br />

«No.» risponde a voce alta <strong>il</strong> Sorcio. «Ce sta brutta gente!<br />

Nun ce vengo!»<br />

«E dai vieni, Sorcio! non te fa’ prega’!» urla qualcuno.<br />

Ma lui continua a mugugnare nel suo angolo, rifiutando la<br />

porzione di pasta e fagioli fumante che Paola gli ha portato.<br />

«Vedi, – gli fa appena tornata, ancora con <strong>il</strong> piatto in mano –<br />

non viene, meglio così, io la mossa l’ho fatta… Capisci<br />

Nicolò, la dovevo fare la mossa…»<br />

«Ma certo, certo, hai fatto bene, l’importante è <strong>il</strong> risultato,<br />

cioè non avercelo fra i coglioni! Ma secondo te ce l’aveva con<br />

me dicendo brutta gente?»<br />

«Non credo. Ce l’ha con <strong>il</strong> capo che non gli ha dato la<br />

busta…»<br />

«Voleva pure la busta, ma li mortacci sua!» Nicolò non<br />

può fare a meno di esclamare.<br />

«Altroché, ha smadonnato tutto venerdì pomeriggio, tu<br />

non c’eri, gli ha augurato di spendere i prossimi stipendi in<br />

cicli di chemio…»<br />

«Conosco la minaccia…»


52 PARTE PRIMA<br />

La busta sarebbe un premio in denaro (striminzito per gli<br />

impiegati, sempre più cospicuo salendo di grado sino alle<br />

laute prebende dei funzionari di alto livello e dei dirigenti,<br />

accomunati ormai dalla livellante ma pure nob<strong>il</strong>itante etichetta<br />

di manager) che viene elargito ai dipendenti di ogni<br />

settore che hanno br<strong>il</strong>lato nel lavoro durante l’anno. Malgrado<br />

l’esiguità della somma, sono proprio gli impiegati che<br />

sbavano e si scannano per ottenerla.<br />

«Io non l’ho mai presa, e me ne frego», ha detto Nicolò allo<br />

psicologo con malcelata fierezza. «Gente come me, che non<br />

ha mai portato la cravatta, non ha mai fatto mezz’ora di<br />

straordinario, che diserta tutte le convention, che non ha<br />

mai leccato <strong>il</strong> culo a nessuno, come potrebbe prendere la<br />

busta? Ma se non la merito io, tanto meno la merita <strong>il</strong> Sorcio,<br />

che legge <strong>il</strong> giornale sportivo durante <strong>il</strong> lavoro, con le<br />

gambe piazzate sul tavolo e <strong>il</strong> sigaro in bocca, e risponde<br />

sistematicamente male ai clienti al telefono e non riesce neppure<br />

a leggere la posta elettronica… Be’, mi rendo conto che<br />

sono un giudice poco attendib<strong>il</strong>e, perché lo arrostirei nella<br />

brace, gli torcerei le budella se potessi…»<br />

«Certo, ma c’è una verità oggettiva inconfutab<strong>il</strong>e…»<br />

«Allora è proprio così, dottore…»<br />

«Può starne certo.»<br />

Anche Paola non lo regge <strong>il</strong> Sorcio. Lei è una femminista<br />

storica, impegnata nel sindacato rosso. A sua volta <strong>il</strong> Sorcio,<br />

fascistoide, l’ha sempre vista con <strong>il</strong> fumo negli occhi. Alludendo<br />

a lei, dice «quella troia comunista…» o «quella<br />

comunista troia». Con gli anni le asperità si sono addolcite<br />

ed entrambi si scambiano tiratissimi saluti al mattino quando<br />

entrano e alla sera quando escono.<br />

IL SORCIO 53<br />

«Parlo ancora al presente, proprio non riesco a convincermi<br />

che da domani Paola non verrà più e sparirà nell’ombra.<br />

È sempre così purtroppo: si dice ci sentiamo, certo, ci si<br />

scambiano numeri di telefono e indirizzi. Ma poi non se ne<br />

fa niente, ci si perde di vista, ci si incontra giusto ai funerali.»<br />

«C’è un colpevole fatalismo nelle sue parole, se ne rende<br />

conto?»<br />

Al sesto bicchiere di rosso, Nicolò comincia a essere piacevolmente<br />

disposto a partecipare alla festa, sicché scambia<br />

chiacchiere fatue con i colleghi e brinda ogni tanto a qualcosa<br />

e a qualcuno. Quando Paola incrocia <strong>il</strong> suo sguardo e gli<br />

sorride con <strong>il</strong> suo sorriso così grazioso, lui ricambia con più<br />

enfasi del solito. Gli dispiace che se ne vada. Gli mancheranno<br />

la sua aggraziata figura, i suoi vestiti freak sempre molto<br />

raffinati, i suoi discorsi appassionati su politica, buddismo,<br />

medicine alternative, depressione, massaggi (che pratica),<br />

cinema, letteratura…<br />

Adesso ha le lacrime agli occhi, un evento che aveva ampiamente<br />

previsto. Sta parlando fitto con Elena, la sua amica del<br />

cuore (almeno dentro la banca). Anche Elena è commossa.<br />

Elena ha la stessa età, cinquantadue anni, ma avrà lo scivolo fra<br />

un paio d’anni perché ha maturato meno contributi e anche<br />

perché sta brigando, con l’ufficio del Personale e con <strong>il</strong> sindacato,<br />

per ritardare quanto più possib<strong>il</strong>e l’evento che la spaventa.<br />

Pure Elena è amica di Nicolò: anche lei compagna, autoironica,<br />

bisbetica sul lavoro, zitella, meno bella d’aspetto di Paola<br />

e meno raffinata nel look, ma con una sua scabra e sgangherata<br />

intelligenza. A entrambe piacciono i libri di Nicolò e sostengono<br />

che prima o poi abbandonerà la banca. Questo, più che<br />

una condivisa appartenenza ideologica, gliele rende care, per


54 PARTE PRIMA<br />

quanto possano esserlo delle figure che comunque abitano,<br />

per così dire, la sua disgrazia, la parte grigia della sua vita.<br />

«Del resto è così che succede con tutti… Il mondo per lei si<br />

divide in coloro che hanno letto e apprezzato i suoi libri,<br />

degni della sua amicizia, e tutti gli altri…»<br />

«Mi lasciate col Sorcio e col Muto, ma vi rendete conto?»<br />

«Tu te ne andrai presto da qua, stai tranqu<strong>il</strong>lo!»<br />

Alle due colleghe non ha ancora detto nulla della maga, e<br />

dunque loro non l’hanno saputo, a meno che <strong>il</strong> sordomuto<br />

alla fine non abbia spifferato qualcosa, ma ne dubita, non c’è<br />

abbastanza confidenza. Il sordomuto diffida di loro perché<br />

hanno avuto entrambe a che fare con <strong>il</strong> sindacato e lui odia<br />

per principio tutti i sindacalisti.<br />

Ma oggi Nicolò le prende entrambe in disparte e racconta<br />

tutto precipitosamente. Mentre racconta pensa: «Cristo,<br />

comincio a fare quello che non voglio…»<br />

«Tu devi essere matto!», commenta Paola.<br />

«Io gliela darei proprio una bella lezione…»<br />

«E tu sei più matta di lui… Ma ragazzi, vi rendete conto,<br />

cazzo… Siete fuori di testa! Per cose così si va in galera!<br />

Meno male che me ne vado! Cristo…»<br />

«Se l’è meritata una bella lezione!» ripete Elena dando a<br />

Nicolò una pacca sulla spalla come a sottolineare la sua solidarietà.<br />

«Be’, vi terrò aggiornate!», dice lui, deluso da se stesso per<br />

aver parlato senza una reale motivazione, intenzionato a tornare<br />

in mezzo agli altri a bere, a mangiare, a chiacchierare,<br />

per non fare altri danni.<br />

«No, non ti mando via così – dice Paola. – Dimmi che hai<br />

intenzione di fare. Gli telefonerai a quello?»<br />

IL SORCIO 55<br />

«Non ho ancora deciso. Comunque penso di no.»<br />

Osserva le rughe sott<strong>il</strong>i sul collo, più marcate e abbondanti<br />

attorno agli occhi. A Paola quelle rughe la fanno soffrire<br />

molto, lo sa. È stata così bella e desiderata per tanti anni.<br />

Due o tre colleghi hanno perso la testa. Uno di loro ancora le<br />

sbava appresso. I belli faticano di più a invecchiare.<br />

«Lei crede?»<br />

«Lei no?»<br />

«Non so, ma è <strong>il</strong> suo punto di vista che ci interessa… Lei in<br />

quale categoria si metterebbe?»<br />

«Fra i belli, certamente, anche se non lo sono più.»<br />

«È interessante notare come lei sia passato da una rappresentazione<br />

di sé quale bello e rubacuori (nella sua adolescenza)<br />

a quella dello scrittore che osserva e giudica, dell’intellettuale,<br />

coscienza morale, e rompicoglioni, mi permetta,<br />

del gruppo.»<br />

Dopo <strong>il</strong> rinfresco, Nicolò esce per un caffè e si accorge che<br />

la sua macchina (oggi è venuto in auto, la sua Daewoo Nubira<br />

grigio metallizzato) è graffiata sul fianco, una lunga striscia<br />

prodotta con delle chiavi probab<strong>il</strong>mente. È stato <strong>il</strong> Sorcio,<br />

non ci sono dubbi. Non può essere che lui. L’odio gli<br />

monta, subito generoso, si va a lamentare con <strong>il</strong> capo che fa<br />

spallucce come sempre. Gli dice solo che non può dimostrare<br />

che sia stato lui. Se ne torna furioso al suo posto e comincia<br />

a scrivere reiteratamente su un documento aperto: «Il<br />

Sorcio deve morire, <strong>il</strong> Sorcio deve morire e morirà. Il Sorcio<br />

deve morire, <strong>il</strong> Sorcio deve morire e morirà…» E così via<br />

riempiendo tutta la pagina. Alla fine salva <strong>il</strong> documento sul<br />

desktop con <strong>il</strong> nome: morte del <strong>sorcio</strong>.doc.


56 PARTE PRIMA<br />

L’indomani arriva in Istituto alle otto e mezza come al solito.<br />

Registra <strong>il</strong> badge elettronico, raggiunge la propria scrivania,<br />

appoggia la tastiera in precario equ<strong>il</strong>ibrio sopra <strong>il</strong> video, e<br />

stende <strong>il</strong> giornale sul tavolo, come gli altri colleghi (almeno<br />

quei pochi che lo comprano, <strong>il</strong> giornale). Legge la prima<br />

pagina, le pagina della Cultura e poi la cronaca di Roma, ma<br />

subito la vociaccia del Sorcio squarcia <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio con un<br />

quarto d’ora di anticipo rispetto agli altri giorni:<br />

«Telefono, telefono…» urla, e riaggancia rumorosamente<br />

per fargli capire che deve rispondere. Così facendo, con siffatta<br />

rozzezza, gli passa la telefonata. Questo rituale si svolge<br />

da mesi ogni mattina. E lui ogni mattina abbozza, come si<br />

dice, fa pippa… Risponde al telefono, cioè ubbidisce all’ordine<br />

del Sorcio, che oltretutto è di grado inferiore al suo.<br />

Ma oggi Nicolò inaspettatamente non abbozza, non fa<br />

pippa, risponde, con voce forte e sicura:<br />

«Decido io quando rispondere. Digli di richiamare al mio<br />

numero verde dopo le nove.»<br />

«Che cosa?»<br />

«Hai capito benissimo.»<br />

Dopo averlo detto, si rende improvvisamente capace con<br />

terrore che <strong>il</strong> Sorcio non potrà sopportare l’affronto. Infatti<br />

lo sente bestemmiare e spostare rumorosamente la seggiola,<br />

quindi, invisib<strong>il</strong>e, avanzare con passo deciso lungo <strong>il</strong> linoleum<br />

scanalato verso la sua scrivania. Un tuffo al cuore, letteralmente.<br />

Ed eccolo di fronte, rosso come una barbabietola<br />

matura, tutto tremante di collera, un ghigno di disappunto<br />

sul volto paffuto:<br />

«Vieni, vieni de là!» gli fa, con voce strozzata, appuntandosi<br />

con <strong>il</strong> pugno chiuso sulla scrivania come <strong>il</strong> duce e indican-<br />

IL SORCIO 57<br />

do la porta che dà sullo stanzone dell’archivio. «Forza, annamo<br />

de là, che te rompo er culo…»<br />

«Non ho nessuna intenzione di battermi con uno del tuo<br />

livello. Ti rendi conto la distanza siderale che ci separa? Io<br />

sono uno scrittore, tu ti esprimi a stento…»<br />

Il Sorcio scuote la testa e morde i denti.<br />

«Vieni in archivio», ruggisce scoppiando d’ira ma senza<br />

riuscire a pronunciare altro. Nicolò resta immob<strong>il</strong>e mentre <strong>il</strong><br />

Sorcio fa per salire sulla scrivania. Lo raggiunge con una<br />

manata, una via di mezzo fra uno schiaffo e un pugno. Accorrono<br />

un paio di colleghi e <strong>il</strong> capo per trattenerlo. Alla fine si<br />

lascia convincere a mollare. Ma <strong>il</strong> capo trova parole di rimprovero<br />

solo per Nicolò: «Però, Consorti, non dare giudizi tu…»<br />

«Quali giudizi? Ma mi provoca, mi provoca sempre…»<br />

Per l’ennesima volta si sente um<strong>il</strong>iato in un modo intollerab<strong>il</strong>e.<br />

Allora manda una ma<strong>il</strong> al rappresentante sindacale, <strong>il</strong><br />

quale gli risponde a stretto giro: «Non ho ben capito perché <strong>il</strong><br />

Sorcio ti abbia aggredito, ma ho presentato per l’ennesima<br />

volta la cosa al capo del Personale. Credo che lo chiamerà.»<br />

Mezz’ora dopo Nicolò riceve una ma<strong>il</strong> dal capo del Personale,<br />

che come oggetto reca la scritta: «Convocazione» e recita:<br />

«Con riferimento a fatti gestionali accaduti in data odierna, Vi<br />

prego di predisporre la Vostra presenza presso gli uffici della<br />

Direzione del Personale alle ore 12.30 di oggi. Vi prego di confermare<br />

prontamente Vostra presenza. Grazie.» La ma<strong>il</strong> è indirizzata<br />

anche al capo e al Sorcio. Ma <strong>il</strong> Sorcio di sicuro non la<br />

leggerà giacché, come già si è detto, non sa leggere la posta<br />

elettronica. Già Nicolò si crogiola in questa idea di superiorità<br />

e vantaggio quando si accorge che <strong>il</strong> capo ha stampato la ma<strong>il</strong><br />

del capo del Personale e la sta mostrando al Sorcio.


58 PARTE PRIMA<br />

«Mi sono presentato all’appuntamento, negli eleganti e<br />

ordinatissimi uffici del ribattezzato Servizio Risorse Umane,<br />

con un po’ di anticipo.»<br />

Il capo del Personale – un gagliardo, strafico quarantenne<br />

in perfetta tenuta manageriale – gli viene incontro lungo <strong>il</strong><br />

corridoio. Ha un sorriso che vuol significare <strong>il</strong> piacere di<br />

vederlo, ma anche l’amarezza di doverlo fare in una situazione<br />

così incresciosa.<br />

«Ci vediamo fra pochi minuti, prego, intanto si accomodi<br />

qui nella sala riunioni…»<br />

«No, preferisco salutare i colleghi.»<br />

«Bene, aspettiamo gli altri.»<br />

Nicolò va a salutare Lucio, un collega simpatico che racconta<br />

barzellette surreali e tifa per la Lazio. Non gli dice nulla<br />

dell’incontro, spera che sia dalla sua parte, quantunque <strong>il</strong><br />

Sorcio con lui faccia sempre <strong>il</strong> compagnone.<br />

«Perché non scrivi un libro sulla vita mia? Sai le risate…»<br />

Nicolò si ritrova nella sala riunioni, al margine di un lungo<br />

tavolo ovale <strong>il</strong> cui piano lucido manda vivaci riflessi<br />

anche nell’ombra. Osserva per qualche istante un manifesto<br />

incorniciato a giorno dove, sullo sfondo di una giogaia<br />

dolomitica innevata, corre la scritta: SUCCESSO: Fate quel<br />

che potete, con ciò che avete, dove siete (T. Roosevelt). A fianco<br />

un altro manifesto, della medesima grandezza e di soggetto<br />

sim<strong>il</strong>e: OBIETTIVI: Nessuno può dirti a quale altezza<br />

potrai elevarti.<br />

Sul tavolo sono sistemati a ventaglio parecchi numeri di<br />

una rivista di economia e finanza. Prova a sfogliarne una,<br />

ma di questa roba davvero non gliene frega nulla, e soprattutto<br />

nulla capisce (a onta del suo mestiere di bancario) e<br />

IL SORCIO 59<br />

allora la rimette a posto. Molla <strong>il</strong> giornale appena preso in<br />

mano e lascia che l’emozione ansiosa che lo domina fluisca<br />

senza ostacoli o diversioni. In essa c’è anche <strong>il</strong> disagio di<br />

essere vestito peggio del solito, senza calzini. È vero che non<br />

vuole fare carriera, che lui è scrittore e non impiegatuccio,<br />

ma i calzini maledizione doveva metterli. Ma come poteva<br />

immaginare stamani quando si è vestito che ci sarebbe stata<br />

questa convocazione in sede? Alcuni minuti dopo nella sala<br />

riunioni entrano <strong>il</strong> capo del Personale, <strong>il</strong> capo area, <strong>il</strong><br />

responsab<strong>il</strong>e del Back Office cioè <strong>il</strong> suo capo diretto, e infine<br />

<strong>il</strong> Sorcio, che ha un’aria impacciata e um<strong>il</strong>e, gli occhi bassi, le<br />

braccia dietro la schiena. Se non fosse per la calvizie e la pancetta<br />

prominente, sembrerebbe uno scolaro in punizione.<br />

Non lo ha mai visto così. Il Sorcio gli si siede accanto, ma<br />

Nicolò è ostentatamente girato a tre quarti, verso <strong>il</strong> capo del<br />

Personale, per non guardarlo. Il capo del Personale fa un<br />

lungo discorso vago e inconcludente sulla situazione generale<br />

dell’Istituto, allora Nicolò lo interrompe e dice: «La mia<br />

dignità è stata troppe volte calpestata, dottor Riotta. Mi sono<br />

fatto cambiare anche di posto, ma questo signore continua<br />

imperterrito a minacciarmi, a insultarmi… Oggi mi ha messo<br />

le mani addosso…»<br />

«Quello che è accaduto stamani, come stavo per dirvi, –<br />

riprende <strong>il</strong> capo del Personale – non deve assolutamente<br />

ripetersi. Non stiamo in un baretto di borgata, né in un mercato<br />

rionale. Questo Istituto ha cento anni di storia, bisogna<br />

rispettarne l’immagine più che onorata. Non vorrei intraprendere<br />

delle azioni disciplinari proprio adesso che <strong>il</strong> mio<br />

rapporto con i sindacati è ottimo e le trattative procedono a<br />

gonfie vele…»


60 PARTE PRIMA<br />

Dopo di lui parla <strong>il</strong> capo area, un discorsetto breve di<br />

lamentazione verso <strong>il</strong> loro servizio distaccato. «I mutuatari<br />

non dovrebbero telefonare qui in sede lamentandosi con noi<br />

che i numeri verdi non rispondono mai oppure gli rispondono<br />

male…»<br />

«Io sto al telefono tutta la mattina! Non è colpa nostra se<br />

prima si rispondeva in dieci e oggi solo in tre…», fa Nicolò,<br />

con una sicurezza che quasi scandalizza i due dirigenti.<br />

Anche <strong>il</strong> suo capo, che è un semplice Quadro Super e perciò<br />

intimidito dal prestigioso consesso, lo guarda incredulo,<br />

facendo un sì ansioso con <strong>il</strong> capo e profferendo vaghe parole<br />

di consenso.<br />

«E comunque non sono io che tratto male i mutuatari al<br />

telefono!», aggiunge Nicolò per assestare l’ultimo colpo al<br />

suo nemico. Ma <strong>il</strong> Sorcio non reagisce, continua a tenere gli<br />

occhi bassi. Sul piano del tavolo c’è riflessa la sagoma deformata<br />

del suo capoccino calvo e del suo volto acceso da cardiopatico.<br />

«Sa quante ma<strong>il</strong> ho spedito a Dario ieri pregandolo di fare<br />

pace? Una ventina, più un paio di messaggi telefonici, dottore,<br />

si rende conto?… E da parte sua nessuna risposta…»<br />

«Non vuole rassegnarsi alla separazione…»<br />

«Non posso…»<br />

«Vuole dirmi che cosa ha detto a Dario per offenderlo<br />

così?!»<br />

«Gli ho dato del parassita, del fallito, del mantenuto… Gli<br />

ho detto che deve vergognarsi perché si sveglia a mezzogiorno…»<br />

IL SORCIO 61<br />

«Capisco.»<br />

Stanno zitti per un paio di minuti come per misurare la<br />

gravità di quelle parole.<br />

«E se staccassi la spina per qualche tempo? Se me ne<br />

andassi in vacanza per un po’?… Lontano dal Sorcio e da<br />

tutti… In Umbria, sì, in Umbria, nella mia Umbria verde e<br />

s<strong>il</strong>enziosa… Chissà se cambia qualcosa!»<br />

«Non è così lontana l’Umbria… Potrebbe spedire ma<strong>il</strong> a<br />

Dario anche da lì…»<br />

Ma Nicolò continua <strong>il</strong> suo ragionamento:<br />

«Così passo per Foligno e saluto i parenti… Lo psichiatra<br />

mi firmerebbe qualcosa per <strong>il</strong> lavoro, l’attestato di un esaurimento<br />

nervoso non lo si nega a nessuno, non voglio prendere<br />

ferie, sennò mi gioco le vacanze estive… Non verrei neanche<br />

qui da lei per un po’, dottore, questo è evidente…»<br />

«È evidente… Lei ritiene che potrebbe giovarle questo?»<br />

«Non lo so. E lei?»<br />

«Io credo che se lo desidera, vuol dire che è necessario che<br />

lei lo faccia.»<br />

Nicolò non lo ringrazia, ma vorrebbe farlo, perché è esattamente<br />

la risposta che voleva sentirsi dare.<br />

«Prima o poi lo farò…»<br />

A Venezia, due anni prima di morire, suo padre in abito<br />

scuro alla prima del f<strong>il</strong>m di De Santis in sala grande. Non sa<br />

cosa dicesse al suo vicino di posto, ma a lui ch’era in galleria<br />

(con Stella, <strong>il</strong> regista e <strong>il</strong> produttore) sembrò colmo di fierezza.<br />

Alla fine del f<strong>il</strong>m, fra i fischi del pubblico, suo padre<br />

gli si accostò e gli disse: «Questo tuo regista perbacco se


62 PARTE PRIMA<br />

conosce <strong>il</strong> cinema! Ci sono quelle riprese nel bosco che<br />

sono da antologia!»<br />

«Ah, bene, allora ti è piaciuto!»<br />

«Altroché…», poi in una risata di scherno trattenuta e una<br />

strizzata cameratesca alle spalle «Se lo vuoi sapere, è molto<br />

meglio del romanzo…»<br />

Quella precisazione finale, sebbene ingiusta, da lui bisognava<br />

accettarla: non poteva capitolare del tutto, doveva<br />

lasciare uno spiraglio al suo cronico scetticismo (che si<br />

esprimeva in ostentazione di superiorità). Era sempre così,<br />

lui se diceva qualcosa di buono su Nicolò, subito doveva<br />

rimangiarsela. Forse è proprio da questa modalità che è nata<br />

la formula psicologica che contraddistingue molte sue esperienze:<br />

l’attesa ansiosa della disfatta che segna tutti i<br />

momenti lieti e di vittoria. Anche nel coito gli succede così.<br />

Teme <strong>il</strong> dolore dell’eiaculazione (che talvolta davvero prova)<br />

e non si gode l’orgasmo.<br />

«E lei era fiero di se stesso a Venezia, mentre l’altoparlante<br />

diffondeva <strong>il</strong> suo nome e tutto <strong>il</strong> pubblico la applaudiva?»<br />

«No, ero solo confuso, stordito. Ero contento della fierezza<br />

di Stella, questo sì, ero contento che lei fosse al mio fianco in<br />

quel momento. Una sorta di vanità riflessa!»<br />

Tutto <strong>il</strong> giorno gli aveva ripetuto estasiata: «Ma ti rendi<br />

conto che è successa proprio a noi questa cosa? Mi sembra<br />

un sogno!»… Com’era felice! O almeno riusciva a fargli credere<br />

di essere felice e orgogliosa di lui, innamorata della sua<br />

fantasia e della sua immaginazione.<br />

«Come furono belli, malgrado i feroci dolori di pancia,<br />

quei giorni a Venezia con Stella…»<br />

«Mhhh… Ma mi diceva di suo padre al Festival…»<br />

IL SORCIO 63<br />

«Che dicevo? Boh!… Comunque ripenso spesso alle smargiassate<br />

sen<strong>il</strong>i di mio padre, sa, dottore… Una in particolare:<br />

la cena per <strong>il</strong> dottorato di Stella, in una trattoria in faccia a<br />

Palazzo Farnese.»<br />

La lunga tavolata era stata approntata all’aperto, stava<br />

facendo notte quando arrivarono. Rondini volteggiavano<br />

sulla piazza chiazzando d’ombra <strong>il</strong> selciato già scuro. Poca<br />

gente, luce artificiale e luce calante del giorno che disputano<br />

nell’aria grave e appiccicosa. Il prof<strong>il</strong>o elegante del rinascimentale<br />

palazzo che affoga nell’ombra. Una delle due fontane<br />

di marmo <strong>il</strong>luminata da uno strano fascio luminoso<br />

azzurro che non si capisce da dove provenga. C’erano tutti i<br />

parenti di Stella, qualche amico, i suoi… A un certo punto<br />

suo padre alzando la voce gli chiese, indicando la zia di Stella<br />

all’altro capo della lunghissima tavola:<br />

«Dimmi un po’, Nicolò, chi è quella bella fatalona laggiù?»<br />

«Piantala, papà, ti sentono» gli rispose Nicolò a mezzavoce,<br />

con tono e sguardo risentiti. Ma lui continuò, rivolgendosi<br />

a Stella, fingendo di non averlo udito.<br />

«Allora, chi è quella bella fatalona?»<br />

«Mia zia Franca» fece Stella in vistoso imbarazzo.<br />

«Proprio una bella… fatalona! fatalona, va, diciamo fatalona!<br />

ah, ah… Diglielo!»<br />

Lo sentirono tutti, Nicolò ci restò di merda e non gli rivolse<br />

la parola per tutta la cena che fu punteggiata di altre<br />

imbarazzanti esibizioni del vecchio. Avrebbe potuto fac<strong>il</strong>mente<br />

offenderlo, dicendogli solo: «Piantala, papà, ti tingi di<br />

ridicolo, alla tua età gli apprezzamenti sulle donne sono<br />

patetici!», ma non glielo disse. Non voleva farlo soffrire perché<br />

sapeva che su quella faccenda dell’età era quanto mai


64 PARTE PRIMA<br />

vulnerab<strong>il</strong>e. E così, quando faceva uscite sim<strong>il</strong>i, si limitava a<br />

tenergli <strong>il</strong> muso, quando avrebbe potuto farlo capitolare con<br />

una sola parola: vecchio.<br />

«Secondo lei perché si comportava a quel modo?»<br />

«Me lo sono chiesto molte volte <strong>il</strong> perché. So solo che gli<br />

piaceva che stessero tutti a disagio a causa sua, soprattutto<br />

io. Ne traeva un sinistro godimento. Aveva <strong>il</strong> mito dell’anticonformismo,<br />

che doveva ritenere la massima forma di<br />

intelligenza. Sicché cercava sempre l’occasione di esibirlo, <strong>il</strong><br />

suo sprezzante anticonformismo, di farne teatro. Lo esibiva<br />

di preferenza quando Stella era presente. Mio padre si sentiva<br />

<strong>il</strong> fustigatore fiero e inflessib<strong>il</strong>e di tutte le convenzioni<br />

borghesi. Riteneva di poterselo permettere perché lui era un<br />

artista, un intellettuale. È fin troppo fac<strong>il</strong>e cogliere delle analogie<br />

con me, me le risparmi…»<br />

«Era colto suo padre?»<br />

«Molto più di me…»<br />

«Lei glielo riconosceva?»<br />

«Sì, altroché… Be’, in realtà su alcuni argomenti c’era<br />

competizione…»<br />

«…»<br />

«…»<br />

«Non è Joyce, papà – gli dissi – <strong>il</strong> più grande scrittore del<br />

Novecento. Non è Joyce e non è Faulkner, è Proust, è Céline…»<br />

«Ma vattene, non dire sciocchezze… Proust non lo sopporto!<br />

Non riesco a leggerlo! È troppo… troppo piagnone!»<br />

«Sai perché non lo leggi, perché ti fa soffrire!»<br />

«Non dire sciocchezze. Tutti i grandi fanno pensare alla<br />

morte.»<br />

IL SORCIO 65<br />

Le loro erano petizioni di principio, anche i giudizi di<br />

valore. Battagliavano dinanzi alla femmina, a Stella. Facevano<br />

i galli. Si vedeva che segretamente anche suo padre la corteggiava.<br />

Le battaglie i venerdì duravano da quando arrivava a casa<br />

dei suoi a quando se ne andava. Si passava da un programma<br />

televisivo che <strong>il</strong> vecchio aveva giudicato interessante, e allora<br />

Nicolò: «Pessimo… Buono per le sciampiste, le segretarie e<br />

zio Fernando!», all’ultimo f<strong>il</strong>m di Bergman, che <strong>il</strong> vecchio<br />

neppure andava a vedere, per quanto lo detestava, allora<br />

Nicolò gli diceva: «Tu come ti permetti di non andarci? Tutti<br />

gli uomini di cultura dovrebbero andarlo a vedere. È un<br />

dovere.»<br />

«Ma quale dovere! Tu sei pazzo…»<br />

«No, papà, sei tu <strong>il</strong> pazzo che non capisce…»<br />

«Mi avessi detto Buñuel, tanto tanto…»<br />

Le posizioni erano del tutto casuali, almeno per quel che<br />

riguardava Nicolò: purché fosse opposta a quella di suo<br />

padre, avrebbe sposato qualunque causa. Avrebbe gridato al<br />

genio per un f<strong>il</strong>m di Greenaway, pur di dare contro al padre<br />

(successe davvero)! Se suo padre amava Visconti e lui Fellini,<br />

era capace di dichiarare qualsiasi cosa contro Visconti, e suo<br />

padre contro Fellini.<br />

«Il primo Fellini lo detesto. Mi fa schifo! È retorico e piagnucoloso<br />

e falso, proprio come <strong>il</strong> suo amico Bergman.»<br />

«Non sono amici, papà, si conoscono appena! Si vedono ai<br />

Festival.»<br />

«Non è vero, sono culo e camicia!»<br />

«Papà, vuoi scommettere?»<br />

«Piantala!»


66 PARTE PRIMA<br />

Stella assisteva, faceva sì con la testa ora per lui, ora per suo<br />

padre. Aff<strong>il</strong>ava le loro corna, per così dire. Li incitava a continuare,<br />

a mostrare altri colpi.<br />

«A un certo punto mio cognato e mia sorella si stancarono<br />

e non vennero più, forse già gliel’ho detto. Dissero a mia<br />

madre che io e mio padre eravamo degli insopportab<strong>il</strong>i palloni<br />

gonfiati. Tornarono qualche venerdì sera dai miei quando<br />

mio padre si ammalò.»<br />

Stanno zitti qualche istante, forse un intero minuto. Poi<br />

l’analista decide di fare <strong>il</strong> punto: «Suo padre, che nella vita<br />

ha sempre dichiarato di essere scappato di casa all’età di<br />

diciassette anni, in realtà era stato scacciato dal padre per<br />

una reiterata bocciatura a scuola. Be’, c’è una certa differenza<br />

fra le due cose… Lei si rende conto quanto è stato più fortunato<br />

di suo padre? Suo padre si portò sulle spalle per tutta la<br />

vita quell’enorme macigno della cacciata da casa del proprio<br />

padre. Un gesto spietato ed estremo… un gesto biblico.»<br />

«Quasi da suicidio!»<br />

«Assolutamente!»<br />

Come si può giudicare un uomo – come lui fa continuamente<br />

con <strong>il</strong> padre – quando si conosce la verità?<br />

«Quell’uomo dovrebbe suscitare sempiterna pietà sui suoi<br />

sim<strong>il</strong>i, nient’altro!»<br />

Comunque suo padre si ribellò a questa verità così<br />

meschina: cacciato da casa per due bocciature. Si inventò la<br />

romantica fuga da casa, la precoce presa di responsab<strong>il</strong>ità e<br />

di coscienza, la bohème a Roma, l’università a Napoli…<br />

l’impegno politico, la guerra partigiana, i suoi racconti<br />

apprezzati dalla Aleramo, le donne a carrettate, le canzoni<br />

che componeva e interpretava ai Café Chantant…<br />

IL SORCIO 67<br />

Qualcosa di vero c’era, naturalmente, ma la verità era virata<br />

in mito.<br />

«Lo fece per non suscitare pietà, lui non sopportava la pietà<br />

di nessuno, tanto meno dei figli. Ma quello che voleva era<br />

dimostrare al mondo, in realtà solo a suo padre (come successe<br />

anche a me), che lui qualcosa nella vita, e da solo, era<br />

riuscito a farla. Il padre di mio padre – <strong>il</strong> Maestro Omero,<br />

come lo chiamavano tutti, <strong>il</strong> calvo e ieratico Omero – era<br />

stato direttore di banda a Montefalco, Matelica, Camerino…<br />

che a quell’epoca, e in quella zona dell’Italia centrale, era un<br />

mestiere molto meno folcloristico di quanto potrebbe apparire<br />

oggi. Allora guadagnava benino, mio nonno, ma soprattutto<br />

godeva di un ragguardevole prestigio sociale.»<br />

«Suo padre per rimuovere quell’ingombrante figura paterna<br />

dovette faticare, e fece <strong>il</strong> passo più rischioso, cercò di battere<br />

<strong>il</strong> proprio padre proprio sul suo campo: la musica.<br />

Infatti cercò di fare <strong>il</strong> cantante, l’autore di canzoni, senza<br />

sfondare mai. Non è così?»<br />

«Proprio così, dottore… Scrisse anche delle belle canzoni…<br />

Una che si chiama Piazza Navona, che nulla aveva da<br />

invidiare a Arrivederci Roma…»<br />

«Con quel macigno addosso, fu già un miracolo che non<br />

deragliasse completamente, verso <strong>il</strong> crimine o <strong>il</strong> suicidio,<br />

mantenendosi sempre su un livello di normalità… Insomma<br />

quella normalità che conosciamo…»<br />

«Già.»<br />

«E lei ha riproposto una generazione dopo lo stesso schema:<br />

ha combattuto suo padre sullo stesso suo terreno: la letteratura.<br />

Sconfiggendolo. Diventando più bravo e più famoso<br />

di lui. Demolendo la sua figura nei suoi libri.»


68 PARTE PRIMA<br />

«Non sono affatto contento di aver vinto!»<br />

«Lo immagino. Tuttavia pensi che uomo crudele doveva<br />

essere suo nonno! Eppoi rifletta sul tipo di rapporto padrefiglio<br />

che dovevano avere instaurato!»<br />

«Cristo, come poteva non venire marcio, quel povero diavolo?!…<br />

La famiglia lo aveva scacciato, e lui disprezzava la<br />

(nostra) famiglia. Lui era stato bocciato, e noi (io e Sara)<br />

eravamo i lavativi, i ciuchi, i complessati, i conformisti…<br />

Già, tutto torna. Rovesciava tutto su di noi: i suoi mostri, le<br />

sue magagne, le sue sconfitte. Lui al dunque non era nessuno,<br />

aveva fallito, era rimasto un anonimo impiegato ministeriale,<br />

ma com’era più lieve <strong>il</strong> fardello se la colpa era della<br />

moglie, dei figli, della famiglia…»<br />

«Dovette fingere tutta la vita, costruirsi un altro destino più<br />

benevolo, per accettare la sorte maligna che gli era capitata.<br />

Questo deve servirci per capire che in fondo suo padre non<br />

fu quel mostro di cattiveria che lei tende a rappresentarsi, o<br />

almeno non lo fu come lo era stato suo padre Omero con lui.<br />

Insomma non si può non riconoscergli alcune attenuanti.»<br />

Più ci pensa e meno lo odia, per i complessi che gli ha trasmesso,<br />

per la sua inclemente severità. Lo ha fatto diventare<br />

un codardo piagnucoloso, ma non poteva fare altrimenti. Il<br />

male che aveva ricevuto doveva liberarlo su qualcuno.<br />

«Accidenti, come basta un particolare alle volte per ribaltare<br />

<strong>il</strong> giudizio di tutta una vita!»<br />

«Bisognerebbe conoscere di più, immaginare gli scontri,<br />

che devono essere stati feroci, brutali. Perfino più feroci e<br />

brutali di quelli che avete avuto voi due tanti anni dopo. Suo<br />

padre era fascista e suo nonno antifascista: altro motivo di<br />

litigio e incomprensione…»<br />

IL SORCIO 69<br />

Suo nonno non poteva non detestare quel figlio adolescente<br />

che andava male a scuola e manifestava precoci simpatie<br />

per <strong>il</strong> fascio. Non mancava un raduno, esibiva gagliardetti.<br />

Lui che era un convinto e stimato antifascista, un<br />

uomo di cultura, un uomo di fede, non poteva tollerare che<br />

in casa sua si professassero idee sim<strong>il</strong>i. Anche su questo suo<br />

padre mentì con i figli. Amava ripetere che lui era comunista<br />

e suo padre moderato.<br />

«Questo è stato vero dopo forse, durante la lunga e solitaria<br />

vecchiaia di Omero, ma prima? Non diceva nulla del prima,<br />

<strong>il</strong> paraculo!»<br />

Non raccontava, se non per brevi e confusi accenni, che lui<br />

era stato un fascista m<strong>il</strong>itante, sia pure in giovanissima età,<br />

un bal<strong>il</strong>la. Come poteva fare altrimenti? Il mito doveva consegnarsi<br />

ai figli integro, senza macchie, senza incrinature. E<br />

così lui era comunista, puro come l’acqua della fonte, da<br />

sempre. Aveva una fede marxista incrollab<strong>il</strong>e, monolitica.<br />

Era stato valoroso partigiano (c’erano i libri memoriali dei<br />

partigiani deportati, con la dedica firmata, nella loro libreria),<br />

aveva salvato tanta gente (correva sui tetti ad avvisarli<br />

dell’arrivo dei tedeschi al tempo delle retate a Roma), aveva<br />

rischiato di finire alle Ardeatine. Aveva sfidato la morte più<br />

di una volta per salvare <strong>il</strong> prossimo. Forza di carattere, saldezza<br />

di principi, coraggio e perfino certi tratti di eroismo:<br />

questi erano i medaglioni che si era affisso al petto. Uomo<br />

d’arte e uomo d’azione. Mica scemo.<br />

Certo, qualunque figlio vorrebbe vivere con una siffatta<br />

immagine del padre. Si era costruito una bella storia, un<br />

passato ricco di fascino (certo assai più fascinoso della grigia<br />

esperienza di sua madre, figlia di un tassista geloso, malato


70 PARTE PRIMA<br />

ai polmoni e iscritto al fascio). Ma quanta verità c’era in<br />

quella epica storia per immagini che lui ha consegnato ai<br />

figli?<br />

«Se è stato capace di mentire su un punto, può aver mentito<br />

su tutto. Chi era dunque mio padre?»<br />

Si è messo in malattia per un po’. Poi, dopo pochi giorni dal<br />

rientro al lavoro, gli è tornata la fobica paura del Sorcio che,<br />

indifferente al rischio di un’azione disciplinare, continua a<br />

molestarlo anche dopo l’incontro al Personale. Evidentemente<br />

ha qualche santo in paradiso. Nicolò ormai si cucca<br />

insulti e minacce senza reagire né con <strong>il</strong> suo capo, né con<br />

nessuno. «Lo rovino, quel verme del San Leone Magno, lo<br />

giuro su Dio! Sapessi quanto mi stanno sul cazzo gli stronzetti<br />

del San Leone e delle Orsoline!»<br />

Nicolò è stufo di raccomandarsi a destra e a manca. Deve<br />

reagire da solo, cioè rispondere a tono, battersi. Smetterla di<br />

vivere come un lombrico, maledizione! Deve fare in modo<br />

che li separino loro, i capi, per evitare gesti dissennati dentro<br />

le centenarie e onorate mura dell’Istituto. Sì, deve provocarlo,<br />

dar la stura alla rissa.<br />

«Credo che lei possa farlo, deve solo vincere la paura di<br />

aver paura.»<br />

«Capisco che cosa vuol dire.»<br />

«Ne abbiamo già parlato…»<br />

«È un blocco mentale…»<br />

«Proprio così. Perché, parliamoci chiaro, lei cosa rischia<br />

nella peggiore delle ipotesi? Seppure lui la aggredisse fisicamente,<br />

vi separerebbero subito…»<br />

IL SORCIO 71<br />

Tutte le sere, prima di addormentarsi, Nicolò prega Dio di<br />

dargli la forza, <strong>il</strong> coraggio di reagire.<br />

«Una decina di anni fa, un motociclista cui avevo tagliato<br />

la strada con la macchina mi si avventò contro e mi pestò<br />

per bene, tuffandosi letteralmente dentro l’abitacolo, e come<br />

sempre io non mossi un dito, tutto accartocciato sul sed<strong>il</strong>e<br />

del guidatore, tremebondo, immob<strong>il</strong>e. Finirà così anche col<br />

Sorcio, lo sento…»<br />

«Dipende da lei più di quanto creda in questo momento.»<br />

Da ragazzino faceva lo stesso, Nicolò, quando qualcuno lo<br />

provocava: ricusava di battersi, si bloccava. Lo psicologo gli<br />

ha spiegato che molti animali si immob<strong>il</strong>izzano, è una loro<br />

tecnica mimetica di sopravvivenza.<br />

«Io fossi in lei non mi definirei vigliacco, codardo, questi<br />

sono giudizi morali di cui deve riuscire a liberarsi, sia quando<br />

parla di sé sia degli altri.»<br />

«Non ho avuto occasione di dimostrarlo, perché la mia<br />

generazione è stata sinora risparmiata da eventi bellici, ma<br />

sono convinto di essere uno di quelli che in guerra scappano.»<br />

Quand’era ragazzino, un altro ragazzino della sua età, non<br />

molto più grosso di lui, lo provocava tutte le sere che tornava<br />

a casa dopo la scuola. Lo fermava per strada, cominciava a<br />

spingere, a insultarlo. Ma lui non reagiva. Ogni giorno si<br />

faceva trovare nello stesso posto e riprendeva dal punto<br />

lasciato in sospeso <strong>il</strong> giorno precedente. «Checchina, vieni<br />

qua, fatti toccare…» Una volta gli sputò persino addosso,<br />

Nicolò continuò a camminare come se non fosse accaduto<br />

nulla. Poi a casa raccontò tutto ai suoi scoppiando in singhiozzi.<br />

Suo padre gli fece giurare che se fosse accaduto


72 PARTE PRIMA<br />

un’altra volta ancora, lui avrebbe reagito. Ma spergiurò: si<br />

prese altri insulti e altre molestie, senza fiatare. Non reagì<br />

mai, nemmeno l’ombra di una reazione. Ancora oggi se lo<br />

sogna la notte quel ragazzone bruno con una tuta rossa e<br />

nera, la borsa del nuoto a tracolla, un’espressione intrepida e<br />

strafottente.<br />

L’immaginazione è sempre più epica e poetica della realtà…<br />

IL SORCIO 73<br />

TORNANDO A CASA<br />

La strada è rischiarata da uno scialbo chiaro di luna. Sulle<br />

spalle premono le due bretelle dello zaino, gli scarponcini<br />

pestano <strong>il</strong> selciato ed io seguo quel loro ritmo cadenzato,<br />

gaio, colpendo ogni tre passi col pugno <strong>il</strong> muricciolo di cinta<br />

del circolo sportivo che sto costeggiando. Di lontano s’intravede<br />

l’ultimo lembo della strada, scosceso e <strong>il</strong>luminato dai<br />

lampioni. Sei in gamba, perdinci, in gamba. La voce di<br />

Manuel, vicecapo squadriglia e <strong>il</strong> suo viso bonario che mi<br />

fanno compagnia mentre torno a casa dall’Istituto dopo la<br />

riunione settimanale degli scout.<br />

La mano affondata nella tasca del giubbetto d’ordinanza<br />

stringe l’impugnatura calda e dura del coltellino a serramanico,<br />

anch’esso d’ordinanza. Quel contatto, insieme ai colpi<br />

dell’altra mano sul muricciolo, trasmette al mio corpo in<br />

movimento una gradevole vibrazione, un’acuta sensazione<br />

di resistenza e forza fisica. Gli hai rotto <strong>il</strong> culo a quei bastardi!<br />

Se non c’eri tu…<br />

Adesso trotterello, caracollo un po’ per celia, caccio urletti<br />

malandrini, senza senso, come fanno i marmocchi. Prendo a<br />

calci un barattolo di coca, ricomincio a colpire <strong>il</strong> muretto. Il<br />

cuore è gonfio di felicità, negli occhi un balenare variopinto


74 PARTE PRIMA<br />

di immagini, quelle della mia corsa vittoriosa, le facce intente<br />

e provate dei miei rivali, l’orgoglio dipinto sul faccione di<br />

Manuel, <strong>il</strong> festone rosso tutto sfrangiato del traguardo presso<br />

la scalinata del cort<strong>il</strong>e.<br />

Una cinquantina di passi, e ci sarà la luce, un muro di luce,<br />

e più giù la piazza, e poi la mia via, anch’essa <strong>il</strong>luminata. Mia<br />

madre sulla porta che vuol sapere com’è andata, le dirò tutto!<br />

Lei mi ascolterà, le br<strong>il</strong>leranno gli occhi. Sono stato <strong>il</strong><br />

migliore, dovevi vedermi, li ho distaccati di mezzo giro…<br />

Gli ho rotto <strong>il</strong> culo a quei bastardi, <strong>il</strong> culo! No, questo non<br />

glielo dirai, ah, ah, che ridere, pensa se lo facessi…<br />

Ma ecco uno dei bastardi, un altro, camminano lungo <strong>il</strong><br />

marciapiedi opposto, guardano dalla mia parte. È scuro, ma<br />

non posso ingannarmi… Luigi, lui che abita vicino a me… e<br />

l’altro? Mah, chi lo sa, avanti, vai avanti, fai finta di niente…<br />

Come prima, colpisci <strong>il</strong> muretto. Mi vengono incontro, ho<br />

una fifa matta. Luigi sorride: i denti bianchi, radi e corti, le<br />

labbra aff<strong>il</strong>ate, la faccia camusa, i capelli biondi e grassi,<br />

rasati, una colata di stagno. Dietro di lui, uno che non conosco,<br />

chi è, chi è… Grande, maledizione…<br />

«Ti presento Armando, mio fratello.»<br />

«Piacere.»<br />

«Lui è la checca, la checca dell’Istituto. Che ti dicevo: guarda<br />

com’è bello, biondo occhi azzurri bel culo, non fa mica<br />

differenza con una femmina.»<br />

«Lasciami passare!»<br />

«Perché vuoi passare? Lascia che ti tocchi. Lo sanno tutti<br />

che ti piace.»<br />

«Vaffanculo! Fammi passare, che vuoi?»<br />

«Allora hai fatto vincere i Daini, con la tua prova strepitosa.»<br />

IL SORCIO 75<br />

«Così pare. Non è colpa mia se t’è andata male.»<br />

«No, no davvero. E tu che c’entri, tu hai fatto la tua prova.<br />

Non sono mica qua per recriminare. Ma solo per toccarti. Ti<br />

va se ti tocco un po’ le chiappe?»<br />

«Lascia toccare anche me, non fare l’egoista.»<br />

«Andatevene, lasciatemi in pace, via, via ’ste mani cazzo, e<br />

tu, e tu sei grande, fac<strong>il</strong>e, fac<strong>il</strong>e per te, lasciatemi andare o<br />

grido… grido, cristo, giuro che grido!»<br />

«E grida, grida… Grida su ’sto cazzo!»<br />

E se lo tirano fuori, e mi s’accostano e mi si strofinano contro.<br />

Mi dimeno, grido ma l’urlo sfiata in gola in un sib<strong>il</strong>o roco.<br />

Il coltello, forza non esitare, caccialo fuori, nessuna pietà, dai,<br />

se li fai fuori, legittima difesa o qualcosa del genere. Ma aspetto<br />

ancora un po’. Li osservo che svolgono quelle schifose operazioni.<br />

Si masturbano, mi toccano, fanno per togliermi i calzoni.<br />

E se provo a liberarmi e a fuggire mi riacchiappano,<br />

mollandomi cazzotti sui denti. Grondo sangue e fra poco, fra<br />

poco… Il congegno scatta nella tasca. È un attimo. I due fratelli<br />

impietriti in una posa da fantocci, gli occhi fissi sul taglio<br />

obliquo della tasca. S<strong>il</strong>enzio. Solo i colpi martellanti del mio<br />

cuore sim<strong>il</strong>i a un rotolio di ciottoli. Un refolo di vento e un<br />

leggero ansimare. Poi <strong>il</strong> tempo ricomincia a scorrere.<br />

Nel pugno di una mano sanguinante c’è una lama corta e<br />

tozza che br<strong>il</strong>la. È mia, la mano. Si ritraggono, si rivestono<br />

alla meglio, mi minacciano di avere anche loro l’arma cacciata<br />

da qualche parte, negli zaini. Me ne fotto, gli faccio,<br />

cercatelo adesso, forza… Non cacatevi addosso, ora, forza!<br />

Il più grande scruta col panico negli occhi <strong>il</strong> fratello che<br />

svuota precipitosamente la sacca dello zaino sul selciato. Poi<br />

l’urlo, <strong>il</strong> rantolo, quei due che fuggono a brache mezze calate


76 PARTE PRIMA<br />

in un cerimoniale da operetta. Io che m’accascio, la selce<br />

dura e fredda del marciapiedi sulle natiche nude. Un gran<br />

s<strong>il</strong>enzio claustrale dentro e fuori. E un tripudio insensato di<br />

risa e di lacrime.<br />

«Dicevo che prego Dio ogni sera di darmi la forza per reagire<br />

al Sorcio, ripeto la richiesta numerose volte, assieme a<br />

molte altre, intercalando le suppliche con dei Padrenostro.»<br />

Non è molto che prega Nicolò, per anni se lo è vietato,<br />

anche se sopravvivevano primitive forme di religiosità come<br />

gli articolati scongiuri che ritualmente nel corso di ogni<br />

giornata si permetteva.<br />

La preghiera è una delle molte concessioni che si è preso<br />

dopo la crisi depressiva che lo ha colpito qualche anno fa e<br />

che ha creato di colpo uno spartiacque nella sua esistenza:<br />

un prima e un dopo la depressione. Insieme alla musica leggera,<br />

ai romanzi d’intrattenimento, all’ozio, allo sballo quotidiano…<br />

Per anni si è vietato tutto, per non sprecare <strong>il</strong> tempo<br />

(questa era la motivazione che si dava). Tutto quello che<br />

faceva era finalizzato all’economia del tempo nella prospettiva<br />

di diventare artista: siccome <strong>il</strong> tempo era poco, la vita<br />

breve, non doveva sprecarlo con quelle che considerava<br />

sciocchezze. E in quelle sciocchezze faceva rientrare l’ottanta<br />

per cento delle cose umane.<br />

«Vivevo con questo bastone nel culo, perdoni l’espressione.»<br />

«Rende perfettamente l’idea. Ma mi faccia qualche esempio.»<br />

«Be’, era sciocco, per esempio, ascoltare qualcosa di diverso<br />

dalla musica classica e dal jazz. Dario aveva cercato invano<br />

di iniziarmi al rock.»<br />

IL SORCIO 77<br />

«E poi?»<br />

«E poi era sciocco passeggiare per negozi, andare in palestra,<br />

fare vacanze in montagna, era sciocco partecipare a un<br />

matrimonio, andare a un concerto rock, fare figli, era sciocco,<br />

appunto, pregare… La lista potrebbe continuare.»<br />

Da allora una vocina insinuante dentro di lui gli dice «è<br />

stato Dio che ti ha guarito, e tu adesso devi ricambiarlo credendo<br />

in Lui, convertendo quanta più gente al suo verbo,<br />

mediante la tua testimonianza, la tua letteratura, tu che hai<br />

la fortuna di farti leggere. Devi raccontare la tua conversione.<br />

Ma la cosa più importante, prioritaria, è di trasmettere la<br />

fede a tuo figlio che è più plasmab<strong>il</strong>e che mai. Devi farne un<br />

credente. Questo è <strong>il</strong> tuo compito. Se tu lo farai», si dice<br />

Nicolò, «Dio non ti farà tornare mai la depressione e accoglierà<br />

le tue preghiere.»<br />

«Anche Gogol’ aveva questa idea messianica della propria<br />

letteratura…»<br />

«È condivisa da molti artisti, non necessariamente grandi,<br />

sa?»<br />

Da allora F<strong>il</strong>ippo se lo porta a messa ogni domenica, gli fa<br />

assistere a tutta la funzione partecipando al rito. L’ha perfino<br />

presentato al parroco, che gli ha spiegato <strong>il</strong> significato dell’eucarestia<br />

con una mano poggiata sul capo biondo e ricciuto.<br />

Lui non ha avuto <strong>il</strong> coraggio di dire al sacerdote che è un convertito<br />

recente, che ancora non riesce a dichiararsi cattolico,<br />

che si vergogna di segnarsi in pubblico, e tutto <strong>il</strong> resto, perché<br />

c’era F<strong>il</strong>ippo davanti, sennò magari si sarebbe sbottonato.<br />

«Credo che prima o poi lo farò, quando vincerò l’orrore<br />

fisico che mi suscitano ancora i preti…»<br />

«Ha subìto qualche violenza fisica dai preti?»


78 PARTE PRIMA<br />

«No, no, nessuna violenza diretta, qualche tirata d’orecchie,<br />

qualche scappellotto al massimo. La violenza si respirava<br />

nella scuola fra gli studenti… Fenomeni di nonnismo,<br />

di masch<strong>il</strong>ismo, di fascismo.»<br />

«Capisco.»<br />

Tace qualche istante, l’analista, guarda l’ora senza darlo a<br />

vedere, poi chiede:<br />

«Ma non doveva esserci la presentazione di un suo libro<br />

ristampato?»<br />

«Sì, c’è stata ieri. Speravo che mi avrebbero quasi asfissiato<br />

i fans, dottore, e invece la sala era piena solo di parenti e<br />

amici, soprattutto di Stella. Mi sentivo un po’ a disagio a<br />

celebrarmi davanti a tutto <strong>il</strong> parentado di mia moglie.<br />

Avranno pensato che volessi mettermi in mostra, visto che<br />

mi sono curato di invitarli tutti, telefonandogli uno per<br />

uno.»<br />

«Lo ritiene così deplorevole mettersi in mostra?»<br />

«Be’, Dario sostiene…»<br />

«È la sua opinione che ci interessa.»<br />

Il critico Cristi, accanto a lui e agli altri due relatori sul palco,<br />

parlava con assoluta convinzione della sua opera – non<br />

erano azzardi, ipotesi, era una entità esegetica ormai consolidata<br />

negli anni, attraverso sei libri.<br />

«È sempre molto lusinghiero quello che dice dei miei libri,<br />

riesce a farmi credere uno scrittore importante…»<br />

Si crogiolava proprio con questo pensiero, Nicolò, ricordando<br />

Cristi che parlava nella saletta gremita della libreria,<br />

spendendo generosi aggettivi su di lui, ormai più nel sonno<br />

che nella veglia, quando emerge dalla piccola folla l’alta e<br />

magra figura di Dario che avanza verso di lui. Cristi se ne<br />

IL SORCIO 79<br />

accorge e interrompe <strong>il</strong> suo intervento e si mette anche lui<br />

ad osservare quello sp<strong>il</strong>ungone accigliato che raggiunge <strong>il</strong><br />

lungo tavolo dei relatori, e schiaffeggia Nicolò ripetutamente<br />

(quattro volte) senza rispondere alla sua domanda quasi<br />

implorante: «Che vuoi, che ti ho fatto dopotutto?» Quando<br />

lui ha abbozzato una reazione, con <strong>il</strong> terrore che venisse presa<br />

sul serio, Dario ha tirato su col naso e gli ha sputato<br />

addosso del catarro denso e grigio, in tutto uguale a quello<br />

che sputa lui ogni mattina nel lavabo. Poi si è girato e se ne è<br />

andato passando in mezzo al pubblico che si apriva al suo<br />

passaggio mormorando di disapprovazione e biasimo. Nessuno<br />

ha fatto per bloccarlo. Nicolò si è pulito la faccia con lo<br />

scottex che qualcuno misericordiosamente gli ha passato, ha<br />

preso <strong>il</strong> microfono e ha detto:<br />

«È una cosa assurda, davvero assurda, sarebbe troppo lungo<br />

spiegarvi, comunque lo conosco, sì, era un mio amico, <strong>il</strong><br />

mio migliore amico… ma adesso, vi prego, continuiamo…»<br />

«Non ho mantenuto la promessa di non bere per l’intera settimana<br />

bianca, ho retto solo due giorni. Però ho sciato, senza<br />

accusare poi una grande stanchezza, dottore…»<br />

«Uhmmmm…»<br />

«Sono stato così bene, sentivo che la nostra triade era<br />

armonica, funzionava. Al Sorcio quasi non ho pensato, e ho<br />

dormito tutte le notti.»<br />

«Allora sua madre ha rifiutato <strong>il</strong> suo invito…»<br />

«Come sempre, dottore. Tira in ballo i suoi mali, specie<br />

l’incontinenza e la difficoltà a camminare. Ma in realtà mi sa<br />

che non sta bene con noi.»


80 PARTE PRIMA<br />

«Comunque vi sentivate al telefono?»<br />

«Ogni giorno.»<br />

«E di cosa parlavate?»<br />

«Provo a riferirle una classica telefonata… Be’, come<br />

andiamo?, le dico.»<br />

«Che cosa?»<br />

«Come andiamo, come va?»<br />

«Ah, bene, abbastanza bene.»<br />

«Ti è venuto ancora l’affanno?»<br />

«Un poco… Soprattutto la sera…»<br />

«E la tosse, ti ha fatto dormire la notte?»<br />

«Sì, qualche ora sì, grazie a Dio…»<br />

«F<strong>il</strong>ippo ha proprio imparato bene, scia già meglio di me.»<br />

«Ah, sì?»<br />

«Sì, sì, dovevi vederlo, viene giù come un diavolo.»<br />

«Ma non si farà male?»<br />

«No, no, stai tranqu<strong>il</strong>la, ha sempre un istruttore alle costole.»<br />

«Anche <strong>il</strong> pomeriggio?»<br />

«Il pomeriggio c’è la madre, mentre io dormo.»<br />

«Ah, be’…»<br />

«E tu? Che hai fatto?»<br />

«Stamattina sono uscita per comprare qualcosa… Non<br />

avevo più niente in frigo…»<br />

«E adesso, che facevi?»<br />

«Ho appena finito di stirare.»<br />

«Magnifico!», la sfotto.<br />

«Eh, già…»<br />

«E stasera? Che danno alla televisione?»<br />

«C’è Il Commissario Montalbano…»<br />

IL SORCIO 81<br />

«Ah, bene, allora hai qualcosa da vedere…»<br />

«Sì…»<br />

«E Sara?»<br />

«Non l’ho ancora sentita oggi. C’era l’ambasciatore, ha<br />

lavorato fino a tardi…»<br />

«Salutamela quando la senti… D<strong>il</strong>le che ogni tanto<br />

potrebbe farsi viva.»<br />

«Va bene.»<br />

«Ti chiamo domattina, okay? Anzi ti faccio chiamare dal<br />

piccolo…»<br />

«Buona serata.»<br />

«Buona serata, mamma, a domani…»<br />

Resta per dieci minuti in piedi bagnando <strong>il</strong> pavimento del<br />

corridoio del reparto, senza osare sedersi sul divanetto verde.<br />

«Dottore, l’ho aspettata per dirle che sono zuppo, come<br />

vede, non voglio ammalarmi e non voglio bagnare tutto, me<br />

ne andrei a casa.»<br />

«È proprio sicuro?»<br />

«Be’, sì, perché?»<br />

«Sono diverse volte che saltiamo…»<br />

«Avevo degli impegni…»<br />

«L’impegno lo ha già qui, <strong>il</strong> martedì alle quindici.»<br />

«…»<br />

«…»<br />

«Si ricorda di cosa abbiamo parlato l’ultima volta?»<br />

«No, sinceramente adesso non ricordo…»<br />

«Faccia come vuole, se preferisce vada pure, ma abbiamo<br />

parlato di Musa, un argomento che dobbiamo esplorare


82 PARTE PRIMA<br />

meglio perché contiene delle verità importanti sulla sua personalità.<br />

Insomma pensavo che lei oggi fosse venuto a parlarmi<br />

di questo…»<br />

Nicolò alla fine abbocca all’amo dello psicologo, gli viene<br />

la fregola di parlare di sé, di vomitare <strong>il</strong> rospo. Eccolo dunque<br />

nello studio che getta uno sguardo all’intorno in cerca<br />

di un posto dove appoggiare <strong>il</strong> suo giaccone zuppo, alla fine<br />

se lo toglie e lo appende all’appendiabiti di metallo lucido,<br />

br<strong>il</strong>lante e guarda le gocce che cadono impietose sul pavimento<br />

piastrellato. Poi leva gli occhi, quasi al soffitto, fino ad<br />

inquadrare la lunga e stretta finestra satinata.<br />

«Mi dispiace…»<br />

«Non si preoccupi, si sieda.»<br />

«Allora parliamo di Musa, dottore…»<br />

«Sono tutto orecchi.»<br />

Nicolò non sa ancora capacitarsi che la sua vita, sebbene a<br />

lui – e non solo a lui, anche a Dario – appaia tanto grigia e<br />

insignificante, ecciti la curiosità di qualcuno. Certo, ci sono i<br />

soldi, ma non può essere soltanto per <strong>il</strong> danaro che <strong>il</strong> dottore<br />

mostra tanto interesse per i suoi casi.<br />

«Mi parlava di Aurelio Giordani, <strong>il</strong> caporedattore…»<br />

«Lo affiancavo in tutto quello che faceva, Aurelio. Mi attraevano<br />

<strong>il</strong> suo carattere originale e la sua dedizione alla rivista, che<br />

faceva un certo effetto in quell’atmosfera di lassismo generale.»<br />

«Lassismo?»<br />

«Be’, <strong>il</strong> direttore, un giornalista della televisione che faceva<br />

pure lo scrittore, non c’era mai… Il vicedirettore, uno scrittore<br />

grasso che lavorava in un giornale di partito, idem. L’unico<br />

che lavorava veramente, e che veramente ci credeva in quella<br />

rivista, era lui. Mi piaceva che Aurelio non alludesse mai alle<br />

IL SORCIO 83<br />

mie mansioni di fattorino, parlava solo dei miei articoli, mi<br />

presentava come giornalista o poeta. Sembrava restarci male<br />

anche più di me quando <strong>il</strong> direttore mi mandava a fargli commissioni<br />

personali.»<br />

«Era frequente?»<br />

«Era la regola. In mezzo a qualche riunione importante di<br />

redazione, una volta pure alla pomposa inaugurazione della<br />

rivista, mi metteva i soldi in mano e mi spediva a comprargli<br />

le sigarette o a ritirargli un vaglia alla posta… Era um<strong>il</strong>iante,<br />

ma ero giovane e disposto a subire qualche um<strong>il</strong>iazione pur<br />

di avere un posto dove scrivere.»<br />

«Fu la sua prima palestra letteraria, quella rivista, è così?»<br />

«Proprio così.»<br />

Più Nicolò lo frequentava, Aurelio, più lo trovava bizzarro in<br />

un certo modo che allo stesso tempo gli induceva curiosità,<br />

divertimento e timore. Era un personaggio davvero unico,<br />

Aurelio Giordani, capace delle cose più impensab<strong>il</strong>i. Poteva<br />

gettare la classica polpetta avvelenata nel giardino d’un vicino,<br />

facendo secco un cane lupo perché abbaiava troppo, raccontando<br />

l’indomani l’accaduto ai colleghi e spassandosela come<br />

un matto nel descrivere la lunga agonia della bestia che aveva<br />

seguìto passo passo fino agli ultimi rantoli dalla finestra.<br />

Oppure poteva baciare sulla bocca e accarezzare per un’ora<br />

una capra rognosa e puzzolente presso lo stab<strong>il</strong>imento della<br />

tipografia in attesa che uscissero le prime copie. Ma <strong>il</strong> suo<br />

chiodo era <strong>il</strong> sesso. Omosessualità, perversioni varie, tradimenti:<br />

centrato l’obiettivo, ci ricamava sopra a lungo, con la<br />

malizia scoperta e ingenua di un adolescente, ridacchiando in<br />

sussulti che lo scuotevano da capo a piedi, contorcendosi come<br />

un clown, ammollandoti generose pacche sulle spalle.


84 PARTE PRIMA<br />

«Era un omosessuale non dichiarato, forse si era innamorato<br />

di me. Mi diceva che avevo due occhioni… Quando<br />

parlavo di Stella, si irrigidiva e cambiava discorso…»<br />

«Si era innamorato di lei.»<br />

La vig<strong>il</strong>ia di Capodanno regalò delle mutandine rosse di<br />

pizzo a una segretaria di redazione, con la quale aveva sempre<br />

mantenuto un atteggiamento cortese e cerimonioso fino<br />

all’affettazione.<br />

«Un’altra volta mise la pulce nell’orecchio alla moglie d’un<br />

collaboratore adultero che non sopportava.»<br />

Ricorda benissimo, Nicolò, quest’ultima circostanza. In<br />

redazione erano rimasti in tre: oltre loro due, c’era Baldacci,<br />

un paroliere bolognese che scriveva di musica leggera e faceva<br />

traduzioni dal francese. Era tardi, le segretarie avevano staccato<br />

da un pezzo. Lo sfortunato giornalista, un sessantenne che<br />

dimostrava i suoi anni, era venuto poco prima a consegnare<br />

un articolo in compagnia di una bella figa bionda. Come la<br />

coppia se ne fu andata, in un trionfo di risatine abbottonate,<br />

Aurelio mise i colleghi al corrente della tresca. Dietro alle spesse<br />

lenti gli occhi gli ardevano di un’allegria isterica, malata.<br />

«M’è venuta un’idea!» concluse, slanciandosi al telefono, e<br />

facendogli segno di accostarsi. Inforcò la cornetta, la riagganciò.<br />

Voleva che Nicolò ascoltasse la telefonata da un<br />

apparecchio comunicante, posto sulla scrivania di fronte.<br />

Nicolò seguì alla lettera le sue istruzioni, otturando <strong>il</strong><br />

microfono col palmo della mano e sollevando la cornetta<br />

solo ad un cenno convenuto. Il barbuto Baldacci li osservava<br />

dalla porta, sorridendo e scuotendo <strong>il</strong> capo come si fa coi<br />

ragazzini che combinano qualche marachella.<br />

«Buonasera, Ida, come va?»<br />

IL SORCIO 85<br />

«Bene, benone. Tommaso non è in casa. Non so dove sia.<br />

Hai provato al giornale?»<br />

«No, no, non sta al giornale, è venuto qui a Musa ch’è<br />

poco.»<br />

«Musa?»<br />

«Sì, la rivista letteraria. Non ti ricordi?»<br />

«Ah, sì.»<br />

«Volevo solo chiederti di avvertirlo che la Iovini s’è dimenticata<br />

qui una busta.»<br />

«La Iovini?»<br />

«Sì, quella bionda della televisione. È venuto qui con lei e<br />

sono andati via assieme. Non so cosa contenga questa busta,<br />

roba di abbigliamento mi pare. Comunque, puoi dirglielo tu<br />

a Tommaso, ché <strong>il</strong> telefono della ragazza non ce lo abbiamo<br />

qui?»<br />

«Glielo dirò.»<br />

L’accento della donna s’era fatto freddo e sbrigativo.<br />

«Grazie, Ida, a presto.»<br />

«La busta c’era veramente. L’aveva trafugata lui in un attimo<br />

di distrazione generale. La bionda si presentò l’indomani<br />

perché gliela rendessimo…»<br />

Sembrava uno di quei personaggi minori un po’ mattoidi,<br />

tratteggiati a tutto tondo, di un romanzo d’appendice. Brutto,<br />

canuto benché appena quarantenne, zitello, più bibliof<strong>il</strong>o<br />

che colto, anemico, mammone. E poi pedante, acidulo o<br />

manieroso secondo i casi. Anacronistico in tutto: nel suo<br />

non voler guidare l’automob<strong>il</strong>e, nel suo dichiarato odio per<br />

la modernità in ogni sua forma ed espressione, nel suo<br />

modo di vestire muffoso, sciatto, da pensionato delle<br />

poste… Lo strambo moralismo che manifestava sembrava


86 PARTE PRIMA<br />

essersi sedimentato nel solco delle sue frustrazioni sessuali,<br />

della sua vita privata solitaria e triste.<br />

«Penso alla sua arte vendicativa puntigliosa e spesso crudele,<br />

dottore, e alla doppiezza di cui non solo non si vergognava,<br />

ma che portava in giro come un fiore all’occhiello,<br />

quella doppiezza che lo faceva adulare <strong>il</strong> direttore in sua presenza<br />

quasi strisciando, scrivere recensioni entusiastiche sui<br />

suoi libri, e dirgli dietro di tutto, ch’era un mediocre scrittore,<br />

un mezzobusto lottizzato eccetera.»<br />

Il suo appartamento era una sentina di sozzeria e anticaglie<br />

in una vecchia palazzina a Monteverde. Tutte le volte che<br />

Nicolò ci andava – e capitava spesso – si chiedeva come si<br />

potesse viverci. Non c’era niente che fosse meno che decrepito<br />

lì dentro. I parati di stoffa, rosi, ingialliti dall’umidità,<br />

scollati agli angoli delle pareti dove pendevano sudici grumi<br />

di ragnatele, e le stanze da bagno, con sanitari e saponette<br />

del paleolitico, asciugamani stazzonati e tutti sf<strong>il</strong>acciati agli<br />

orli, e lo studio, che usava anche come stanza da letto e dove<br />

era solito ricevere gli ospiti più intimi, Nicolò compreso:<br />

scaffali e mob<strong>il</strong>i tarlati, tende ingozzite dalla sporcizia di<br />

anni, attraverso cui non f<strong>il</strong>trava un barlume di luce neppure<br />

a mezzogiorno e libri, scartoffie, quotidiani ingialliti che<br />

s’affastellavano dappertutto in spettrali colonne vellutate di<br />

polvere e come niente trovavi sopra a una p<strong>il</strong>a del genere un<br />

calzino o uno straccio di camicia. E c’era anche un gatto<br />

scheletrico, spelacchiato, che se ne stava tutto <strong>il</strong> giorno<br />

immob<strong>il</strong>e su una vecchia poltrona.<br />

Il fiore di quel degrado, comunque, era rappresentato senz’altro<br />

dai suoi genitori. Due esseri quasi centenari che sf<strong>il</strong>avano<br />

come spettri lungo i vani delle porte facendoti sobbal-<br />

IL SORCIO 87<br />

zare sulla sedia dallo spavento. E lui allora li cacciava in malo<br />

modo trattandoli alla stregua di due bestiacce invadenti.<br />

«T’ho detto di non uscire dalla tua stanza. Vai a letto, f<strong>il</strong>a! che<br />

ti ha detto <strong>il</strong> medico? Se hai bisogno di qualcosa, chiama col<br />

campanello!» Dopodiché con una macabra ironia gli diceva<br />

ridacchiando di custodire un’autentica rarità archeologica in<br />

quell’appartamento, due mummie egizie in perfetto stato di<br />

conservazione e, fatto ancora più incredib<strong>il</strong>e, semoventi.<br />

Vedendo che Nicolò si scompisciava dalle risa, arrivava ad<br />

apostrofarli coi nomi dei faraoni. «Ramsete!, Ramsete!», si<br />

sgolava, affacciato sul corridoio, voltandosi continuamente<br />

per assicurarsi che rideva ancora, «adesso arriva, stai a vedere…<br />

<strong>il</strong> tempo di sbrogliare le fasciature e sarà qui.»<br />

«Di lui non avevo più notizie. Quando, poco tempo fa, mi<br />

capita, per gioco e per noia, di digitare <strong>il</strong> suo nome sotto<br />

internet e mi compare <strong>il</strong> resoconto di una conferenza sull’Aids.»<br />

Guarda meglio, Nicolò, stringe la ricerca e scopre la sconcertante<br />

verità: affetto da Aids conclamato, Giordani ha<br />

scritto un libro un paio di anni fa sulla sua esperienza di<br />

malato. Immediatamente Nicolò se lo compra e lo divora in<br />

una sera.<br />

«È un testo di buona qualità letteraria (Giordani ha sempre<br />

scritto molto bene), ma soprattutto è una testimonianza<br />

su quell’atroce malattia, su come lui ha saputo conviverci<br />

per anni, assistendo alla lunga agonia della compagna (che<br />

nella realtà doveva essere <strong>il</strong> compagno).»<br />

Ma non riesce a rintracciarlo. Nessuno sa più nulla di lui.<br />

Al tempo della pubblicazione gli dicono che stava già molto<br />

male. Ha paura che gli rivelino ch’è morto.


88 PARTE PRIMA<br />

«Se potesse sentirmi adesso gli direi che, con tutte le sue<br />

bizzarrie, le sue morbosità, le sue doppiezze, mi ha lasciato<br />

qualcosa dentro.»<br />

Oggi, mentre Nicolò consumava <strong>il</strong> suo frugale pasto da sua<br />

madre a base di prosciutto di Parma e pane arabo, è suonato<br />

<strong>il</strong> telefono. Si è alzato per rispondere. Era la figlia della signora<br />

anziana che abita al piano di sotto, <strong>il</strong> nono. Dalla postazione<br />

del telefono in corridoio Nicolò inquadrava lo spigolo del<br />

massiccio tavolo st<strong>il</strong>e impero in soggiorno, con i leoni incisi<br />

sulle zampe robuste del mob<strong>il</strong>e, e quasi si aspettava assurdamente<br />

che ne emergesse <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o di suo padre in vestaglia,<br />

intento magari ad andare a riporre un volume del dizionario<br />

enciclopedico Treccani nella libreria a giorno del corridoio.<br />

«Volevo chiedere <strong>il</strong> favore di scendere a suonare a mia<br />

madre, che non risponde al citofono… Sa, come al solito è<br />

rotto l’ascensore… Lei è <strong>il</strong> figlio della signora Consorti, vero?»<br />

«Sì… Vado io, vado subito a vedere… Resti pure in attesa.»<br />

«Richiamerò fra cinque minuti, grazie…»<br />

Nicolò sbuffa, dice che palle alla madre ed esce sul pianerottolo,<br />

scende le scale con qualche sinistro presentimento, e<br />

dinanzi all’interno 18 della signora Morelli si accorge che la<br />

porta d’ingresso, inquadrata da qualche sparuto rampicante,<br />

è socchiusa, fermata con lo zerbino. Suona un paio di volte,<br />

prima di entrare, cauto. «Signora Morelli, signora Morelli?,<br />

sono Consorti del piano di sopra… C’è nessuno, c’è nessuno?»<br />

Nell’appartamento triste e vecchio come quello di sua<br />

madre c’è un forte odore di soffritto, <strong>il</strong> pavimento è di piastrelle<br />

a losanghe molto piccole. Nicolò sta per tornare indie-<br />

IL SORCIO 89<br />

tro, quando una luce gialla e livida lo attira nel bagno. Apre<br />

completamente la porta e inquadra la vecchia sulla tazza del<br />

cesso. Ci mette un po’ a capire ch’è morta in quella um<strong>il</strong>iante<br />

posizione. Dentro c’è l’odore delle sue ultime feci. La testa è<br />

incassata nelle spallette rachitiche, la sottoveste sollevata sulle<br />

cosce avvizzite. Una scena che Nicolò si sarebbe risparmiato<br />

volentieri. Trattiene un conato stornando lo sguardo e inquadrando<br />

così la vecchia lavatrice tutta scrostata.<br />

I figli giungono pochi minuti dopo, s’avanzano sul vano<br />

della porta di ingresso dell’appartamento col fiatone e l’espressione<br />

incredula e vagamente interrogativa che si ha<br />

sempre di fronte alla morte.<br />

«Nel bagno, io non ho toccato niente…» biascica Nicolò<br />

inforcando la rampa di scale. «Mi dispiace…»<br />

Non vuole trattenersi un minuto di più. Sale alla svelta le<br />

scale:<br />

«Muoiono tutti! – commenta tristemente sua madre accogliendolo<br />

sulla soglia – Ormai dei vecchi inqu<strong>il</strong>ini ci sono<br />

rimasta soltanto io, finché non mi cacciano…»<br />

«Ma tu stai bene, mamma…»<br />

«Eh, magari…»<br />

«Non ti puoi lamentare!», conclude ineffab<strong>il</strong>mente Nicolò<br />

come se ignorasse la squallida esistenza presente e passata di<br />

sua madre e la sua prossimità alla morte.<br />

Oggi con l’analista Nicolò ha tradito l’etichetta, che vuole<br />

che <strong>il</strong> flusso della conversazione sia sempre orientato in una<br />

sola direzione, gli ha detto che dall’accento gli sembrava<br />

sic<strong>il</strong>iano.


90 PARTE PRIMA<br />

«Di Marsala», ha risposto lui consentendo con <strong>il</strong> capo.<br />

«Marsala non la conosco…»<br />

«Perché mi chiede se sono sic<strong>il</strong>iano?»<br />

«Così, per l’accento…»<br />

«Conosce la Sic<strong>il</strong>ia?»<br />

«Poco, molto poco… Sono stato solo due volte in Sic<strong>il</strong>ia.<br />

La prima risale forse al 1990 durante le feste natalizie. Vidi la<br />

Sic<strong>il</strong>ia in una condizione climatica davvero inedita per l’isola:<br />

fredda, piovosa, in parte coperta di neve. Avevamo fatto<br />

un pacchetto tramite un’agenzia di viaggi, che prevedeva<br />

cinque pernotti in tre Jolly Hotel situati a Siracusa, Palermo,<br />

Catania. Fu un viaggetto divertente e godereccio: ogni scusa<br />

era buona per fermarsi ad apprezzare qualche specialità<br />

gastronomica o a degustare un bicchiere di vino. Ma perché<br />

le racconto tutto questo…»<br />

«Continui, non si preoccupi di questo. C’è sempre un<br />

motivo per ricordare.»<br />

Nicolò aveva prenotato da Roma una ut<strong>il</strong>itaria, ma, come<br />

spesso succede, al noleggio c’erano disponib<strong>il</strong>i soltanto fuori<br />

serie, sicché partirono da Punta Raisi con una smagliante<br />

BMW 3.20 bianca che sembrava ancora più bella perché gli<br />

costava come una Panda. Non aveva mai guidato una macchina<br />

sim<strong>il</strong>e, Nicolò. Diede subito un passaggio a un ragazzo<br />

tutto intirizzito dal freddo.<br />

«Bella macchina!», disse salendo a bordo.<br />

Evitarono di spiegare che era in noleggio, si gustarono la<br />

sensazione di esserne proprietari.<br />

«Si guida con un dito!», Nicolò disse, accelerando e sbracandosi<br />

sul morbido sed<strong>il</strong>e di pelle nera.<br />

«A quanto andiamo?», chiese Stella.<br />

IL SORCIO 91<br />

«Centoventi.»<br />

«E sembra di andare a settanta…»<br />

«Già.»<br />

Visitarono Palermo stretta in una morsa di gelo, una nebbiolina<br />

sott<strong>il</strong>e veniva su dall’asfalto umido. Sembrava una<br />

città fantasma, quasi deserta, cadente, caliginosa. Si persero<br />

in una lurida e fatiscente periferia. Davanti al muro franato<br />

di una chiesetta una donna chiedeva soldi per <strong>il</strong> figlio drogato.<br />

Gli fece capire che era in astinenza e aveva urgente<br />

bisogno di una dose. «Vi prego, aiutatemi…» Il ragazzo,<br />

infagottato in un pastrano nero rattoppato, li guardava dal<br />

bordo del marciapiede con occhi supplicanti. Allungarono<br />

alla donna pochi spiccioli e si allontanarono quasi impauriti.<br />

Alla sera cenarono a piazza Bellini, ammirando prima di<br />

entrare nel ristorante la rinomata scenografia delle chiese di<br />

San Cataldo e della Martorana e scattando un paio di foto.<br />

Fuori non c’era anima viva, dentro <strong>il</strong> ristorante invece era<br />

caldo e pieno zeppo di persone. Mangiarono con gusto la<br />

cena casereccia e bevvero del buon vino rosso. Un accogliente<br />

e ben riscaldato Jolly Hotel dalle parti del porto li<br />

aspettava.<br />

«Stella era allegra come non la vedevo più da molto tempo.<br />

Si immalinconì solo un poco nella hall perché c’erano due<br />

bimbi. In quel periodo non poteva vedere bambini piccoli,<br />

dottore, senza intristirsi, perché immediatamente le veniva <strong>il</strong><br />

pensiero che a noi non ci venivano… Quella sera facemmo<br />

sesso con più trasporto del solito e alla fine le dissi: vedrai<br />

che questa è la volta buona!»<br />

Il discorso non tornò più fino all’ultima sera, quando,<br />

mentre i due mangiavano in un ristorantino di Mondello


92 PARTE PRIMA<br />

una pasta all’aragosta che gli costava una fortuna, Stella disse:<br />

«Sai perché a noi non ci vengono?»<br />

«Perché, sentiamo…»<br />

«Perché tu nel profondo non li vuoi.»<br />

«Se li vuoi tu, li voglio anch’io!»<br />

«Appunto… Se fosse per te, tu non li vorresti…»<br />

«Però faccio tutto <strong>il</strong> possib<strong>il</strong>e… Mi sono fatto visitare, ho<br />

fatto l’esame dello sperma, lo facciamo a ogni ovulazione…<br />

Che altro posso fare?»<br />

Non gli rispose e si mise un po’ con <strong>il</strong> muso.<br />

«Cazzo, ma non possiamo goderci una vacanza tranqu<strong>il</strong>li,<br />

senza stare sempre a pensarci su!? Questi giorni eri stata brava,<br />

poi adesso all’improvviso… Che cosa è successo adesso?,<br />

non ci sono neppure bambini…»<br />

«Non lo so Nicolò, non lo so… Forse non siamo fatti l’uno<br />

per l’altra…»<br />

«Ah, sì, e te ne accorgi dopo quindici anni che stiamo<br />

insieme?»<br />

Passeggiarono per <strong>il</strong> freddo lungomare di Mondello senza<br />

dirsi più nulla. Un arabo vendeva statuette africane sopra un<br />

telo di plastica sciorinato sul marciapiede. La coppia indugiò<br />

a lungo dinanzi a quei manufatti, apparentemente interessata.<br />

L’arabo chiamò un suo collega africano, alto e nero come<br />

<strong>il</strong> carbone.<br />

«Volete comprare?», chiese.<br />

Ma loro non pensavano alle sue statuette e si allontanarono.<br />

Anche l’indomani sull’aereo per Roma ciascuno era perso<br />

nei suoi pensieri.<br />

«E lei a cosa pensava?»<br />

IL SORCIO 93<br />

«Io sicuramente pensavo che la vacanza era finita e tutto<br />

sarebbe ripreso come prima: <strong>il</strong> lavoro in banca che detestavo,<br />

le sbronze anestetiche che allora erano forse solo durante<br />

<strong>il</strong> weekend, gli amici che mi deludevano, Stella che non<br />

riuscivo a rendere felice…»<br />

«E la seconda volta?», chiede l’analista.<br />

«La seconda volta di che?»<br />

«La seconda volta ch’è stato in Sic<strong>il</strong>ia…»<br />

«Ah, sì, sono tornato in Sic<strong>il</strong>ia l’anno scorso con Stella e<br />

con <strong>il</strong> bambino che aveva ormai cinque anni. L’occasione<br />

stavolta era <strong>il</strong> premio Mondello, che ci ospitava tre giorni<br />

perché un mio romanzo era finito nella terna dei vincitori, si<br />

ricorda dottore?…»<br />

«Certo.»<br />

Arrivarono di notte senza bagagli (che per un classico disguido<br />

della compagnia aerea non erano stati imbarcati) al<br />

Palace Hotel.<br />

«Ci accompagnò un facchino ai nostri principeschi alloggi:<br />

una suite vasta e lussuosa che si affacciava sul golfo nero<br />

delimitato dal r<strong>il</strong>ievo del Monte Pellegrino.»<br />

Si affacciarono tutti e tre sulla terrazza, <strong>il</strong> piccolo venne<br />

preso in braccio per consentirgli di vedere oltre la spalletta:<br />

nel mare scint<strong>il</strong>lavano lontano i lumini dei pescherecci.<br />

Dinanzi al letto, su un carrello, erano stati sistemati del salmone<br />

affumicato e una bottiglia di champagne.<br />

«Non eravamo abituati a tutto quel lusso e ci sembrò persino<br />

esagerato. Tuttavia, spazzolammo <strong>il</strong> salmone – di cui<br />

mio figlio F<strong>il</strong>ippo andava ghiotto – e io mi scolai quasi tutto<br />

lo champagne finendo a letto ubriaco.»<br />

«Un buon inizio…»


94 PARTE PRIMA<br />

La sera della premiazione Nicolò conobbe i giurati, a ciascuno<br />

dei quali presentò la sua famigliola. Uno di loro gli<br />

chiese cosa facesse per vivere:<br />

«Lavoro in banca.»<br />

«Ah, come <strong>il</strong> protagonista del romanzo, ma allora è roba<br />

vera. Io pensavo che fosse tutto inventato!»<br />

«Il lavoro in banca è vero, verissimo. E anche la depressione.»<br />

Quel giurato, vestito tutto di nero anche per nascondere<br />

un eccesso di pinguedine, aveva una folta chioma canuta. Di<br />

lui Nicolò aveva sentito nel pomeriggio un appassionato<br />

intervento a un convegno sulla Neoavanguardia che si era<br />

tenuto nella maestosa cornice dello chalet Charleston. Il giurato<br />

scoppiò teatralmente a ridere:<br />

«Ma allora tu, tutte le mattine, ah, ah, ah, da bravo travet,<br />

te ne vai in banca in giacca e cravatta, ah, ah, ah… In mezzo<br />

a quella gente del romanzo…»<br />

Quelle risate gli parvero oltraggiose, ma non disse niente.<br />

Pensò che <strong>il</strong> fatto di essersi portato tutta la famiglia accentuava<br />

l’impressione che quel giurato, con quella risata e<br />

quelle parole, aveva fin troppo esplicitamente testimoniato.<br />

«Qui tutti mi disprezzano!», disse a Stella. «Mi fanno i<br />

complimenti su di te, sul piccolo, ma in realtà pensano che<br />

sono un miserab<strong>il</strong>e piccoloborghese…»<br />

«Con i tuoi romanzi sei proprio un borghesuccio!», lo<br />

incoraggiò Stella, ma la sera a cena capitarono al tavolo di<br />

quel giurato ed erano entrambi a disagio.<br />

«Siete proprio una bella famigliola! Il piccolo poi è stupendo,<br />

potrebbe fare le pubblicità!»<br />

«Oh, sì, bellissimo… Bellissimo!», confermò una vecchia<br />

poetessa gent<strong>il</strong>e e carica di trucco.<br />

IL SORCIO 95<br />

Il giurato canuto guardò a turno i tre componenti della<br />

piccola famiglia, poi disse:<br />

«Ma sì, la felicità è anche questa, perché no?»<br />

«Lei che cosa fa per vivere?», gli domandò Stella a bruciapelo,<br />

cancellandogli dalla faccia quel sorrisetto sognante.<br />

«Io scrivo, non potrei fare altro, non so fare altro…»,<br />

rispose <strong>il</strong> giurato canuto sorseggiando <strong>il</strong> suo Regaleali e<br />

guardandosi attorno soddisfatto.<br />

«Si vede che se lo può permettere.»<br />

«Be’, oggi sì, oggi me lo posso permettere, ma per anni è<br />

stata dura. Non avrei mai potuto fare <strong>il</strong> lavoro che fa lui…<br />

Oddìo, proprio no. E lei, Stella, invece, che cosa fa?»<br />

«Sono biologa. Come nel romanzo… Ma non l’ho mai tradito,<br />

se è questo che voleva sapere…»<br />

«E io non sono mai diventato barbone, grazie a Dio!», fece<br />

Nicolò suscitando delle blande risate nella tavolata.<br />

Si parlò del lavoro di Stella. I commensali le chiedevano<br />

questo e quello, ma si vedeva che non gliene fotteva nulla a<br />

nessuno. Volevano solo capire se lei lo aveva tradito davvero<br />

in quel modo sconcio come nel romanzo. Quando la cena<br />

finì, Stella lo prese sottobraccio e gli fece: «Mi credono una<br />

mignotta…»<br />

«È probab<strong>il</strong>e!»<br />

Una pausa, un repentino cambio di espressione:<br />

«Comunque anche se non vinci, <strong>il</strong> tuo è <strong>il</strong> romanzo più<br />

bello! Alla faccia loro!»<br />

La strinse a sé, Nicolò, e si appoggiò a lei, avendo scarsa<br />

nozione della propria dipendenza, pensando di nuovo che<br />

avrebbe fatto molto meglio a venire da solo, senza la famiglia,<br />

sarebbe stato meno a disagio. Molta gente uscì nella terrazza


96 PARTE PRIMA<br />

a fumare. Nicolò se ne andò al bar a spararsi un whisky doppio<br />

con ghiaccio. Quando tornò nella hall, Stella e la editor<br />

della sua casa editrice lo aspettavano ansiose:<br />

«È già cominciato! – gli dissero – Stanno leggendo le motivazioni…»<br />

Presero posto nella sala gremita. Poco dopo Nicolò fu invitato<br />

sul palco per ritirare <strong>il</strong> premio. Ringraziò la giuria. Si<br />

dichiarò contento di quel prestigioso riconoscimento, disse<br />

qualche banalità sulla letteratura sic<strong>il</strong>iana che si era preparato<br />

e se ne tornò al posto con una targa d’argento e le orecchie<br />

incandescenti. F<strong>il</strong>ippo gli disse:<br />

«Papà, me la regali?»<br />

«Certo, però papà te la dà dopo, adesso non sta bene.»<br />

Ma F<strong>il</strong>ippo non distoglieva gli occhi da quella targa d’argento<br />

inquadrata da una elegante scatola blu. Cominciò lo<br />

spoglio delle schede. Già si sapeva chi sarebbe stato <strong>il</strong> vincitore.<br />

Ma <strong>il</strong> bimbo non si dava pace, smaniava, ogni voto che<br />

veniva assegnato agli altri due scrittori della terna, che erano<br />

seduti nella f<strong>il</strong>a davanti alla loro, sbuffava rumorosamente.<br />

Quando fu chiaro anche a lui che <strong>il</strong> suo papà non avrebbe<br />

vinto, scoppiò a piangere e gli scappò anche una bottarella<br />

dispettosa sulle spalle del vincitore, che si voltò con un sorrisetto<br />

stiracchiato.<br />

«Non si può sempre vincere, va bene così!», gli faceva Stella<br />

per quietarlo, ma F<strong>il</strong>ippo era una valle di lacrime.<br />

Non riuscirono a consolarlo quella sera, si addormentò fra<br />

le lacrime. Stella mentre gli rimboccava le coperte diceva:<br />

«Ma lo vedi che angioletto, questo è <strong>il</strong> premio più bello che<br />

abbiamo avuto, non è vero?»<br />

«Be’, anche <strong>il</strong> Super Mondello non sarebbe stato male!»<br />

IL SORCIO 97<br />

«Ecco, non sei mai contento! Ti hanno premiato, ti hanno<br />

fatto venire qui.»<br />

«Ma sì, ma sì, sono contento. Che cosa posso volere di più?»<br />

«E questo è tutto… Sa qual è un mio sogno ricorrente, da<br />

allora, dottore? Mi sogno di ritirare <strong>il</strong> premio Mondello<br />

completamente nudo. Sf<strong>il</strong>o davanti alla giuria, sistemata<br />

sugli scranni neri in fondo al palco, col batacchio che mi<br />

sbatte sulle cosce producendo un rumore come di frusta<br />

bagnata. Intanto dico: “Sono molto contento di ritirare questo<br />

premio, la Sic<strong>il</strong>ia è un’isola meravigliosa, i sic<strong>il</strong>iani un<br />

popolo straordinario…” Stringo la mano a tutti i giurati<br />

vestiti di nero che tuttavia, anziché sorridermi come è accaduto<br />

nella realtà, mi guardano severamente l’uccello penzolante.<br />

L’ultimo della f<strong>il</strong>a, <strong>il</strong> giurato canuto che mi ha riso in<br />

faccia, mi fa dandomi la mano: “I tuoi romanzi sono mediocri<br />

proprio come la tua vita! Vatti a rivestire, sei ridicolo, ci<br />

metti tutti in imbarazzo.”»


PARTE SECONDA


IL SORCIO 101<br />

«Ricordo uno dei primi, strazianti venerdì sera della malattia<br />

di mio padre. Avevamo appreso da poco che aveva un<br />

cancro al polmone destro della grandezza di una noce. A lui<br />

gli si raccontavano mezze verità, e lui fingeva di crederci: tessuto<br />

precanceroso, cazzate sim<strong>il</strong>i.»<br />

Questo era <strong>il</strong> patto sottaciuto. I venerdì sera tuttavia, per<br />

loro stessa natura, mettevano in crisi la parte che erano tutti<br />

chiamati a interpretare. Suo padre non riusciva a piegarsi<br />

alla recita dell’umore lieto, loro alla esplicita manifestazione<br />

dell’angoscia.<br />

«Ridete, ridete, vi divertite, eh?, state bene…» disse <strong>il</strong> vecchio,<br />

con un sorriso sprezzante, raggelando tutti i commensali.<br />

«Bene, mi fa piacere, continuate, continuate pure, vi ho<br />

interrotto? Di che parlavate, di vacanze, di condizionatori<br />

mi pare…»<br />

«Non si rideva, papà, si cercava di non starci sempre a pensare,<br />

ecco tutto…», disse Nicolò.<br />

«Del resto non c’è nulla da pensare, non c’è nulla di tragico,<br />

papà – disse sua sorella, tenendosi fedele al copione – ti<br />

abbiamo detto o no che è benigno? Ti fai un piccolo intervento<br />

chirurgico e passa tutto…»


102 PARTE SECONDA<br />

«Non mi opererò mai, mettetevelo bene in testa!»<br />

«Ma papà, pensaci, <strong>il</strong> professor Castelli dice che sarebbe<br />

opportuno…»<br />

In realtà <strong>il</strong> rinomato professor Castelli, esimio chirurgo<br />

toracico del Forlanini, aveva chiesto ancora l’età di suo<br />

padre e poi aveva fatto spallucce, con un professionale cinismo<br />

che aveva mandato Nicolò su tutte le furie.<br />

«Se la faccia lui l’operazione! Anzi, fatevela voi! Voi non<br />

avete bisogno di essere operati?, voi non dovete morire?»<br />

Sprizzava fiele, voleva che qualcuno perdesse le staffe.<br />

Cosa che non accadde. Guardava fisso negli occhi sua madre<br />

con un sorriso sprezzante, di sfida, come a dire, Avanti!,<br />

vediamo se hai <strong>il</strong> coraggio di dirmi quello che realmente ho!<br />

Sua madre ricambiava quel suo sguardo ferino sorridendo<br />

impacciata.<br />

«Mio padre non si operò mai, e <strong>il</strong> cancro lo divorò in nove<br />

mesi scarsi. Il tempo della gravidanza di Stella. È diffic<strong>il</strong>e<br />

non leggere qualcosa di soprannaturale in tale coincidenza:<br />

ho concepito F<strong>il</strong>ippo lo stesso giorno nel quale ho appreso<br />

della malattia di mio padre. Proprio quella sera… Non lo<br />

trova sorprendente?»<br />

«Lo fece intenzionalmente?»<br />

«Sì, ma per Stella, io non lo volevo un figlio, dottore, né<br />

maschio né femmina. E non era – come pensava Stella – una<br />

posizione preconcetta da sessantottino rintronato. No, era<br />

proprio che non mi sentivo all’altezza, temevo che avrei fatto<br />

dei guai. Temevo che Stella cambiasse, come poi è stato, temevo<br />

che ci si imborghesisse, come poi è stato anche questo.»<br />

Anche suo padre non desiderava né <strong>il</strong> matrimonio né i<br />

figli, dovette adattarsi malvolentieri a entrambi, e fu un pes-<br />

IL SORCIO 103<br />

simo marito e un pessimo padre. Per Nicolò, viste le numerose<br />

somiglianze caratteriali, era lecito paventare che sarebbe<br />

andata allo stesso modo, anche nel rapporto con i figli e<br />

in primis con <strong>il</strong> figlio maschio. Insomma, questo lo preoccupava<br />

molto. A ogni modo non venivano, <strong>il</strong> problema ancora<br />

non si poneva.<br />

Si sottopose, assai di malavoglia, alle solite indagini che si<br />

fanno in questi casi. I suoi spermatozoi risultarono scarsi e<br />

poco attivi. «Del resto non poteva essere altrimenti giacché<br />

bisognava produrli, quegli spermatozoi, la mattina alle sei<br />

meno un quarto, appena alzati, in tre minuti scarsi, con la<br />

bocca amara e la prospettiva di una intera giornata di lavoro<br />

davanti. A parte gli scherzi, i miei spermatozoi erano a posto,<br />

solo che Stella invece di precipitarsi a portarli al laboratorio di<br />

analisi, se la prendeva comoda (un’ora, un’ora e mezza), e così<br />

ne arrivavano a destinazione pochi e per così dire spompati.»<br />

Un giorno Nicolò decise di fare tutto da sé. Si tirò una sega<br />

in macchina a viale XXI Apr<strong>il</strong>e, sotto al cappotto, all’ombra<br />

di un platano malato, davanti al palazzetto liberty del laboratorio<br />

di analisi coperto di edera, e immediatamente consegnò<br />

<strong>il</strong> prezioso seme agli analisti. Il risultato non fu br<strong>il</strong>lante,<br />

tuttavia rientrava nella norma. Nicolò ne fu piuttosto fiero.<br />

Lo riferiva a tutti.<br />

«Assistette al parto?»<br />

«Be’, sì, a parte l’ultimo atto… Ricordo i due giorni precedenti,<br />

in ospedale: scrivevo febbr<strong>il</strong>mente nella saletta d’attesa<br />

con <strong>il</strong> pc portat<strong>il</strong>e un articolo su Brecht che mi avevano<br />

commissionato al giornale.»<br />

Ricorreva l’anniversario della nascita o della morte. Bisognava<br />

scrivere otto cartelle di commemorazione.


104 PARTE SECONDA<br />

«Non sapevo un cazzo di Brecht e di letteratura tedesca.<br />

Avevo letto a vent’anni in italiano le commedie più famose,<br />

qualche poesia, e basta. Non so perché accettai. Mi lusingava<br />

la proposta. E poi la smania di pubblicare, quella specie di<br />

febbre narcisistica di vedere la firma stampata…»<br />

«Aveva appena perso suo padre…»<br />

«Da qualche settimana, ero sconvolto…»<br />

«E nonostante suo padre appena morto, nonostante Stella<br />

che doveva partorire, lei accettò quell’incarico.»<br />

«Già, sembra assurdo, eh…»<br />

«Be’, doveva importarle parecchio!»<br />

Si mise sotto a leggere di tutto su Brecht, pigliando appunti,<br />

come uno studente. Aveva quattro giorni scarsi di tempo,<br />

e Stella da un momento all’altro doveva partorire.<br />

«Io pensavo solo a quel maledetto pezzo. Mi dicevo in preda<br />

alla preoccupazione: questa è la volta che ti sputtani, tutti<br />

capiscono che improvvisi senza sapere un cazzo.»<br />

Il primo giorno passò tutto <strong>il</strong> tempo a leggere e a scrivere,<br />

un po’ nella saletta d’attesa, un po’ direttamente in camera,<br />

seduto scomodamente su una sedia di plastica, con <strong>il</strong> portat<strong>il</strong>e<br />

appoggiato sulle ginocchia. Alla sera lui e Stella si videro<br />

un f<strong>il</strong>m con Bombolo, quello che passava <strong>il</strong> convento, una<br />

roba terrificante giusto per passare <strong>il</strong> tempo. L’indomani<br />

sveglia del reparto alle sei.<br />

«Cristo, che vita di merda che si conduce in ospedale!»<br />

Nicolò attacca subito a scrivere. Alle undici ha finito <strong>il</strong> pezzo<br />

e lo invia al giornale approfittando della stampante e del<br />

fax del reparto. Finalmente è libero e può godersi l’evento.<br />

La giornata però trascorre lentissima. Le doglie non arrivano.<br />

Stella è serena, paciosa, come se stesse in un albergo a<br />

IL SORCIO 105<br />

godersi una vacanza. «Era bellissima: <strong>il</strong> volto roseo e sorridente,<br />

due grandi occhi che scint<strong>il</strong>lavano di gioia e di serenità,<br />

la chiostra candida dei denti sempre in mostra. Era <strong>il</strong><br />

ritratto della salute e della gioia.»<br />

Nel reparto già tutti la conoscevano e l’amavano. Lui invece<br />

si aggirava per quel reparto di ostetricia e ginecologia<br />

irrequieto e pallido, con la faccia malsana:<br />

«Stavo male, tanto per cambiare, dottore, ingoiavo pasticche<br />

contro la diarrea come caramelle…»<br />

Il secondo giorno Nicolò cominciò a manifestare ansia.<br />

Voleva concludere in giornata, perché gli era toccato prendere<br />

dei giorni di ferie per la bisogna e non voleva esagerare.<br />

«Fare economia sulle ferie è <strong>il</strong> primo compito di ogni d<strong>il</strong>igente<br />

impiegato.»<br />

Per fortuna la sua impazienza era condivisa dalla suocera<br />

che non vedeva l’ora di diventare nonna. Convinsero Stella a<br />

farsi provocare artificialmente le contrazioni. Come le spalmarono<br />

<strong>il</strong> gel stimolante, cominciarono le doglie, e subito<br />

frequenti, robuste. Mezz’ora dopo in sala travaglio Stella<br />

soffriva ma ancora in s<strong>il</strong>enzio. Le altre puerpere urlavano, e<br />

lei gli disse: «Ma come fanno a str<strong>il</strong>lare a quel modo, senza<br />

ritegno, io non potrei mai.»<br />

Fra una puerpera e l’altra c’era solo un corto tramezzo<br />

divisorio foderato di tessuto blu, potevi vedere tutto al di là.<br />

Nicolò cercava di non guardare le altre, per discrezione, ma<br />

anche perché gli facevano abbastanza schifo ridotte com’erano:<br />

affrante, sudate, erubescenti, sdraiate con le gambe<br />

spalancate.<br />

«Un’ora dopo eravamo rimasti soltanto noi in sala travaglio<br />

e Stella mi urlava di fare qualcosa…»


106 PARTE SECONDA<br />

Nicolò corse in infermeria. Una giovane infermiera alta e<br />

bionda con la faccia angolosa da donna del III Reich gli fece<br />

con manifesto sgarbo: «Il parto, signore mio, non è una passeggiata!»<br />

Nicolò le rispose che sua moglie non aveva nessuna<br />

voglia di soffrire e aveva chiesto che le venisse praticata<br />

l’anestesia epidurale.<br />

«Mi dispiace, – gli fece l’infermiera – doveva farne esplicita<br />

richiesta!»<br />

«Bene, la faccio adesso esplicita richiesta!»<br />

«Adesso non c’è l’anestesista che la fa!»<br />

«E quando arriva?»<br />

«Più tardi.»<br />

«Più tardi quando?»<br />

«Non lo so.»<br />

Tornò da Stella, provò a tranqu<strong>il</strong>lizzarla, ma era impossib<strong>il</strong>e,<br />

soffriva come una bestia, cominciava a perdere molto<br />

sangue. Le ore passarono, tornò più volte in infermeria senza<br />

ottenere nulla: solo generiche assicurazioni che tutto stava<br />

procedendo bene, che tutto era regolare. Stella ormai perdeva<br />

sangue a fiotti, <strong>il</strong> letto del travaglio ne era imbrattato.<br />

Lui le teneva la mano e la supplicava in modo melodrammatico<br />

di resistere.<br />

«Non ce la faccio più… Fai qualcosa, cazzo, non startene lì<br />

impalato!»<br />

Il turp<strong>il</strong>oquio per lei era una novità e Nicolò ne dedusse<br />

l’assoluta unicità del momento.<br />

«I medici dicono che va tutto bene, piccola, cosa posso<br />

fare?, dimmelo tu…»<br />

«Voglio <strong>il</strong> cesareo, voglio <strong>il</strong> cesareo subito…»<br />

Stavolta Nicolò affrontò l’infermiera a brutto muso.<br />

IL SORCIO 107<br />

«Sono dodici ore che stiamo là dentro. Mia moglie è stufa,<br />

sfinita, vuole <strong>il</strong> cesareo…»<br />

«Il cesareo lo decide <strong>il</strong> medico, caro signore, non sua<br />

moglie, né lei, né io…»<br />

Nicolò cominciò a gridare, col cuore che gli batteva a martello,<br />

che lui e sua moglie avevano fatto una emerita cazzata<br />

a scegliere <strong>il</strong> Gemelli, dove notoriamente, in quanto ospedale<br />

cattolico legato al Vaticano, se ne fottevano di terapie del<br />

dolore.<br />

«L’epidurale si fa dovunque, ormai, solo voi fate difficoltà.»<br />

«E se anche fosse… Siamo contrari, e allora?… Gesù dice,<br />

Partorirai con dolore…»<br />

«Partorirai con dolore? Me ne frego di quello che ha detto<br />

Gesù, capito?»<br />

La visitarono per l’ennesima volta, monitorarono i battiti<br />

del feto, <strong>il</strong> medico le ficcò una mano dentro per cercare la testa<br />

del piccolo. Gli dava fastidio che quel tizio trafficasse sulla fica<br />

di sua moglie. Ma davvero nulla si poteva fare per impedirlo.<br />

«Tutto bene. Continui a spingere…»<br />

«A mezzanotte e mezza stavamo ancora in quella cazzo di<br />

sala travaglio a soffrire e imprecare. Io avevo ingoiato otto<br />

pastiglie di Imodium, i dolori alla pancia mi tormentavano,<br />

ma in quella situazione come facevo a lamentarmene?»<br />

Le contrazioni di Stella ormai da diverse ore si susseguivano<br />

continue, e così le sue urla disperate. Nicolò uscì per<br />

pisciare e liberarsi dell’aria. C’erano tutti i parenti di Stella<br />

assiepati nel corridoio del reparto, come sempre assai partecipi.<br />

Dei suoi, invece, neppure un cane. La zia di Stella gli<br />

disse: «Non te la prendere Nicolò. Il dolore passa. L’importante<br />

è la salute del piccolo.»


108 PARTE SECONDA<br />

«Me ne fotto della salute del piccolo! Basta che Stella la<br />

smette di soffrire…»<br />

Nessuno osò più dirgli una parola. Quando tornò in sala<br />

travaglio attorno al letto di Stella c’era un capannello di<br />

medici e infermieri. La visita durò più del solito, alla fine<br />

decisero per <strong>il</strong> cesareo, in quanto <strong>il</strong> piccolo premeva lateralmente<br />

e stava lacerando i tessuti dell’utero. C’era pericolo<br />

per la salute della madre. Quando i medici se ne andarono,<br />

prese la mano di Stella: «Adesso passa davvero tutto, ce l’abbiamo<br />

fatta…»<br />

Stella riuscì a sorridergli pur piangendo a dirotto.<br />

«Digli di sbrigarsi, non ce la faccio più!»<br />

«Arrivano subito, vedrai! Resisti, piccola, resisti. Cristo, ma<br />

perché deve soffrire così?»<br />

Stella fu caricata sulla lettiga e trasportata in sala parto.<br />

Un’ora dopo Nicolò osservava – insieme ai parenti di Stella<br />

ch’erano ancora lì malgrado fossero quasi le due del mattino<br />

– attraverso <strong>il</strong> vetro della nursery i neonati.<br />

«Che bello, che bello!», esultava la suocera.<br />

«Perché, tu sai qual è?»<br />

«Ma sì, ancora non l’hai capito? È quello, quello in mezzo<br />

coi capelli scuri!»<br />

«Accidenti, se era quello, era proprio una botta di culo,<br />

come si dice…»<br />

Un faccino tondo tondo senza rughe né occhi abbottati né<br />

lineamenti alterati: <strong>il</strong> cesareo l’aveva risparmiato dallo sforzo<br />

del parto naturale. Fatto è che gli altri erano tutti dei mostriciattoli<br />

rugosi e frignanti, lui un piccolissimo putto s<strong>il</strong>enzioso<br />

e splendente. Nicolò non arrivò a piangere, era troppo stanco.<br />

Abbracciò sua suocera. Baciò la zia cui aveva risposto male<br />

IL SORCIO 109<br />

nel pomeriggio. Naturalmente era maschio: l’aveva sempre<br />

saputo. Nove mesi prima aveva chiesto a Stella e a tutti i<br />

parenti di non rivelargli mai <strong>il</strong> sesso, per non rovinargli la sorpresa<br />

finale (e nessuno infatti glielo aveva detto). Ma dentro<br />

di sé lo sapeva dal giorno del concepimento. Sapeva che quel<br />

piccolo sarebbe venuto a risarcirlo della perdita di suo padre.<br />

E dunque non poteva essere che maschio. Per replicare <strong>il</strong> rapporto<br />

padre-figlio. Perché Nicolò si convertisse.<br />

«Era un messaggio del Padreterno quello. Certe cose si<br />

sentono.»<br />

«Lei pensa che fosse un messaggio dell’Onnipotente?»<br />

«Proprio così.»<br />

Quella notte in ospedale accanto a Stella restò la madre.<br />

Nicolò tornò a casa. Però l’indomani di buonora era di nuovo<br />

lì. Trovò Stella con in braccio <strong>il</strong> piccolino. Stamani, senza<br />

la luce soffusa, ovattata della nursery, era meno bello. Ma era<br />

comunque un sogno di neonato.<br />

Siccome piangeva a dirotto, gli ficcò un dito in bocca e lui,<br />

ciucciando, si calmò subito e fece una smorfia di beatitudine<br />

che poteva essere un sorriso. Stella e la madre, invece di<br />

aggredirlo, lo rimbrottarono benevolmente e si misero a<br />

ridere insieme all’infermiera.<br />

«Ha capito tutto!», gli fece l’infermiera. «Sarà un ottimo<br />

padre!»<br />

«Poi come arrivammo a casa, fu l’inferno…»<br />

Quel nuovo ospite esigente e rumoroso lo disturbava,<br />

anche se non badava alle sue cacche e ai suoi pannolini,<br />

anche se non dormiva con lui, anche se non doveva dargli <strong>il</strong><br />

latte, insomma anche se non faceva praticamente nulla per<br />

lui, lasciando tutto <strong>il</strong> carico a Stella.


110 PARTE SECONDA<br />

«Il fatto è che volevo vivere esattamente come prima che<br />

nascesse… Non tolleravo alcun cambiamento a causa sua.<br />

Mi urtava che fossimo ormai reclusi a casa, senza possib<strong>il</strong>ità<br />

di evasione. Che non si leggesse più la sera, che non si andasse<br />

più al cinema, che non si potesse vedere neppure più un<br />

cazzo di f<strong>il</strong>m in cassetta dall’inizio alla fine. Mi urtava che<br />

Stella non parlasse ormai di altro che del bambino e delle<br />

sue esigenze. Che tutto <strong>il</strong> resto fosse passato improvvisamente<br />

in secondo piano…»<br />

«Che cosa intende per tutto <strong>il</strong> resto?»<br />

«La mia scrittura, dottore, la mia malattia…»<br />

Al mare fu anche peggio. Lì c’erano tutti i parenti di Stella<br />

che venivano a visitare <strong>il</strong> bambino e lui non lo sopportava.<br />

Non sopportava l’improvvisa invadenza della suocera, che<br />

irrompeva nella sua camera e sbraitava: «E apri questa finestra,<br />

senti che puzza di fumo, vuoi far ammalare <strong>il</strong> piccolo?!»,<br />

non sopportava le m<strong>il</strong>le regole di vita che <strong>il</strong> neonato gli<br />

imponeva (non fumare in casa, non andare in spiaggia nelle<br />

ore calde, non disturbarlo quando dormiva, non fare questo<br />

non fare quello…).<br />

Quando, assai di rado, doveva badare lui al bambino –<br />

benché fosse buono – riusciva comunque a perdere la<br />

pazienza. In qualche occasione fu maldestro e violento: lo<br />

scuoteva rabbiosamente per farlo smettere di piangere, alzava<br />

la voce terrorizzandolo. Insomma, tutto andava secondo<br />

le peggiori previsioni.<br />

«Mi stavo dimostrando un pessimo padre, ansioso, impaziente,<br />

nevrotico. Buon sangue non mente, riflettevo, e naturalmente<br />

pensavo a mio padre.»<br />

«Te l’avevo detto! – diceva a Stella, trascinando con fatica<br />

IL SORCIO 111<br />

la carrozzina lungo un viale ciottoloso di V<strong>il</strong>la Ada – Io non<br />

dovevo metterlo al mondo un figlio, non dovevo…»<br />

«Be’, ormai l’hai fatto! Datti una regolata!»<br />

C’era la v<strong>il</strong>la, <strong>il</strong> verde, l’aria profumata di resina ed erba<br />

umida, un tramonto purissimo dietro la f<strong>il</strong>a di castagni, ma<br />

lui non guardava niente e sentiva solo <strong>il</strong> ventre che gli doleva<br />

e un generalizzato senso di colpa.<br />

«Non sono capace a fare <strong>il</strong> padre, accidenti, devi capirmi,<br />

aiutarmi… Sto male, ho <strong>il</strong> mio mal di pancia, <strong>il</strong> mio malessere,<br />

mio padre che se ne è andato per sempre, come fai a<br />

non capire?»<br />

«Ah, io dovrei aiutarti? Ma scherzi?… Sei tu che dovresti<br />

aiutarmi fino a prova contraria… E non fai nulla! Almeno<br />

non mettermi i bastoni fra le ruote! E piantala di piangerti<br />

addosso! Non ne posso più del tuo vittimismo!»<br />

«Eppure F<strong>il</strong>ippo – malgrado tutto – sembrava chissà come<br />

attaccarsi anche a me.»<br />

Certe volte, quando lo prendeva in braccio, poggiava la<br />

testolina sull’incavo della sua spalla e smetteva all’istante di<br />

piangere e lamentarsi.<br />

«Mi faceva certi sorrisi che avrebbero commosso chiunque.<br />

Mi mettevo talvolta a guardarlo mentre dormiva. Non<br />

era solo bellissimo, era anche straordinariamente tranqu<strong>il</strong>lo<br />

e buono. Lo dicevano tutti: ripetevano ch’eravamo stati<br />

baciati dalla fortuna, che più buono di così non avrebbe<br />

potuto venirci.»<br />

In certi momenti a Nicolò sembrava che quel piccolo gli<br />

dicesse: «Io cerco di darti meno fastidio possib<strong>il</strong>e, vero?»<br />

Non aveva che da lasciarsi andare. Ma non poteva.<br />

«Stavo sempre peggio. La notte non chiudevo occhio, <strong>il</strong>


112 PARTE SECONDA<br />

ventre gonfio mi doleva, liberavo peti dolorosi in continuazione,<br />

andai a dormire nello studio per questo, per non<br />

appestare la camera da letto, un’invincib<strong>il</strong>e stanchezza mi<br />

sfiniva, non potevo vedere nessuno, non potevo sorridere.»<br />

«Era nel pieno della sua depressione!»<br />

«Proprio così.»<br />

I litigi con Stella alzarono di tono. Le crisi di pianto li<br />

colpivano entrambi, frequenti, sempre più diffic<strong>il</strong>i da<br />

domare. Avevano rinunciato tutti e due a consolarsi. Lui<br />

non faceva che lamentarsene. Si sentiva trascurato da lei a<br />

motivo del piccolo. La vedeva così innamorata di F<strong>il</strong>ippo<br />

che provava una virulenta gelosia. Non poteva odiarlo,<br />

perché era così tenero, buono e bello, ma comunque avrebbe<br />

preferito che non ci fosse, che ritornasse da dove era<br />

venuto e che le cose fra lui e Stella riprendessero dal punto<br />

di partenza. Ah, se lui non fosse mai nato e suo padre non<br />

fosse mai morto!<br />

Pensò che <strong>il</strong> motivo della crisi di coppia che indubitab<strong>il</strong>mente<br />

stavano attraversando dipendesse dal fatto che non<br />

avevano più un briciolo di intimità, che non erano mai soli.<br />

Dovevano ritagliarsi degli spazi soltanto loro, dovevano<br />

uscire insieme, andare al cinema, a cena fuori, dovevano fare<br />

nuovamente dei weekend in Umbria o in Toscana come una<br />

volta. Ma Stella faceva resistenza. Non voleva lasciarlo mai,<br />

F<strong>il</strong>ippo, soprattutto durante la notte. Doveva tenerlo sempre<br />

sotto controllo.<br />

Lo amava, di un amore esclusivo e febbr<strong>il</strong>e. Viveva per lui,<br />

era diventata un computer dedicato alla maternità, al prosieguo<br />

della specie. Il risultato di qualche weekend fuori fu<br />

disastroso.<br />

IL SORCIO 113<br />

«Stella fremeva, non vedeva l’ora di ritornare, non riusciva<br />

a godersi un cazzo!»<br />

«Si riferisce a un episodio particolare?»<br />

«Sì, un settimanale mi aveva commissionato un pezzo sulle<br />

discoteche rivierasche, con le annesse mitologie decadenti,<br />

ritualistiche e autodistruttive delle droghe, delle stragi<br />

stradali, dello stordimento collettivo.»<br />

Bisognava visitarle, cercando di mettere da parte i pregiudizi,<br />

le fac<strong>il</strong>i etichette, i moralismi. Insomma, occhi asciutti,<br />

sguardo oggettivo. Armato di questi e altri buoni propositi,<br />

mentre Stella si fa bella in albergo, Nicolò cerca in giro informazioni<br />

sulla discoteca più sballata della zona. Gli rispondono<br />

in modo pressoché unanime – dall’albergatore, al cameriere<br />

di un ristorante al porto, ai giovani che si danno allo<br />

struscio per <strong>il</strong> Corso – Le cocoricò di Riccione. Aveva già avuto<br />

la medesima dritta a Roma, prima di partire. Bene, è sabato<br />

sera e non resta che andarci.<br />

Lo informano che è inut<strong>il</strong>e arrivare prima delle due di notte<br />

e dunque cenano con comodo, lui e Stella, in un ristorante<br />

a veranda lungo <strong>il</strong> nebbioso porto canale e poi fanno di tutto<br />

per tirare tardi passeggiando per gli eleganti viali di Riccione.<br />

Solo che c’è un gran vento freddo che invola cicche e cartacce,<br />

per strada non gira un cane e le vetrine, se non dispiacciono<br />

a Stella, a lui lo annoiano terrib<strong>il</strong>mente. Stella,<br />

malvolentieri, gli permette una puntatina all’Horror Obitory<br />

bar per l’ultimo bicchierino. «Con questo posto ci sfango<br />

mezzo reportage!» Gliela mette così per non dover discutere,<br />

già allora, del proprio tasso alcolico. Davanti all’ingresso un<br />

carro funebre con la scritta Trans<strong>il</strong>vania. Sulla soglia un tizio<br />

tutto nero con <strong>il</strong> volto incipriato di bianco e una dentatura


114 PARTE SECONDA<br />

draculina. Dentro, teschi, ceri, simboli satanici. Stella non<br />

beve neppure un’aranciata. Nicolò si maledice per non essere<br />

venuto da solo.<br />

«Ma perché devi bere, stasera, me lo vuoi spiegare?»<br />

«Quando mai s’è visto uno che va in discoteca savio?»<br />

I fari delle macchine si mescolano alle luci delle insegne e<br />

sono macchie unte d’argento. Ancora un solo bicchierino, e<br />

adesso sarebbero probab<strong>il</strong>mente in un fossato. Un cartello<br />

stradale sb<strong>il</strong>enco con su scritto, semplicemente, Discoteche<br />

punta verso Riccione alta. Lo segue. La strada s’inerpica tortuosa<br />

e buia per la collina. Qua e là, emergono i prof<strong>il</strong>i delle<br />

v<strong>il</strong>le e dei lussuosi ristoranti <strong>il</strong>luminati, e poi alcuni gruppetti<br />

di ragazzi dai look arditi che camminano sul bordo<br />

della strada: capelli viola e gialli e cinturoni fosforescenti e<br />

striminzite minigonne di pa<strong>il</strong>lettes e lunghi pastrani neri e<br />

cappellacci da cowboy e tacchi a sp<strong>il</strong>lo di plastica verde e<br />

azzurra… Nicolò si accosta, <strong>il</strong>lumina coi fari: alcuni giovani<br />

si stanno cambiando d’abito al bordo della strada. Inf<strong>il</strong>ano<br />

dentro le sacche i vestiti normali e indossano i capi estrosi<br />

della festa.<br />

Arrivano a Le cocoricò, o meglio al parcheggio dove li indirizzano<br />

i cartelli: un enorme spiazzo sterrato che sconfina<br />

nella campagna buia e caliginosa. Alcuni addetti gli sp<strong>il</strong>lano<br />

denaro e gli fanno cenno di inf<strong>il</strong>are l’auto a spina lungo una<br />

coda già piuttosto lunga.<br />

«Non siamo i primi», commenta Nicolò.<br />

Mentre fa manovra, altre macchine parcheggiano al fianco<br />

e un’altra coda va già formandosi alle loro spalle. Stella non<br />

pensa che a una cosa.<br />

«Diglielo, diglielo, sennò poi ci imbottigliano…»<br />

IL SORCIO 115<br />

«Senta – chiede Nicolò a uno dei parcheggiatori – io non<br />

credo che resterò fino alla chiusura… Posso uscire a qualunque<br />

ora, vero?»<br />

Li tranqu<strong>il</strong>lizzano, e si avviano verso l’entrata. Oltre un’alta<br />

siepe di pitosforo comincia a stagliarsi <strong>il</strong> fabbricato ancora<br />

seminascosto dai rami di un albero: una specie di voliera<br />

piramidale a vetri, tutta pulsante di luci psichedeliche, percorsa<br />

in lungo e in largo da sott<strong>il</strong>i nervature di ghisa. Una<br />

voliera o una gabbia o una prigione iperrealistica da f<strong>il</strong>m di<br />

fantascienza. In tutti i casi suscita un’idea di claustrazione.<br />

Man mano che si avvicinano, cominciano a distinguersi<br />

anche gli arredi interni: lunghi coni di lamiera e maxischermi<br />

ovali e alti trespoli neri e vetrine piene di pistole, sì, sembrano<br />

proprio pistole, ma da lì è ancora diffic<strong>il</strong>e dirlo con<br />

certezza… E poi un pannello recante <strong>il</strong> disegno di un miss<strong>il</strong>e<br />

e un motto sib<strong>il</strong>lino: Non sarò mai più un ragazzo dello spazio.<br />

Il locale sta aprendo proprio adesso e c’è già una folta<br />

coda di ragazzi tutti pigiati all’ingresso, presidiato da una<br />

schiera di corpulenti buttafuori vestiti di nero (tute att<strong>il</strong>latissime,<br />

che fanno risaltare le apprezzab<strong>il</strong>i muscolature) con<br />

lo stemma del locale affisso al petto. Si mettono in coda<br />

anche loro sotto <strong>il</strong> fuoco di m<strong>il</strong>le sguardi ironici e indagatori.<br />

I ragazzi li guardano pieni di curiosità. D’accordo, pensa<br />

Nicolò, siamo piuttosto stagionati ormai, però non siamo i<br />

soli ad aver superato i trent’anni accidenti! Perché non guardano<br />

quella coppia di galli cedroni sulla sinistra, accanto al<br />

buttafuori, oppure quel tizio tutto calvo col codino o quella<br />

checca sui trampoli laggiù? Quanti anni pensano che abbia<br />

quello lì? Almeno trentacinque, garantito. Poi all’improvviso<br />

capisce. Non è l’età (o almeno non solo) a stimolare quella


116 PARTE SECONDA<br />

divertita attenzione, a renderli diversi ai loro occhi, ma <strong>il</strong><br />

look, o meglio, la totale assenza di look: lui indossa un insignificante<br />

giaccone di velluto e mocassini e pantaloni di flanella,<br />

mentre Stella è elegante ma in modo del tutto tradizionale:<br />

veste un sobrio ta<strong>il</strong>leur grigio con i bottoni d’oro<br />

che sembra la divisa di una hostess. Inut<strong>il</strong>e insistere, è<br />

impossib<strong>il</strong>e mimetizzarsi. Tanto vale allora far valere le<br />

ragioni della diversità, oltretutto <strong>il</strong> biglietto costa un bel po’<br />

di soldi. Escono dalla f<strong>il</strong>a facendosi largo quasi a spallate e<br />

raggiungono <strong>il</strong> buttafuori dall’esterno. «Senta, sono un giornalista.»<br />

gli fa Nicolò, per farla breve. «Vorrei entrare con<br />

mia moglie per un servizio!» Quello lo squadra con un’espressione<br />

poco rassicurante. Le cose sono due: o non gli<br />

crede, oppure odia i giornalisti. Nicolò gli mostra la tessera.<br />

Qualcuno l’acchiappa al volo e la porta via.<br />

Poco dopo arriva <strong>il</strong> direttore – un bell’uomo giovane e<br />

alto, in grigio – con un sorriso a trentadue denti: «Prego,<br />

accomodatevi, via, via, ragazzi, scansatevi, – dice con l’aria<br />

atteggiata a un paternalistico disgusto – lasciateli passare…»<br />

Prima di entrare, Nicolò si regala un’ultima occhiata trionfante<br />

ai ragazzi ancora pigiati nella f<strong>il</strong>a.<br />

Proprio accanto alle biglietterie c’è una scalinata spartita<br />

da una balaustra a forma di pistola.<br />

«Proprio così, un enorme pistolone nero, la cui canna lucida<br />

puntava verso la cima della scala.»<br />

«Sì, la pistola è <strong>il</strong> nostro motivo invernale.» Si ferma, <strong>il</strong><br />

direttore, lo guarda negli occhi con un sorrisetto: «Non tragga<br />

subito le sue conclusioni, dottor Consorti, mi raccomando…<br />

Non è un inno alla violenza, ma solo un gioco.»<br />

«Doveva avere una coda di paglia lunga fino a Napoli…»<br />

IL SORCIO 117<br />

«Abbia pazienza, ma siamo un po’ sospettosi con la stampa…»<br />

Fa l’ingenuo, Nicolò, gli domanda perché anche se lo sa<br />

benissimo (è venuto qui apposta). «Scrivono sempre delle<br />

cattiverie su di noi, tipo che vendiamo l’ecstasy insieme al<br />

biglietto e fomentiamo risse… Figurarsi…» In cima alla scala,<br />

contro la parete, c’è un baldacchino davvero curioso:<br />

sopra una spallata di lattughe, una bacheca abitata da vermi<br />

e coleotteri e da un giovane seminudo languidamente<br />

sdraiato su un fianco. Il direttore si gusta le sue reazioni di<br />

sconcerto, e un po’ anche di schifo: «Bello, eh?», gli fa. Nicolò<br />

e Stella osservano quegli insetti che passeggiano sulla faccia<br />

di quel povero cristo immob<strong>il</strong>e e muto e bensì vivo e vegeto.<br />

«Poverino» dice Stella.<br />

«Oh, non si preoccupi per lui. Lui sta benissimo. Quegli<br />

animaletti sono inoffensivi e là dentro c’è una temperatura<br />

di ventidue gradi.»<br />

Il direttore gli offre da bere (Stella si bagna appena le labbra<br />

con del Martini rosso) e gli mostra le varie sale del locale.<br />

Quella principale è enorme ed ellittica, con la pista sormontata<br />

da quattro coni irraggiati da una mezzaluna, alla<br />

base dei quali un maxischermo ovale proietta un frullato di<br />

videoclip che si susseguono a ritmi vertiginosi.<br />

«Inut<strong>il</strong>e dire che prevalevano di gran lunga le scene di sesso<br />

e di violenza.»<br />

Proprio adesso una donna si sta affettando una tetta con<br />

un trapano elettrico. Ma niente paura, sono solo immagini.<br />

Così come finte sono le pistole che guarniscono le pareti.<br />

Dopo una serie di stretti e oscuri corridoi anch’essi adorni di<br />

pistole ben allineate dentro bacheche di vetro, visitano una


118 PARTE SECONDA<br />

saletta labirinto: «Questa è una sala sperimentale. Ognuno<br />

deve scegliere la sua strada» gli fa <strong>il</strong> direttore, ironico. «Ma<br />

dove bisogna andare?», gli chiede Nicolò, non vedendolo più<br />

al suo fianco. Gli giunge la sua voce, in echi sfiatati, intermittenti:<br />

«Gliel’ho detto, ognuno deve trovare la sua strada.»<br />

Davvero divertente, pensa Nicolò.<br />

«Alla fine lo raggiungemmo, quel burlone del direttore,<br />

prima io e poi Stella.»<br />

La saletta sperimentale in realtà è un buco saturo di suoni<br />

sim<strong>il</strong>i al gorgoglio di un cesso guasto. Il direttore gli mostra<br />

un’altra sala ancora, dove si suona musica underground, e<br />

poi tornano in quella principale, ormai quasi piena. «No, no,<br />

saremo appena in duem<strong>il</strong>a stasera. Alle volte superiamo i<br />

trem<strong>il</strong>a. Non cominciamo mai prima dell’una. Vedrà, l’inizio<br />

è molto emozionante. Ora deve scusarmi…» Lo lascia in<br />

compagnia di una tettona dell’organizzazione. Stella lo<br />

aspetta seduta a un tavolino col suo Martini in mano.<br />

«Manca ancora qualche minuto, venga, le faccio vedere<br />

una cosa divertente.»<br />

Nicolò si lascia condurre dalla tettona nei bagni femmin<strong>il</strong>i,<br />

dove c’è un imbec<strong>il</strong>le travestito da Mara Venier tutto mossette<br />

e gridolini che fa gli onori di casa. «Oddìo un uomo,<br />

aiuto, aiuto…» In un angolo, una console e un DJ già pronto:<br />

«Abbiamo messo la musica anche qui. Così le ragazze<br />

continuano a ballare anche mentre fanno le loro cose. Divertente,<br />

no?» Invece di sorridere, trattiene un conato. Allora gli<br />

fanno spazio e lui si slancia sul primo water libero e ci vomita<br />

dentro. Ci mette qualche tempo per liberarsi, riprendersi,<br />

pulirsi la faccia, scaricare e uscire.<br />

«Cos’è, si sente male?» gli chiede la tettona.<br />

IL SORCIO 119<br />

«Devo aver bevuto troppo… Ma è passato tutto… Ora va<br />

bene…»<br />

Ha inizio la musica, ed effettivamente non è uno scherzo.<br />

Il pavimento comincia a tremare forte, le vibrazioni salgono<br />

potentissime e sorde dal basso, dai visceri si direbbe, e i<br />

ragazzi gridano come ossessi con le braccia levate in aria. Un<br />

istante dopo tutti, ma proprio tutti, cominciano a dimenarsi<br />

in ogni angolo della sala, compresa la sua accompagnatrice.<br />

«Che genere di musica è?», le urla Nicolò nell’orecchio,<br />

guardando con interesse <strong>il</strong> suo traballante décolleté. Lei gli<br />

risponde che è techno.<br />

«Questo lo avevo capito da solo, chiedevo <strong>il</strong> nome del<br />

gruppo.»<br />

Le pastiglie cominciano a girare. Non ci vuole una volpe<br />

per accorgersene. I ragazzi se le passano con estrema disinvoltura,<br />

certuni si imboccano a vicenda. Nicolò vorrebbe<br />

chiedere qualcosa in proposito al suo popputo angelo custode.<br />

Poi ci ripensa. Le domanda invece qual è la potenza dell’impianto,<br />

cosa di cui a lui non frega nulla e che butta lì tanto<br />

per parlare. Quella lo guarda storto: «Non lo so. Io mi<br />

occupo di pubbliche relazioni. Che razza di domande sono<br />

queste?»<br />

Si sposta, Nicolò, cerca di liberarsi, ma, non sa come, se la<br />

ritrova sempre fra i piedi. Invidia Stella che se ne sta per i<br />

fatti suoi.<br />

«Si sta divertendo, dottore?»<br />

«Ci provo.»<br />

Si aggira finalmente solo per la sala, scosso dalle violente<br />

vibrazioni della musica, ancora con uno strascico di nausea.<br />

I potenti laser <strong>il</strong>luminano, intermittenti, porzioni della pista


120 PARTE SECONDA<br />

dove i ragazzi si muovono incessantemente con movimenti<br />

da robot, o forse è lui, cedendo a una vulgata assai diffusa e<br />

convenzionale, che li vede così, una folla di legnosi replicanti.<br />

Si affaccia la scena di un salotto borghese, tutte quelle<br />

persone ammodo che vogliono disperatamente uscire ma<br />

una forza misteriosa le trattiene dentro sino alla morte:<br />

l’Angelo sterminatore.<br />

«E se succedesse anche qui, adesso?, mi dissi… In questo<br />

preciso momento? Cristo, lo vedevo, dottore, corpi affagottati<br />

gli uni sugli altri, ammassati, come porci dentro un porc<strong>il</strong>e<br />

stretto, presso le porte… La mia immaginazione non<br />

lesinava dettagli. Perdio, sarebbe stato formidab<strong>il</strong>e!…»<br />

Nicolò, nonostante <strong>il</strong> residuo di nausea, si va a bere qualcosa<br />

al banco e se lo porta al tavolo sotto <strong>il</strong> dominio di questa<br />

immaginazione che è deciso ad usare come collante metaforico<br />

del suo reportage. Stella non ha bevuto nulla (<strong>il</strong> bicchiere<br />

di Martini è ancora pieno) e comincia subito a lamentarsi che<br />

c’è troppo casino, che vuole andarsene.<br />

«Tanto quello che dovevi vedere l’hai visto, no?… Eppoi<br />

sei sbronzo, guardati, sei verde, ma sei in grado di capire<br />

qualcosa in quello stato?…»<br />

La verità è che era preoccupata per F<strong>il</strong>ippo che stava dalla<br />

nonna a Roma e aveva pianto tutto <strong>il</strong> giorno perché voleva la<br />

sua mamma. Questa notizia l’aveva gettata nell’inquietudine.<br />

Così se ne andarono e l’indomani partirono di buonora<br />

per tornare a casa anticipando <strong>il</strong> rientro.<br />

«Ma la lezione non l’avevo imparata, non mi rassegnavo.»<br />

Le proponeva continuamente questo e quello, Nicolò, non<br />

la lasciava mai in pace. La metteva alla prova. E ogni volta si<br />

confermava del suo cambiamento e ne soffriva. Ormai par-<br />

IL SORCIO 121<br />

lava del passato con un tono nostalgico e amaro. Fra lui e<br />

Stella non c’era mai stata tanta distanza. Il piccolo aveva scavato<br />

una crepa fra loro. Lo accusava nell’intimo di questo.<br />

Ma quello continuava segretamente a rispondergli che cercava<br />

di non dargli fastidio. E Nicolò si affezionava.<br />

«Anche ai cani ci si affeziona!», gli faceva Stella.<br />

«Ma cristo, che cosa vuoi da me?»<br />

Cominciava a soffrire quando non lo vedeva, <strong>il</strong> bimbo, era<br />

quello <strong>il</strong> sintomo, come gli era accaduto nella vita soltanto<br />

con Stella. Quello era amore, come altro chiamarlo? Se lo<br />

sbaciucchiava, e F<strong>il</strong>ippo si seccava. Faceva le coccole alla<br />

madre, ma a lui poco o niente.<br />

«Certo, lo tratti come un animale domestico… Quando ti<br />

gira, lo sbaciucchi e lo coccoli… Poi non te lo f<strong>il</strong>i per giorni e<br />

lo rimproveri per ogni cosa…»<br />

«Stella vedeva chiaro, doveva soffrirne anche lei. Ma poi<br />

qualcosa successe…»<br />

«Racconti…»<br />

«Eravamo a San Candido sulle Dolomiti. Rientravamo al<br />

rifugio dopo una breve escursione a un laghetto alpino le cui<br />

rive erano disseminate di cacche di animali, alcune enormi,<br />

di mucca, che per ridere chiamavamo tort<strong>il</strong>las, altre, di<br />

capra, piccole e lucenti come biglie. Il piccolo mi chiese di<br />

prenderlo in braccio e una volta lì mi mise le braccine attorno<br />

al collo e si strinse forte, come non aveva mai fatto.<br />

Rimasi di stucco, un fiotto di tenerezza mi invase <strong>il</strong> petto.»<br />

«Ecco, questo suo racconto dimostra che ha torto quando<br />

si accusa di non avere sentimenti… Il suo comportamento<br />

non è sempre avaro di sentimenti o cinico…»<br />

«Però si tratta di eccezioni, ha ragione Dario…»


122 PARTE SECONDA<br />

Era l’estate della sua guarigione. Prendeva <strong>il</strong> nuovo farmaco<br />

da un mese, Nicolò. Si sentiva meglio, gli tirava nuovamente<br />

<strong>il</strong> cazzo, riaffiorava in lui <strong>il</strong> sorriso e una ancora incerta<br />

voglia di vivere. Ma allora <strong>il</strong> piccolo avvertiva in lui <strong>il</strong> cambiamento?<br />

«Con mio padre non si parlò mai più così direttamente della<br />

morte che lo aspettava come quel primo venerdì della sua<br />

malattia.»<br />

Del resto subito dopo quell’episodio smise di parlare. I<br />

venerdì sera continuavano, ma lui a tavola taceva. Teneva gli<br />

occhi bassi sul piatto che aveva di fronte, non guardava nessuno<br />

dei commensali, sembrava non ascoltare neppure i<br />

loro discorsi, che venivano fatti solo per non tradire <strong>il</strong> copione,<br />

e dunque a esclusivo beneficio suo: si sarebbero acconciati<br />

assai più volentieri al s<strong>il</strong>enzio anche tutti loro.<br />

Ma no, si doveva parlare, fingere che tutto andasse normalmente.<br />

E la normalità del venerdì sera era una moderata<br />

allegria da inizio weekend. Dovevano sorridersi, farsi<br />

domande, stab<strong>il</strong>ire uno straccio di conversazione. Certe volte<br />

lui li osservava con una smorfia irridente, sicché smettevano<br />

subito di parlare, gli chiedevano timorosi:<br />

«Che c’è papà, ti facciamo ridere?»<br />

Allora lui diceva che si era sbagliato, che inseguiva un pensiero,<br />

o meglio faceva soltanto un segno con la mano che<br />

questo sottintendeva. Neppure con sua madre si aprì mai<br />

completamente. Non ebbe mai, che Nicolò sappia, una crisi<br />

di pianto. Non le disse mai Non voglio morire…, o qualcosa<br />

di sim<strong>il</strong>e. Rimase tragicamente cosciente fino alla fine, seb-<br />

IL SORCIO 123<br />

bene da ultimo le metastasi gli avessero invaso <strong>il</strong> cervello.<br />

Ebbe qualche momento di delirio: vedeva delle grosse cornacchie<br />

sui muri della sua camera e cominciava ad agitare le<br />

mani e a urlare per scacciarle. Cambiava continuamente di<br />

posto ai quadri appesi alle pareti, sicché restavano sui muri i<br />

rettangoli più chiari dei quadri asportati. Alla fine, non<br />

potendolo più fare lui, lo faceva fare a Nicolò o alla figlia<br />

Sara quando andavano a trovarlo. Seguiva un disegno tutto<br />

suo nella dislocazione di quei quadri, in qualche caso l’allineamento,<br />

la simmetria, in altri tutto <strong>il</strong> contrario.<br />

«Chissà come mi comporterei di fronte a una fine sim<strong>il</strong>e!?»<br />

«Purtroppo è una fine molto comune.»<br />

«Io credo che farei come lui, preferirei non farci mai completamente<br />

i conti con la morte, almeno davanti agli altri:<br />

per evitare un cambiamento radicale e dagli esiti imprevedib<strong>il</strong>i<br />

dei rapporti.»<br />

Il Sorcio oggi ha insultato una cliente al telefono urlando. Il<br />

capo lavorava e fingeva di non far caso a quello che stava<br />

succedendo, al canaio che stava scatenando. Tutti gli impiegati,<br />

Nicolò compreso, sono spuntati fuori dai loro immaginari<br />

recinti coi musi curiosi.<br />

Elena ha in faccia un’espressione schifata.<br />

«Senti che sta facendo quello stronzo…» dice.<br />

«Ti rendi conto, cristo! dice lui – senti, senti quell’animale.»<br />

«No, signora mia benedetta, io non posso farci niente del<br />

suo bollettino, me faccia parla’, bene allora inf<strong>il</strong>atelo su per <strong>il</strong><br />

culo <strong>il</strong> bollettino…»<br />

Nicolò freme e tiene d’occhio <strong>il</strong> capo, <strong>il</strong> quale adesso si è


124 PARTE SECONDA<br />

alzato e guarda <strong>il</strong> Sorcio che continua a insultare la mutuataria<br />

al telefono. «Il tasso è al 15%, sì, al 15 e <strong>il</strong> capitale residuo<br />

87 m<strong>il</strong>ioni… Vuole <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e, perché, che je vole di’ al<br />

responsab<strong>il</strong>e. Allora <strong>il</strong> capitale residuo… No, io nun jelo<br />

passo.»<br />

Il Sorcio si sgola in piedi, brandendo la cornetta, vermiglio<br />

in faccia per la collera. Il capo gli si avvicina, con l’aria di chi<br />

deve fare una cosa contro la propria volontà. «Calma, calma,<br />

Eraldo, passala a me.» Ma <strong>il</strong> Sorcio continua a inveire. «Fammi<br />

un favore, passamela oppure attacca.» Il Sorcio allora<br />

riaggancia la cornetta con furia rabbiosa. Dopodiché si blocca,<br />

letteralmente, guardando <strong>il</strong> capo che lo cinge con <strong>il</strong> braccio<br />

come se volesse soccorrerlo, in realtà per farlo sedere. Il<br />

Sorcio dice in un sospiro:<br />

«So’ così io, nun ce posso fa’ niente! M’ha fatto gira’ le palle,<br />

quella troia!»<br />

«Lo so, certo, non è successo niente, però adesso calmati,<br />

siediti, non ti fa bene questo sforzo…»<br />

Quando rientrano tutti nei loro cubicoli, e Nicolò è seduto<br />

dinanzi al computer, sente che <strong>il</strong> cuore pompa con furia e <strong>il</strong><br />

volto gli arde come se avesse la febbre: soffocare la rabbia è<br />

un compito penoso che impegna molti organi.<br />

PARTE TERZA


IL SORCIO 127<br />

«L’amicizia non è un passatempo piacevole, è un campo di<br />

lavoro. È sempre stato così nella mia vita con i miei migliori<br />

amici: Gabriele, poi Gigi, poi Dario… Ho sempre preteso<br />

molto (troppo), ecco perché li ho persi tutti.»<br />

«Non conviene fare di tutta l’erba un fascio. Sono amicizie<br />

che appartengono a età diverse della vita e quindi a diversi<br />

Nicolò…»<br />

«Già, con Gabriele siamo appena nell’infanzia e nella preadolescenza…»<br />

«Che cosa le viene in mente di quel periodo?»<br />

«Com’era bello avere <strong>il</strong> mercato proprio sotto casa, questo<br />

mi viene in mente. Scendevo in strada in ciabattine infradito,<br />

era estate, avrò avuto otto o forse dieci anni. Ciabattavo<br />

dentro le pozzanghere puzzolenti di pesce e mele marce dietro<br />

alle vesti scure di mia nonna.»<br />

«Sua nonna materna?»<br />

«Sì, abitava proprio di fronte a noi, un altro palazzone di<br />

dieci piani…»<br />

Oltre alla spesa al mercato, Nicolò andava a messa insieme<br />

con la nonna <strong>il</strong> sabato sera. Suo padre si informava, assentiva<br />

con un accenno di sorriso canzonatorio sulle labbra, e


128 PARTE TERZA<br />

regolarmente poi gli chiedeva: «Tutto bene? Com’è andata la<br />

messa? Vi siete divertiti?» E lui ribatteva a provocazioni e<br />

ironie facendo con le dita <strong>il</strong> segno di vittoria. Era piccolo, e<br />

diceva di credere. E l’ateismo sbandierato di suo padre gli<br />

incuteva un oscuro timore e in qualche modo lo offendeva.<br />

Come gli piaceva, Gabriele, quanto gli voleva bene! L’amicizia<br />

in certi periodi della vita sgorga spontanea e densa<br />

come l’amore. Lui era innamorato di Gabriele. Se non lo<br />

vedeva tutti i giorni, gli mancava, ci stava male.<br />

Era proprio un mattino di mercato… I due amichetti stavano<br />

sulla terrazza che girava per tre quarti intorno a casa di<br />

Nicolò, quella terrazza che li inorgogliva tutti in famiglia.<br />

Quella terrazza nella quale lui giocava con gli amici alle<br />

olimpiadi. Facevano salto in alto (atterravano su un materassaccio<br />

di crine), salto in lungo, salto triplo e varie gare di<br />

corsa. Correvano in su e in giù per <strong>il</strong> terrazzo: prove di velocità<br />

e anche di mezzofondo. Si fermavamo ai m<strong>il</strong>lecinquecento<br />

metri che avevano calcolato essere alcune centinaia di<br />

volte andata e ritorno da una parte all’altra del terrazzo.<br />

Dovevano fare un baccano tremendo. I suoi però non protestavano<br />

tanta era la soddisfazione di potergli offrire quel<br />

meraviglioso terrazzo (che chiamavano, con una punta di<br />

snobismo verso gli altri condomini, attico), un così bel posto<br />

all’aria aperta! Che trenta metri più sotto corresse uno dei<br />

viali più inquinati della città era una cosa che non li riguardava.<br />

Gli faceva un baffo a loro, lassù, l’aria malsana! La presenza<br />

di quel terrazzo fu una delle ragioni che fece innamorare i<br />

suoi dell’appartamento a viale Eritrea, in faccia alla libreria<br />

omonima, che a quel tempo non esisteva. Però era pur sempre<br />

una casa in affitto in un palazzone popolare. Quanto disagio<br />

IL SORCIO 129<br />

dava a Nicolò quella consapevolezza! Inceneriva i sogni! Tutti<br />

i suoi amici, compreso Gabriele, erano benestanti e vivevano<br />

in una casa di proprietà, cioè tutta loro. Certi ne possedevano<br />

più di una. Lo stesso Gabriele aveva una casa a Roma e una in<br />

paese. Loro invece stavano in affitto, perché non avevano i soldi<br />

per comprare un appartamento. Non erano dunque uguali<br />

agli altri: c’era una differenza. In realtà ce n’erano innumerevoli<br />

di differenze, e la scoperta di ciascuna era fonte di pena e<br />

vergogna per Nicolò. Per sua madre la casa è stato un cruccio<br />

tutta la vita. E lo è tuttora che l’ente ha messo in vendita l’appartamento,<br />

sarà costretta ad andarsene, perché, ancora, non<br />

ha abbastanza soldi per comperare l’immob<strong>il</strong>e.<br />

«Povera mamma, dovrà sloggiare, la sfrattano!»<br />

«Ha una buona pensione e troverà certo una dignitosa<br />

sistemazione», lo tranqu<strong>il</strong>lizza l’analista.<br />

«Ma le portano via la sua casa, maledizione, la casa dove ha<br />

trascorso metà e più della sua vita! La casa dove è morto mio<br />

padre. La casa dove ci ha visto crescere…»<br />

Suo padre glielo ricordava sempre con una specie di sadismo<br />

quel particolare dell’affitto, tanto lui essendo comunista<br />

della proprietà se ne fregava, ci sputava sopra. Eppure<br />

anche lui come ci teneva a casa sua, come si compiaceva di<br />

mostrarla, di arredarla bene coi mob<strong>il</strong>i antichi ricevuti in<br />

eredità, di curare le piante sul terrazzo. Aveva creato una serra<br />

rigogliosa su quel terrazzo. Suo padre era abitato da molte<br />

contraddizioni. E ciò ai suoi occhi allora pareva di un’assoluta<br />

gravità. Più tardi si fece forte di quelle contraddizioni<br />

per contestarlo. Gliele rinfacciò una per una con spietata<br />

esattezza. Ma non riuscivi mai a farlo capitolare! Si risollevava<br />

sempre. Aveva la tempra del combattente.


130 PARTE TERZA<br />

«Ma <strong>il</strong> mio primo libro è riuscito a stenderlo davvero. Già,<br />

quel libro è uscito nel 1990, lui è morto nel luglio del ’96.»<br />

Sei anni, dunque, sei anni sono la misura giusta per allevarsi<br />

un tumore. E non è tanto assurdo se si pensa al contenuto<br />

di quel libro. Le parole possono uccidere. «Perché non<br />

provi a cambiare la fine?» gli disse suo padre, sfidando <strong>il</strong><br />

patetismo, dopo averlo letto. «Io se fossi in te cercherei di<br />

riscattare nel finale la figura del padre, che ne pensi?, far<br />

vedere che in fondo, malgrado tutto, è un buon diavolo!»<br />

Poveretto, equivaleva a una coltellata vedersi raffigurato da<br />

suo figlio con tanto inclemente realismo. Lui che pontifica<br />

con sua sorella e ammannisce sermoni a tutti.<br />

«Un essere vanitoso e cattivo, che come può mortifica <strong>il</strong><br />

prossimo, fra cui <strong>il</strong> figlio stesso, creandogli un’infinità di<br />

complessi, ecco come usciva mio padre da quel libro…»<br />

«Lei l’aveva ucciso scaricandogli addosso una colpa insostenib<strong>il</strong>e<br />

per qualunque essere umano. La colpa di tutte le<br />

colpe: quella sul figlio! È così che la vede?»<br />

«Proprio così. Ce n’è abbastanza per alimentare furiosi<br />

sensi di colpa…»<br />

«Altroché…»<br />

«Ma ho divagato… dove stavo?»<br />

«Stavate sul terrazzo, lei e Gabriele…»<br />

«Perché non ci vai tu a comprare Caballero?» gli disse. «A<br />

te l’edicolante non ti conosce.»<br />

«Non ci penso nemmeno» rispose Gabriele.<br />

Lo abbracciò da tergo, lo strinse forte puntandogli i pugni<br />

chiusi sullo sterno che sporgeva ossuto.<br />

«Allora, adesso ci vai?»<br />

«È inut<strong>il</strong>e, non ci vado, anche se mi atterri non ci vado!»<br />

IL SORCIO 131<br />

Alla fine Gabriele ci andò, ma l’edicolante gli disse che<br />

quel giornaletto era vietato ai minori di quattordici anni.<br />

L’indomani erano sul balcone di casa di Gabriele a viale<br />

Liegi. Lui gli indicava l’edicola all’angolo della strada, una<br />

macchia policroma sotto <strong>il</strong> mantello scuro dei platani.<br />

«Vai, adesso tocca a te!»<br />

Gli girava un po’ la testa mentre scendeva le scale. Gli si era<br />

pure asciugato <strong>il</strong> palato. Arrivò all’edicola. Cominciò a girarci<br />

attorno senza osare avvicinarsi e nascondendosi alla vista<br />

dell’edicolante. Pensava: «Se ci riesco, accidenti, se ho <strong>il</strong><br />

coraggio di fare questo, allora sono un uomo. Gabriele l’ha<br />

fatto, questo è ciò che conta, <strong>il</strong> coraggio… E se invece non<br />

l’avesse fatto per niente, e a te avesse detto <strong>il</strong> contrario per<br />

farsi bello!? No, diavolo, Gabriele con me non mente!»<br />

Non ricorda, Nicolò, quanto tempo gironzolò sul marciapiede,<br />

irresoluto. Forse dieci minuti, forse più. Gli parvero<br />

lunghissimi. Alla fine si accostò e glielo chiese: «Cavallo, sa,<br />

Cavallero, sì, Caballero, qualcosa del genere…», disse senza<br />

guardarlo negli occhi, già, questo era <strong>il</strong> segreto, snocciolargli<br />

tutta la frase preparata senza mai guardarlo in faccia. L’edicolante<br />

lo guardò al disopra degli occhialetti tondi:<br />

«Ce l’hai gli anni?»<br />

«Cosa? Ma è per mio fratello, se non me lo può dare non<br />

importa, glielo dico e faccio venire lui. Quand’è che chiudete?»<br />

Lo guardò ancora, alla fine alzò le spalle e sbuffò:<br />

«Va be’, tieni, tieni… Ma non farti troppe seghe!»<br />

Prese in mano quel giornaletto pieno di vergogna proprio<br />

come se l’edicolante lo avesse appena visto a tirarsele.<br />

Tornò su salendo di corsa le scale, mentre prima era sceso<br />

assai lentamente.


132 PARTE TERZA<br />

«Adesso ero felice, cazzo, fierissimo di me!»<br />

Si sentiva leggero e allo stesso tempo si sentiva un uomo.<br />

Gabriele sulla porta gli fece segno di tacere, c’era l’ombra<br />

enorme di sua madre sul muro. Entrò in s<strong>il</strong>enzio, Caballero<br />

lo teneva inf<strong>il</strong>ato nei calzoni, stretto dalla cintura, con <strong>il</strong><br />

maglioncino sopra. Si chiusero in camera. Cominciarono a<br />

sfogliare quelle immagini meravigliose di cosce, tette,<br />

chiappe, perfino qualche pelo… Quelle immagini gli piacevano<br />

da impazzire. A scuola ne facevano mercato. Tutti<br />

foglietti stropicciati che lui nascondeva sopra lo scarico<br />

dell’acqua nel bagnetto di servizio. Ma la rivista intera e<br />

nuova era una novità, un lusso insperato. Ricorda che stavano<br />

sdraiati a pancia sotto e lui se lo sentiva duro che premeva<br />

sul parquet. Gabriele sfogliava le pagine e rideva. A<br />

lui invece non andava di ridere. Voleva godersi quella cosa<br />

proibita in religioso s<strong>il</strong>enzio. Gabriele rideva spesso, aveva<br />

una risata tr<strong>il</strong>lante, che Nicolò trovava a volte fastidiosa, a<br />

volte carezzevole.<br />

Ma aveva anche i suoi segreti momenti di tristezza,<br />

Gabriele. Come quando andarono a trovare un suo zio in<br />

montagna, nel reatino. La BMW del padre di Gabriele si<br />

arrampicava ruggendo fra gli stretti tornanti di montagna<br />

dai versanti sassosi, butterati di ulivi ritorti. Era un paesaggio<br />

biblico, ti aspettavi che da un momento all’altro comparisse<br />

Gesù a predicare sopra una balza. Lui e Gabriele occupavano<br />

<strong>il</strong> sed<strong>il</strong>e di dietro insieme alla sorella, una sp<strong>il</strong>ungona<br />

sempre con <strong>il</strong> muso. I due ragazzini invece sprizzavano felicità<br />

da tutti i pori. Giunsero nella bella e grande casa dello<br />

zio di Gabriele, che aveva diversi ettari di terreno intorno<br />

messo a ulivo e a vite. Si era appena spretato quello zio, era<br />

IL SORCIO 133<br />

simpatico, diceva le parolacce. I due ragazzini giocarono un<br />

poco prima di pranzo, poi mangiarono in abbondanza nella<br />

luminosa veranda e bevvero anche del vino rosso, denso e<br />

opaco di produzione dello zio.<br />

«Il papà di Gabriele – un gigante buono con la faccia da<br />

pug<strong>il</strong>e a riposo – ce ne versava di continuo, malgrado fossimo<br />

marmocchi. Com’era diverso da quel rompicoglioni di<br />

mio padre! Avrei fatto <strong>il</strong> cambio su due piedi! Un padre<br />

così, che diceva di Gabriele tutto <strong>il</strong> bene possib<strong>il</strong>e, che ci<br />

lasciava fare qualunque cosa, che ci portava in giro con la<br />

sua meravigliosa BMW nera, che ci dava perfino da bere <strong>il</strong><br />

vino, che diceva le parolacce come noi… Accidenti, non<br />

sembrava neanche un padre! Eppoi era dottore, un avvocato,<br />

e a me quella cosa sembrava degna della più alta considerazione.»<br />

Dopo <strong>il</strong> pranzo improvvisamente Gabriele sparisce. Nessuno<br />

sa dove si è cacciato. Cominciano tutti a cercarlo invano<br />

in ogni angolo della casa. Finalmente la sorella lo trova in<br />

giardino, dentro <strong>il</strong> capanno degli attrezzi: piangeva disperatamente.<br />

Tutti accorsero al richiamo della sorella. Nicolò<br />

arrivò per primo e occhieggiò dentro <strong>il</strong> capanno: nella<br />

penombra, seduto su una sella di cuoio appoggiata sopra<br />

una specie di pagliericcio umido, c’era lui, ancora scosso dai<br />

singhiozzi.<br />

«Ma che gli è successo?»<br />

«Non lo so – fece la sorella – e non lo sa neanche lui!»<br />

Appena furono di nuovo dentro casa da soli, gli chiese che<br />

avesse, cosa diavolo fosse successo.<br />

«Niente… Ogni tanto mi succede… Poi passa.»<br />

Per tutto <strong>il</strong> pomeriggio giocarono in giardino a pallone,


134 PARTE TERZA<br />

ma Gabriele non sorrise mai. Quella crisi di pianto gli aveva<br />

inciso sul volto un’afflizione che davvero accorava sulla sua<br />

bella faccetta lentigginosa da ragazzino.<br />

«Io ti voglio bene, Gabriele, tu sei <strong>il</strong> mio miglior amico,<br />

perché non mi vuoi dire che hai, che ti è successo prima?…»<br />

«Non ho niente, lasciami in pace!»<br />

Ci rimase molto male. Il suo s<strong>il</strong>enzio lo offendeva e offendeva<br />

l’idea dell’amicizia che aveva. Non riusciva a convincersi,<br />

Nicolò, che quel pianto non avesse una ragione, e sgorgasse<br />

spontaneo come nella depressione, malattia che naturalmente<br />

non conosceva allora. Più probab<strong>il</strong>mente Gabriele<br />

voleva nascondere la causa di quelle lacrime: magari una lite<br />

con <strong>il</strong> padre, che non rivelava per non offuscare la bella opinione<br />

che si era fatto su di lui. Non lo seppe mai. Alcuni anni<br />

fa – l’ultima volta che l’ha visto – ripensando a quell’antico<br />

episodio, gli fece: «Una volta piangesti senza motivo, ricordi?,<br />

eri disperato, da quel tuo zio ex prete nel reatino…»<br />

Non poteva non ricordare. Eppure così disse, guardandolo<br />

storto e sospetto.<br />

Quell’episodio rese più esclusivo e struggente <strong>il</strong> sentimento<br />

che nutriva per lui. E per questo più acuta fu la delusione<br />

quando Gabriele gli preferì Luca, che sapeva lusingare nel<br />

ruolo che gli era così congeniale di capobranco, di lottatore<br />

grosso e buono, di volgare e rozzo compagnone. Luca era<br />

grosso, muscoloso, i capelli fini e lucidi, due glutei tosti e<br />

sporgenti. Era fierissimo della sua forza: sempre a caccia di<br />

cristoni – anche grandi d’età – che potessero impegnarlo a<br />

braccio di ferro.<br />

Provò anche Nicolò a stringere amicizia con Luca. Per un<br />

periodo si vedevano in tre. Nicolò soffriva, la gelosia di<br />

IL SORCIO 135<br />

Gabriele lo macerava. Cercava anche lui di conquistare Luca,<br />

per partecipare del piacere dell’amico. Pensava: se piace a<br />

Gabriele deve essere fantastico. E allora Luca diventava<br />

magnifico, si <strong>il</strong>luminava di una luce particolarissima, dai<br />

contorni leggendari.<br />

Nicolò faceva di tutto per farlo ridere, per attirare in qualche<br />

modo la sua attenzione. Luca abbracciava camminando<br />

Gabriele con fare protettivo e quasi mai faceva altrettanto<br />

con lui. Era pieno di gregari con i quali faceva l’amicone,<br />

non c’era solo Gabriele. Ma certo Gabriele doveva contare<br />

più di tutti. Luca si crogiolava delle attenzioni di Gabriele.<br />

Nicolò non lo lusingava altrettanto bene.<br />

«Non sono mai stato un bravo gregario… Devo essere <strong>il</strong><br />

numero uno per divertirmi…»<br />

«I rapporti di forza possono non essere l’unico codice possib<strong>il</strong>e,<br />

possono non bastare per spiegare certi rapporti…»<br />

«Cioè?»<br />

«Il rapporto che aveva con Gabriele era assai complesso.<br />

Forse ci serve qualche altro elemento…»<br />

Ci si vedeva sempre al garage di Luca, un box nel cort<strong>il</strong>e di<br />

casa sua, fra la Nomentana e Sant’Angela Merici, dove lui<br />

aveva tirato su una specie di officina motociclistica. Ci venivano<br />

in tanti, era diventato un posto di ritrovo, quel fazzoletto<br />

d’asfalto sul quale si affacciavano una dozzina di box (sei<br />

da una parte, sei dall’altra) con le saracinesche verdi. Era lì<br />

che Luca faceva le sue correzioni alle testate dei motorini e<br />

praticava tutti i suoi oscuri magheggi meccanici. Nicolò non<br />

sapeva ancora chi fosse, si sforzava penosamente di interessarsi<br />

a quell’universo di bulloni, f<strong>il</strong>tri e rondelle. Sostituì<br />

anche lui <strong>il</strong> carburatore al suo Garelli verde sporcandosi tutto


136 PARTE TERZA<br />

di grasso. Si aggregava quando si andava a fare cross sotto <strong>il</strong><br />

Ponte delle Valli, fra l’Aniene che attraversava in ampie anse<br />

tutta la valle acquitrinosa e la ferrovia. Il suo Garelli si affannava<br />

su quei dossi fangosi ma non teneva assolutamente <strong>il</strong><br />

passo del motorino di Luca, un Caballero modificato, o degli<br />

altri motorini che gli schizzavano attorno da tutte le parti<br />

come palline di un flipper. Il Garelli lo aveva solo lui.<br />

«Cristo, dovevo sempre stare una tacca sotto gli altri: <strong>il</strong><br />

mio motorino era fra i più economici, costava molti soldi<br />

meno degli altri…»<br />

«Forse era <strong>il</strong> massimo che i suoi potevano spendere!»<br />

«Già, per i miei costava una fortuna!»<br />

Gabriele li accompagnava, ma non faceva cross. Lui non<br />

poteva neanche farlo poiché aveva un Morini 50 da strada.<br />

Un bel motorino da fichi, anche quello assai più costoso del<br />

suo. Ma ancora peggio se la passava sua sorella: quella poveretta<br />

<strong>il</strong> padre la mandava in giro con l’Aqu<strong>il</strong>otto rosso, una<br />

specie di aborto, né bicicletta né motorino. Sara non era esosa,<br />

chiedeva soltanto un banalissimo Ciao, e lui le rispondeva:<br />

«L’Aqu<strong>il</strong>otto andrà benissimo. Che motivo hai di comprare<br />

<strong>il</strong> Ciao, che costa molto di più?»<br />

«Papà, ti prego, non voglio andare in giro con quel coso.<br />

Non ce l’ha nessuno. Mi vergogno!»<br />

Non l’avesse mai detto! Il vecchio la guardava di traverso e<br />

cominciava la sua tirata moralistica: «Ecco, Sara, lo vedi, non<br />

vuoi mica <strong>il</strong> Ciao perché è meglio, ma solo perché ce l’hanno<br />

tutti! È conformismo <strong>il</strong> tuo! Bene, allora, proprio per questo,<br />

tu dovrai accontentarti dell’Aqu<strong>il</strong>otto!»<br />

«Ma a me piace <strong>il</strong> Ciao, l’Aqu<strong>il</strong>otto non mi piace…»<br />

«Avrai l’Aqu<strong>il</strong>otto, sennò vai con l’autobus…»<br />

IL SORCIO 137<br />

Alla fine <strong>il</strong> vecchio le comprò quel cazzo di Aqu<strong>il</strong>otto, ma<br />

lei non lo prendeva mai. Ogni tanto ci faceva un giro suo<br />

padre e quando tornava a casa diceva a Sara: «Be’, perché<br />

non lo prendi? Non andrà di moda, ma va benissimo, è perfetto…»<br />

e ricominciava a pontificare che lei era complessata<br />

e conformista, che si vergognava di tutto, che doveva cambiare,<br />

uscire dalla sua tana eccetera.<br />

«Mi scusi dottore, ho di nuovo perso <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o.»<br />

«Parlava di Gabriele…»<br />

«Dio quanto ne soffrivo del tradimento di Gabriele! Avrei<br />

voluto prenderlo in disparte e dirglielo papale papale: “Se sei<br />

amico mio, non puoi essere anche amico di Luca!” Ma non<br />

glielo dissi mai. Non volevo sembrare una specie di checca. E<br />

così Gabriele praticamente lo persi.»<br />

Crescendo Gabriele s’avvicinò ad altri. Per ripicca si cercò<br />

anche Nicolò dei nuovi amici: Gigi, Alessandro, Miccia,<br />

Francesco, Kater, Dario… Tutto <strong>il</strong> gruppo del Paris.<br />

«Ma dapprincipio furono un ripiego, dottore…»<br />

«Succede spesso così.»<br />

Nicolò frequentava un gruppo in competizione con quello<br />

di Gabriele.<br />

«Loro erano dei veri pariolini, si vedevano a Piazza<br />

Ungheria o a Piazzale delle Muse (Piazzale e basta veniva<br />

chiamato dai pochi aff<strong>il</strong>iati con le zeta blese). Noi eravamo<br />

sempre pariolini, ma un po’ più sfigati, un po’ più spostati<br />

verso Corso Trieste e <strong>il</strong> quartiere africano. Il nostro bar di<br />

riferimento era <strong>il</strong> Paris bar a corso Trieste, vicino al liceo<br />

Giulio Cesare, dove ci vedevamo tutti i pomeriggi e anche<br />

la sera.»<br />

Davanti a quel bar, in crocchi attorno ai motorini issati sui


138 PARTE TERZA<br />

cavalletti, fumavano, chiacchieravano, parlavano di fica,<br />

rimorchiavano le ragazzine che passavano e molestavano la<br />

gente.<br />

«Eravamo piuttosto rinomati nella zona: quelli del Paris,<br />

dicevano di noi: cioè ragazzi fichi, di destra, in soldi, ragazzi<br />

del quartiere!»<br />

Nicolò faceva di tutto per apparire come gli altri, ma ogni<br />

tanto un dettaglio veniva a rammentargli la sua diversa<br />

estrazione: di solito roba griffata che gli mancava o che aveva<br />

posticcia. Sua madre per non fargli mancare niente si<br />

caricava di faticosi straordinari, la sera tornava sempre più<br />

tardi, ma i soldi a Nicolò non bastavano mai. Sicché spesso<br />

rubava le banconote fresche di stampa dal cassetto di sua<br />

madre.<br />

«Capitava che montassimo dei gran bordelli fino a tardi<br />

davanti al bar. Una volta Gigi e Dario litigarono di brutto…<br />

Fu una litigata mitica, di cui si continuò a parlare per anni.»<br />

«Racconti…»<br />

I due ragazzi si rincorsero nell’isola pedonale alberata fra<br />

le due carreggiate, e poi in mezzo alle macchine incolonnate<br />

nel traffico. Alla fine Gigi, piccolo, scattante che scappava da<br />

Dario, altissimo, magro, un po’ scoordinato per via delle<br />

gambe troppo lunghe, Gigi, balzò sopra una macchina parcheggiata.<br />

Se ne stava in piedi sul tettuccio di quell’auto con gli stivali<br />

Camperos che mandavano lampi gialli nell’ambrata oscurità<br />

che li avvolgeva. «Scendi, nano di merda, che ti rompo <strong>il</strong><br />

culo!» Era avvelenato Dario, la luce rossastra di un’insegna<br />

di negozio tagliava in tre parti <strong>il</strong> suo volto magro e furente.<br />

Gigi, Nicolò e tutti gli altri che avevano raggiunto la scena si<br />

IL SORCIO 139<br />

spanciavano dalle risate. Il motivo di tanta ira e di tanta <strong>il</strong>arità<br />

era che Gigi aveva pisciato sul giubbino di Dario…<br />

«Così chiamava Dario quell’indumento, facendoci sganasciare<br />

anche per via di quell’espressione che a noi suonava<br />

terrona…»<br />

«Aveva pisciato sul giubbino?»<br />

Dario era dentro la sua Polo nera parcheggiata, con <strong>il</strong> braccio<br />

appoggiato alla base del finestrino aperto: conversava<br />

con qualcuno dentro la macchina. Gigi, che era con Nicolò e<br />

altri ragazzi lì in piedi, appoggiato al montante di un cartellone<br />

pubblicitario che lo copriva parzialmente, con nonchalance<br />

si aprì la patta, lo tirò fuori, lo inf<strong>il</strong>ò nello spazietto fra<br />

i due ferri del montante, e gli pisciò a colombella sul braccio.<br />

Così, a freddo, quello che si dice <strong>il</strong> colpo di genio, inscenò<br />

quella perla senza consultarsi con nessuno. Insomma Dario<br />

ne aveva ben donde per essere incazzato. Ma c’era fra loro<br />

anche un altro e più profondo motivo di attrito. La ragazza<br />

salernitana che Gigi si faceva era molto amica del suo conterraneo<br />

Dario, e con lui si lamentava del fatto che Gigi la<br />

trattasse come un pezzo di troia: la vedeva, se la scopava, e<br />

poi non si faceva vivo per un mese. Finché non aveva di<br />

nuovo necessità di svuotarsi i coglioni. Un bel giorno lei<br />

rimase incinta.<br />

«E Gigi neppure andò mai a trovarla in ospedale, se ne strafotteva<br />

di lei e del suo aborto, di cui lui era <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e.»<br />

Per questo, per questo suo cinismo masch<strong>il</strong>ista, Dario lo<br />

disprezzava. Comunque quella sera a Gigi andò bene: a un<br />

certo punto Dario si stancò di correre come un idiota attorno<br />

alla macchina in cima alla quale Gigi saltellava ag<strong>il</strong>e, e se<br />

ne tornò alla sua Polo nera dinanzi al Paris. Finalmente Gigi


140 PARTE TERZA<br />

poté scendere dalla macchina, che dopo quel suo balletto<br />

aveva <strong>il</strong> cofano e <strong>il</strong> tettuccio vistosamente ammaccati.<br />

«Facevamo i pariolini, dicevo, ma io non mi sentivo affatto<br />

pariolino: mio padre era solo un impiegato di gruppo B del<br />

ministero del Tesoro, mia madre una impiegata del Poligrafico<br />

dello Stato…»<br />

Non erano professionisti (la sola parola lo faceva rodere<br />

d’invidia e um<strong>il</strong>iazione). E poi suo padre era un comunista,<br />

aveva fatto <strong>il</strong> partigiano, fascisti e pariolini lui li detestava. E<br />

così si metteva a detestarli anche Nicolò, pur stando dalla<br />

stessa parte.<br />

«Questa modalità di comportamento, o secondo la formula<br />

di Dario, lo scollamento narcisistico, cominciò a manifestarsi<br />

allora. Odiavo i pariolini, ma uscivo con loro, frequentavo<br />

gli stessi locali, gli stessi posti di ritrovo, mi vestivo<br />

come loro, ero snob come loro, portavo anche io i capelli<br />

corti e sbasettati, parlavo con <strong>il</strong> loro gergo…»<br />

«Ma al contempo li prendeva in giro, li disprezzava e li<br />

offendeva pubblicamente…»<br />

«Proprio come oggi parlo male della piccola borghesia,<br />

che rappresento impietosamente nei miei romanzi, e ne faccio<br />

parte, altroché se ne faccio parte…»<br />

In discoteca tutti alzavano <strong>il</strong> braccio nel saluto fascista<br />

durante <strong>il</strong> leitmotiv di una certa canzone di disco, lui no,<br />

mai. Restava con <strong>il</strong> braccio rigidamente abbassato, <strong>il</strong> pugno<br />

chiuso, grondando rabbia ma anche sorda fierezza. Come<br />

poteva, si dichiarava comunista e ateo come suo padre.<br />

Mentre la regola in quel giro era essere fascisti e cattolici (la<br />

stessa scuola dove andavano, <strong>il</strong> San Leone, doveva forgiarli<br />

in quella guisa).<br />

IL SORCIO 141<br />

«Non posso pensare che da quella scuola, proprio da quella<br />

scuola, uscirono fuori i mostri del Circeo. Ogni tanto ci<br />

penso e rabbrividisco.»<br />

Stamani erano soli, lui e <strong>il</strong> capo: gli altri stavano tutti in sede<br />

a un’assemblea sindacale. Un momento che era andato in<br />

archivio, Nicolò ha tirato fuori dal portafoglio quel biglietto<br />

da visita, ha letto <strong>il</strong> numero e ha chiamato senza starci troppo<br />

a pensare su. «Buon giorno, sono Nicolò Consorti, noi<br />

non ci conosciamo, mi ha dato <strong>il</strong> suo numero la signora<br />

Coraggio, diverso tempo fa…»<br />

«Vuole vedermi?»<br />

Gli dà appuntamento a San Francesco a Ripa, davanti a un<br />

ristorante indiano. Quando arriva, benché sia in anticipo di<br />

dieci minuti, lui, Mike Lozzi, è già lì. Non è diffic<strong>il</strong>e riconoscerlo:<br />

è un armadio d’uomo vestito tutto di nero, come gli<br />

aveva preannunciato. Ha una cicatrice vistosa sul collo, che<br />

cerca di nascondere con l’abbronzatura e forse del fondotinta.<br />

«Ciao Nicolò» gli fa molto amichevole, sorridendo e mettendo<br />

in mostra dei denti grossi e bianchi, proprio come<br />

l’immaginava. Gli dà la mano senza stringere troppo, gli dice:<br />

«Vogliamo andarci a bere una cosa? Vieni, vieni con me, è qui<br />

dietro, sono solo due passi. Allora ci hai pensato un bel po’.»<br />

«Già.»<br />

«Hai fatto bene. Queste cose bisogna ponderarle bene.»<br />

«L’ho ponderata anche troppo.»<br />

«Non è mai troppo, credimi…»<br />

Sembra quasi cercare di dissuaderlo, Nicolò è un po’ sconcertato.<br />

Siedono fuori, sotto un angusto pergolato di glicine,


142 PARTE TERZA<br />

schiacciati da una cappa umida di caldo. Nicolò ordina della<br />

vodka ghiacciata, Mike un bicchiere d’acqua minerale.<br />

Entrambi sudano in faccia. Nicolò di più.<br />

«Non bevo, a parte qualche rarissimo caso. Ma purtroppo<br />

non è questo… Ma veniamo a noi… Di cosa hai bisogno?»<br />

Nicolò osserva quella specie di Schwarzenegger che gli è di<br />

fronte e pensa che in qualunque altro posto rispetto a questo<br />

starebbe in grave disagio.<br />

«La maga Coraggio mi ha detto che lei potrebbe aiutarmi a<br />

dare una lezione a qualcuno…»<br />

«Tu, tu, dammi del tu, siamo coetanei, chiamami Mike. Di<br />

chi si tratta?»<br />

«Di un mio collega, che tutti chiamano <strong>il</strong> Sorcio…»<br />

Nicolò gli spiega diffusamente come stanno le cose, indugiando<br />

con un perverso godimento sui dettagli più um<strong>il</strong>ianti.<br />

Quello gli dà corda, lo tratta proprio da amico. Lo guarda<br />

negli occhi assentendo. Alla fine, dopo quella tirata melodrammatica<br />

di una decina di minuti, Schwarzy dice soltanto:<br />

«Gli faremo abbassare la cresta.»<br />

«Be’, io vorrei qualcosa di più…»<br />

«Cosa?»<br />

«Vorrei… Vorrei…»<br />

«Dimmi, avanti… Dimmi che c’è? Cerco sempre di accontentare<br />

i miei amici… Se poi sono degli scrittori, be’…»<br />

«Ah, lo sapevi…»<br />

«Naturalmente… Allora che c’è?»<br />

«Vorrei assistere.»<br />

L’uomo riflette prima di accettare.<br />

«Vuoi che <strong>il</strong> Sorcio sappia che sei tu o no?»<br />

«Per ora meglio di no.»<br />

IL SORCIO 143<br />

«Allora d’accordo, avrai modo di assistere. Anch’io lo vorrei<br />

al tuo posto.» Gli sorride e aggiunge: «Basta che non mi<br />

metti in uno dei tuoi romanzi…»<br />

«Se possib<strong>il</strong>e, niente narcotici, lo voglio sveglio e concentrato!»<br />

«Naturalmente. E adesso veniamo all’argomento più spinoso,<br />

mio caro Nicolò, <strong>il</strong> compenso…»<br />

«Non è spinoso. Quanto?»<br />

«Sarebbero 3.000 euro, ma tu mi sei molto simpatico: facciamo<br />

2.800.»<br />

«Porca troia!» esclama Nicolò, pensando che Stella si<br />

accorgerà dell’ammanco sull’estratto conto che arriva infallib<strong>il</strong>mente<br />

ogni mese. Come fare? O be’, intercetterà la posta,<br />

o le inventerà una balla. Come extrema ratio le dirà la verità,<br />

cosa può succedere?<br />

«Qualche problema?» chiede la checca muscolosa. «Se<br />

vuoi possiamo lasciar perdere tutto, siamo ancora in tempo,<br />

mi ha fatto molto piacere conoscerti e non è stato tempo<br />

perso.»<br />

«No, no, ti faccio subito un assegno, voglio andare fino in<br />

fondo a questa storia… Solo, mi sembra davvero tanto! Cristo,<br />

con 3.000 euro ci compri uno scooter!»<br />

«Questo servizio puoi trovarlo anche a molto meno, questo<br />

lo sappiamo…»<br />

«No, io veramente non lo sapevo. Ma comunque ormai<br />

voglio farlo con te. Non ho tempo da perdere.»<br />

Nicolò se ne torna alla Vespa con un misto di eccitazione e<br />

ansia, preoccupato per i soldi, per tutto, ma anche galvanizzato<br />

dalla cosa.


PARTE QUARTA


IL SORCIO 147<br />

«Se solo io avessi fatto, durante la malattia di mio padre, un<br />

decimo di quello che ha saputo fare Stella per la madre in<br />

ospedale quando fu operata di tumore, la pianterei di soffrire<br />

di sensi di colpa retrospettivi. In realtà ho fatto molto poco.»<br />

Non fece che due o tre notti insieme a sua madre. Trovava<br />

sempre delle scuse. Non voleva rinunciare al sonno. E poi lo<br />

preoccupava proprio quello che era chiamato a fare: ovvero<br />

sollevare suo padre da terra dopo una eventuale caduta (a<br />

ben altro mandato era chiamata sua madre!). Gli ultimi<br />

tempi era frequente che si accasciasse in mezzo al corridoio<br />

sfinito fra le braccia di sua madre mentre andavano al<br />

bagno, o tornavano dal bagno in camera. Lo sforzo di sollevarlo<br />

a dire <strong>il</strong> vero era minimo, giacché <strong>il</strong> cancro l’aveva<br />

ridotto a un esserino f<strong>il</strong>iforme di trentacinque ch<strong>il</strong>i. E tuttavia<br />

sua madre da sola non ce la faceva: anche lei era stremata<br />

dopo mesi di assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro.<br />

Per fortuna quel compito penoso Nicolò dovette svolgerlo<br />

soltanto una volta. Non ebbe bisogno che sua madre venisse<br />

a svegliarlo perché udì distintamente <strong>il</strong> tonfo della caduta.<br />

Accorse in corridoio. Accese la luce e <strong>il</strong>luminò così i dettagli<br />

di una scena che non vorrebbe ricordare: suo padre, vestito


148 PARTE QUARTA<br />

solo di canottiera e pannolone, buttato malamente sul pavimento.<br />

Pareva già morto.<br />

«Non vorrei ricordare, cristo, ma ricordo!»<br />

Ricorda <strong>il</strong> padre seduto in bagno su un malcerto e scricchiolante<br />

panchetto nero di legno: lui sta dietro, in piedi, gli<br />

sta facendo la barba. Sullo specchio del lavabo si staglia in<br />

primo piano la faccia ossuta, scavata, di suo padre, di un pallore<br />

spettrale sullo sfondo scuro del proprio bacino. Il vecchio<br />

deve guardare, deve guardarsi, non può girare la testa,<br />

altrimenti rischia di farsi tagliare con <strong>il</strong> rasoio.<br />

«Per questo non voleva mai radersi, povero papà. “Allora,<br />

papà, rimandiamo anche oggi, sei troppo stanco?”»<br />

La notte prima che morisse, Nicolò dormiva nella stanzetta<br />

di servizio come quando era piccolo: una stiva gorgogliante<br />

a causa dei cassoni condominiali confinanti. Leggeva<br />

per l’ennesima volta Lo straniero di Camus che aveva preso<br />

dalla libreria di suo padre, fra risucchi, scrosci, brontolii.<br />

Non si sentiva colpevole di leggere, ma di provare piacere<br />

nella lettura sì. Però andava avanti lo stesso. Chissà se riuscirò<br />

a finirlo, pensava sfogliando quello sm<strong>il</strong>zo libriccino, tant’erano<br />

ormai disperate le condizioni di suo padre. Non lo<br />

finì infatti. Quella notte arrivò alla veglia funebre alla madre<br />

morta, senza riuscire a scandalizzarsi neppure un poco della<br />

fredda indifferenza di Mersault. Poi si addormentò. L’indomani<br />

andò al lavoro, ma a metà mattinata sua sorella gli telefonò:<br />

«Papà respira male, vieni.»<br />

La madre lo accolse sulla porta con le mani nei capelli:<br />

«Non c’è più, tuo padre non c’è più!» Nicolò irruppe nell’appartamento<br />

piangendo e str<strong>il</strong>lando, proprio come succede<br />

nei f<strong>il</strong>m, si precipitò nella camera di suo padre, scansando<br />

IL SORCIO 149<br />

brutalmente dalla porta <strong>il</strong> cognato, la sorella e <strong>il</strong> giovane<br />

medico volontario che tenne compagnia a suo padre durante<br />

le ultime due settimane di vita. Chiuse la porta dietro di<br />

sé. Si chinò, ma non riuscì a baciare quella fronte bianca e<br />

ossuta. Allora gli prese la mano e se la strinse al petto. Rimase<br />

così per alcuni minuti scosso dai singhiozzi. La mano di<br />

suo padre era già fredda.<br />

Nulla di speciale insomma. Quando si vivono questi<br />

momenti si pensa sempre che siano unici, irripetib<strong>il</strong>i.<br />

«La morte di mio padre l’ho raccontata ogni volta diversamente<br />

nei miei libri, cercando invano l’originalità.»<br />

Analista e paziente stanno un po’ in s<strong>il</strong>enzio a osservarsi i<br />

rispettivi piedi. La luce che spiove dalla finestrella in alto è<br />

perfino più pallida e smorta del solito. Nella sala c’è una<br />

sciatta penombra. L’analista sorride due o tre volte che<br />

incrocia <strong>il</strong> suo sguardo.<br />

«Be’, di che parliamo, dottore?»<br />

«Decida lei…»<br />

«La volta scorsa di che abbiamo parlato?»<br />

«La volta scorsa, si ricorda, abbiamo parlato a lungo del<br />

suo amico Gabriele…»<br />

«Gabriele, sì… Gabriele è capace di una sott<strong>il</strong>e perfidia,<br />

che forse vedo soltanto io, perché gli altri lo considerano tutti<br />

una gran brava persona. Quando mi doleva la pancia tutto<br />

<strong>il</strong> giorno che nessun farmaco riusciva a lenirla, un giorno<br />

Gabriele mi disse con aria preoccupata: “Guarda, oltre <strong>il</strong> farmaco<br />

che prendi tu, c’è solo la morfina!” Lo disse per spaventarmi,<br />

e io mi spaventai perché lui era medico e non aveva<br />

fama di spararle. Pensai subito a un cancro e mi rivoltai<br />

da capo a piedi come un pedalino: lastre lungo tutto <strong>il</strong> tubo


150 PARTE QUARTA<br />

digerente, dall’esofago ai visceri. Ma in realtà proprio perché<br />

bravo medico Gabriele doveva aver capito immediatamente<br />

che si trattava di depressione, ma non me lo diceva per<br />

vedermi allarmato. Da ragazzi, si stava a casa di una mia<br />

fiamma di allora, e lui mi raggelò dicendomi davanti a lei:<br />

ma Nicolò, hai i piedi sporchi, come fai ad andare in giro con<br />

quei piedi luridi? Oggi Gabriele è grassoccio, ha pochi capelli<br />

e fa <strong>il</strong> medico in un grande ospedale. Negli ultimi anni <strong>il</strong><br />

rapporto si è definitivamente guastato. L’ultima goccia è stata<br />

la pubblicazione del mio primo romanzo. Si è riconosciuto<br />

in uno dei personaggi del libro, e, cosa assai più grave, ha<br />

riconosciuto la sua famiglia. Ora, la rappresentazione indulgeva<br />

in alcuni tratti al grottesco, devo ammetterlo, dottore,<br />

ma ciò malgrado la sua reazione mi è sempre sembrata spropositata.<br />

Si è offeso, si è offeso a morte.»<br />

Non glielo ha detto espressamente, gli ha detto solo di<br />

aver riconosciuto i propri fam<strong>il</strong>iari e <strong>il</strong> paese di Norcia, dove<br />

loro stavano in vacanza. Ma è evidente che se la prese a<br />

male, per come virò da quel momento <strong>il</strong> loro rapporto a<br />

pura formalità.<br />

«Forse quello che non ha davvero digerito è la menzogna,<br />

<strong>il</strong> fatto cioè che lei avesse continuato a negare, nonostante<br />

l’evidenza.»<br />

«Già, del resto come potevo ammettere che <strong>il</strong> bestione era<br />

suo padre, la cagna sua madre e la scucchiona sua sorella?»<br />

Ma era così che doveva rappresentarli, Nicolò, come dei<br />

mediocri e sozzi provinciali, cafoni, parvenu, di idee arretrate,<br />

anche se loro nella realtà erano diversissimi, persone<br />

misurate, buone, gent<strong>il</strong>i. Lui cercava nella fantasia una famiglia<br />

tipo da prendere a bersaglio, da impallinare, da riempire<br />

IL SORCIO 151<br />

di invettive alla Céline, una famiglia ideale verso la quale<br />

scaricare tutto <strong>il</strong> suo odio antiborghese, gli capitò quella, ma<br />

poteva prenderne qualunque altra purché fosse sempre di<br />

quell’ambiente sociale.<br />

«Ne è sicuro? Guardi che non sono mai casuali le scelte che<br />

facciamo. E <strong>il</strong> rapporto con <strong>il</strong> suo amico Gabriele contempla<br />

forse anche <strong>il</strong> desiderio di rivalsa e di vendetta.»<br />

«Ma perché offendersi, dottore? Il romanzo è finzione, non<br />

avevo mica scritto i loro nomi veri…»<br />

«Lei al suo posto come l’avrebbe presa?»<br />

«Un conto sono le cose reali, un altro conto i romanzi…»<br />

«Sappiamo che non è vero, anche per lei stesso. È lei <strong>il</strong> primo<br />

a confondere continuamente i due piani…»<br />

Squ<strong>il</strong>la <strong>il</strong> telefono, scatta la segreteria. Ascoltano in s<strong>il</strong>enzio<br />

la voce registrata.<br />

«Lo sa che cosa mi ha detto l’ultima volta che l’ho visto,<br />

alla mia festa dei quarant’anni, dopo che non lo vedevo da<br />

anni? Ammazza quanto sei ingrassato, in faccia sei gonfio,<br />

gonfio… Capisce che gratuita cattiveria!? Ero stato male, mi<br />

ero imbottito di antidepressivi che mi avevano fatto ingrassare:<br />

insomma, non era una cosa carina da dirsi, sapeva che<br />

mi feriva. Comunque Gabriele cominciò tanto tempo fa a<br />

deludermi. Quando avevamo dodici anni, lui si allontanò da<br />

me e si legò a qualcun altro molto più forte di me.»<br />

«Luca…»<br />

A quell’età <strong>il</strong> rapporto d’amicizia deve essere esclusivo, o<br />

non essere.<br />

E infatti Nicolò non diceva più di lui è <strong>il</strong> mio migliore amico.<br />

Trovava delle formule attenuative.<br />

«Con <strong>il</strong> suo romanzo lei scaricava la sua rabbia, la sua


152 PARTE QUARTA<br />

delusione sul suo primo amico che l’aveva tradita tanto tempo<br />

fa. All’alba dei tempi, all’alba dei suoi tempi, diciamo…<br />

Che immagine aveva di sé in quel tempo? Questo dobbiamo<br />

riuscire a rappresentarci. Non siamo ancora all’epoca del<br />

gruppo dei pari, <strong>il</strong> suo ruolo ancora non si era definito.»<br />

«La mia bellezza femminea mi faceva vergognare moltissimo.<br />

Mi tormentava <strong>il</strong> fatto che qualcuno mi scambiasse per<br />

una femmina.»<br />

«Qualche anno dopo, grazie a quella bellezza, attorno alla<br />

sua figura aleggiava la fama di fico, di rubacuori.»<br />

«In realtà non riuscivo a concludere con nessuna… Mi<br />

sborravo nei calzoni, una cosa patetica…»<br />

Ma questo gli amici non potevano saperlo, lo vedevano<br />

supercorteggiato e si figuravano chissà che chiavate.<br />

«La sua prima volta, se la ricorda?»<br />

Quell’estate Francesca sverginò, oltre lui, una mezza dozzina<br />

di suoi amici. Le piaceva fare da apripista, ci prendeva<br />

gusto, ma non sessualmente, le piaceva che si sapesse in giro<br />

che lei la dava subito, senza storie. Era un primato anche<br />

quello.<br />

E così lo fecero, nella sua gloriosa tenda arancione.<br />

«Perché gloriosa?»<br />

«Perché è stata più volte immortalata dai miei romanzi.»<br />

«Ah.»<br />

«Francesca non era granché e doveva saperlo.»<br />

Fu una cosa squallida e breve, senza preamboli. Non<br />

riusciva a indossare <strong>il</strong> preservativo, Nicolò, e allora glielo<br />

mise lei, e lui era in un imbarazzo pazzesco. Due minuti<br />

nemmeno, e già glielo guidava verso la sua fica dal pelo rossastro<br />

che aveva intravisto in un lampo prima di montarle<br />

IL SORCIO 153<br />

sopra. Nicolò ricorda che spingeva più che poteva ed era<br />

preoccupato di non averlo abbastanza duro. La fica che cercava<br />

di penetrare era asciutta e stretta.<br />

«Gigi è stato <strong>il</strong> secondo suo migliore amico.»<br />

«Oggi è divorziato, con due figli che vedrà sì e no una volta<br />

al mese. È funzionario in una grande banca. È rimasto identico,<br />

come se <strong>il</strong> tempo per lui non fosse passato. Gira con un<br />

Porsche nero e, a quanto si dice, <strong>il</strong> sabato sera va a rimorchiare<br />

le straniere a Fontana di Trevi o a Piazza Navona.»<br />

Nicolò non lo frequenta più da anni, da quando un bel<br />

giorno, verso i trent’anni, lo accusò di essere un mediocre e<br />

incolto impiegatuccio. Erano a cena a casa di Gigi, lui aveva<br />

appena pubblicato <strong>il</strong> suo primo libro e si sentiva una specie<br />

di genio eretico e ispirato e dovunque vedeva dell’ipocrisia<br />

travestita. Disse a Gigi e alla moglie – una donna bassa e<br />

bruna che dimostrava più della sua età – che i loro gusti<br />

cinematografici e artistici tradivano la loro mediocrità piccoloborghese,<br />

la loro assoluta incapacità di riconoscersi<br />

quali realmente fossero e di mettersi in discussione. Lo accusò<br />

di seguire la moda del made in Italy (erano gli anni<br />

Ottanta) per stupidità e, ancora, conformismo, e <strong>il</strong> craxismo<br />

per fare carriera con spudorato spirito opportunistico dentro<br />

la sua grande banca lottizzata. Insomma, gli fece una<br />

solenne lavata di capo, e lui se la prese, naturalmente. Non<br />

subito. Subito continuò a sorridere esibendo la sua chiostra<br />

di denti bianchi, radi e piccoli, che tradivano un’ascendenza<br />

araba, ma da allora non gli telefonò più. Nicolò per qualche<br />

tempo gli telefonava in ufficio. Poi smise anche di chiamar-


154 PARTE QUARTA<br />

lo. E pensare che c’era stato un tempo in cui erano davvero<br />

uniti e fraterni.<br />

«Ci facevamo le prime canne insieme, cosa c’è di più fraterno?»<br />

Gigi dovette anche vincere la sua resistenza, che pare strano<br />

ma durò qualche tempo.<br />

«No, Gigi, non insistere…»<br />

«Ma perché? Che cazzo te ne frega!»<br />

«Non voglio. Fattela pure se vuoi, ma io non voglio.»<br />

Finché un giorno pronunziò la frase fatidica: «Solo una<br />

tirata, vediamo che succede»<br />

Gigi era esultante.<br />

Le facevano in camera sua, che a Nicolò piaceva tantissimo<br />

perché era inviolata dagli adulti (i genitori non entravano<br />

mai, rispettavano la loro privacy: in gioventù anche<br />

loro, a Tripoli, avevano fumato erba). Il vizio, che Gigi non<br />

giudicava tale, l’aveva preso in Scozia, dov’era stato per tre<br />

mesi a lavorare come lavapiatti in un ristorante italiano. Il<br />

sottofondo musicale a casa sua variava da Jackson Brown<br />

alla colonna sonora de Il laureato o de L’uomo da marciapiede.<br />

«Ci facevamo delle buone fumate in quella stanza, ut<strong>il</strong>izzando<br />

i più svariati strumenti in circolazione (pipe, frutta,<br />

bicchieri, bottiglie…) ascoltando musica e raccontandoci<br />

dei nostri tiramenti. Stavamo da dio, ecco tutto… A volte<br />

ci facevamo le canne e poi andavamo al cinema, magari al<br />

Drive in, dove continuavamo a rollarcene dentro la macchina.<br />

Il Drive in era fantastico! Com’era bello vedere <strong>il</strong><br />

f<strong>il</strong>m in quel posto e in quello stato. Ti sembrava di stare<br />

dentro la scena. Pazienza se scambiavi per capolavori f<strong>il</strong>m<br />

IL SORCIO 155<br />

soltanto buoni come Soldato blu e Un piccolo grande uomo.<br />

I western ci mandavano in sollucchero. Gigi scopava parecchio.<br />

Purché trovasse un buco, ci inf<strong>il</strong>ava <strong>il</strong> suo piccolo cazzo<br />

scuro, quasi nero (le dimensioni non contano, diceva<br />

ridendo). Le sue ragazze erano sempre d’aspetto mediocre,<br />

sebbene tutte però avessero qualche eccellente attributo<br />

sessuale. Per esempio, stava con una certa Lory, la salernitana<br />

bassina e bruttina ma con un gran bel culo che era<br />

amica di Dario. Lui se la scopava davanti, e, a quanto diceva,<br />

anche dietro. Un giorno gli fece: «Guarda, Lory non<br />

sarà una gran fica, ma con un bel po’ di fumo in corpo con<br />

lei ti fai delle chiavate pazzesche!»<br />

«Bene.»<br />

«Ma allora te lo devo dire proprio chiaro: quella ti si vuole<br />

fottere pure a te, me l’ha detto…»<br />

«Ah, sì?»<br />

«Papale papale… Potete farlo anche qua a casa mia, domani<br />

pomeriggio… Non ci starà nessuno…»<br />

«No, grazie.»<br />

«Ma perché?»<br />

«Perché non mi piace»<br />

«Ma quella ti dà pure <strong>il</strong> culo!»<br />

«Lascia perdere, non m’interessa.»<br />

Nicolò mentiva, se la sarebbe fatta molto volentieri la sua<br />

salernitana, ma aveva paura di non essere all’altezza, era<br />

imbranato, aveva l’alito cattivo, aveva già la sua cazzo di<br />

malattia, gli doleva l’uccello quando sborrava e sborrava<br />

troppo in fretta. Così faceva credere di avere gusti diffic<strong>il</strong>i.<br />

«Allora, sei sicuro? Ba’, io lo sai come la penso, per conto<br />

mio ogni lasciata è persa.»


156 PARTE QUARTA<br />

«Lo so, ma io ragiono diversamente.»<br />

«Ma perché, se non ti piace le metti un cuscino in faccia…<br />

Guarda che un culo come quello non lo vedi nemmeno nelle<br />

pubblicità!»<br />

Un giorno Gigi chiese alla salernitana se poteva svezzare<br />

suo fratello più piccolo. E quella accettò senza battere ciglio.<br />

Si fece pure <strong>il</strong> fratello, al quale però, a quanto disse Gigi,<br />

rifiutò <strong>il</strong> culo.<br />

«Avevamo finito <strong>il</strong> fumo. Sicché cenammo in una pizzeria<br />

di Trastevere e poi raggiungemmo Santa Maria in Trastevere<br />

in cerca di qualche spacciatore. L’antica piazza era gremita di<br />

gente, la fontana letteralmente assediata dai giovani. Interrogammo<br />

un paio di gruppi di pelosi, come si diceva allora,<br />

ma invano. Ci dissero che stavano aspettando qualcuno che<br />

aveva del libanese rosso. A un certo punto, ci si avvicinano<br />

due ragazze piuttosto malmesse.»<br />

«Cercate fumo o erba?» chiede una delle due, che aveva<br />

pochi denti sciupati su una faccia segnata.<br />

«È lo stesso» fece subito Gigi, esultante.<br />

«Avete la macchina?»<br />

«Sì. L’abbiamo parcheggiata sul Lungotevere…»<br />

«Noi ce l’abbiamo un po’ di fumo (dell’afgano… olio…<br />

una bomba!). Ma a casa, non qui. Allora facciamo uno scambio:<br />

noi vi diamo l’olio e voi ci accompagnate a casa, ok?»<br />

Gigi disse subito di sì, Nicolò lo prese in disparte e gli fece:<br />

«Ma l’hai viste? Sono drogate…»<br />

«E allora? Che cazzo ce ne frega! Andiamo da loro, ci facciamo<br />

dare <strong>il</strong> fumo e magari ci scappa pure una scopata…»<br />

«Senti, Gigi, io non ho voglia di scopare con quelle.»<br />

«La biondina non ha i denti ma di corpo non è male…»<br />

IL SORCIO 157<br />

«Ma vaffanculo!»<br />

«Hai paura dell’Aids? Allora fatti fare un pompino!»<br />

Alla fine cedette e andarono. Le due tossiche scherzavano<br />

con Gigi in macchina e prendevano in giro Nicolò:<br />

«Che ci ha <strong>il</strong> tuo amichetto biondo, non gli piacciono le<br />

donne?»<br />

«È timido!» diceva Gigi soffocando le risa.<br />

«Peccato, è così carino…»<br />

«Cristo, lo odiavo, e odiavo me stesso che mi ero messo in<br />

quella situazione!»<br />

Arrivarono in un condominio popolare dalle parti della<br />

Magliana. La notte era afosa e pesta.<br />

«Bene, sali tu, Gigi, io aspetto in macchina…»<br />

Le ragazze ridevano ancora a causa sua. L’amico cercava di<br />

convincerlo affacciato al finestrino.<br />

«E forza, non fare <strong>il</strong> ragazzino rompicoglioni, saliamo su,<br />

di che cazzo hai paura? Mica ti mangiano…»<br />

«Non ho paura!», mentì Nicolò.<br />

Attraversarono un cort<strong>il</strong>e semibuio e deserto, coi lampioncini<br />

condominiali semidistrutti, le ampolle di vetro rigirate<br />

coi f<strong>il</strong>i penzolanti, immondizia per terra, pezzi di vialetto sterrati.<br />

Varcarono un portone socchiuso, salirono una rampa di<br />

scale e arrivarono davanti all’ingresso del loro appartamento:<br />

la porta aveva la serratura sfasciata e non si chiudeva. Dentro<br />

c’era puzza di frutta andata a male e di chissà che altro. Nel<br />

salone non c’erano mob<strong>il</strong>i: solo tappeti indiani per terra e<br />

mensole al muro. Le pareti spoglie e ingiallite.<br />

«Le tracce dei loro buchi stavano dappertutto, cristo: siringhe<br />

ancora sporche di sangue sulla mensola, cucchiaini, pezzi<br />

di stagnola… Uno schifo, dottore…»


158 PARTE QUARTA<br />

Una delle due ragazze prese da una scatoletta cinese <strong>il</strong><br />

fumo e glielo diede. Non era molto, ma per la serata sarebbe<br />

bastato. Ormai potevano andarsene, e lui non vedeva l’ora,<br />

quel posto gli comunicava un’angoscia tremenda.<br />

Ma Gigi tergiversava. S’era seduto per terra: «Possiamo<br />

spararcela qua?» chiese.<br />

Le due ragazze neppure risposero. Sicché lui cominciò a<br />

rollarsi una canna seduto per terra su quel tappeto indiano<br />

consumato e lurido. Anche le ragazze si sedettero. Nicolò<br />

rimase in piedi imbarazzato.<br />

«Be’, Gigi, tu fai come vuoi, ma io me ne vado» disse.<br />

Gigi sbuffò. La più malandata gli fece:<br />

«Non ti piace fottere a te?»<br />

«No» fece lui.<br />

«Preferisci i maschietti, ah, ah, ah… Dai, Gigi, fatelo voi<br />

due, noi guardiamo…»<br />

Gigi sbuffando e sospirando si alzò e gli fece, passandogli<br />

la canna da accendere che era grossa, vagamente conica, perfetta,<br />

come le faceva lui che era un maestro.<br />

«E va bene… Sei un bel rompicoglioni!»<br />

«Ce la facciamo dopo in macchina», gli fece Nicolò, che<br />

andò via con <strong>il</strong> muso.<br />

Giunti in macchina, scoppiò: «Non mettermi più in una<br />

condizione sim<strong>il</strong>e, Gigi, capito?»<br />

«E non la fare tanto lunga… Potevamo farci una chiavata.»<br />

«Se vuoi chiavartele, vai, torna su e poi fatti accompagnare<br />

a casa da loro…»<br />

«Cammina, su, non ti incazzare, accendi questa cazzo di<br />

macchina… Andiamo via… Poi non venirti a lamentare che<br />

ci facciamo solo seghe.»<br />

IL SORCIO 159<br />

«Era così, Gigi. Non temeva di essere contagiato, non tanto<br />

dal virus, di cui allora poco si sapeva, ma dal degrado. Sembrava<br />

destinato a deragliare nella vita, ma non andò così. È<br />

assai più integrato di me.»<br />

«A giudicare da come lei lo descrive non direi…»<br />

Una sera si presentò da lui giallo come un limone spremuto,<br />

con gli occhi rossissimi ridotti a una fessura. Per fortuna i<br />

suoi non c’erano, ma Gigi non poteva saperlo.<br />

«Che cazzo hai fatto?»<br />

Non gli rispose. Barcollò fino alla cucina, e sprofondò a<br />

sedere su una seggiola accanto al tavolo.<br />

«Me lo fai un caffè bello forte?»<br />

Nicolò gli preparò <strong>il</strong> caffè.<br />

«Allora, che hai, ti senti male?»<br />

«No, sto benissimo, mi sono fatto un tiro di ero da Mario.»<br />

«Eroina? Ma sei matto fracico allora, ma che cazzo ti dice <strong>il</strong><br />

cervello?»<br />

«Ti prego, non farmi prediche, sennò me ne vado.»<br />

Proprio in quel momento tutto cominciò a tremare, <strong>il</strong><br />

lampadario della cucina osc<strong>il</strong>lò paurosamente. Sembrava<br />

una risposta di Dio. Era <strong>il</strong> terremoto e al decimo piano si<br />

sentiva parecchio.<br />

Gigi <strong>il</strong>lividì se possib<strong>il</strong>e ancora di più, si aggrappò al tavolo<br />

e cominciò a tremare di paura.<br />

«Cristo, scappiamo!» fece senza però muoversi, le piccole e<br />

brune mani artigliate al tavolo, tutta la sua minuta figura<br />

scossa da brividi.<br />

«Ma che vuoi scappare, non lo vedi come cazzo stai combinato?<br />

Vuoi farti dieci piani a piedi in quelle condizioni?»<br />

Ci furono altre due scosse più lievi.


160 PARTE QUARTA<br />

«E poi…»<br />

«E poi basta. Con Gigi non parlavo mai della mia malattia,<br />

della mia così precoce malinconia. Ci avevo provato un<br />

paio di volte, ma le sue reazioni mi indussero a non tentarne<br />

una terza.»<br />

Si distraeva, sbuffava, alla fine gli diceva, troncando <strong>il</strong> discorso:<br />

«Facciamoci un bel cannone e non ci pensi più!»,<br />

oppure: «Uno come te ci mette un attimo a trovare fiche!»<br />

Lui non era bello, era assai piccolo di statura con la bocca<br />

troppo grande. Le donne doveva sudarsele.<br />

«Ma certo <strong>il</strong> suo rapporto con Gigi non si esauriva qui,<br />

altrimenti non lo avrebbe considerato, per un certo periodo,<br />

come <strong>il</strong> suo migliore amico. Gigi incarnava per lei lo spirito<br />

d’avventura, tipicamente adolescenziale, la trasgressione…»<br />

«Che si esprimeva non solo attraverso le canne, anche in<br />

cose più banali…»<br />

«Per esempio?»<br />

«Nelle seghe a scuola, nei furti delle macchine dei nostri<br />

genitori senza patente a sedici anni, nelle molestie alla gente,<br />

nel bullismo…»<br />

«Che genere di molestie?»<br />

«Passavamo accanto alla gente con <strong>il</strong> motorino e gli toccavamo<br />

<strong>il</strong> culo, per esempio, soprattutto alle donne naturalmente…<br />

Io gli davo proprio delle pacche, lui le accarezzava<br />

pesantemente… Che risate che ci facevamo, cazzo!»<br />

«Immagino…»<br />

«Dovrei vergognarmene?»<br />

«Lei se ne vergogna anche troppo!»<br />

«Crede?»<br />

«Be’…»<br />

IL SORCIO 161<br />

«Comunque Gigi non resistette a lungo in quella posizione<br />

di miglior amico. Ebbe <strong>il</strong> suo ruolo al tempo del gruppo del<br />

Paris. A lui subentrò in modo permanente Dario, come io<br />

cominciai a interpretare la parte dell’intellettuale e a essere<br />

malato di una malattia che non si capiva.»<br />

«Decisi di andare a Londra, per spezzare <strong>il</strong> ciclo degli studi<br />

universitari (che stentavano), della malattia che prosperava<br />

e per imparare finalmente una lingua. Una decisione tutt’altro<br />

che improvvisa, maturata anzi da tempo. Ne avevo parlato<br />

tanto con Stella e con Dario.»<br />

I suoi genitori erano felici, o almeno così sembrava, gli<br />

avevano messo a disposizione anche una discreta somma<br />

per evitare che a Londra dovesse lavorare. Insomma, tutto<br />

per <strong>il</strong> meglio. Ci andava da signore, a Londra.<br />

«Ma non immaginavo quale ombra nera mi stesse accompagnando…»<br />

Arrivò a Heathrow nelle prime ore del pomeriggio. Un taxi<br />

lo accompagnò dall’aeroporto fino a casa della famiglia che<br />

doveva ospitarlo in una squallida ma ordinata periferia londinese<br />

(aiuole e prato inglese, alberi tosati, tetti di ardesia,<br />

facciate dei palazzi popolari annerite). Come scese dal taxi e<br />

percorse <strong>il</strong> vialetto lastricato, bordato di es<strong>il</strong>i alberelli incassati<br />

nell’asfalto, che doveva portarlo all’ingresso di casa, un<br />

drappo pesante e nero gli rovinò addosso e tinse improvvisamente<br />

tutto di piombo.<br />

Entrò, la casetta era triste e ordinata, la padrona una vedova<br />

dimessa. Restò due ore, forse tre, in camera al piano di sopra a<br />

guardare attraverso <strong>il</strong> vetro affumicato e i pizzi bianchi delle


162 PARTE QUARTA<br />

tendine la giornata piovosa pervaso da una tristezza (mista ad<br />

ansia) abnorme, pazzesca, che non si può dire, che non era<br />

assolutamente commisurab<strong>il</strong>e al luogo e alla circostanza.<br />

Così, all’improvviso. Senza alcun preavviso e apparentemente<br />

senza una ragione. Un tormentoso senso di inadeguatezza<br />

all’ambiente, alla prospettiva di altri giorni così da vivere.<br />

Una feroce nostalgia di casa, di Stella…<br />

Insomma, in un lampo capisce che se vuole liberarsi da<br />

quella sensazione angosciosa deve andare via, scappare, ritornare<br />

subito a casa sua, a Roma. Ma che cosa avrebbero detto i<br />

suoi che avevano già pagato in anticipo un mese alla vecchia<br />

londinese, oltre al viaggio andata e ritorno e anche alla prima<br />

settimana di lezioni presso una costosa scuola di inglese? E<br />

poi Stella, e i genitori di Stella e tutti? E anche Kater, <strong>il</strong> suo<br />

amico che a Londra da un anno ci viveva, parlava ormai bene<br />

la lingua, e lo avrebbe introdotto nel giro delle sue amicizie?<br />

Quale balla colossale poteva inventare con tutti per ripartire<br />

per Roma immediatamente? Ci pensò neppure molto. L’ultimo<br />

pensiero fu per <strong>il</strong> padre, <strong>il</strong> cui scetticismo sarebbe di lì a<br />

poco stato premiato. «Per me vai pure, figurati… – gli aveva<br />

detto <strong>il</strong> padre – ma non sei in grado di farlo.»<br />

«Perché?»<br />

«Be’, vai, vai, poi ne riparliamo…»<br />

Così aveva preconizzato suo padre. L’indomani si imbarcò<br />

sul primo aereo per Roma. A Stella disse che era morta sua<br />

nonna, ai suoi che Stella era incinta e doveva abortire. Nessuno<br />

gli credette, naturalmente, ma per fortuna nessuno<br />

pretese spiegazioni. Per suo padre era <strong>il</strong> trionfo. La sua totale<br />

inettitudine alla vita e al mondo si era rivelata una volta<br />

per tutte! Lui l’aveva capito da sempre. Fu perfino avaro<br />

IL SORCIO 163<br />

nelle celebrazioni della vittoria, gli eroi non hanno bisogno<br />

di fanfare.<br />

«All’università stentavo e presto avrei mollato, lui ne era<br />

certo, lavori all’orizzonte non si prof<strong>il</strong>avano, adesso neppure<br />

imparavo l’inglese, insomma <strong>il</strong> mio avvenire si prefigurava<br />

assai gramo.»<br />

La vita riprese in qualche modo dopo la luttuosa parentesi<br />

londinese. Ma con una consapevolezza in più. Nicolò era<br />

tiranneggiato dal suo male, che gli impediva di fare qualunque<br />

cosa, di allontanarsi dalla sua città, dalla sua casa, dalla<br />

sua camera. Agorafobia si chiama questa malattia, una<br />

parente stretta della depressione (si cura con gli stessi farmaci:<br />

se a quell’epoca qualche medico gli avesse prescritto <strong>il</strong><br />

farmaco che prende oggi, lo avrebbe salvato con vent’anni di<br />

anticipo). Insomma, era un malato, anche se a quell’epoca<br />

tutti lo consideravano un malato immaginario, anche Stella.<br />

Si sentiva sempre male. Tutti i mali possib<strong>il</strong>i. Pancia, stomaco,<br />

testa, ossa… Un lazzaretto!<br />

«I medici che consultai – una caterva – non capivano un<br />

cazzo! Seguitavano a prescrivermi farmaci per la gastrite, per<br />

la colite, tuttalpiù qualche debole ansiolitico.»<br />

Nicolò non voleva più uscire. Gli amici lo chiamavano, ma<br />

lui trovava sempre delle scuse. Passava le giornate a casa<br />

infagottato in un enorme e spesso golf a maglia larga tipo<br />

eschimese che non si cambiava mai. Si ingozzava di medicine<br />

di tutti i tipi che gli passava stoltamente sua madre. Gli<br />

diceva: «E se fosse <strong>il</strong> fegato?, certe volte <strong>il</strong> fegato dà quei sintomi,<br />

prova un po’ con queste iniezioni di Toxepasi…»<br />

E lui giù a spararsi Toxepasi, senza che nessun medico ne<br />

fosse a conoscenza, senza che le sue analisi del sangue giu-


164 PARTE QUARTA<br />

stificassero alcuna azione sul fegato. Lui non soffriva affatto<br />

di fegato né ci aveva mai sofferto. Ma provava tutto, purché<br />

ci fosse la vaga possib<strong>il</strong>ità di guarire da quel male. Ma questo<br />

non succedeva, e anzi i farmaci che assumeva causavano<br />

innumerevoli effetti collaterali… Intanto si lavava e si radeva<br />

sempre meno. Stava continuamente a sentirsi l’alito, a<br />

studiare <strong>il</strong> suo aspetto allo specchio: si vedeva pallido, sciupato,<br />

si vergognava del suo stato. Usciva poco e sempre con<br />

gli occhiali scuri per nascondere quelle che credeva – e forse<br />

erano – occhiaie vistose, e con un giubbotto di lana cammello<br />

che aveva una quantità di macchie incrostate sulla<br />

lana ruvida.<br />

Ricominciò a studiare con maggiore lena. Diede anche<br />

qualche esame, ma suo padre, lungi dall’incoraggiarlo, tornava<br />

la sera tardi, lo vedeva ancora sui libri, e gli faceva<br />

sprezzante: «È inut<strong>il</strong>e che ti metti a studiare quando arrivo<br />

io, è alla mattina che devi studiare. Ma alla mattina <strong>il</strong> barone<br />

dorme!» E allora lui si rivolgeva implorante alla madre:<br />

«Diglielo tu, mamma, ti prego, è vero o non è vero che ho<br />

studiato tutta la mattina e tutto <strong>il</strong> pomeriggio, come sempre?!»<br />

Ma <strong>il</strong> padre alzava scettico le spalle, gli diceva di non<br />

essere bugiardo.<br />

«Accidenti, io non mentivo! Mi facevo un mazzo così su<br />

quei libri incomprensib<strong>il</strong>i, pieni di formule e teoremi, tutto<br />

<strong>il</strong> giorno e tutti i giorni! Ma lui non voleva – non poteva! –<br />

darmi soddisfazione.»<br />

Quando portava i suoi sudatissimi 18 in Fisica I, 19 in Chimica,<br />

22 in Geometria I, 25 in Analisi I, 19 in Analisi II, anziché<br />

congratularsi – per <strong>il</strong> biennio di Ingegneria in fondo<br />

potevano andare quei voti – gli faceva: «Ecco, lo vedi, sem-<br />

IL SORCIO 165<br />

pre voti mediocri, quando lo capirai che l’università non è<br />

cosa per te? Certo che vai male, non frequenti mai le lezioni,<br />

per forza, ti svegli a mezzogiorno.»<br />

Faceva così anche con sua sorella, che pure era iscritta a<br />

Lettere e andava piuttosto bene e aveva avuto una malattia<br />

del cuore che quasi la portava nella tomba. Non voleva che si<br />

laureassero i figli, altrimenti lui, che aveva appena <strong>il</strong> diploma<br />

di maestro, veniva scavalcato, non era più lui l’intellettuale<br />

della famiglia. Con <strong>il</strong> tempo aveva maturato un pesante<br />

complesso verso i laureati. Con Stella, anni dopo, ciò si<br />

manifestava con imbarazzante evidenza. Le diceva ridacchiando<br />

offensivo: «Ecco, ecco la dottoressa, ah, ah, ah, la<br />

dottoressa dei miei…» Suo padre faceva anche finta di non<br />

ricordare mai <strong>il</strong> suo nome, per non darle importanza, la<br />

chiamava con m<strong>il</strong>le nomi diversi tranne che con <strong>il</strong> suo, e poi<br />

si sganasciava (solo lui). Stella sorrideva a denti stretti,<br />

ingoiava amaro. E anche Nicolò. Ma pure un altro sentimento<br />

si appaiava a questo: un’ansietà struggente per la sua vecchiaia<br />

che avanzava, per la sua morte che sentiva insopportab<strong>il</strong>mente<br />

vicina.<br />

«Ho cominciato a soffrire della morte di mio padre molti<br />

anni prima che lui morisse.»


PARTE QUINTA


IL SORCIO 169<br />

E così due motociclisti tagliano la strada al Sorcio, a un passo<br />

da casa sua, in una miserab<strong>il</strong>e appendice del Tuscolano,<br />

un palazzone lambito dai grigi p<strong>il</strong>astri della tangenziale.<br />

Nicolò è riparato dietro un leccio del giardinetto comunale<br />

sopraelevato. Lo fanno uscire dalla macchina, <strong>il</strong> Sorcio si<br />

dimena, bestemmia forte ma i due uomini incappucciati –<br />

entrambi assai ben messi fisicamente – lo azzittano inf<strong>il</strong>andogli<br />

un fazzoletto in bocca.<br />

Uno dei due accosta d<strong>il</strong>igentemente la sua Yamaha TMax<br />

al marciapiede. Lo trascinano con la forza lungo le scale che<br />

mettono al parco, e poi attraverso un sentierino, che li porta,<br />

al di là di un terrapieno di pozzolana, a un malconcio fabbricato<br />

di legno e lamiere, che un tempo poteva essere una<br />

scuderia. Lui dal suo punto di osservazione sollevato può<br />

assistere comodamente senza essere visto. Ad onta di tanto<br />

degrado c’è una siepe piena di biancospino miracolosamente<br />

intatta.<br />

Ci ha passato una intera mattinata qui, in questo cesso di<br />

giardino, per trovare la postazione favorevole. Si accosta di<br />

una decina di metri per assistere dappresso, facendo attenzione<br />

a non scalciare lattine di birra, barattoli di vernice e


170 PARTE QUINTA<br />

altri rifiuti disseminati fra l’erba. I due uomini lo sbattono<br />

contro <strong>il</strong> tronco di un albero, lo riempiono di calci e pugni,<br />

<strong>il</strong> Sorcio si difende assai bene, Nicolò non pensava fino a<br />

questo punto, risponde con precise mosse di karate che, se<br />

non stendono i due robusti aggressori, tuttavia li confondono.<br />

Ci vuole del tempo per piegare la sua resistenza. Ed<br />

ecco finalmente <strong>il</strong> fischio, che lo avverte che l’operazione<br />

finale è cominciata. Il Sorcio è buttato a faccia in giù sul<br />

cofano di una vecchia Opel con le cromature ancora r<strong>il</strong>ucenti,<br />

le braccia legate, già stremato di percosse: «Bastardi,<br />

che cazzo volete, bastardi, vermi, vi ammazzo a tutti e due,<br />

infami…»<br />

Ora i due picchiatori, pur non potendolo vedere, gli mandano<br />

un segno di intesa.<br />

Quello che ha le braccia tappezzate di tatuaggi tira fuori<br />

un manganello nero da dentro la cintura e comincia a colpirlo<br />

su una spalla, sul collo, mentre <strong>il</strong> collega lo tiene<br />

immob<strong>il</strong>izzato.<br />

«Ficcateglielo nel culo!» gli scappa detto forte a Nicolò. I<br />

due restano un po’ interdetti, ma non obbediscono. Ed ecco<br />

l’urlo sfiatato del Sorcio, una lunga bestemmia strascicata,<br />

che fa seguito a un poderoso calcio sulle palle. Nicolò si gode<br />

lo spettacolo del pestaggio, guardando di tanto in tanto<br />

attorno, ma come avevano previsto con Mike non c’è un’anima,<br />

questo parco sudicio è popolato solo dopo le nove di<br />

sera dai tossici, di giorno nessuno ci mette piede tranne i<br />

gatti e i cani randagi.<br />

Quel capanno e quella carcassa d’auto sono una vera benedizione,<br />

pensa Nicolò. Alla fine abbandonano <strong>il</strong> corpo del<br />

Sorcio sul cofano dell’auto, e pian piano scivola per terra e<br />

IL SORCIO 171<br />

batte la testa sul selciato come un burattino dei pupi (<strong>il</strong><br />

rumore è cancellato dalla distanza). Il tutto, quei due, senza<br />

dire una parola.<br />

Il capo ha comunicato agli impiegati del servizio che <strong>il</strong> Sorcio<br />

ha avuto un incidente con la macchina, ha passato un<br />

paio di giorni in ospedale, ed ora è a casa in convalescenza.<br />

Questa la versione ufficialmente divulgata dal Sorcio.<br />

Nicolò non ha detto niente a nessuno, naturalmente, neppure<br />

a Elena, che tuttavia deve aver mangiato la foglia perché<br />

ogni tanto gli passa davanti con un sorrisetto malizioso.<br />

Il sordomuto è assolutamente convinto che <strong>il</strong> merito sia della<br />

fattura.<br />

«Vedi, ha funzionato, ha funzionato!» giub<strong>il</strong>ava giorni fa<br />

con <strong>il</strong> faccione raggiante.<br />

«Sì, ma non farti capire, chiaro? Lo sappiamo solo noi… È<br />

un nostro segreto…»<br />

«Certamente, stai tranqu<strong>il</strong>lo amico. Sei l’unico amico che<br />

ho qua dentro, lo sai?»<br />

«Sì. Già me lo hai detto.»<br />

Il Sorcio è tornato al lavoro un venerdì, tutto abbacchiato e<br />

ancora segnato in faccia dalle percosse. Subito un capannello<br />

di colleghi gli si è fatto incontro e tutti hanno ascoltato la<br />

sua storia: due balordi in moto lo avrebbero fermato, gli<br />

avrebbero strappato via <strong>il</strong> Rolex dopo un combattimento<br />

durato alcuni minuti.<br />

Elena gli ha chiesto:<br />

«Ma <strong>il</strong> tuo Rolex non era falso?»<br />

«Sì, – risponde <strong>il</strong> Sorcio stolidamente – e allora?»


172 PARTE QUINTA<br />

«E quelli si sono dati tutto quel daffare per una patacca?<br />

Ma vattene!» E se ne è andata con una scrollata di spalle.<br />

È incredib<strong>il</strong>e come <strong>il</strong> trattamento abbia trasformato <strong>il</strong> Sorcio.<br />

È diventato s<strong>il</strong>enzioso, educato, gli passa le telefonate<br />

con garbo, cerca di farsi notare <strong>il</strong> meno possib<strong>il</strong>e. Evidentemente<br />

sospetta di lui quale mandante. L’ipotesi che prima o<br />

poi si vendichi pare a Nicolò improbab<strong>il</strong>e. Più verosim<strong>il</strong>e<br />

che fra qualche tempo, ormai dimentico della lezione,<br />

riprenda a torturarlo. Il solo pensiero che questo possa accadere<br />

getta un’ombra di inquietudine sul suo presente.<br />

Gli viene fatto di chiedersi che cosa succederebbe se raccontasse<br />

tutto a Stella. Lo stimerebbe completamente rincoglionito<br />

dall’alcol.<br />

Durante la pausa pranzo, Nicolò ha dato fuoco a un cartone<br />

nella rampa in faccia all’ufficio. È rimasto a guardare le<br />

fiamme che ardevano. Alla fine lo scheletro del cartone è<br />

crollato su se stesso e per terra è rimasto un pugno di cenere<br />

grigia che quando i colleghi sono rientrati <strong>il</strong> vento aveva già<br />

spazzato via. Qualcuno si è lamentato della puzza di fumo,<br />

ma nessuno gli ha chiesto niente.<br />

«Un violentatore è quasi sempre stato un violentato. Intendiamoci,<br />

lei non ha violentato nessuno, ma la violenza è un<br />

tema che non la lascia indifferente e che come abbiamo visto<br />

esercita e subisce… Da dove nasce per esempio la sua ispirazione<br />

riguardo al tema della violenza sessuale?»<br />

«Be’, vede, Sveva subì violenza dai mostri del Circeo un<br />

IL SORCIO 173<br />

paio di anni prima che si mettesse con me e che loro diventassero<br />

famosi. Quando stavamo insieme aveva sedici anni.»<br />

«Molti suoi ricordi risalgono ad allora, questi mitici sedici<br />

anni…»<br />

«Già. Quanti anni aveva Sveva quando quei porci la<br />

costrinsero a succhiarlo a due di loro in un anfratto di Monte<br />

Antenne? Forse quattordici, forse anche meno.»<br />

Lei era la ragazza di uno di loro, che la tradì vigliaccamente<br />

offrendola agli amici.<br />

«Ho avuto con Sveva un rapporto allegro, disinvolto,<br />

cameratesco.»<br />

«Molto diverso da quello che ha instaurato con Stella.»<br />

«Assolutamente.»<br />

Nicolò le diceva tutto, ma proprio tutto, come se fosse un<br />

uomo, un amico. Ridevano da matti insieme. La lasciava<br />

seduta sul sellino di dietro del vespone in mezzo al traffico,<br />

metteva <strong>il</strong> cavalletto e si allontanava a piedi. Lei cominciava a<br />

sgolarsi per chiamarlo. Ma lui ritornava con tutto comodo<br />

fra i clacson che stridevano intorno e i moccoli che volavano.<br />

Lei era piccoletta, non riusciva a scendere… Cominciava a<br />

indicarla ridendo: «Guardatela, guardatela, è seduta sul cesso!<br />

Ah, ah, ah…» Lei arrossiva e gli strofinava <strong>il</strong> suo musetto<br />

appuntito da topo addosso per la vergogna. Era bionda, i<br />

capelli molto fini, già allora un po’ sfibrati, raccolti in una<br />

cipolla sul capo. Se la portava dietro dappertutto anche in<br />

serate per soli maschi a base di whisky e poker. Ci si trovava a<br />

casa di qualcuno degli amici e si tirava tardi fino alle tre, alle<br />

quattro del mattino. Nicolò, Dario, Kater, Miccia, Gigi, Alessandro,<br />

Francesco, Manuel… Tutto <strong>il</strong> gruppo del Paris.<br />

«Ci era presa brutta, per un certo periodo giocavamo tutte


174 PARTE QUINTA<br />

le sere. Io non facevo che rubare banconote nel cassettone di<br />

mia madre per pagare i debiti di gioco.»<br />

Sveva lo seguiva, benché fosse la sola ragazza presente a<br />

quelle serate. Lei non beveva, non fumava, ma si divertiva e<br />

soprattutto non faceva prediche. Poteva fare tardi come loro,<br />

nessuno le rompeva i coglioni.<br />

«Sapeva farsi grasse e vir<strong>il</strong>i risate con me e con i miei amici,<br />

che con lei si trattenevano appena. Miccia era <strong>il</strong> più trucido.»<br />

Le sparava sempre più grosse per farli ridere, faceva qualunque<br />

cosa per divertire gli amici. In effetti era comico sentirlo<br />

esclamare sconcezze da m<strong>il</strong>itare davanti a loro che giocavano<br />

a carte e a Sveva che assisteva vicino a lui. Lei recitava<br />

la parte della donna del capo. Sì, in fondo in quegli anni nel<br />

gruppo Nicolò aveva in mano lo scettro del comando. Un<br />

capo tollerante, spietato o generoso secondo i casi. Ma<br />

comunque un capo.<br />

«Chissà se anche i miei amici mi guardavano come a un<br />

capo.»<br />

«Lei che pensa?»<br />

«Penso di sì. Per un certo periodo… Godevo fama di bello<br />

e di vincente… Sa, a quell’età è tutto…»<br />

«È ut<strong>il</strong>e capire esattamente <strong>il</strong> suo ruolo all’interno del<br />

gruppo dei pari.»<br />

«Il gruppo dei… pari?»<br />

«Il gruppo dei pari, monosessuale e omosessuale, è <strong>il</strong> gruppo<br />

dei coetanei adolescenti. Un momento fondamentale che<br />

prepara alla formazione della coppia eterosessuale…»<br />

Manuel era ricco sfondato e la sua casa era bellissima (una<br />

palazzina liberty tappezzata di fioriti rampicanti dalle parti<br />

di V<strong>il</strong>la Massimo) e anche <strong>il</strong> salone dove giocavano aveva un<br />

IL SORCIO 175<br />

superbo tavolo da gioco, con delle fiches d’avorio e madreperla<br />

che aveva portato <strong>il</strong> padre di ritorno da qualche viaggio<br />

d’affari in Medio Oriente. Per terra c’erano costosi tappeti<br />

orientali, alle pareti arazzi e quadri di valore. Dio, quanto<br />

gli sarebbe piaciuto essere ricco come Manuel… Da<br />

Manuel tutto era permesso: whisky (ne aveva di tutte le<br />

marche!), linguaggio da trivio, canne (tanto i suoi, che erano<br />

nella diplomazia, non c’erano mai) e se capitavano anche<br />

rutti e scoregge. Miccia sparava delle pere rumorose, senza<br />

minimamente preoccuparsi della presenza di Sveva, che<br />

abbassava gli occhi fingendosi piena di vergogna ma rideva<br />

sotto i baffi. Manuel – capelli folti e duri, fronte bassa, denti<br />

pronunciati, colorito scuro, occhi chiari scint<strong>il</strong>lanti – spizzando<br />

lentamente le sue carte, arricciava appena <strong>il</strong> naso e<br />

diceva: «Ecco, lo sapevo, quel maiale ha colpito ancora!»<br />

Tutti cominciavano a insultare <strong>il</strong> Miccia, che ridacchiava<br />

guardandoli di sottecchi e malcelando la sua fierezza per la<br />

sozza bravata che aveva fatto. Sul tavolo da gioco gravava per<br />

alcuni minuti, mescolato al fumo, un tanfo di fogna, ma si<br />

continuava a giocare, puntando soldi, magnetizzati dalle<br />

carte: niente, neppure un terremoto avrebbe potuto distrarli.<br />

Una sera, mentre Kater era andato un attimo a pisciare,<br />

Miccia si ficcò una mano nei calzoni e cominciò a strapparsi<br />

dei peli del pube che via via ammucchiava davanti al posto<br />

dell’amico, fra le sue carte sul tavolo. Poi, quando Kater tornò,<br />

gli soffiò tutti quei pelacci addosso. Kater sputava saliva<br />

mista a peli pubici del Miccia.<br />

«Non ricordo se c’era Sveva quella volta…»<br />

«Possiamo supporre che ci fosse… E allora <strong>il</strong> significato<br />

della burla diventa assai più inquietante.»


176 PARTE QUINTA<br />

Miccia era (ed è ancora) così, un burlone, un cazzaro simpatico,<br />

sempre dominato da una ansietà fatta di concitazione,<br />

eccitazione, entusiasmo, <strong>il</strong> nemico numero uno dei più<br />

deboli, un perfetto gregario. Aveva un padre persino più cazzaro<br />

di lui, con cui scherzava spesso in modo anche pesante.<br />

Gli diceva che la moglie, Alessia, cioè sua madre, era una gran<br />

puttana, cose del genere. Il padre non lavorava e non aveva<br />

mai lavorato in vita sua, se ne stava tutto <strong>il</strong> giorno a ciondolare<br />

fuori della boutique della moglie (Alessia boutique), dietro<br />

via Veneto, sempre elegantissimo, offrendo caffè e cappuccini<br />

a tutti quelli che lo andavano a trovare. Si divertiva<br />

da matti con loro, diceva anche lui le parolacce, si scambiava<br />

botte sulle palle con <strong>il</strong> figlio. «Salutaci quella pompinara di<br />

Alessia!», gli urlava Miccia dal vespone mentre andavano via.<br />

Aveva anche un cane, <strong>il</strong> Miccia, che si chiamava Bu, e che talvolta<br />

si portava dietro al Paris, e che gli amici pigliavano<br />

volentieri a calci. Il Miccia si imbestialiva sul momento, ma<br />

poi si divertiva e scalciava la povera bestia anche lui. Annunciò<br />

così la malattia di Bu: Ci ha du’ cancri ar culo… Miccia a<br />

scuola prevedib<strong>il</strong>mente era una capra, all’università pure.<br />

«Molto prevedib<strong>il</strong>mente.»<br />

«Alla fine si è sposato una ricca negoziante. E ha svoltato,<br />

come si dice, ha preso a vivere come viveva <strong>il</strong> padre. Oggi è<br />

un gagliardo quarantenne, calvo, atletico, sportivo: da ragazzo<br />

era un budellone bianchiccio che tutti prendevano in<br />

giro. Però a tutto c’è un prezzo: <strong>il</strong> suocero lo tratta come un<br />

garzone di bottega, lo manda di qua e di là a fare commissioni<br />

personali. E Miccia ne soffre. “Quel vecchio ebreo è proprio<br />

uno stronzo, o se preferisci, quel vecchio stronzo è proprio<br />

un ebreo!”, mi ha detto. Era sempre lui, Miccia, a orga-<br />

IL SORCIO 177<br />

nizzare gli scherzi più feroci e spietati a Kater, quello che<br />

dopo <strong>il</strong> liceo se ne partì per Londra dove è restato (di sicuro<br />

anche a causa nostra).»<br />

Kater è l’abbreviazione di Katerp<strong>il</strong>lar (cioè Caterp<strong>il</strong>lar, l’escavatrice<br />

agricola) per via delle buche con le ragazze che<br />

continuamente rimediava. Il suo vero nome era Tiziano.<br />

Quel nomignolo glielo aveva affibbiato Miccia una sera in<br />

discoteca, dopo l’ennesima buca consumata fra uno svelto e<br />

un drink alcolico al banco del locale. Ci provava con tutte,<br />

Kater. Non si vergognava di nulla, invitava a ballare una<br />

ragazza e ballando era capace di toccarle <strong>il</strong> culo. La reazione<br />

variava da una sberla a un calcio negli stinchi. Lui se ne tornava<br />

al tavolo a occhi bassi, ma dopo un paio di minuti si era<br />

già ripreso ed era pronto a ricominciare con un’altra. Sapeva<br />

essere di spirito, Kater: lui e Nicolò tenevano in una radio<br />

privata un programma di canzoni italiane e chiacchiere che<br />

avevano battezzato Katerp<strong>il</strong>lar sound.<br />

«Era divertente: io prendevo per <strong>il</strong> culo in trasmissione<br />

Kater e ridevo di lui. Lo tratteggiavo come uno sfigato, ma<br />

anche come un arrapato cronico. Kater interpretava se stesso<br />

ed era magnifico, una spalla perfetta!»<br />

Telefonavano un sacco di ragazze, che si divertivano a quel<br />

teatro e gli appuntamenti si sprecavano. Erano quasi tutte<br />

borgatare.<br />

«Sicché le attiravamo nel gruppo dove venivano regolarmente<br />

trattate a pesci in faccia e poi rispedite nella periferia<br />

lurida donde provenivano. Una aveva <strong>il</strong> padre idraulico e le<br />

cantammo tutto <strong>il</strong> giorno lo stornello dello stagnaro. Alla fine<br />

lei si mise a piangere, mentre noi ci spanciavamo dal ridere col<br />

Miccia che cercava di metterle una mano sotto alla gonna.»


178 PARTE QUINTA<br />

A volte Kater e Nicolò si trattenevano dopo la trasmissione<br />

con <strong>il</strong> padrone dell’emittente, che era un ricco ciccione di<br />

ventidue anni – loro ne avevano, al solito, sedici o giù di lì –<br />

appassionato di musica celtica ed esoterismo. Quel grassone<br />

con l’orecchino, pieno di tic e di ninnoli addosso, gli insegnò<br />

quella che chiamava la scrittura automatica: ti mettevi seduto<br />

a un tavolino con una matita nella mano inerte appoggiata<br />

su un foglio bianco. E dopo un po’ la mano cominciava<br />

impercettib<strong>il</strong>mente a muoversi e sulla carta veniva scritto<br />

qualcosa. E allora tu prendevi a interrogare lo spirito che ti<br />

possedeva. E quello ti rispondeva scrivendo sulla carta. Lo<br />

spirito di Nicolò si chiamava Oasis, era vissuto nel Seicento,<br />

era stato bruciato sulla pubblica piazza come eretico. Non si<br />

deve credere che lui fosse superstizioso e fac<strong>il</strong>mente suggestionab<strong>il</strong>e.<br />

Non credeva a un cazzo, a quei tempi, sull’esempio<br />

di suo padre. Eppure quella cosa succedeva sotto i suoi<br />

occhi, non era suggestione: la mano si muoveva da sola!<br />

«Quel cazzo di Oasis mi parlava…»<br />

Si facevano delle lunghe chiacchierate. Nicolò gli chiedeva<br />

anche cose sul futuro. Ma lui rispondeva con battute scherzose<br />

e quasi sempre incomprensib<strong>il</strong>i. Era uno spiritello burlone.<br />

«Come sib<strong>il</strong>la non valeva un cazzo, Oasis, non ne azzeccava<br />

una!»<br />

Insomma, Kater era simpatico, per nulla musone e permaloso,<br />

sapeva ridere di se stesso. Ma a loro del Paris non bastava.<br />

Loro dovevano um<strong>il</strong>iarlo. Lo legarono attorno a un albero<br />

di V<strong>il</strong>la Ada e lo lasciarono a gridare e a piangere per due<br />

ore. Gli riempirono la sua Renault 4 di foglie secche e rifiuti.<br />

Gli spalmarono la merda di cane sulle maniglie della macchina.<br />

Simularono un suo rapimento, tutti incappucciati…<br />

IL SORCIO 179<br />

Lui in macchina era terrorizzato, ripeteva piangendo: «Mio<br />

padre non ha tanti soldi, avete sbagliato, avete sbagliato…»<br />

Era diventato <strong>il</strong> pupazzo del gruppo, quello che veniva<br />

regolarmente messo in mezzo, sacrificato sull’altare della<br />

loro adolescenziale ferocia e del loro divertimento.<br />

Dario si rifiutava di partecipare alla corrida, s<strong>il</strong>enziosamente<br />

disapprovava. Mentre fra gli aguzzini Nicolò era <strong>il</strong><br />

peggiore, <strong>il</strong> più spietato. Mostrava un sadismo! Organizzava<br />

insieme al Miccia gli scherzi peggiori. Miccia era l’esecutore,<br />

lui la mente. Malgrado ciò, Kater con Nicolò si confidava.<br />

Una volta, con <strong>il</strong> nodo in gola, gli disse: «Tu sei <strong>il</strong> più forte, se<br />

tu la smetti di prendermi in giro, la smettono anche gli altri.<br />

Ti prego, fallo!»<br />

Non lo fece, Nicolò, anzi diventò ancora più spietato.<br />

Scrisse assieme al Miccia sul muro della sua casa con lo spray<br />

indeleb<strong>il</strong>e: Il padre di Katerp<strong>il</strong>lar è frocio!, Kater lo piglia in<br />

culo dal padre! Un giorno Kater gli fece leggere <strong>il</strong> suo diario,<br />

sul quale aveva versato tutte le sue lacrime disperate. Vi diceva<br />

che prima o poi avrebbe fatto qualche azione folle… E la<br />

fece. Dopo <strong>il</strong> m<strong>il</strong>itare, partì per Londra, e ci restò. Non tornò<br />

più in Italia. Cambiò paese, città, per potersi ricostruire<br />

un’immagine vergine, lontano dai suoi amici aguzzini e<br />

anche da suo padre che lo trattava male. Adesso pesa centoventi<br />

ch<strong>il</strong>i, si ubriaca, picchia la moglie e i tre figli. La violenza<br />

che ha incamerato per anni la scarica su di loro. Di<br />

mestiere fa <strong>il</strong> venditore di mob<strong>il</strong>i d’epoca, Kater, ha una sua<br />

piccola e prospera impresa. Ma si mangia tutto, dicono, con<br />

alcol e puttane, è rimasto spesso al verde. Allora torna a<br />

Roma per un paio di settimane, piangendo sulle spalle del<br />

padre, e riparte carico di soldi. Ma l’ultima volta non è anda-


180 PARTE QUINTA<br />

ta così. La moglie lo ha lasciato e si è portata via i figli. E lui è<br />

rimasto solo… Allora in piena notte ha preso a gridare come<br />

un ossesso dalla finestra di casa sua. Poi è sceso in strada e ha<br />

cominciato a prendere a calci le macchine parcheggiate e i<br />

bidoni della spazzatura. Alla fine l’hanno portato via e nell’infermeria<br />

della questura gli hanno fatto un’endovena di<br />

qualcosa che l’ha calmato. Tutte voci riferite da qualche amico,<br />

beninteso, lui non lo vede e non lo sente più.<br />

«Ma che fai, non lo chiami un amico come Kater? – gli ha<br />

fatto <strong>il</strong> Miccia tempo fa accorato – Sta a Roma, sai? Vuoi <strong>il</strong><br />

cellulare? Ha appena avuto una brutta operazione…»<br />

«Ah, sì?»<br />

«Sì, tumore alla vescica…»<br />

«Cristo!»<br />

«Deve farsi due cicli di chemio, poi riparte per Londra.<br />

Allora, lo vuoi <strong>il</strong> cellulare, sì o no?»<br />

«No, grazie, preferisco di no.»<br />

«Ma come? Perché? Lui parla spesso di te, ti vuole ancora<br />

bene…»<br />

«Non ho nulla da dirgli.»<br />

«Insomma eravate un gruppo pseudodelinquenziale…<br />

Ricorda altri episodi in cui venne fuori questa anima teppistica?»<br />

«Oh, un’infinità… Per esempio ricordo una festa dalle<br />

parti di Porta Pia, in una casa lussuosa, dov’eravamo tutti<br />

imbucati. Verso mezzanotte, io, Miccia e Gigi ci siamo chiusi<br />

nella stanza da letto dove erano stati rovesciati i cappotti<br />

degli invitati.»<br />

I tre amici cominciarono a cazzeggiare, a indossare i loden<br />

uno sopra all’altro, sette o otto ciascuno. Poi uscirono e se ne<br />

IL SORCIO 181<br />

andarono come niente fosse dalla festa. Lungo le scale del<br />

palazzo se la facevano sotto dal ridere tutti infagottati in<br />

quei loden di varie misure che avevano rubato. Li buttarono<br />

in mezzo alla strada continuando a ridere e a urlare: «Arsenio<br />

Loden, Arsenio Loden…» Qualcuno di loro ci pisciò<br />

anche sopra. Miccia se ne tenne un paio che gli andavano a<br />

pennello e se li portò a casa. E <strong>il</strong> padre, che di abbigliamento<br />

se ne intendeva ed era sempre elegantissimo, l’indomani gli<br />

disse: «Eccellente qualità, nuovissimi, avete fatto bene!»<br />

«Eravamo i fratelli più piccoli dei mostri del Circeo, gliel’ho<br />

detto… Loro erano personaggi tragici, però… Noi ne rappresentavamo<br />

una parodia romanesca e ridanciana.»<br />

«Questo è un giudizio a posteriori.»<br />

«Naturalmente. Però sarebbe bastato poco perché le nostre<br />

strade si incrociassero…»<br />

L’analista gli chiede di precisare ancora, insieme a lui, da<br />

chi fosse costituito <strong>il</strong> gruppo dei pari, e quale ruolo ciascuno<br />

esercitasse al suo interno, e Nicolò si lascia prendere da una<br />

insidiosa nostalgia goliardica.<br />

«Ricordo un tale strepitoso che si chiamava Mario Mattoli,<br />

proprio come <strong>il</strong> regista di Totò, nella Prinz grigio topo del<br />

Miccia… Ma è una cretinata, non è importante…»<br />

«Lasci giudicare me, racconti…»<br />

Mario era buffo, un po’ grassoccio, bruno, peloso, con foltissimi<br />

sopraccigli che accentuavano l’ombrosità dello<br />

sguardo e peli arruffati sulle orecchie. Aveva già, a diciott’anni,<br />

problemi di irsutismo. La sua specializzazione erano gli<br />

scherzi in macchina. Era rinomato per questo, conteso da<br />

vari gruppi. Talvolta si faceva pagare. A loro fece lo spettacolo<br />

gratis perché era amico del Miccia.


182 PARTE QUINTA<br />

Insomma quel giorno in macchina guidava Miccia, Nicolò<br />

stava dietro e lui, Mario, dalla parte del passeggero con <strong>il</strong><br />

finestrino aperto. Chiamava i pedoni sporgendosi fuori con<br />

<strong>il</strong> vento che gli spartiva i folti capelli corvini in due bande<br />

lucide: «Mi scusi, vorrei un’indicazione, si può avvicinare<br />

per cortesia.» Era gent<strong>il</strong>issimo senza essere leccato.<br />

«Elegante. Magnifico. Sembrava Dustin Hoffman nel Laureato,<br />

ha presente, dottore? Uno di cui non puoi diffidare.»<br />

Miccia avvicinava la macchina al marciapiede, <strong>il</strong> malcapitato<br />

di turno si accostava con ottime intenzioni. Mario gli<br />

faceva, serissimo: Venga, venga, parli direttamente con lui che<br />

guida, così facciamo prima. Quello ficcava quasi la testa dentro<br />

<strong>il</strong> finestrino per conferire con <strong>il</strong> Miccia. A quel punto, lui,<br />

Mario Mattoli, gli ammollava un ceffone portentoso, mentre<br />

Miccia aveva già ingranato la prima ed era partito.<br />

«Cristo, bisognava vederlo in azione, un talento unico! Una<br />

sincronia perfetta avevano! Io nel sed<strong>il</strong>e di dietro me la facevo<br />

sotto. Mi spanciavo: Ancora, ancora, vi prego, non smettete!,<br />

gemevo. E allora lui cominciava a urlare alle coppie, vecchie e<br />

giovani, ma soprattutto vecchie, cose come: E falla tua!, Dagli<br />

la mazza!, Sfondala, Fatte bacia’ er pupo! A quell’epoca questo<br />

repertorio machista lo trovavo straordinariamente comico.<br />

Tutt’oggi invero capita che urli qualcosa alla gente dalla macchina<br />

(solo complimenti però, tipo A bello!, Sei fichissimo!, Ti<br />

trovo splendido!) e F<strong>il</strong>ippo si diverte un mondo e mi incita a<br />

continuare. Lo sto educando all’insubordinazione civ<strong>il</strong>e, al<br />

bullismo e al vandalismo… Lo so, è assurdo.»<br />

«Lo sta educando, certo a modo suo, anche allo spirito, al<br />

divertimento, al lato comico della vita, che nella vita non è<br />

un fatto secondario.»<br />

IL SORCIO 183<br />

Miccia si allontanava, ma molto lentamente, per non perdersi<br />

e non fargli perdere le reazioni del tizio che quasi sempre<br />

dallo sconcerto passava a una stizza impotente e rabbiosa.<br />

Imparò subito la lezione di Mario Mattoli, <strong>il</strong> Miccia, dall’indomani<br />

si mise a praticarla per proprio conto. Ma non<br />

era altrettanto divertente. Gli mancava l’aria grave, seria,<br />

quel distacco aristocratico del Mattoli. Lui era volgare, sbottava<br />

subito a ridere, esagerava con gli insulti…<br />

Ma anche <strong>il</strong> Miccia aveva le sue perle. Era magistrale quando<br />

pigliava a calci i cani, questa era la sua specialità, in cui<br />

sfiorava la perfezione. Allorché <strong>il</strong> bar era pieno, si avvicinava<br />

al banco, chiamava <strong>il</strong> barman e faceva in un trionfo delle sue<br />

erre mosce: Per favore, per favore, da questa parte… e frattanto<br />

scaricava una gragnola di calcetti alla bestiola che scattava,<br />

si torceva, grugniva sul pavimento. Ma quando <strong>il</strong> padrone<br />

del cagnolino guardava in basso, era troppo tardi, lui aveva<br />

smesso.<br />

Miccia frequentava la sezione missina di Talenti. Non era<br />

iscritto, ma gli piaceva stazionare da quelle parti, con <strong>il</strong> suo<br />

giubbotto di renna dalle maniche di lana elasticizzate tirate<br />

su a scoprire la peluria biondastra sui magri avambracci, la<br />

cinta di Gucci e i rayban specchiati e le sue memorab<strong>il</strong>i scarpe<br />

a punta di Cervone (ne aveva a decine…). Ho visto Tizio,<br />

c’era anche Caio in sezione, alla manifestazione eravamo io<br />

e Sempronio, e Tizio, Caio e Sempronio erano famosi picchiatori<br />

fasci che lui era fierissimo di conoscere e che era<br />

convinto che tutti gli amici gli invidiassero.<br />

Un giorno Miccia prese Dario in disparte, fuori di una<br />

discoteca, e gli disse: «A te lo posso dire, vedi, con Nicolò<br />

bisogna mentire, che vuoi?, lui è fatto così… Insomma…


184 PARTE QUINTA<br />

Hai presente <strong>il</strong> casino all’università del primo maggio… I<br />

fischi a Lama e compagnia… Be’, io c’ero! Abbiamo pestato<br />

un bel po’ di pelosi! Abbiamo sparato! Però mi raccomando:<br />

non dirlo a Nicolò, lui sai com’è, mi romperebbe le palle!»<br />

«Certo, io gli rompevo le palle, ricordandogli che lui aveva<br />

più volte dichiarato di essere compagno. Ma che vuole, Miccia<br />

era così, e andava preso com’era! Come quando alzava <strong>il</strong><br />

braccio nel saluto fascista in discoteca e mi diceva: “Lo so,<br />

Nicolò, tu penserai che è un’assurdità, ma a me piace, non<br />

vuol dire un cazzo per me, lo faccio così perché lo fanno tutti,<br />

per cazzeggiare…”»<br />

Fece in modo che Dario vedesse la pistola che aveva in<br />

macchina nel portabagagli. Dario lo raccontava spanciandosi.<br />

Gli scrissero sotto casa Miccia in campana!, con la vernice<br />

rossa. E gli misero vicino la sigla di un agguerrito gruppo<br />

autonomo e <strong>il</strong> disegno di una P38. Poi gli telefonarono<br />

per godersi le reazioni. Lui si confidò solo con Dario. Gli<br />

disse che ormai era solo questione di giorni. I compagni l’avevano<br />

individuato e prima o poi gliele avrebbero suonate<br />

(nella migliore delle ipotesi). Era preoccupato davvero, si<br />

cagava sotto.<br />

«Speriamo che non ti sparino!» la tirava in lungo Dario,<br />

che non riusciva più a trattenere le risate al telefono. «Hai<br />

fatto sparire quell’arma dalla macchina?»<br />

«Me la puoi tenere tu per qualche tempo?»<br />

«Mi vuoi mettere nei guai, eh? E va bene, d’accordo, portamela<br />

stanotte, ma fai attenzione di non essere seguito.»<br />

Erano una decina di ragazzi ad accoglierlo a casa di Dario<br />

quando si presentò nottetempo con l’arma tutta ravvolta in<br />

un panno e la faccia terrea da cospiratore. Le risate esplosero<br />

IL SORCIO 185<br />

nel pianerottolo, amplificandosi e rincorrendosi nella stretta<br />

tromba delle scale. Quella pistola l’aveva per davvero.<br />

Al Paris giungevano voci di sue fughe memorab<strong>il</strong>i alle<br />

manifestazioni. Nessuno lo prendeva sul serio. Si presentava<br />

con la sua Prinz grigio topo, e intenzionalmente, per farli<br />

ridere, la mandava a urtare contro gli alberi o contro le macchine<br />

parcheggiate o i cartelloni pubblicitari. Ormai era tutta<br />

ammaccata. Certe volte la prendeva a calci con gli stivali<br />

Camperos sfondati.<br />

«Miccia era <strong>il</strong> tipo più conformista che abbia mai conosciuto.<br />

Mutava pelle a seconda dell’interlocutore che aveva di<br />

fronte. Vestiva sempre alla moda, tutta roba firmata. Raccontava<br />

cazzate a non finire. Nessuno gli credeva naturalmente,<br />

ma tutti ardevamo dal desiderio di sentire le sue cazzate.»<br />

Raccontò che una certa Patricia del Giulio Cesare gli aveva<br />

fatto un pompino sull’autostrada mentre lui guidava la sua<br />

Prinz lanciata a bomba. «Le ho sborrato in faccia e qualche<br />

schizzo è finito sul cruscotto e sul vetro… Non si vedeva più<br />

un cazzo…» Un’altra volta aveva leccato la fica di una cliente<br />

nella boutique della madre, mentre quella si provava un<br />

intimo, e aggiunse che un poco le puzzava.<br />

«M<strong>il</strong>lantava di aver fatto un affare di non so che cosa con<br />

un commerciante di via Veneto e di averci guadagnato dieci<br />

m<strong>il</strong>ioni e poi di essersi inculato l’appetitosa moglie del fratello<br />

al bagno del cinema Rivoli, dietro al negozio…»<br />

Facevano campeggio libero sulla spiaggia di Rio Claro<br />

presso Terracina. Miccia s’era portato una quantità di scarpe,<br />

tutte rigorosamente a punta e tutte verniciate alla perfezione.<br />

Le famose scarpe di Cervone. Le aveva allineate sul<br />

fianco della tenda, sotto <strong>il</strong> sopratelo. Quella mattina, mentre


186 PARTE QUINTA<br />

stava ancora ronfando dentro la canadese, Nicolò e Gigi presero<br />

su tutte le sue scarpe e le buttarono a mare. Quando lui<br />

si svegliò e le vide che galleggiavano sulla riva come tante<br />

boe multicolori, ci rimase di merda. «Siete degli stronzi!»<br />

Dovette farsi <strong>il</strong> bagno per raccogliere tutte le sue scarpe e le<br />

mise ad asciugare al sole. Ma asciugandosi quelle prendevano<br />

delle forme strane, imprevedib<strong>il</strong>i. Gigi e Nicolò si tenevano<br />

la pancia.<br />

«Non ci rivolse la parola per qualche ora, che per uno<br />

come lui era un’eternità.»<br />

«Possiamo dire che <strong>il</strong> suo ruolo all’interno del gruppo dei<br />

pari era quello del giullare?»<br />

«Be’, forse sì…»<br />

Una ne faceva e cento ne pensava, <strong>il</strong> Miccia! Un vandalo<br />

della più bell’acqua. Andandosene via dalle feste pisciava<br />

regolarmente nei vasi delle piante, o si fregava gli zerbini…<br />

Un giorno a Luca, alto, grosso, indiscutib<strong>il</strong>mente capo in<br />

tutti i gruppi che si degnava di frequentare, lo minacciò, «Ti<br />

sparo, giuro che ti sparo!» Luca rise di gusto, additandolo<br />

alla nostra beffa, gli si accostò lentamente, dondolando sulle<br />

anche come uno scimmione, continuando a ridere e a rivolgersi<br />

a noi dietro le spalle, Miccia insisté: «Se mi tocchi, ti<br />

sparo.» «Certo, sparame, sparame una sega!», fece Luca<br />

avventandoglisi contro e stendendolo con un paio di mosse<br />

di judo. Divenne famoso <strong>il</strong> Ti sparo! del Miccia, ogni tanto<br />

qualcuno lo recitava e tutti scoppiavano a ridere. Miccia<br />

odiava a morte Luca (tutt’ora lo guarda in cagnesco). Era <strong>il</strong><br />

suo nemico numero uno.<br />

«Ricordo quando cacarono in mare e si spalmarono la<br />

merda addosso, dinanzi alle famiglie perbene di Rio Claro<br />

IL SORCIO 187<br />

che pigliavano <strong>il</strong> sole sul vasto aren<strong>il</strong>e. All’inizio si stentava a<br />

crederci, sembrava un brutto sogno, poi all’improvviso realizzavi<br />

che era tutto vero, quelli erano proprio due matti che<br />

si stavano spalmando la rispettiva merda addosso. Le<br />

maschere che aveva la gente esprimevano questo sentimento<br />

di improvvisa e nauseata consapevolezza.»


PARTE SESTA


IL SORCIO 191<br />

Sono bastate poche settimane per far rientrare <strong>il</strong> Sorcio nei<br />

suoi panni di sempre. Ha ripreso a parlare a voce alta, a<br />

insultare, a imprecare, a tiranneggiare… Nicolò e <strong>il</strong> sordomuto<br />

si beccano nuovamente le sue rozze molestie. «Dobbiamo<br />

rifare la fattura», gli fa Lerici mentre passa davanti<br />

alla sua scrivania con delle stampe in mano.<br />

«Basta con queste cazzate!» replica Nicolò a muso duro.<br />

«Cazzate…»<br />

«Sì, cazzate, cazzate, non serve a nulla, non hai capito<br />

ancora? Ma che hai in quel testone?»<br />

«Ma qualcosa è successo!»<br />

Nicolò fa spallucce con ostentazione. Se ne va per l’ennesima<br />

volta a pisciare. Resta chiuso per un po’ in bagno a fumare<br />

un sigar<strong>il</strong>lo e a rimuginare sui casi suoi, a maledire <strong>il</strong> Sorcio.<br />

Venti minuti dopo è di nuovo in bagno con la vescica<br />

piena. È capace di pisciare una decina di volte nel corso della<br />

mattinata.<br />

Tornando per l’ennesima volta al posto dopo la minzione<br />

ode <strong>il</strong> Sorcio che parlando al telefono, dice: «Se ci avessi un<br />

figlio frocio, lo piglierei a frustate, quant’è vero Dio!» L’argomento<br />

lo stuzzica ma <strong>il</strong> Sorcio non dà seguito al suo pensiero.


192 PARTE SESTA<br />

Nicolò finge di lavorare e intanto ripercorre gli istanti del<br />

pestaggio. Certi dettagli – <strong>il</strong> manganello nero, <strong>il</strong> braccio<br />

tatuato del picchiatore – gli regalano ancora scampoli d’emozione.<br />

Telefona a Mike. «Ciao, sono Nicolò. Il Sorcio fa di<br />

nuovo lo stronzo», gli dice con un tono di voce piuttosto<br />

basso per non farsi sentire neppure da Elena che gli lavora di<br />

fronte.<br />

«Non mi piace parlare al telefono.»<br />

Uscito dall’ufficio va immediatamente all’appuntamento,<br />

ma quello manda un ragazzino in canottiera rossa per dirgli<br />

che adesso non può e per fissare un incontro in serata. Stavolta<br />

si trovano in un pub nel cuore di Trastevere, un locale a<br />

prevalenza gay, dove suonano <strong>il</strong> jazz. Si chiede per qualche<br />

attimo, <strong>il</strong> tempo di sedersi e ordinare una Ceres, se questo<br />

pezzo d’uomo vestito come Querelle di Fassbinder, lo pigli<br />

nel culo. Attorno alla tavolata accanto a loro – incastonata di<br />

taglio fra due pareti adorne di specchi e maioliche fiorate<br />

tipo azulejos – ci sono altre quattro o cinque persone, quasi<br />

tutte donne.<br />

«Io sconsiglio un nuovo intervento. Ormai <strong>il</strong> soggetto è<br />

allertato… L’altra volta non abbiamo scherzato…»<br />

«Cristo!»<br />

«Ti capisco… Fatti trasferire, cambia ufficio, non puoi?»<br />

«Vedremo… Comunque non si può fare nulla, è così?»<br />

L’uomo assente. Indossa occhiali da vista dalla montatura<br />

metallica che stridono un po’ con <strong>il</strong> suo aspetto da supermaschio.<br />

Come al solito ha ordinato una minerale che beve<br />

stancamente trattenendo <strong>il</strong> liquido in bocca qualche istante<br />

a ogni sorsata, come se fosse sul punto di sputarlo. «Posso<br />

darti un consiglio fraterno? – gli fa prendendogli la mano<br />

IL SORCIO 193<br />

sul tavolo – Rivolgiti al sindacato nazionale. Se vuoi conosco<br />

qualcuno alla direzione generale della Cisl. Oggi <strong>il</strong> mobbing<br />

lo prendono sul serio. Fallo licenziare quel figlio di puttana!<br />

Fatti pagare i danni morali!»<br />

«Sì, ci avevo già pensato» dice Nicolò, liberando la mano<br />

con qualche ribrezzo.<br />

Si prende i recapiti dei sindacalisti della Cisl, riflettendo<br />

che forse si rivolgerà direttamente ai carabinieri. Passeggia a<br />

lungo nel tumulto grave e afoso di Trastevere prima di prendere<br />

la Vespa e tornare a casa.<br />

«In banca soltanto lei approfittava del computer di lavoro?»<br />

«No… Intanto non ero <strong>il</strong> solo a nutrire ambizioni letterarie.<br />

Un collega sistemista scriveva poesie sulla mamma e <strong>il</strong><br />

paesello natio.»<br />

Veniva chiamato ’O Cazzone. Le faceva leggere a tutti, le sue<br />

poesie, ’O Cazzone, anche al capo, ma di Nicolò si vergognava.<br />

Un giorno i colleghi sistemisti gli fecero uno scherzo feroce:<br />

gli cancellarono tutte le sue poesie sia dal suo pc che dal<br />

sistema centrale. Lui fece una tragedia, protestò dal capo divisione,<br />

scrisse al Direttore Generale, che lo convocò a colloquio.<br />

Era al settimo cielo giacché poteva conoscere personalmente<br />

e magari stringere la mano a sua altezza <strong>il</strong> Direttore<br />

Generale, <strong>il</strong> numero uno. Si presentò al lavoro tutto elegante<br />

quella mattina, ’O Cazzone, con una cravattona grigio perla<br />

che luccicava e un vestito pure grigio che gli stava assai stretto<br />

e faceva risaltare la sua flaccida pinguedine. Aveva appuntamento<br />

alle dodici e trenta, tutta la mattina ciondolò per i corridoi<br />

e dinanzi alle erogatrici dei caffè… Era troppo agitato


194 PARTE SESTA<br />

per lavorare. Chiunque gli passasse davanti esclamava: «A<br />

mezzojòrno e mezza i’ vag’ da u’ Direttore Generale…»<br />

Il Direttore Generale lo trattò affettuosamente. Gli chiese<br />

una copia del suo libro e gli disse che per un paio di giorni<br />

poteva dedicarsi alla nuova stesura delle sue poesie ammesso<br />

che se le ricordasse.<br />

«Ce l’ho tutte qui…»<br />

«E allora lo faccia…»<br />

«Ma veramènde, diretto’, veramènde? Lei è un angelo, un<br />

angelo del paradiso…»<br />

«Cazzo, erano altri tempi quelli! A quell’epoca c’era una<br />

gestione quasi fam<strong>il</strong>iare dell’azienda…»<br />

’O Cazzone era un personaggio buffo, folcloristico, con <strong>il</strong><br />

suo dialetto cafone, la sua panza, le sue cazzate! Raccontava<br />

di essersi scopato in treno questa o quella soubrette della<br />

tivù. In quella tratta Roma-Foggia a sentir lui fioccavano le<br />

chiavate. Le sue poesie erano punteggiate di svarioni ortografici<br />

che tuttavia alla maggior parte dei colleghi sfuggivano. La<br />

sua attività letteraria era una cosa innocua, divertente.<br />

Per Nicolò la questione era radicalmente diversa. Lui incuteva<br />

soggezione. Delle sue cose letterarie non parlava mai e<br />

poi mai in ufficio.<br />

«Se mi chiedevano qualcosa, poiché avevo sempre la coda di<br />

paglia sul fatto che scrivevo un po’ al lavoro, minimizzavo.»<br />

«E nutriva <strong>il</strong> suo senso di colpa…»<br />

«Sì, maledizione…»<br />

Finché ci fu la pubblicazione del suo libro che diventò<br />

f<strong>il</strong>m. Uscirono sul giornale un fiume di recensioni e interviste<br />

con la sua foto e la foto del regista. Andò in tivù diverse<br />

volte, Nicolò. In banca molti si complimentavano, gli chie-<br />

IL SORCIO 195<br />

devano copie firmate del libro, lo indicavano quando passava<br />

nei corridoi.<br />

Uno dei personaggi più trucidi del romanzo lo aveva chiamato<br />

Sorcio. Il Sorcio, incrociandolo in corridoio insieme<br />

ad altri colleghi, gli disse: «Me devi da’ i diritti d’autore!» Lui<br />

rise. Forse <strong>il</strong> Sorcio cominciò a odiarlo allora.<br />

Nicolò fu convocato dal Direttore Generale, che gli chiese<br />

una copia del libro, come aveva fatto con <strong>il</strong> suo collega ’O<br />

Cazzone. Lo riconvocò dopo averlo letto, e lo coprì di generici<br />

complimenti, mentre lui restava impacciato sulla porta<br />

del prestigioso ufficio.<br />

Qualche collega cominciò a lamentarsi con i capi che lui<br />

invece di lavorare si faceva i cazzi suoi. La contromossa di<br />

Nicolò fu di chiedere al suo capo ufficio <strong>il</strong> permesso di scrivere<br />

un’ora al giorno in modo da istituzionalizzare la situazione.<br />

Ma quello non glielo diede e anzi spifferò la cosa al<br />

capo divisione, e lo caricò di lavoro extra: lo sorvegliava continuamente,<br />

come se fosse un ragazzino, lo mandava in giro<br />

per l’Istituto con <strong>il</strong> cacciavite a montare e smontare pezzi di<br />

computer, non gli dava un attimo di tregua. Si chiamava<br />

Pastore, testone calvo e mani tozze e raspose da contadino, <strong>il</strong><br />

mignolo e l’anulare sinistri tranciati a tre quarti da un qualche<br />

attrezzo agricolo. Non azzeccava un congiuntivo. Diceva<br />

facci, come Totò. Nicolò era sempre sul punto di correggerlo,<br />

ma poi non lo faceva, e lo chiamava fra sé <strong>il</strong> servo.<br />

Un giorno gli disse, davanti a vari colleghi, sprezzante:<br />

«Complimenti per la mise, ti sei proprio ripulito!» S’era messo<br />

tutto acchittato per una convention dell’azienda: <strong>il</strong> colletto<br />

grosso e inamidato sopra l’abito blu elettrico rifletteva la luce<br />

dei lampadari. «Ci sarai te, ripulito!», gli rispose, ma era


196 PARTE SESTA<br />

un’uscita davvero povera, e Nicolò osservò con acre godimento<br />

<strong>il</strong> volto largo e rustico del collega ardere di offesa.<br />

Un’altra volta erano appena rientrati dalla pausa pranzo,<br />

Nicolò lo prese in disparte, lo condusse dentro la sala<br />

magazzino, ingombra di materiale elettrico ed elettronico,<br />

gli fece: «Vuoi capire che a me di questo lavoro non me ne<br />

frega un cazzo, possib<strong>il</strong>e che non capisci che io qui ci sto di<br />

passaggio, io sono uno scrittore, è chiaro, tu non hai nessun<br />

diritto di ostacolarmi… Un giorno dovrai renderne conto a<br />

qualcuno… Capisci che devo andare a Venezia, al Festival<br />

del Cinema, l’hai visto <strong>il</strong> giornale no?, ho bisogno di prepararmi<br />

qualcosa, m’intervisteranno… Fammi scrivere un po’<br />

al computer questa settimana, per favore.»<br />

Pastore gli disse di nuovo che non era autorizzato. Aggiunse<br />

che l’azienda pagava i suoi dipendenti per lavorare, non per<br />

fare i cazzi propri. «Se vuoi fare lo scrittore, se vuoi lavorare<br />

per <strong>il</strong> cinema, licenziati e avrai tutto <strong>il</strong> tempo che ti serve!»<br />

«E io non ho ancora avuto <strong>il</strong> coraggio di farlo dottore…<br />

Certo, se Stella mi incoraggiasse…»<br />

«Non crede che Stella sia un alibi?»<br />

«No.»<br />

Era proprio un figlio di puttana, Pastore. Anzi no, molto<br />

peggio, era uno che credeva (e tuttora crede) nell’azienda,<br />

che si prof<strong>il</strong>ava nel suo orizzonte come una seconda famiglia.<br />

I genitori lavoravano la terra e lui stesso vi si dedicava<br />

durante <strong>il</strong> weekend. Nicolò gli faceva l’elogio, con argomenti<br />

pasoliniani, della società contadina, che contrapponeva allo<br />

squallido universo piccoloborghese che condividevano.<br />

L’ottuso Pastore non capiva come potesse sputare nel piatto<br />

dove mangiava. Per lui era inconcepib<strong>il</strong>e.<br />

IL SORCIO 197<br />

«Voi avete una vostra rozza morale» gli faceva Nicolò<br />

mentre montavano l’ennesima scheda di computer. «Invece<br />

<strong>il</strong> piccoloborghese al fondo è cinico e amorale… L’uomo<br />

medio, lo sappiamo, è un mostro.»<br />

Pastore non sapeva se doveva prenderla come un insulto o<br />

un complimento, sicché sorrideva stolidamente. Ancora<br />

non aveva fatto la spia, quando Nicolò gli regalò una copia<br />

firmata del suo romanzo, e una sera accettò anche un invito<br />

a cena a casa sua, un appartamento non lontano dal raccordo,<br />

arredato con mob<strong>il</strong>i laccati di nero, cornici argentate,<br />

argento anche sulle pareti in pretenziosi bassor<strong>il</strong>ievi, e<br />

vetrine cariche di cristallo di terz’ordine. Non sa come,<br />

dinanzi a quella scint<strong>il</strong>lante esibizione di pacchianeria piccoloborghese,<br />

e dinanzi alla mogliettina brutta di Orvieto<br />

Scalo che lo guardava rapita, riuscì anche a balbettare dei<br />

vaghi complimenti.<br />

«Altro che orizzonte contadino, quelli sbavavano per assomigliare<br />

a noi, capisce che cosa disgustosa?»<br />

Ieri pomeriggio <strong>il</strong> Sorcio ha chiuso a chiave nel bagno <strong>il</strong> sordomuto.<br />

Erano rimasti solo loro due al lavoro, a parte gli<br />

operai dell’archivio: Nicolò e gli altri colleghi del settore erano<br />

tutti a una convention in sede. Lerici pisciava di spalle<br />

alla porta del bagno che aveva lasciata socchiusa secondo la<br />

sua inveterata abitudine.<br />

Il Sorcio è sopraggiunto insieme a Marco, un operaio della<br />

compagnia addetta ai trasporti. Ha estratto la chiave dall’interno,<br />

l’ha inf<strong>il</strong>ata fuori della porta e l’ha chiuso dentro. Il<br />

sordomuto ha cominciato a bussare, a chiamare, invano.


198 PARTE SESTA<br />

«Così la prossima vorta se impara a chiudese dentro… A me<br />

nun me va da vedeje l’uccello…»<br />

Dopo averlo chiuso dentro, <strong>il</strong> Sorcio se ne è andato beatamente<br />

a prendere un caffè fuori insieme all’operaio, portandosi<br />

via le chiavi. E ha riaperto la porta solo mezz’ora dopo,<br />

quando è rientrato <strong>il</strong> capo e <strong>il</strong> sordomuto urlava come un’aqu<strong>il</strong>a<br />

scalciando violentemente la porta. Finalmente liberato,<br />

Lerici, ancora sconvolto, voleva informare dell’accaduto<br />

<strong>il</strong> Personale, ma <strong>il</strong> capo è riuscito a dissuaderlo facendo leva<br />

sulla sua famigerata avarizia, lo ha convinto insomma che<br />

non conveniva neanche a lui mettere in mezzo l’ufficio del<br />

Personale, in quanto aveva sfasciato la porta e gliel’avrebbero<br />

addebitata.<br />

Stamani hanno visto tutti la porta del bagno sfondata, con<br />

le impronte degli scarponi di Lerici, squarci viola e neri nel<br />

legno opaco.<br />

«Gliela devono fa’ ripaga’ a ’sto stronzo! Ma ndo’ se crede<br />

da sta’, a casa sua?» ha detto <strong>il</strong> Sorcio.<br />

Nicolò ed Elena ne hanno discusso alle macchinette del<br />

caffè. Lui non poteva darsi pace dell’omertà del capo. «Gli<br />

deve dei soldi…», gli ha spiegato infine Elena, abbassando la<br />

voce. In mattinata sono venuti a sostituire la porta, la cui<br />

spesa <strong>il</strong> capo ha imputato a un guasto idraulico inesistente<br />

per non denunciare l’accaduto al Personale (l’idraulico lo ha<br />

in casa, per dir così, è un operaio della compagnia).<br />

«Il Sorcio alza la posta, sempre di più, sempre di più…»<br />

«Hai fatto bene a denunciarlo al Personale…»<br />

«Sì, ma a che è servito? Ha continuato come prima. Ah, ma<br />

se continua così davvero un giorno o l’altro, perdio, chiamo<br />

la polizia o i carabinieri… Il posto del Sorcio è la galera!»<br />

IL SORCIO 199<br />

Lerici li raggiunge. Ha capito che parlano del Sorcio e vuole<br />

liberare anche lui un po’ di veleno.<br />

«Mia madre mi ha detto che lo devo denunciare al sindacato<br />

dei sordomuti quel bastardo!»<br />

«Al Personale lo devi denunciare! Quale sindacato dei sordomuti!»<br />

gli fa Nicolò, gesticolando assai perché l’ingenuità<br />

del sordomuto in certi frangenti gli sembra un insulto rivolto<br />

a se stesso.<br />

«Già non fanno un cazzo i sindacati normali! – commenta<br />

Elena – Figuriamoci quelli dei sordomuti…»<br />

Lerici la prende quasi come un’offesa (politicamente scorrettissima)<br />

alla categoria, fa per andarsene, ma Elena lo trattiene:<br />

«Dai retta a Nicolò, denuncialo al Personale. Se lo<br />

denunci pure tu, quello lo cacciano con le note di servizio<br />

che si ritrova…»<br />

«Perché, che note di servizio ha?», le chiede.<br />

«C’è scritto tutto, là…» dice contenta di potergli dare<br />

un’altra notizia.<br />

«E del Sorcio, che dice?»<br />

«Dice che appena assunto ha dato un violento calcio sui<br />

testicoli a un collega, che riportò una grave lesione, gli causò<br />

ster<strong>il</strong>ità e impotenza, mica una cosa da ridere!…»<br />

Nicolò prova ancora a convincere Lerici, ma lui gli concede<br />

soltanto la promessa di consultarsi nuovamente con la<br />

madre.<br />

Se ne torna al posto di pessimo umore. Lavora stancamente,<br />

alternando conteggi di estinzione a lunghi momenti di<br />

ebetudine. A mezzogiorno si presenta un cliente sordomuto<br />

insieme alla figlia (non sordomuta), una ventenne carina e<br />

un po’ discinta. Lerici ha annusato <strong>il</strong> suo sim<strong>il</strong>e ed è tutto in


200 PARTE SESTA<br />

fibr<strong>il</strong>lazione: ogni scusa è buona per passare davanti alla sua<br />

scrivania e curiosare. «È molto nervoso, sa…» ha detto a<br />

Nicolò la ragazza con un sorriso e alludendo al padre. Nicolò<br />

fa accomodare i due clienti davanti alla sua scrivania, ma<br />

<strong>il</strong> vecchio si rialza subito. Comincia a scartabellare febbr<strong>il</strong>mente<br />

dei fogli dentro una cartellina rosa. Alla fine gli rovescia<br />

sul tavolo tutto quel materiale cartaceo e comincia a<br />

gracidare in un modo incomprensib<strong>il</strong>e esibendo ora questo<br />

ora quel documento. La ragazza cercava di calmarlo e intanto<br />

sorrideva a Nicolò.<br />

«Calmati, papà, siediti, stai buono, <strong>il</strong> signore adesso ci<br />

spiega tutto… Non è vero?»<br />

«Certo, ditemi, che c’è?»<br />

«Lei è gent<strong>il</strong>issimo, vedi, papà, <strong>il</strong> signore adesso ci spiega<br />

tutto… Vede, c’è che <strong>il</strong> nostro tasso è al 14,5 per cento e mio<br />

padre non vuole più pagare.»<br />

«È un mutuo agevolato?»<br />

Cerca di spiegargli la solita solfa: che non si fanno più<br />

rinegoziazioni d’ufficio e diffic<strong>il</strong>mente anche per scambio di<br />

lettera con la direzione perché hanno ceduto le licenze bancarie,<br />

sono diventati una società di servizi, insomma, tutta la<br />

pappa che gli hanno insegnato a dire. Il sordomuto si fa<br />

avanti, si propone mediatore, ma Nicolò lo scaccia.<br />

«L’unica è estinguere!» dice infine, cercando di non guardare<br />

l’espressione incollerita, anzi furiosa, del vecchio e<br />

quella stolida e delusa di Lerici.<br />

L’estinzione del mutuo è la parola magica. La si consiglia a<br />

tutti, direttiva dell’azienda. Nicolò allora si mette pazientemente<br />

a spiegare alla ragazza la spesa cui andrebbero incontro<br />

qualora scegliessero di estinguere <strong>il</strong> debito. Le fa una<br />

IL SORCIO 201<br />

proiezione di spesa al computer, con la penale, le spese di<br />

conteggio e tutto. Lei traduce al padre che comincia a battere<br />

forte i pugni sul tavolo gridando contro di lui e la sua banca.<br />

«Usurai, usurai, ci volete sul lastrico, vergognatevi, usurai!!!»<br />

La ragazza si alza, cerca di calmare <strong>il</strong> vecchio.<br />

«Fate una cosa, rivolgetevi al mio responsab<strong>il</strong>e, per reclami<br />

parlate con lui, là, dentro <strong>il</strong> gabbiotto… Ora lo avverto…»<br />

Passa la grana al capo, Nicolò, poi torna a pisciare. Non gli<br />

fanno neppure un po’ di pena questi miserab<strong>il</strong>i mutuatari.<br />

Non gli dispiace affatto che la banca gli sgonfi i portafogli. Il<br />

sordomuto lo aspetta fuori della porta.<br />

«Mia madre viene a prendermi. Perché non ci parli tu<br />

con lei?»<br />

«Dimentichi che io ho <strong>il</strong> part-time, esco alle due.»<br />

«Si tratterebbe di aspettare fino alle cinque…»<br />

«No, mi dispiace, non lo farei neppure se me lo chiedesse <strong>il</strong><br />

Direttore Generale in persona.»<br />

«Cristo – riflette Nicolò – a quarant’anni suonati non fa<br />

nulla senza <strong>il</strong> permesso della madre, questo imbec<strong>il</strong>le!»<br />

Durante l’ora di pausa pranzo tutti escono. Restano in ufficio,<br />

come al solito, soltanto lui e <strong>il</strong> Sorcio. Nicolò aspetta che<br />

finisca <strong>il</strong> suo orario navigando su internet o chiacchierando<br />

al telefono, <strong>il</strong> Sorcio si apparecchia la scrivania e mangia le<br />

cose che si è portato da casa.<br />

Naturalmente i due impiegati si ignorano, ma non si fanno<br />

sfuggire neppure una mossa uno dell’altro. Nicolò per esempio<br />

adesso, mentre si alza e se ne va al cesso, segue con attenzione<br />

lui che divora con quieta voracità <strong>il</strong> suo spezzatino coi


202 PARTE SESTA<br />

piselli attingendo direttamente dal termos. Quando torna,<br />

dopo aver telefonato alla madre, come sempre laconica, poiché<br />

è ancora presto per andarsene, si va a fumare un sigar<strong>il</strong>lo<br />

fuori, nella rampa dell’ingresso. Ma lo tiene sempre d’occhio,<br />

<strong>il</strong> Sorcio, attraverso le vetrate spesse e appannate. Ha<br />

finito di mangiare e si fuma <strong>il</strong> toscanello leggendo <strong>il</strong> giornale<br />

sportivo, in una positura ignorante come poche, come un<br />

pistolero nel saloon, i piedi allungati sulla scrivania con le<br />

gambe un poco divaricate. Disegnato sulla parete di vetro lo<br />

vede rispondere al telefono, ritirare indietro le gambe, mettersi<br />

composto, ascoltare a lungo prima di… sciogliersi in<br />

pianto, non può udire i singhiozzi, ma la sua espressione è<br />

inequivocab<strong>il</strong>e. È chino, una mano sulla fronte per nascondersi…<br />

Cazzo, non sta sognando, quello è proprio <strong>il</strong> Sorcio<br />

che piange. Immediatamente getta <strong>il</strong> sigaro nel lungo vaso di<br />

rampicanti e rientra. Riguadagna <strong>il</strong> suo posto cercando di<br />

non farsi né vedere né sentire. Intanto lo sente singhiozzare.<br />

Continua per forse un minuto, poi smette di botto accorgendosi<br />

che Nicolò è rientrato. Fa capolino dietro un separé per<br />

confermarsi della sua presenza. E si va a chiudere in bagno.<br />

Quando torna, Nicolò si sta preparando per uscire, e <strong>il</strong> Sorcio<br />

ha l’espressione arcigna e insolente di sempre. Naturalmente<br />

non si salutano.<br />

Dunque anche <strong>il</strong> Sorcio piange, anche lui è capace di soffrire,<br />

anche lui custodisce dei sentimenti in quel suo cuore<br />

rognoso, riflette Nicolò mettendo in moto la Vespa e risalendo<br />

la rampa erta mentre comincia ad aprirsi <strong>il</strong> cancello automatico<br />

lampeggiando di giallo in cima ai cardini. Certo,<br />

anche <strong>il</strong> Sorcio è un uomo, l’aveva quasi dimenticato osservandolo<br />

nell’esercizio quotidiano della sua violenza.<br />

IL SORCIO 203<br />

L’indomani Nicolò viene a sapere che con quella telefonata<br />

gli annunciavano la morte del padre. I colleghi fanno una<br />

colletta per acquistare un cuscino di fiori da mandare al<br />

funerale, colletta a cui orgogliosamente Nicolò non partecipa.<br />

Al sordomuto neppure lo hanno chiesto tant’era scontata<br />

la risposta.<br />

«Perché, che c’entra <strong>il</strong> padre?», gli chiede Follini, <strong>il</strong> diabetico<br />

alcolista, commentando <strong>il</strong> mancato contributo che ha<br />

reso più esigua la somma da investire nell’omaggio floreale e<br />

meno appariscente l’omaggio stesso.<br />

«Il padre l’ha messo al mondo!» gli fa Nicolò ridendo. Ma<br />

lui non vuole sdrammatizzare e insiste:<br />

«Che cosa vi ha fatto quel povero vecchio?»<br />

Cristo, quanto lo deprime essere associato al sordomuto!<br />

«Niente» gli fa sbuffandogli volontariamente in faccia <strong>il</strong><br />

fumo della sigaretta. «Proprio non riesci a capire che i cuscini<br />

non si fanno per onorare i morti, ma per consolare i<br />

vivi?»<br />

«Che hai detto? Ripeti un po’…»<br />

«Non importa.»<br />

Osserva la faccia tonta di Follini, arrossata ed enfiata dall’alcol,<br />

mentre Elena sopraggiunge ridendo e gli str<strong>il</strong>la all’orecchio:<br />

«Che fai, gli parli diffic<strong>il</strong>e a questo?! ah, ah, ah…»<br />

«Comunque ci sarà la scritta i colleghi del Back Office,<br />

mentre tu e Lerici non avete sganciato un euro, questo è un<br />

fatto…» commenta Follini tossendo e allontanandosi.<br />

Più tardi Nicolò si trova a indugiare nell’archivio con <strong>il</strong><br />

sigar<strong>il</strong>lo in bocca, ascoltando senza volerlo la radio, perennemente<br />

sintonizzata su una stazione romanista sparata a<br />

tutto volume dagli operai, quando gli passa davanti Follini,


204 PARTE SESTA<br />

con <strong>il</strong> casco già indossato, diretto al cesso, scosso dalle sua<br />

solita tosse convulsa. Alfio, l’orco dell’archivio, un gigante di<br />

quasi due metri con la faccia simpatica e <strong>il</strong> ventre prominente,<br />

smette di parlargli per guardare Follini con ostentato disprezzo.<br />

«Me fa schifo, mi fai schifo…», gli dice sulla faccia.<br />

Poi rivolto a Nicolò: «Me fa schifo, è malato fracico ma continua<br />

a veni’ qua a rompece i coglioni…»<br />

«Poveraccio!»<br />

«Poveraccio? Ci ha <strong>il</strong> diabete, e beve come una spugna, ci<br />

ha i polmoni marci e fuma come un turco… Un giorno o<br />

l’altro ce mòre qua dentro, vuoi scommettere?»<br />

Anche Elena disprezza Follini per la sua salute malcerta e<br />

per la sua debolezza. Lo sentono scatarrare rumorosamente<br />

al cesso, e Alfio storce le labbra, schifato. «Senti, senti che<br />

roba, se fa usci’ i regazzini morti…»<br />

Esce dal bagno, <strong>il</strong> piccolo Follini, sempre col casco già<br />

indossato per affrettare i tempi: alle 13.15 in punto sarà,<br />

come sempre, a cavallo del suo sgangherato motorino pronto<br />

a f<strong>il</strong>are a casa per <strong>il</strong> pranzo, a cui non rinuncia mai, neppure<br />

quando è in lite con la moglie. «È mia moglie, mi deve<br />

fa’ da magna’!», è la sua sentenza preferita, che regolarmente<br />

manda Elena fuori dai gangheri.<br />

Nicolò resta per un po’ a commentare con Alfio la notizia,<br />

pervenutagli soltanto oggi, che presto rientreranno tutti in<br />

sede. L’orco non è contento, tanto più che con ogni probab<strong>il</strong>ità<br />

verrà messo nella stessa stanza di Follini.<br />

«Te rendi conto, tutto <strong>il</strong> giorno co’ quel lazzaretto sonato…<br />

Me vogliono fa’ usci’ pazzo…»<br />

«E io allora, che rischio di finire in stanza col Sorcio dopo<br />

quello che è successo?…»<br />

IL SORCIO 205<br />

La sola idea lo fa rabbrividire, ma sebbene qualcuno l’abbia<br />

ipotizzato (Lerici, che quasi ci godeva), preferisce non<br />

crederci e confidare nel buon senso dei suoi capi e nella clemenza<br />

del fato.<br />

«Oggi quel pezzo di merda del Sorcio mi ha inf<strong>il</strong>ato un topo<br />

morto in un cassetto della scrivania.»<br />

Mentre lavorava ne percepiva l’olezzo disgustoso, ma ritenevano,<br />

lui ed Elena, che provenisse dai cassonetti fuori<br />

penetrando dalla porta socchiusa dell’ingresso. A un certo<br />

punto ha aperto <strong>il</strong> cassetto per prendere una sigaretta e si è<br />

imbattuto in quella vista orrenda: un topo di fogna bello<br />

grosso, grigio – un <strong>sorcio</strong> con la bocca aperta e la lingua di<br />

fuori a causa del veleno ingerito – buttato fra le carte, i<br />

dischetti HD e due pacchetti di Marlboro. Immediatamente<br />

chiude <strong>il</strong> cassetto e caccia una voce. Accorrono tutti, tranne <strong>il</strong><br />

Sorcio, intento a fare fotocopie di atti ipotecari in fondo allo<br />

stanzone. Lo si sente di lontano ridacchiare cavernoso fra sé.<br />

«Cristo, io non ce la faccio più, non ce la faccio più…»<br />

comincia senza volerlo a lamentarsi Nicolò. Elena cerca di<br />

consolarlo. Alla fine <strong>il</strong> capo in persona si occupa di prelevare<br />

<strong>il</strong> <strong>sorcio</strong> e buttarlo fuori nel cassonetto. Dà ordine a un operaio<br />

dell’archivio di svuotare <strong>il</strong> suo cassetto e disinfettarlo.<br />

Frattanto Nicolò continua a liberare le sue inani giaculatorie:<br />

«Questo è troppo, questo è veramente troppo, gliela faccio<br />

pagare a quello stronzo…» si lamenta a voce alta per farsi<br />

sentire da tutti e anche dal Sorcio, che continua imperterrito<br />

a fare fotocopie di atti di consenso, scosso dalle sue<br />

oltraggiose risate. Alla fine tanta è la rabbia repressa che si


206 PARTE SESTA<br />

sente mancare l’aria. Un paio di colleghi lo accompagnano a<br />

braccia e lo adagiano sulla poltrona dello spartano salottino<br />

d’attesa in faccia all’ingresso. Quello che ci vorrebbe è un bel<br />

bicchierino, ma nessuno ci pensa. Qualcuno gli dice che è<br />

pallidissimo. Poco dopo, attorno a Nicolò ci sono tutti i suoi<br />

colleghi del Back Office, pure <strong>il</strong> Sorcio che tuttavia è rimasto<br />

un po’ distante.<br />

«Allora, sei contento adesso? Ti sei divertito?» gli fa.<br />

Il capannello di colleghi si apre a ventaglio per permettere<br />

loro di dialogare.<br />

«Che cazzo vòi? – replica <strong>il</strong> Sorcio – Io nun c’entro un cazzo!»<br />

«Ah sì, tu non ne sai niente, ma certo, come no… Ma io<br />

questa te la faccio paga’, miserab<strong>il</strong>e analfabeta, che ti credi, io<br />

chiamo <strong>il</strong> capo del Personale e ti faccio caccia’ via, io ti<br />

denuncio ai carabinieri, io…»<br />

«Sì, sì, fammela paga’!» lo interrompe <strong>il</strong> Sorcio scettico,<br />

allontanandosi nel corridoio fra le scrivanie. Allora un attacco<br />

isterico lo scuote tutto, a Nicolò:<br />

«Piagni, piagni…», lo sente commentare. «È capace solo a<br />

piagne e a rubba’ lo stipendio, quer verme…»<br />

All’ora di pranzo arrivano, a seguito di una sua ma<strong>il</strong> dai<br />

toni melodrammatici, <strong>il</strong> capo del Personale e <strong>il</strong> suo rappresentante<br />

sindacale. Si chiudono in cinque nell’ufficietto dell’archivio.<br />

Lui si lamenta vivacemente, interrompendosi per<br />

<strong>il</strong> nodo alla gola. Cristo, questa parte da donnetta quanto<br />

preferirebbe non farla! Il Sorcio ha la testa bassa e tace,<br />

come nell’altro incontro al Personale. Il capo del Personale<br />

alla fine gli fa: «Lei non ha proprio nulla da dire per discolparsi?»<br />

IL SORCIO 207<br />

Il Sorcio barbuglia qualcosa che non si capisce, versi da<br />

animale. Il capo traduce per lui: «Era solo uno scherzo, uno<br />

scherzo di cattivissimo gusto, ma solo uno scherzo…»<br />

«Uno scherzo?» esclama Nicolò. Ma <strong>il</strong> capo del Personale,<br />

che soltanto adesso si accorge non essere come al solito<br />

impeccab<strong>il</strong>e ma un po’ stazzonato nell’abito scuro, con uno<br />

stemmino di non so che sulla giacca che fa pendant con la<br />

cravatta, gli fa segno di mantenere la calma e di lasciar fare a<br />

lui. Si alza: «Sarò costretto a intraprendere un’azione disciplinare.»<br />

Detto ciò, se ne va insieme al rappresentante sindacale<br />

(che ha fatto la bella statuina) su una Volvo scura con gli<br />

interni di pelle di proprietà dell’Istituto.<br />

L’indomani gli arriva tramite posta elettronica la comunicazione<br />

dell’immediato trasferimento del Sorcio alla sede di<br />

rappresentanza di Ancona. Va <strong>il</strong> capo in persona a informarlo.<br />

Il Sorcio se ne sta muto per mezz’ora radunando le sue<br />

cose, poi all’improvviso comincia a gridare e a imprecare<br />

correndo verso di lui, «l’ammazzo, l’ammazzo quel cane,<br />

porcoddio, l’ammazzo…», e gli si avventa addosso, scavalcando<br />

con un balzo felino la scrivania. Comincia a picchiarlo<br />

duro liberando barriti da animale: «Hai finito da’ fa’ er verme!»<br />

Nicolò, al solito, anziché reagire e difendersi, si immob<strong>il</strong>izza<br />

come una lucertola e si becca impotente quelle legnate<br />

riparandosi appena con le braccia. Quando finalmente gli<br />

tolgono di dosso quella bestiaccia tentacolare, e riprende faticosamente<br />

a respirare, l’um<strong>il</strong>iazione che prova è allo stesso<br />

tempo luttuosa e inebriante. Il risultato ultimo è che si vergogna<br />

di guardare in faccia i colleghi, specie Elena, che ha capito<br />

<strong>il</strong> suo imbarazzo e si mantiene a debita distanza. Non<br />

rivolge la parola a nessuno e nessuno la rivolge a lui, un clas-


208 PARTE SESTA<br />

sico, però oggi la faccenda è un po’ diversa dal solito. Torna a<br />

casa con un occhio tumefatto e nell’orecchio destro un sib<strong>il</strong>o<br />

intermittente. Quando Stella rientra dal lavoro, lo abbraccia,<br />

gli fa: «Bene, finalmente hai reagito, ti sei battuto.»<br />

«Non ho mosso un dito.»<br />

«Però l’hai fatto trasferire. Hai vinto tu… Non lo avrai più<br />

fra i piedi…»<br />

Sull’onda dell’espressione incoraggiante di sua moglie,<br />

dice: «Sì, è vero, forse ho vinto.»<br />

«Lei si troverà sempre dei Sorci nella vita, io temo… Dobbiamo<br />

entrare nell’ordine di idee che la sua natura forse ha<br />

bisogno di un Sorcio…»<br />

«Avrei bisogno dell’offesa, della sconfitta, dell’um<strong>il</strong>iazione?<br />

Allora sono un masochista.»<br />

«Lo ha detto lei.»<br />

«Sì, ma lei lo pensa. Un narcisista depresso e sadomasochista.»<br />

«Lasci stare le definizioni… Stiamo lavorando su alcuni<br />

concetti fondamentali che naturalmente rimandano a un<br />

quadro psicopatologico che conosciamo…»<br />

Ecco, questo va interpretato come un sì, ormai Nicolò sa<br />

che quando comincia così, vacuo e perifrastico, vuol dire che<br />

è nell’angolo. E allora è onesto e cavalleresco lasciargli qualche<br />

istante per riordinare i pensieri.<br />

«Un inconscio godimento nell’um<strong>il</strong>iazione… Qualcosa<br />

del genere in effetti è presente in tutti i miei libri…»<br />

«Questo non posso confermarglielo, perché…»<br />

«Perché non legge i miei libri, lo so, dottore…»<br />

IL SORCIO 209<br />

Già, per non farsi condizionare, gli ha spiegato. Ma che<br />

senso ha? Perché mai verrebbe condizionato dai suoi libri?<br />

Nicolò se fosse al suo posto leggerebbe i romanzi di un suo<br />

paziente scrittore, si sentirebbe in dovere di farlo. Ma naturalmente<br />

questo non glielo dice. Non si conquistano lettori<br />

con la forza.<br />

«Ma secondo lei perché io continuo a venire qui, perché<br />

continuo a credere nel nostro lavoro?»<br />

«Forse per non imbattersi più in Sorci che la um<strong>il</strong>iano.»<br />

«E per non um<strong>il</strong>iare con sadismo i miei amici più cari… E<br />

così perderli…»<br />

Di solito la seduta settimanale dallo psicologo è un buon<br />

viatico per la serata, e anche per la settimana appena cominciata,<br />

meglio perfino di un paio di bicchieri. Nicolò torna a<br />

casa con <strong>il</strong> cuore allagato di conoscenza di sé. Purtroppo da<br />

qualche tempo l’analista anziché tirargli su <strong>il</strong> morale (come<br />

faceva i primi tempi), celebrando le sue doti e le sue virtù,<br />

scacciando i suoi sensi di colpa, lo bastona proponendogli<br />

deprimenti immagini di sé. Eppure sostiene di fare <strong>il</strong> contrario.<br />

Forse ha esaurito le virtù. Potrebbe anche darci un taglio<br />

a questo costoso passatempo, come lo definisce Stella. Ci<br />

pensa spesso, ma poi pensa pure che:<br />

«Finché avrò delle cose da raccontarle, dottore, è bene che<br />

continui, vero?»<br />

«L’importante però è che io per lei non diventi un alibi per<br />

non cambiare, cioè un’ennesima sua dipendenza… Dopo<br />

quella dai farmaci, dall’alcol, da Stella, e come abbiamo visto<br />

persino dai ghiaccioli o dalle caramelle…»<br />

«Anche Stella sostiene che io sia dipendente da lei. È una<br />

patologia frequente, dottore, questa dipendenza dall’analista?»


210 PARTE SESTA<br />

«Diciamo che non è <strong>il</strong> solo ad avere certe reazioni emotive.»<br />

«Come si guarisce? Si deve smettere la terapia, immagino<br />

di no.»<br />

Aggrotta la fronte e scuote la testa in una composta negazione<br />

che non desidera nemmeno pronunciare.<br />

«Deve riuscire ad abbandonare, qualche volta, la sua condizione<br />

da assistito, mi permetta questa espressione un po’<br />

forte, che è poi una posizione di priv<strong>il</strong>egio sulle cose e sul<br />

mondo.»<br />

«E perché mai dovrei cambiare? Con quale convenienza?<br />

Da padrone lei mi vuole trasformare in servo…»<br />

«Questo lo pensa lei…»<br />

Anche nella capricciosa casualità della conversazione è<br />

persuaso che risieda la forza della terapia. Ha avuto occasione<br />

di verificarlo sul campo varie volte. Inoltre si sente offeso,<br />

sì, offeso dalle parole dell’analista, per quella «condizione da<br />

assistito» che gli è scappato detto. Per rendere <strong>il</strong> concetto<br />

ancora più chiaro, aggiunge: «La sua condizione è magnificamente<br />

sintetizzata da quella borsa gialla della roba pulita<br />

che lei ha ritirato da sua madre.»<br />

Non capisce che cazzo vuol dire, ma certo non si tratta di<br />

un complimento. Sicché preferisce cambiare discorso.<br />

«Ieri sera conversando con Stella e <strong>il</strong> piccolo a cena è venuto<br />

fuori che io vado dallo psicologo. Il bambino per la prima<br />

volta mi ha chiesto chi è uno psicologo, anche se l’aveva sentito<br />

nominare un sacco di volte, poi mi ha domandato perché<br />

ci vado.»<br />

«E lei cosa ha risposto?»<br />

«Un grande dolore può fare ammalare le persone, gli ho<br />

detto, ed è proprio ciò che è accaduto a papino quando morì<br />

IL SORCIO 211<br />

nonno Carlo. Da allora, ogni settimana papino va da un<br />

dottore che lo aiuta a non pensarci.»<br />

«Una formula interessante», dice l’analista.<br />

«Ma F<strong>il</strong>ippo era già con la mente altrove, ha detto una cosa<br />

che non c’entrava niente, in relazione ai superpoteri di qualche<br />

alieno nel f<strong>il</strong>m Matrix.»<br />

Prima di dormire, mentre gli dava <strong>il</strong> bacio della buonanotte,<br />

gli ha fatto: «Un giorno anche tu morirai?»<br />

«Sì, ma fra tantissimo tempo, quando sarò vecchietto, non<br />

devi pensarci adesso.»<br />

«Certe volte si sogna che siamo vecchietti, io e Stella, e si<br />

sveglia piangendo, povero piccino.»<br />

«Ogni età ha la sua paura della morte» conclude saggiamente<br />

<strong>il</strong> dottore.<br />

Arrivano libri a ripetizione, una dozzina alla settimana forse.<br />

La maggior parte non vengono da Nicolò neppure aperti<br />

e finiscono in un paio di piccole librerie di transito.<br />

Quando viene qualche parente affamato di libri (ce ne sono<br />

sempre), ne preleva parecchi che quelli si portano via con le<br />

buste della spesa.<br />

«Ma sono buoni?», gli chiedono sospettosi, vedendo la leggerezza<br />

con cui se ne libera. «Non lo so, non li ho letti», dice<br />

loro. Potrebbe rivenderli, come fanno alcuni critici che conosce.<br />

O cederli alle biblioteche. O almeno potrebbe barattarli<br />

con altri libri che gli piacciono di più in libreria, come faceva<br />

una volta, sotto la sua vecchia casa. Ma nelle librerie di Talenti<br />

i librai non accettano, sono ligi alle regole fiscali che impongono<br />

una bolla in entrata e una bolla in uscita.


212 PARTE SESTA<br />

«All’Eritrea mi trattavano coi guanti. Marcello, <strong>il</strong> titolare,<br />

era ed è un vero signore. Qui se ne fregano che io sia uno<br />

scrittore, e per giunta uno scrittore che nei suoi romanzi<br />

può anche parlare del loro fottuto quartiere. Qui neppure<br />

espongono i miei libri in vetrina quando escono. Mi ignorano,<br />

mi trattano come un qualunque cliente. Anzi, peggio,<br />

perché, ricevendo ormai in omaggio quasi tutti i libri che<br />

desidero, spendo da loro pochi soldi, soltanto per i libri del<br />

bambino. Pensi che razza di grettezza mentale, dottore, solo<br />

<strong>il</strong> brutale e immediato profitto… Potrebbero chiedermi di<br />

fare delle presentazioni, farmi conoscere alla clientela, cose<br />

così… Ma questi, questi sono dei miserab<strong>il</strong>i…»<br />

Fra i padroni della libreria c’è un gay di trent’anni, scapigliato<br />

e frenetico, perennemente sculettante da tutte le parti.<br />

«È <strong>il</strong> cuore pulsante della libreria, di cui non dirò <strong>il</strong> nome<br />

per non fargli réclame.»<br />

«Non ci andrei comunque…»<br />

Tutti si rivolgono a lui. Quando Nicolò si è presentato,<br />

neppure ha smesso quello che stava facendo.<br />

«Ah sì, lei è scrittore…», ha commentato distrattamente<br />

passando a servire un altro cliente.<br />

«Intendiamoci, dottore, io adoro l’anonimato.»<br />

«Ne è proprio sicuro?»<br />

«Be’, mi piace stare nell’ombra…»<br />

«Sì, lei si ritira nell’ombra, ma vuole che gli altri la riconoscano,<br />

la stanino…»<br />

«Restare in ombra in una libreria per uno scrittore, lei<br />

capisce, è <strong>il</strong> massimo dell’insuccesso…»<br />

«Lei se la sentirebbe di generalizzare?»<br />

Resta a pensarci ma <strong>il</strong> pensiero presto diventa: «Ma che<br />

IL SORCIO 213<br />

cazzo ha in mente, questo stronzo, di farmi vergognare di<br />

me stesso? Forse è una strategia per mandarmi via, giacché<br />

mi ha riconosciuto dipendente dalla sua figura… Insomma,<br />

mi caccerebbe via per <strong>il</strong> mio bene…»<br />

«A cosa pensava?»<br />

«Pensavo che non avrò più <strong>il</strong> Sorcio al lavoro.»<br />

«Un buon pensiero, allora…»<br />

«Già.»<br />

«Ci vediamo martedì prossimo, <strong>il</strong> tempo è esaurito…»<br />

«Martedì prossimo.»<br />

Si alza e fa per andarsene. Ma poi indugia sull’uscio: «Sa,<br />

non gliel’ho mai detto, dottore, ho fatto pestare <strong>il</strong> Sorcio.»<br />

Il dottore inscena lo sbigottimento, poi allarga le braccia,<br />

come a dire che comunque l’ora è finita e devono salutarsi.<br />

Un freudiano lo riconosci in circostanze come questa. L’applicazione<br />

della regola prima di tutto. Se l’ora è finita, è finita,<br />

impossib<strong>il</strong>e derogare, anche se <strong>il</strong> paziente gli sta annunciando<br />

l’inverosim<strong>il</strong>e.<br />

L’analista non ha modificato apparentemente né la terapia,<br />

né l’atteggiamento nei suoi confronti, per quello che gli ha<br />

raccontato. Aver pagato degli sgherri per pestare qualcuno<br />

non lo ritiene più grave di aver mandato in uno stesso giorno<br />

trenta ma<strong>il</strong> a Dario. Forse è persuaso che l’alcol stia<br />

facendo <strong>il</strong> suo naturale e orrendo gioco.<br />

«Lei non vuole liberarsi di me, vero, dottore? Non vuole<br />

lasciarmi da solo… Ma io non sono guarito…»<br />

«Lei non è affatto guarito, non fosse altro c’è un serio problema<br />

di dipendenza, e io non la lascerei da solo, la metterei


214 PARTE SESTA<br />

nelle affidab<strong>il</strong>i mani di un mio stimato collega, all’interno di<br />

questa stessa struttura…»<br />

«E cosa le fa credere che io accetterei di ricominciare tutto<br />

<strong>il</strong> lavoro con un altro che neppure conosco?»<br />

«Lo farebbe per <strong>il</strong> suo interesse.»<br />

«Ci vorrebbero mesi solo per raccontargli di nuovo tutto.»<br />

«Di questo non si deve preoccupare. Io ho un registro, sul<br />

quale annoto…»<br />

«Ma lei proprio non può…»<br />

«Le ho spiegato… Si tratta di un impegno in ospedale che<br />

non posso rifiutare…»<br />

«Ah.»<br />

«Il cambiamento potrebbe giovarle, come fa a escluderlo?»<br />

Quando sarà <strong>il</strong> momento, lo metterà alla porta. Anzi praticamente<br />

lo ha già fatto. E lui non sa se può accettarlo.<br />

Ha aspettato la fine del resoconto di un suo sogno contorto<br />

su Dario morto, <strong>il</strong> dottore, per comunicargli la fine del<br />

percorso terapeutico. Lo temeva, Nicolò, ma cercava di non<br />

pensarci, sperava dovesse avvenire più avanti nel tempo, in<br />

quel futuro indeterminato in cui conta di smettere di bere e<br />

di mollare la banca. «Non ci andrò mai, dottore, dal suo collega,<br />

e non andrò da nessun altro. La terapia per me finisce<br />

adesso, anche se non mi sento guarito.»<br />

«Se non vuol farlo per sé, lo faccia per la sua famiglia, per<br />

suo figlio. Lei ancora non può abbandonare la terapia, mi<br />

creda.»<br />

«Se dovesse succedere qualcosa, mi avrà sulla coscienza,<br />

dottore, non so dirle altro!»<br />

IL SORCIO 215<br />

«Non credo che lei rischi <strong>il</strong> suicidio, se questa è la sua<br />

preoccupazione.»<br />

«Perché non sa…»<br />

«Cosa dovrei sapere?»<br />

«Non c’è solo <strong>il</strong> suicidio fra le disgrazie… Potrei andare<br />

semplicemente alla deriva…»<br />

«Non ci vuole nemmeno pensare un po’ su?»<br />

«No, mi dispiace per <strong>il</strong> portafogli del suo amico», risponde<br />

acido. «Non potrà gonfiarsi per bene come ha fatto <strong>il</strong> suo per<br />

più di un lustro con <strong>il</strong> mio denaro…»<br />

I risultati di quell’uscita malevola e insolente di Nicolò si<br />

colgono all’istante.<br />

«Le oltraggiose immagini di me contenute nei suoi<br />

romanzi – gli dice con un’asprezza sconosciuta e una tensione<br />

palpab<strong>il</strong>e nella voce e tuttavia una impassib<strong>il</strong>ità altera e<br />

tragica nella figura – ora vengono confermate.»<br />

«Stavo scherzando naturalmente…»<br />

«Lei distrugge tutto ciò che tocca, Dario aveva ragione.»<br />

«Non mi lasci dottore, la prego…»<br />

«Si rende conto che lei mi ha definito nel suo romanzo come<br />

una mignatta assetata di quattrini, come un menagramo?»<br />

«Ma è un romanzo, è una finzione! Cos’è, si è offeso anche<br />

lei, dottore?»<br />

«…»<br />

«Io ho bisogno come <strong>il</strong> pane di venire qui da lei una volta<br />

alla settimana… Tanto più adesso…»<br />

Nicolò lo dice restando immob<strong>il</strong>e sul vano della porta, una<br />

mano appoggiata alla maniglia, le gambe incrociate all’altezza<br />

dei polpacci in una posa disinvolta che stride con <strong>il</strong> tono<br />

accorato delle sue parole.


216 PARTE SESTA<br />

«Mi dispiace per lei, e la prego di non rendere le cose più<br />

diffic<strong>il</strong>i con penose code melodrammatiche, come è accaduto<br />

con Dario.»<br />

Accidenti, sentirlo vibrare di cattivi sentimenti, libero dalla<br />

rigida e rassicurante maschera della professione, è una<br />

sgradevole novità. Gli comunica una sensazione di solitudine<br />

e di morte.<br />

«Anche lei mi odia, dottore… Anche lei mi abbandona…<br />

Ma non aveva detto che dovevamo prepararci alla separazione<br />

con almeno un anno di anticipo?»<br />

L’analista gli fa segno con la mano di andar via.<br />

«Non le ho ancora detto la cosa più importante: Stella forse<br />

mi lascerà e si porterà dietro <strong>il</strong> piccolo. Ecco, ora l’ho detto!<br />

Sarò presto solo, dottore… se lei mi abbandona, dottore,<br />

io non so cosa…»<br />

«Cosa?»<br />

«Cosa potrei fare…»<br />

«Da alcuni minuti non mi riguarda più.»<br />

«Se mi uccidessi…»<br />

«Se ne vada! Vada a piangere da qualcun altro!»<br />

Monta sulla Vespa umida di pioggia, raggiunge la stazione e<br />

parcheggia in un grosso garage, affida le chiavi a un garagista<br />

pelato non più giovane che somiglia al Miccia, esce a<br />

piazza dei Cinquecento, in faccia ai ruderi delle Terme di<br />

Diocleziano, che si intravedono fra <strong>il</strong> fogliame degli alberi<br />

frusto, grondante di pioggia. Cristo, ti ha mollato su due piedi!<br />

È bastato l’insulto sul portafoglio. Ma aveva già deciso di<br />

scaricarti. Non aspettava altro.<br />

IL SORCIO 217<br />

C’è un sacco di gente di tutte le razze, come sempre, traffico<br />

robusto ma non caotico, una pioggerella insistente, i<br />

binari del tram e i sampietrini sdrucciolevoli sotto le Clarks.<br />

Per prima cosa si compra un cappellaccio da un marocchino<br />

per ripararsi dalla pioggia, poi comincia a camminare attraverso<br />

la piazza allontanandosi dalla stazione. E adesso cosa<br />

accadrà? Niente, tornerai a casa, amico, e tutto continuerà<br />

come prima. A che serve un analista per vivere così? Non ci<br />

vuole uno psicologo per questo.<br />

A piazza della Repubblica una scura e vasta volta di storni<br />

che, gracidando e volteggiando, cacano in testa ai passanti e<br />

sulle macchine parcheggiate. Per fortuna ha comprato <strong>il</strong><br />

cappello. I benzinai tengono sempre l’ombrello aperto qui,<br />

fanno bene, pensa Nicolò.<br />

Mezz’ora dopo è a piazza di Spagna, dinanzi a eleganti<br />

vetrine, e gente benvestita che fa bene agli occhi dopo tanti<br />

straccioni vecchi e giovani. Ci sono molti sacchi di immondizia<br />

fuori dei negozi, uno particolarmente grosso sotto <strong>il</strong><br />

palazzotto dei Borgognoni che è la sede della fondazione De<br />

Chirico. Ma c’è già chi provvede a raccoglierli: un sacco di<br />

spazzini che fanno capo a tre o quattro camionette della nettezza<br />

urbana dislocate da una parte e dell’altra della piazza.<br />

Si siede sulla Barcaccia del Bernini e osserva la strada che<br />

rapidamente viene pulita dai sacchi e dalle immondizie. A<br />

via Frattina cerca invano un bar aperto per un bicchiere. Un<br />

extracomunitario del Comune sta provvedendo a innaffiare<br />

le piante appese in vasi eleganti sotto i primi piani dei palazzi:<br />

per fare ciò usa un curioso strumento dotato di una lunga<br />

pompa a forma di rampino. L’acqua viene pompata da una<br />

manichetta che l’addetto porta legata dietro le spalle a mo’


218 PARTE SESTA<br />

di bombola nautica. La gente che passa osserva divertita<br />

quell’operazione, un coattello lancia una voce strafottente<br />

all’operaio (ma sta a piove’, che cazzo fai?) che non lo degna<br />

di uno sguardo e continua <strong>il</strong> suo ufficio con pazienza e<br />

determinazione.<br />

Quando torna a piazza di Spagna, ci sono altri spazzini che<br />

caricano l’ennesima camionetta. Di fianco all’American<br />

Express, una immaginifica fuga di manichini sotto vetro<br />

dietro le finestre del palazzetto dell’Expensive.<br />

Dopo dieci minuti di cammino, entra in una chiesa, si siede<br />

sull’ultima panca. Osserva un altare debolmente <strong>il</strong>luminato<br />

alla sua destra sotto una volta affrescata con un dipinto<br />

settecentesco del Giudizio. In uno di quei volti lunghi e ascetici<br />

di santi, <strong>il</strong>luminati da sapienti e invisib<strong>il</strong>i riflettori, si<br />

alternano i tratti sim<strong>il</strong>i di Dario e dello psicologo. Un vecchio,<br />

che sembra uscito dal dipinto, gli si avvicina. Il sorriso<br />

gli scopre una dentiera che aderisce in modo impreciso alla<br />

bocca larga. È vestito come un barbone. Anche se Nicolò<br />

conosce dei critici letterari che si abbigliano esattamente<br />

così, con molti strati sovrapposti di velluto a coste. «Qualunque<br />

sia <strong>il</strong> motivo che ti ha portato qui, non morirai per<br />

questo, vecchio mio», gli fa <strong>il</strong> barbone con la dentiera che gli<br />

sciacqua in bocca, alitandogli in faccia <strong>il</strong> suo fiato pesante.<br />

«Che vuoi dire?»<br />

«Dammi qualcosa, amico.»<br />

Gli allunga un euro, e quello se ne va ciabattando. Cammina<br />

ancora per poco sotto la pioggia con uno strano senso di<br />

libertà e di gratitudine. Un altro povero cristo che mendica.<br />

Anche a lui allunga qualche spicciolo, non sia mai che un<br />

domani ti trovi in quella condizione. Si regala due grappini<br />

IL SORCIO 219<br />

gelati in un bar povero e poco <strong>il</strong>luminato. Scrive un messaggio<br />

telefonico all’analista: «Per ora tutto ok. La prego, non<br />

mi odi», poi uno a Stella: «Ho paura che la prossima litigata<br />

te ne andrai.» Torna alla chiesa di prima, riesce ad accendere<br />

con un pulsante un cero di plastica senza inserire denaro in<br />

offerta. Si abbandona all’oggetto del suo voto: naturalmente<br />

<strong>il</strong> suo vecchio.<br />

Se lo rivede cinquantacinquenne, magro come sempre ma<br />

gagliardo, scattante, appena un po’ di grigio sulle tempie,<br />

che faceva salto in alto con lui sul terrazzo. Com’era ancora<br />

ag<strong>il</strong>e! Anche in quella disciplina vantava un primato. Era<br />

arrivato terzo a una gara nazionale, così diceva, aveva saltato<br />

un metro e settantadue, che a quell’epoca (durante la guerra)<br />

era un bel po’… Ma probab<strong>il</strong>mente si trattava di una<br />

panzana. Comunque Nicolò dice una preghiera per <strong>il</strong> suo<br />

vecchio, perché dovunque sia, se la passi bene. «Ti voglio<br />

bene, te ne ho sempre voluto, vecchio mio, anche se può<br />

riuscirti diffic<strong>il</strong>e crederci visto le cose che ho scritto. Ma io<br />

sono fatto così, tendo a distruggere chi amo.» Si sente retorico<br />

e osserva senza interesse <strong>il</strong> deambulatorio, l’abside spoglia,<br />

la decorazione a stucchi delle pareti, tutti particolari<br />

che registra la sua retina ma non la sua testa. Si avvicina a<br />

una pala d’altare che rappresenta la Gloria di qualche santo.<br />

Quando esce dalla chiesa è l’imbrunire e non piove più. Il<br />

cielo è grigio, l’aria ferrosa, come sempre a via Quattro Fontane.<br />

Raggiunge la sommità della salita, attraversa l’incrocio<br />

più sontuoso e inquinato della città. A onta di tutto, si dice<br />

mentalmente che non può essere la fine. Qualcosa deve<br />

ancora succedere, lo sente nei lombi insolitamente scattanti<br />

e nella testa come intasata di cose.


220 PARTE SESTA<br />

Improvvisamente capisce quello che deve fare. Entra in<br />

una cartoleria con un malizioso sorriso dipinto sulla faccia e<br />

compra della carta da pacchi, dell’alcol e un accendino zippo<br />

che gli costa quindici euro. Raggiunge <strong>il</strong> primo giornalaio di<br />

via Veneto. Sull’altro marciapiede, oltre l’incrocio, c’è l’ambasciata<br />

americana presidiata da macchine della polizia e<br />

guardie del corpo con giubbotti antiproiett<strong>il</strong>e. Gira due o tre<br />

volte attorno all’edicola, prova a fumare una sigaretta per<br />

darsi un contegno, ma <strong>il</strong> vento gliela consuma troppo in<br />

fretta. Accende tre volte lo zippo per prova: funziona magnificamente,<br />

la fiammella anche esposta al vento resta accesa.<br />

C’è molta gente che va a viene, ma nessuno fa caso a Nicolò.<br />

Nessuno lo guarda. La situazione è identica a quando comprò<br />

<strong>il</strong> giornaletto pornografico sotto casa di Gabriele trenta<br />

anni fa. Si guarda intorno, confermandosi che nessuno lo sta<br />

osservando. Per cui svolge tutte le operazioni con cura, precisione,<br />

senza fretta né indugi come se l’avesse già provato<br />

molte volte. Apre la carta da pacchi, l’arrotola e la schiaccia<br />

in modo da farne una specie di mazzetta e ci versa sopra tutta<br />

la boccetta di alcol. L’ha visto fare in un f<strong>il</strong>m, o forse lo ha<br />

letto in un racconto, comunque sta solo ripetendo bene un<br />

copione. Accende lo zippo e dà fuoco alla mazzetta che poi,<br />

divenuta come un tizzone ardente, lancia all’interno dell’edicola.<br />

Appicca <strong>il</strong> fuoco ai giornali appesi al gabbiotto. Nonostante<br />

la pioggerella che seguita a cadere, grazie al vento <strong>il</strong><br />

fuoco monta subito in vigorosi pennacchi. Le guardie di là<br />

dalla strada forse hanno visto, ma non si muovono, qualcuno<br />

da dentro <strong>il</strong> gabbiotto lancia un urlo, qualcun altro attraversa<br />

precipitosamente la strada, un cagnetto guaisce. Nicolò<br />

si allontana ma senza correre. Ogni tanto si gira per<br />

IL SORCIO 221<br />

ammirare <strong>il</strong> luminoso disastro che ha provocato. All’incrocio<br />

fra via Veneto e via Boncompagni <strong>il</strong> cielo è nero, viola e<br />

rosso porpora, fra le traiettorie sghembe dei palazzi, come in<br />

un dipinto di Scipione. Sale ancora la via. L’edicola diventa<br />

sempre più piccola e sempre più rossa. Resta a contemplarla<br />

per qualche secondo, da lontano, insieme ad altre persone<br />

che dicono nello stesso momento, dandosi l’un l’altro sulla<br />

voce: «È doloso.»<br />

«Cristo!»<br />

«My God!»<br />

«Lo vorrei conoscere, quel bastardo!»<br />

«Un attentato!»<br />

Nicolò si allontana un po’ di più tra la folla ancora meravigliosamente<br />

anonima e distratta. Nel buio di Porta Pinciana<br />

si siede sul guardra<strong>il</strong> e respira a fondo, fissando l’arancione<br />

lampeggiante del semaforo e le strisce bianche di attraversamento<br />

pedonale. I colori sono netti, precisi. Mentre accende<br />

una sigaretta osserva un signore vestito con abiti eleganti ma<br />

lisi, crespo di lino e paglietta, che attraversa la strada. Ogni<br />

cosa appare al suo posto e <strong>il</strong> battito del cuore è appena un<br />

po’ accelerato.


Ep<strong>il</strong>ogo<br />

La condanna


IL SORCIO 225<br />

Aveva preso alloggio a Montefalco, <strong>il</strong> paese di suo padre e di<br />

suo nonno Omero, <strong>il</strong> paese della sua infanzia, delle segrete<br />

bevute di sagrantino dolce nella cantina della casa avita<br />

durante i lunghi pomeriggi estivi, delle spericolate corse in<br />

bicicletta per lo stradone (così chiamato dai paesani perché<br />

taglia in due <strong>il</strong> paese come un’anguria, anche se in realtà è<br />

una strada di un paio di metri di larghezza che da piazza<br />

Matteotti scende ripida alle mura), delle lunghe passeggiate<br />

con suo padre per la campagna immensa e profumata…<br />

Aveva scelto un alberghetto squallido, proprio sullo stradone:<br />

non c’era niente di meglio.<br />

Una sera rientrò alle otto, dopo una lunga giornata di<br />

colti e salutari peregrinaggi fra duomi, piazzette, abbazie,<br />

vicoli, profumo di legna bruciata e di campagna, osterie<br />

fumose.<br />

Il portiere di notte era già al di là del banco della reception.<br />

Gli ha fatto cenno di avvicinarsi, con un’aria impacciata e<br />

ambigua, nella quale serpeggiava una nota di compassione.<br />

«Anche lei da solo, dottore?» gli ha detto, a occhi bassi.<br />

«Sì. Ma non sono dottore.»<br />

«È triste la vig<strong>il</strong>ia da soli, non trova?»


226 EPILOGO<br />

«No, non triste, è strana. Deprime ed eccita allo stesso<br />

tempo. Ci si sente ai margini del consorzio civ<strong>il</strong>e. Lei<br />

comunque è solo per necessità, mi pare.»<br />

«Oh, no, no. Avremmo chiuso stasera. Chiudiamo sempre<br />

presto la sera della vig<strong>il</strong>ia. Sa, oltretutto lei è l’unico cliente<br />

rimasto, e ha la chiave… Il Natale la gente lo passa a casa,<br />

con la famiglia.»<br />

«Dunque stasera avete tenuto aperto per me…»<br />

«No, no, le ho detto. Le abbiamo dato anche la chiave, può<br />

entrare e uscire quando vuole. Lei ormai è di casa. È che… tanto,<br />

per me, qui in albergo o a casa, un posto vale l’altro. Almeno<br />

qui mi <strong>il</strong>ludo di lavorare. Mi <strong>il</strong>ludo di starci, come lei diceva,<br />

per necessità. A casa, sa, fa più tristezza. Ma lei, lei perché.»<br />

«Perché cosa?»<br />

«Lo passa da solo?»<br />

«Diciamo che mi sto prendendo una vacanza.»<br />

«Mi scusi, non volevo farmi i fatti suoi.»<br />

«Non si preoccupi. Bene, allora io andrei. A proposito, mi<br />

saprebbe indicare un posto dove mangiare stasera? Qui nei<br />

dintorni… In paese i ristoranti chiudono tutti.»<br />

«Temo anche nei dintorni. Se lo desidera, potremmo mangiare<br />

un boccone insieme, qui in albergo. Non sarà tacchino,<br />

ma qualcosa di cucinato senz’altro.»<br />

«Non vorrei disturbare.»<br />

«Sciocchezze!»<br />

Nicolò nota che sul petto – sopra la camicia fantasia e<br />

seminascosta dalla giacca dozzinale – gli br<strong>il</strong>la un pesante<br />

crocefisso d’oro, tenuto da una catena parimenti massiccia.<br />

«Io comunque andrei a cambiarmi. La raggiungo fra<br />

poco.»<br />

IL SORCIO 227<br />

«Vada, vada pure. Ora chiudo e vedo cosa c’è in cucina.<br />

Della carne surgelata senz’altro. Vino rosso, va bene per lei<br />

vino rosso?, del Chianti credo…»<br />

«Bene, ottimo, faccia lei.»<br />

«Vedrà, troveremo anche lo spumante per brindare a mezzanotte.»<br />

Torna dopo un bel po’, per non assistere ai preparativi, o<br />

peggio darsi da fare per aiutarlo. Il portiere ha già apparecchiato<br />

una tavola del ristorante. Il locale, povero e deprimente,<br />

che gli è noto solo per la prima colazione del mattino,<br />

gli sembra ancora più triste del solito per via della scarsa<br />

<strong>il</strong>luminazione. Il portiere ha acceso soltanto un lampadario,<br />

<strong>il</strong> più vicino alla tavola apparecchiata e alla porta scorrevole<br />

che mette nella cucina. Il resto della sala è immerso nelle<br />

tenebre. Il s<strong>il</strong>enzio accentua l’atmosfera di solitudine e di<br />

squallore. Proprio nel centro della tavola, imbandita per <strong>il</strong><br />

resto con semplicità, spicca un vasetto di cristallo smerigliato<br />

con un mazzetto di dalie e viole un po’ sciupate dentro:<br />

fiori da ospedale e vasetto cimiteriale. Vorrebbe proporre al<br />

portiere di accendere le altre luci, per rallegrare un po’ l’ambiente.<br />

Ma poi ci ripensa. Il buio almeno inghiottisce gli<br />

orrendi festoni da dopolavoro polacco faticosamente sistemati<br />

ieri da lui e dal padrone.<br />

«Si accomodi, la prego. Beva <strong>il</strong> prosecco, gliene ho già versato<br />

un bicchiere. Ci sono anche delle patatine. Non un<br />

granché come aperitivo, ma ho trovato solo quelle. Le danno<br />

fastidio i fiori? Li sposti, li sposti pure.»<br />

Scansa un poco <strong>il</strong> vasetto verso l’apparecchiatura del suo<br />

ospite. E prende posto al tavolo, deciso a farsi servire e riverire<br />

tutta la sera.


228 EPILOGO<br />

«Sa, – continua a giustificarsi <strong>il</strong> portiere vociando dalla<br />

cucina – la cuoca e <strong>il</strong> cameriere sono via da ieri, bisognerà<br />

arrangiarsi.»<br />

«Non si preoccupi, andrà tutto benissimo. L’alternativa<br />

erano dei panini col formaggio.»<br />

Torna in sala, mentre dalla cucina giunge un invitante sentore<br />

di ragù. Siede di fronte a lui, e si versa da bere, in attesa<br />

che <strong>il</strong> sugo sia cotto al punto giusto. È allegro e r<strong>il</strong>assato.<br />

Sembra felice. D’un tratto però: «Io sono rimasto solo, sa?<br />

Mia moglie è morta l’estate di sei anni fa.»<br />

«Mi dispiace. Comunque me lo aveva già detto.»<br />

«Ah, sì?»<br />

«Sì.»<br />

Tace. Poi riprende:<br />

«La mia povera mamma è ricoverata all’ospizio di Bevagna,<br />

è molto malata, non ci sta più con la testa. Sono andato<br />

stamani a trovarla e a farle gli auguri. Una pena. Non mi<br />

riconosce mica più. Le ho portato in regalo dei cioccolatini.<br />

Me li ha tirati appresso. Già da qualche tempo, a dire <strong>il</strong> vero,<br />

non mi riconosce…»<br />

«Mi dispiace molto anche per la sua povera mamma.»<br />

«Sa, io non mi lamento mai, ma la mia vita… Eppure<br />

quello che vorrei è solo… dei figli. Ecco, questo mi renderebbe<br />

felice. Se almeno fosse riuscita a lasciarmi dei figli. Era<br />

ster<strong>il</strong>e, sa, mia moglie. E ne soffriva tanto, povera donna.<br />

Oggi staremmo bene. Ho dei risparmi. Poca roba, però<br />

abbastanza per… Ho risparmiato denaro tutta la vita. Una<br />

famiglia. Una famiglia è maledettamente importante. È l’unica<br />

cosa veramente importante. Uno se ne accorge in giorni<br />

come questi. Lei è ancora giovane. Ha figli?»<br />

IL SORCIO 229<br />

«Sì.»<br />

Si versa dell’altro prosecco e fa segno al portiere di non<br />

pensarci e di brindare con lui, così la finisce di piagnucolare<br />

sulle sue sventure e di parlargli della famiglia. Le coppe tintinnano.<br />

«Perché non ci diamo del tu?» gli fa <strong>il</strong> portiere.<br />

«D’accordo.»<br />

È già un po’ fatto, Nicolò, quando Renato torna nuovamente<br />

in cucina. Pure si versa altro vino, mangiandoci sopra<br />

qualche patatina. Di lì a poco ecco di nuovo Renato in sala<br />

con la pasta, che fumiga dentro una teglia d’alluminio rettangolare,<br />

con i manici dorati. Mangiano entrambi avidamente.<br />

I bicchieri del vino vengono continuamente rimboccati<br />

sino all’orlo dal portiere con un Chianti curiosamente<br />

frizzantino. Gli chiede più volte di ripetere <strong>il</strong> rito del brindisi,<br />

sorridendogli con affettazione di ritegno.<br />

Nicolò sente la sbornia crescere. Vede br<strong>il</strong>lare riflessi di<br />

luce nelle pup<strong>il</strong>le del portiere, la sclerotica arde, sulla fronte<br />

pure scint<strong>il</strong>lano perline di sudore in una fantasmagoria di<br />

st<strong>il</strong>le corrusche. La sua faccia si gonfia, si stringe, poi si<br />

allunga, sotto la lente deformante dei suoi occhi ubriachi.<br />

Ha in faccia un’espressione ridente adesso, però su un fondo<br />

di amarezza melensa che lo irrita e lo disgusta. La somiglianza<br />

fisica con <strong>il</strong> Sorcio si è resa palese solo adesso.<br />

Scompare e torna col secondo, una fiorentina un po’ dura<br />

che spartisce in due e alcune costolette d’abbacchio.<br />

Frattanto parla del suo hobby preferito: scrivere poesie. E<br />

nel farlo tiene gli occhi bassi secondo <strong>il</strong> suo modesto costume.<br />

Chiede a Nicolò se gli farebbe piacere leggerle, le sue poesie.<br />

Nicolò dice di sì. Allora si allontana velocemente e torna


230 EPILOGO<br />

con un blocco manoscritto tenuto insieme da un’attache<br />

gigante. Nicolò scorre quelle pagine a una a una.<br />

«Oh, sono piccole cose! Sai, non mi <strong>il</strong>ludo di essere un<br />

poeta. È un modo per parlare con me stesso. Uno sfogo. Ma<br />

veramente ti sembrano buone?»<br />

«Sono, direi, autentiche. Si sente che vi arde del sentimento.»<br />

«Mi confonde, sai, sentirmi dire queste cose. Non ci sono<br />

abituato.»<br />

«Non devi confonderti. Devi perseverare. Spedirle a qualche<br />

casa editrice per la pubblicazione. È roba che vale.»<br />

Il portiere lo informa, con trascurata fierezza, di aver collaborato<br />

alla redazione di una guida turistica del paese che gli<br />

ha visto sfogliare stamani nella hall.<br />

«Ho curato alcune ricerche bibliografiche. Ho corretto le<br />

prime bozze. Il mio nome figura anche nella prefazione,<br />

insieme ad altri amici.»<br />

«Fantastico.»<br />

Adesso è Nicolò ad allontanarsi: va alla reception per telefonare<br />

a Stella e alla madre. Stella gli dice che F<strong>il</strong>ippo chiede<br />

sempre di lui. Aggiunge che è <strong>il</strong> primo Natale che passano<br />

lontani, ma non lo ha mai sentito tanto vicino. Vuol sapere<br />

come si sente. Si preoccupa per la serata. Gli dice ridendo<br />

che <strong>il</strong> giorno di Natale si uccidono un sacco di persone…<br />

Nicolò la informa che ha trovato un compagno per la serata.<br />

La telefonata con la madre è ancora più asciutta. Poi va a<br />

pisciare. Come torna <strong>il</strong> portiere gli dice, secco, come se per<br />

tutto quel tempo non avesse pensato ad altro: «Scrivi anche<br />

tu, vero? Scusami eh, ma inavvertitamente, ieri, accompagnando<br />

una delle donne delle pulizie, ho visto <strong>il</strong> tuo computer<br />

portat<strong>il</strong>e acceso sullo scrittoio e mi sono permesso…»<br />

IL SORCIO 231<br />

«Il mio portat<strong>il</strong>e acceso?»<br />

«Sì, dovevi averlo dimenticato così.»<br />

«È molto strano. Si spegne da solo dopo dieci minuti che<br />

non lo usi. E come mai accompagnavi la donna delle pulizie?»<br />

«Lo faccio spesso, la aiuto. È una donna anziana, sai, una<br />

zia della mia povera moglie. Al mattino mi trattengo sempre<br />

un po’ di più e…»<br />

«D’accordo, d’accordo. Comunque, per tornare alla tua<br />

domanda, sì, sono uno scrittore.»<br />

Il portiere lo guarda ammirato. Vuole sapere della sua attività<br />

letteraria. Parla a lungo, Nicolò, con quella eruttante<br />

loquacità che spesso dà l’alcol. Infine gli chiede della sua<br />

opera in cantiere, La condanna.<br />

«È solo <strong>il</strong> primo racconto di una raccolta che ho in mente.<br />

Ma non mi convince. Del resto lo hai letto, no?»<br />

«Che cosa non ti convince?»<br />

«Diffic<strong>il</strong>e dire. Tutto e niente.»<br />

«Manca… se posso fare un’obiezione…»<br />

«Devi, devi…»<br />

«Manca un movente, un vero movente!»<br />

«Potrei dirti che <strong>il</strong> movente è <strong>il</strong> disprezzo del protagonista e<br />

la stupidità o ipocrisia della vittima. Ma non è così, o lo è solo<br />

in parte. Il movente più profondo è l’insensatezza di tutto:<br />

della vita, della morte… Vorrei abbattere <strong>il</strong> confine fra arte e<br />

vita, fra finzione e realtà, ma abbatterli veramente, non so se<br />

mi capisci. In certi momenti, per esempio, sento che potrei<br />

far fuori qualcuno. Dico sul serio. Ecco, se riuscissi…»<br />

Impallidisce e gli volge uno sguardo allertato.<br />

«Non c’è da fare quella faccia. Mica ho detto che voglio<br />

farti fuori.»


232 EPILOGO<br />

«Ma quel personaggio…»<br />

«Lo so, lo so, i caratteri della vittima coincidono parzialmente<br />

con i tuoi. Ma è solo perché… Be’, perché fatalità ha<br />

voluto che adesso abbia conosciuto te e abbia tempo di scrivere.<br />

Sai come sono i romanzieri, attingono dove capita, e<br />

traducono quello che trovano nel loro mondo, più o meno<br />

deformandolo. Ma gli spunti sono solo pretesti, frutto di<br />

coincidenze. Sei uno scrittore anche tu, dovresti saperlo.<br />

Tieni, bevi altro vino…»<br />

E gli versa un’altra coppa fino all’orlo. Poi gli chiede <strong>il</strong> cavaturaccioli<br />

per aprire la terza bottiglia, l’ultima di cui dispongono.<br />

Glielo indica sul tavolo, seminascosto dalla sua salvietta.<br />

«E l’hai chiamato anche col mio nome.»<br />

Beve e anche Nicolò beve un altro bicchiere, a lente sorsate.<br />

Tra una sorsata e l’altra lo guarda senza parlare. Pare davvero<br />

sul punto di svenire tanto è diventato pallido. Le orecchie<br />

sporgono livide ai due lati della faccia, un po’ sghembe<br />

lungo l’arco superiore. Sotto le palpebre, sull’epidermide<br />

unta, corre un solco grigio. Sul capo gli br<strong>il</strong>lano, ammazzettati,<br />

quei pochi capelli neri che gli restano. È patetico: una<br />

maschera kabuki incipriata, messa sul volto d’un povero di<br />

spirito.<br />

Nicolò gli chiede come festeggerà <strong>il</strong> Natale domani.<br />

«Al mattino andrò al cimitero, a portare i miei auguri a<br />

mia moglie… – sorride di malavoglia – proprio come nel<br />

tuo racconto.»<br />

«Già… E poi, dopo <strong>il</strong> cimitero?»<br />

Resta qualche istante pensoso a guardarlo, come se non si<br />

aspettasse questa domanda.<br />

IL SORCIO 233<br />

«Ci sarà un dopo?» gli chiede.<br />

«Non scherzare, mi fai sentire in imbarazzo, è solo un racconto!»<br />

«Poi andrò alla messa del Duomo a mezzogiorno.»<br />

«E <strong>il</strong> pranzo?»<br />

«Da Luigi, un caro fratello della comunità.»<br />

«La comunità?»<br />

«Sì, la mia comunità. La comunità neocatecumenale della<br />

Speranza.»<br />

«Ah, sei un neocatecumeno, dovevo immaginarlo.»<br />

«Perché?»<br />

«Mah, così.»<br />

«Sai qualcosa del nostro movimento?»<br />

«Qualcosa.»<br />

Lo guarda intensamente negli occhi fino a farglieli abbassare.<br />

Il portiere continua a bere senza sosta. Si è già riempito<br />

<strong>il</strong> bicchiere quattro volte, mescendo dalla terza bottiglia.<br />

«Rischiamo di sentirci male, con tutto questo vino. E poi<br />

dobbiamo lasciarci un po’ di spazio per lo spumante. Tra<br />

meno di venti minuti è la mezzanotte.»<br />

«Io lo reggo bene.»<br />

A Nicolò invece la testa gira parecchio, e stenta a parlare a<br />

causa della bocca impastata. Però ancora non ha alcun sintomo<br />

di nausea. Vorrebbe alzarsi per vedere fino a che punto<br />

è sbronzo. Ma teme di non reggersi sulle gambe. La luce cruda<br />

del lampadario ritaglia i multipli prof<strong>il</strong>i della colonna<br />

accanto al tavolo. L’idea di quel robusto sostegno lo incoraggia.<br />

Allora si alza e si appoggia con la schiena alla colonna.<br />

Barcolla. Stando in piedi, la testa gli gira più velocemente, le<br />

immagini turbinano: la figura seduta di Renato, che vede


234 EPILOGO<br />

adesso di prof<strong>il</strong>o, <strong>il</strong> tavolo, ingombro di vettovaglie, bottiglie<br />

e piatti, la tovaglia imbrattata da macchie purpuree di vino e<br />

piena di briciole di pane, la formaggiera, i piatti sporchi del<br />

secondo, resti di carne abbruciacchiata su un ovale di portata,<br />

le tre bottiglie di vino che mandano riflessi, e più in basso,<br />

sotto al tavolo, <strong>il</strong> pavimento opaco di linoleum verde con<br />

le scarpe di vernice nera di Renato.<br />

Si siede di nuovo. Di lì a poco si sente meglio. Dà la stura a<br />

un discorso, uno qualunque, <strong>il</strong> primo che gli viene in mente.<br />

Parla dell’ufficio, del Sorcio, della rottura con Dario…<br />

«Se semini odio non puoi ricevere amore…»<br />

«Già.»<br />

«A ogni modo, con tutto <strong>il</strong> tuo odio non credo che sia possib<strong>il</strong>e<br />

realizzare un omicidio a quel modo. A freddo, senza<br />

una causa scatenante.»<br />

«E perché?»<br />

«Perché <strong>il</strong> personaggio sarebbe un mostro. E io un mostro<br />

non riesco a sentirlo verosim<strong>il</strong>e.»<br />

«Eppure ne girano tanti.»<br />

«Sì, ma sono dei malati. La causa scatenante in loro è la<br />

malattia. Il tuo eroe è un malato?»<br />

Glissa la domanda, Nicolò, e va al dunque.<br />

«Potrebbe accadere, con la semplicità con cui accadono<br />

tutte le cose. Domani potrei svegliarmi e cominciare una<br />

nuova vita da assassino.»<br />

«Allora <strong>il</strong> tuo personaggio è veramente un mostro? Debbo<br />

credere questo? Potrebbe davvero uccidere senza battere<br />

ciglio un innocente?»<br />

«Perché, ti senti innocente, tu?»<br />

Non risponde. Incalza: «La mia malattia mi rende, come<br />

IL SORCIO 235<br />

dire, moralmente ipersensib<strong>il</strong>e.»<br />

«La tua malattia?»<br />

«Sai, non ho alcun ritegno a parlarne, tanto più oggi, con<br />

tutto questo vino… Si tratta di depressione…»<br />

Lo fissa con allucinata insistenza, non in faccia però, all’altezza<br />

del petto.<br />

«E quali sarebbero i sintomi?»<br />

«Oh, sono molti…»<br />

«Mi spieghi perché ti ho ispirato tutto quell’odio?» dice<br />

Renato con un sorriso supplichevole a mezza bocca.<br />

Si alza di nuovo e torna ad appoggiarsi al muro della<br />

colonna. Lui non si muove ancora.<br />

«E così sei un fervente cattolico, tu?»<br />

«Ma adesso che c’entra questo?»<br />

«Così, pensavo a quel crocefisso così invadente che porti<br />

sul petto.»<br />

«Ah sì, un regalo della povera mamma.»<br />

«Povera mamma!»<br />

«…»<br />

«E poi quelle belle immagini di Padre Pio al bureau. Ci<br />

scommetto che le hai attaccate tu.»<br />

Assente fieramente con la testa.<br />

«Dovevi farti prete, Renato, ah, ah, ah…»<br />

«Se è per questo, ho fatto anche <strong>il</strong> seminario da ragazzo, ad<br />

Assisi.»<br />

«Ah sì? Vedi? Ah, ah, ah…»<br />

«Non capisco proprio cosa c’è da ridere.»<br />

«Ma non hai preso i voti…»<br />

«No. Ero innamorato. Mollai alla fine del liceo. E mi sposai<br />

un anno dopo.»


236 EPILOGO<br />

«Ma che bella storia! Commovente…»<br />

«È la verità! Dovevo capirlo subito: siamo molto, troppo<br />

diversi noi due. Già l’altro giorno, leggendo <strong>il</strong> tuo racconto e<br />

qualcuna delle ma<strong>il</strong> al tuo amico Dario…»<br />

«Pure le ma<strong>il</strong> hai letto?»<br />

«È stato un errore avvicinarti. Cercare di capirti, di aiutarti.»<br />

«Che volevi fare? Aiutarmi?»<br />

«Sì. Avevo capito che stavi attraversando un periodo diffic<strong>il</strong>e<br />

della tua vita e pensavo di poterti aiutare.»<br />

«E come?»<br />

«Non so, facendoti sfogare stasera, portandoti alla<br />

Comunità.»<br />

«Già, sei un neocatecumeno, dimenticavo. Devi fare proseliti.<br />

Ma bene, benone! Il quadro della vittima così è completo.<br />

Comunque accetto volentieri l’invito. Studierò un<br />

po’ l’ambiente e i personaggi che lo abitano. Mi sei stato<br />

ut<strong>il</strong>e, sai? Tu non sai quanto! Mi hai fatto capire, per esempio,<br />

che non sei più innocente del peggior criminale. Proprio<br />

tu che all’apparenza sei l’uomo più buono, più giusto,<br />

più mite del mondo. Comunque, tornando alla Comunità,<br />

sarebbe bello ambientarvi un capitolo del racconto. Sarebbe<br />

fantastica una di quelle vostre confessioni pubbliche.<br />

Magari proprio quella della vittima. L’ultima, prima di<br />

tirare le cuoia.»<br />

«Avevo visto giusto. Il mio fiuto non mi ingannava. Sei<br />

malvagio. Lo sei veramente.»<br />

«Non aver paura, non ti torcerò neppure un capello. La<br />

violenza mi limito a esercitarla sulla carta. Sapessi com’è<br />

terapeutica!»<br />

«Non ho paura. Solo, non mi piaci. Sei circondato da una<br />

IL SORCIO 237<br />

nuvola di odio, <strong>il</strong> tuo amico Dario ha ragione…»<br />

«Certo, tutti danno ragione al mio amico Dario… È talmente<br />

fac<strong>il</strong>e!»<br />

Lo osserva con occhi pieni di sarcasmo, liberando una<br />

risata lunga e strascicata. Intanto si versa dell’altro vino, la<br />

scolatura della bottiglia o poco più.<br />

«Devo andare al bagno» gli dice.<br />

«Vedi di non dartela a gambe!» lo ammonisce Nicolò continuando<br />

a ridere, e lui aumenta <strong>il</strong> passo fino a scomparire<br />

nella sala buia. Durante la sua assenza, Nicolò resta incollato<br />

al muro tiepido. Il s<strong>il</strong>enzio della sala ha qualcosa di innaturale,<br />

ultramondano.<br />

Renato torna. Procede piano, strusciando i tacchi sul linoleum.<br />

«Mi sono anche dato una rinfrescata… Sai che ora sono?<br />

L’ una spaccata.»<br />

«Il bimbo è già nato, meglio così! E adesso ce lo avremo fra le<br />

palle tutto l’anno a parte quei deliziosi tre giorni di Pasqua.»<br />

«Mi stai offendendo!»<br />

Torna a sedersi. E dal suo prof<strong>il</strong>o gli pare adesso più fermo<br />

e composto, più dignitoso.<br />

«Lo so, è quello che voglio. Te lo meriti. Ti sei permesso<br />

troppe confidenze. Sei subdolo e impiccione. E anche stupido,<br />

visto che hai creduto di potermi aiutare con i tuoi miserab<strong>il</strong>i<br />

strumenti. Pensavi di aver trovato l’anima gemella,<br />

solo perché scriviamo tutti e due. Imbec<strong>il</strong>le! I tuoi versi sono<br />

solo una pastetta, un’ignob<strong>il</strong>e pastetta di ugge sen<strong>il</strong>i. Piena di<br />

falsi sospiri, di falsi lamenti, proprio come te. E quanto alla<br />

guida, è approssimativa, confusa e scritta di peste.»<br />

Il portiere ha un sorrisetto estenuato, che gli scopre la sua


238 EPILOGO<br />

dentatura minuta, bianchissima, da topo.<br />

«Un giudizio severo – sospira. – Peccato che l’autore di<br />

quel volume è <strong>il</strong> professor Lonardi, docente all’università di<br />

Urbino.»<br />

Nicolò comincia a ridere a crepapelle. Gli rifà <strong>il</strong> verso. L’eco<br />

della sua voce impastata gli trasmette una dirompente<br />

energia. Così prende a girare febbr<strong>il</strong>mente attorno alla<br />

colonna e al tavolo, dov’è Renato che non lo guarda più.<br />

Giocherella con alcune molliche di pane, lui, e intanto osserva<br />

gli accurati e laboriosi movimenti delle sue mani grassocce.<br />

Questo suo contegno lo rende furioso contro di lui.<br />

Rifiuta d’affrontarmi, pensa Nicolò. Mi tratta come si trattano<br />

i pazzi pericolosi. Di certo si è edotto a questa flemma<br />

controllata piena di buon senso con la vecchia madre arteriosclerotica.<br />

«Io ti odio, Renato» grida. «Hai capito? Anche se sei solo<br />

un ometto mediocre. Mi ascolti, mi ascolti?»<br />

Si china su Renato, e prende a scuoterlo, strattonandolo<br />

per i revers della giacca:<br />

«Sì, ti ascolto, ti ascolto…»<br />

Ha una voce tremula e ossequiosa. Adesso non c’è dubbio<br />

che ha paura. Nicolò continua a strattonarlo per un bel po’ e<br />

intanto lo insulta, dandogli più volte dell’ipocrita, del vigliacco,<br />

incitandolo a reagire. Ma lui niente. È incredib<strong>il</strong>e, riflette<br />

Nicolò, ho trovato qualcuno perfino più vigliacco di me!<br />

A un certo punto la stoffa della giacca non regge più e si<br />

lacera sotto un revers. Allora molla la presa e si abbandona<br />

sullo schienale ormai privo di energie, sudato, sfiatato,<br />

distrutto. Di colpo sulle membra è piombato <strong>il</strong> peso di tutto<br />

l’alcol ingerito. Non sente quasi più le gambe. Le palpebre si<br />

IL SORCIO 239<br />

sono fatte pesantissime. Ha pure dolore agli occhi e irritazione<br />

alla gola per le grida. È veramente necessario dormire,<br />

riposare, a lungo. Guarda Renato, confuso ormai in una<br />

nebbia lattiginosa. Gli sembra con gli occhi pieni di lacrime.<br />

Però ha ripreso a giocherellare con le mollichine di pane<br />

come un fanciullo.<br />

Appena salito in camera si butta sul letto, ma da sdraiato la<br />

testa gli gira di più. Sicché si siede allo scrittoio e macchinalmente<br />

accende <strong>il</strong> pc. Gli duole la testa, gli bruciano gli occhi, i<br />

caratteri sul monitor sfarfallano e sbiadiscono, ma legge avidamente<br />

<strong>il</strong> racconto, fino in fondo, fino all’omicidio di Renato<br />

nel camposanto del paese con <strong>il</strong> crick della macchina.<br />

«…Solo un pezzo di carne morta da sotterrare insieme alla<br />

moglie», ecco, così si conclude <strong>il</strong> racconto, e adesso a Nicolò<br />

sembra buono, cupo e incalzante come piacciono a lui. Ma <strong>il</strong><br />

giudizio da sbronzi, lo sa, non è quasi mai attendib<strong>il</strong>e.<br />

Riprova a sdraiarsi, guarda le crepe del soffitto che gli<br />

appaiono zigrinate, come le strisce di un televisore mal sintonizzato.<br />

Ecco, ora si sente come un personaggio tragico e<br />

maledetto di Hemingway o di Fitzgerald e questo fatto gli dà<br />

una strana forza. La testa gli duole ancora, gli occhi bruciano,<br />

ma come fa per chiuderli, immediatamente ricomincia a<br />

girargli tutto. Niente da fare, deve restare sveglio ancora un<br />

po’. È la vendetta di Renato, questa veglia ubriaca. Quel fesso!<br />

Col suo fare amichevole e cerimonioso, i suoi ideali<br />

miserab<strong>il</strong>i, la sua fede fanatica e meschina, le sue poesie,<br />

meriterebbe di morire davvero. Anziché scuoterlo per la<br />

giacca, si dice Nicolò, avresti potuto inforcare un coltello e


240 EPILOGO<br />

ucciderlo lì stesso, nella sala da pranzo dell’albergo. Via <strong>il</strong><br />

cimitero, troppo lugubre, troppo simbolico. Tu che invece di<br />

andare al telefono nella hall, raggiungi furtivamente la cucina,<br />

cerchi un coltellaccio bello grosso, lo trovi immediatamente<br />

sul vasto piano dei fornelli, torni e glielo pianti a tradimento<br />

sulla schiena. E poi lo guardi agonizzare: la faccia<br />

affondata nel piatto fra i resti delle costole d’abbacchio e le<br />

bucce d’arancia, gli occhi stravolti, la bocca unta, muta,<br />

semiaperta nell’atto di urlare una supplica o un’imprecazione.<br />

Sì, è così che doveva finire, così. Finalmente si assopisce,<br />

poi, dopo un tempo che non sa quantificare, si trova la figura<br />

di Renato ritta al centro della camera: imbraccia un fuc<strong>il</strong>e<br />

da caccia e glielo tiene puntato contro. Un piglio soldatesco,<br />

che non gli ha mai visto, sulla faccia piena. Ha acceso la luce<br />

centrale che diffonde una cruda luce bianca, che scalza l’ombra<br />

senza garbo da ogni angolo della stanza.<br />

«Alzati! Fai la tua roba e vattene!»<br />

Non sa se è desto o sta ancora sognando quando comincia<br />

precipitosamente e tutto tremante a rifare la valigia sotto <strong>il</strong><br />

fuoco di quella canna lucida che manda sinistri bagliori ogni<br />

volta che si gira a guardarla. Le parole di Renato gli vibrano<br />

nelle orecchie, mentre cerca di ficcare dentro anche <strong>il</strong> pc<br />

portat<strong>il</strong>e. «Muoviti, bastardo!, hai finito di fare <strong>il</strong> gradasso!»<br />

Indossa alla svelta <strong>il</strong> soprabito, esce dalla camera trascinando<br />

la valigia. L’ultima rampa Nicolò la fa ruzzolando con la<br />

valigia che si apre seminando una scia di vestiti lungo la guida<br />

rossa. «Cammina, alzati, raccogli quei tuoi stracci e togliti<br />

dai coglioni!» Si ritrova nella notte diaccia dentro la sua<br />

automob<strong>il</strong>e con i vetri coperti da un fitto strato di brina e <strong>il</strong><br />

motore che non vuol saperne di accendersi. È avvenuto tutto<br />

IL SORCIO 241<br />

così alla svelta che ancora non riesce a capacitarsi, aspetta da<br />

un momento all’altro di ridestarsi da quest’incubo angoscioso.<br />

Finalmente la macchina si mette in moto. La lascia<br />

accesa con l’aria tirata e scende per togliere <strong>il</strong> grosso della<br />

brina gelata dal cristallo anteriore. Ci vuole del tempo per<br />

ritagliare uno spazietto vagamente esagonale di pochi centimetri.<br />

Nicolò attraversa <strong>il</strong> paese mentre le prime luci dell’alba<br />

fioriscono faticosamente dalla bruma e dalle tenebre. Si<br />

ferma appena fuori le mura cittadine dinanzi a una grossa e<br />

malconcia casa colonica sul limitare di una vallata coperta di<br />

neve in fondo alla quale si intravede <strong>il</strong> piccolo cimitero<br />

comunale. Non l’ha mai visto da questo punto. Scende dalla<br />

macchina, si pone sul ciglio. Dinanzi a lui c’è una distesa<br />

vasta, bianca, caliginosa. Un uccello grigio cala in picchiata,<br />

vira e si posa dolcemente sul ramo più sporgente di un alberello.<br />

Poi frulla le ali liberando una candida pioggia di neve.<br />

Nicolò ascolta un abbaiare cupo, ovattato, lontanissimo, lo<br />

scalpiccio dei passi di qualche rustico ancora invisib<strong>il</strong>e che<br />

procede a mezza costa qualche tornante più in basso. Si<br />

accende una sigaretta, aspira profondamente, e poi piange.<br />

Sì, piange, come non gli accadeva da tanto, ma senza ansia<br />

né sensi di colpa né alcuna commiserazione di sé. Un pianto<br />

quieto di commozione per la purezza e la pace che lo circondano.<br />

«Renato non c’entra, – dice emettendo sbuffi di candido<br />

vapore – continuerà per sempre a morire in quel piccolo<br />

cimitero di paese. Questa è la sua condanna.»


INDICE<br />

7 PROLOGO IL PRANZO DALLA MADRE<br />

17 PARTE PRIMA<br />

99 PARTE SECONDA<br />

125 PARTE TERZA<br />

145 PARTE QUARTA<br />

167 PARTE QUINTA<br />

189 PARTE SESTA<br />

223 EPILOGO LA CONDANNA


Design: ab&c - Roma - tel. 0668308613 - studio@ab-c.it<br />

Impaginazione: Roberta Arcangeletti - roberta.arcangeletti@gaffi.it<br />

Stampa: Edizioni GR s.r.l. - via Carlo Ferrario, 1 - Besana in Brianza (MI)<br />

tel. 0362996728 - edizionigr@edizionigr.com<br />

Alberto <strong>Gaffi</strong> editore aderisce all’appello di GREENPEACE Italia<br />

“Scrittori per le foreste” e ut<strong>il</strong>izza carta proveniente da fonti sostenib<strong>il</strong>i<br />

come quelle certificate dal Foresty Stewardship Counc<strong>il</strong> (FSC).<br />

Questo libro è stato finito di stampare nel mese di apr<strong>il</strong>e 2007<br />

su carta Glicine da 90 gr. della linea Natura della Cartiera Verde della Liguria,<br />

una carta riciclata di alta qualità che ut<strong>il</strong>izza nella produzione maceri<br />

di diversa estrazione e, non avendo sbiancamento al cloro, non garantisce la<br />

continuità di tinta.

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