Antonio Labriola e «La Sapienza» - Archivi di Famiglia

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234 Alessandro Sanzo restringe, insomma, al campo specificamente universitario. Il problema, per Labriola, oltre che filosofico e accademico è di natura culturale, politica e, dunque, pedagogica. In che misura ciò sia vero, tanto per il filosofo cassinate quanto per i suoi interlocutori, lo si può ben comprendere prendendo in esame: uno scritto pubblicato dal “radicale” Salvatore Barzilai su «La Tribuna» (a ridosso e a commento dell’adunanza milanese), uno degli interventi di Ruggero Bonghi durante i lavori congressuali e, infine, un passo della Relazione di Labriola al Congresso. Nell’articolo Professori a congresso ― ampiamente ripreso da Siciliani de Cumis ― Salvatore Barzilai difende le argomentazioni di Labriola, in specie per le loro implicazioni culturali e politiche, sottolineando, non a caso, il valore che questi attribuisce alla filosofia: non più «scienza sacerdotale», ma nutrimento per «tutti i lavoratori dell’umano consorzio» (p. LXXII); scienza «buona per chi insegna il diritto», «per chi indaga l’origine delle lingue», «per chi cura le malattie dello stomaco», «per chi studia le rivoluzioni degli astri o quelle dei popoli» e, significativamente, «per coloro che fanno le scarpe» (p. LXXIII). E diresti, labriolianamente (e, mutatis mutandis, gramscianamente), buona per i tipografi, per i maestri elementari, per gli operai e le sartine. Il 27 settembre 1887, nel primo dei suoi contributi ai lavori della Sezione di filosofia e lettere ― come si può leggere negli “Atti e documenti” del Congresso, ristampati in Filosofia e università ―, Ruggero Bonghi, dopo aver riconosciuto «che il concetto della proposta» labrioliana è «buono» e «giusto» e dopo aver parlato «brevemente degli intimi indissolubili rapporti della filosofia con le scienze naturali e […] sociali», ritiene «esservi molta difficoltà nel passaggio da questo concetto scientifico alla sua attuazione didattica» (p. 112). A suo avviso, infatti, affinché tale concetto «possa essere pienamente attuato», sarebbe necessario «anche un migliore ambiente di coltura nella società» (pp. 112–113). Da ultimo, per quanto concerne lo stesso Labriola, non è un caso se egli nella Relazione al Congresso ringrazi, «soprattutto», il suo «carissimo amico prof. G. Barzellotti», al quale è «grato assai dell’aver egli toccato dei più gravi problemi della cultura nazionale, a proposito di una questione, che ai più può parere di solo interesse didattico, anzi scolastico» (pp. 105–106).

Antonio Labriola, in prospettiva Proprio il professor Giacomo Barzellotti, che da lì a poco comincerà a smaniare e a brigare per essere trasferito dall’Università di Napoli a quella di Roma, ci conduce a parlare di quello che appare come uno dei maggiori pregi di Filosofia e università: la rilevanza e la fecondità delle prospettive di ricerca che il volume indica. Il lavoro di Siciliani de Cumis, infatti, ancora oggi (nel settembre 2005), si rivela uno strumento essenziale per chi volesse studiare la vita universitaria del professor Labriola e, in particolare, le posizioni e le iniziative accademiche, filosofiche, culturali e politiche che egli assunse negli organismi collegiali della «Sapienza» e nei concorsi universitari in cui fu “commissario”. Ad esempio, per restare al Barzellotti, ci si chiede per quale complesso di ragioni, agli inizi degli anni Novanta, Labriola si opponga risolutamente e ripetutamente al suo trasferimento nell’università romana. È mai possibile che Labriola, che fino all’altro ieri dialogava con la filosofia “scientifica” e “positiva”, adesso ― per dirla con il Morselli ― si sia arruolato nella schiera dei «filosofi di professione o di cattedra» (p. 120) e si metta a combattere accademicamente la possente avanzata del “positivista” Barzellotti? Il suo atteggiamento non dipende, piuttosto, come spesso accade con Labriola, da un giudizio di valore sull’uomo e sulla sua produzione scientifica, che trascende l’appartenenza a qualsivoglia scuola o corrente? E ancora: quanto rimane da dire, anche alla luce delle lauree in filosofia, sul fallito tentativo intrapreso da Labriola nel 1884 di svolgere (per gli studenti della Facoltà giuridica, oltre che per quelli della Facoltà di filosofia e lettere) un corso libero di Filosofia del diritto? Sicuramente non poco. Le lauree in filosofia, per quanto concerne sia il merito della proposta, sia i termini del dibattito che essa innesca, hanno dunque un posto tutt’altro che secondario nella vita accademica di Labriola; capitolo, in larga parte, ancora da scrivere e, a sua volta, tutt’altro che marginale nell’opera e nella formazione di Labriola. Si pensi, a tal proposito, oltre che alla consapevole e ricercata compresenza nell’elaborazione filosofica e pedagogica del cassinate e nel suo impegno universitario e sociale delle dimensioni filosofica, accademica, culturale e politica, anche a quanto scrive Garin nella Prefazione al volume di Siciliani de Cumis: nella scuola 235

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Alessandro Sanzo<br />

restringe, insomma, al campo specificamente universitario. Il problema,<br />

per <strong>Labriola</strong>, oltre che filosofico e accademico è <strong>di</strong> natura culturale, politica<br />

e, dunque, pedagogica.<br />

In che misura ciò sia vero, tanto per il filosofo cassinate quanto per i<br />

suoi interlocutori, lo si può ben comprendere prendendo in esame: uno<br />

scritto pubblicato dal “ra<strong>di</strong>cale” Salvatore Barzilai su <strong>«La</strong> Tribuna» (a ridosso<br />

e a commento dell’adunanza milanese), uno degli interventi <strong>di</strong><br />

Ruggero Bonghi durante i lavori congressuali e, infine, un passo della<br />

Relazione <strong>di</strong> <strong>Labriola</strong> al Congresso.<br />

Nell’articolo Professori a congresso ― ampiamente ripreso da Siciliani<br />

de Cumis ― Salvatore Barzilai <strong>di</strong>fende le argomentazioni <strong>di</strong> <strong>Labriola</strong>, in<br />

specie per le loro implicazioni culturali e politiche, sottolineando, non a<br />

caso, il valore che questi attribuisce alla filosofia: non più «scienza sacerdotale»,<br />

ma nutrimento per «tutti i lavoratori dell’umano consorzio»<br />

(p. LXXII); scienza «buona per chi insegna il <strong>di</strong>ritto», «per chi indaga<br />

l’origine delle lingue», «per chi cura le malattie dello stomaco», «per chi<br />

stu<strong>di</strong>a le rivoluzioni degli astri o quelle dei popoli» e, significativamente,<br />

«per coloro che fanno le scarpe» (p. LXXIII). E <strong>di</strong>resti, labriolianamente<br />

(e, mutatis mutan<strong>di</strong>s, gramscianamente), buona per i tipografi, per i<br />

maestri elementari, per gli operai e le sartine.<br />

Il 27 settembre 1887, nel primo dei suoi contributi ai lavori della Sezione<br />

<strong>di</strong> filosofia e lettere ― come si può leggere negli “Atti e documenti”<br />

del Congresso, ristampati in Filosofia e università ―, Ruggero Bonghi,<br />

dopo aver riconosciuto «che il concetto della proposta» labrioliana è<br />

«buono» e «giusto» e dopo aver parlato «brevemente degli intimi in<strong>di</strong>ssolubili<br />

rapporti della filosofia con le scienze naturali e […] sociali», ritiene<br />

«esservi molta <strong>di</strong>fficoltà nel passaggio da questo concetto scientifico<br />

alla sua attuazione <strong>di</strong>dattica» (p. 112). A suo avviso, infatti, affinché<br />

tale concetto «possa essere pienamente attuato», sarebbe necessario «anche<br />

un migliore ambiente <strong>di</strong> coltura nella società» (pp. 112–113).<br />

Da ultimo, per quanto concerne lo stesso <strong>Labriola</strong>, non è un caso se<br />

egli nella Relazione al Congresso ringrazi, «soprattutto», il suo «carissimo<br />

amico prof. G. Barzellotti», al quale è «grato assai dell’aver egli toccato<br />

dei più gravi problemi della cultura nazionale, a proposito <strong>di</strong> una questione,<br />

che ai più può parere <strong>di</strong> solo interesse <strong>di</strong>dattico, anzi scolastico»<br />

(pp. 105–106).

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