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AFFILE, GRAZIANI, ANDREOTTI - fisica/mente

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<strong>AFFILE</strong>, <strong>GRAZIANI</strong>, <strong>ANDREOTTI</strong><br />

Se in Germania qualcuno si azzardasse a commemorare appena con una lapide<br />

Goering o Rommel, verrebbe subito arrestato, gettato in prigione e la chiave verrebbe<br />

invece gettata nella Fossa delle Marianne. Perché ? Perché in quel Paese, finita la<br />

guerra si fece chiarezza con il Processo di Norimberga: da una parte i nazisti<br />

assassini, criminali da impiccare e dall’altra i cittadini che dovevano sapere quali<br />

erano i crimini di chi li aveva guidati per 12 anni.<br />

In Italia niente Norimberga. Eppure di criminali ne abbiamo avuti ! Caspita se<br />

ne abbiamo avuti ! Ma chiarezza, appunto, non è stata mai fatta così che le italiche<br />

genti, ignoranti e smemorate, non sanno proprio cosa è accaduto, chi fu il criminale<br />

persecutore, chi il perseguitato. Ma perché da noi non si è fatta, non dico una<br />

Norimberga ma almeno una Frascati ? Perché i prodi e vigorosi americani avevano<br />

rapporti stretti con il Fascismo e con la Mafia. Lo sbarco in Sicilia fu possibile senza<br />

gravi perdite perché guidato da Lucky Luciano. L’esercito USA avanzava preceduto<br />

da un carro armato su cui sventolava una bandiera azzurra. Era il segno di<br />

riconoscimento di Luciano ai picciotti. Gli yankee debbono passare e basta. E la<br />

mafia siciliana si organizzò perché nessuno si azzardasse a reagire. Poi gli USA<br />

ebbero stretti rapporti con Junio Valerio Borghese (quel delinquente golpista del<br />

1970, ricordate ?). Doveva essere la testa di … ponte che legava esercito USA e<br />

Fascisti. Ma perché ? Perché in Italia, contraria<strong>mente</strong> a quanto avvenne in Germania,<br />

vi era un forte movimento di resistenza a maggioranza comunista. Se l’Italia fosse<br />

stata liberata in queste condizioni e con i fascisti impiccati, come si sarebbe dovuto<br />

fare (come in Germania del resto), il Paese sarebbe diventato quasi certa<strong>mente</strong> una<br />

Repubblica Popolare. Gli USA, prevedendo questo scenario hanno difeso, sostenuto,<br />

foraggiato i fascisti (questo è il motivo della fucilazione immediata di Mussolini e<br />

gerarchi … gli USA volevano il prigioniero ma i partigiani sapevano di losche<br />

manovre).<br />

Ebbene, tra i criminali fascisti, militari, da impiccare vi era Graziani (insieme a<br />

vari altri, come Roatta, Robotti e Badoglio). Per quanto detto si salvarono, occorreva<br />

mantenere personaggi che avessero esperienza militare da usare eventual<strong>mente</strong> contro<br />

una sollevazione comunista. E Graziani, uno dei salvati, è stato in questi giorni<br />

commemorato ad Affile con un esborso di 130 mila euro da parte della Regione<br />

Lazio (non si dimentichi che Polverini è una nostalgica di borgata). Ora che Graziani<br />

sia stato nel cuore dei fascisti è evidente a tutti (infatti Francesco Lollobrigida, inutile<br />

assessore ai trasporti della Regione Lazio era lì), pochi sanno che era amico del cuore<br />

di Andreotti con il quale ebbe un abbraccio sensuale nei primi anni Cinquanta proprio<br />

ad Affile. E la Chiesa ? Non poteva mancare. La Chiesa era una corporazione fascista<br />

ed il parroco di Affile, Ennio Innocenti, ha fatto la commemorazione. D’altra parte<br />

Graziani ha firmato insieme a Padre Agostino Gemelli il Manifesto della Razza, e<br />

quindi occorre rendergliene merito.<br />

1


Un’ultima considerazione. Anche se i tribunali internazionali non sono stati<br />

fatti funzionare contro i fascisti vi era sempre la legge italiana che aveva inquisito<br />

migliaia di massacratori fascisti. Poi si fece un governo in cui Togliatti era ministro di<br />

Grazia e Giustizia ed a lui si deve l’orrenda amnistia che salvò, ancora, tutti i fascisti.<br />

Chi ha una qualche speranza di cambiamento in questo Paese deve vedersela,<br />

prima che con i nemici e gli avversari, con gli amici o presunti tali.<br />

R<br />

Fatta questa premessa, entriamo in dettagli che illustrano le eroiche gesta dei<br />

nostri Badoglio, Graziani e Roatta. Cominciamo con il riportare quanto dice uno<br />

storico importante, Angelo Del Boca. E’ una persona di destra con due caratteristiche<br />

importanti rarissime nei personaggi di destra: è onesto e competente invece di<br />

disonesto ed ignorante.<br />

"Italiani brava gente"?<br />

di Angelo Del Boca<br />

"Deportazioni di massa, bombardamenti con bombe di iprite, campi di<br />

concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi di civili, confisca di beni e<br />

terreni. Le pagine nere dei crimini commessi dalle truppe italiane in Eritrea, Somalia<br />

e Libia. Una politica coloniale all'insegna del mito sugli «italiani, brava gente».<br />

L'Italia repubblicana non ha ancora fatto i conti con l'«avventura coloniale» del<br />

fascismo, favorendo una storiografia moderata o revanscista." I paesi europei che<br />

hanno partecipato alla spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti, indistinta<strong>mente</strong>,<br />

dei peggiori crimini.<br />

E' un dato suffragato da episodi sui quali esiste, nella memoria e negli archivi, una<br />

documentazione imponente.<br />

Tanto nel periodo della liberaldemocrazia che durante i vent'anni del regime fascista,<br />

il comportamento dell'Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da<br />

quello delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne<br />

di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con<br />

l'avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più<br />

precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l'opposizione, tanto in<br />

Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più capillari pratiche<br />

censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di inaudita gravità, come, ad<br />

esempio, la deportazione di intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella<br />

Sirtica di quindici letali campi di concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto<br />

italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato al viceré<br />

Graziani.<br />

2


Quando Mussolini arrivò al potere, la riconquista della Libia era appena<br />

iniziata, mentre sulle regioni centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano<br />

era soltanto virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la<br />

responsabilità di aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie prefasciste<br />

e per dare, con l'Etiopia, un impero agli italiani.<br />

a) L'impiego degli aggressivi chimici.<br />

Usati sporadica<strong>mente</strong> in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel<br />

1930, contro l'oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e<br />

sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive<br />

operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L'Italia fascista aveva<br />

firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato<br />

internazionale che proibiva l'utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma,<br />

come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando<br />

fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche.<br />

In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l'indignazione<br />

dell'opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all'iprite furono lanciate sul finire<br />

del 1935 per bloccare l'avanzata dell'armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava<br />

decisa<strong>mente</strong> all'Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo,<br />

in Somalia. In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate<br />

su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un<br />

totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939,<br />

durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la<br />

battaglia dell'Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367<br />

proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia siano stati<br />

impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.<br />

b) I campi di sterminio.<br />

Con il fascismo le vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai<br />

prima segnalati. Dall'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal<br />

diffuso esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere popolazioni e<br />

alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto la cinica prosa dei<br />

documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti». Il più noto e<br />

drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne in Cirenaica nel 1930, dopo che<br />

Graziani aveva fallito il tentativo di domare la ribellione capeggiata da Omar el-<br />

Mukhtàr. Su ordine del governatore generale Badoglio, il quale era convinto che la<br />

rivolta si sarebbe potuta infrangere soltanto spezzando i legami tra gli insorti e le<br />

popolazioni del Gebel cirenaico, Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila<br />

civili dalla Marmarica e dal Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva<br />

fatto costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord.<br />

Quando i lager vennero definitiva<strong>mente</strong> sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano appena<br />

60mila. Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime<br />

3


condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi<br />

Ahmed el-Magrun c'era un solo medico), per il vitto insufficiente e spesso avariato,<br />

per le inevitabili epidemie di tifo petecchiale, dissenteria bacillare, elmintiasi, per le<br />

violenze compiute dai guardiani e per le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.<br />

I campi di sterminio nella Sirtica non furono i soli. Memore della loro macabra<br />

efficacia, Graziani ne istituì uno anche in Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio.<br />

Secondo Micael Tesemma, un alto funzionario del ministero degli Esteri etiopico, che<br />

fu recluso a Danane per tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopici e somali che si<br />

avvicendarono nel campo, tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita.<br />

Un secondo campo fu istituito nell'isola di Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita<br />

erano anche più intollerabili, perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle<br />

cave di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L'alto tasso di<br />

mortalità a Nocra era causato principal<strong>mente</strong> dalla malaria e dalla dissenteria, poi dal<br />

cattivo nutrimento e dalle insolazioni.<br />

c) Le stragi.<br />

L'intera storia delle conquiste coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni<br />

sommarie. Ma vi sono episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte<br />

del 26 ottobre 1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un<br />

capo religioso ostile all'Italia, era sfuggito all'arresto e si era barricato con i suoi<br />

seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani di<br />

Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su Merca,<br />

circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di somali. Il<br />

massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a sostituire gli squadristi, che<br />

intendevano liquidare tutta la popolazione indigena della zona, non fossero<br />

intervenuti i reparti dell'esercito.<br />

Dalla Somalia passiamo alla Libia. Nel febbraio del 1930, alla fine delle operazioni<br />

per la riconquista del Fezzan, Graziani spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro<br />

famiglie, verso il confine con l'Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli,<br />

per due giorni consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in<br />

fuga. Fu una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime Fascista,<br />

Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti del «gregge<br />

umano composti, oltreché degli armati, da una moltitudine di donne e bambini».<br />

Ma è in Etiopia, nel cristiano e millenario impero del Prete Gianni, che furono<br />

consumati i più orrendi eccidi, alcuni dei quali non ancora studiati a fondo per cui il<br />

numero delle vittime potrebbe ancora aumentare. Cominciamo con le stragi compiute<br />

ad Addis Abeba dopo l'attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre<br />

giorni, su ordine del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impartita<br />

agli etiopici, che erano assoluta<strong>mente</strong> estranei all'attentato, una «lezione<br />

indimenticabile». Alla selvaggia repressione presero soprattutto parte camicie nere,<br />

civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un testimone degno di fede,<br />

4


il giornalista Ciro Poggiali, «fulminea<strong>mente</strong>, coi sistemi del più autentico squadrismo<br />

fascista». Quando, il 21 febbraio, Graziani diramò, dall'ospedale in cui era stato<br />

ricoverato per le ferite subite, l'ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era<br />

disseminata di cadaveri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le<br />

stime dei testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici.<br />

Cessata la strage in Addis Abeba, la repressione continuò in tutte le altre regioni<br />

dell'impero. Si dava soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti<br />

responsabili di aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio<br />

italiano in Etiopia. Secondo una relazione del colonnello Azolino Hazon, la sola arma<br />

dei carabinieri passò per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509 indigeni. Alle<br />

operazioni repressive partecipò anche l'esercito. Al generale Pietro Maletti venne<br />

infatti affidato l'incarico di punire i religiosi della città conventuale di Debrà Libanòs,<br />

ingiusta<strong>mente</strong> sospettati di aver favorito l'attentato a Graziani ospitando i due<br />

esecutori materiali, gli eritrei Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Tra il 18 e il 27<br />

maggio 1937 Maletti portò a termine la sua missione fucilando 449 monaci e diaconi.<br />

Queste cifre le abbiamo desunte dai dispacci che Graziani inviava quotidiana<strong>mente</strong> a<br />

Mussolini, e fino a qualche tempo fa le ritenevamo attendibili poiché Graziani ha<br />

sempre avuto la tendenza a non celebrare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della<br />

sua macabra contabilità. Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs<br />

non aveva mostrato alcuna reticenza nel sottolineare l'estremo rigore della punizione:<br />

«E' titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un<br />

provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete<br />

o monaco».<br />

Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre della strage. Due miei collaboratori, Ian L.<br />

Campbell, dell'Università di Nairobi, e Degife Gabre-Tsadik, dell'Università di Addis<br />

Abeba, compivano fra il 1991 e il 1994 alcuni accurati sopralluoghi nelle località in<br />

cui Maletti decimò il clero copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato<br />

alcuni superstiti della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti, che le cifre<br />

riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le mitragliatrici di Maletti<br />

hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a Guassa, non 449 tra preti, monaci,<br />

diaconi e debteras, ma un numero di religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data<br />

la serietà dei due ricercatori e il numero delle testimonianze raccolte, nel 1997<br />

pubblicavo il loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini».<br />

Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei torti che l'Italia fascista ha fatto alle<br />

popolazioni africane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle<br />

leggi razziali, che confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i<br />

rigori e gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti<br />

all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun indigeno<br />

ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea. Dovremmo infine<br />

ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto ruoli subalterni, i più modesti<br />

ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva nelle colonie africane della Francia e<br />

della Gran Bretagna.<br />

Questi crimini furono accurata<strong>mente</strong> nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui<br />

può disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui gas<br />

5


impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosa<strong>mente</strong> sostenendo che un popolo che<br />

stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie.<br />

Molti testimoni italiani di stragi o dell'impiego delle armi chimiche si decideranno a<br />

svelare i loro segreti soltanto trenta, quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e<br />

sempre con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai<br />

testimoniato sui crimini, perché non li ritenevano tali, ma li consideravano normali<br />

pratiche per tenere a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti, fra costoro,<br />

si sono fatti fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli teste<br />

mozze di patrioti etiopici.<br />

Questa macabra, allucinante documentazione fotografica è visibile negli<br />

Archivi storici di Addis Abeba e proviene dagli uffici degli organi giudiziari italiani<br />

scampati alle distruzioni della guerra, o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri<br />

degli etiopici alla caduta dell'impero.<br />

Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l'Italia era<br />

impegnata in Africa a difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali<br />

dell'epoca si nota l'insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la<br />

tesi dell'italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell'italiano<br />

che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell'italiano gran<br />

lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli indigeni. Si<br />

tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori,<br />

più intraprendente e dinamico, ma anche più buono, più prodigo, più tollerante.<br />

Insomma il prodotto esemplare di una civiltà millenaria, illuminato dalla fede<br />

cattolica, fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta<br />

nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi governi<br />

della Repubblica presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel<br />

tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste.<br />

Non soltanto resisteva il mito degli «italiani brava gente», ma si impediva con ogni<br />

mezzo che si svolgesse nel paese un sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo.<br />

Gli effetti del mancato dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il<br />

primo dato negativo è la rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura storica<br />

dell'Italia, del fenomeno dell'imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi<br />

ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta,<br />

a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67 dall'aggressione fascista<br />

all'Etiopia, l'Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti, delle<br />

leggende, delle contraffazioni che si sono formate nel periodo coloniale, mentre una<br />

minoranza non insignificante di reduci e di nostalgici li coltiva amorevol<strong>mente</strong> e li<br />

difende con iattanza.<br />

Non soltanto è stato contrastato ogni tentativo di aprire un dibattito a livello nazionale<br />

sul colonialismo, che coinvolgesse storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si<br />

è anche tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio su<br />

alcuni archivi per impedire che affiorasse la verità, mentre una storiografia di segno<br />

moderato o revanscista favoriva palese<strong>mente</strong> la rimozione delle colpe coloniali.<br />

A quando i processi postumi ai Badoglio, ai Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai<br />

Cortese, ai Maletti e a tutti gli altri responsabili dei genocidi africani rimasti<br />

6


impuniti? A quando la verità nei libri di testo scolastici, che ignorano persino<br />

l'argomento? A quando la proiezione sulla Tv di Stato dell'inchiesta televisiva<br />

«Fascist Legacy» di Ken Kirby e Michael Palumbo sui crimini di guerra italiani<br />

in Africa e nei Balcani? Come è noto, la Rai-Tv acquistò questo filmato dalla<br />

Bbc molti anni fa ma non lo ha mai trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale<br />

ipocrita riserbo? Per quale motivo è ancora proibito proiettare nelle sale Il<br />

Leone del deserto, il film di Akkad che narra l'epopea tragica di Omar el-<br />

Mukhtàr, impiccato da Graziani nel lager di Soluch?<br />

_________________________-<br />

Perché dopo la guerra su tutto questo sia stato steso un velo di silenzio e<br />

soprattutto perché questi luoghi siano stati total<strong>mente</strong> dimenticati dalla memoria<br />

locale e collettiva è uno dei grandi misteri che si unisce a quello della mancata<br />

epurazione di molti gerarchi fascisti che rimasero al loro posto o che addirittura<br />

furono collocati in posti importanti della rinata democrazia. Solo pochi anni dopo la<br />

guerra, nel 1953, Graziani divenne presidente del MSI. Si pensi che da tutti i campi<br />

del centro nord (basta sfogliare la monumentale opera "Il libro della memoria" di<br />

Liliana Picciotto Fargion, ed. Mursia) le persone concentrate in questi campi furono<br />

deportate verso lo sterminio in Germania. Le vicende di questi anni che vedono gli<br />

eredi del fascismo nel governo del Paese insieme a pericolose ideologie mediatiche e<br />

xenofobe e la pericolosa involuzione antidemocratica e anticostituzionale a cui tutti<br />

assistiamo, fa ritornare ossessiva<strong>mente</strong> alla memoria quanto amava dire la filosofa<br />

tedesca Hannah Arendt: "Un popolo che non ha memoria è costretto a ripetere gli<br />

stessi errori del passato". Proprio in un numero di "Internazionale" (21-27 novembre<br />

2003) il corrispondente tedesco di N-Tv e di alcuni canali televisivi pubblici della<br />

Germania, Udo Gumpel, ci ricordava l'assurda storia del cosiddetto "armadio della<br />

vergogna", l'armadio con le ante rivolto contro il muro, scoperto nel 1994 nei locali<br />

del Palazzaccio, il vecchio Palazzo di giustizia romano. In quell'armadio sono stati<br />

sepolti e "archiviati" centinaia di documenti che riguardavano le stragi nazi-fasciste<br />

in Italia. Un armadio, come scrive Gumpel, "che fa vergogna alla giustizia, ma anche<br />

ai mass media", che hanno steso un velo profondo di silenzio. Certo in questa<br />

incredibile dimenticanza, come in questo ritorno ad un passato, che speravamo<br />

estirpato, pesa indubbia<strong>mente</strong> il ruolo della Chiesa cattolica nel Paese, ieri come oggi.<br />

Come mai la Chiesa affittava senza problemi etici o morali, propri edifici per campi<br />

di concentramento allo Stato italiano (ricordo Agnone, Civitella del Tronto, Isola<br />

Gran Sasso, Roccatederighi,...) o mandava personale ecclesiastico, per lo più suore,<br />

(Alatri o Vo' Vecchio), per lavorare all'interno del campo. Come mai Borgoncini<br />

Duca, nunzio apostolico presso lo Stato italiano, uno dei pochi vescovi fatto cardinale<br />

da Pio XII dopo la guerra, visitava in lungo e largo questi campi. Faceva lo stesso il<br />

nunzio apostolico presso il governo di Hitler ? E perché si preoccupava tanto delle<br />

sorti degli internati in Italia, mentre nei campi di Gonars (si parla di 500 morti), ad<br />

Arbe (1500 morti), in Tessaglia a Larissa (centinaia di morti per malnutrizione, 106<br />

uccisi per rappresaglia), nell'isola di Molat (3500 furono gli internati e anche lì ci<br />

7


furono centinaia di morti) nessuno interveniva ? Non risulta peraltro che qualcuno<br />

abbia fatto una stima complessiva dei morti per mano italiana nei campi sotto il<br />

regime fascista. Senza contare, come già scritto, che la Chiesa non mosse un dito per<br />

fermare "il viaggio" verso lo sterminio degli internati nei campi italiani (di cui<br />

conosceva tutte le sedi), presi dai fascisti e dai nazisti in ritirata. Anche da quei luoghi<br />

che erano sedi ecclesiastiche come il seminario estivo di Roccatederighi dove furono<br />

portati alla morte un centinaio di ebrei. Anzi c'è di più come ci ha raccontato la<br />

storica Luciana Rocchi, il vescovo di Grosseto chiese al prefetto democratico della<br />

sua città, gli affitti non pagati dalla fine della guerra in quanto lo Stato italiano non<br />

aveva disdetto l'affitto.<br />

Posate, vasi e aquile d'oro il bottino di guerra<br />

di Graziani<br />

1 giugno 2000<br />

Articolo messo in Rete alle 05:03 ora italiana (03:03 GMT)<br />

COLLEGE PARK (Maryland) - Le 28 casse con il tesoro di guerra del maresciallo<br />

Rodolfo Graziani erano state messe al sicuro: in una stanza della sagrestia della chiesa di<br />

Santa Agnese, in via Nomentana a Roma. Erano piene di quelli che il maresciallo, dalla<br />

sua prigionia a Procida, definisce "ricordi personali e di famiglia". E per i quali, in una<br />

supplica all'ammiraglio americano Ellery Stone, fa "appello al Suo nobilissimo<br />

sentimento di Soldato che non può rimanere insensibile alla voce di un altro sfortunato,<br />

ma sempre onorato, Soldato".<br />

In realtà, oltre ai ricordi di casa Graziani, pignola<strong>mente</strong> elencati ("tre gagliardetti della<br />

riconquista libica, pergamene riguardanti la Cirenaica, dente di elefante legato in<br />

argento, autografo di D'Annunzio... "), le casse contengono i ricordi di un'altra famiglia:<br />

quella del Negus.<br />

8


All'imperatore di Etiopia, infatti, il viceré aveva sottratto vari oggetti e, soprattutto,<br />

l'aquila d'oro massiccio che si trovava, sul suo trono al momento dell'incoronazione.<br />

Un'aquila che gli americani restituirono all'imperatore nel luglio del '45. Gli archivi<br />

declassificati dalla Cia mostrano un incredulo Hailè Selassiè che passa in rassegna il<br />

vasellame, le posate d'argento e le croci copte al momento della loro restituzione.<br />

Nella lettera all'ammiraglio Stone, Graziani si affanna a spiegare l'origine dei due servizi<br />

di posate in argento dorato (uno da 12 persone e uno da 18): sono stati "ricostituiti<br />

acquistando i singoli pezzi da indigeni di Addis Abeba".<br />

CNNItalia.it - Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e spie SS - 30 giugno<br />

2000 wysiwyg://17/<br />

http://www.cnnitalia.it/2000/ITALIA/06/30/documentinazi/index.html<br />

Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e<br />

spie SS<br />

1 giugno 2000<br />

Articolo messo in Rete alle 02:12 ora italiana (00:12 GMT)<br />

All'interno:<br />

Gli archìvi di College Park "Cinque giorni per avvertire gli ebrei" L'oro degli ebrei<br />

romani "I vestiti di Mafalda e di Ciano" Dialogo sullo sterminio Battute sul forni<br />

crematorl [Borghese e von Fuerstenberg GII italiani nelle fabbriche del Relch<br />

La Cia ha reso pubblici 400 mila documenti che vengono dagli archivi della Oss, i<br />

servizi segreti americani così come erano conosciuti durante la seconda guerra<br />

mondiale<br />

di Riccardo Orizio - Cnnitalia<br />

COLLEGE PARK (Maryland) — I nazisti avevano una insospettabile gola profonda in<br />

Vaticano: il monsignore irlandese O'Flaherty, che rappresentava la Croce Rossa Usa. Gli<br />

agenti segreti delle SS trasferivano grosse somme di denaro tra Milano e Roma grazie al<br />

cardinale Ildefonso Schuster. I servizi segreti nazisti erano in costante contatto con<br />

10


aristocratici come Tasilo von Fuerstenberg (il genero del senatore Agnelli) e Junio<br />

Valerio Borghese, in vista di un nuovo Reich senza Hitler. Mussolini ordinava il furto di<br />

opere d'arte per farne poi gentile omaggio a Hermann Goering, in nome dell'amicizia<br />

nazi-fascista. Priebke si occupava probabil<strong>mente</strong> dell'oro sequestrato agli ebrei romani.<br />

E nelle 28 casse che custodivano il tesoro di guerra del maresciallo Rodolfo Graziani, il<br />

viceré d Etiopia, gli Alleati trovarono piatti e posate provenienti dal palazzo reale di<br />

Addis Abeba e l'aquila d'oro massiccio del trono di Hailè Selassiè.<br />

Gli archivi di College Park<br />

Sono questi alcuni dei nomi e degli episodi che, dopo sei decenni di segreto assoluto,<br />

escono dai 400 mila documenti appena declassifìcati dalla Cia, final<strong>mente</strong> riapparsi in<br />

decine di scatoloni di cartone grigio al secondo piano di una palazzina di College Park, a<br />

metà strada tra Washington e Baltimora. Le scatole contengono intercettazioni<br />

"catturate" all'insaputa dei nazisti, diari sequestrati a prigionieri di guerra, interrogatori<br />

di agenti che facevano il doppio gioco. «In molti casi, sono segreti imbarazzanti per gli<br />

Alleati.<br />

Perché, per esempio, Londra non avvertì gli ebrei romani della retata organizzata da<br />

Kappler, la cui preparazione era stata intercettata il 6 ottobre 1943? Perché non cercò di<br />

evitare il loro trasferimento ad Auschwitz?<br />

"Cinque giorni per avvertire gli ebrei"<br />

"Secondo i miei calcoli, dopo la traduzione e vari passaggi burocratici, i vertici<br />

britannici entrarono in possesso di quei documenti intorno all'11 ottobre, quindi con<br />

cinque giorni di preavviso sulla retata. Non hanno agito perché l'intelligence cercava<br />

segreti militari, non si occupava di questioni umanitarie. E poi agire avrebbe voluto dire<br />

far sapere ai tedeschi che le loro comunicazioni erano decifrabili", spiega Timothy<br />

Naftali, storico del Miller Center dell'Università della Virginia.<br />

11


Naftali è l'esperto di spionaggio che ha selezionato per conto della Cia i 400 mila<br />

documenti declassificati lo scorso lunedì. Oltre alle intercettazioni ci sono chili di verbali<br />

tratti dagli interrogatori a prigionieri di guerra e rapporti segreti inviati da agenti sul<br />

campo.<br />

L'oro degli ebrei romani<br />

12


E' grazie a questi documenti che oggi si sa che la retata dei mille ebrei romani, per<br />

esempio, avvenne con la piena approvazione del maresciallo Rodolfo Graziani. Che una<br />

simile retata era stata prevista per Napoli, ma fallì "causa il clima ostile della città". E<br />

che non fu affidata ai carabinieri perchè considerati dai nazisti "inaffidabili" (Kappler<br />

ordinò che fossero disarmati). Che il clima era già così ostile da obbligare i nazisti a<br />

minacciare gli uomini che rastrellavano gli ebrei di "ritorsioni contro le famiglie" se non<br />

eseguivano gli ordini "in modo conforme". Sempre da questi documenti si sa che<br />

all'inizio d'ottobre del '43 i nazisti confiscarono agli ebrei romani 50 chili d'oro.<br />

13


Il comando tedesco di Roma cercò subito di inviare il bottino alla Reichsbank di Berlino.<br />

Il 7 ottobre un telegramma da Berlino dice, enigmatico: "Non abbiamo ancora ricevuto il<br />

camion di Priebke. Sappiamo che è ancora all'ambasciata tedesca. Pregasi investigare".<br />

Cosa trasportava quel camion? L'oro?<br />

Borghese e von Fuerstenberg<br />

I nomi? Il diario di Zimmer spiega che in questa operazione furono coinvolti due<br />

principi: Tasilo von Fuerstenberg, il marito di Clara Agnelli (la figlia del senatore<br />

Giovanni Agnelli), cittadino tedesco di casa a Torino e alla Fiat; e Valerio Borghese, il<br />

comandante della Decima Mas, che "combatte una sua guerra personale contro le<br />

popolazioni slave" ed era pronto anche a negoziare con gli Alleati in funzione anti-russa.<br />

15


Molti protagonisti avevano posizioni ambigue. Come il cardinale Ildefonso Schuster, che<br />

16


aiutava a trasferire denaro tra Milano e Roma per conto - chissà se in modo consapevole<br />

- di agenti nazisti. Altri hanno commesso peccatucci di altro tipo: Graziani aveva<br />

nascosto in una chiesa romana il vasellame d'argento del Negus.<br />

17


Oltre agli oggetti d'arte Graziani aveva nascosto anche documenti ufficiali del fascismo e<br />

documenti militari. Tutti oggetti che il maresciallo chiede in restituzione "a che possa<br />

tramandarli ai miei nepoti perché questi abbiano materia per giudicare real<strong>mente</strong> chi sia<br />

stato il loro Nonno e sia salva presso di loro la Mia Memoria".<br />

________________________<br />

18


ITALIANI ... BRAVA GENTE<br />

?<br />

Nel sito http://www.criminidiguerra.it/html/DocumentiE.htm vi sono moltissimi<br />

documenti ed articoli che consiglio di andare a vedere. Io ne ho estratti alcuni che<br />

credo siano di immediato interesse. Occorre definitiva<strong>mente</strong> smentire la leggenda<br />

degli italiani brava gente. Occorre dire la verità che è stata sempre nascosta dai<br />

furbetti democristiani per tanti anni ed ora dal revisionismo fascista. Il guaio vero è<br />

stato l'assenza di una Norimberga italiana. Avremmo visto vari personaggi<br />

condannati a morte per crimini di guerra sia per le vergogne che ora andiamo a<br />

vedere sia per quelle già viste di Foibe, sia per altre che vedremo su Grecia,<br />

Albania, ...<br />

http://www.criminidiguerra.it/html/repressionelibia.htm<br />

La repressione dell'esercito italiano durante la<br />

nuova occupazione della Libia<br />

1911 Trattato di Losanna: a conclusione della guerra italo/turca, la Libia restava sotto<br />

l'autorità formale della Turchia che demandava alla amministrazione italiana la sua<br />

autorità sulla fascia costiera tra Zuara e Tobruk.<br />

1913 influenza italiana estesa a tutto il Gebel tripolino con la scusa di prevenire possibili<br />

rivolte.<br />

1914 la resistenza libica costringe gli italiani a ripiegare sulla costa.<br />

1921 discreto stato di pacificazione creato il governatorato di Tripolitania (Volpi)<br />

1927 governatorato di Cirenaica (governatore Teruzzi)<br />

1929 Badoglio governatore unico delle province di Tripolitania e Cirenaica. Attacchi di<br />

capi senussiti guidati da Omar el Muktar, simbolo della resistenza cirenaica, nei<br />

confronti delle nostre truppe.<br />

1930 Graziani vice governatore a Bengasi. Repressione violentissima (deportazioni,<br />

esecuzioni, confino). Viene rioccupato l'entroterra tra Bengasi e Tobruk. Viene costruito<br />

un reticolato di 270 km da Giarba a Giarabub atto a impedire che dall'Egitto arrivassero<br />

rifornimenti di armi, munizioni e cibo ai ribelli senussiti.<br />

19


1931 occupata l'oasi di Cufra. Omar el-Muktar viene catturato e impiccato nel campo di<br />

concentramento di Soluch dopo un processo sommario che non tiene conto dell'età del<br />

prigioniero (73 anni) e del fatto che dovrebbe essere considerato prigioniero di guerra e<br />

non traditore visto che non ha mai percepito stipendi dal governo italiano.Ciò<br />

rappresentò il colpo di grazia della resistenza senussita. Ancora oggi la visione del film<br />

"Il leone del deserto", del regista siriano Mustafà Accad che narra le vicende di Omar dal<br />

punto di vista arabo, è vietato per censura ministeriale.<br />

1934 Badoglio proclama che "la ribellione araba in Cirenaica è stroncata".<br />

Lo stesso Graziani parla di 1641 mugiahidin caduti tra il marzo 1930 e il dicembre del<br />

1931.<br />

Gli aspetti della repressione<br />

Un aspetto della repressione sia in Tripolitania che in Cirenaica fu rappresentato dai<br />

tribunali militari speciali. I processi avvenivano spesso all'aperto in pubblico per<br />

confutare le notizie di esecuzioni sommarie. Gli imputati indigeni venivano il più delle<br />

volte condannati a morte e le sentenze immediata<strong>mente</strong> eseguite. Le accuse più diffuse<br />

erano quelle relative all'aiuto dato ai ribelli.<br />

A questo proposito Graziani scrive: "Non appena giunge la segnalazione di un arresto in<br />

flagranza di reato, il tribunale parte e la Giustizia scende dal cielo. E questo è diventato<br />

così nornale che quando un aeroplano giunge nel luogo dove è stato commesso un reato<br />

si sente mormorare negli accampamenti la parola tribunale" (in Graziani Cirenaica<br />

pacificata pag. 139).<br />

1930 Deportazioni delle tribù che abitavano il Gebel cirenaico (chiamato anche<br />

Montagna verde per il clima abbastanza temperato e ventilato e perché luogo con<br />

sorgenti d'acqua) e chiusura delle zavie (centri polivalenti senussiti).<br />

Il motivo delle deportazioni era da ricollegarsi alla ripopolazione del Gebel da parte di<br />

coloni italiani.Esodo biblico durato 20 settimane. Delle 100.000 persone ne arrivarono<br />

85.000 (relazione del generale Cicconetti al generale Graziani). Anche i capi di bestiame<br />

furono falcidiati dalla sete, dalla mancanza di foraggio e dalla aviazione che li mitragliò<br />

a volo radente lungo tutto il Gebel per evitare di lasciarli alle bande locali.<br />

Vari episodi di crudeltà tra i quali ricordiamo l'abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e<br />

bambini, nel deserto privi di acqua a causa di una rissa scoppiata tra loro; altri morti in<br />

seguito a fustigazioni, altri ancora morti di sete o per la fatica.Per evitare la<br />

sopravvivenza di bande furono avvelenate le "guelte", pozze d'acqua dove si<br />

abbeveravano gli animali, i pozzi d'acqua delle varie tribù, incendiati campi e raccolto<br />

(cfr Ottolenghi,op. cit pag 62 e seg).<br />

20


Badoglio in una lettera a Graziani del 20/6/1930 giustificò le deportazioni<br />

perché"occorre creare un distacco territoriale tra le formazioni ribelli e le popolazioni<br />

sottomesse onde impedire alle seconde di sostentare le prime…. urge far refluire in uno<br />

spazio ristretto lontano dalle loro terre originarie, tutta la popolazione sottomessa, in<br />

modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli".<br />

In questo modo Graziani cerca di giustificare le deportazioni: "... lasciare le popolazioni<br />

nei loro territori di origine e dare ampia libertà di azione alle truppe per scovare e<br />

annientare i ribelli ovunque si trovassero. Non mi sfuggivano le tragiche conseguenze<br />

cui avrebbe condotto questo metodo perché conoscendo a fondo l'ignoranza delle<br />

popolazioni beduine, e l'opera su di essa compiuta dalla propaganda senussita, ritenevo<br />

che esse sarebbero state indotte a persistere nell'errore e a continuare a rifornire le<br />

masse armate di viveri, uomini, armi, donde sarebbe derivato lo sterminio pressoché<br />

totale delle popolazioni beduine della Cirenaica ...<br />

La seconda via era quella di mettere le popolazioni in grado di non aver contatto con i<br />

ribelli ossia supplire con un intervento coattivo del Governo alla loro ignoranza e<br />

deficiente responsabilità risparmiandole agli orrori della guerra ... sarebbe stato meglio<br />

far sopportare a questa i disagi e le ristrettezze del concentramento ... anziché esporle<br />

allo sterminio. Questo spirito umanitario divenne oggetto di campagna diffamatrice nei<br />

confronti dell'Italia accusata di vilipendio e di offesa alla religione perchè abbatteva i<br />

suoi templi, di atrocità e di ogni genere e perfino del getto dell'alto degli aereoplani di<br />

gente musulmana! Nulla di più spudorato ... Oggi quelle popolazioni a rischio sterminio<br />

sono avviate a raggiungere quel livello di vita civile ed economica che ingentilirà i loro<br />

costumi nobiliterà i loro cuori e costituirà il primo fattore della loro felicità. Marsa el<br />

Brega, Agheila, Sidi hamed el Magrum oggi hanno l'aspetto di piccoli villaggi".<br />

(Graziani in Cirenaica pacificata pag. 304)<br />

Il 31 luglio 1930 l'oasi di Taizerbo viene bombardata con bombe all'iprite.<br />

Cufra, città santa per gli islamici perché sede della Senussia (confraternita sunnita),<br />

considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico".<br />

Il 26 agosto Cufra è bombardata e i ribelli inseguiti, verso il confine con l'Egitto.<br />

Graziani parla di 100 uccisi, 14 passati per le armi e 250 prigionieri tra cui donne e<br />

bambini. Il bilancio complessivo è molto più alto.Testimonianza del pilota V. Biano (in<br />

Del Boca Gli italiani in Libia).<br />

"Partiti all'alba ... gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le<br />

seguono finchè giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perchè il<br />

bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo<br />

e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono... il gioco<br />

continua per tutta la giornata ... le carovaniere della speranza diventano un cimitero di<br />

morti.<br />

21


Il 20 Gennaio 1931 Cufra è occupata; seguirono tre giorni di saccheggi e violenze di<br />

ogni tipo fatti dai nostri soldati col tacito assenso dei superiori.<br />

17 capi senussiti impiccati<br />

35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati<br />

50 donne stuprate<br />

50 fucilazioni<br />

40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole.<br />

Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte squartato il ventre e i feti infilzati,<br />

giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e<br />

nel retto) teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini<br />

(3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi)<br />

(Ottolenghi op. cit.pag 60 e seg.).<br />

Grande impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrive: "Noi chiediamo ai<br />

signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini<br />

appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla<br />

colonna occupante Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"<br />

Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblica , il 28 aprile 1931, un<br />

manifesto in cui tra l'altro si ricordano "alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire:<br />

da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare<br />

ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, nè dei vecchi ...".<br />

Graziani, che riporta il testo in Cirenaica pacificata, lo definisce "infarcito di menzogne<br />

tali che non so se muovano più il riso o lo sdegno".<br />

1933 Balbo sostituisce Badoglio restando in carica sino al 1940.<br />

L'impiego dei gas e delle armi chimiche<br />

Gli aggressivi chimici furono impiegati per la prima volta nella prima guerra mondiale<br />

22


da Germania, Austria-Ungheria, Italia, Gran Bretagna e Russia.<br />

Il 17 giugno 1925 viene firmato da 25 Stati aderenti alla Società delle Nazioni un trattato<br />

internazionale che proibiva l'utilizzo di armi chimiche e batteriologiche.<br />

Il trattato fu ratificato dall'Italia il 3 aprile 1928.<br />

Tra il 1923 e il 1931 l'aviazione italiana impiegò fosgene e iprite<br />

ANNI LUOGO FONTI CARATTERISTICHE RISULTATI<br />

1924/26<br />

6/1/1928<br />

4/2/28<br />

Tripolitania:<br />

accampamenti,<br />

uadi (letti<br />

asciutti di<br />

antichi corsi<br />

d'acqua)<br />

Gifa: oasi a sud<br />

di Nufilia<br />

(Tripolitania) su<br />

popolazioni<br />

Mogarba<br />

Relazione<br />

Mombelli<br />

(generale) 1<br />

Operazioni 29°<br />

parallelo per<br />

unificare<br />

Tripolitania e<br />

Cirenaica<br />

(Relazione<br />

generale<br />

Cicconetti 2 a De<br />

Bono AUSSME)<br />

Relazione De<br />

Bono sugli "esiti<br />

bombardamenti<br />

in Tripolitania" 3<br />

politica della terra<br />

bruciata e del terrore<br />

10 bombe da 21 kg al<br />

fosgene da 3 aerei<br />

Caproni 111<br />

3 tonnellate bombe<br />

esplosive e all'iprite<br />

12/2/1928 Hon Uaddan Diario De Bono Bombe al fosgene<br />

19/2/1928<br />

Marzo<br />

1929<br />

Cirenaica 15 km<br />

sud-est dello<br />

uadi<br />

Engar(Gebel)<br />

Zeefran<br />

Heleighima<br />

31/7/1930 Oasi Taizerbo<br />

Relazione<br />

governatore<br />

Teruzzi 4<br />

Relazione<br />

Teruzzi 5<br />

Autorizzazione<br />

Badoglio<br />

(Relazione ten.<br />

col. R.Lodi al<br />

8 quintali di iprite<br />

Bombe a gas<br />

24 bombe da 21 kg a<br />

iprite da 4 aerei Romeo<br />

12 bombe da 12 kg e 320<br />

da 2 kg con esplosivo<br />

bombardate<br />

150 tende<br />

coniche,<br />

numeroso<br />

bestiame<br />

nuclei armati<br />

intenti a lavori<br />

di semina<br />

36 indigeni e<br />

960 capi di<br />

bestiame<br />

42 individui<br />

centinaia di<br />

capi di<br />

bestiame uccisi<br />

300 cammelli<br />

numerosi<br />

pastori<br />

Distruzione<br />

bestiame e di<br />

numerosi<br />

ribelli<br />

23


gen. Siciliani 6 .<br />

Graziani 7 .<br />

convenzionale<br />

1 "Relazione Mombelli: Caproni esplorò regione Uadi el Faregh...avvistò e bombardò<br />

grosso attendamento circa 150 tende coniche e rettangolari.Bombardò regione Saunno<br />

con esito visibil<strong>mente</strong> efficace settantina tende e numeroso bestiame al<br />

pascolo.Bombardò ripetuta<strong>mente</strong> accampamento due chilometri est Garbagniha ...<br />

nonchè ... nuclei armati intenti lavori semina.".<br />

2 "A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai<br />

l'apparizione dei nostri apparecchi perché grossi aggregati spariscano allontanandosi<br />

sempre più".<br />

3 "Relazione De Bono al ministro delle colonie: 263 Op.UG/Segreto: Stamane come<br />

stabilito quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I<br />

quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando anche a<br />

gas circa quattrocento tende....".<br />

4 "Relazione Teruzzi: Gebel. Ieri undici, aviazione Mechili bombardato efficace<strong>mente</strong><br />

noto accampamento con bestiame pascolante .... Risulta da fonte attendibile che recenti<br />

bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina persone<br />

uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti...".<br />

5 "Relazione Teruzzi: Sembra che nello Zeefran i ribelli abbiano abbandonato quaranta<br />

tende .... in seguito ripetuti bombardamenti a gas".<br />

6 "Telegramma Badoglio a Siciliani e De Bono "Si ricordi che per Omar el Muchtar<br />

occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa<br />

con aviazione e bombe a iprite....".<br />

7 "Graziani in Cirenaica pacificata a proposito del bombardamento dell'oasi di Taizerbo<br />

scrive "Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo ... Un<br />

indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il<br />

bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e<br />

più grande ancora il panico.""<br />

http://www.criminidiguerra.it/html/Itinerari.htm<br />

La guerra di conquista dell'Etiopia:<br />

i crimini sulle popolazioni e l'uso dei gas.<br />

24


Per Africa Orientale italiana si intende quel territorio comprendente Eritrea e Somalia<br />

costituito nel gennaio del 1935 dal fascismo in previsione della guerra con l'Etiopia che,<br />

dopo la conquista italiana. costituirà parte integrante del territorio.<br />

L'Eritrea fu la prima colonia italiana costituita dopo l'acquisto da parte del governo<br />

italiano (1882) della baia di Assab, sul mar Rosso,dalla Società Rubattino che, a sua<br />

volta, l'aveva acquistata dieci anni prima da sultani locali.<br />

La colonizzazione italiana proseguirà nel 1885 con l'occupazione di Massaua che porrà<br />

sempre più in primo piano i rapporti con l'Impero abissinio.<br />

Nel 1886 l'eccidio di Dogali, compiuto dagli Abissini per contrastare l'espansionismo<br />

italiano, ne sarà un esempio.<br />

L'espansionismo italiano continuerà sino ai limiti dell'altopiano etiopico e troverà un atto<br />

significativo nel Trattato di Uccialli che, per il governo italiano ma non per quello<br />

etiope, stabiliva una sorta di protettorato dell'Italia sull'Etiopia.<br />

Dopo l'occupazione del Tigrè, avvenuta nel1893, il colonialismo italiano subisce una<br />

battuta d'arresto con le sconfitta di Amba Alagi, Macallè e Adua.L'Eritrea costituirà la<br />

base delle operazioni del fronte nord, guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.<br />

Negli stessi anni L'Italia allargava la sua influenza verso il Benadir, Merca, Mogadiscio<br />

(Somalia italiana) previ accordi con il Sultanato di Zanzibar.La Somalia diventerà la<br />

base delle operazioni del fronte sud guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.<br />

Nella parte settentrionale gli accordi con l'Impero abissinio stabilivano che tutto<br />

"l'Ogaden restasse all'Abissinia".Fu proprio nell'Ogaden a Ual/Ual, ai confini con la<br />

Somalia italiana, che si verificarono quegli incidenti che fornirono il pretesto per<br />

l'aggressione all'Etiopia. Mussolini, che aveva già deciso l'intervento, tenta di prendere<br />

tempo sul piano internazionale e, nello stesso tempo, di organizzare tempi e modi di<br />

attuazione dell'aggressione.<br />

La campagna militare per la conquista dell'ETIOPIA<br />

Ottobre 1935. De Bono ordina ai 3 corpi d'armata di passare il confine del Mareb<br />

(confine eritreo) avendo come primo obiettivo Adua e Adigrat.<br />

L'armamento è considerevole in quanto i centomila uomini che stanno per muoversi<br />

dispongono di 2300 mitragliatrici, 230 cannoni, 156 carri d'assalto. Dall'Eritra sono<br />

anche pronti a decollare 126 aerei.<br />

25


I militari italiani avanzano senza incontrare resistenza. L'aviazione, intanto, bombarda<br />

Adua e Adigrat facendo numerose vittime tra i civili.<br />

L'episodio è registrato nel diario di De Bono, che così scrive: "Il Negus ha già protestato<br />

per il bombardamento aereo dicendo che si sono ammazzati donne e bambini. Non<br />

vorranno che si buttino giù dei confetti".<br />

Il 6 Ottobre l'armata italiana entra ad Adua incontrando poca resistenza in quanto Hailè<br />

Selassiè ha scelto la tattica del ripiegamento per portare i nemici al centro del paese,<br />

lontano dai loro centri di rifornimento.<br />

Il ras Sejum, cognato del ras Cassa, a cui il negus aveva affidato il comando delle armate<br />

del nord, ripiega nel Tembien, camminando di notte per sfuggire all'osservazione aerea.<br />

De Bono, intanto, provvede al rafforzamento delle posizioni occupate costruendo strade,<br />

impianti di linee telefoniche, allestendo campi...<br />

Ma il comportamento delle truppe di occupazione si fa subito preoccupante, se De Bono<br />

il 15 Ottobre, alla vigilia dell'occupazione di Axum, scriverà al generale Maravigna<br />

"Allo scopo di evitare che si ripetano ad Axum depredazioni e danneggiamenti come si è<br />

verificato ad Adua, prego disporre che l'ingresso della città sia di massima interdetto ai<br />

militari sia metropolitani che indigeni, disponendo un servizio di vigilanza e<br />

perlustrazione all'interno della città stessa. (ASMAI AOI 181/24)<br />

11 Ottobre. Defezione del degiac (comandante di reggimento) Gugsa, genero<br />

dell'imperatore, che produce effetti morali e militari sulle truppe etiopi.<br />

18 Ottobre. Incontro di De Bono con Lessona, ministro delle colonie, e il maresciallo<br />

Badoglio inviati da Mussolini in Eritrea per relazionare sull'atteggiamento di De Bono,<br />

considerato troppo cauto nel procedere all'avanzata.<br />

Mussolini, infatti, spinge per l'occupazione rapida di Macallè-Tacazzè che, secondo i<br />

suoi ordini, deve avvenire il 3 novembre.<br />

FRONTE SUD<br />

Ottobre 1935. Graziani ordina subito massicci bombardamenti. Occupate alcune città tra<br />

cui Dolo, Dagnerei, Oddo.<br />

10 Ottobre. Primo bombardamento chimico a Gorrahei, campo trincerato, il più<br />

importante sulla strada di Dagahbùr.<br />

26


2-4-5 novembre. 18 aerei Caproni lanciano 189 quintali di esplosivo, mentre i caccia a<br />

volo radente sparano 13.730 colpi.<br />

"Tutta la zona pare arata dalle bombe: non c'è tratto che non sia sconvolto, ... l'azione<br />

aerea è stata formidabile e le sue tracce lasciano facil<strong>mente</strong> immaginare quale sia stato<br />

il tormento degli abissini che, pazzi di terrore, non hanno più resistito e sono fuggiti col<br />

loro capo morente." (Luigi Frusci generale in "In Somalia sul fronte meridionale"<br />

Cappelli 1936).<br />

Il capo di cui si parla è il grasmac (comandante di zona) Afeuork che, sebbene ferito, si<br />

rifiuta di lasciare il comando e morirà prima di arrivare all'ospedale di Dagabhur.<br />

11 novembre. Hamanlei attacco etiope. Quattro carri armati Fiat-Ansaldo vengono<br />

distrutti. Perdite italiane.<br />

Graziani è costretto ad aspettare 5 mesi prima di riprendere l'offensiva nell'Ogaden.<br />

FRONTE NORD<br />

De Bono, spinto da Mussolini, riprende l'operazione di conquista di Macallè.<br />

Non trovando resistenza la città viene occupata l'8 novembre. Ma con questa<br />

occupazione la situazione peggiora perché dopo settimane di marcia le armate abissine<br />

provenienti dalle regioni centrali sono giunte a contatto con gli avamposti nemici.<br />

18 novembre. Gli aerei italiani scoprono il concentramento di reparti nemici (formato<br />

dall'armata del ras Cassia, da quella del ras Sejum) e lo bombardano con 45 quintali di<br />

esplosivo.<br />

Gli abissini reagiscono all'offesa aerea e sanno disperdersi in tempo per evitare gravi<br />

perdite.<br />

11 novembre. Mussolini spinge De Bono a marciare su Amba Lagi, ma, di fronte alle<br />

perplessità di De Bono, acconsente ad una "ragionevole sosta a Macallè".<br />

14 novembre. Mussolini comunica a De Bono che ha nominato come suo successore<br />

Badoglio.<br />

28 novembre. Arriva Badoglio.<br />

Con Badoglio la guerra muta carattere diventando guerra di distruzione.<br />

Verranno colpite le città, gli accampamenti, le strade, gli ospedali. Saranno<br />

impiegati per la prima volta i gas asfissianti e l'iprite.<br />

27


A dicembre inizia la controffensiva etiopica: le tre armate etiopiche si stanno<br />

avvicinando a quelle armate italiane.<br />

A sud dell'Amba Aradan si trova l'armata del ras Mulughietà, quella del ras Cassa si<br />

avvia verso il Tembien, mentre quella del ras Immirù ha le sue avanguardie nel Tacazzè.<br />

4 dicembre. Vengono lanciati 45 quintali di bombe sulle colonne di ras Immirù per<br />

rallentarne l'avanzata.<br />

6 dicembre. 76 quintali di esplosivo distruggono la cittadina di Dessiè e le tende della<br />

Croce Rossa. Nonostante ciò gli abissini hanno imparato a camuffarsi e disperdersi e a<br />

metà dicembre sono a contatto con gli italiani su tutto il fronte.<br />

14-15 dicembre. Le avanguardie di ras Immirù attraversano il fiume Tacazzè. Un altro<br />

contingente punta al passo di Dembeguinà dove passa l'unica via di comunicazione con<br />

le linee nemiche con lo scopo di tagliare la ritirata agli italiani.<br />

La sconfitta di Dembeguinà apre a ras Immirù lo Scirè, mentre il ras Cassia invadendo il<br />

Tembiem, minaccia Macallè.<br />

Di fronte a questa delicata situazione Badoglio decide di iniziare la guerra chimica, non<br />

solo per fermare l'avanzata delle truppe ma per terrorizzare le popolazioni.<br />

Dal 22 dicembre al 18 gennaio vengono lanciati sul fronte nord duemila quintali di<br />

bombe, per una parte rilevante caricate a gas tra cui l'iprite (solfuro di etile biclorurato),<br />

che provoca la necrosi del protoplasma cellulare ed è sicura<strong>mente</strong> mortale.<br />

Testimonianze<br />

Hailè Selassiè dinanzi all'assemblea ginevrina il 30 giugno 1936: "fu all'epoca di<br />

accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il<br />

procedimento che ho il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a<br />

bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile<br />

pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in<br />

modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a<br />

partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i<br />

laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere<br />

sistematica<strong>mente</strong> gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il<br />

comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo<br />

di guerra."<br />

Dottor Schuppler, responsabile dell'ambulanza n.3, in un rapporto al ministro degli<br />

Esteri etiopico: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936, per<br />

la prima volta, delle bombe a gas sono state impiegate dagli aviatori italiani. Queste<br />

bombe hanno ucciso 20 contadini e io ho curato 15 casi di persone colpite dal<br />

28


ombardamento a gas tra cui 2 bambini. Le ustioni sono state provocate dall'iprite,<br />

usata a sud del passo di Alagi".<br />

Dottor Melly, responsabile di una delle ambulanze inglesi: "Tra il 7 e il 22 marzo<br />

allorché questa ambulanza si trovava nella regione dell'Ascianghi, curammo dai due ai<br />

trecento casi di ustioni da iprite. La maggior parte dei gasati era rimasta<br />

momentanea<strong>mente</strong> accecata. Un gran numero di ustioni presentava un carattere<br />

particolar<strong>mente</strong> grave, terribile."<br />

M. Junod, delegato Croce Rossa Internazionale, testimonia sul bombardamento all'iprite<br />

sull'aereoporto di Quorum.<br />

FRONTE SUD<br />

Contemporanea<strong>mente</strong> all'avanzata del ras Immirù a nord, il ras Destà giunge a contatto<br />

con le difese italiane del campo di Dolo.<br />

Graziani decide di utilizzare in modo massiccio l'aviazione, ottenendo da Mussolini<br />

libertà d'azione per l'uso dei gas asfissianti.<br />

Su Neghelli, base di rifornimento per gli etiopi, rovescia 177 quintali di esplosivo e di<br />

gas.<br />

Testimonianza di ras Destà all'imperatore: "Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche<br />

bombe a gas, le quali piovono come la grandine... Le lesioni, anche leggere, prodotte da<br />

tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, per infezioni delle grandi piaghe".<br />

30 dicembre. Graziani ordina un bombardamento nella zona di Gogorù per colpire lo<br />

stato maggiore del ras Destà. Vengono lanciati da tre Caproni 3.134 chilogrammi di<br />

esplosivo.<br />

Molte bombe colpiscono le tende e gli automezzi di un ospedale da campo svedese con i<br />

contrassegni della Croce Rossa provocando morti e feriti.<br />

La notizia fa il giro del mondo.<br />

La controffensiva di Graziani inizia il 12 gennaio nella battaglia del Ganale Doria che<br />

vede il lancio di 1.700 chilogrammi di gas asfissianti e vescicanti sulle popolazioni<br />

abissine e l'inizio del disfacimento dell'armata etiope; prosegue con la conquista di<br />

Neghelli (20 gennaio) su cui vengono lanciati ben 1.250 quintali di esplosivo. Le armate<br />

del ras Destà, bombardate e irrorate di iprite, tentano di raggiungere il Kenya, ma<br />

verranno annientate nel cosiddetto "vallone della morte".<br />

FRONTE NORD<br />

29


La battaglia dell'Endertà.<br />

Badoglio decide di prevenire l'avversario e dal 19 gennaio inizia la battaglia del<br />

Tembien.<br />

23 gennaio. Ras Cassia telegrafa all'imperatore per invitarlo a protestare presso la<br />

Società delle Nazioni per l'uso di iprite da parte italiana. La battaglia si conclude il 24 e<br />

con essa la controffensiva etiopica.<br />

Hailè Selassiè che aveva il suo quartiere generale a Dessiè decide di cambiare strategia e<br />

di andare incontro ai nemici avanzando verso Quoram. Secondo il negus questa scelta fu<br />

dovuta anche all'uso degli aggressivi chimici da parte italiana.<br />

10 febbraio. Badoglio inizia l'offensiva sull'Amba Aradan durante la quale vengono<br />

sparate molte granate caricate con arsine.<br />

Sull'Amba Aradan vengono catturati due europei al servizio del negus, il medico polacco<br />

Belau e il suo assistente che verranno torturati perché ritrattino la dichiarazione inviata<br />

alla SdN, che denunciavano il bombardamento indiscriminato di Dessiè.<br />

17-18-19 febbraio. Tutti gli aerei disponibili del fronte nord inseguono l'avversario in<br />

rotta, lasciando cadere in una sola giornata 730 quintali di esplosivo. "I piloti<br />

sembravano scatenati. Si era data libertà di volo e di azione chi faceva prima a<br />

rifornirsi partiva, era una gara continua ... Non c'era bisogno di abbassarsi troppo:<br />

ogni spezzone piombava in mezzo a loro seminando la morte. Era una bella lezione per<br />

quelle teste dure" (testimonianza di Vittorio Mussolini in Voli sulle ambe). Il ras<br />

Mulughietà viene ucciso mentre le armate del ras Cassa e del ras Sejum sono avvolti<br />

nella manovra a tenaglia di Badoglio.<br />

Febbraio/marzo. Seconda battaglia del Tembien. L'aviazione scaricherà 1.950 quintali di<br />

esplosivo. Con una manovra di accerchiamento gli italiani riescono ad annientare le<br />

armate abissinie in ritirata che vengono decimate dall'aviazione.<br />

"I gruppi marciavano in pieno disordine ma l'obbligatorietà del percorso lungo la pista,<br />

la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni, contribuivano inevitabil<strong>mente</strong> a<br />

tenerli addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava,<br />

il veicolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne obbediva lo zig zag. Seminava<br />

intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale". (Pavolini "Corriere della sera<br />

", 3/3/1936.)<br />

28 febbraio. Viene occupata Amba Alagi.<br />

30


29 febbraio. Mentre è in corso la seconda battaglia del Tembien, Badoglio attacca<br />

l'ultima armata etiopica del fronte nord, quella del ras Immirù nella battaglia dello Scirè.<br />

Per fiaccare il nemico Badoglio, come di consueto, all'impiego dei caccia e degli aerei da<br />

bombardamento.<br />

2 marzo. Verranno usati per la prima volta i lanciafiamme.<br />

3-4 marzo. Badoglio, vistosi fuggire il grosso dell'esercito del ras Immirù verso i guadi<br />

del Tacazzè, ordina all'aviazione di proseguire da sola la battaglia.<br />

Verranno lanciati 636 quintali di esplosivo e di iprite. Lo stesso Badoglio racconta che<br />

per rendere più completa la distruzione vengono lanciate piccole bombe incendiarie che<br />

trasformano in un solo rogo i fianchi boschivi della valle del Tacazzè rendendo tragica la<br />

situazione del nemico in fuga. I piloti che scendono a volo radente per mitragliare i<br />

superstiti rilevano notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uomini e di<br />

quadrupedi trasportati dalla corrente.<br />

Intanto il ras Immirù viene inseguito a sud del Tacazzè e i ras Cassa e Sejum si ritirano<br />

su Quorum.<br />

19 marzo. Il negus Hailè Selassiè, raggiunto nel suo quartier generale a Quorum, dal ras<br />

Cassa e dal ras Sejum, decide di avanzare verso gli italiani e di dare battaglia nel loro<br />

campo a Mau Ceu prima che arrivino forze più numerose.<br />

Badoglio, che ancora non sa della decisione del negus, così scrive a Lessona in un<br />

telegramma del 12/3/36: "Se il nemico invece di accettare battaglia nei pressi di<br />

Quorum mi fa uno sbalzo indietro di cento chilometri, portandosi a Dessì, sono fritto.<br />

Allora non rimane che il mio vecchio progetto. Mettere in azione tutta l'aviazione e<br />

cominciare da Addis Abeba a tutti i centri importanti. Tabula rasa. Sono convinto che in<br />

una settimana metteremmo l'Abissinia in ginocchio".<br />

21 marzo. Badoglio apprenderà la decisione del negus e si preparerà alla battaglia di<br />

Mau Ceu.<br />

29 marzo. Mussolini rinnova a Badoglio l'autorizzazione ad usare gas di qualunque<br />

specie (tel n.3652).<br />

30 marzo. La battaglia durerà 13 ore durante la quale gli aerei italiani lanceranno 335<br />

quintali di esplosivo e sparano 6.200 colpi di mitragliatrice.<br />

1 aprile. Hailè Selassiè ordina agli uomini rimasti di ripiegare sulla pianura del lago<br />

Ascianghi dove verranno inseguiti e bombardati senza tregua.<br />

4 aprile. Gli scampati alla battaglia di Mau Ceu verranno bombardati con 700 quintali di<br />

bombe, molte caricate ad iprite. "Per gli aviatori italiani non era più guerra era un<br />

gioco. Quale era il rischio nel mitragliare dei cadaveri e dei morenti i cui occhi erano<br />

31


uciati dai gas?" ( testimonianza di Hailè Selassiè).<br />

Il giornalista Cesco Tomaselli racconta: "Le bombe esplodono nel fitto degli uomini che<br />

arrancano curvi, tenendo le mani sulla testa come si fa quando si è colti da una<br />

grandinata sui campi."<br />

Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata dai gas tossici del lago dell'Endà<br />

Agafarì.<br />

È Hailè Selassiè che racconta l'atroce visione e sottolinea come "sarebbe stato<br />

necessario fissare questa immagine per poterla presentare al mondo e distruggere per<br />

sempre nel cuore degli uomini i propositi di guerra".<br />

FRONTE SUD<br />

L'avanzata di Badoglio preoccupa Graziani di restare escluso dal successo finale; così,<br />

non potendo ancora iniziare l'azione di terra, comunica che inizierà la sua offensiva<br />

aerea su Harar: "Ho ordinato che oggi 30 aerei da bombardamento distruggano<br />

Giggiga... dopo la distruzione di Giggiga distruggerò Harar" (Graziani a Badoglio e<br />

Mussolini 2/3/36).<br />

22-23-24 marzo. 56 apparecchi lanciano 240 quintali di esplosivo.<br />

29 marzo. Bombardata Harar, già dichiarata città aperta, e i cui obiettivi di importanza<br />

militare sono insignificanti. Sulla città verranno lanciati 120 quintali di esplosivo.<br />

Un inviato del Corriere della sera, Mario Massai, che è a bordo di uno degli aerei scrive:<br />

"Per quaranta minuti sono sbocciati sui bersagli, nella massa del colore ocra delle<br />

casette di Harar, mostruosi funghi grigio-scuri per le esplosioni delle bombe di grosso<br />

calibro e sono sprizzate le lingue di fuoco degli incendi. La popolazione, che fin dal<br />

primo avvistamento si era rovesciata in torrenti umani per le strette vie verso l'esterno<br />

della città, ha assistito certo terrorizzata all'impressionante attacco aereo".<br />

Già il 3 marzo Graziani, nella Memoria segreta operativa per l'azione su Harar, tra le<br />

condizioni per la riuscita della azione, poneva il "libero uso di bombe e proiettili a<br />

liquidi speciali per infliggere al nemico le massime perdite e soprattutto per produrne il<br />

completo collasso morale".<br />

9 aprile. Graziani telegrafa a Lessona (sottosegretario alle colonie) per informarlo del<br />

bombardamento a iprite del giorno precedente a Bullalèh, Sassabanèh, Dagahbùr,<br />

Daagamedò, Segàg, Bircùt.<br />

Due giorni dopo Mussolini telegrafa a Graziani ordinandogli di non fare uso di gas, ma<br />

dopo pochi giorni revoca l'ordine.<br />

32


15 aprile. Graziani dà inizio all'offensiva su Harar.<br />

Dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope, Graziani inizia l'attacco da<br />

terra.<br />

Il vescovo cattolico di Harar scrive ai suoi superiori in Francia: "Il bombardamento che<br />

gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del<br />

Cielo".<br />

La battaglia dell'Ogaden si concluderà con la conquista delle città precedente<strong>mente</strong><br />

bombardate.<br />

FRONTE NORD<br />

26 aprile. Badoglio inizia la marcia verso Addis Abeba.<br />

2 maggio. Hailè Selassiè lascia l'Etiopia per raggiungere l'Europa.<br />

La notizia provocherà gravi disordini e saccheggi ad Addis Abeba. La maggior parte dei<br />

seimila stranieri si rifugia nelle legazioni. Fonti italiane parlano di 600 morti.<br />

Il cronista G.Steer sciverà: "Di quelli che ho visto morti o morenti, non ce n'è uno solo il<br />

cui sangue non ricada sulla testa di Mussolini".<br />

Si sa, infatti, che l'occupazione di Addis Abeba poteva avvenire la notte del 2 maggio e<br />

che il rinvio di tre giorni è da ricollegarsi al desiderio di sfruttare la tragedia in funzione<br />

antietiopica, perché fornisce l'occasione di presentare il popolo etiope semibarbaro e<br />

incapace di gestirsi da solo.<br />

3 Maggio. Badoglio riceve un telegramma da Mussolini: "Occupata Addis Abeba V.E<br />

darà ordine perché: 1) siano fucilati sommaria<strong>mente</strong> tutti coloro che in città o dintorni<br />

siano sorpresi con le armi alla mano, 2) siano fucilati sommaria<strong>mente</strong> tutti i giovani<br />

etiopi, barbari, crudeli, pretenziosi, autori motali dei saccheggi, 3) siano fucilati quanti<br />

abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi 4) siano sommaria<strong>mente</strong> fucilati<br />

quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni."(tel n.<br />

5007)<br />

5 maggio. Badoglio entra in Addis Abeba.<br />

Steer scrive: "Gli italiani istituirono immediata<strong>mente</strong> la pena di morte per due reati: il<br />

primo riguardava la partecipazione al saccheggio, il secondo il possesso di armi...<br />

Ottantacinque etiopi, accusati di saccheggio, furono giudicati e condannati a morte da<br />

una corte sommaria. Ma le fucilazioni eseguite dai carabinieri sul posto furono molte di<br />

più, ed esse vennero fatte senza alcuna parvenza di processo. Se oggetti che essi<br />

33


itenevano rubati venivano scoperti in un tucul, il proprietario era immediata<strong>mente</strong><br />

ucciso. Inquirenti francesi hanno calcolato che almeno 1.500 sono stati liquidati in<br />

questo modo".<br />

FRONTE SUD<br />

9 maggio. Graziani incontrerà Badoglio alla stazione di Dire Daua. Con la stretta di<br />

mano tra i due e l'incontro tra le armate italiane del nord quelle del sud, si conclude<br />

ufficial<strong>mente</strong> la guerra.<br />

26 maggio. Badoglio lascia definitiva<strong>mente</strong> l'Africa.<br />

Graziani diventa vicerè, governatore generale e comandante superiore delle truppe.<br />

E vediamo un paio di foto:<br />

La testa mozza del degiac, patriota etiopico, Hailú Chebbedè<br />

34


La testa appesa ...<br />

http://www.criminidiguerra.it/html/repressioneimpero.htm<br />

La repressione in Africa Orientale Italiana<br />

(AOI) dopo la proclamazione dell'Impero<br />

Giugno 1936. L'Etiopia resta per quasi due terzi da occupare soprattutto nell'ovest e nel<br />

sud dell'impero.<br />

I focolai di guerriglia sono presenti nello Scioa e lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti.<br />

Difficoltà anche a causa della stagione delle piogge che blocca i movimenti nelle strade<br />

e rende difficili i rifornimenti.<br />

35


Graziani è pratica<strong>mente</strong> assediato ad Addis Abeba, mentre Badoglio è in Italia a<br />

riscuotere premi e onori.<br />

In complesso il periodo da maggio a ottobre ha un carattere prevalente<strong>mente</strong> difensivo.<br />

Si intensifica la repressione del ribellismo.<br />

Nei primi giorni di giugno Mussolini telegrafa a Graziani i seguenti ordini:<br />

"Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi" (tel n. 6496)<br />

"Per finirla con i ribelli...impieghi i gas" (tel.6595)<br />

"Autorizzo ancora una volta V.E a iniziare e condurre sistematica<strong>mente</strong> la politica del<br />

terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. (tel n. 8103)<br />

Poggiali, nel suo Diario AOI, scrive a proposito di Addis Abeba: "Intorno alla città vi<br />

sono bande armate e minacciose. Da una settimana si vive sotto l'incubo di un assalto in<br />

grande stile".<br />

L'attacco viene sferrato il 28 luglio.<br />

Nel timore che la popolazione insorga i carabinieri operano arresti di massa di etiopi<br />

adulti e Poggiali afferma: "Probabil<strong>mente</strong> la maggior parte è innocente persino di<br />

quanto accaduto. Trattamento superlativa<strong>mente</strong> brutale da parte dei carabinieri, che<br />

distribuiscono scudisciate e colpi di calci di pistola".<br />

A questo attacco partecipa il degiac Aberra Cassa secondogenito del ras Hailù che gode<br />

di grande prestigio sia perché di sangue imperiale, sia perché si è distinto come grande<br />

combattente nella battaglia del Tembien e nella difficile ritirata di Mau Ceu. Inoltre gode<br />

dell'appoggio della chiesa copta e in particolare del vescovo di Dessiè, l'abuna Petros.<br />

Coadiuvato dal fratello, dopo i primi rovesci, adotterà una politica temporeggiatrice che<br />

lo isolerà rendendolo preda di Graziani.<br />

L'attacco ad Addis Abeba fallirà, l'abuna Petros portato in piazza verrà giudicato<br />

colpevole da un tribunale militare e giustiziato dai fucili di 8 carabinieri.<br />

Graziani informa Lessona, ministro delle colonie: "La fucilazione dell'abuna Petros ha<br />

terrorizzato capi e popolazione... Continua l'opera di repressione degli armati dispersi<br />

nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate<br />

repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza di mancata<br />

reazione" (telegramma n.1667/8906).<br />

Un altro problema per Graziani è l'occupazione dell'ovest ( in particolare i centri di<br />

Gore, Lechemiti, Gimma, Gambela) che Mussolini vuole al più presto sotto controllo per<br />

36


allontanare il pericolo di una eventuale pretesa del governo inglese su quei territori in<br />

quanto confinanti con il Sudan.<br />

Il problema più urgente è Gore dove da maggio si è insediato un governo provvisorio e<br />

dove si sono rifugiati gli uomini del passato regime, gran parte dei Giovani Etiopi, la<br />

metà dei cadetti di Olettae, i soldati del ras Immirù ( il miglior generale di Hailè<br />

Selassiè).<br />

In questo contesto avverrà il rogo di tre aerei italiani da bombardamento, che provocherà<br />

grande ondata di indignazione in Italia, ma nessuna rappresaglia perché il 4 luglio la<br />

Società delle nazioni revoca le sanzioni all'Italia e il problema dell'Ovest non ha più<br />

quella urgenza prima sottolineata.<br />

Dal mese di ottobre Graziani riprende la conquista dell'Ovest, mentre il ras Immirù tenta<br />

di sfuggire all'accerchiamento e nello stesso tempo incita le popolazioni contro gli<br />

italiani: "Gli italiani che contro il loro diritto hanno ucciso i nostri soldati col veleno e<br />

con le bombe, sono forse venuti ora per guardarvi col cuore commosso, per farvi vivere<br />

tranquilli? ... Se gli italiani avessero un cuore buono e sapessero governare, non<br />

avrebbero dovuto combattere per 25 anni a Tripoli ... Gli italiani ci vogliono togliere il<br />

paese che i nostri avi resero prospero..."(ACS Fondo Graziani).<br />

Il ras Immirù si arrenderà il 16 dicembre e verrà confinato in Italia sino al 1943.<br />

Nello stesso periodo vengono uccisi i tre fratelli Cassa.<br />

Il primogenito Uonduossen si arrese alle truppe del generale Pirzo Biroli e subito passato<br />

per le armi. Gli altri due si consegnarono spontanea<strong>mente</strong> al generale Tracchia contando<br />

sulla garanzia fatta dagli italiani di aver salva la vita; furono arrestati dai carabinieri,<br />

mentre bevevano il caffè nella tenda del generale Tracchia che così comunica la notizia a<br />

Graziani: "Alle 18,35 in Ficcè, sede della loro famiglia e noto covo di rivolta da cui<br />

partirono gli ordini per l'attacco alla capitale, Aberra e il fratello Asfauossen cadevano<br />

sotto il piombo giustiziatore."<br />

L'unico capo etiope ancora in armi era ras Destà che, a fine novembre, dopo aver<br />

abbandonato Sidamo, si ritira al centro in una regione montuosa. Nel dicembre accetta di<br />

avviare trattative con gli italiani ma, la notizia della uccisione dei fratelli Cassa e la<br />

richiesta della sottomissione senza condizioni fatta dagli italiani, fanno fallire le<br />

trattative.<br />

Graziani ordina di bombardare la regione in cui il ras ha trovato rifugio. Si combatte per<br />

una settimana. Il ras, inseguito dall'aviazione e dagli autoblindo, viene nuova<strong>mente</strong><br />

attaccato mentre sosta a Goggetti, ma riesce a scappare.<br />

Secondo gli ordini di Mussolini, tutti i capi catturati verranno passati alle armi e lo stesso<br />

villaggio dato alle fiamme.<br />

"È inteso che la popolazione maschile di Goggetti di età superiore ai 18 anni deve<br />

essere passata per le armi e il paese distrutto" (tel 54000).<br />

37


Il ras Destà verrà fatto prigioniero nel suo villaggio natale il 24 febbraio da uomini di un<br />

degiac collaborazionista.<br />

Consegnato agli italiani fu impiccato dagli uomini del capitano Tucci.<br />

Sulla "Gazzetta del popolo" del 24 febbraio 1938 Guido Pallotta vice-segretario dei Guf,<br />

commentando la morte del genero dell'imperatore, scrive: "E nello scroscio del plotone<br />

di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più<br />

cocente alle truppe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò alla<br />

maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina".<br />

Ma dopo il fallito attentato a Graziani si scatena la reazione ancora più violenta degli<br />

italiani.<br />

17 febbraio 1937. Graziani invita nel suo palazzo di Adis Abeba la nobiltà etiope per<br />

festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l'occasione decide di distribuire una<br />

elemosina ad invalidi del luogo (ciechi, storpi, zoppi ).<br />

La testimonianza di un medico ungherese presente, sottolinea la dura rappresaglia<br />

seguita al fallito attentato. Anche le immagini del filmato Fascist legacy della BBC<br />

mostrano come nessun etiope uscì vivo dal cortile dove si teneva la cerimonia.<br />

Una nota dell'ambasciatore USA in Etiopia sottolinea che fatti del genere non si<br />

vedevano dal tempo del massacro degli armeni.<br />

Graziani comunica immediata<strong>mente</strong> ai governatori delle altre regioni di agire con il<br />

massimo rigore.<br />

Ad Addis Abeba è il federale Guido Cortese che scatena la rappresaglia.<br />

Testimonianza di Poggiali: "Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il<br />

compito della vendetta, condotta fulminea<strong>mente</strong> coi sistemi del più autentico squadrismo<br />

fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si<br />

trovano ancora in strada... Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro<br />

con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile<br />

dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente".<br />

Vengono incendiati tucul, chiese copte, terreni coltivati, quintali di orzo Anche la chiesa<br />

di San Giorgio viene data alle fiamme "per ordine e alla presenza del federale Cortese".<br />

Ad Addis Abeba 700 indigeni vengono fucilati dopo essere usciti a gruppi dalla<br />

ambasciata britannica dove si erano rifugiati (fatto denunciato dal ministro inglese al<br />

Parlamento il 26/3/37).<br />

Vengono inquinati i terreni con aggressivi chimici, abbattuto il bestiame.<br />

Molti uomini bruciati vivi, altri lapidati o squartati.<br />

38


Mussolini con un fonogramma impone che ogni civile sospettato sia fucilato senza<br />

processo.<br />

Il numero esatto delle vittime della repressione è di 30.000 per gli etiopi, tra i 1.400 e i<br />

6.000 per inglesi, francesi e americani.<br />

Graziani il 22 febbraio scrive a Mussolini: "In questi tre giorni ho fatto compiere nella<br />

città perquisizioni con l'ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in<br />

possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di<br />

conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti<br />

tucul" (tel n. 9170).<br />

26 febbraio. Graziani fa fucilare 45 "tra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti"<br />

(tel. N.9894 ).<br />

Nei giorni successivi fa fucilare altri 26 esponenti della intellighenzia etiopica, elementi<br />

aperti alla cultura europea. Altri 400 notabili vengono trasferiti in Italia, mentre altri<br />

"elementi di scarsa importanza ma nocivi" con a seguito donne e bambini (tel. Graziani<br />

a Santini n.20650), vengono confinati a Danane dopo un viaggio durato più di 15 giorni<br />

che provocherà morti per stenti, vaiolo e dissenteria.<br />

19 marzo. Graziani scrive a Lessona: "Convinto della necessità di stroncare<br />

radical<strong>mente</strong> questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, gli indovini e<br />

stregoni della città e dintorni fossero passati per le armi. A tutt'oggi ne sono stati<br />

rastrellati e eliminati settanta."(tel. 14440).<br />

21 marzo. Graziani scrive a Mussolini: "Dal 19 febbraio ad oggi sono state eseguite 324<br />

esecuzioni sommarie... senza comprendere le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio"<br />

30 aprile. Le esecuzioni sono passate a 710 (tel. n.22583), il 5 luglio a 1686 (tel<br />

n.33911), il 25 luglio a 1878 (tel. n. 36920) e il 3 agosto a 1918 (tel. n.37784).<br />

Dalla relazione del colonnello Hazon si evince che i soli carabinieri hanno passato per le<br />

armi 2.509 indigeni.<br />

Alcuni episodi raccontati dallo stesso Graziani testimoniano che le esecuzioni<br />

avvenivano spesso senza la minima prova.<br />

14 marzo. Un nucleo di carabinieri, recatosi in una abitazione per arrestare un ricercato,<br />

arresta sia il proprietario che gli 11 indigeni che si trovavano sul posto per non aver<br />

favorito la cattura del ricercato.<br />

Graziani scriverà a Lessona "Data la gravità del fatto li ho fatti passare per le armi" (tel.<br />

n.14150).<br />

39


23 aprile. 32 capi amhara e 100 indigeni fucilati per condotta dubbia e Argio bruciata<br />

(tel. Graziani a Lessona n.23313)<br />

25 aprile. 200 amhara arrestati, cacciati dentro una fossa e fucilati.<br />

Poggiali scrive: "Nell'Uollamo un capitano italiano ha fatto razzia di bestiame a danno<br />

di una famiglia indigena. Il capofamiglia denuncia la prepotenza e il capitano uccide<br />

tutta la famiglia compresi i bambini".<br />

A maggio Graziani si vendica del clero copto accusato di connivenza con gli autori<br />

dell'attentato.<br />

Secondo la relazione del generale Maletti, che ha sostituito Tracchia nella repressione<br />

dello Scioa, in due settimane le sue truppe incendiano 115.422 tucul, tre chiese, un<br />

convento, e uccidono 2.523 ribelli, servendosi del battaglione musulmano al posto di<br />

quello eritreo composto in gran parte da copti.<br />

Maletti il 18 maggio accerchia il villaggio conventuale di Debra Libanòs, il più celebre<br />

di Etiopia."Questo avvocato militare mi comunica che ha raggiunto le prove della<br />

correità dei monaci del convento ... Passi pertanto per le armi tutti i monaci compreso il<br />

vicepriore" (tel. di Graziani a Maletti n. 25876)-<br />

Dopo aver ricevuto da Graziani la conferma della responsabilità del convento<br />

nell'attentato, il 20 maggio, trasferisce in un vallone a Ficcè 297 monaci e 23 laici e li<br />

passa per le armi".<br />

Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine... Il<br />

convento chiuso definita<strong>mente</strong>." (tel. Di Graziani Lessona n.23260).<br />

Tre giorni dopo invia un nuovo telegramma a Maletti: "Confermo piena<strong>mente</strong> la<br />

responsabilità del convento di Debra Libanòs. Ordino pertanto di passare per le armi<br />

tutti i diaconi" (tel. 26609).<br />

In realtà recenti studi hanno fatto salire a 1600 il numero delle vittime del massacro di<br />

Debra Libanos.<br />

Intanto continua l'azione antiguerriglia delle truppe italiane nelle regioni dell'impero<br />

come si deduce dai bollettini inviati al ministero dell'Africa italiana.<br />

I fatti si riferiscono a esecuzioni, rastrellamenti di armi, distruzioni di paesi ostili.<br />

4 aprile. Bruciato il paese di Atzei e il bestiame sequestrato dopo aver accertata la<br />

ostilità degli abitanti contro gli italiani.<br />

12 aprile. Nella regione dei Galla-Sidamo erano stati sequestrati 2.000 fucili, 14<br />

mitragliatrici, 50 pistole; nel territorio di Ambo 6.823 fucili, 16 mitragliatrici, 19 pistole.<br />

40


18 aprile. Occupato e incendiato il villaggio di Eso dopo che erano stati catturati e<br />

eliminati 21 ribelli.<br />

1 maggio. Graziani comunica a Roma che i bombardamenti nel governatorato dell'Harrar<br />

proseguivano.<br />

In agosto scoppia simultanea<strong>mente</strong> una rivolta in varie parti dell'impero. Per Graziani il<br />

principale capo è Hailù Chebbedè.<br />

Nel settembre del 1937 viene catturato e fucilato; la sua testa infilzata su un palo è<br />

esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram.<br />

Graziani, alla fine dell'anno, verrà sostituito con il Duca d'Aosta che attuerà una politica<br />

meno repressiva .<br />

http://www.criminidiguerra.it/html/campiafrica.htm<br />

I campi concentramento per i civili nell'Africa<br />

italiana<br />

Campi di concentramento (16 in Libia 1 in Eritrea 1 in Somalia)<br />

Campi di rieducazione (4)<br />

Campi di punizione (3)<br />

Nei campi vennero inviati sia le tribù allontanate dal Gebel el- Achdar sia gli indigeni<br />

appartenenti a tribù seminomadi vaganti attorno alle oasi o all'interno.<br />

I principali campi di concentramento furono Soluch (a sud di Bengasi); Sidi el Magrum<br />

(a ovest di Bengasi) ;Agedabia (a 200 km a ovest di Bengasi) nelle vicinanze della<br />

primitiva sede della Senussia per dare un segnale alla resistenza senussita della forza dei<br />

coloniali italiani;.Marsa el Brega; el Abiar; el Agheila.<br />

Nei campi di rieducazione inviati giovani appartenenti a tribù più evolute per<br />

trasformarli in impiegati utili all'amministrazione coloniale.<br />

Nei campi di punizione tutti coloro che avevano commesso reati o ostacolato<br />

l'occupazione italiana.<br />

Testimonianza di un sopravvissuto Reth Belgassen recluso ad Agheila (cfr Ottolenghi<br />

op. cit.): "Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo<br />

stanchi per lavorare... ricordo la miseria e le botte... Le nostre donne tenevano un<br />

41


ecipiente nella tenda per fare i bisogni... avevano paura di uscire rischiavano di essere<br />

prese dgli etiopi o dagli italiani…le esecuzioni avvenivano... al centro del campo egli<br />

italiani portavano tutta la gente a guardare. ci costringevano a guardare mentre<br />

morivano i nostri fratelli. Ogni giorno uscivano 50 cadaveri."<br />

Testimonianza della propaganda fascista "L'Oltremare": "... Nel campo di Soluch c'è<br />

ordine e una disciplina perfetta e regna ordine e pulizia".<br />

Dopo il crollo della dittatura Canevari, che era stato comandante in Cirenaica, scrive:<br />

"Noi non abbiamo mai creato campi di concentramento in Cirenaica ma solo delle<br />

riserve in campi splendida<strong>mente</strong> sistemati e forniti di tutto il necessario dalle tende ai<br />

servizi idrici ... In tal modo il governo italiano li sottraeva dal dilemma o rifornire i<br />

ribelli o cadere sotto le loro vendette. Dopo la permanenza nei campi, le popolazioni<br />

della Cirenaica tornarono alle loro terre rinnovate dalla scienza e dalla scuola"<br />

La mancanza di volontà nell'ammettere l'esistenza di campi di concentramento in Libia,<br />

fa scrivere nel 1965, nel resoconto di G. Bucco e A. Natoli sulla "Organizzazione<br />

sanitaria in Africa" dal Ministero degli Affari Esteri, che "La maggior parte degli<br />

Auaghir viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone... del Gebel",<br />

quando invece queste tribù vi erano state deportate.<br />

Motivi di chiusura dei campi<br />

1) riduzione delle rivolte special<strong>mente</strong> dopo l'esecuzione di Omar.el-Muktar.<br />

2) coloni italiani già insediati nelle zone assegnate loro del Gebel cirenaico.<br />

3) le popolazioni nomadi e seminomadi non avevano assimilato il tipo di vita sedentario<br />

imposto nei campi.<br />

4) pericolo di epidemie per l'alto numero di individui inviati nei campi.<br />

5) costi eccessivi sia dal punto di vista economico che militare.<br />

42


CAMPI DI<br />

CONCENTRAMENTO<br />

LIBIA 1930/1933<br />

SOLUCH<br />

PROVENIENZA<br />

E/OCARATTERISTICHE<br />

DEI RECLUSI<br />

GEBEL EL-ACHDAR E<br />

ZONA ATTORNO<br />

BENGASI (TRIBÙ<br />

SEMINOMADI)<br />

EL-MAGRUM GEBEL EL-ACHDAR<br />

AGEDABIA NOMADI MOGARBA<br />

MARSA EL BREGA<br />

EL-ABIAR<br />

MARABTIN<br />

PROVENIENTI DA<br />

OLTRE 500 KM<br />

MARCIA DI 2 MESI<br />

ALTRI VIA MARE NE<br />

PARTIRONO13200 NE<br />

ARRIVARONO10000<br />

TRIBÙ NOMADI<br />

ENTROTERRA DI<br />

BENGASI<br />

LAVORI DEI<br />

RECLUSI<br />

LAVORI<br />

STRADALI E<br />

EDILIZIA<br />

COLTIVAZIONE<br />

TERRA<br />

ALLEVAMENTO<br />

LAVORI<br />

STRADALI E<br />

EDILIZIA<br />

COLTIVAZIONE<br />

TERRA<br />

ALLEVAMENTO<br />

LAVORI<br />

EDILIZI<br />

FERROVIARI<br />

COLTIVAZIONE<br />

ALLEVAMENTO<br />

LAVORI<br />

STRADALI<br />

ALLEVAMENTO<br />

COSTRUZIONE<br />

DI STRADE<br />

PASTORIZIA<br />

APOLLONIA 628<br />

BARCE 438<br />

AIN GAZALA 426<br />

DRIANA 275<br />

EL NUFILIA 225<br />

DERNA 145<br />

COEFIA-GUARSCIA 145<br />

SIDI CHALIFA 130<br />

NUMERO<br />

RECLUSI<br />

ALL'APERTURA<br />

20000 14500<br />

13000 8500<br />

9000 75OO<br />

20072<br />

8000<br />

SUANI EL TERRIA 100<br />

NUMERO<br />

RECLUSI<br />

ALLA<br />

CHIUSURA<br />

43


CAMPI DI<br />

PUNIZIONE<br />

NOCRA<br />

1895 1930<br />

ERITREA<br />

EL<br />

AGHEILA<br />

1930 LIBIA<br />

DANANE<br />

1935<br />

SOMALIA<br />

DETENUTI<br />

COMPLESSIVI<br />

3000 UOMINI<br />

30000 UOMINI<br />

4500 DONNE<br />

6500UOMINI<br />

500 DONNE<br />

CAMPI DI RIEDUCAZIONE<br />

ANNESSI AI CC<br />

SOLUCH<br />

SIDI EL MAGRUM<br />

AGEDABIA<br />

TIPOLOGIA DETENUTI<br />

SINO AL1910<br />

DELINQUENTI COMUNI<br />

POI DETENUTI POLITICI<br />

TRIBÙ RIBELLI,<br />

NOTABILI SENUSSITI,<br />

DEPORTATI<br />

FUGGIASCHI DAI CC<br />

VOLUTO DA <strong>GRAZIANI</strong><br />

PER ACCOGLIERE I<br />

COMBATTENTI DELLE<br />

ARMATE DI RAS<br />

DESTA'(FRONTE SUD)<br />

MA POPOLATO DAL 1936<br />

DI NOTABILI DI MEDIO E<br />

BASSO RANGO, DI EX<br />

UFFICIALI DI MONACI<br />

COPTI DI PARTIGIANI<br />

ETC.<br />

NUMERO DI<br />

INTERNATI<br />

500 MASCHI 60<br />

FEMMINE<br />

200 MASCHI 30<br />

FEMMINE<br />

120 MASCHI 10<br />

FEMMINE<br />

MARSA EL BREGA 600 RAGAZZI<br />

3175 MUOIONO PER SCARSA<br />

ALIMENTAZIONE, MALARIA<br />

ENTEROCOLITE,MANCANZA DI<br />

IGIENE<br />

SCOPO DEL CAMPO<br />

http://www.criminidiguerra.it/html/bombardagas.htm<br />

INSEGNAMENTO PROFESSIONALE<br />

/ECONOMIA DOMESTICA<br />

ARTIGIANATO/ECONOMIA DOMESTICA<br />

SCUOLA DI AGRICOLTURA E<br />

ORTICULTURA<br />

SCUOLA MILITARE COMANDO TRUPPE<br />

INDIGENE<br />

I bombardamenti con i gas nell'Africa<br />

Orientale Italiana<br />

DATA LUOGO FONTI CARATTERISTICHE<br />

22/12/1935 Dembenguinà<br />

(fronte nord)<br />

Diario storico del comando<br />

aereonautica.8°, 9° stormo.<br />

6 bombe C 500.T a iprite<br />

(prima azione di<br />

44


Dal 23 al<br />

27<br />

dicembre<br />

28/12/35<br />

29/12/35<br />

Dal 2 al 4<br />

gennaio<br />

5 gennaio<br />

1936<br />

Dal 6 al 7<br />

gennaio<br />

Dal 12 al<br />

19 gennaio<br />

19 gennaio<br />

Dal 23 /12<br />

al 23/3<br />

Tacazzè<br />

Sokotà; Lago<br />

Ascianghi<br />

Abbi Addi e guadi<br />

torrente Segalò<br />

Guadi del Ghevà,<br />

Guadi del Tacazzè<br />

zone di Quoram,<br />

varie carovaniere.<br />

11/2/36 Amba Aradan<br />

aprile Lago Ascianghi<br />

George Steer inviato Times<br />

in Etiopia testimonianza di<br />

ras Immirù Hailè<br />

Sellasse.Relazione Dott.<br />

Schuppler, capo ambulanza.<br />

Al ministro degli esteri<br />

etiopico.<br />

Dott.Melly capo ambulanza<br />

inglese.(1)<br />

Telegramma di Hailè Selassiè<br />

alla Società delle nazioni (2)<br />

Autorizzazione di Mussolini<br />

a Badoglio sull'uso dei gas<br />

telegramma 15081<br />

Risposta di Badoglio "già<br />

adoperato iprite"<br />

Diario aereonautico 8° 9°<br />

stormo<br />

Richiesta di Mussolini a<br />

Badogliodi arrestare i<br />

bombardamenti (sino alle<br />

riunioni ginevrine)<br />

telegramma 180<br />

Diario storico del comando<br />

areonautico<br />

Diario storico del comando<br />

areonautico<br />

Nuova autorizzazione di<br />

Mussolini telegramma 790<br />

Diario storico comando<br />

areonautico<br />

Diario storico comando<br />

artiglieria<br />

sbarramento C)<br />

60 bombe a iprite<br />

58 bombe a iprite<br />

45 bombe C 500.T<br />

76 bombe " "<br />

991 bombeC.500.T<br />

Uso di proietti ad<br />

arsine1367(3)<br />

Testimonianza Hailè<br />

Selassiè ( 4)<br />

45


1) Steer "Per la prima volta un popolo che si ritiene civilizzato usa i gas tossici<br />

contro un popolo che si ritiene barbaro. A Badoglio... la gloria di questa ardua<br />

vittoria".<br />

Immirù Hailè Sellasse (generale di Hailè Selassiè): "Fu uno spettacolo terrificante...<br />

Era la mattina del 23 dicembre avevo da poco attraversato il Tacazzè quando<br />

comparvero nel cielo alcuni aeroplani... quel mattino non lanciarono bombe ma<br />

strani fusti che si rompevano non appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume e<br />

proiettavano intorno un liquido incolore... alcune centinaia dei miei uomini erano<br />

rimasti colpiti... e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro<br />

volti si coprivano di vesciche."<br />

Dott. Schuppler: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936<br />

delle bombe a gas sono state usate dagli aviatori italiani. Ho curato 15 casi di<br />

persone... tra cui 2 bambini".<br />

Dott Melly: "Tra il 7 e il 22 marzo ….nella regoine di Ascianghi curammo dai due ai<br />

trecento casi di ustione da iprite..." in (Del Boca I gas di Mussolini, Editori riuniti,<br />

pag. 118 e seg.)<br />

2) "Il 23 dicembre, gli italiani hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione<br />

del Tacazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò costituisce una nuova aggiunta alla lista<br />

già lunga delle violenze fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali."<br />

3) L'arsina agiva sulle mucose e sull'apparato respiratorio con effetti che,a seconda<br />

della concentrazione, potevano essere irritanti o mortali.<br />

4) Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata. Il negus davanti l'atroce<br />

visione dei cadaveri dirà: "Sarebbe stato necessario fissare questa immagine per<br />

poterla presentare al mondo..."<br />

DATA LUOGO FONTI CARATTERISTICHE<br />

15/12/35 Somalia (fronte sud)<br />

24/12/35 Areri<br />

30 /31/35 Dagahbur<br />

Sassabanech Bullaleh<br />

Autorizzazione di<br />

Mussolini a Graziani<br />

sull'uso dei gas<br />

telegramma 14551<br />

Diario storico del<br />

comando dell'aviazione<br />

in Somalia<br />

Diario storico AO<br />

Relazione Graziani all<br />

egato 295<br />

Tra il 15 e Malca Dida (Croce Relazione Graziani<br />

17 bombe a iprite da 21kg<br />

1 a gas fosgene da 41kg<br />

71 bombe come<br />

rappresaglia per la<br />

uccisione di due aviatori<br />

italiani<br />

46


il 30<br />

dicembre<br />

35<br />

6 Gennaio<br />

36<br />

12 /1/36<br />

rossa svedese)<br />

Bullaleh (croce rossa<br />

egiziana) Neghelli<br />

(croce rossa<br />

etiopica)*<br />

Offensiva del Ganale<br />

Doria<br />

Grande sdegno in<br />

Europa.<br />

Telegramma Mussolini a<br />

Graziani n 029: "Approvo<br />

ma ... evitare le<br />

istituzioni internazionali<br />

della Croce Rossa."<br />

Nuova autorizzazione di<br />

Mussolini a Graziani<br />

tel.334<br />

Relazione Graziani<br />

Diario storico del<br />

comando brigata aerea<br />

Diario srorico 31° gruppo<br />

AO<br />

6 bombeC.500.T a iprite<br />

18 da 41 kg a fosgene<br />

25/1/36 10 bombe a iprite da 21 kg<br />

16-25/2/36 Uebi Gestro Bale<br />

marzo<br />

8 aprile<br />

10 aprile<br />

20 aprile<br />

27/4<br />

Sulle difese abissinie<br />

nella zona di Harar<br />

Sassabanech<br />

Dagahbur<br />

Hamanlei, Bircut,<br />

Gunu, Bullaleh<br />

27/4 Sassabaneh<br />

Dal 24dic<br />

al 27 aprile<br />

Bullaleh<br />

Diario storico del<br />

comando brigata aerea<br />

Diario storico del<br />

comando brigata aerea<br />

Relazione Graziani<br />

Telegramma di Mussolini<br />

4081con l'ordine di non<br />

fare uso di mezzi chimici<br />

a Graziani<br />

10 bombe C500.T a iprite e<br />

92 da 41 kg a fosgene<br />

49 bombeC500.T34 da 21<br />

kg a iprite 88 da 41 kg a<br />

fosgene<br />

13 bombe C500.T<br />

Relazione Graziani 12 bombe C500,T<br />

Nuova autorizzazione<br />

Mussolini tel.n7440<br />

Diario storico del<br />

comando brigata aerea<br />

Relazione Graziani<br />

Diario storico del<br />

comando brigata aerea<br />

Relazione Graziani<br />

36 bombe a fosgene<br />

54 bombe a fosgene<br />

30500kg bombe iprite<br />

13300 kg bombe a fosgene<br />

47


Nell'attacco a Malca Dida restò ucciso il medico svedese Lundstrom, 42 ricoverati,<br />

alcuni dei quali colpiti da iprite, e altri 50 restarono feriti .Gli attacchi si<br />

intensificarono nei mesi successivi e distrussero ambulanze etiopiche a Dagabhur,<br />

Ualdià, Macallè, ospedaletti egiziani, inglesi, svedesi e finlandesi e gli unici due<br />

apparecchi della croce rossa etiopica a Dessì e Quoram.<br />

Gli attacchi aerei non finirono con la proclamazione dell'impero, ma si<br />

intensificarono in molte zone.<br />

PERIODO LUOGO FONTI CARATTERISTICHE<br />

Dal Maggio<br />

a<br />

Agosto1936<br />

Tra il 7 e il<br />

12 settembre<br />

21/22<br />

Ottobre<br />

Fine<br />

1936/1937<br />

Sud/ovest Sidamo<br />

Zona Tacazzè<br />

Lasta (roccaforte dei<br />

fratelli Cassa) zona<br />

Tacazzè.Villaggi tra<br />

Lalibelà e Bilbolà.<br />

Zone del Monte<br />

Zuqualà e Debocogio<br />

villaggi rasi al suolo<br />

Ovest, Uollega,<br />

soprattutto vengono<br />

ipritati guadi, torrenti<br />

carovaniere.<br />

Diario storico AOI Bombe C500T<br />

Telegramma Lessona a<br />

Graziani<br />

n°10724"Autorizzo a<br />

impiegare i gas se li ritenga<br />

utile"<br />

Telegrammi Graziani a<br />

Pirzo Biroli e al comandante<br />

dell'aviazione Pinna<br />

n°15633 e 15756(1)<br />

Diario storico AOI<br />

Relazione Gariboldi a<br />

Gallina tel n° 077701 24<br />

ottobre "Zona del monte<br />

Debogogio è stata<br />

ipritata.Prudente informare<br />

le truppe operanti.."<br />

Bombe C500T<br />

Bombe C500T<br />

Diario storico AOI Bombe C500T<br />

Graziani "La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del<br />

Lasta... Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile<br />

necessità di abbandonare questi capi... lo scopo si può raggiungere con l'impiego di tutti<br />

i mezzi di distruzione dell'aviazione per giornate e giornate di seguito essenzial<strong>mente</strong><br />

adoperando gas asfissianti." in Del Boca op cit pag. 60.<br />

48


http://www.criminidiguerra.it/html/EstradizBBC.htm<br />

La mancata estradizione e l'impunità dei<br />

presunti criminali di guerra italiani accusati<br />

per stragi in Africa e in Europa<br />

Da documenti ritrovati al Ministero del Foreign Office si evince che i governi inglese e<br />

americano adottarono una politica di copertura nei confronti dei criminali di guerra<br />

italiani, per motivi di opportunità politica.<br />

Nella Dichiarazione di Mosca del 1943, gli alleati si impegnavano a perseguire i<br />

criminali di guerra nel paese dove i crimini erano stati commessi. Le Nazioni Unite<br />

istituirono una Commissione di inchiesta con il compito di creare una lista dei criminali<br />

di guerra per facilitare l'azione dei governi in tutto il mondo. In questa lista erano<br />

presenti tra altri Badoglio, Graziani, Roatta, Ambrosi.<br />

Come sottolinea lo storico Michael Palumbo, sulla base di documenti trovati negli<br />

archivi di Washington, Londra e Roma, gli anglo-americani erano a conoscenza della<br />

efferatezza dei crimini italiani e, negli anni che seguirono l'armistizio, coprirono<br />

Badoglio e il suo gruppo perché li ritenevano affidabili per il loro anticomunismo.<br />

Nel settembre del 45, infatti, il tribunale speciale prese in esame il "caso Badoglio" e il<br />

Foreign Office, in un telegramma cifrato spedito all'ambasciatore inglese a Roma, fece<br />

pressioni perchè si intervenisse con Parri, allora Presidente del Consiglio dei ministri,<br />

per evitare o rimandare il processo: "Dovrebbe cercare di portare all'attenzione<br />

dell'onorevole Parri in maniera confidenziale e ufficiosa, il prezioso contributo che<br />

Badoglio ha fornito alla causa alleata, esprimere la speranza che questo contributo<br />

venga sottoposto alla attenzione della corte prima dell'udienza".<br />

Parri rinuncia e il "caso Badoglio" fu abbandonato.<br />

Nel 1946 la Jugoslavia e l'Etiopia protestarono per la mancata estradizione dei criminali<br />

di guerra italiani.<br />

Dall'ambasciata della repubblica popolare federale di Jugoslavia al governo militare<br />

alleato: "Per facilitare il compito delle autorità militari a una lista contenente dati<br />

relativi a 40 criminali di guerra italiani è allegata la richiesta da trasmettere alle<br />

autorità competenti ad autorizzare l'arresto e la consegna al governo jugoslavo dei<br />

criminali in questione. Non un solo criminale di guerra italiano è stato consegnato alle<br />

49


autorità giudiziarie jugoslave e questo nonostante ripetute assicurazioni dateci dal<br />

governo di sua Maestà".<br />

Il Ministero degli Esteri britannico sottolinea le sue preoccupazioni: "L'arresto di alcuni<br />

elementi che hanno occupato alte cariche nel ministero della guerra italiano,<br />

provocherebbe un imbarazzo politico. Queste persone hanno aiutato in maniera<br />

esemplare gli alleati. Arrestarli creerebbe uno shock tale nel governo italiano e<br />

nell'opinione pubblica, che ci procurerebbe molti problemi e causerebbe un grande<br />

scontento."<br />

DaL Rapporto del funzionario del Foreign Office competente per i crimini di guerra:<br />

"La giustizia richiede di consegnare questi individui; motivi di convenienza spingono<br />

nella direzione opposta o almeno a non consegnare quelli che occupano posizioni più<br />

importanti".<br />

Il 26 Aprile 1946 Lord Halifacs da Washington esprime il parere americano: "Il<br />

Dipartimento di Stato considera che la migliore tattica per entambi i governi sia tentare<br />

di guadagnare tempo".<br />

J. Calvin del Foreign Office si disse d'accordo: "Questo mi sembrerebbe un caso in cui<br />

l'interesse di tutti sia di temporeggiare più a lungo possibile".<br />

Viene comunicato alla Jugoslavia di aver bisogno di più tempo.<br />

Anche la diplomazia italiana concorda con questa linea, attuando resistenza passiva alle<br />

richiesta dei paesi esteri.<br />

Il Presidente del Consiglio italiano De Gasperi informa l'ammiraglio E.W. Stone (capo<br />

della Commssione Alleata in Italia), che il Ministero della Guerra "sta provvedendo ad<br />

una severa inchiesta, il cui esito sarà appena possibile portato a conoscenza..." della<br />

stessa; nella risposta l'ammiraglio mostra interesse perchè questo gli consente di<br />

prendere tempo con il governo jugoslavo, che richiedeva insistente<strong>mente</strong> la consegna dei<br />

criminali di guerra italiani.<br />

Il 6 maggio 1946 il I governo De Gasperi istituisce una commissione d'inchiesta per i<br />

presunti criminali di guerra italiani, con l'obiettivo "di poter giudicare, con i propri<br />

normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero<br />

fondata<strong>mente</strong> accusati da altri stati."<br />

L'11 settembre 1946 De Gasperi comunica a Stone che la Commissione sta per deferire<br />

ala giustizia penale militare quaranta inquisiti con l'accusa "di essere venuti meno, con<br />

gli ordini o nella esecuzione degli ordini stessi, ai principi del diritto internazionale di<br />

guerra e ai doveri dell'umanità, ed in modo particolare ai principi della inviolabilità<br />

degli ostaggi e alla limitazione del diritto di rappresaglia".<br />

50


Il 21 ottobre 1946 Stone comunica alla Delegazione Jugoslava "di non aver competenza<br />

a richiedere al Governo Italiano la consegna dei criminali di guerra in quanto tale<br />

competenza spetta al paese interessato".<br />

1947 Nuova richiesta della Jugoslavia che si appella nuova<strong>mente</strong> agli inglesi:<br />

"Nonostante i chiari obblighi internazionali il governo britannico e quello americano<br />

hanno dilazionato facendo uso di vari pretesti e ritardato la consegna dei criminali di<br />

guerra italiani; come risultato di questo atteggiamento non uno solo dei 700 criminali<br />

della lista delle Nazioni Unite sui crimini di guerra è stato consegnato alle autorità<br />

jugoslave. Permettere questo stato di cose sta preparando una situazione tale da<br />

minacciare lo sviluppo delle relazioni pacifiche in questa parte d'Europa".<br />

Una settimana dopo l'ammiraglio Stone della Commissione di controllo del Foreign<br />

Office dichiara: "Dal momento che il governo militare alleato è stato smantellato, le<br />

richieste per la consegna degli italiani inseriti nella lista della commissione dei crimini<br />

di guerra, devono essere inoltrate diretta<strong>mente</strong> al governo italiano".<br />

Una scappatoia fu trovata dagli inglesi relativa<strong>mente</strong> al fatto che gli alleati dovevano<br />

prendere in considerazione solo richieste provenienti da canali diplomatici. La<br />

Jugoslavia non aveva l'ambasciata in Italia e non poteva inoltrare richieste.<br />

Il principale interesse inglese era quello di processare italiani responsabili di crimini<br />

commessi contro soldati dell'esercito britannico.<br />

Un caso di questo genere è quello relativo al Generale Bellomo accusato di essere il<br />

responsabile della morte di un prigioniero di guerra britannico ucciso dalle guardie<br />

durante un tentativo di fuga. Bellomo fu l'unico italiano giustiziato dagli alleati,<br />

nonostante gravi irregolarità processuali sottolineate da S. Ray, un corrispondente di<br />

guerra inglese, che seguiva il processo per un giornale nazionale. Ray scriverà al<br />

deputato laburista Igor Thomas: "Sono estrema<strong>mente</strong> turbato; respinto appello del<br />

Generale Bellomo contro sentenza di morte. Ero presente a tutto il processo; non sono<br />

l'unico corrispondente britannico a pensare che il verdetto è contro il peso delle prove,<br />

che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che un insufficiente peso è stato dato a<br />

chiare circostanze attenuanti e al buon carattere del Generale. Se colpevole, Bellomo è<br />

personaggio minore confronto a ex fascisti con i quali stiamo trattando. L'importante non<br />

è nostro prestigio ma diritto Bellomo di beneficiare di considerevoli dubbi che io credo<br />

esistano. Sarei grato se tu potessi fare qualcosa".<br />

L'8 settembre 1945 arriva la risposta del Foreign Office alla richiesta di clemenza del<br />

parlamentare laburista I. Thomas.<br />

"I verbali del processo sono stati attenta<strong>mente</strong> studiati dal Foreign Office e mostrano<br />

come il procedimento sia stato effettuato in maniera normale e completa<strong>mente</strong> giusta. Il<br />

generale Bellomo è stato condannato per aver commesso un omicidio particolar<strong>mente</strong><br />

vigliacco per il quale non possiamo trovare circostanze attenuanti. Siamo sicuri che lei<br />

51


potrà condividere il fatto che l'effetto, sull'opinione pubblica del paese, di un perdono<br />

ingiustificato di un criminale di guerra, sarebbe alta<strong>mente</strong> indesiderato.<br />

Come sottolinea lo storico M. Palumbo: "La più grande ironia fu quella che gli inglesi<br />

giustiziarono l'unico generale antifascista nello stesso momento in cui stavano coprendo<br />

noti criminali di guerra italiani. Bellomo aveva infatti combattuto i tedeschi a Bari e per<br />

questo aveva ricevuto una medaglia d'argento al valor militare. Non piaceva a Badoglio<br />

perchè dimostrò a quegli italiani che erano scappati, come bisognava combattere i<br />

tedeschi".<br />

Bellomo aveva anche salvato la vita a un prigioniero inglese condannato a morte da<br />

alcuni gerarchi locali per aver ucciso due civili. In quella occasione sostenne che il<br />

prigioniero aveva agito per legittima difesa e quindi non si poteva parlare di crimine di<br />

guerra. Al generale Bellomo fu data l'opportunità di scappare ma rifiutò perchè sarebbe<br />

stato contrario al suo onore di militare .<br />

Nel 1947 continuano le pressioni iugoslave per la consegna dei criminali di guerra.<br />

Il ministro italiano per gli affari esteri chiede a inglesi e americani tramite l'ambasciatore<br />

britannico a Roma che: "Al fine di diminuire le pressioni della Jugoslavia sull'Italia, in<br />

rispetto dell'articolo 45 del trattato di pace, il governo di Sua Maestà e quello degli Stati<br />

Uniti scoraggino ulteriori richieste per la consegna di criminali di guerra italiani,<br />

dichiarando di ritenersi soddisfatti di lasciare il processo e l'eventuale condanna di<br />

coloro che non sono ancora stati arrestati al sistema giudiziario italiano".<br />

L'accordo venne raggiunto 6 settimane dopo e il governo americano accettò di lasciare il<br />

processo di colpevoli di crimini contro militari alleati nelle mani dei giudici italiani. Il<br />

governo inglese seguì l'esempio.<br />

Gli alleati creavano così un precedente che rendeva impossibili ulteriori richieste<br />

iugoslave per oltre 800 criminali inclusi nelle liste delle Nazioni Unite.<br />

Come sottolinea Marian Mushkat, delegato polacco alla commissione Onu per i crimini<br />

di guerra (1946/48): "Gli alleati occidentali sfruttarono la loro posizione preminente in<br />

seno alla commissione per i crimini di guerra e respinsero la maggior parte delle<br />

richieste degli iugoslavi ignorando molti documenti preparati dagli iugoslavi<br />

principal<strong>mente</strong> perchè il governo di Belgrado era considerato alleato dell'Unione<br />

Sovietica. Un altro pretesto per respingere i dossier preparati dagli iugoslavi fu quello<br />

relativo alla loro mancata compilazione. Questo argomento si rivelò fittizio perchè i<br />

componenti iugoslavi della commissione per i crimini di guerra erano avvocati brillanti<br />

e esperti in diritto internazionale e i fascicoli da loro sottoposti erano ben preparati e<br />

documentati.".<br />

Nella primavera 1948 si tenne ultima seduta della commissione delle Nazioni Unite per i<br />

crimini di guerra.<br />

52


La Commissione decise di esaminare solo 10 casi tra le centinaia preparati dagli etiopi<br />

rappresentati da uno svedese.<br />

Il primo caso da esaminare fu quello di Badoglio accusato di aver usato gas tossici e di<br />

aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la campagna di Etiopia.<br />

Gli inglesi prendono le difese degli italiani.<br />

ROBERT CRAIGE: "Quasi tutta la campagna di Etiopia è stata elaborata da Mussolini<br />

e Graziani. Ho seri dubbi sulle accuse rivolte a Badoglio anche per quanto riguarda<br />

l'uso di gas tossici. Nulla prova il coinvolgimento di Badoglio nella decisione di farne<br />

uso".<br />

RISPOSTA ETIOPE: "A prescindere dal fatto che i superiori abbiano o meno ordinato<br />

di commettere crimini era loro responsabilità sorvegliare i propri sottoposti e prevenire<br />

che i crimini venissero commessi. Il generale giapponese Yamascito venne condannato<br />

in base a questo principio".<br />

NORWAY RYNNING: "Sono quasi certo che Badoglio, come comandante in capo e<br />

responsabile della realizzazione della campagna, debba in qualche modo essere stato<br />

coinvolto nella decisione di usare gas tossici visto che si tratta di una decisione che deve<br />

essere stata presa ad alto livello".<br />

CRAIGE: "Si ma riguardo al bombardamento degli ospedali e delle ambulanze della<br />

Croce Rossa risulta chiaro dal carteggio che vi sono alcuni dubbi sulla volontarietà dei<br />

bombardamenti".<br />

NORWAY: "Questa non era la posizione del governo britannico nel 35-36 quando<br />

respinse qualsiasi argomento avanzato dal ministro degli esteri italiano per discolparsi<br />

del bombardamento di unità mediche inglesi in Etiopia".<br />

IL GOVERNATORE IMPERIALE ETIOPE: "Si è trattato della prima volta nella storia<br />

in cui la Croce Rossa è stata ripetuta<strong>mente</strong> attaccata e questo avvenne quando Badoglio<br />

era il comandante in capo".<br />

Con gli etiopi spalleggiati da Norvegia e Cecoslovacchia il comitato decise di inserire<br />

Badoglio nella lista come criminale di guerra di grado A per l'uso di gas tossici e per gli<br />

attacchi agli ospedali della Croce Rossa.<br />

Il caso Graziani fu meno controverso e fu inserito con il grado A con 9 capi di<br />

imputazione.<br />

Anche gli altri 7 capi fascisti furono inseriti nella lista (De Bono, Lessona, Pirzo Biroli,<br />

Geloso, Gallina, Tracchia, Cortesi).<br />

Gli etiopi organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di guerra.<br />

53


Nel 1949 l'Italia respinse la richiesta etiope per l'estradizione di Graziani e Badoglio.<br />

Il 17 settembre l'ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office<br />

che considerò la richiesta inopportuna e consigliò di desistere.<br />

Così nessun criminale fu mai estradato.<br />

P. Badoglio morì nel suo letto con un funerale di stato.<br />

R. Graziani fu processato da un tribunale militare e condannato il 2 Maggio 1950 a 19<br />

anni di carcere, di cui 13 condonati, per la sua attività legata alla RSI. La pena da<br />

scontare di un anno e otto mesi fu ulterior<strong>mente</strong> ridotta a quattro mesi per la richiesta<br />

della difesa, subito accolta, di far iniziare la decorrenza della carcerazione preventiva al<br />

1945. Pertanto, quattro mesi dopo la sentenza, il 29 agosto Graziani tornò in libertà<br />

lasciando l'ospedale militare dove aveva trascorso gran parte della durata del processo.<br />

Nel marzo 1953 divenne presidente onorario del MSI. Morì nel 1955 per collasso<br />

cardiaco.<br />

M. Roatta, responsabile di crimini in Jugoslavia, processato dall'Alta Corte di giustizia,<br />

la notte del 4 marzo 1945, nell'imminenza della sentenza, evase con l'aiuto dei servizi<br />

segreti e si recò in Spagna. Rimpatriò nel 1966. (cfr. Franzinelli, in Millenovecento,<br />

Gennaio 2003, pag. 102 e seg.).<br />

C. Geloso e A. Pirzo-Biroli riconosciuti criminali di guerra per la politica repressiva<br />

attuata nelle regioni di cui erano governatori.<br />

S. Gallina, generale, riconosciuto criminale per le violenze, i rastrellamenti, le uccisioni<br />

fatte dalle sue truppe.<br />

G. Cortese, federale, considerato criminale per l'ondata di terrore scatenata ad Addis<br />

Abeba dopo l'attentato Graziani.<br />

R. Tracchia considerato criminale per aver fatto fucilare i fratelli Cassa, dopo aver loro<br />

promesso salva la vita.<br />

Fonte: Fascist Legacy, video-documentario prodotto da BBC, Londra 1990, con la regia<br />

di Ken Kirby e la consulenza storica di Michael Palumbo.<br />

54


http://www.criminidiguerra.it/html/lacommissione.html<br />

La commissione d'inchiesta<br />

per i presunti criminali di guerra italiani<br />

Fu costituita con Decreto il 6 maggio 1946 presso il Ministero della Guerra (poi della<br />

Difesa).<br />

Con questo atto il Governo italiano, come documentato da F.Focardi e L. Klinkhammer,<br />

cercava di evitare che i presunti criminali di guerra italiani venissero consegnati ai<br />

governi esteri, da cui venivano richiesti per essere processati.<br />

Infatti la dichiarazione finale della Conferenza di Mosca del 30 ottobre 1943 prevedeva<br />

che gli italiani che si erano resi colpevoli di crimini nei paesi occupati dovevano essere<br />

"consegnati alla giustizia"; questo fatto era assodato anche per gli stessi diplomatici<br />

italiani che seguivano la questione.<br />

Ma la scelta politica di non consegnare i presunti criminali venne motivata attraverso<br />

un'interpretazione strumentale della dichiarazione di Mosca da parte del Governo De<br />

Gasperi, sostenendo tra l'altro la necessità di svolgere gli eventuali processi in Italia.<br />

Ma il Trattato di pace (nell'art.38 della bozza presentata il 18.7.1946 e nell'art. 45 della<br />

versione definitiva firmata il 10.2.1947) prevedeva che l'Italia arrestasse e consegnasse<br />

ai paesi richiedenti le persone accusate di aver ordinato, commesso o essere stati<br />

complici di crimini di guerra, di crimini contro la pace e di crimini contro l'umanità.<br />

Quindi la ventilata possibilità di sottoporre alla Magistratura italiana militari e civili<br />

italiani accusati di crimini di guerra, non poteva schiacciare il diritto delle nazioni<br />

colpite da azioni crimini attuate dall'esercito italiano.<br />

In più venivano riconosciute responsabilità dei militari italiani anche per quei crimini<br />

contro l'umanità e contro la pace ritenuti addebitabili - secondo l'interpretazione<br />

ufficiale italiana - solo ai nazisti.<br />

Allo scopo di rendere meno attaccabile il rifiuto di consegnare i presunti criminali<br />

richiesti, il Ministro della Guerra Brosio propose di istituire una commissione di<br />

inchiesta stretta<strong>mente</strong> tecnica, per vagliare le accuse ed eventual<strong>mente</strong> deferire<br />

all'autorità giudiziaria gli inquisiti.<br />

Quindi questa avrebbe dovuto essere composta da alti generali ed ex-ministri della<br />

guerra dei governi succedutisi dopo l'8 settembre 1943.<br />

Il decreto ministeriale istituì quindi una commissione composta da sei avvocati (di cui<br />

tre erano deputati) e tre generali (in rappresentanza delle tre armi: esercito, marina e<br />

aviazione).<br />

55


I tempi di lavoro della commissione<br />

La commissione operò per i primi mesi sotto la presidenza dell'ex-ministro della Guerra<br />

il senatore liberale Alessandro Casati. Nell'autunno del 1946 ne divenne presidente l'exministro<br />

dell'Aeronautica il parlamentare Luigi Gasparotto, che poco dopo la lasciò<br />

essendo diventato Ministro della Difesa (da cui dipendeva la Commissione stessa), ma<br />

per diventarne nuova<strong>mente</strong> presidente a partire dal dicembre del 1947.<br />

Dalla documentazione visionata si è potuto accertare che la commissione proseguiva i<br />

lavori ancora nel luglio 1948.<br />

Nell'agosto dell'anno seguente, mutate le condizioni di politica internazionale, la<br />

Commissione aveva cessato il proprio lavoro.<br />

La Memoria della commissione.<br />

Nell'archivio dello stesso Gasparotto è depositata la premessa e la prima parte della<br />

Memoria redatta dalla Commissione stessa, che illustra l'impostazione sulla cui base<br />

venne svolto il lavoro di analisi delle accuse e della documentazione inviata dal Governo<br />

jugoslavo.<br />

Nella Memoria compaiono ampie giustificazioni per le azioni criminose dei generali<br />

italiani; confrontandole con gli atti di difesa redatti dagli inquisiti (reperiti nello stesso<br />

archivio) si può constatare un'assoluta uguaglianza di motivazioni.<br />

Infatti il documento precisa che la commissione "tenuto nel debito conto il particolare<br />

ambiente in cui le persone indiziate come colpevoli di crimini di guerra ebbero a<br />

svolgere la loro attività".<br />

Singolare è anche la coincidenza dell'analisi della situazione politica e militare fatta della<br />

Commissione con quella che emerge nei documenti redatti dai generali inquisiti, in<br />

particolare nel testo di Orlando e Robotti del novembre 1941 inviato al comandante della<br />

II Armata.<br />

Nella Memoria inoltre viene presentata una ricostruzione storica dell'occupazione<br />

italiana dei territori jugoslavi tra l'aprile 1941 ed il settembre 1943 (ovvero parte della<br />

Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro).<br />

Viene tratteggiata un'immagine positiva del ruolo dell'esercito italiano: questo sarebbe<br />

stato ben accolto dalla popolazione (anche perché l'occupazione tedesca era più temuta)<br />

ed avrebbe avuto anche il merito di porre un freno alle terribili violenze degli ustascia<br />

croati.<br />

56


Ma, secondo il documento, questa situazione quasi idilliaca sarebbe gradual<strong>mente</strong><br />

mutata e "nell'estate del 1942, in conseguenza della situazione generale e soprattutto<br />

dell'entrata in guerra della Russia, le formazioni ostili assunsero maggior<strong>mente</strong><br />

consistenza e migliore organizzazione; fra esse primeggiarono quelle partigiane" filosovietiche.<br />

A questo punto la Commissione ammette che vennero adottati "veri provvedimenti<br />

repressivi, quali l'internamento delle persone sospettate di partecipare alla lotta<br />

partigiana o abitanti nelle vicinanza dei luoghi ove venivano compiuti atti di sabotaggio,<br />

operazioni di rastrellamento a breve e a largo raggio, ed azioni di rappresaglia per atti<br />

compiuti dal nemico in contrasto con le leggi di guerra".<br />

Il documento sostiene che in seguito a "gravi e numerosi … atti di ferocia commessi dai<br />

partigiani contro i militari da essi catturati: … le nostre Autorità dovettero adottare dei<br />

provvedimenti di rigore che, in altre condizioni, si sarebbero dovuti senz'altro<br />

considerare eccessivi".<br />

Quindi la Memoria conclude la parte riguardante la Jugoslavia, ribadendo il ruolo<br />

positivo dei comandanti italiani in quanto i delitti "più atroci, le barbare distruzioni di<br />

interi villaggi e di edifici" sarebbero stati opera dei gruppi etnici in lotta fra loro, mentre<br />

"le nostre Autorità di occupazione" sarebbero intervenute "per assicurare una vita<br />

pacifica alle popolazioni".<br />

E' chiaro dall'analisi di questo documento, che ha guidato l'azione della commissione,<br />

che questa si è fatta interprete delle indicazioni politiche, che emergono anche dai<br />

documenti del Ministero degli Affari Esteri.<br />

Infatti tra i nomi degli italiani richiesti per crimini di guerra figuravano quelli di ufficiali,<br />

funzionari, uomini politici che ricoprivano alte cariche nello Stato italiano, come ha<br />

scritto il ministro Brosio.<br />

Molti generali, indicati nelle liste della Commissione delle Nazione Unite come<br />

criminali di guerra, ricoprivano incarichi nel Ministero della Guerra, addirittura il gen.<br />

Orlando, uno dei teorici e degli artefici della repressione in Slovenia, era stato ministro.<br />

Quindi la Commissione più che d'Inchiesta, sembrava un collegio di difesa per quasi tutti<br />

gli indagati.<br />

Facevano eccezione alcuni, ad esempio gli alti ufficiali del Tribunale Straordinario della<br />

Dalmazia, per cui, leggendo gli atti, si desume che fosse stato deciso il sacrificio forse<br />

ad una condanna a qualche anno di carcere.<br />

Ma queste affermazioni vengono puntual<strong>mente</strong> contraddette da numerose circolari e<br />

disposizioni emanate dai generali comandanti, che dimostrano senza alcun dubbio, la<br />

feroce volontà repressiva e vessatoria dei comandanti militari nei confronti della<br />

popolazione civile e dei partigiani.<br />

57


Questi documenti erano a disposizione della Commissione, sia diretta<strong>mente</strong> negli archivi<br />

militari italiani sia presso quelli alleati.<br />

Ma un'altra conferma di tutto questo emerge dal diario di un cappellano militare, don<br />

Pietro Brignoli, edito postumo nel 1972, dal titolo Santa messa per i miei fucilati, in cui<br />

lo stesso testimonia le feroci rappresaglie operate dall'esercito italiano; infatti il<br />

sacerdote era inquadrato nel II reggimento (comandante prima col. E.Silvestri, quindi<br />

col. U.Penna) della divisione Granatieri di Sardegna, operante in Slovenia ed in Croazia<br />

tra il maggio 1941 ed il novembre 1942, e prestò assistenza religiosa ai molti ostaggi<br />

civili, e ai pochissimi partigiani catturati, che quasi ogni giorno venivano<br />

sommaria<strong>mente</strong> “giudicati” dal tribunale di guerra del reggimento e subito fucilati;<br />

questo prete, un fervente anticomunista, narra dolorosa<strong>mente</strong> anche del sistematico<br />

incendio di villaggi, della deportazione della popolazione nei campi di concentramento e<br />

dei continui furti operati dagli ufficiali e dalla truppa verso i civili.<br />

Le liste dei presunti criminali di guerra predisposte dalla commissione<br />

11 settembre 1946. In una lettera al Capo della Commissione Alleata Ammiraglio E. W.<br />

Stone, in risposta ad una sua in data 2 maggio 1946, il Presidente del Consiglio De<br />

Gasperi scrive che “la Commissione ha redatto un elenco di quaranta nomi di militari e<br />

civili, contro i quali può essere elevata l'accusa … di essere venuti meno ai principi del<br />

diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità”.<br />

23 ottobre 1946. Un primo comunicato della commissione d'inchiesta indicava i nomi di<br />

sei inquisiti: i generali Roatta, Robotti e Magaldi, i ten. col. Sorrentino e Caruso, e<br />

l'ambasciatore Bastianini.<br />

13 dicembre 1946. Un secondo comunicato della commissione indicava altri otto nomi<br />

(fra cui i generali Pirzio Biroli, Gambara e Coturri, e inoltre Giunta e Grazioli.<br />

Dal gennaio al maggio 1947 vennero emessi altri comunicati che indicavano in una<br />

ventina gli inquisiti deferibili al tribunale militare per crimini di guerra.<br />

Nell'archivio Gasparotto sono conservate tre liste di lavoro della commissione<br />

d'inchiesta in cui sono indicati i nomi di militari e civili accusati da paesi esteri di<br />

crimini di guerra e di crimini contro l'umanità:<br />

Situazione al 25 gennaio 1947 12 gennaio 1948 23 marzo 1948<br />

Deferiti 13 28 29 (+1)<br />

Discriminati 23 111 133<br />

58


Sospesi 7 2 6<br />

Totale 43 141 168<br />

Quindi la lista smentisce i dati indicati da De Gasperi a Stone, ridimensionando le cifre.<br />

Come indica la tabella i quaranta nomi in realtà si riducono a tredici presunti criminali di<br />

guerra da deferire al tribunale militare.<br />

La commissione in quasi due anni di lavoro (maggio 1946 - marzo 1948) ha giudicato<br />

deferibili al Tribunale militare solo 29 inquisiti (su 168 accusati esaminati a cui vanno<br />

aggiunti il personale del campo di concentramento di Arbe, ufficiali, sottufficiali e<br />

truppa delle divisioni "Re" e "Zara").<br />

In realtà al gennaio 1948 i criminali di guerra la cui consegna era richiesta al Governo<br />

italiano da paesi esteri erano 295, che devono essere aggiunti ai 1697 compresi nelle liste<br />

delle Commissioni Onu per i crimini di guerra.<br />

Quindi a fronte di 1992 casi segnalati dai paesi che avevano subito l'occupazione<br />

militare italiana e dagli Alleati, la Commissione ne valutò, in base ai documenti citati,<br />

168 e non prese in considerazione le azioni svolte dai militari italiani in Africa (Libia,<br />

Eritrea, Etiopia e Somalia) dove vennero usate bombe a gas e venne praticata una<br />

durissima repressione, attraverso la deportazione in campi di concentramento, torture ed<br />

esecuzioni sommarie anche nei confronti dei civili.<br />

Le conclusioni del Governo<br />

Alla luce di quanto riportato e dei rivolgimenti politici avvenuti tra il 1947 ed il 1948, il<br />

processo contro i 29 deferiti al Tribunale militare non fu mai celebrato. Non solo per i<br />

noti motivi (la Guerra fredda, per cui si ripuliva il passato di nazisti e di fascisti per<br />

utilizzarli nella lotta al blocco sovietico), ma anche perché da parte degli alti generali<br />

italiani (per la maggior parte, i medesimi che comandavano l'esercito monarchico agli<br />

ordini del Comandante Supremo Mussolini) non vi era nessuna intenzione di condannare<br />

i propri colleghi, seppur responsabili di provati crimini efferati.<br />

Infatti l'istruttoria per almeno 26 deferiti dalla Commissione d'inchiesta venne<br />

completata entro il gennaio 1948, ma d'altro canto lo stesso Governo italiano era conscio<br />

della non opportunità di svolgere processi contro presunti criminali di guerra italiani<br />

contemporanea<strong>mente</strong> a quelli contro i presunti criminali tedeschi (che stavano iniziando<br />

in Italia nei primi mesi del 1948), proprio perché “le accuse che noi facciamo ai tedeschi<br />

sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro imputati italiani”.<br />

Quindi, come scrisse il 20 agosto 1949 il Direttore Generale degli Affari politici del<br />

Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all'ammiraglio Franco Zannoni, capo<br />

gabinetto del ministro della difesa, “la Commissione d'inchiesta che … non doveva dare<br />

l'impressione di scagionare ogni persona esaminata …selezionò un certo numero di<br />

59


ufficiali che furono rinviati a giudizio … Fu spiccato nei loro confronti mandato di<br />

cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto … ciò fu fatto con il preciso e<br />

unico intento di sottrarli alla consegna [agli jugoslavi ndr]… Ottenuto questo risultato e<br />

venuto meno le ragioni di politica estera … il Ministero degli Affari esteri considera la<br />

questione non più attuale”.<br />

L'epilogo.<br />

Le conclusioni della questione sono custodite gelosa<strong>mente</strong> negli archivi del Ministero<br />

della difesa, ma si può presumere, alla luce dei documenti analizzati, che i mandati di<br />

cattura siano stati ritirati ed anche i militari rinviati a giudizio per crimini di guerra<br />

abbiano potuto poi concludere (per la maggior parte) la propria carriera nell'esercito<br />

dell'Italia democratica e antifascista.<br />

Il Governo italiano, ex-ministri e gli alti quadri militari della neonata Repubblica italiana<br />

erano consci dei crimini operati dai militari italiani nel corso delle guerre coloniali e nel<br />

II conflitto mondiale e ne avevano le prove documentali.<br />

Ma il Governo ha operato per evitare non solo di consegnare, ma anche di giudicare i<br />

presunti colpevoli delle stragi.<br />

A questo scopo consapevol<strong>mente</strong> ha rinunciato al diritto/dovere di richiedere la<br />

consegna e di perseguire i militari tedeschi accusati di strage in Italia.<br />

Infatti richiedere la consegna di numerosi presunti criminali tedeschi per processarli in<br />

Italia, avrebbe voluto ammettere il principio e quindi non potersi rifiutare di consegnare i<br />

propri presunti criminali di guerra ad altri paesi richiedenti.<br />

Lo afferma l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, con la piena condivisione<br />

dei dirigenti del ministero stesso, in una lettera al Ministero degli Affari Esteri il 7<br />

gennaio 1946: “… Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo<br />

solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei paesi che sostengono di aver<br />

diritto alla consegna di criminali italiani”.<br />

Quindi la giustizia sta ancora aspettando, non solo per le vittime delle stragi tedesche,<br />

ma anche per tutti gli innocenti trucidati o mandati a morire da quei generali italiani<br />

primi protagonisti dell'aggressiva vocazione colonialista dello stato italiano.<br />

SI NOTI CHE TRA LE IMPUTAZIONI A <strong>GRAZIANI</strong>;<br />

BADOGLIO ED ALTRI CRIMINALI NON FIGURANO LE<br />

ATROCITA’ AFRICANE.<br />

60


Direttive di Mussolini per l'aggressione<br />

all'Etiopia [30/12/'35]<br />

Il problema dei rapporti italo-abissini si è spostato in questi ultimi tempi su un piano<br />

diverso: da problema diplomatico è diventato un problema di forza; un problema<br />

"storico" che bisogna risolvere con l'unico mezzo col quale tali problemi furono sempre<br />

risolti: coll'impiego delle armi. [...] Il tempo lavora contro di noi. Più tarderemo a<br />

liquidare il problema e più sarà difficile il compito e maggiori i sacrifici [...] Bisogna<br />

risolvere il problema il più presto possibile, non appena cioè i nostri apprestamenti<br />

militari ci diano la sicurezza della vittoria. Decisi a questa guerra, l'obiettivo non può<br />

essere che la distruzione delle forze armate abissine e la conquista totale dell'Etiopia.<br />

L'impero non si fa altrimenti. [...]<br />

Condizione essenziale, ma non pregiudiziale della nostra azione, è quella di avere alle<br />

spalle un'Europa tranquilla almeno per il biennio 35-36 e 36-37, che dovrebbe essee il<br />

periodo risolutivo. Un'esame della situazione quale si presenta agli inizi del 1935,<br />

permette di prevedere che, nei prossimi anni, sarà evitata la guerra in Europa. [... ] -Per<br />

una guerra rapida e definitiva, ma che sarà sempre dura, si devono predisporre grandi<br />

mezzi. Accanto ai 60 mila indigeni, si devono mandare almeno altrettanti metropolitani.<br />

Bisogna concentrare almeno 250 apparecchi in Eritrea e 50 in Somalia.<br />

Carri armati 150 in Eritrea e 50 in Somalia. Superiorità assoluta di artigieria e di gas. I<br />

60 mila soldati della metropoli - meglio ancora se 100 mila - devono essere pronti in<br />

Eritrea per l'ottobre 35.<br />

Umanità sì, promiscuità no!<br />

Direttive di Mussolini a Graziani per l'impiego dei gas asfissianti.<br />

- Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per<br />

sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco [27 ottobre 1935]. - Autorizzo<br />

vostra eccellenza all'impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme.<br />

[28 dicembre 1935] - Approvo piena<strong>mente</strong> bombardamento rappresaglia e approvo fin<br />

da questo momento i successivi. Bisogna soltanto cercare di evitare le istituzioni<br />

internazionali e la croce rossa. [2 gennaio 1936] - Occupata Addis Abeba vostra<br />

eccellenza darà ordini perché: 1] siano fucilati sommaria<strong>mente</strong> tutti coloro che in città o<br />

dintorni siano sorpresi con le armi in mano; 2] siano fucilati sommaria<strong>mente</strong> tutti i<br />

cosiddetti giovani etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi; 3]<br />

siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi; 4] siano<br />

sommaria<strong>mente</strong> fucilati quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco<br />

e munizioni. [3 maggio 1936] - Uno straniero mi segnala di aver veduto il giorno 15<br />

aprile a Massaua un sottuficiale della regia marina giocare amichevol<strong>mente</strong> a carte con<br />

61


un indigeno. Deploro nella maniera più grave queste dimestichezze e ordino siano<br />

evitate. Umanità sì, promiscuità no. [5 maggio 1936].<br />

http://www.romacivica.net/anpiroma/FASCISMO/fascismo14.htm<br />

La guerra di Etiopia (1935)<br />

Gli italiani in Etiopia: l'uso dei gas, la persecuzione degli ebrei libici<br />

di Giovanni De Luna<br />

Le grotte si aprivano nelle rocce sulla destra del fiume profonde, inaccessibili. Per<br />

stanare i guerriglieri occorreva penetrare in stretti cunicoli dove poteva passare un uomo<br />

alla volta, facile bersaglio dei difensori. Si decise di inondarli di gas velenoso. I risultati<br />

furono definitivi e terrificanti. «28 marzo 1936... Sono stato a visitare i campi di<br />

battaglia che si trovano nei pressi di Selaclacà... ciò che mi ha fatto maggiore<br />

impressione è stata la vista di un gruppo di abissini morti in una specie di caverna, ben<br />

nascosta, che sembrava un infido nido difficil<strong>mente</strong> scovabile. Sono in tutto nove<br />

giovani vite, e sono abbracciate, o meglio afferrate una all'altra in una stretta disperata: il<br />

loro atteggiamento, le loro posizioni, e quel loro aggrapparsi alla terra o al compagno,<br />

mostrano evidente che morirono nel momento istesso che tentavano di fuggire<br />

disperata<strong>mente</strong> alla morte certa; e caddero così... come se in quel momento un fulmine li<br />

avesse improvvisa<strong>mente</strong> e per sempre fermati e fotografati...». Non sono le grotte di<br />

Tora Bora: siamo in Etiopia, nel 1935 e la testimonianza è quella di un soldato italiano,<br />

Manlio La Sorsa, impegnato nella guerra scatenata dall'Italia fascista contro il regno del<br />

Negus. Pure, le grotte, le armi terrificanti, e soprattutto quei corpi avvinghiati nella<br />

morte ci restituiscono il fondo destoricizzato che ogni guerra porta con sé: dall'Etiopia<br />

all'Afghanistan, dal 1935 al 2001, in un tempo e in uno spazio radical<strong>mente</strong> diversi,<br />

sembra che alla fine tutto si riduca a una ciclica ripetizione di gesti, a un frenetico<br />

andirivieni tra il morire e dare la morte. Quella guerra il fascismo la vinse soprattutto<br />

grazie alla superiorità tecnologica, all'uso di armi e di tecniche militari terribil<strong>mente</strong><br />

distruttive (i bombardamenti aerei, i gas) anticipando una delle configurazioni tipiche<br />

delle guerre postnovecentesche in cui - («guerra del golfo», Kosovo, Afghanistan) - il<br />

confronto è tra uomini e macchine, con ordigni sofisticati che riescono quasi ad azzerare<br />

le perdite nel proprio campo. La testimonianza del soldato italiano si presta anche a altre<br />

letture più interne alla nostra storia, che chiamano in causa «nodi» irrisolti della nostra<br />

memoria collettiva su cui vale la pena riaccendere i riflettori del dibattito storiografico.<br />

Quella di La Sorsa è infatti solo una delle tante voci raccolte in un libro appena uscito di<br />

Nicola Labanca (Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d'Africa,<br />

Museo storico Italiano della Guerra); un'antologia di grande efficacia che, per la prima<br />

volta, ci restituisce nitida<strong>mente</strong> gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato<br />

coloniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrotta<strong>mente</strong> fino<br />

alla metà del Novecento. Labanca ha paziente<strong>mente</strong> raccolto lettere, diari, carteggi e<br />

memorie sparse in vari archivi (il fondo più consistente è quello conservato nell'Archivio<br />

62


diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), una documentazione straripante che lascia<br />

affiorare l'intero universo di quelle centinaia di migliaia di italiani che - tra il 1882 e il<br />

1943 -, in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel nostro «sogno africano».<br />

Per la maggior parte si tratta di scritti di petit blancs; non i diplomatici, quindi, non i<br />

militari, non quelli che andarono in colonia per assumere cariche istituzionali e<br />

amministrative o per investire grandi capitali, ma tutta la massa di quelli «che si mossero<br />

portando con sé solo se stessi e al massimo le proprie famiglie, con l'ausilio solo delle<br />

proprie braccia da lavoro o del proprio modesto titolo di studio, contadini, piccoli<br />

commercianti, microimprenditori». Furono l'assoluta maggioranza dei nostri coloniali; ai<br />

Censimenti del ventennio risultavano infatti solo un 2% di possidenti e imprenditori e un<br />

5% di professionisti; per il resto, furono in gran parte i ceti medi a lasciarsi coinvolgere<br />

nei nostri progetti di dominio coloniale: in Africa cambiarono il loro nome - diventando<br />

petit blancs, appunto - ma non la propria condizione sociale. L'eccezionalità di questa<br />

documentazione sta proprio nella sua provenienza: tradizional<strong>mente</strong> i ceti medi<br />

costituiscono un universo sociale amorfo, abituato a lasciare scarne testimonianze della<br />

sua «piccola storia», pronto a delegare il proprio protagonismo ai poteri forti che<br />

costruiscono la «grande storia». Qui, invece, è come se l'enormità dell'avventura africana<br />

ne stimoli i ricordi, li solleciti a rompere la crosta del loro tradizionale riserbo per<br />

lasciare libera<strong>mente</strong> fluire passioni, invettive, recriminazioni, entusiasmi, nostalgie.<br />

Lungo questo percorso si incontrano testimonianze che si limitano ad aggiungere<br />

particolari inediti a quanto già si sapeva: ad esempio, il nesso ideologico tra le leggi<br />

contro gli ebrei del 1938 e la pratica di separazione razzista nei confronti della<br />

popolazione indigena avviata nei possedimenti coloniali, in particolare nell'Etiopia<br />

appena conquistata. Così, i ricordi di Arthur Journò ribadiscono questo collegamento.<br />

Siamo nel 1938 e Journò è un giovane ebreo italiano che vive a Tripoli. Il Governatore<br />

della colonia, Italo Balbo, ordina agli ebrei di tener aperti i loro negozi anche il sabato.<br />

Ovvia<strong>mente</strong> i negozi restarono chiusi. A quel punto i fascisti prendono dieci ebrei libici<br />

e decidono per una loro pubblica fustigazione: «in mezzo alla piazza alcuni genieri<br />

dell'esercito avevano eretto un palco abbastanza alto proprio per dare la possibilità a<br />

tutto il popolino di godere dello spettacolo... non so dire quante frustate ogni condannato<br />

ricevette, tenni gli occhi chiusi e sentivo solo i lamenti e i battiti delle mani della gente<br />

che gridava piena di odio».<br />

Altre testimonianze ribadiscono stereotipi razziali, con particolare riferimento alle<br />

donne, («Entrando, l'ingresso è squallido e umido. Un odore strano di erbe e di altre<br />

sostanze non definibili fluttua qui dentro; le abitatrici si avvicinano curiose, timide e<br />

sorridenti. Sembrano tante bestie rare...», Unno Bellagamba, 1935) che esaltano la natura<br />

ferina delle popolazioni nere, in un misto di disprezzo e timori ancestrali. In quasi tutte<br />

domina poi un'autorappresentazione forte<strong>mente</strong> segnata dalla propaganda colonialista, in<br />

particolare - per quanto si riferisce all'Etiopia - di quella fascista, segnata dal trinomio<br />

«Dio, Patria, Famiglia»: «Dio, andare in Africa significava evangelizzare, essere<br />

missionari, pionieri in terre sconosciute e abitate da popoli primitivi; Patria, assicurare al<br />

proprio paese le materie prime, il lavoro e la possibilità di emigrare, accrescere il<br />

prestigio del nostro popolo; Famiglia, una via più breve e più sicura per realizzare i<br />

sogni della famiglia, significava trovare un impiego al termine della campagna della<br />

conquista coloniale, nella stessa terra africana per la quale avevo arrischiato la vita»,<br />

63


(Angelo Filippi, 1935). Sotto queste esplicite intenzioni affiora, però, anche una realtà<br />

diversa, quasi che quei documenti alla fine parlino «malgrado se stessi». Certa<strong>mente</strong> in<br />

essi incontriamo la guerra, la dimensione epica del «mal d'Africa», l'orgoglio di sentirsi<br />

allo stesso tempo italiani e conquistatori; ma incontriamo anche la vita quotidiana, le<br />

abitudini e le relazioni sociali, mode e comportamenti collettivi e - soprattutto - il lavoro,<br />

tanto lavoro. Camionisti e braccianti, coloni agricoli e commercianti, piccoli artigiani e<br />

impiegati, per tutti la vita in colonia è essenzial<strong>mente</strong> il lavoro, la fatica, il confronto<br />

assiduo con una natura sconosciuta, poche volte apprezzata per la sua bellezza, più<br />

spesso maledetta per le sue asperità. La centralità del lavoro toglie, alla fine, ogni epicità<br />

a quei ricordi e ci consegna una delle chiavi per spiegare il «mistero» del loro inabissarsi<br />

fino a scomparire dalla nostra memoria collettiva. Per i petit blancs italiani la fine del<br />

sogno africano coincise, infatti, con la rovinosa sconfitta militare dell'Italia fascista. Il<br />

loro ritorno in patria fu traumatico. Nella nuova Italia repubblicana non c'era più nessun<br />

posto al sole da magnificare e difendere. I neofascisti tentarono di cavalcarne<br />

recriminazioni e rimpianti. Anche la Dc lo fece, in un modo tipica<strong>mente</strong> democristiano,<br />

alimentando cioè una politica pura<strong>mente</strong> assistenziale, con una legislazione che<br />

soddisfaceva tutte le loro richieste economiche, rifiutandone però la dimensione<br />

ideologica e revanscista; si assicurò i loro voti, se non la loro riconoscenza. Alla fine,<br />

quando smisero anche di essere un serbatoio di voti, la loro memoria divenne solo un<br />

oggetto storiografico da studiare.<br />

(La Stampa, 14 gennaio 2002)<br />

______________________-<br />

Fascismo e colonialismo<br />

64


"La donna bianca e l'uomo nero"<br />

norme a cura dell'Istituto coloniale fascista, 1937<br />

Costretti a continui contatti con l'indigeno, bisogna studiarne attenta<strong>mente</strong> la mentalità<br />

per poterlo guidare, senza urti ma con mano sicura, a contribuire util<strong>mente</strong> col suo<br />

lavoro ai fini che noi ci ripromettiamo di conseguire. Caratteristica generale del negroide<br />

e del negro dell'Africa equatoriale è la poca disposizione ad un intenso e prolungato<br />

lavoro, un acuto senso della giustizia ed un profondissimo rispetto della forza. La poca<br />

disposizione pel lavoro è logica conseguenza delle scarsissime esigenze di vita dei<br />

popoli primitivi e spesso della facilità con cui essi possono ottenere senza grandi sforzi<br />

tutto quanto serve alla loro esistenza, per l'abbondanza dei frutti della terra e degli<br />

animali, che procurano loro spontanea<strong>mente</strong> ciò che occorre per il nutrimento, per il<br />

ricovero e per il rudimentale abbigliamento. La giustizia e la forza sono concetti così<br />

radicati nell'animo di tutti i popoli primitivi che devono essere alla base di ogni rapporto<br />

con loro.<br />

http://www.anpi.it/colonie/cirenaica.htm<br />

Le guerre coloniali del fascismo<br />

La Cirenaica<br />

La Cirenaica è la zona più ricca della Libia. L’altopiano del Gebel in particolare, grazie<br />

alla presenza di piogge, offre maggiori possibilità di coltivazione e di allevamento del<br />

bestiame che nel resto del Paese. La vita delle popolazioni seminomadi di religione<br />

musulmana è regolata dalla Senussia, un’organizzazione statuale nata agli inizi<br />

dell’Ottocento. Articolata in numerose "zauie" periferiche, la Senussia ha funzioni sia<br />

politiche che religiose e regola l’attività dei commerci, del pagamento delle decime e<br />

dell’attività amministrativa e giudiziaria. Il carattere forte<strong>mente</strong> radicato della Senussia<br />

fa sì che in Cirenaica la ribellione alla colonizzazione sia più diffusa e difficile da<br />

sconfiggere perché mimetizzata nel territorio e sostenuta dalla popolazione.<br />

Nel gennaio 1930 il generale Rodolfo Graziani viene nominato vicegovernatore della<br />

Cirenaica e affianca il governatore Pietro Badoglio nell’attuazione della "fase finale"<br />

della repressione della resistenza antitaliana, guidata da Omar al-Mukhtar. Si apre una<br />

guerra senza quartiere: viene attuato un piano di deportazioni delle tribù seminomadi<br />

che appoggiano i ribelli, si ordina di impiccare i capi ribelli catturati, viene emanato un<br />

proclama i cui si afferma che se il nemico non si piega, sarebbe stato sterminato: ogni<br />

cosa sarebbe stata distrutta, le proprietà confiscate, i colpevoli puniti persino nelle loro<br />

famiglie; vengono istituiti tribunali volanti con diritto di morte per reati quali il possesso<br />

65


di armi da fuoco o il pagamento di tributi ai ribelli; viene permesso l’utilizzo di<br />

strumenti bombe ad aggressivi chimici, come testimonia un dispaccio di Badoglio al<br />

vicegovernatore Siciliani del 10 gennaio 1930: "Continui rastrellamenti e vedrà che<br />

salterà fuori ancora qualcosa. Si ricordi che per Omar al-Mukhtar occorrono due cose:<br />

primo, ottimo servizio di informazioni; secondo, una buona sorpresa con aviazione e<br />

bombe iprite. Spero che dette bombe le saranno mandate al più presto".<br />

La riconquista della Cirenaica dura circa due anni e si conclude con un impressionante<br />

bilancio di vittime tra la popolazione.<br />

Per togliere ai ribelli ogni sostegno da parte della popolazione, Graziani e Badoglio<br />

decidono che dal 25 giugno 1930 vengano creati dei campi di concentramento vicini alla<br />

costa per le popolazioni del Gebel che avevano dato appoggio alla resistenza antitaliana.<br />

Questi campi non solo rompono ogni legame tra popolazione e ribelli, ma spezzano ogni<br />

possibilità di autosussistenza delle comunità seminomadi. In sei campi principali e una<br />

decina di minori vengono deportate, dopo lunghe marce forzate, tra le 100 e le 120.000<br />

persone, con tutti i loro beni e le loro greggi (circa un milione di animali), costrette a<br />

vivere in aree ristrette, dove le condizioni di vita diventano subito ai limiti della<br />

sopravvivenza. In una lettera a Graziani del 20 giugno 1930 Badoglio scrive: "Bisogna<br />

anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e<br />

popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo<br />

provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma<br />

ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine, anche se<br />

dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica".<br />

Per togliere ai ribelli l’aiuto che proveniva dall’Egitto (dove si sono rifugiati circa<br />

20.000 libici), alle popolazioni della Cirenaica viene proibito ogni tipo di commercio<br />

con l’Egitto. A questo scopo dall’aprile al settembre 1931 viene innalzata una barriera di<br />

filo spinato, alta quattro metri, lungo i 275 chilometri tra il porto di Bardia e l’oasi di<br />

Giarabub, il cui tracciato viene controllato per mezzo di fortini e voli aerei. Inoltre i<br />

santuari locali dei Senussi vengono chiusi, sequestrate le loro rendite e confiscate le loro<br />

proprietà terriere. Viene instaurato un vero e proprio regno del terrore: migliaia di<br />

esecuzioni, villaggi saccheggiati o costretti a piegarsi per fame, rappresaglie selvagge<br />

contro le comunità beduine se uno qualsiasi dei loro membri si univa al nemico.<br />

http://www.tightrope.it/USER/chefare/archivcf/cf19/libia.htm<br />

Libia: un test della "diversità "italiana<br />

Piace al "pacifismo" ed al "riformismo" sottolineare il ruolo "diverso " che l'Italia può<br />

svolgere e già in certa misura svolgerebbe nella difesa della "pace" e della "soluzione<br />

pacifica" dei conflitti internazionali.<br />

66


Nel mondo arabo in particolare la Libia (che tuttavia non è la sola nazione ad avere<br />

goduto di questo privilegio) ha avuto modo di sperimentare diretta<strong>mente</strong>, sulla propria<br />

viva carne, tale "diversità" nel corso della occupazione della Tripolitania ad opera<br />

dell'Italia liberaldemocratica e fascista, durata dal 1911 al 1943.<br />

Abbiamo poco spazio a disposizione per rammentare qualche aspetto di una<br />

"civilizzazione diversa", dal "volto umano" o - come piaceva dire ad inizio secolo ad un<br />

certo nazionalismo - da "nazione proletaria"; contrapposto a quello "predatore" delle<br />

grandi potenze (ohi, com'è vecchia questa menzogna social-sciovinista della "diversità"<br />

italica…). Lo useremo per pubblicare qualche cifra che non vuole essere sostitutiva,<br />

evidente<strong>mente</strong>, di un'analisi storico-politica, ma fornire solo un parziale promemoria di<br />

una minimissima parte delle atrocità che le popolazioni arabe hanno dovuto subire per<br />

mano del barbaro colonialismo imperialista.<br />

La fonte delle cifre è un censimento libico del 1984. Non ci sono fonti italiane in<br />

materia, poiché la repubblica democratica nata dalla Resistenza, giunta al suo 45° anno<br />

di vita, non ha ancora real<strong>mente</strong> aperto i propri archivi, peraltro abbondante<strong>mente</strong><br />

purgati da "storici" di matrice fascista a cui erano stati affidati in cura…<br />

Il censimento è del 1984 ed è parziale, in quanto riguarda soltanto 100.000 famiglie su<br />

660.000 costituenti l'intera popolazione libica. I casi di "danni" accertati tra queste<br />

persone sono 199.269: 21.123 uccisi dalle truppe di occupazione (tra il 1911 e il 1932);<br />

5.867 assassinati o imprigionati senza alcun processo; 25.738 costretti ad arruolarsi<br />

come ascari e a combattere contro i propri fratelli ribelli o contro le popolazioni<br />

dell'Etiopia; 37.763 internati nei campi di concentramento; 30.091 costretti ad emigrare<br />

nei paesi vicini; 12.058 persone morte a causa di bombardamenti aerei e terrestri o di<br />

mine (fino al 1943); 14.910 mutilate dalle esplosioni di bombe e mine (anche dopo la<br />

seconda guerra mondiale); 30.321 persone che avevano subito danni alle aziende<br />

agricole o perdite di bestiame; 463 denunzie di avvelenamento di pozzi, incendi di<br />

boschi et similia, etc. etc.<br />

Lo storico De Boca, che non è certa<strong>mente</strong> un anti-imperialista neppure con le virgolette,<br />

non contesta affatto questi dati. Al contrario non fa fatica a riconoscere che le cifre<br />

globali, ossia il costo materiale ed umano del banditismo della "diversa" Italia nei<br />

confronti della Libia è stato sicura<strong>mente</strong> di molto superiore. Gli internati nei campi di<br />

concentramento furono più di 100.000. Il numero dei morti libici trucidati dalle truppe di<br />

occupazione è "di gran lunga superiore" ai 21 mila e passa indicati sopra (alcune<br />

centinaia di migliaia secondo cifre ufficiose). Il territorio libico è stato popolato di alcuni<br />

milioni di mine durante la guerra, e diverse migliaia di libici sono morti e continuano a<br />

morire a causa delle mine. Intere regioni (almeno 3 milioni di ettari) sono state<br />

abbandonate per la stessa ragione. Più di 120.000 capi di bestiame sono saltati sulle mine<br />

nei primi 25 anni del dopoguerra. E poi c'è la ferita ancora aperta dei deportati in Italia a<br />

partire dal 1911, di cui né l'Italia liberaldemocratica, né quella fascista, né quella post<br />

fascista, l'una "diversa" dall'altra e l'una più fetente dell'altra, hanno voluto dire parola.<br />

67


Eppure, dice ancora Del Boca in una intervista a "Politica ed economia" (maggio 1988),<br />

negli archivi semi proibiti "c'è, nero su bianco, tutto; compreso l'uso del fosgene, i gas (a<br />

proposito delle armi chimiche! - n.), le deportazioni, i lager, i 270 chilometri di filo<br />

spinato, le atrocità commesse dai Graziani (il Maresciallo fascista politica<strong>mente</strong><br />

riabilitato da Andreotti - n.)".<br />

Lontane vicende da ascrivere essenzial<strong>mente</strong> alla "malattia morale" del fascismo? Niente<br />

affatto! La democrazia le rivendica a pieno, nella sostanza.<br />

Il giudizio globale lasciamolo a Sforza, un liberale ministro dell'Italia democratica,<br />

collega di governo - durante l'unità nazionale"- di Togliatti: "L'Italia democratica ritiene<br />

ingiusto e immeritato che le sia impedito di continuare a perseguire in Africa, secondo i<br />

principi proclamati dall'ONU (notate bene) e nel quadro delle sue istituzioni, l'opera di<br />

CIVILIZZAZIONE che ha intrapresa e perseguita con infiniti sacrifici e con risultati<br />

che il mondo intero ha ampia<strong>mente</strong> riconosciuto". A quei dì (1947-1949) anche il PCI<br />

sospetto di "doppio binario" e l'URSS sostenevano che la Libia avrebbe dovuto essere<br />

"lasciata" alla… "diversa" Italia…<br />

Vediamo ora alcune foto, iniziando da un gigantesco campo di concentramento italiano<br />

fatto di tende nel deserto:<br />

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Omar El Mukhtar, capo della resistenza libica, dopo l'arresto e prima dell'esecuzione<br />

Tripoli 1943 / Addio all'Africa italiana<br />

La fine dell'impero<br />

Angelo Del Boca<br />

http://www.nigrizia.it/doc.asp?ID=5284<br />

Seguita alla sconfitta di El Alamein, la caduta di Tripoli chiuse un'epoca. A sessant'anni<br />

di distanza, il maggior storico del colonialismo italiano ci ricorda quanto è costato - in<br />

termini di guerra di conquista, eccidi e spoliazioni - il nostro sogno coloniale a Eritrea,<br />

Somalia, Libia ed Etiopia. Negativo anche il bilancio militare ed economico.<br />

I1 23 gennaio 1943, giusto sessant'anni fa, il vice governatore della Libia, Francesco San<br />

Marco, affiancato dal prefetto di Tripoli, il duca Alberto Denti di Pirajno, si recava a<br />

Porta Benito, dove il generale Bernard Law Montgomery aveva posto il suo quartier<br />

generale, e gli consegnava le chiavi di Tripoli.<br />

Nel ricordare il breve discorso del vincitore, Denti di Pirajno, che era, oltre che un alto e<br />

stimato funzionario coloniale, uno scrittore finissimo, così si esprimeva: «Montgomery<br />

non mi piacque, sia perché il vinto non trova mai simpatico il vincitore, sia perché ci<br />

parlava senza guardarci, col capo insaccato fra le spalle rachitiche e lo sguardo<br />

inchiodato al suolo. Ebbi allora l'impressione che con questo atteggiamento volesse<br />

ostentare il poco conto in cui ci teneva e questo, in un conquistatore, mi parve<br />

ingeneroso».<br />

70


Il prefetto di Tripoli non era soltanto turbato per il disprezzo che il vincitore della<br />

battaglia di El Alamein ostentava nei riguardi delle autorità italiane. Era anche avvilito<br />

per la mancata difesa di Tripoli, che militari e gerarchi fascisti avevano solenne<strong>mente</strong><br />

promesso di operare ad oltranza, casa per casa. Ma al momento di mettere in pratica<br />

questi bellicosi propositi - riferiva Denti di Pirajno - «tutti se ne erano andati: i<br />

condottieri che avevano giurato di difendere la città sino all'ultimo mattone, i gerarchi<br />

del "di qui non si passa". L'ultima nave ospedale, dirottata su Zuara, era partita vuota di<br />

feriti, ma stracarica di greche, di aquile, di medaglie».<br />

Con la caduta di Tripoli, ultimo lembo di terra africana ancora presidiato dall'Italia, si<br />

concludeva un'epoca. Finiva la spinta espansionistica che aveva avuto inizio nel 1869<br />

con l'occupazione della baia di Assab, nel Mar Rosso. Crollava l'ultimo pilastro<br />

dell'impero dell'Africa italiana, voluto con ostinazione da Benito Mussolini, con un costo<br />

altissimo di vite umane e di risorse economiche. Dopo settant'anni di presenza italiana in<br />

Africa, il nostro paese usciva definitiva<strong>mente</strong> dal Continente Nero lasciandovi il ricordo<br />

indelebile di stragi, di deportazioni, di devastazioni, di spoliazioni. Inutil<strong>mente</strong><br />

Mussolini lanciava il 9 maggio 1943, celebrando l'anniversario della fondazione di un<br />

impero che oramai non c'era più, la parola d'ordine : "Torneremo". Due mesi dopo<br />

cadeva il regime fascista e con esso tutti i miti che aveva creato.<br />

Dogali, Adua, Kars bu Hadi<br />

II bilancio della presenza italiana in Africa non poteva, sotto tutti i punti di vista, essere<br />

più negativo. Sotto il profilo del prestigio militare l'Italia ne usciva malconcia. Alla resa<br />

dei conti, infatti, erano più le sconfitte che i successi. Dogali, Adua, Kars bu Hadi non<br />

erano soltanto brucianti disfatte. Mettevano in evidenza tutti i difetti del tardo<br />

colonialismo italiano: dilettantismo, imprevidenza, iattanza, disprezzo per l'avversario,<br />

eroismo di chi ormai non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare.<br />

Ad Adua, Oreste Baratieri, con 5mila morti, 2mila prigionieri e la perdita di tutti i<br />

cannoni, si aggiudicava la palma del generale più sconsiderato, più inesperto, più<br />

biasimevole. A Kars bu Hadi, il colonnello Antonio Miani perdeva mille uomini, 5mila<br />

fucili, alcuni milioni di cartucce, 6 sezioni di artiglieria, tutte le mitragliatrici, l'intero<br />

convoglio di rifornimenti e persino la cassa militare. Tante armi, viveri e denaro da<br />

alimentare e rendere vincente la rivolta araba. In pochi mesi i mujaheddin avrebbero<br />

ripreso tutti i territori conquistati dagli italiani in quattro anni di guerre, salvo Tripoli e<br />

poche altre città della costa.<br />

Si faceva così strada la convinzione, negli alti comandi, che, per strappare una sicura<br />

vittoria, fosse necessario mettere in campo uomini e mezzi che fossero almeno il doppio<br />

di quelli schierati dall'avversario. Infatti, memore di Adua, Mussolini impiegava nella<br />

conquista dell'Etiopia armate così possenti e soverchianti come l'Africa non aveva mai<br />

visto. E paventando ancora amare sorprese, ordinava a Badoglio e a Graziani di<br />

71


aggiungere alle armi convenzionali anche quella proibita dei gas, violando così gli<br />

accordi internazionali che l'Italia aveva sottoscritto.<br />

Poi, un giorno, per questi condottieri troppo celebrati e persino mitizzati, sarebbe venuto<br />

il momento della verità. Nel giudicare l'operato di Rodolfo Graziani in Africa<br />

settentrionale, nel corso della seconda guerra mondiale, l'addetto militare tedesco a<br />

Roma, Enno von Rintelen, così si esprimeva: «Egli condusse la guerra in Africa come<br />

una campagna coloniale; i suoi avversari non erano però dei nativi, bensì dei soldati<br />

dell'impero mondiale britannico».<br />

Graziani si era costruito tutta la sua fortuna, in Libia e in Etiopia, battendo formazioni di<br />

patrioti male armate, ricche soltanto di un indomito coraggio. Ma posto di fronte ad un<br />

esercito regolare e moderna<strong>mente</strong> equipaggiato, egli rivelava tutti i suoi limiti, perdeva il<br />

controllo di sé stesso e delle sue armate, la sua leggenda si trasformava in una penosa<br />

parodia. E con lui scomparivano dalla scena, uccisi o fatti prigionieri, i Bergonzoli, i<br />

Gallina, i Tracchia, i Pitassi Mannella, che con troppa facilità avevano raggiunto i<br />

massimi gradi nella campagne coloniali. Scompariva anche il generale Pietro Maletti,<br />

che nel 1937, in Etiopia, aveva massacrato duemila monaci e diaconi della città<br />

conventuale di Debrà Libanòs.<br />

Fallimento del fascismo<br />

Se le campagne coloniali non avevano certo aumentato il prestigio dell'esercito italiano,<br />

il bilancio economico si chiudeva in net-ta perdita. Fra i motivi che avevano spinto<br />

l'Italia a partecipare allo "scramble for Africa", c'era stato anche quello di dirottare la<br />

corrente emigratoria, che aveva sempre preferito le Americhe, verso le colonie che<br />

l'Italia si era aggiudicata in Africa. Nella sola Etiopia, Mussolini aveva ipotizzato di<br />

inviare due milioni di contadini senza terre, ma nel 1940, allo scoppio della seconda<br />

guerra mondiale, i coloni insediati sulle migliori terre etiopiche erano soltanto 31mila.<br />

Anche nelle altre colonie, decisa<strong>mente</strong> più povere dell'Etiopia, l'afflusso degli italiani era<br />

stato più che deludente. In settant'anni, di fronte a venti milioni di disperati che avevano<br />

scelto le Americhe, gli italiani che avevano optato per l'Africa erano appena 300mila.<br />

Per rendere più agevole il loro insediamento (non certo per mi-gliorare la sorte dei<br />

nativi), lo stato italiano aveva impegnato forti capitali nella realizzazione di alcuni<br />

progetti. Citiamo, ad esempio, i comprensori di bonifica lungo il Giuba e 1'Uebi Scebeli,<br />

in Somalia; quello di Tessenei in Eritrea; le decine di villaggi agricoli costruiti sul finire<br />

degli anni '30 in Tripolitania e in Cirenaica. Ma i maggiori investimenti Roma li<br />

realizzava in Etiopia.<br />

Per il solo sistema viario, vitale per incrementare i traffici e per spostare rapida<strong>mente</strong> le<br />

truppe, venivano importati dall'Italia 1.192.000 quintali di cemento, 72.600 quintali di<br />

ferro, 12.319 quintali di dinamite, il tutto gravato dai noli marittimi, dal pesante<br />

72


pedaggio del canale di Suez, dai prezzi proibitivi imposti dai "padroncini" per i trasporti<br />

su autocarro.<br />

Osservando, costernato, lo sperpero del denaro pubblico, il ministro degli Scambi e<br />

Valute Felice Guarneri scriveva: «Tutta l'economia dell'impero prosperava in un clima<br />

artificioso, che traeva alimento unica<strong>mente</strong> dalla trasfusione di beni e ricchezze che la<br />

madrepatria faceva con generosità da gran signora. Era mia profonda convinzione che<br />

noi non avremmo potuto durare a lungo nello sforzo». Si rischiava la bancarotta.<br />

Questo immenso sforzo, realizzato, fra l'altro, tutto a detrimento del Sud dell'Italia, i cui<br />

problemi, nel clima di esaltazione imperiale, venivano ignorati, non sarebbe servito a<br />

nulla. Con l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, l'Africa Orientale Italiana<br />

(Aoi) rimaneva isolata dalla madrepatria e risultava accerchiata da territori in gran parte<br />

amministrati dalla Gran Bretagna. La difesa dell'Aoi non sarebbe durata che diciassette<br />

mesi. Prima ad essere occupata dalle forze alleate era la Somalia, poi l'Eritrea<br />

(nonostante l'accanita resistenza a Cheren) e, per ultima, l'Etiopia. Il mattino del 28<br />

novembre 1941 si arrendevano gli ultimi capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgorà,<br />

nella regione di Gondar. L'impero voluto da Mussolini non esisteva più.<br />

C'erano altri bilanci da stilare. Eravamo andati in Africa per portarvi la civiltà e il<br />

benessere, perché questo - si diceva all'epoca - era il "fardello" dell'uomo bianco. Ma,<br />

alla resa dei conti, non avevamo portato alcuno sviluppo. Avevamo soltanto adottato una<br />

politica di rapina, che consisteva nel riservare ai coloni italiani le migliori terre e<br />

nell'impedire la creazione di una classe dirigente africana proibendo ai nativi l'accesso<br />

agli studi.<br />

Nel 1950, ad esempio, quando l'Italia ritornava in Somalia con il mandato delle Nazioni<br />

Unite di condurla in dieci anni all'indipendenza, sul paese dei somali gravava ancora la<br />

più buia notte coloniale. I suoi primati erano tutti negativi. Il tasso di analfabetismo<br />

toccava il 99,40 per cento. Nessun somalo era riuscito a diplomarsi o a laurearsi. Su di<br />

una popolazione di 1.242.000 abitanti, soltanto 20mila vivevano in case in muratura,<br />

tutti gli altri in baracche, tende, tucul e arich. C'era un medico ogni 60mila anime e 1.254<br />

postiletto nei dieci ospedaletti distribuiti su di un territorio vasto come una volta e mezza<br />

l'Italia.<br />

400mila morti<br />

C'era, infine, un ultimo e tragico bilancio da compiere. Qual era il costo della presenza<br />

italiana in Africa? Quante vittime avevano mietuto le guerre di conquista, le operazioni<br />

di grande polizia coloniale, le azioni di contro guerriglia, il lancio dei gas sulle<br />

popolazioni civili? Anche se, in questi casi, le stime sono sempre necessaria<strong>mente</strong><br />

approssimative, si può comunque sostenere che, fra il 1890 e il 1941, sono morti, a causa<br />

dell'espansionismo italiano, circa 400mila fra eritrei, somali, libici ed etiopici. Il paese<br />

maggior<strong>mente</strong> colpito è stato la Libia, con 100mila morti: questi ultimi sicuri, non<br />

73


"approssimativi", schedati uno per uno negli archivi del Libyan Studies Center di<br />

Tripoli.<br />

Il cinquanta per cento morti in combattimento, l'altro cinquanta durante la deportazione<br />

in massa delle popolazioni della Marmarica e del Gebel Akhdar e nei tredici campi di<br />

concentramento costruiti nell'inferno della Sirtica. Per dare un'idea della decimazione<br />

subìta dai libici ricordiamo che, all'epoca, la Libia contava 800 mila abitanti. Come a<br />

dire che un libico su otto ha perso la vita a causa della presenza ostile degli italiani.<br />

L'altro paese che ha pagato un prezzo altissimo nei tentativi di difendere la propria<br />

indipendenza è l'Etiopia di Hailé Selassiè. Anche se la cifra di 760mila morti, fornita alle<br />

Nazioni Unite dalle autorità etiopiche, appare decisa<strong>mente</strong> eccessiva, quella di 300mila<br />

vittime non è molto lontana dalla realtà.<br />

A questa cifra si arriva sommando i caduti militari e civili durante il conflitto<br />

italoetiopico del 1935-36; i patrioti uccisi in combattimento o fucilati dopo un processo<br />

sommario nei cinque anni della guerriglia; i militari e civili (fra questi ultimi, moltissimi<br />

esponenti del clero copto) assassinati in seguito all'attentato a Graziani del 19 febbraio<br />

1937; i confinati deceduti per privazioni ed epidemie nei lager di Danane e di Nocra; i<br />

contadini morti a causa dei patimenti subiti dopo la distruzione dei loro villaggi e il<br />

saccheggio dei loro beni.<br />

Per questi morti e per i danni causati dall'aggressione fascista, l'Etiopia chiese all'Italia<br />

un risarcimento di 184 milioni di sterline. Roma chiuse la partita con 6.250.000 sterline.<br />

Con altri paesi, come la Libia, fu ancora più avara.<br />

L'Italia poteva tornare in Africa, nel dopoguerra, per riparare i suoi torti e per rifarsi una<br />

reputazione. Invece non ha pagato i suoi debiti (o lo ha fatto in maniera insufficiente) e<br />

ha destinato male i suoi aiuti, usando una politica non giusta, non riparatrice, non<br />

lungimirante. Una politica spicciola, povera di fantasia e di vera solidarietà. Una politica<br />

che non ha il senso della storia, che non conserva la memoria del passato.<br />

http://www.pasti.org/delboca2.html<br />

Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia.<br />

Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare<br />

L'INFAMIA DELLE DEPORTAZIONI<br />

Da: "Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi"<br />

di Angelo Del Boca, Laterza, 1991, cap. IV<br />

74


L'esproprio delle zavie<br />

Proseguendo il riordino organizzativo della colonia e la lotta senza quartiere contro la<br />

Senussia, nella prima decade di maggio del 1930 Graziani adotta un altro provvedimento<br />

particolar<strong>mente</strong> severo: il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle<br />

vicinanze dei presidi italiani. Con questa misura presa contemporanea<strong>mente</strong> al<br />

razionamento dei viveri, il vice-governatore della Cirenaica confida di disseccare la<br />

principale sorgente che alimenta la ribellione. Ha così inizio la prima, biblica migrazione<br />

dai territori dell'altipiano verso le zone più sicure della costa. Quasi 900 tende Abid<br />

vengono riunite nella piana di Barce; 1400 tende Dorsa intorno a Tolmeta; altre 3600<br />

tende, che prima erano sparse sino a el Mechili, vengono raggruppate fra Cirene e Derna.<br />

Ma non si tratta di un provvedimento definitivo, poiché tanto De Bono che Badoglio<br />

hanno in <strong>mente</strong> una operazione più vasta e radicale, che porti allo sgombero totale del<br />

Gebel Achdar. Questa di maggio, dunque, è soltanto la prova generale della deportazione<br />

in massa che verrà fatta tra luglio ed agosto.<br />

Si è appena conclusa questa operazione quando Graziani, con il consenso di Badoglio e<br />

di Roma, applica una nuova misura: I'esproprio integrale dei beni mobili ed immobili<br />

delle zavie senussite. Il provvedimento, già allo studio da un paio di anni, era sempre<br />

stato rinviato perché si temeva di turbare la coscienza religiosa delle popolazioni libiche<br />

e di commuovere l'opinione pubblica musulmana (1), poiché le zavie erano, prima che<br />

organi di propaganda politica e di collegamento tra le popolazioni e i ribelli, centri<br />

spirituali ed assistenziali. Le ultime perplessità vengono però a cadere nel maggio del<br />

1930 quando lo scontro con la Senussia si fa totale. « Mai il governo italiano si è trovato<br />

in vera lotta armata di fronte alla Senussia come lo è attual<strong>mente</strong>; - scrive Badoglio a De<br />

Bono - mai la Senussia ha fatto appello come ora a tutti i suoi aderenti per averne aiuti<br />

materiali e morali al fine di constrastare il nostro dominio; mai è ricorsa a intimidazioni,<br />

a minacce, a violenze di ogni genere per sollevarci contro i nostri sudditi. A questa<br />

decisa azione di ostilità, è giusto e doveroso contrapporre da parte nostra un identico<br />

atteggiamento Le mezze misure non giovano a nulla. Quando si è in guerra, non è lecito<br />

avere degli scrupoli e conservare al nemico le proprietà da cui ricava i mezzi per<br />

continuare la lotta » (2).<br />

Il 29 maggio reparti di carabinieri invadono simultanea<strong>mente</strong> le sedi di tutte le zavie (3),<br />

traggono in arresto 31 capi zavia e pongono i sigilli sulle proprietà della confraternita. I<br />

capi religiosi sono dapprima confinati in un campo nei pressi di Benina; poi, sembrando<br />

imprudente mantenerli in Cirenaica, il 28 settembre vengono imbarcati sul<br />

cacciatorpediniere Stocco ed awiati ad Ustica (4). Nel bando diramato agli indigeni il 2<br />

giugno, Graziani spiega i motivi del grave provvedimento e soggiunge: « Da oggi siete<br />

tutti liberati dal pagamento della zacat, anzi chi lo farà ugual<strong>mente</strong>, sarà considerato reo<br />

di tradimento e punito perciò con la morte » (5). Per Omar al-Mukhtàr il colpo è<br />

durissimo. In pochi giorni egli si vede privato prima del sostegno delle popolazioni, poi<br />

del supporto delle zavie, che gli fornivano, con le decime, senti di ogni genere ed<br />

informazioni. Comunque non si abbatte e fa sapere che non concluderà alcuna pace che<br />

sia in contrasto con gli interessi della Senussia e che « combatterà sino alla morte » (6).<br />

75


Il patrimonio confiscato è enorme. Si tratta di centinaia di case e di quasi 70 mila ettari<br />

della miglior terra della Cirenaica. Per fare qualche esempio, la sola zavia di Bengasi ha<br />

8 immobili e 2 mila ettari di orti e giardini; quella di Tilimum ha 12 immobili ed una<br />

rendita di 15 mila lire annue nette; quella di Marada possiede 11 giardini e 517 palme<br />

sparse nell'oasi; quella di Tocra 19 immobili; quella di Mrassas 15 mila ettari (7).<br />

Secondo le stime fatte fare da Graziani il reddito annuo delle zavie, escluse quelle di<br />

Giarabub e di Cufra, supera le 200 mila lire, gran parte delle quali finivano nelle casse<br />

della ribellione. « Considero pertanto la chiusura delle zavie - scrive Graziani a Badoglio<br />

il 14 giugno - un provvedimento fondamentale per lo stroncamento della ribellione» (8)<br />

Nel timore, però, che il provvedimento provochi l'indignazione e la collera delle<br />

popolazioni musulmane, Graziani chiede a Mohammed er-Ridà di stilare e di divulgare<br />

un documento a favore della chiusura delle zavie. Il Senusso, ormai incapace di opporsi<br />

alle sempre più frequenti pressioni degli italiani, accetta l'incarico e dirama un<br />

comunicato con il quale sconfessa l'operato dei suoi fratelli Mohammed Idris e Ahmed<br />

esh-Sherif, invita i ribelli a sottomettersi « al caro Graziani », che è « un padre<br />

compassionevole, cle<strong>mente</strong>, misericordioso e giusto » e soggiunge: « Il sequestro dei<br />

beni della Senussia e la loro confisca oggi è un provvedimento giusto, poiché lo hanno<br />

causato i miei fratelli. Essi pertanto sono i responsabili di fronte ai capi della<br />

Confraternita per il male che hanno fatto » (9). A favore della misura si schiera anche il<br />

direttore del giornale bengasino « Berid Barca », Mohammed Mohesci. L'articolo di<br />

questo collaborazionista è quanto di più servile si possa immaginare. Egli definisce le<br />

zavie « consolati del nemico » e si meraviglia che siano state chiuse soltanto ora e non<br />

nel 1923 dopo la abrogazione degli accordi con la Senussia. « La chiusura di queste<br />

zavie - scrive inoltre - mentre sopprime un mezzo non indifferente di connivenza coi<br />

ribelli, ritorna a vantaggio della grande maggioranza dei sottomessi in quanto elimina<br />

una grave causa che dava luogo all'accusa di connivenza. [...] Non esageriamo dicendo<br />

che la parola confisca significa in questo caso liberazione di tali beni religiosi dalle mani<br />

degli usurpatori » (10).<br />

Tolte alla ribellione le principali fonti di finanziamento, Graziani decide di sferrare una<br />

grande offensiva contro i ribelli, convinto di poter ripetere i successi ottenuti in<br />

Tripolitania e di poter mettere una buona volta le mani su Omar al-Mukhtàr. Meditando<br />

sul suo passato fortunato e sul fatto che ha piegato ad uno ad uno tutti i capi della<br />

guerriglia, Graziani scrive: « Siccome io sono stato seme pre un po' mistico [...], sono<br />

stato sempre convinto che questo sia avvenuto non per semplice caso umano, ma per una<br />

volontà ed una ispirazione superiore legittimante in me la certezza che i ' capi ribelli<br />

sarebbero tutti finiti per le mie mani ' » (11). Con queste convinzioni, il 16 giugno 1930<br />

Graziani lancia quasi tutte le forze presenti in Cirenaica contro i duar di Omar che<br />

stanziano nella regione del Fayed, a sud di Cirene. Ma ancora una volta Omar riesce a<br />

sgusciare tra le truppe del colonnello Spatocco, che attaccano da nord, e quelle del<br />

colonnello Maletti, che incalzano da sud. Il rastrellamento dura fino alla fine di giugno,<br />

ma senza alcun risultato apprezzabile.<br />

Il 20 giugno, mentre le operazioni nel Fayed sono ancora in corso, Badoglio invia a<br />

Graziani una lunga lettera con la quale critica dura<strong>mente</strong> l'operato del vice-governatore e<br />

76


gli impartisce nuove direttive intese ad imprimere una netta svolta alla lotta contro la<br />

Senussia. « Ho voluto lasciar compiere a V.E. questo primo ciclo operativo senza un mio<br />

diretto intervento, - scrive Badoglio - sia per non intralciare l'opera, sia anche per<br />

corrispondere al desiderio di V. E. che mi ha telegrafato di rimandare la mia venuta costì<br />

a ciclo operativo chiuso. Ma è mio stretto dovere ora intervenire, perché la responsabilità<br />

dell'azione viene diretta<strong>mente</strong> a me, prima di giungere al ministero ».<br />

Chiarito l'ordine delle responsabilità, Badoglio analizza l'azione condotta nel Fayed da<br />

Graziani e tutte le operazioni che l'hanno preceduta a partire dal 1923 per giungere a<br />

concludere « che le manovre chiamate a largo raggio sono sempre fallite e saranno<br />

sempre, finché durano le attuali condizioni, destinate al fallimento ». Due sono le cause<br />

essenziali del ricorrente insuccesso: «Il vigilantissimo servizio di protezione e di<br />

informazione dei ribelli » e la straordinaria abilità di Omar al-Mukhtàr, il quale non si<br />

lascia mai cogliere da « megalomania guerriera » e, « da freddo e sereno valutatore delle<br />

sue forze e delle conseguenti possibilità, rifiuta il combattimento e disperde le sue forze<br />

[...]. Se V.E. esamina la storia di tutte le operazioni, - continua Badoglio, calcando non<br />

poco la mano - vede che sovente abbiamo preso delle greggi, ma non abbiamo mai<br />

inferto colpi severi all'avversario, appunto per la persistenza delle condizioni<br />

suaccennate ».<br />

Se dunque la controguerriglia tradizionale non dà alcun frutto, bisogna adottare, precisa<br />

Badoglio, altri metodi, anche se severissimi o addirittura catastrofici per i libici: «<br />

Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli<br />

e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo<br />

provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma<br />

ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se<br />

dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica ». Per realizzare il distacco territoriale<br />

tra ribelli e sottomessi, prosegue Badoglio, « urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta<br />

la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguata<strong>mente</strong> sorvegliare ed in modo<br />

che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa<br />

all'azione diretta contro i ribelli » (12).<br />

Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che provocherà la deportazione dal Gebel<br />

di 100 mila arabi, Badoglio si incontra con Graziani ed insieme concertano le modalità<br />

per effettuare l'operazione, che non ha forse precedenti nella storia dell'Africa moderna.<br />

Badoglio non è però il solo responsabile di questa infamia (13). Il ministro De Bono<br />

sollecitava questa misura estrema da tempo e non ci risulta che Mussolini abbia avuto<br />

qualche scrupolo nell'approvarla. Badoglio è soltanto il cervello che ha teorizzato i<br />

vantaggi della deportazione, l'uomo che ha messo in moto l'ingranaggio letale. E' certo,<br />

tuttavia, che egli imbocca la via della repressione più spietata dopo che il suo doppio<br />

gioco è stato smascherato da Omar al-Mukhtàr. C'è indubbia<strong>mente</strong>, nella sua scelta di un<br />

provvedimento che può condurre, come condurrà, allo sterminio di un popolo, un fatto<br />

personale, un rancore sordo, che spartirà con Graziani. Entrambi non saranno soddisfatti<br />

che quando vedranno il corpo del vecchio Omar oscillare appeso alla forca, nella piana<br />

di Soluch.<br />

77


I lager della Sirtica<br />

Il provvedimento di sgombero della Cirenaica non colpisce le popolazioni dell'intero<br />

territorio. Ne sono escluse quelle urbanizzate (circa 50 mila persone), quelle stabili<br />

intorno ai centri costieri (10-15 mila) e inoltre quelle delle oasi dell'interno (5-10 mila),<br />

le prime perché più fidate, le altre perché facil<strong>mente</strong> controllabili e comunque lontane<br />

dalle regioni dove più viva è la ribellione. Vengono invece deportate tutte le popolazioni<br />

nomadi e seminomadi, per un complesso di 90-100 mila persone, a seconda delle stime<br />

(14). Deciso il 25 giugno, dopo l'incontro a Bengasi tra Badoglio e Graziani, lo<br />

sgombero totale dell'altipiano comincia a compiersi due giorni dopo e il 7 luglio, come<br />

apprendiamo da un telegramma di Badoglio a De Bono, è in pieno svolgimento senza<br />

che Omar al-Mukhtàr vi si possa opporre. Scrive Badoglio: « Gli Auaghir sono tutti<br />

riuniti fra Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severa<strong>mente</strong> ieri mattina.<br />

Domani sarà ultimato il concentramento dei Braasa, Darsa e Abid fra Tolmeta e Tocra.<br />

Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat. Questo imponente movimento sarà<br />

ultimato verso il 20. [...] La raccolta dell'orzo sull'altipiano sarà terminata con la fine dei<br />

movimenti di concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi sull'altipiano,<br />

e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come ribelle » (15).<br />

Nella stessa giornata del 7 luglio Badoglio emana il foglio d'ordine n. 151 riservato ai<br />

comandanti militari e ai funzionari civili della colonia. Con questo documento, che<br />

rivela un linguaggio nuovo, più scoperta<strong>mente</strong> brutale, Badoglio informa i suoi<br />

collaboratori che la popolazione indigena ha accolto il grave provvedimento « senza<br />

alcuna reazione, anzi con supina obbedienza, come con uguale sentimento aveva subito<br />

il ritiro delle armi. Essa ha perfetta<strong>mente</strong> compreso che la forza è nelle mani del<br />

Governo, non solo, ma che il Governo è deciso a qualsiasi estremo provvedimento pur di<br />

ottenere l'esecuzione perfetta degli ordini impartiti ». Dopo aver raccomandato di<br />

esercitare la massima vigilanza intorno ai campi di concentramento che si stanno<br />

costituendo, « giacché ogni minimo allentamento frustra tutta l'efficacia dei<br />

provvedimenti in corso e prolunga la ribellione», Badoglio precisa come si dovrà d'ora<br />

innanzi combattere l'ultima campagna contro i duar di Omar.<br />

« Bisogna assoluta<strong>mente</strong> bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano », scrive<br />

Badoglio. L'avversario va agganciato, va aggredito all'arma bianca. E se riesce a sottrarsi<br />

all'accerchiamento, va subito organizzato l'inseguimento, che non deve conoscere limiti<br />

ed «essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà<br />

redditizio ogni atto della più sfrenata audacia » (16).<br />

Tra giugno e luglio viene completata l'evacuazione del primo e del secondo gradino del<br />

Gebel, il che provoca il vuoto intorno ad Omar al-Mukhtàr, ormai costretto a rifornirsi<br />

soltanto in Egitto. Un testimone di questo esodo forzato, Federico Ravagli, lo descrive<br />

con versi assai modesti, che hanno il solo intento di perfezionare il mito di Graziani:<br />

78


« D'oltre confine arrivan armi e messi<br />

sul Gebel, dove la rivolta ha sede;<br />

non son le zavie i templi de la fede,<br />

non son fedeli e puri i sottomessi.<br />

Genti, alla costa! », disse: e senza ambagi<br />

un'immonda migrò biblica schiera,<br />

sottratta a l'odio ai morbi ed ai contagi.<br />

E perché un varco sol non fosse aperto,<br />

gettò di ferro un'ispida barriera<br />

da Solum a le soglie del deserto (17).<br />

Completato il trasferimento delle popolazioni dal Gebel alla costa, Graziani si accorge<br />

che il distacco tra sottomessi e ribelli non è però completo. Non è cessato del tutto,<br />

infatti, né il pagamento delle decime, né le fughe dai campi degli uomini validi per<br />

riempire i vuoti dei duar. D'accordo con Badoglio, Graziani applica allora misure più<br />

radicali e, fra queste, il trasferimento dei campi di concentramento nel sud-bengasino e<br />

nella Sirtica, regioni notoria<strong>mente</strong> fra le più inospitali. « Il paese di el Magrun - riferisce<br />

il giornalista Os. Felici - è sorto sulla terribile piana riarsa, senza una mica d'ombra,<br />

appunto per raccogliere i nomadi. Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi<br />

debbono avere la sensazione precisa del castigo » (18).<br />

Il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche è assai scarso<br />

e quel poco che è finito negli archivi di stato è general<strong>mente</strong> reticente. Non c'era, in<br />

realtà, da gloriarsi dell'operazione e questo forse spiega la carenza dei documenti. Per cui<br />

non siamo in grado di descrivere il calvario di tutte le tribù. Disponiamo soltanto di<br />

un'ampia e dettagliata relazione sull'esodo degli Auaghir, grazie alla solerzia del<br />

commissario regionale di Bengasi, Egidi. In base a questo rapporto, apprendiamo che il<br />

27 giugno reparti di carabinieri e di ascari eritrei fanno sgomberare i centri di Tocra, di<br />

Bersis e di Mebni e ne avviano le popolazioni verso il campo provvisorio di Driana, che<br />

dista una cinquantina di chilometri. Dopo una sosta di qualche giorno, il 4 luglio gli<br />

Auaghir riprendono la marcia scortati dagli ascari. Sono alcune migliaia, in grande<br />

maggioranza donne, bambini e vecchi. Al loro seguito 2 mila cammelli, che trasportano<br />

le loro povere masserizie. In coda alla carovana il bestiame della tribù, circa 6 mila capi,<br />

cioè quel poco che si è salvato dalle razzie e dalle controrazzie.<br />

La carovana segue l'itinerario Driana - Sidi Mansur - Benina en-Nauaghia -- Hosc el<br />

Ghetaan -- Ghemines. Forse duecento chilometri, ma per vie impervie ed in regioni<br />

semidesertiche. Sin dai primi giorni di marcia, i più vecchi e i più deboli tendono a<br />

staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini sono severissimi. Si legge nella relazione: « Non<br />

furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediata<strong>mente</strong> passato<br />

per le armi. Un provvedimento così draconiano, fu preso per necessità di cose, restie<br />

come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame<br />

79


che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva<br />

immediata<strong>mente</strong> abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che<br />

avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo » (19).<br />

l percorso fra Driana e Ghemines viene compiuto in dodici giorni. Di questa marcia della<br />

morte non sappiamo altro. Nessuno ha tenuto il computo dei ritardatari abbattuti con una<br />

fucilata. Né il commissario regionale di Bengasi, né i capi della tribù degli Auaghir.<br />

Comunque la dimensione è quella dell'eccidio, come vedremo più avanti quando<br />

cercheremo di fare un po' di conti. Ma il calvario non termina a Ghemines. La<br />

destinazione finale è Soluch. Altri cento chilometri di deserto, di pene, di cedimenti, di<br />

morte. E quando gli Auaghir giungono a destinazione, vengono ammassati in un grande<br />

campo circondato da una doppia barriera di filo spinato. Dal quale non usciranno per tre<br />

anni.<br />

Non diversi debbono essere stati i trasferimenti delle altre popolazioni. Ma il primato<br />

della sofferenza spetta senza alcun dubbio agli Abeidat e ai Marmarici, che in pieno<br />

inverno sono costretti a compiere una marcia di 1100 chilometri dalla Marmarica alla<br />

Sirtica. Gli Abeidat e i Marmarici erano stati concentrati nel campo di Ain el Gazala,<br />

nelle vicinanze di Tobruk. Ma non si erano rassegnati, come gli altri, al loro destino ed<br />

avevano deciso di defezionare in massa d'accordo con Omar al-Mukhtàr che agiva nei<br />

dintorni. Il complotto era stato però scoperto nel dicembre del 1930 e sventato. Per<br />

punizione Graziani ordina il trasferimento dei 6500 Abeidat e Marmarici nella Sirtica e<br />

sceglie, per la marcia che dura alcuni mesi, la stagione più incle<strong>mente</strong>. «Questo energico<br />

provvedimento all'estero fece versare torrenti d'inchiostro e fu condannato come barbaro<br />

- scrive Imerio da Castellanza -. Del resto, riflettendo che le genti della Marmarica sono<br />

nomadi, una marcia un po' più lunga non era poi un castigo sproporzionato allo scopo<br />

che Graziani voleva ottenere, cioè la pacificazione della colonia» (20).<br />

Vediamo ora dove sono dislocati i campi di concentramento. Secondo una relazione di<br />

Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato, risulta che i lager più<br />

importanti sono concentrati nel sud-bengasino e nella Sirtica. L'accampamento più<br />

grande è quello di Marsa Brega, che raccoglie 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguono<br />

Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun,<br />

con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti<br />

dei ribelli in armi; Agedabia, con 10 mila persone, di cui non si specifica la tribù; el<br />

Abiar, con 3123 Auaghir. Complessiva<strong>mente</strong>, dunque, questi sei lager raccolgono<br />

78.313 cirenaici (2l). Ai quali vanno aggiunti i confinati nei campi minori di Derna (145<br />

tende), di Apollonia (1354), di Barce (538), di Driana (225), di Sidi Chalifa (130), di<br />

Suani el Terria (100), di en-Nufilia (375) e i due di Bengasi, Coefia e Guarscia (245).<br />

Calcolando quattro persone per tenda, si hanno altri 12.448 confinati, che portano il<br />

totale generale a 90.761 (22). Ma non è finita. Bisogna tenere conto delle persone<br />

abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione,<br />

malattie e tentativi di fuga, nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati sale<br />

così- a non meno di 100 mila.<br />

80


Questa cifra rappresenta esatta<strong>mente</strong> la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo<br />

per buono il censimento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime<br />

(23). Se si considera che altri 20 mila cirenaici hanno lasciato il paese per rifugiarsi in<br />

Egitto, si deve calcolare che soltanto poche decine di migliaia di persone non hanno<br />

conosciuto i rigori della deportazione e della detenzione. Rigori che provocano un<br />

numero altissimo di decessi. Dalla già citata relazione del commissario regionale di<br />

Bengasi, Egidi, apprendiamo infatti che i reclusi del campo di Soluch scendono, in poco<br />

più di un anno, da 20.123 a 15.830, e quelli di Sidi Ahmed el Magrun da 13.050 a<br />

10.197 (24). Quando le autorità italiane compiono il 21 aprile 1931 il primo vero<br />

censimento, condotto con tecniche moderne, scoprono che gli indigeni sono soltanto 142<br />

mila. In venti anni, in altre parole, la popolazione ddla Cirenaica è diminuita di circa 60<br />

mila unità: 20 mila per l'esodo verso l'Egitto, 40 mila per i rigori della guerra, della<br />

deportazione e della prigionia nei lager. In nessun'altra colonia italiana la repressione ha<br />

assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio (25).<br />

Entriamo ora in uno dei lager, quello di Sidi Ahmed el Magrun, ed ascoltiamo ciò che ci<br />

riferisce un giornalista fascista, Os. Felici, certo non sospetto di simpatia per i reclusi. «Il<br />

campo ha la forma di castrum romano - scrive -. Ogni lato misura milleduecento metri.<br />

Dentro, vi sono otto quadrati, disposti in maniera che, davanti ad ogni gruppo di due di<br />

essi, vi è altrettanto spazio libero da poter ospitare gli animali. Ogni quadrato conta da<br />

quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato. Si sa così quali genti ospitino i<br />

quadrati, divisi l'uno dall'altro da ampie strade, e le file. Vi è il capo del campo, vi sono i<br />

capi quadrato, vi sono i capi fila. Tutti, si badi bene, indigeni » (26).<br />

I tredicimila reclusi di Sidi Ahmed el Magrun vivono in tende, come, del resto, gli<br />

abitanti di tutti gli altri campi. «Che cosa siano le tende non è possibile dire - scrive Os.<br />

Felici -. Le vele marinaresche più provate e rabberciate non avrebbero nulla da invidiare.<br />

Le pezze di Arlecchino sono infinita<strong>mente</strong> minori delle pezze che la donna beduina<br />

s'industria ad applicare a queste case del deserto»(27). Descritte le abitazioni, Felici si<br />

chiede: «Come mangia tutta questa gente? Parte di essa è tesserata. E la tessera dà diritto<br />

a ritirare ogni dieci giorni tanto orzo in ragione di mezzo chilo a testa»(28). Con razioni<br />

così scarse non si vive. E poiché il governo della Cirenaica non intende sobbarcarsi il<br />

mantenimento dei reclusi, gli uomini validi vengono impiegati nella costruzione di<br />

strade e le donne nella coltivazione di alcuni orti sorti nelle vicinanze dei lager. Altri<br />

confinati badano al bestiame e si muovono scortati da reparti di ascari o di carabinieri.<br />

Anche negli altri campi le condizioni economiche delle popolazioni sono poverissime ed<br />

ogni giorno si combatte per la sopravvivenza. Di questo diffuso malessere c'è traccia<br />

anche nelle relazioni governative, anche se esse, come è ovvio, tendono a celare le vere<br />

dimensioni del dramma. Scrive, ad esempio, il commissario regionale di Bengasi: «Le<br />

condizioni economiche della popolazione di Soluch non sono troppo floride: il<br />

predonaggio con le sue razzie ridusse sensibil<strong>mente</strong> l'ingente numero di bestiame che,<br />

specie gli Abid e gli Orfa, avevano. L'allontanamento dalle loro terre, tanto opportuno e<br />

necessario per la sicurezza del territorio, ha contribuito, sia pure in misura tenue, a<br />

peggiorare le condizioni»(29). Ben più crudeli ed amare sono le testimonianze dei<br />

sopravvissuti. «Ci davano poco da mangiare - riferisce Reth Belgassem -. Dovevamo<br />

81


cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per<br />

lavorare»(30). «Ricordo la miseria e le botte - racconta a sua volta Mohammed Bechir<br />

Seium -. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare<br />

ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento<br />

grammi, che doveva bastare per tutto il giorno»(31).<br />

Pessime anche le condizioni sanitarie dei lager. A Soluch, per ventimila internati, c'è<br />

soltanto un medico, il quale, per giunta, deve anche badare ai tredicimila reclusi del<br />

campo di Sidi Ahmed el Magrun. A Marsa Brega, dove sono confinati ventunomila<br />

cirenaici, «il servizio sanitario — confessa lo stesso Graziani — è attual<strong>mente</strong><br />

disimpegnato da un sezione fissa di sanità, che lavora sotto il controllo del medico di<br />

Agheilat, che si reca a Marsa Brega un paio di volte per settimana»(32). Una<br />

vaccinazione antivaiolosa di massa riesce a bloccare questo flagello, ma non altre<br />

epidemie. Nel marzo del 1933 il commissario regionale di Bengasi, Egidi, avverte<br />

Graziani che a Soluch si sta diffondendo il tifo: «A me e al signor direttore di sanità<br />

sembra che il periodo di attesa caldeggiato da codesta direzione sia superato: il tifo<br />

petecchiale esiste e si estende. Prego codesta onorevole direzione di volermi fornire le<br />

istruzioni ed i mezzi necessari per fronteggiare l'epidemia»(33).<br />

Non bastassero la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitano ogni sorta di<br />

violenze. Racconta Reth Belgassem, recluso ad el Agheila: «Le nostre donne dovevano<br />

tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori<br />

rischiavano di essere prese dagli etiopi (34) o dagli italiani. Non lasciavamo mai sole le<br />

nostre donne. Le tenevamo chiuse tutto il tempo anche se l'odio dei guardiani era quasi<br />

tutto rivolto agli uomini» (35). Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, il rientro<br />

tardivo nei campi sono quasi sempre puniti con la morte. «Le esecuzioni avvenivano<br />

sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano<br />

tutta la gente a guardare - riferisce Reth Belgassem -. Ci costringevano a guardare<br />

mentre morivano i nostri fratelli»(36). «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta<br />

cadaveri - racconta Salem Omran Abu Shabur -. Venivano sepolti in fosse comuni.<br />

Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva<br />

uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia»(37).<br />

Di questa tragica realtà poco trapela in Italia, dove, del resto, si hanno scarse notizie<br />

anche sulla guerra libica, che si trascina, dimenticata, da vent'anni. E quel poco che<br />

trapela passa attraverso il filtro severo della censura o viene deformato dagli organi della<br />

propaganda. Così, per «L'Oltremare», il campo di Soluch è una specie di paradiso dove<br />

fioriscono l'ordine e una disciplina perfetti» e dove «regna ovunque l'igiene e la<br />

pulizia»(38). Anche per Giuseppe Bedendo, il cantore delle gesta di Graziani, i lager<br />

sono istituzioni benefiche, per le quali il vicegovernatore non ha proprio nulla da<br />

vergognarsi, al contrario:<br />

Jè dette da magna, tutto jè dette,<br />

medichi, medicine, garze, benne,<br />

82


jè dette stoffe pè fasse le tenne<br />

e jè spedì financo le ricette.<br />

Era concentramento, era galera?<br />

Quello ch'à fatto, no, nun era abbuso! (39).<br />

E pazienza che questi giudizi vengano espressi durante il fascismo. Ma anche dopo il<br />

crollo della dittatura c'è chi, come il generale Canevari, scrive: «Noi non abbiamo mai<br />

creato 'campi di concentramento ' in Cirenaica, ma solo delle ' riserve ' in campi<br />

splendida<strong>mente</strong> sistemati e forniti di tutto il necessario, dalle tende di lana di cammello<br />

nuove agli impianti igienici, ai servizi idrici, ecc. In tal modo il governo italiano<br />

sottraeva i ' sottomessi ' al tremendo dilemma: o rifornire i ribelli o cadere sotto le loro<br />

vendette, e perciò li salvava anche dalle conseguenze dei loro atti. [...] Dopo la<br />

permanenza negli accampamenti preparati da Graziani, le popolazioni della Cirenaica<br />

tornarono alle loro terre di coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla<br />

scuola»(40).<br />

Le scuole e i collegi per i bambini abbandonati sono appunto indicati dalla storiografia<br />

fascista come un innegabile titolo di merito. Nel collegio di Soluch, ad esempio, sono<br />

stati raccolti 375 ragazzi e 125 ragazze. Secondo il commissario Egidi, essi fruiscono di<br />

un «vitto speciale », costituito da tè e pane al mattino; una minestra a mezzogiorno e un<br />

pezzo di pane alla sera; due volte alla settimana un pezzo di carne (41). E' pochissimo,<br />

ma è sempre di più di quello che ottengono gli adulti nei campi. Inoltre i maschi<br />

ricevono lezioni pratiche di agricoltura, mentre le ragazze seguono corsi di taglio e<br />

cucito. «Come marciano e sfilano! — osserva Os. Felici in visita al collegio — E come i<br />

loro esercizi sono perfetti! Perfetti tanto, da parere quasi meccanici. Nel saluto,<br />

nell'andatura, essi hanno un non so che di lieve<strong>mente</strong> caricaturale, come se, più dello<br />

spirito, fossero persuasi della forma di ciò che imparano. Ma quale materia di soldati non<br />

è in questi ragazzi?»(42). Ce n'è molta, infatti. Graziani è il primo ad accorgersene. E<br />

subito moltiplica questi collegi sino a costituirne una dozzina, con 2800 elementi. E<br />

saranno i migliori serbatoi di volontari per i battaglioni libici in via di ricostituzione.<br />

Orfani di ribelli, segregati in collegi-caserme agli ordini di severissimi sottufficiali<br />

dell'esercito italiano, in pochi anni essi perdono ogni legame affettivo e culturale con il<br />

Gebel che li ha generati. Come pazze marionette, essi si esibiscono in perfetti esercizi<br />

ginnici davanti alle autorità e cantano, tra gli altri inni del regime, due preghiere, I'una<br />

dedicata al re, l'altra al duce. La prima dice: «Il nostro Re si chiama Vittorio Emanuele.<br />

E' chiamato anche il Re Vittorioso, perché egli è il capo dell'Esercito che ha vinto i<br />

nemici d'Italia. Egli è molto sapiente, coraggioso, buono. Durante la grande guerra egli<br />

fu alla fronte con i suoi soldati e non ebbe mai paura. Egli vuole bene al suo popolo, lo<br />

aiuta nei suoi bisogni e lo consola nelle sue sventure. Emanuele vuol dire 'mandato da<br />

Dio' e il nostro Re venne proprio mandato da Dio per far grande l'Italia ». Quella<br />

dedicata al duce, dice: «S. E. Mussolini è il grande Capo, il nostro Duce. Duce è chi<br />

guida, chi va avanti per insegnare la strada buona. [...] Ha dato a noi la coscienza del<br />

83


nostro destino, l'orgoglio di essere figli d'Italia. Signore, noi ti preghiamo, proteggilo<br />

tu!»(43).<br />

Ancora ieri seguivano trotterellando il cavallo del padre ribelle tra le forre e le foreste<br />

del Gebel. Oggi, di colpo, sono diventati figli d'Italia. E sembrano orgogliosi di esserlo.<br />

Di pregare devota<strong>mente</strong> per il Re e il Duce. Di essere uguali, o quasi, agli altri ragazzi<br />

della penisola, che cantano le stesse canzoni, che pregano per gli stessi semidei. Hanno<br />

tra i 9 e i 15 anni. Quasi nessuno è stato alla scuola coranica. Sono lavagne pulite sulle<br />

quali si può scrivere di tutto. Di lì a quattro anni, sufficiente<strong>mente</strong> indottrinati, i più<br />

grandicelli sceglieranno con gioia la carriera militare e finiranno in Etiopia, con la<br />

divisione Libia. Saranno delle perfette macchine da combattimento. Dei perfetti galli<br />

assassini. Da Gianagobò a Dagahbur non faranno un solo prigioniero (44). Mentre i<br />

ragazzi imparano ad uccidere, gli adulti, nei campi, ricevono, con il sussidio di minacce<br />

e di botte, un solo insegnamento: quello di sollevare il braccio nel saluto romano. E lo<br />

fanno di continuo, come tanti automi. Os. Felici ne è tanto meravigliato e sconvolto, che<br />

scrive: «Saluti, saluti. E' tutto un sollevamento di braccia nell'atto del saluto romano.<br />

Non ho mai veduto tanti, tanti saluti. Chi siede, si alza e saluta. Ora che scrivo, ho<br />

dinanzi agli occhi come una selva di braccia levate, tutte protese nel saluto romano»(45).<br />

Dopo aver costruito questo universo concentrazionario, che Marie Edith De Bonneuil<br />

definisce «visione da incubo» (46), nonostante la sua sconfinata ammirazione per il<br />

fascismo, Graziani si accorge che, malgrado le misure radicali che ha adottato, Omar al-<br />

Mukhtàr continua a ricevere le decime, seppure in misura minore. La sua attenzione si<br />

appunta perciò sui notabili della Cirenaica sospetti di conservare legami con la Senussia<br />

e il 6 novembre 1930 ordina l'arresto di 120 capi e il loro internamento nel campo di<br />

Benina. Nel comunicare a Badoglio la sua decisione, Graziani dice: «Le popolazioni<br />

potranno così essere real<strong>mente</strong> governate senza capi e con la diretta influenza dei<br />

commissari, a fianco dei quali saranno messi dei mudir, che cercherò di trovare tra i<br />

vecchi sciumbasci dei battaglioni libici e zaptiè»(47).<br />

Qualche mese dopo, nel maggio del 1931, a repressione quasi ultimata, Graziani rivela<br />

tutta la sua soddisfazione in un documento riservato al ministro De Bono. «I campi sono<br />

ormai sulla via della definitiva sistemazione, — scrive — e mentre assicurano<br />

l'eliminazione della connivenza dei sottomessi con i ribelli, preparano per il prossimo<br />

domani una popolazione più docile ed abituata al lavoro, che sicura<strong>mente</strong> si attaccherà<br />

per ragioni di interesse ai nuovi territori nei quali è stata trasferita, perdendo l'abitudine<br />

al nomadismo e acquistando i gusti e le esigenze delle popolazioni sedentarie, sulle quali<br />

necessaria<strong>mente</strong> deve fondarsi e svilupparsi il programma di pacificazione e<br />

valorizzazione della Cirenaica»(48). La reclusione nei campi durerà media<strong>mente</strong> tre<br />

anni. Gli ultimi lager saranno sciolti nel settembre del 1933. Dei centomila che erano<br />

partiti dal Gebel, ne torneranno a casa sessantamila. Forse di meno.<br />

Si va a Cufra<br />

La creazione dei campi di concentramento e la loro dislocazione lontano dal Gebel, due<br />

fatti che provocano la cessazione del finanziamento locale della ribellione, pongono<br />

84


Omar al-Mukhtàr in una situazione di estrema difficoltà. A partire dal luglio del 1930<br />

sempre più frequenti sono infatti i suoi appelli a Mohammed Idris ed ai fuorusciti libici<br />

che vivono in Egitto. Ma il loro aiuto è scarso e comunque insufficiente a mantenere in<br />

armi i duar di Omar, anche se i loro effettivi sono stati drastica<strong>mente</strong> ridotti. Il<br />

colonnello Nasi li valuta, in questo periodo, tra i 500 e i 600, e soggiunge: «Il profano, o<br />

comunque l'osservatore superficiale, non può non chiedersi come mai 13 mila uomini<br />

non riescano, in quattro e quattr'otto, a farne fuori 500. A questa semplicistica domanda<br />

conviene rispondere altrettanto semplice<strong>mente</strong>: appunto perché sono solo 500 ribelli,<br />

dispersi, però, in un territorio grande due volte l'Italia. [ ... ] Il nemico principale non è<br />

qui il ribelle, è l'immensità del territorio, la mancanza di strade. In taluni scacchieri la<br />

sete: ecco il solo, grande nemico»(49).<br />

Colpita alla radice, l'organizzazione ribelle deve modificare la propria struttura e la<br />

propria tattica. Omar è infatti costretto a frazionare i duar, a spostarli di continuo, a<br />

tenere le sue forze in potenza senza mai impegnarle seria<strong>mente</strong>. Come giusta<strong>mente</strong> fa<br />

osservare Nasi, da tempo Omar ha abbandonato la speranza di poter ricacciare gli italiani<br />

alla costa e non intende altro che «dimostrare al mondo che è capace di mantenere in<br />

Cirenaica uno stato di brigantaggio per il quale la vita normale non è possibile e confida<br />

che noi si debba, ancora una volta, scendere a patti» (50). A rendergli la vita difficile da<br />

luglio Graziani gli mette alle calcagna Giuseppe Malta, uno dei giovani colonnelli che<br />

più si sono distinti nella controguerriglia in Tripolitania. Affiancato dai tenenti<br />

colonnelli Piatti e Marone, dai maggiori Lorenzini e Ragazzi e dall'ex capitano turco<br />

Akif Msek, Malta non dà tregua ai ribelli per tutta l'estate e l'autunno del 1930,<br />

battendoli l'8 ottobre all'uadi es-Sània, qualche giorno dopo a Bir Zeitun e il 2 novembre<br />

a Caf el Telem (51).<br />

Le perdite dei ribelli in questi scontri, un centinaio, non sono altissime, ma oramai non ci<br />

sono più a portata di mano i sottomessi a fornire i rimpiazzi. Per rincuorare i suoi<br />

uomini, Omar fa circolare la notizia che i Sef en-Nasser sono in arrivo da Cufra con 500<br />

uomini. Ma a questa storia non crede nessuno. Omar è irrimediabil<strong>mente</strong> solo, con la sua<br />

fede, la sua ostinazione, i suoi duar che ogni giorno che passa si vanno assottigliando.<br />

Badoglio aveva previsto questa lenta agonia e il 9 settembre 1930 invia a Graziani<br />

questo caloroso plauso: «Dal rapporto settimanale vedo che la caccia ai beduini continua<br />

con risultati notevoli e che i rifornimenti dal confine si fanno sempre più difficili (52).<br />

La linea, dunque, è quella buona. Occorre che tutti si convincano che la nostra divisa è<br />

attual<strong>mente</strong>: ' non mollare '. Sarà questione di tempo, ma questa volta la ribellione si<br />

esaurirà. Bravo Graziani, continui!» (53).<br />

Mentre Graziani non dà tregua ad Omar al-Mukhtàr, Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh<br />

el Atèusc, che si sono rifugiati nell'oasi di Taizerbo, cercano di dare una mano ad Omar<br />

compiendo frequenti scorrerie nel sud-cirenaico tra la Sirtica e le oasi di Gialo. L'11<br />

giugno, ad esempio, una quarantina di Mogàrba e di Zueia, comandati dal figlio di Saleh<br />

el Atèusc, si impadronisce a Sneiah Hamed di 200 cammelli. Il 3 luglio, a Udeiat el Hod,<br />

una ventina di Mogàrba al comando di Abd Rabba el Goder compie una nuova razzia.<br />

Ma sono missioni suicide, perché sulle oasi di Gialo veglia il colonnello Maletti, che si è<br />

85


creato una fama per i suoi inseguimenti celeri ed implacabili. Comunque Graziani non<br />

sopporta neppure questi colpi di spillo e medita subito un'adeguata rappresaglia.<br />

Come obiettivo sceglie Taizerbo, una grande oasi a 250 chilometri a nord-ovest di Cufra,<br />

dove è convinto si siano concentrati tutti i ribelli fuggiti dalla Tripolitania. I1 31 luglio<br />

quattro apparecchi Romeo, al comando del tenente colonnello Roberto Lordi, partono da<br />

Gialo e puntano sulla lontana Taizerbo. Giunti sull'oasi, che comprende una decina di<br />

nuclei abitati, gli aerei lasciano cadere il loro carico, costituito da 24 bombe da 21 chili<br />

ad iprite, da 12 bombe da 12 chili con esplosivo e da 320 bombe da 2 chili. La stampa<br />

italiana dà molto rilievo al micidiale bombardamento (54), ma tace, ancora una volta,<br />

sull'impiego dei gas, che hanno causato nell'oasi morti ed un indescrivibile panico.<br />

Sugli effetti del bombardamento abbiamo la testimonianza di un libico raccolta il 13<br />

novembre 1930 dal comandante della tenenza dei carabinieri di el Agheila, Vincenzo<br />

Cassone, ed inviata a Roma dal tenente colonnello Lordi. Essa dice: «Come da incarico<br />

avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle<br />

Mohammed bu Ali, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento<br />

effettuato a Taizerbo. Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni<br />

dopo il bombardamento e seppe che quali conseguenze immediate vi furono quattro<br />

morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che<br />

presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce<br />

a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti<br />

gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore.<br />

Rimaneva cosi la carne viva priva di pelle, piagata»(55).<br />

In seguito al bombardamento, Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, con i loro<br />

uomini, si ritirano su Cufra, decisi a giocare nell'oasi la loro ultima carta prima di<br />

sconfinare in Egitto. Ma anche per Cufra i giorni sono contati. Già il 16 maggio<br />

Badoglio aveva scritto a De Bono: «Cufra sta diventando il centro di raccolta di tutto il<br />

fuoruscitismo libico. Essa inoltre resta ancora a segnare il dominio temporale della<br />

Senussia in casa nostra. Più si ritarda l'occupazione e più la situazione diventerà grave.<br />

Io rivolgo viva preghiera a V. E. affinché voglia insistere presso il Capo del Governo per<br />

avere lo stanziamento occorrente. Occorrono sei milioni. Quando si pensi a quello che è<br />

costata l'occupazione di Giarabub, si deve concludere che la mia richiesta è molto<br />

parsimoniosa» (56).<br />

In attesa del finanziamento, Graziani fa bombardare anche Cufra. Il 26 agosto quattro<br />

Romeo si portano infatti sul grande arcipelago di oasi e, come riferisce Graziani, «due<br />

apparecchi bombardarono el Giof, altri due et-Tat, producendo visibilissimo effetto.<br />

Molte case crollarono. Fu lanciata oltre mezza tonnellata di esplosivo. Successive<br />

informazioni dettero che le perdite subite dalla popolazione non furono gravi, ma il<br />

panico invase tutti, compresi i capi, i quali capirono come il cerchio si incominciasse a<br />

stringere intorno a loro» (57). Un paio di settimane dopo, il 9 settembre, De Bono torna<br />

alla carica con Mussolini per ottenere i sei milioni necessari all'impresa e così giustifica<br />

la richiesta: «Cufra ha assunto, in questo momento, una particolare importanza quale<br />

vero e proprio centro dei traffici che mantengono in vita la ribellione in Cirenaica. A<br />

86


Cufra, poi, risiedono, e natural<strong>mente</strong> operano, esponenti importanti non soltanto del<br />

senussismo cirenaico, ma anche dell'ormai stroncata ribellione tripolitana. [...] Chiedo<br />

pertanto a V. E. il consenso per eseguire questa operazione militare, che non presenta<br />

rischi e difficoltà, se non dal punto di vista logistico, ma che ha importanza<br />

notevolissima per la soluzione dell'annosa questione cirenaica» (58).<br />

Qualche giorno dopo Mussolini accorda il suo consenso e subito ha inizio la<br />

preparazione dell'impresa, che dura cento giorni e viene affidata al generale Ronchetti, al<br />

quale tocca risolvere un problema logistico mai prima di allora affrontato nel deserto.<br />

Per rifornire le tre colonne che convergeranno su Cufra- egli deve provvedere al<br />

trasporto, con autocarri e cammelli, di ben 20 mila quintali tra viveri, carburanti,<br />

lubrificanti, munizioni e materiali vari. La prima operazione che Ronchetti deve<br />

compiere, intanto, è quella di riconoscere il terreno. Egli fa perciò compiere alcune<br />

ricognizioni dell'itinerario Gialo - Bir Zighen e del percorso Uau el Chebir - Uau en-<br />

Hamus -- Taizerbo. In base ai dati raccolti, si accerta che la colonna principale, che<br />

partirà da Agedabia, avrà davanti a sé un terreno facile, camionabile, per 640 chilometri,<br />

fino ai pozzi di Bir Zighen. Gli ultimi 180 chilometri, invece, presentano maggiori<br />

difficoltà perché al piatto serir si sostituisce una barriera di dune mobili. Anche le altre<br />

due colonne, che partono rispettiva<strong>mente</strong> da Zella e da Uau el Chebir, dovranno<br />

compiere un percorso difficile, ma comunque praticabile. A preparazione ultimata, il<br />

corpo di spedizione risulta composto da 654 nazionali (ufficiali, sottufficiali e truppa) e<br />

da 3321 ascari, con 378 automezzi, una sezione di autoblindate, 7 mila cammelli, 3<br />

cannoni, 70 mitragliatrici e 25 aerei da ricognizione e da bombardamento. Una forza<br />

almeno dieci volte superiore a quella dell'avversario.<br />

A Cufra, intanto, si attende con comprensibile inquietudine l'imminente attacco italiano.<br />

La preoccupazione è tanto più viva in quanto nella città santa del senussismo non c'è la<br />

concordia. Scems ed-Din, che fa parte della famiglia senussita essendo figlio di Ali el<br />

Chattabi, è contrario alla resistenza e vorrebbe andarsene in Egitto con tutta la<br />

popolazione delle oasi. Contrari a questa decisione sono invece il capo locale degli<br />

Zueia, Abd el Hamid bu Matari, i capi dei Mogàrba Saleh el Atèusc e Rhmed bu Sceaeb<br />

e il capo degli Ulad SuIeiman Abd el Gelil Sef en-Nasser. Insieme essi possono disporre<br />

di una mehalla forte di 600 uomini, con una buona dotazione di armi moderne ed un<br />

abbondante munizionamento. Essi sono perciò decisi di dare combattimento agli italiani<br />

alle porte di Cufra, contando sul loro affaticamento dopo il difficile percorso fra le dune<br />

mobili. A rinfrancarli nella loro determinazione, in dicembre giunge a Cufra un messo<br />

latore di una lettera di Ahmed esh-Sherìf con la quale egli investe dei pieni poteri Saleh<br />

el Atèusc e Abd el Gelil Sef en-Nasser. Questo intervento dell'ex Gran Senusso tronca il<br />

di verbio. Scems ed-Din, con alcuni ikhuàn, prende la strada dell'Egitto. Gli altri capi si<br />

preparano a resistere sbarrando le strade di accesso a Cufra (59).<br />

Il 20 dicembre 1930 la colonna principale del corpo di spedizione, che comprende i<br />

reparti del tenente colonnello Maletti e dei maggiori Lorenzini e Rolle, lascia Agedabia<br />

per Gialo, dove giunge, a scaglioni, tra il 22 e il 27. Una furiosa tempesta di sabbia, che<br />

danneggia autocarri e autoblinde, provoca un ritardo di tre giorni, cosicché la colonna<br />

non sarà pronta a ripartire, dopo la revisione delle macchine, che il 31 dicembre. II 9<br />

87


gennaio è ai pozzi di Bir Zighen, mentre le colonne secondarie, partite da Zella e da Uau<br />

el Chebir, raggiungono Taizerbo I'11 gennaio. Commentando questo secondo sbalzo,<br />

Graziani può con orgoglio sostenere che il corpo di spedizione «in 10 giorni attraversò,<br />

con marcia ammirevole per regolarità e disciplina, i 400 km di desolato serir che<br />

separano Gialo da Bir Zighen senza lasciare indietro, nel lungo e non facile percorso, né<br />

un uomo, né una macchina. La perdita si ridusse ad un centinaio di cammelli» (60).<br />

Il 12 gennaio 1931 Graziani si trasferisce in volo da Bengasi a Bir Zighen per assumere<br />

l'effettiva direzione delle operazioni nella fase conclusiva dell'impresa. Due giorni dopo<br />

viene ripresa l'avanzata verso sud. La colonna Maletti, partita da Bir Zighen, e la colonna<br />

Campini, che si è mossa da Taizerbo, marciano su itinerari mano a mano convergenti e<br />

vengono mantenute in contatto dagli aerei. AlI'alba del 19 gennaio, mentre sono in vista<br />

delle prime oasi di Cufra, il loro distacco è quasi annullato. Qualche ora dopo, verso le<br />

10, uno degli aerei in servizio di collegamento avvista la mehalla ribelle, che si è<br />

attestata sul margine settentrionale dell'oasi di el Hauuari, arroccandosi su alcune colline.<br />

II combattimento si accende subito furioso. Maletti cerca di prendere la mehalla tra due<br />

fuochi. I ribelli, dal canto loro, applicando la loro tattica tradizionale, si aprono a<br />

ventaglio e cercano di avvolgere le ali dello schieramento avversario. Ma troppo grande<br />

è la sproporzione tra le forze in campo. Dopo due ore di aspri combattimenti i ribelli<br />

sono costretti a cedere e si ritirano prima nell'oasi di el Hauuari, dove tentano ancora una<br />

breve resistenza, poi verso le oasi maggiori di et-Tag e di el Giof. Ma oramai la loro è<br />

una fuga disordinata che, come vedremo, non si arresterà che in Egitto o nel Tibesti. Sul<br />

terreno hanno lasciato un centinaio di morti, tra i quali il capo degli Zueia, Abd el Hamid<br />

bu Matari. Da parte italiana, due ufficiali e due ascari morti e 16 feriti (61).<br />

Subito dopo ha inizio l'inseguimento dei ribelli, sia da parte di reparti cammellati che<br />

dell'aviazione. In questo implacabile inseguimento, condotto per giorni e giorni e in tutte<br />

le direzioni, poiché i ribelli e le loro famiglie si sono frazionati, si completa la strage dei<br />

difensori di Cufra. Graziani parla di altri 100 uccisi, di 14 passati per le armi e di 250<br />

prigionieri, compresi le donne e i bambini. Ma il bilancio complessivo è molto più alto.<br />

Micidiale, come sempre, l'aviazione, che parte alla caccia con 25 apparecchi. Scrive uno<br />

dei piloti, Vincenzo Biani: «Partiti all'alba da Bir Zighen, gli apparecchi riconoscono sul<br />

terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono, finché giungono sopra gli uomini; le<br />

bombe hanno scarso effetto dato che il bersaglio è estrema<strong>mente</strong> diluito, ma le<br />

mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre,<br />

puntano un gruppo di cammelli e li abbattono. [...] II gioco continua per tutta la giornata;<br />

il giorno dopo si ripete; il terzo giorno anche; tutte le possibili vie di ritirata sono<br />

esplorate e battute fino alla distanza di trecento chilometri, fino a quando cioè si può<br />

avvistare l'ultimo fuggiasco. Le carovaniere della sperata salvezza diventano un cimitero<br />

di morti abbandonati, che nessuno penserà mai a sotterrare» (62).<br />

Mentre Graziani e Badoglio (giunto in volo da Tripoli) festeggiano a Cufra il loro<br />

successo (63), gli scampati al combattimento di el Hauuari e al successivo inseguimento<br />

si dirigono in gran parte verso il confine egiziano, gli altri verso il Tibesti e il Borcu.<br />

Saleh el Atèusc, con i suoi uomini e le loro famiglie, raggiunge el Auenat, l'ultima oasi<br />

88


con buona acqua in territorio libico, e più tardi i pozzi di el Merga. Da questo momento,<br />

mal consigliato da una guida infida, Saleh el Atèusc, con la sua gente, sbaglia cammino<br />

e comincia ad errare nel deserto alla disperata ricerca di acqua e di cibo. Vaga per 70<br />

giorni cercando invano l'accampamento di nomadi che gli era stato segnalato. «Nel<br />

frattempo — racconta — macellavamo i pochi cammelli rimastici per estrarre dalla loro<br />

vescica quel poco di liquido che vi si trovava, liquido che distribuivamo ai più assetati<br />

per salvarli da una morte sicura. Ben 170 persone hanno trovato la morte per la sete ed i<br />

superstiti sarebbero certa<strong>mente</strong> morti se la provvidenza non ci avesse assistiti<br />

nell'avviarci in una località dove trovammo un sacco di farina, uno di zucchero e the»<br />

(64).<br />

Avvistati final<strong>mente</strong> da una pattuglia di soldati inglesi, i ribelli vengono disarmati e<br />

avviati al posto di frontiera di Bu Mungar. In seguito vengono trasferiti in autocarro, su<br />

loro richiesta, nella valle del Mio, a el Minya, dove si accampano nella proprietà di Ali<br />

bey el Masti, grande protettore dei libici fuorusciti. «Dal nostro arrivo in questa località,<br />

— riferisce ancora Saleh el Atèusc — altre 17 persone hanno trovato la morte per forti<br />

diarree provocate indubbia<strong>mente</strong> dall'abbondanza del vitto consumato dopo un così<br />

lungo periodo di completa privazione» (65). Meno tragica, invece, la peregrinazione di<br />

Abd el Gelil Sef en-Nasser e della sua gente. Anch'essi toccano i pozzi di el Auenat e di<br />

el Merga e poi si perdono nel deserto al confine tra l'Egitto e il Sudan. Ma il loro incubo<br />

dura poco, perché vengono subito rintracciati dalle pattuglie anglo-egiziane ed avviati<br />

anch'essi a el Minya (66).<br />

La notizia che la città santa di Cufra è caduta nelle mani di Graziani e che i suoi<br />

difensori sono stati in gran parte massacrati riempie di dolore e di sdegno le popolazioni<br />

del mondo islamico. Il 9 febbraio 1931 il grande quotidiano del Cairo «Al-Ahràm»<br />

pubblica un articolo dal titolo I martiri della fede, nel quale si afferma, tra l'altro: «Il<br />

bilancio italiano sarà forse arricchito dal denaro che produrranno i beni confiscati ai<br />

senussiti, ma l'onore conta più del denaro ed è più caro dei propri figli» (67). «La Nation<br />

Arabe», dal canto suo, scrive: «Noi chiediamo ai signori italiani [...], i quali ora si<br />

gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di<br />

abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: ' Che cosa<br />

c'entra tutto ciò con la civiltà? ' Nei tempi moderni non sono consentiti questi metodi<br />

medioevali e certo essi non rialzeranno il prestigio del fascismo e dell'Italia agli occhi<br />

del mondo» (68).<br />

In Cirenaica l'occupazione di Cufra produce un'impressione ancora più profonda. Lo<br />

stesso Graziani ammette che «gli indigeni l'hanno vista con animo addolorato per il<br />

carattere squisita<strong>mente</strong> mistico che quell'oasi conservava». Graziani avanza anche<br />

l'ipotesi che la perdita di Cufra «potrebbe rinfocolare anziché affievolire lo spirito<br />

religioso che infiamma i combattenti del Gebel, tesi in un'ultima volontà di resistenza<br />

pur di mantenere alto il simbolo senussita». Egli è anche convinto che ora gli aiuti<br />

dall'Egitto si riverseranno in misura maggiore sul Gebel, proprio per mantenere viva la<br />

rivolta nell'ultimo lembo di Cirenaica libera. E conclude il suo dispaccio a Badoglio<br />

dicendo: «Mi compete perciò il dovere di reagire subito a qualsiasi senso di ottimismo<br />

89


possa ingenerarsi nei riguardi delle conseguenze della recente occupazione che, a mio<br />

parere, rimarranno circoscritte ad un fatto locale, se pur di indubbio valore morale» (69).<br />

NOTE<br />

(1) Il primo cenno all'esproprio delle zavie è contenuto in una lettera di Federzoni a<br />

Teruzzi del 15 giugno 1928. Il ministro chiedeva al governatore di presentargli un<br />

progetto per l'indemaniamento dei beni delle zavie e lo pregava di «togliere<br />

all'indemaniamento il carattere di provvedimento preso in odio alla religione» (ASMAI,<br />

Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 5179). Di studiare il problema veniva dato l'incarico al<br />

capo dell'Ufficio fondiario, il giudice Adolfo Fantoni. Si vedano i suoi rapporti:<br />

Relazione e schema di decreto circa l'acquisizione delle terre al patrimonio della colonia<br />

al fine della colonizzazione, Bengasi, 28 novembre 1928, n. prof. 1019; La natura<br />

giuridica degli auqaf delle zavie senussite della Cirenaica, Bengasi, 11 agosto 1930, n.<br />

prof. 8825 (in DLPA).<br />

2 ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 10891 del 19 agosto 1930.<br />

3 Fatta eccezione per la zavia di Giarabub, poiché la località era riconosciuta luogo santo<br />

anche da molti musulmani che non aderivano alla setta della Senussia. Le zavie erano<br />

49, così distribuite: 3 nella zona di Bengasi, 2 a el Abiar, 2 a Soluch, 8 a Barce, 6 ad<br />

Agedabia, 7 a Cirene, 11 a Derna 4 a Tobruk, 1 a Giarabub e 5 a Cufra.<br />

4 Insieme ai capi zavia fu confinato anche Hassan er-Ridà, sulla cui fedeltà Graziani<br />

nutriva molti dubbi (ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 25. Tel. 2968 del 17 agosto 1930).<br />

5 Cit. in R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 126.<br />

6 ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 29. Graziani a Badoglio, tel. 2055 del 5 giugno 1930.<br />

7 Ivi, pos. 150/7, f. 15. Fernando Valenzi, Relazione sull'accertamento del patrimonio<br />

delle zavie senussite in Cirenaica, 14 aprile 1931.<br />

8 Ivi, pos. 150/8, f. 25. Lettera n. 2230.<br />

9 Ivi, pos. 150/7, f. 16. Allegato ad una lettera di Graziani a Badoglio, n. 2143, del 7<br />

giugno 1930.<br />

10 Ibidem. L'incarico di predisporre l'accertamento del patrimonio delle zavie e il loro<br />

assorbimento da parte del demanio della colonia fu affidato al consigliere di Corte<br />

d'Appello Fernando Valenzi.<br />

11 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 149.<br />

12 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.<br />

90


13 Il 1° luglio 1930 Badoglio inviava a De Bono una lunga relazione con la quale lo<br />

metteva al corrente delle decisioni che aveva preso riguardo la deportazione degli<br />

indigeni. In questo documento, che ripete ed amplia le considerazioni fatte nella lettera a<br />

Graziani del 20 giugno, Badoglio, tra l'altro, tracciava un ritratto di Omar al-Mukhtàr<br />

particolar<strong>mente</strong> positivo: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di<br />

un'autorità e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con<br />

alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. Non è quindi possibile adoperare il<br />

solito sistema di incunearsi tra le gelosie, le rivalità, gli odi, che sempre esistono quando<br />

vi sono capi diversi. In tutti i momenti ed in ogni circostanza la sola sua ferma volontà<br />

detta legge. E' abilissimo come comandante e come organizzatore (ACS, Carte Graziani,<br />

b. 1, f. 2, sottof. 2).<br />

14 Per un accurato studio sulle deportazioni e la vita nei lager, si veda G. Rochat, La<br />

repressione della resistenza in Cirenaica, cit., pp. 155-89.<br />

15 ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel. 146, riservatissirno personale.<br />

16 Ivi, pos. 150/22, f. 98.<br />

17 F. Ravagli, Alba d'impero, cit., p. 59.<br />

18 Os, Felici, Terra nostra di Cirenaica, Sindacato italiano arti grafiche Roma 1932, pp.<br />

4344.<br />

19 ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco 5. Commissariato regionale di<br />

Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.<br />

20 Imerio da Castellanza, Orizzonti d'oltremare, Berruti, Torino 1940, pp. 133-34.<br />

21 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto n. 1058 del 2 maggio<br />

1931.<br />

22 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., cartina annessa alla p. 104.<br />

23 Secondo uno studio eseguito dal colonnello Enrico De Agostini nel 1922-23, gli<br />

abitanti della Cirenaica erano 185.400. Evans-Pritchard dava una cifra legger<strong>mente</strong><br />

superiore, che si avvicinava a quella del censimento turco. Secondo un'altra valutazione<br />

(Annuario statistico italiano 1928), gli abitanti erano 225.000.<br />

24 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 13 e 24.<br />

25 Lo stesso flagello si abbatté sul bestiame, che era la principale risorsa della Cirenaica.<br />

Rochat calcola che perirono il 90/95 per cento degli ovini, caprini e cavalli e l'80 per<br />

cento dei bovini e dei cammelli (G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica,<br />

cit., p. 161). Uno dei rari funzionari che cercò di contenere la furia distruttrice di<br />

Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio, Graziani così<br />

scriveva al MAI: «La forma mentis del dottor Daodiace era inveterata nei vecchi sistemi<br />

91


ed egli è stato sempre da me violentato perché seguisse i nuovi. Mai natural<strong>mente</strong> ho<br />

detto quale sforzo mi sia costato incanalare la volontà del funzionario in questione ai<br />

metodi nuovi da me attuati e da lui non approvati». «Che io non li approvassi - scriveva<br />

Daodiace a Brusasca il 7 gennaio 1951 - risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte<br />

ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le<br />

nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in<br />

che anno, un gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e<br />

bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se<br />

fosse loro stato impartito nuova<strong>mente</strong> un ordine consimile avrebbero preferito disertare»<br />

(AB, b. 44, f. 236).<br />

26 Os. Felici, op. cit., p. 44. L'autore fa intendere che si trattava di guardiani estratti dalla<br />

stessa popolazione di reclusi. Ma non era così. Si trattava invece di libici che già<br />

avevano servito come ascari nell'esercito italiano.<br />

27 Ivi, p. 45.<br />

28 Ibidem.<br />

29 Relazione sugli accampamenti cit., p. 20.<br />

30 E. Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979 p. 90.<br />

31 Ivi, p. 99.<br />

32 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto<br />

33 ACS, Carte Graziani, b. 4, f. 8, sottof. 8. Relazione di Egidi al Governo della<br />

Cirenaica, 6 marzo 1933. Migliaia di detenuti furono colpiti anche da deperimento<br />

organico, da oligoemie, da dissenteria bacillare e da elmintiasi.<br />

34 Il testimone allude agli ascari reclutati in Africa Orientale. Tra di essi, infatti,<br />

numerosi erano gli etiopici delle regioni settentrionali.<br />

35 E. Salerno, op. cit., p. 91.<br />

36 Ivi p. 90.<br />

37 Ivi p.95<br />

38 «L'Oltremare», n. 4, aprile 1931, p. 151.<br />

39 G. Bedendo, Le gesta e la politica del generale Graziani, Edizioni generali CESA,<br />

Roma 1936, p. 196.<br />

40 E. Canevari, op. cit., pp. 334-35. Ma il resoconto più reticente ed avvilente sui campi<br />

è quello di Giuseppe Bucco e Angelo Natoli, autori di L'organizzazione sanitaria<br />

92


nell'Africa Italiana, della serie L'Italia in Africa, edito nel 1965 dal ministero degli Affari<br />

Esteri. Gli autori non accennano mai ai campi di concentramento, ma li gabellano come<br />

attendamenti spontanei. Si legga, ad esempio, che cosa scrivono del famigerato lager di<br />

Soluch (p. 316): «La maggior parte degli Auaghir transumanti viveva, prima di<br />

raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone carsiche e boscose del Gebel». Il corsivo è<br />

nostro.<br />

41 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 21-22.<br />

42 Os, Felici, op. cù., p. 47.<br />

43 Ivi, pp. 48-49.<br />

44 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell'impero, cit., pot<br />

666-80.<br />

45 05. Felici, op. cit., pp. 44-45.<br />

46 «L'Illustration», 4 novembre 1933: Vers la farouche Senoussi, p.312.<br />

47 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. 3D. 3912 del 4 novembre 1930 Nello stesso<br />

telegramma Graziani consigliava di non inviare i nuovi arrestati ad Ustica, perché l'isola,<br />

già zeppa di deportati libici, rischiava di diventare un covo di intrighi.<br />

48 Ivi. Rapporto n. 1058, cit.<br />

49 Guglielmo C. Nasi, La guerriglia e l'impiego delle truppe in Cirenaica, in Governo<br />

della Cirenaica, Organizzazione marciante, Pavone, Bengasi 1931 p. 56.<br />

50 Ivi, p. 57.<br />

51 In uno di questi scontri cadeva Fadil bu Omar, luogotenente di Omar al-Mukhtàr e<br />

suo consigliere più ascoltato.<br />

52 Il traffico con l'Egitto si svolgeva in questo modo. I ribelli conducevano il bestiame<br />

razziato o di loro proprietà verso il confine e, qui giunti, barattavano con i<br />

contrabbandieri oppure con fuorusciti libici il loro bestiame in cambio di tè, tabacco,<br />

farina, indumenti, armi e munizioni. Ad un dato momento, il ministro italiano al Cairo,<br />

Cantalupo, avvertì Graziani che, da notizie in suo possesso, alcuni contrabbandieri<br />

sbarcavano viveri ed armi sulla costa della Cirenaica. Graziani promosse un'indagine,<br />

per poi affermare che la notizia era falsa (ASMAE, Libia, b. 5, f. 6).<br />

53 Cit. in Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero,<br />

Laterza Roma-Bari 1981, p. 352.<br />

54 Si veda, ad esempio, Sandro Sandri, L'esplorazione e il bombardamento di Cufra<br />

«Gazzetta del Popolo», 14 settembre 1930.<br />

93


55 Cit. in E. Salerno, op. cit., pp. 60-61.<br />

56 ASMAI, Libia pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 1148, riservatissima. Si era anche tentato<br />

di inviare un intermediario a Cufra per invitarne gli abitanti ad arrendersi senza<br />

combattere, ma De Bono non era convinto delI'efficacia di questa operazione e infatti fu<br />

lasciata cadere (ivi. De Bono a Badoglio, tel. 3591 dell'a giugno 1930).<br />

57 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 170.<br />

58 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 66641.<br />

59 Anche Mohammed Idris aveva inviato un suo corriere a Cufra per sconsigliare Scems<br />

ed-Din di evacuare l'oasi (ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Telespr. 24293/1139 del 20<br />

dicembre 1930).<br />

60 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 192.<br />

61 Graziani riconobbe il valore dell'avversario. Scrisse: «La mehalla ribelle [...] pur<br />

essendosi trovata di fronte a forze molto superiori di quelle contro le quali riteneva di<br />

cover combattere, si batté con audacia ed accanimento singolari e non cedette se non<br />

quando si vide irreparabil<strong>mente</strong> sopraffatta e quando capì che se avesse insistito sarebbe<br />

stata presa fra due fuochi e total<strong>mente</strong> annientata» (R. Graziani, Cirenaica pacificata,<br />

cit., p. 201). Si vedano, per l'impresa di Cufra, anche il libro di Dante Maria Tuninetti, II<br />

mistero di Cufra, Calcagni, Bengasi 1931; e l'articolo di Giorgio Menzio, Come<br />

giungemmo a Cufra, «Nuova Antologia», marzo 1937.<br />

62 V. Biani, op. cit., pp. 243-44<br />

63 Graziani non lesinò negli autoelogi. Scrisse che «l'occupazione di viva forza dell'oasi<br />

di Cufra rappresenta la più grande operazione sahariana che sia stata mai compiuta». E<br />

ancora: «In questa impresa, si assomma lo sforzo dei capi e dei gregari, sforzo<br />

eroica<strong>mente</strong> compiutosi nel silenzioso sacrificio del deserto, e che deve essere cantato ed<br />

esaltato come fonte inesauribile di forza e di bellezza morale» (R. Graziani, Cirenaica<br />

pacificata, cit., pp. 203 e 205).<br />

64 ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Cantalupo a MAE, telespr. 1551/482 dell'8 maggio 1931. Il<br />

racconto di Saleh el Atèusc fu raccolto da un informatore egiziano al soldo della nostra<br />

legazione al Cairo.<br />

65 Ibidem. Quando la carovana di Saleh el Atèusc fu avvistata e portata in salvo dal<br />

funzionario inglese ed esploratore M. P. A. Clayton, era ridotta a 37 persone. Clayton<br />

salvò anche la carovana guidata da Mohammed Mittah. Secondo i calcoli dell'esploratore<br />

inglese, i libici persero nel deserto alcune centinaia di uomini. Per i suoi salvataggi,<br />

Clayton ricevette una decorazione (cfr. «Bourse Egyptienne» del 4 giugno 1931). Nel<br />

1941 il maggiore Clayton guiderà i primi raid contro le basi italiane della Cirenaica.<br />

66 ASMAE, Libia, b. 1, f. 3. Cantalupo a MAE, telespr. 1960/615 del 12 giugno 1931.<br />

94


67 La traduzione dell'articolo in ASMAE, Libia, b. 1, f. 7.<br />

68 «La Nation Arabe» n. 2, febbraio 1931: L'impérialisme italien en Tripolitaine.<br />

L'occupation de Koufra.<br />

69 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Tel. 270 del 30 gennaio 1931.<br />

http://www.pasti.org/salerno.html<br />

Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia.<br />

Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare<br />

BOMBARDAMENTI E GAS<br />

Il presente scritto costituisce il terzo capitolo del libro "Genocidio in Libia: le atrocità<br />

nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931)" di Eric Salerno, SugarCo Edizioni,<br />

Milano 1979<br />

Si potrebbe definire un «falso per omissione» il volume firmato da Vincenzo Lioy e<br />

curato dal «Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa» , dedicato<br />

alle operazioni dell'Aeronautica in Eritrea e in Libia. Il libro fu pubblicato nel 1964 e ad<br />

un primo esame sommario poteva apparire come un tentativo di fornire, con un minimo<br />

di obiettività, una traccia di quanto era stato compiuto dalle forze aeree italiane in due<br />

momenti della conquista coloniale. Il tono spesso enfatico e trionfalistico, l'apologia<br />

dello strumento militare, infastidivano ma non sembravano intaccare una certa «onestà»<br />

storica dell'autore. Le operazioni di ricerca dei dor (i gruppi armati di ribelli) in Libia, gli<br />

avvistamenti compiuti dagli aerostati prima e dagli aeroplani poi, i bombardamenti che<br />

crescevano d'intensità con l'intensificarsi della guerra ma soprattutto con la crescita<br />

dell'arma aeronautica, sono puntual<strong>mente</strong> registrati. Meno spazio, viceversa, è stato<br />

concesso dall'autore a spiegare contro chi, in Libia, l'Arma aeronautica stava real<strong>mente</strong><br />

combattendo: la parola ribelli finisce per essere un termine anonimo ed insignificante<br />

quando non viene collocato nel contesto che l'ha generato. Altri autori certa<strong>mente</strong> non<br />

sospetti, come lo stesso Graziani riconoscevano come il ribelle libico era, in certe fasi<br />

della storia della Resistenza, l'intera popolazione del paese. Uomini, donne e bambini<br />

aiutavano chi combatteva con le armi e lo sostenevano non solo nascondendolo dai<br />

rastrellamenti ma anche attraverso un appoggio logistico e morale. Era una lotta di<br />

popolo quella che per anni ha paralizzato l'esercito italiano in Libia. E riconoscere<br />

questo particolare fondamentale, mettere l'accento su di esso, doveva apparire a<br />

Vincenzo Lioy come un'arma a doppio taglio: significava riconoscere che in molti casi,<br />

forse nella maggioranza dei casi, gli aviatori italiani gettarono le loro bombe su<br />

concentramenti di civili e non, invece, su gruppi di soli armati. Il problema - quello delle<br />

gravi omissioni - non è, però, questo. La verità, che poteva trasparire da una lettura<br />

accorta di certi libretti apologetici di regime e balzare agli occhi dai racconti freddi e<br />

quasi distaccati, ma resi fumosi dal passare degli anni, dei superstiti libici, è invece<br />

emersa da una ricerca negli archivi del Ministero degli esteri. Ed altri dati sono<br />

probabil<strong>mente</strong> nascosti negli archivi militari.<br />

95


Quasi più grave della stessa azione coloniale e fascista in Libia è la constatazione che la<br />

penna censoria dello storico «democratico» , incaricato di fornire un quadro il più fedele<br />

possibile di quanto di negativo e di positivo c'era nel passato coloniale dell'Italia, ha<br />

voluta<strong>mente</strong> nascosto all'Italia repubblicana una realtà spesso feroce. Una realtà che<br />

sarebbe stata giudicata ugual<strong>mente</strong> feroce allora, come viene giudicata tale oggi. La<br />

Libia fu per l'Arma aeronautica italiana ciò che Guernica fu in Spagna per la Luftwaffe<br />

di Hitler: un campo vivo su cui sperimentare le ultime tecniche della guerra. Per<br />

preparare altre guerre ed altre conquiste. Le prove di ciò esistono negli archivi italiani<br />

ma furono total<strong>mente</strong> - e voluta<strong>mente</strong> - ignorate dal Comitato per la documentazione<br />

dell'Opera dell'Italia in Africa.<br />

L'Italia con la sua aeronautica riuscì a stabilire in Libia alcuni record. Per la prima volta<br />

nel mondo aeroplani e dirigibili furono impiegati a scopo bellico. Per la prima volta un<br />

apparecchio volò di notte per una missione di guerra. Sotto i titoli a piena pagina dei<br />

giornali che fornivano un primo elenco delle vittime italiane della battaglia di<br />

Sciara-Sciat, il 25 ottobre 1911, c'era un collage fotografico che raffigurava i volti di<br />

cinque aviatori militari che avevano appena raggiunto Tripoli. «Il Messaggero»<br />

raccontava che:<br />

«Il campo di lancio per gli aeroplani è stato improvvisato in un campo di sofsa (il<br />

trifoglio per foraggio che vien coltivato nell'oasi dei dintorni di Tripoli, vicino al mare) a<br />

ridosso del cimitero degli ebrei a Bab Isdid» .<br />

E poi questo brano così «romantico» :<br />

«Uno dopo l'altro, con delle grandi tende verdi, sono innalzati gli hangars, i quali<br />

sembrano dei grandi padiglioni eretti per accogliervi un'elegante colonia di bagnanti...» .<br />

Gli aerei erano piccoli, imparavano a stare in volo, potevano caricare ancora solo<br />

modeste quantità di bombe. E gli attacchi contro le linee degli arabi o dei turchi<br />

sembravano efficaci a livello psicologico più che materiale. I primi anni della guerra,<br />

dunque, furono per l'Arma aeronautica una specie di rodaggio. Un rodaggio che valeva<br />

sia per le macchine che per gli uomini. E che avrebbe lasciato spazio e tempo allo<br />

sviluppo di armi sempre più micidiali e a tecniche di bombardamento più precise.<br />

Le alterne vicende della guerra libica fecero sì che cinque o sei anni dopo il suo inizio<br />

erano entrati in servizio aerei nuovi, più grandi e tecnica<strong>mente</strong> più capaci di svolgere il<br />

ruolo bellico al quale erano stati predisposti. Le azioni militari assunsero contorni<br />

diversi. Tra il maggio e l'agosto del 1917, ad esempio, furono eseguite in Tripolitania un<br />

centinaio di azioni offensive con il lancio di bombe incendiarie «sui campi di orzo dei<br />

ribelli, con mitragliamenti nelle oasi di Zanzur, Sidi ben Adem, Fonduc ben Gascir,<br />

Fonduc Scrif, Gedida, Agelat, Sormen, Punta Tagiura, Zavia, Azizia» . I campi dei<br />

ribelli intorno a Zanzur e a Zavia erano stati bombardati anche nel mese di aprile con<br />

1270 chilogrammi di liquido incendiario oltre a 3600 chili di alto esplosivo. La politica<br />

italiana nei confronti dei ribelli era già da allora quella della «terra bruciata» .<br />

96


Distruggendo i campi d'orzo si costringevano i «ribelli» , armati e non, ad abbandonare<br />

la lotta e a disperdersi verso zone dove sarebbe stato più facile sottometterli.<br />

Con l'aggravarsi della situazione politico-militare le autorità italiane furono costrette ad<br />

ammettere la crescente difficoltà per le formazioni italiane di imporsi alla popolazione<br />

libica. Le azioni militari e quelle dell'Aeronautica in particolare, assumevano toni<br />

sempre più «incisivi» . Dal 1924 al 1926 gli aerei avevano l'ordine di alzarsi in volo per<br />

bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane. Non<br />

si trattava di azioni militari contro altre forze armate, regolari o ribelli che fossero, bensì<br />

di bombardamenti indiscriminati della popolazione civile per fiaccarla e tentare di<br />

dividerla dagli uomini in armi.<br />

Nel notiziario politico inviato al governo della Tripolitania il 26 febbraio 1924 dal<br />

generale Mombelli ctè solo un breve accenno ad una di queste operazioni:<br />

«Caproni esplorò regione Uadi el-Faregh fino Bir Yaggadia, avvistò e bombardò a<br />

Giocch el Meter grosso attendamento circa centocinquanta tende coniche e rettangolari.<br />

Bombardò regione Saunno con esito visibil<strong>mente</strong> efficace settantina tende coniche e<br />

numeroso bestiame al pascolo. Bombardò ripetuta<strong>mente</strong> accampamento due chilometri<br />

est Bir Garbagniha di cui notiziario precedente nonché, nuclei armati scorti regione<br />

el-Gren Zauiet ed Gtafia et-Tumbia intenti lavori semina» .<br />

Non c'è bisogno di commentare questa breve nota. Lo stesso Mombelli, il 17 maggio<br />

1926, inviava al Ministero delle colonie una lunga relazione in cui spiega come le forze<br />

armate a sua disposizione fossero impegnate a conseguire una serie di obiettivi come<br />

«impedire raccolta orzo da parte ribelli e distruggere vasti seminati esistenti nel Gebel<br />

meridionale» . Le descrizioni non mancano:<br />

«...aviazione assolse assai bene compito collegamento segnalando obiettivi alle colonne<br />

operanti e compiendo bombardamenti. Così mattino giorno sette Caproni di Apollonia<br />

bombardava greggi lungo uadi el Greihat e lanciava bombe incendiarie sulle messi di<br />

uadi Mekeughina. Pomeriggio giorno otto apparecchi di Merg spezzonavano e<br />

mitragliavano efficace<strong>mente</strong> accampamenti in fuga nello uadi Scebeicha, affluente del<br />

basso Sammalus. Ribelli risposero al fuoco colpendo ripetuta<strong>mente</strong> apparecchi. Mattino<br />

seguente aviazione Merg bombardò accampamenti presso Gadir Bu Ascher e anche in<br />

questa occasione velivolo fu colpito da pallottola. Caproni di Apollonia mattino nove<br />

bombardava accampamenti e bestiame a sud Gasr Remtaiat. Durante volo osservatori<br />

hanno rilevato vasti incendi delle messi provocati dalle nostre colonne e hanno raccolto<br />

indicazioni di seminati ancora intatti che costituiranno obiettivo ulteriori operazioni...» .<br />

La politica della «terra bruciata» , del terrore, aveva spinto migliaia di uomini, donne e<br />

bambini a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l'Algeria, chi in direzione del Ciad o<br />

dell'Egitto. I morti e i feriti non si potevano contare. E i bombardamenti diventarono più<br />

violenti, più scientifici e, come si è detto, anche «sperimentali» . Così come Guernica fu<br />

sperimentale per l'aviazione nazista, l'Arma aerea italiana si servì della guerra di Libia<br />

per prepararsi alla successiva conquista dell'Etiopia.<br />

97


Gife è un punto sulla carta geografica della Libia. Una piccola oasi situata tra la costa<br />

mediterranea, a sud di Nufilia, e la catena dei monti Harugi. Un'ampia conca di alcuni<br />

chilometri di diametro nella quale, quando è stagione delle piogge, si formano alcuni<br />

stagni che in caso di piogge abbondanti assumono l'aspetto di veri e propri [aghetti. Nel<br />

1928 erano in corso le cosiddette «operazioni del 29° parallelo» , una vasta azione<br />

bellica che aveva tre scopi principali dichiarati: unificare la Tripolitania e la Cirenaica<br />

divise dalla ribellione delle popolazioni della Sirtica, occupare militar<strong>mente</strong> una catena<br />

di oasi - Socna, Zella, Marada, Augila, Gialo - sul 29° parallelo e tentare di consolidare<br />

l'effettivo dominio politico militare italiano sui territori a nord. Senza la riuscita di<br />

questo sforzo militare sarebbe stato impossibile tentare la rioccupazione del Fezzan e poi<br />

la riconquista della Cirenaica (mai in pratica sottomessa al dominio italiano) e lo<br />

schiacciamento della lotta di liberazione. Il 6 gennaio 1928 De Bono inviava al<br />

Ministero delle colonie questa breve relazione:<br />

«263 Op. U.G./Segreto/Novità giorno/Marce colonne proseguono regolar<strong>mente</strong>.<br />

Stamane, come stabilito, quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente<br />

distruzione. I quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia<br />

bombardando anche a gas circa quattrocento tende. Apparecchi fatti segno tiro di<br />

fucileria tutti rientrati base Sirte prima ore undici. Collegamento fra le tre colonne<br />

effettuato» .<br />

Nel volume sull'opera dell'Aeronautica questo episodio è raccontato in poche righe, ma<br />

dell'uso dei gas non si fa menzione. Eppure l'estensore del libro si è servito degli stessi<br />

documenti che abbiamo potuto consultare negli archivi del Ministero degli esteri e dai<br />

quali risulta, nonostante omissioni e lacune, l'uso sistematico di gas — proibiti dalla<br />

Convenzione di Ginevra — contro la popolazione civile della Libia. Esiste anche un<br />

altro racconto dei fatti di Gife. Non è ufficiale. Fa parte di Ali sul deserto, di Vincenzo<br />

Biani, un volume di ricordi di guerra presentato in termini elogiativi dal maresciallo<br />

Balbo:<br />

«Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a<br />

nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli<br />

indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua<br />

in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto.<br />

«Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire<br />

le piste dei fuggiaschi e trovarono final<strong>mente</strong> sotto di se un formicolio di genti in<br />

fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si<br />

riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva<br />

forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con<br />

gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava.<br />

«Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le<br />

mitragliatrici. Funzionavano benissimo. «Nessuno voleva essere il primo ad andarsene,<br />

perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando<br />

final<strong>mente</strong> rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie<br />

bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un'altra spedizione.<br />

98


«Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi<br />

sempre un po' di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il<br />

resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina,<br />

Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro<br />

fame» .<br />

Ogni pagina di questo libro è intrisa del clima di razzismo che sembrava, allora, aver<br />

coinvolto tutti. Non è un semplice racconto di esperienze militari truci come ogni<br />

avventura bellica, bensì un'apologia della violenza fascista - spesso negata dallo Sesso<br />

regime - nei confronti di un popolo che il Biani, come altri militari e politici, riteneva<br />

inferiore. In un certo senso Ali sul deserto è un'opera ingenua che tradisce con la loro<br />

esaltazione certi segreti come quello dell'uso dei gas.<br />

«Al di sotto era un brulicar di gente che fuggiva in tutte le direzioni, invano cercando un<br />

rifugio; ché la terra s'era tramutata, d'un attimo, in un campo di mine fatte saltare da una<br />

misteriosa potenza, folle e distruttrice. «Si vedevano le bombe staccarsi dalle fusoliere,<br />

in frotte quelle piccole da due chili, isolate le altre più grandi da dodici chili; rotolar giù<br />

disordinata<strong>mente</strong> fino a che non avevano trovato l'equilibrio della traiettoria, e poi<br />

precipitare come saette sui cumuli della gente e sugli ammassi di tende; con una tale<br />

precisione che sembrava seguissero l'attrazione magnetica del bersaglio. «Gli occhi degli<br />

aviatori, raccolta la visione dello spettacolo, riprendevano la fissità scrutatrice della<br />

indagine fredda, quando si trattava di guidare di nuovo la propria macchina sul folto<br />

della massa nemica. «Una fila di tende fu spazzata via da una folata di morte e i loro<br />

cenci si confusero a brandelli di carne sulla terra chiazzata di rosso. «Un branco di<br />

cammelli, colpiti in pieno, si abbatterono al suolo sull'orlo di un burrone, precipitando<br />

dentro, l'uno sull'altro. Da quella massa informe ancora agitata dai contorcimenti della<br />

rapida agonia, un rivolo di sangue allagò il fondo della valle, come allo zampillare d'una<br />

improvvisa sorgente. «Arrivava su fino in alto l'odore acre delI'esplosivo bruciato, e<br />

l'aria stessa era tutta in sommovimento. Gli scoppi si ripercuotevano sulle ali con sussulti<br />

e sobbalzi che mettevano a dura prova i muscoli dei piloti... «Una carovana di un<br />

centinaio di cammelli, terrorizzati dalle prime esplosioni, si erano allontanati in gran<br />

fretta, dondolando sulle groppe i loro carichi malfermi, ma due Romeo, che li avevano<br />

visti, volsero da quella parte. «Il primo passò sputando addosso alle bestie una spruzzata<br />

di pallottole che nella maggior parte andarono a vuoto, poi l'arma s'incantò e non volle<br />

più saperne di sparare. «Il pilota si arrampicò per aria lasciando libero il campo al<br />

compagno che sopraggiungeva, rasente a terra, dalla coda verso la testa della carovana,<br />

mettendo a segno un intero caricatore sui fianchi dei cammelli. «Molti stramazzarono a<br />

terra scoprendo i ventri obesi e annaspando nell'aria con le zampe lunghissime, unico<br />

mezzo a loro disposizione per dire che erano dispiacenti di morire. Ma nessuno li<br />

compianse. «Il Primo Romeo, anzi, riparato il guasto della mitragliatrice, ricalò giù e<br />

fece poco più lontano un altro mucchio di cadaveri» .<br />

Ali sul deserto ci ha fornito una traccia, labile e precisa sull'uso dei gas proibiti dalla<br />

convenzione di Ginevra e da tutti gli altri accordi internazionali:<br />

99


«Una volta furono adoperate alcune bombe ad yprite, abbandonate dal tempo di guerra<br />

in un vecchio magazzino ed esse produssero un effetto così sorprendente che i bersagliati<br />

si precipitarono a depositare le armi» .<br />

In effetti l'uso del gas non costituì un episodio isolato: esso faceva parte di un piano<br />

preciso e sistematico. I risultati delle incursioni aeree furono attenta<strong>mente</strong> studiati per<br />

conoscere non solo il numero delle vittime che esse provocavano e gli effetti immediati<br />

prodotti dalla morte chimica, ma anche per conoscere gli eventuali effetti ritardati su<br />

coloro che venivano sfiorati dai gas. E' un particolare, questo, sconosciuto della guerra di<br />

repressione - o non sarebbe il caso ora, di definirlo «di sterminio» ? - attuata da Graziani<br />

per conto del governo fascista di Roma contro la popolazione della Tripolitania, del<br />

Fezzan e della Cirenaica. Sono eloquenti questi brani tratti da una lunga relazione<br />

firmata dal generale Cicconetti ed indirizzata a De Bono alla fine del gennaio 1928.<br />

L'alto ufficiale afferma che «la maggior parte degli aggregati Ghedafa-Orfellini e<br />

Fergiani sono a noi sottomessi» e che i «Mogarba Reedat, colti alla sprovvista dalla<br />

nostra impetuosa avanzata sono fuggiti disordinata<strong>mente</strong> dopo aver subito ingenti<br />

perdite di uomini e di materiali» . Gli Orfella, come i Mogarba, non si erano mai<br />

real<strong>mente</strong> sottomessi ai conquistatori italiani. I primi, di origine berbera, nomadi della<br />

Sirtica di Socna e del Fezzan, avevano accettato un compromesso con le autorità italiane<br />

allo scopo - ciò si è dimostrato evidente in seguito - di impedire che il governo arrivasse<br />

a presidiare il territorio orfellino. Abd en Neby Belker, uno dei capi degli Orfella, nel<br />

1923 si schierò decisa<strong>mente</strong> contro i tentativi italiani di occupare il paese di Beni Ulid.<br />

Secondo Graziani gli elementi dissidenti erano divisi in due nuclei l'uno di un centinaio<br />

di armati a seguito dei fratelli Sef en Nasser di Brach; l'altro, di circa duecento fucili,<br />

seguiva Abd en Neby Belker. I Mogarba, anche essi nomadi della Sirtica, si dividono in<br />

due rami: Mogarbet es Reedat e Mogarbet es-Sciamach. In una relazione dello Stato<br />

maggiore della Tripolitania (1930) si afferma che:<br />

«...i Mogarba, anche nel passato, non solo non si sottomisero al nostro Governo, ma ci<br />

opposero valida resistenza nel marzo 1914, sostenendo contro le nostre truppe il<br />

combattimento di Nufilia; mantennero poi sotto assedio lo stesso presidio fino a che, per<br />

intervenute trattative, quest'ultimo non si ritirò a Sirte (novembre 1914)» .<br />

Nel 1926 la popolazione Mogarba era dislocata lungo il uadi Faregh (i Sciamach) e nella<br />

Choscia (i Reedat). «Ribelli» erano gli armati e l'intera popolazione «civile» , donne e<br />

bambini. Si trattava di un popolo che resisteva all'esercito italiano e non un nucleo di<br />

guerriglieri isolato e privo del supporto popolare. Le operazioni militari italiane, e<br />

soprattutto, quelle eseguite dall'Aeronautica assumevano proprio per questo fattore i<br />

contorni di un genocidio programmato. L'uso sistematico dei gas è dimostrato dai<br />

documenti in cui viene inoltre sottolineata l'efficacia dei bombardamenti. Il generale<br />

Cicconetti, nella sua relazione, spiega infatti:<br />

«a) che le perdite in uomini sono certa<strong>mente</strong> di gran lunga superiori a quelle segnalate le<br />

quali si riferiscono solo ai caduti contati sul terreno e non tengono conto dei feriti che<br />

non possono essere mancati né di quelli caduti in seguito agli effetti micidiali dei<br />

bombardamenti aerei e agli effetti non considerati né accertabili subito dei gas. «A prova<br />

100


della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai l'apparizione dei<br />

nostri aerei perché grossi aggregati spariscano allontanandosi sempre più. «b) che anche<br />

per il bestiame, a quello catturato e distrutto dalle mitragliatrici va aggiunto quello<br />

colpito dai gas e dalle bombe degli aerei e che è finora incalcolabile. Le plaghe<br />

bombardate non hanno ancora potuto essere visitate e solo quando lo saranno potremo<br />

dire l'ultima parola» .<br />

Nella maggior parte delle relazioni e dei telegrammi inviati dalla colonia al ministero si<br />

tende ad utilizzare la parola generica di «ribelli» per indicare le vittime delle azioni<br />

militari. In alcuni casi però la distinzione fra armati e popolazione civile sembra passare<br />

inosservata attraverso le maglie di ciò che costituiva, evidente<strong>mente</strong>, una forma di<br />

censura. Il governatore della Cirenaica Teruzzi, in una delle sue note quasi quotidiane al<br />

Ministero delle colonie parla dell'uccisione di due uomini e di quattro donne nel corso di<br />

un bombardamento sul Gebel, la zona montagnosa dove si trovavano allora la<br />

maggioranza degli accampamenti dei nomadi, e di risultati molto efficaci ottenuti<br />

durante altre azioni dello stesso genere nella zona.<br />

Non viene specificato il tipo di ordigno lanciato dagli aerei, cosa, invece, che fu fatta il 4<br />

febbraio 1928 dal governatore della Tripolitania De Bono, nelI'informare i suoi superiori<br />

che nella stessa giornata «come già preannunciato» tutti i Caproni disponibili si erano<br />

portati in volo a sud di Gifa (Gife). I ribelli avevano già levato il loro accampamento e<br />

«con cammelli carichi erano già in movimento verso sud-est. «Sono stati bombardati con<br />

circa tre tonnellate di esplosivo e bombe iprite con evidenti risultati...» . Un'altra<br />

operazione dello stesso tenore fu comunicata da Teruzzi il 12 febbraio:<br />

«Gebel. Ieri undici aviazione Mechili bombardato efficace<strong>mente</strong> noto accampamento<br />

con bestiame pascolante due chilometri ovest uadi Tamanlu. Risulta da fonte attendibile<br />

che recenti bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina<br />

persone uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti...» .<br />

Sette giorni più tardi - come informava ancora Teruzzi - una pattuglia di Caproni 73<br />

dell'aviazione di Bengasi sganciava otto quintali di gas iprite su un accampamento di un<br />

centinaio di tende e «numeroso bestiame» nella regione che si trova quindici chilometri a<br />

sud-est del uadi Engar. «Sembra» , aggiunge Teruzzi, «che nello Zeefran Heleighima<br />

ribelli abbiano abbandonato quaranta tende, di cui venti coniche, in seguito ripetuti<br />

bombardamenti gas» .<br />

Nel 1930 troviamo la firma di Badoglio sotto un telegramma inviato da Roma a Siciliani<br />

a Bengasi e per conoscenza a De Bono, ministro delle colonie. Riferendosi alla<br />

situazione in Cirenaica Badoglio ammonisce: «si ricordi che per Omar el Muchtar<br />

occorrono due cose: primo, ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa<br />

con aviazione e bombe iprite. Spero che dette bombe Le saranno mandate al più presto» .<br />

Le bombe arrivarono. E furono usate in modo sempre più massiccio ed indiscriminato.<br />

C'è in Cirenaica pacificata, uno dei volumi con i quali il generale Graziani volle<br />

giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio della<br />

101


popolazione libica che già all'epoca gli venivano rivolte, un breve capitolo sul<br />

bombardamento di Taizerbo avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l'esortazione di<br />

Badoglio all'uso dell'iprite. Nella lingua dei tebù, una delle numerose tribù camitiche<br />

africane, Taizerbo sta per «sede principale» . Oggi i tebù abitano più a sud, nelle<br />

montagne del Tibesti parte in Libia, parte in Ciad, ma una volta essi avevano a Taizerbo<br />

la sede del loro sultanato. Situata duecentocinquanta chilometri a nord-ovest di Cufra,<br />

l'oasi è lunga venticinque-trenta chilometri, larga dieci ed è solcata nel mezzo da un<br />

avvallamento che contiene stagni salmastri e saline. All'epoca dell'intervento italiano vi<br />

si trovavano gruppi di palme, tamerici, acacie, giunchi e vi sorgevano una decina di<br />

nuclei abitati. Per la conquista di Cufra sede della Senussia, centro spirituale della<br />

resistenza antiitaliana Taizerbo era considerata un'oasi di grande importanza strategica.<br />

Scriveva Graziani:<br />

«Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di<br />

partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l'oasi e<br />

- se del caso - bombardarla. «Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 - non riuscito, per<br />

quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento<br />

del motore di un apparecchio - la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e<br />

brillante<strong>mente</strong> portata a termine. «Quattro apparecchi Ro, al comando del ten. col. Lordi,<br />

partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10 dopo aver raggiunto<br />

l'obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende.<br />

«Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero<br />

eseguite fotografie della zona. «Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori,<br />

catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla<br />

popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico» .<br />

Vincenzo Lioy, l'autore del volume sul ruolo dell'aviazione in Libia, riprese senza<br />

modificarla di una virgola la versione riferita da Graziani nel suo libro. Ma Graziani<br />

aveva tralasciato l'importante particolare dell'uso di grandi quantità di iprite ed aveva<br />

omesso di riportare una relazione agghiacciante che gli era pervenuta qualche mese dopo<br />

sugli effetti del bombardamento. Questa relazione, regolar<strong>mente</strong> archiviata, era<br />

ugual<strong>mente</strong> a disposizione dello storico Lioy quando fece la sua ricerca. Da un rapporto<br />

firmato dal tenente colonnello dell'Aeronautica, Roberto Lordi, comandante<br />

dell'aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il<br />

17 agosto) si apprende che i quattro Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite,<br />

da 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili. Stralciamo dalla relazione la parte<br />

che si riferisce all'avvicinamento e al bombardamento di Taizerbo.<br />

«...in una specie di vasta conca s'incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che<br />

non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le<br />

palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini<br />

verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano<br />

abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una<br />

decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose<br />

persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila<br />

102


indiana passando sull'oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato<br />

visibil<strong>mente</strong> efficace» .<br />

II primo dicembre dello stesso anno il colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie<br />

sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo<br />

«ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni<br />

or sono» . E' una testimonianza raccapricciante raccolta material<strong>mente</strong> dal comandante<br />

della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila.<br />

«Come da incarico avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho<br />

interrogato il ribelle Mohammed bu Alì, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal<br />

bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. «II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a<br />

Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze<br />

immediate vi sono quattro morti. «Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. «Egli<br />

ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da<br />

forti bruciature. «Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva<br />

ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di<br />

liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. «Riferisce ancora<br />

che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il<br />

bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma<br />

tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano. «Oltre a quelle sopradette<br />

non ha saputo fornire alcuna altra notizia» .<br />

Secondo l'Enciclopedia Americana l'iprite puo provocare malattie ereditarie ed i suoi<br />

effetti si potrebbero riscontrare, perciò, non solo nelle persone diretta<strong>mente</strong> colpite dai<br />

bombardamenti ma anche nei loro discendenti. La Treccani afferma che l'iprite (prese il<br />

nome dalla città francese di Ypres nelle cui vicinanze fu lanciata per la prima volta dai<br />

tedeschi nel 1917) attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto, distruggendole<br />

completa<strong>mente</strong>. Non solo agisce sulle mucose, ma anche sulla pelle producendo<br />

infiammazioni vesciche e piaghe assai difficili a guarire. Più violente<strong>mente</strong> (è sempre la<br />

Treccani che lo specifica) agisce sulle mucose degli occhi e, quando venga respirato il<br />

suo vapore, sulle vie polmonari. Se con la respirazione i vapori d'iprite entrano nel<br />

circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi, producendo rapida<strong>mente</strong> la morte. Non c'è<br />

dubbio che l'effetto dei gas sulla popolazione libica, priva peraltro di qualsivoglia<br />

possibilità di ricorrere a moderne cure mediche, doveva essere micidiale.<br />

L'uso dell'iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione<br />

civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certa<strong>mente</strong> uria scelta sia militare che politica<br />

come i bombardamenti della popolazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di<br />

colonizzazione ben precise. L'Italia fascista era pronta ad inviare in Libia migliaia di<br />

coloni che avrebbero potuto coesistere con la popolazione locale soltanto se questa<br />

avesse non solo accettato di sottomettersi all'autorità di Roma, ma soprattutto di<br />

modificare radical<strong>mente</strong> la propria esistenza nomade ed «anarchica» . L'Italia,<br />

comunque, aveva scelto per la Libia una forma di colonizzazione basata sulla gestione<br />

delle ricchezze della terra attuata diretta<strong>mente</strong> da coloni italiani con lo sfruttamento, ove<br />

fosse possibile, di manodopera locale. Per Graziani, che aveva carta bianca sul terreno, e<br />

103


per i dirigenti politici e militari che da Roma lo spronavano a concludere al più presto<br />

una «conquista» cominciata quindici anni prima, la decisione di servirsi di gas tossici<br />

non poteva prescindere dalla consapevolezza che essi, colpendo in modo particolare la<br />

popolazione civile, avrebbero finito per distruggere, almeno in parte, quella forza-lavoro<br />

locale che un giorno, altrimenti, si sarebbe potuta mettere a disposizione dei coloni<br />

italiani. Probabil<strong>mente</strong>, nascosti negli archivi, giacciono ancora i documenti che<br />

potranno dimostrare - come già sembrano fare quelli finora reperiti - la non casualità<br />

della scelta italiana di utilizzare i gas tossici in Libia.<br />

Molto tempo era passato da quel lontano 1911 quando i primi aviatori italiani atterrarono<br />

in Libia, avanguardia di un'arma che con il passare degli anni si sarebbe affinata e<br />

ingrandita. Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l'aviazione della<br />

Cirenaica eseguì secondo fonti ufficiali ben 1605 ore di volo bellico lanciando 43.500<br />

tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice. Le fonti, però, non<br />

precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.<br />

__________________________<br />

Dattiloscritto di pp. 26, parzial<strong>mente</strong> numerate, senza data né firma, ad uso dei<br />

comandi dell’Aeronautica in Africa Orientale, come da timbro a inchiostro sulla<br />

prima di copertina e altre pagine interne. Corredato da tre fotografie.<br />

Istruzione sulla bomba C. 500 T.<br />

E’ diviso in parti:<br />

I. Istruzione sul funzionamento, conservazione ed impiego della spoletta "T" per bomba<br />

C-500 T.<br />

II. Caratteristiche e norme d’impiego della bomba C-500 T.<br />

III. Conservazione manipolazione della bomba C-500 T.<br />

IV. Tavole di tiro della bomba C-500 T e tabella di graduazione della spoletta "T" per<br />

detta bomba<br />

V. Appendice: rilievo della direzione del vento al suolo e della quota del bersaglio.<br />

[...]<br />

[p.10]<br />

La bomba C-500 T. è stata realizzata con lo scopo di permettere il tiro da alta quota con<br />

aggressivo liquido, contro bersagli di vaste dimensioni.<br />

104


Essa è munita della spoletta "T" la quale, come specificata nella I^ Parte, è congegnata in<br />

modo tale da provocare l’esplosione della bomba prima che questa raggiunga il suolo.<br />

L’esplosione genera una pioggia di aggressivo liquido che va a depositarsi sul terreno<br />

sotto forma di gocce di varia grandezza (più grosse al centro della zona colpita, più<br />

piccole ai bordi).<br />

L’area irrorata da ogni singola bomba e la concentrazione dell’aggressivo sull’area<br />

stessa, dipendono, come è ovvio, dalla intensità del vento dal suolo e d’altezza di<br />

scoppio della bomba.<br />

Per un’altezza di scoppio sul terreno che si aggiri sui 250 metri e per vento al suolo<br />

d’intensità compresa fra i 3 e i 9 m/s, si può considerare che l’area efficace<strong>mente</strong> colpita<br />

dall’aggressivo vari tra i 50.000 e gli 80.000 mq. Distribuiti in un ellisse molto allungata<br />

il cui asse maggiore, (disposto secondo la direzione del vento) può avere lunghezza dai<br />

500 agli 800 m., ed il cui asse minore può avere una lunghezza dai 100 ai 200 metri.<br />

[...]<br />

[pp.11-12]<br />

Circa l’efficacia dell’aggressivo liquido si può dire che esso agisce principal<strong>mente</strong> per<br />

contatto delle goccioline sulla pelle degli individui colpiti. Il contatto ha luogo anche<br />

attraverso gli indumenti di qualsiasi natura essi siano (lana, tela, cuoio, ecc) se chi li<br />

indossa, appena si accorge di essere colpito, non abbia l’avvertenza di liberarsene. I<br />

vapori sono dannosi solo in forti concentrazioni, concentrazioni che è difficile ottenere<br />

mediante l’impiego della bomba C-500.<br />

L’effetto dell’aggressivo liquido non è immediato. I primi sintomi si manifestano dalle 6<br />

alle ore 12 dopo che l’individuo è stato colpito. Dopo 12-24 ore si manifestano le prime<br />

lesioni che, se la superficie colpita è grande, sono gravissime e che, ad ogni modo sono<br />

di lentissima guarigione anche se la superficie colpita è piccola.<br />

La persistenza dell’aggressivo sul terreno, varia a seconda della natura di quest’ultimo<br />

ed aseconda [sic] della temperatura dell’aria. [...]<br />

Tenendo conto delle caratteristiche della bomba C-500 e delle proprietà dell’aggressivo<br />

in essa contenuto si possono trarre le seguenti norme generali a carattere orientativo,<br />

sulla scelta dei bersagli e sulle modalità d’azione, norme che dovranno di volta in volta<br />

essere applicate a seconda delle esigenze che la particolare situazione richiede.<br />

1. Scelta dei bersagli<br />

L’azione dell’aggressivo liquido è sempre diretta a colpire esseri animati (agglomerati di<br />

persone o di bestie).<br />

L’obiettivo animato può essere colpito diretta<strong>mente</strong> facendo cadere su di esso la pioggia<br />

di aggressivo, od indiretta<strong>mente</strong> facendo cadere la pioggia di aggressivo su una zona di<br />

105


terreno che esso certa<strong>mente</strong> ed entro breve tempo dovrà attraversare [meno di 24 ore].<br />

[...]<br />

In questo caso è da tener presente che, quando l’odore dell’aggressivo sia noto al<br />

nemico, questo potrà evitare di attraversare la zona infestata allungando magari il suo<br />

percorso di marcia. In tale caso si sarà solo causata al nemico una perdita di tempo, cosa<br />

questa che può però avere, in particolari condizioni, qualche importanza.<br />

[...]<br />

[13]<br />

Non sarebbe razionale, salvo in rari casi, impiegare contro piccoli nuclei quantità di<br />

aggressivo sia pure modeste perché pochi uomini potrebbero facil<strong>mente</strong> porsi in salvo<br />

dalla nube aggressiva portandosi sopravvento e soprattutto perché non si usufruirebbe<br />

del grande vantaggio offerto dall’azione portata con bombe C-500 di poter cioè colpire<br />

vastissime zone senza che nessuno degli esseri animati in esse contenuti possa sfuggire<br />

all’azione dell’aggressivo.<br />

(Archivio dell’ Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, Fondo AOI, cart.<br />

176, fasc.1.)<br />

Vediamo una documentazione fotografica su questa bomba:<br />

106


la bomba<br />

107


sotto un bombardiere<br />

un bombardamento con queste bombe su un villaggio<br />

108


un poco di morti<br />

un volto sfigurato dall'iprite<br />

109


http://www.intermarx.com/ossto/osstomenu.html<br />

Il genocidio italiano in Cirenaica, 1930-1931[1]<br />

di Matteo Dominioni<br />

La conquista della Libia negli anni si dimostrò ben più difficile di quanto si era<br />

propagandato. Anche durante gli avvenimenti bellici molte cose non si vennero a sapere,<br />

soprattutto in patria, per via di un distacco, cercato ed ottenuto nei fatti, tra il fronte e la<br />

patria. Tale distacco emerge prepotente<strong>mente</strong> nel momento in cui il conflitto si tramutò<br />

da nazionale, fatto da un esercito regolare di massa con gossi apparati per la creazione<br />

dell'opinione pubblica, in coloniale, fatto da volontari, coloni e mezzi militari più<br />

evoluti. Agli inizi del 1930 si stava ultimando, dopo un ventennio di guerra, la conquista<br />

della parte occidentale della Libia, la Tripolitania, mentre ad oriente, Cirenaica, era in<br />

atto uno scontro tra fascisti e patrioti libici che durò più a lungo e fu più intenso negli<br />

scontri.<br />

In gennaio il generale Graziani, sulla scia della popolarità e degli agganci seguiti alla<br />

conquista della Tripolitania, viene nominato vicegovernatore della Cirenaica e insieme a<br />

Badoglio diventa uno dei personaggi chiave della fase finale, quella risolutiva. Per farci<br />

un'idea del loro operato è sufficiente ricordare, per ora, che il primo diede vita ai<br />

"tribunali volanti" con diritto di morte per reati quali possesso di arma da fuoco o<br />

pagamento di tributi ai ribelli; il secondo propose l'utilizzo di strumenti terroristici, quali<br />

le bombe ad aggressivi chimici per stroncare la resistenza libica[2].<br />

Il fronte opposto era occupato dalla Senussia, organizzazione statuale dei seminomadi di<br />

religione musulmana. Nata agli inizi dell'ottocento, si basava su di numerose zauie,<br />

luoghi periferici del controllo politico, e allo stesso tempo religioso, che regolavano<br />

l'attività dei commerci, del pagamento delle decime e dell'attività amministrativa e<br />

giudiziaria in una società di numerosi duar, accampamenti talvolta militarizzati, sparsi<br />

per l'altopiano del Gebel.<br />

I fascisti compresero che per rompere i legami organizzativi della resistenza dovevano<br />

eliminare la Senussia come fattore di mantenimento dell'ordine feudale. In un territorio<br />

come quello del Gebel però non era accettata l'invasione di stranieri che poteva mettere a<br />

repentaglio il delicato equilibrio ecologico, in relazione alla densità demografica, che si<br />

era instaurato. L'altopiano presentava maggiori possibilità di coltivare e allevare<br />

bestiame soprattutto per la presenza di piogge senz'altro maggiori che nella parte<br />

occidentale del paese. Tale fertilità tuttavia veniva messa in discussione dall'arrivo di<br />

nuove genti che non avevano minima<strong>mente</strong> intenzione di mantenere il naturale ordine<br />

delle cose della natura ma di colonizzare e portare un altro mondo fondato sul dominio e<br />

non sul rispetto della natura.<br />

110


L'invasione fu vista come annientamento delle proprie risorse e di conseguenza della<br />

propria esistenza. Resistere significava tentare di sopravvivere, farsi soggiogare era, agli<br />

occhi dei libici, come andare incontro a un suicidio perchè avrebbe rotto il naturale<br />

rapporto di equilibrio con la natura e con esso la vita stessa. Chiarendo tale<br />

atteggiamento della maggioranza della popolazione locale, che non deve essere colto<br />

sola<strong>mente</strong> nell'omogeneità delle posizioni data la numerosa eterogeneità delle culture di<br />

origine tribale, è possibile comprendere il forte attaccamento per l'indipendenza che<br />

portò tutta la popolazione a collaborare coi ribelli ed a pagare di persona.<br />

Di fronte ai colonizzatori si presentava un problema di non poco conto: la zona più ricca<br />

della Libia, la Cirenaica, era quella che presentava una ribellione diffusa e difficile da<br />

sconfiggere perchè mimetizzata nel territorio e soprattutto perchè godeva dell'appoggio<br />

della popolazione. Non dev'essere trascurato il ruolo della dirigenza della resistenza che,<br />

grazie soprattutto all'opera di Omar al-Mukhtar, fu in grado di impiegare un efficiente<br />

sistema informativo e un veloce reclutamento delle forze.<br />

I fascisti decisero un'azione radicale sulla collocazione geografica delle etnie per mezzo<br />

di movimenti coatti di popolazione. A partire dal 25 giugno 1930 si decise per la<br />

creazione di campi di concentramento che dovevano contenere le popolazioni del Gebel<br />

che avevano dato maggiore appoggio alla resistenza. Furono immuni alla detenzione le<br />

popolazioni già sottomesse e quelle stanziate al di fuori del Gebel. Lo scopo era quello<br />

di rompere ogni legame tra ribelli e popolazione ma anche di rompere ogni possibilità di<br />

autosussistenza delle comunità. Lo stesso Badoglio, cosciente di cosa stava andando a<br />

fare, dice: "Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà<br />

dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata<br />

tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la<br />

popolazione della Cirenaica"[3].<br />

Quanti furono i deportati dal Gebel ai campi limitrofi alla costa? Giorgio Rochat giunge<br />

ad una stima, per approssimazione, di 100/120.000 persone, pratica<strong>mente</strong> tutta la<br />

popolazione del Gebel. Tuttavia, anche operando in modo così radicale, non si<br />

raggiunsero gli obiettivi prefissati cosicchè a fine agosto fu deciso di muovere<br />

nuova<strong>mente</strong> i campi in zone costiere perchè i legami tra Senussia e popolazione non<br />

erano venuti meno. Furono inasprite le sanzioni verso i detenuti e irrigidite le norme<br />

riguardanti la detenzione. All'interno dei campi vigevano condizioni precarie per la<br />

mancanza di cibo e di risorse; ci furono epidemie di tifo a cui difficil<strong>mente</strong> si riuscì a<br />

porre rimedio per l'assoluta mancanza medici - due per 60.000 detenuti - e di strumenti<br />

basilari, anche semplici pentole, per sterilizzare vesti e vettovagliamenti. Il disinteresse<br />

dei fascisti si tramutò in una filantropia che si concretava nel trasmettere, forzata<strong>mente</strong>,<br />

ai locali una sorta di etica del lavoro. Venivano negati i mezzi di produzione (terra e<br />

bestiame) ma allo stesso tempo si ricercava di inserire (sussumere) i locali in lavori di<br />

natura propria<strong>mente</strong> capitalistica.<br />

La popolazione del Gebel, una volta rinchiusa, divenne versatile serbatoio di forza<br />

lavoro a basso prezzo da inserire nelle innumerevoli opere pubbliche (soprattutto strade)<br />

che andavano di pari passo coll'occupazione. Ai lavoratori veniva dato un salario tre<br />

volte inferiore a quello degli italiani che li metteva su di un piano di subordinazione ed<br />

111


allo stesso tempo li privava gradata<strong>mente</strong> degli strumenti e delle conoscenze nei lavori<br />

tradizional<strong>mente</strong> sviluppati. Alle donne venivano dati telai e materie prime da impiegare<br />

nella fattura di tappeti e tessuti. Lo scopo era inserire gradata<strong>mente</strong> la popolazione entro<br />

un rapporto sociale legato al salario e alla produzione per l'accumulazione e non per<br />

l'autoconsumo. Tuttavia tali iniziative erano destinate a fallire, perchè i fascisti volevano<br />

ricreare in maniera coatta comunità artificiali di autosussistenza, senza rendersi conto<br />

che la precedente distruzione dell'autosussistenza formatasi attraverso pratiche graduali<br />

social<strong>mente</strong> e cultural<strong>mente</strong> accettate impediva poi di ricreare mondi artificiali<br />

funzionanti in tale realtà perchè ad essa estranei.<br />

Fu imposto un vero e proprio modo di produzione altro. Se le popolazioni erano in<br />

precedenza occupate nell'allevamento del bestiame e nell'agricoltura, ora venivano<br />

impiegate nella costruzione di opere edili o nella pesca. L'imperialismo italiano fu<br />

innanzi tutto esportazione di un modo di produzione che andò a destrutturare i rapporti<br />

sociali precedenti.<br />

Un altro modo per spezzare i legami tradizionali della società libica fu l'eliminazione del<br />

90-95% del bestiame tra gli anni 1930-1931. In una società dedita alla pastorizia, oltre<br />

che all'agricoltura e al commercio, venivano messi in discussione i requisiti minimi di<br />

approvvigionamento delle popolazioni del Gebel. Un ultimo provvedimento fu infine<br />

utilizzato per fare terra bruciata attorno ai ribelli di Omar al-Mukhtar: la proibizione del<br />

commercio con l'Egitto, dove circa 20.000 libici che si erano rifugiati erano certa<strong>mente</strong><br />

interessati a dare man forte ai patrioti. Più tardi, allo scopo di porre fine al contrabbando<br />

che avveniva per mezzo di piccole spedizioni su cammelli, i fascisti decisero di costruire<br />

un reticolato lungo 270 km lungo la direttrice Bardia-Giarabub. Dall'aprile a settembre<br />

1931 fu costruito tale recinto largo qualche metro e impenetrabile perchè controllato per<br />

mezzo di fortini e voli aerei.<br />

Una volta depredato il Gebel, per il lungo e per il largo, agli italiani non restava altro che<br />

porre fine alla resistenza in un ambiente final<strong>mente</strong> immune, dove i rastrellamenti<br />

risultarono efficaci a tale scopo. I ribelli non avevano più la possibilità di muoversi in<br />

maniera discreta ed era venuta meno la precedente copertura delle popolazioni. Gli<br />

esploratori al servizio degli italiani tallonavano i ribelli passando informazioni<br />

tempestive ai comandi per un pronto intervento. L'accerchiamento dei ribelli veniva fatto<br />

in maniera tale da presidiare eventuali vie di fuga. In caso di fuga intervenivano<br />

l'aereonautica e la cavalleria per inseguire in maniera più stringente il nemico.L'arresto<br />

di Omar al-Mukhtar avvenne nel settembre del 1931 e l'esecuzione della condanna a<br />

morte, già decisa in sede extragiudiziaria, si tenne, secondo macrabo rito colonialfascista,<br />

sulla pubblica piazza. Il 9 dicembre si riunirono i rimanenti oppositori<br />

all'occupazione e decisero per la resa. L'uccisione di Omar al-Mukhtar apparve come<br />

l'episodio definitivo di una serie che aveva portato a un veloce indebolimento della<br />

Senussia.<br />

Una volta intacccate, come si è visto, le basilari strutture della produzione, dei commerci<br />

e dell'amministrazione, la vittoria era totale . Furono distrutti non solo i caratteri<br />

propria<strong>mente</strong> endogeni della società senussita, ma anche quelli esogeni come il rapporto<br />

tra densità demografica-popolazione. E totale fu anche il dominio, che fu subito da tutta<br />

112


la popolazione nonostante i ribelli in armi fossero tra i 600 e gli 800, con variazioni a<br />

seconda del dor che veniva coinvolto negli scontri.<br />

Risulta enorme la sproporzione nel perseguire i ribelli e i loro fiancheggiatori: i secondi<br />

pagarono molto di più, primo perchè erano marginal<strong>mente</strong> coinvolti nelle battaglie,<br />

secondo perchè perirono in maggior numero. Si tenga conto del fatto che l'amnistia per i<br />

ribelli entrò in vigore prima della chiusura dei campi che andarono in contro a tale sorte<br />

proprio a causa della contraddizione per cui non si potevano perseguire le popolazioni<br />

anziché i diretti responsabili dei fatti.<br />

Secondo fonti italiane i morti tra i ribelli per il periodo 1923-1931 sarebbero stati 6.500<br />

ma c'è un vizio di forma in tali dati, che sono presi da materiale di parte. Altri sono i<br />

numeri macabri che emergono tenendo conto dell'esistenza dei campi, delle malattie, dei<br />

trasferimenti e dell'impoverimento arrecato alle popolazioni. Prendendo in<br />

considerazione valutazioni e censimenti della popolazione, effettuati prima e dopo la<br />

guerra dalle autorità coloniali, si ha la conferma di una impressionante diminuzione<br />

demografica nella Cirenaica. Da dati del 1928 gli abitanti sarebbero stati 225.000,<br />

mentre dal censimento del 1931 risulterebbero essere 142.000 compresi gli italiani e i<br />

nuovi immigrati. Tenendo conto di quanti fuggirono dal Gebel verso l'Egitto (10-15.000<br />

persone) e del tasso di incremento demografico, il genocidio fascista dovuto alla<br />

repressione sarebbe di circa 45-50.000 persone che crescono fino a 70.000 se ai dati<br />

italiani si sostituiscono quelli dell'antropologo Evans-Pritchard[4] .<br />

"Questo non è l'unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può<br />

consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla<br />

propaganda e dalla censura"[5].<br />

Una volta che la ribellione fu vinta le popolazioni non poterono tornare nei luoghi<br />

d'origine sul Gebel che erano destinati, essendo le zone più fertili, agli italiani. I libici<br />

subirono così la radicale modifica dei principali aspetti della vita materiale e non solo: in<br />

quanto seminomadi furono rinchiusi in riserve, dove essere sfruttati come manodopera<br />

semplice.<br />

GRECIA 1943: quei fascisti stile SS<br />

Domenikon come Marzabotto. Oltre 150 uomini fucilati per<br />

rappresaglia. Ora un documentario alza il velo sulle stragi del<br />

nostro esercito. Occultate.<br />

di Enrico Arosio da l'Espresso n° 9 del 6 marzo 2008<br />

113


I partigiani avevano fatto fuoco dalla collinetta, quando il convoglio aveva rallentato in<br />

curva, a un chilometro dal Villaggio di Domenikon. Erano morti nove soldati italiani.<br />

Dunque i greci andavano puniti: non i partigiani, i civili, Domenikon andava distrutta.<br />

Per dare a tutti «una salutare lezione», come scrisse poi il generale Cesare Benelli, che<br />

comandava la divisione Pinerolo. «Qui al villaggio, prima, i soldati italiani venivano per<br />

un'ora o due, flirtavano con le donne, poi se ne andavano. A Elassona avevano fidanzate<br />

ufficiali. Erano dei dongiovanni», racconta un contadino davanti alla cinepresa. Prima,<br />

sì. Non il 16 febbraio 1943. Quel giorno gli italiani brava gente si trasformarono in<br />

bestie.<br />

L'eccidio di Domenikon, la piccola Marzaabotto di Tessaglia, è un crimine italiano<br />

dimenticato. In stile nazista, solo un po' meno scientifico. Fu il primo massacro di civili<br />

in Grecia durante l'occupazione, e stabilì un modello. Il primo pomeriggio gli uomini<br />

della Pinerolo circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e fecero un primo<br />

raduno sulla piazza centrale. Poi dal cielo arrivarono i caccia col fascio littorio. Scesero<br />

bassi, rombando, scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle bruciarono tra<br />

le urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche. Gli italiani gliel'avevano detto,<br />

raccontano i vecchi paesani: «Vi bruceremo tutti». Il maestro, che capiva la nostra<br />

lingua, avvertì: «Mamma. Ci ammazzano tutti». Molti non avevano mai visto un aereo.<br />

Al tramonto, raccontano i figli degli uccisi, le famiglie di Domenikon furono portate<br />

sulla curva dei partigiani. Dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, tutti i<br />

maschi sopra i 14 anni, fu ordinato, sarebbero stati trasferiti a Larisa per interrogatori.<br />

Menzogna. All'una di notte del 17 gli italiani li fucilarono nel giro di un'ora, e i contadini<br />

dovettero ammassarli in fosse comuni. «Anche mio padre e i suoi tre fratelli», ricorda un<br />

vecchio rintracciato da Stathis Psomiadis, insegnante e figlio di una vittima che si è<br />

dedicato alla ricostruzione dell'eccidio, indicando la collina di lentischi e mini. La notte e<br />

l'indomani i soldati della Pinerolo assassinarono per strada e per i campi pastori e<br />

paesani che si erano nascosti: fecero 150 morti.<br />

È tutto ricostruito nel documentario "La guerra sporca di Mussolini", diretto cl Giovanni<br />

Donfrancesco e prodotto dal! GA&A Productions di Roma e dalla televisione greca Err,<br />

che andrà in onda il 14 marzo su History Channel (canale 405 di Sky), La Rai si è<br />

disinteressata al progetto. Il film, che riapre una pagina odiosa dell'Italia fascista, si basa<br />

su ricerche recenti della storica Lidia Santarelli. La docente al Centre for European and<br />

Mediterranean Studies della New York University, parlarndo con "L'espresso" di<br />

Domenikon e dei massacri italiani in Tessaglia, Epiro, Macedonia, li definisce "un buco<br />

nero nella storiografia". Che cosa sa il grande pubblico della campagna di Grecia di<br />

Mussolini ? Ricorda il presidente Ciampi, le commosse rievocazioni della tragedia di<br />

Cefaalonia, il generale Gandin e la divisione Acqui, le emozioni cinematografiche di<br />

"Mediterraneo" e del "Capitano Corelli", con gli italiani abbronzati, generosi. portati a<br />

fraternizzare. Una proposta di legge (Galante e altri) presentata alla Camera il 24<br />

novembre 2006 per istituire una Giornata della memoria delle vittime del fascismo<br />

accenna all'eccidio di Domenikon; ma è un'eccezione.<br />

114


Italiani brava gente? Per nulla. «Domenikon», dichiara la Santarelli nel film, «fu il primo<br />

di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso,<br />

comandante delle forze italiane di occupazione, emanò una circolare sulla lotta ai ribelli<br />

il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per annientare il movimento<br />

partigiano andavano annientate le comunità locali» . L'ordine si tradusse in<br />

rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e distruzione di riserve alimentari. A<br />

Domenikon seguirono eccidi in Tessaglia e nella Grecia interna: 30 giorni dopo 60 civili<br />

fucilati a Tsaritsani. Poi a Domokos, Farsala, Oxinià. Le autorità greche segnalarono<br />

stupri di massa.<br />

Civili trucidati dagli italiani per rappresaglia<br />

Azioni di cui pratica<strong>mente</strong> non esistono immagini, memorie sepolte negli archivi<br />

militari. il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il<br />

ripetersi delle violenze contro i civili. Nel film il diario del soldato Guido Zuliani<br />

racconta di rastrellamenti e torture. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris,<br />

scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: «Vi<br />

vantate di essere il Paese più civile d'Europa. ma crimini come questi sono commessi<br />

solo da barbari». Fu internato, torturato, deportato in Italia. La figlia: "Un incubo".<br />

Gli italiani imitarono i tedeschi, ma senza la loro tecnica. Nel campo di concentramento<br />

di Luisa, a nord di Volos dove nacque Giorgio de Chirico, furono fucilati per<br />

rappresaglia oltre mille prigionieri greci. Molti morirono, ricorda "La guerra sporca di<br />

Mussolini", di fame. denutrizione, epidemie. Le brande con i materassi di foglie di<br />

granturco erano infestate dalle pulci. L'occupazione (sino al settembre '43 gli italiani<br />

amministrarono due terzi della Grecia, un terzo i tedeschi) si caratterizzò per le<br />

prevaricazioni continue ai danni di innocenti. La Tessaglia era il granaio greco.<br />

L'esercito italiano eseguiva confische, saccheggi, sequestri. Introdotta la valuta di<br />

occupazione, il mercato nero andò alle stelle. La razione di pane si ridusse a 30 grammi<br />

al giorno. Il film mostra abitanti di Atene morti di<br />

115


Bambini vittime della carestia ammassati in ospedale ad Atene nel 1941<br />

fame gettati come stracci agli angoli delle strade. «Nel solo inverno 1941», ricorda la<br />

professoressa Santarelli a "L'espresso", «da carestia indotta dall'amministrazione italiana<br />

fece tra i 40 e i 50 mila morti. Nell'intero periodo morirono di fame e malattie tra i 200 e<br />

i 300 mila greci. Un altro capitolo poco studiato è la prostituzione: migliaia di donne<br />

prese per fame e reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani». Nel 1946<br />

il ministero greco della Previdenza sociale, nel censire i danni di guerra, calcolò che 400<br />

villaggi avevano subito distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane<br />

e tedesche, 200 dai soli italiani.<br />

116


La Grecia rimossa ci costringe a riflettere. Come dice nel film lo storico Lurz<br />

Klinkhammer, il massimo studioso di atrocità tedesche in Italia: «La leggenda del bravo<br />

italiano non è completa<strong>mente</strong> inventata. Ciò che è inventato è che tale immagine fosse<br />

l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». I generali Geloso e Benelli altro<br />

non fecero che applicare le linee guida del generale Roatta in Jugoslavia, che teorizzò la<br />

strategia «testa per dente». Klinkhammer dichiara che le fucilazioni italiane in Slovenia,<br />

nella provincia di Lubiana. ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta<br />

Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento<br />

italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il<br />

20 per cento dei prigionieri. Klinkhammer usa per l'esercito di Mussolini, ricordando i<br />

crimini in Etiopia e Cirenaica con l'impiego di gas contro i civili, il termine "programma<br />

di eliminazione". E se dopo il 1945 Badoglio e Graziani furono i primi due criminali di<br />

guerra elencati dalle autorità etiopi, per la Grecia e i Balcani furono sollevate analoghe<br />

richieste per i generali Roatta, Ambrosio, Robotti e Gambara.<br />

Fucilazione di civili in Slovenia<br />

A Londra la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra ricevette una lista<br />

con più di 1.500 segnalazioni di criminali di guerra italiani. Perché tutto andò<br />

insabbiato? Ecco un'altra rimozione nazionale. Nel 1946 era cambiato tutto: l'Europa<br />

spaccata in due tra Alleati e blocco sovietico. L'Italia di De Gasperi rientrava nella<br />

strategia di compattamento occidentale contro Stalin. Il nostro governo rifiutò la<br />

consegna dei responsabili di atrocità alla Grecia. Mentre De Gasperi istituiva una<br />

commissione d'inchiesta, chiedeva a Washington di temporeggiare. Stessa richiesta da<br />

Lord Halifax per il governo britannico, pur vicino alla Grecia, dove infuriava la guerra<br />

civile tra monarchici e comunisti. In breve: l'Italia rinunciò a chiedere estradizione e<br />

117


processo per i criminali nazisti (ricordate "l'armadio della vergogna"), la Grecia fece lo<br />

stesso con l'Italia. La Guerra fredda fu la pietra tombale alle richieste di giustizia (vedere<br />

intervista a Filippo Focardi qui sotto).<br />

Domenikon oggi è un paesino circondato dalla macchia, da ginepri, cardi e rosmarini. I<br />

tramonti lo tingono di rosa come nel 1943. I patrioti come Stathis Psomiadis hanno<br />

cercato di sollevare il velo dell'oblio, e questo documentario è un tributo agli innocenti.<br />

la realtà però è amara. Domenikon, riconosciuta città martire nel 1998, non è diventata<br />

memoria collettiva, come da noi Marzabotto. Molti greci non conoscono queste vicende.<br />

Perché già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere l'estradizione dei criminali<br />

italiani, la questione si chiuse. I processi non furono mai istruiti. Anni dopo anche il<br />

Tribunale di Larisa archiviò il caso. E di Domenikon resta la memoria di pochi, gente<br />

semplice, poco rnediatica, come si dice oggi. E un tramonto rosa malinconico. Sopra il<br />

villaggio, sopra la giustizia e la storia.<br />

IN NOME DELLA REALPOLlTIK<br />

colloquio con Filippo Focardi<br />

Perché di Domenikon e dei massacri italiani in Grecia ancora oggi non si sa nulla?<br />

Risponde lo storico Filippo Focardi dell'Università di Padova.<br />

«Ci si lavora in pochi, più o meno dal 2000. Si è studiata abbastanza l'Africa orientale,<br />

poco la Jugoslavia e la Grecia. Domenikon è a tutti gli effetti una strage sconosciuta».<br />

Esiste una differenza tecnica tra strage italiana e strage tedesca?<br />

«La differenza sostanziale, rispetto a Marzabotto, sta nel fatto che gli italiani trucidarono<br />

solo i maschi sopra i 14 anni. Klinkhammer parla del "codice maschile della guerra". Se<br />

vogliamo, Domenikon è paragonabile alla strage tedesca di Civitella Valdichiana, estate<br />

1944».<br />

Perché gli alleati protessero l'Italia dalle richieste sui crimini di guerra?<br />

«Primo motivo: lo status internazionale dell'Italia, che si differenziò dalla Germania<br />

dopo 1'8 settembre con il riconoscimento della cobelligeranza. Tutti i partiti italiani,<br />

dalla Dc al Pci, già dal maggio 1944, chiesero che i criminali di guerra fossero giudicati<br />

e puniti in Italia. Secondo: la politica degli angloamericani nella logica nascente della<br />

Guerra fredda. La Gran Bretagna, che era intenzionata a punire gli italiani per i crimini<br />

contro i prigionieri inglesi, col governo Attlee finì per proteggere Badoglio e la sua<br />

cerchia. Washington era impegnata a procrastinare, circa le richieste greche e jugoslave,<br />

118


dopo l'occupazione di Tito della Venezia Giulia, e gli inglesi si avvicinarono alle<br />

posizioni Usa anche per non indebolire il governo italiano. Nel 1946, in vista del trattato<br />

di pace, si impose una politica di stallo, con accordi diplomatici riservati».<br />

Temporeggiò anche il governo De Gasperi rispetto all'estradizione dei criminali nazisti .<br />

«Infatti. I criminali di guerra tedeschi processati in Italia, tra il 1947 e il 1962, furono<br />

pochissimi: appena 13 sentenze. Il nostro governo volle evitare un'ondata di<br />

procedimenti contro i tedeschi anche per proteggere i criminali italiani da un effetto<br />

boomerang. In Francia vi furono centinaia di processi, in Olanda oltre 200, in Danimarca<br />

77. In Italia non si ebbero sentenze capitali, l'ergastolo a Kappler, Reder e a un<br />

contumace. E anche Mischa Seifert arriva tardi».<br />

Le stesse autorità greche si arresero presto.<br />

«Che io ricordi, l'unico criminale italiano processato dai greci fu Giovanni Ravalli, del<br />

servizio informazioni della divisione Pinerolo, coinvolto nelle repressioni antipartigiane.<br />

Arrestato. giudicato dal tribunale di Atene. condannato all'ergastolo nel 1946. si salvò<br />

perché era stato compagno di scuola di Francesco Bartolotta, capo di gabinetto di De<br />

Gasperi: grazie all'azione del governo italiano fu graziato dal re nel 1950. Nella memoria<br />

collettiva greca i crimini italiani furono oscurati da due fattori: prima dalle atrocità<br />

tedesche, poi dalla sanguinosa guerra civile».<br />

E. A.<br />

___________________________-<br />

1939, mille morti in una foiba<br />

Etiopia: quella strage fascista<br />

mai raccontata<br />

dal nostro inviato PAOLO RUMIZ<br />

(Da Repubblica del 22 maggio 2006)<br />

119


ADDIS ABEBA<br />

FUCILATI dopo la resa o avvelenati con i gas nella grotta dove si erano rifugiati. Mille morti, come<br />

minimo. Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Srebrenica perché<br />

morirono anche donne, vecchi e bambini. Unico paragone possibile, le foibe, ma con<br />

un'esecuzione concentrata in un unico luogo. Le prove di un efferato crimine italiano<br />

riemergono in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell'impero, gettano luce sinistra su<br />

un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale. Le<br />

ha trovate in queste settimane Matteo Dominioni, 33 anni, dottore di ricerca dell'università<br />

di Torino. Prima le carte, documenti inoppugnabili. Poi le ossa umane, nella grotta<br />

dell'infamia, ancora avvolte da fosche leggende. La conferma definitiva di quanto avvenne<br />

in quelle ore tra il 9 e 1'11 aprile 1939. Tutto comincia per caso, con un pacco di telegrammi<br />

dimenticati in un faldone dal titolo «Varie» all'ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito.<br />

Dentro, un manoscritto senza firma, con una mappa della zona di Debra Brehan, 100 km a<br />

Nord di Addis Abeba, nell'alto Scioa. Il contenuto, confermato da altri documenti, è<br />

agghiacciante.<br />

UNA carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di<br />

liberazione, si è rifugiata in una grotta dopo essere stata individuata dall'aviazione<br />

italiana, e non accenna ad arrendersi pur essendo circondata da un numero soverchiante<br />

di uomini. La sproporzione è totale: le «salmerie» della resistenza etiope sono in<br />

prevalenza vecchi, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la<br />

cura dei feriti e il sostentamento dei partigiani alla macchia (ad Adua, mezzo secolo<br />

prima, dietro ai 100 mila combattenti e'erano 80 mila persone di supporto).<br />

120


La grotta ed alcuni poveri resti<br />

L'ordine dei Duce è perentorio: stroncare la ribellione che perdura sulle montagne a tre<br />

anni dall'ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stavolta stanare i ribelli è<br />

impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d'arsina e con la<br />

micidiale iprite che devastò le trincee della Grande Guerra.<br />

L'Italia ha firmato il bando internazionale di queste armi letali, ma ormai le usa in grande<br />

stile su autorizzazione di Mussolini. Nella grotta il «bombardamento speciale» — gli<br />

eufemismi sulle bombe intelligenti si inaugurarono allora — è portato a termine dal<br />

«plotone chimico» della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più<br />

«nobili» delle nostre Forze Armate.<br />

La notte dopo, una quindicina di ribelli armati tenta una sortita e riesce a scappare. Molti<br />

cadaveri vengono gettati fuori dalla grotta. Gli altri muoiono avvelenati o si arrendono<br />

all'alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, che il mattino stesso<br />

vengono fucilate, «d'ordine del Governo Generale». Come dire del generale Ugo<br />

Cavallero o dello stesso Amedeo di Savoia, pure lui di nobile reputazione. Un massacro,<br />

contro ogni norma della convenzione di Ginevra. Ma non è finita. Dentro c'è chi resiste<br />

ancora — uomini, donne e animali — e i nostri chiedono i lanciafìamme per<br />

«bonificare» l'antro, ramificatissimo. I meticolosi telegrammi degli alti comandi sono<br />

istantanee dall'inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at<br />

121


termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati<br />

finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini.<br />

Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche». La prevalenza di inermi disarmati<br />

tra i ribelli è ormai chiara. In quegli stessi giorni, in un'altra grotta della zona, ne<br />

vengono uccisi 62, di cui due donne. Ma vengono «risparmiate 62 donne et 58 bambini»,<br />

poi sono «catturati 33 muli, 3 cavalli et 23 asini denutriti dal lungo digiuno», e<br />

successiva<strong>mente</strong> altri «27 uomini, 16 donne e 4 bambini».<br />

Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato di Dominioni. Ma mancano ancora<br />

i riscontri sul terreno, così il ricercatore organizza un blitz col supporto dell'Istituto<br />

Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Va in Africa dove viene<br />

accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle. Siamo a fine aprile, in tempo<br />

per evitare le grandi piogge equatoriali. La mappa trovata allo Stato maggiore consente<br />

di individuare facil<strong>mente</strong> la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un terreno<br />

crivellato di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600<br />

metri di quota, alta sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà.<br />

La zona di uno dei numerosi crimini della brava gente italica<br />

E' dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme («non ottocento, ma migliaia di<br />

122


morti») e l'indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi — per altri 30<br />

chilometri fuori pista — fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia,<br />

180 metri a picco sopra la bocca dell'inferno. Il nome della grotta dice già tutto:<br />

Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuoi dire Fiume del<br />

Tiranno. All'imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell'esercito<br />

italiano. La gente del posto ha già elaborato magica<strong>mente</strong> l'evento, racconta che gli<br />

scheletri trovati davanti alla grotta sono «caduti dal cielo come monito» e poi sono stati<br />

spostati nella chiesa di Jigem, ora irraggiungibile perché infestata di briganti.<br />

Dentro la caverna non c'è più andato nessuno, da allora. Si dice che sia piena di spiriti,<br />

pronti a spegnerti la candela con un soffio per inghiottirti nel buio. Ma Dominioni ha una<br />

dotazione di torce elettriche che nessun Grande Spirito può toccare, così molti giovani<br />

del villaggio si fanno coraggio e decidono di accompagnarlo nella caverna, in una<br />

missione scientifica che per loro diventa esorcismo. Dentro, un labirinto, in parte<br />

impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce incerta delle torce per dare<br />

conferme. «Ossa dappertutto — racconta il ricercatore — quattro teschi, di cui uno con<br />

addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle<br />

granaglie». E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli<br />

accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all'aviazione italiana) o forse dai<br />

lanciafiamme.<br />

Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l'imboccatura della<br />

grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere con i mortai. Era quasi certa<strong>mente</strong><br />

l'iprite, il gas che corrode la pelle e brucia le pupille. E ancora: chi non fu fucilato, fu<br />

buttato nel burrone sotto la grotta. «Fu colpa degli ascari, le truppe indigene inquadrate<br />

nell'esercito italiano» è l'obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. «Ma gli<br />

ascari - ribatte Dominioni - non si muovevano mai senza l'ordine di un ufficiale bianco.<br />

La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell'esasperazione dei fascisti di fronte<br />

alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio».<br />

No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar,<br />

Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle<br />

acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i<br />

prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza,<br />

prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra «missione civilizzatrice»?<br />

L'Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito<br />

poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di<br />

«buono»— Italo Balbo governatore della Libia — fece frustare in piazza gli ebrei che si<br />

rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato.<br />

Quanti perfidi depistaggi della coscienza. «Ambaradan», per esempio. Da noi è una<br />

parola che fa ridere; vuoi dire «allegra confusione». Ma quando sai cosa accadde nella<br />

battaglia dell'Amba Aradam, montagna fatale dell'Etiopia, quel termine sembra coniato<br />

apposta per coprire l'orrore. Migliaia di tonnellate di iprite per stanare i nemici arroccati<br />

nelle grotte, cioè morte orrenda, inflitta vigliacca<strong>mente</strong> con sofferenze inaudite.<br />

123


Badoglio fece agli etiopi ciò che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è alla sbarra, e<br />

l'Italia non ha risposto dei suoi crimini.<br />

«C'è bisogno di parlarne — spiega Dominioni—il vuoto storico e morale da riempire è<br />

enorme. A ottobre sarà la prima volta che italiani ed etiopi dibatteranno insieme ad un<br />

convegno, a Milano, sull'Africa orientale italiana sotto vari aspetti, organizzato<br />

dall'Insmli. Prima non s'era fatto mai». La cosa, ovvia<strong>mente</strong>, dà fastidio. Chissà che agli<br />

etiopi non venga in <strong>mente</strong> di chiederci danni di guerra, cosa che finora non hanno fatto».<br />

«Gli etiopi non hanno mai capito perché l'Italia ha voluto quella guerra dopo<br />

innumerevoli trattati di pace, fratellanza e promesse di coesistenza pacifica» va giù duro<br />

il professor Abebe Brehanu, uno dei massimi storici di Addis Abeba. «E che sia chiaro<br />

— insiste — la vostra non fu una colonizzazione, ma una semplice invasione, contro<br />

tutti i trattati internazionali. Un atto di illegalità totale di cui ci chiediamo ancora il<br />

senso».<br />

ALCUNE CONCLUSIONI DEDICATE AI BIPEDI<br />

IMPLUMI ACEFALI<br />

Non sono altro che alcune informazioni fondamentali per persone<br />

pensanti ma, appunto, occorre essere pensanti. Come sappiamo i fascisti<br />

non lo sono e danno giudizi senza mai preoccuparsi di informarsi. Il loro<br />

cervello è piccino e vi sono pochi neuroni, tutti disastrati, molti zoppi e<br />

quindi non in grado di trasferire informazioni. Bisogna accarezzarli e dir<br />

loro sempre sì, in fondo sono come cagnolini sempre obbedienti al<br />

padrone.<br />

Riguardo al sindaco di Affile, Ercole Viri, probabil<strong>mente</strong> non sa chi<br />

era anche Almirante. Per ricordarglielo parto un poco indietro nel tempo.<br />

Quando Milano cadeva perché i partigiani la stavano via via<br />

occupando tutta, Almirante scappò dal palazzo del potere in cui era<br />

rifugiato, si travestì da partigiano con il foulard rosso al collo e scappò<br />

verso il Sud d’Italia. Ora, o Mussolini era un quaquaraquà oppure ciò che<br />

diceva aveva un senso. Ricordate il Se avanzo seguitemi e se indietreggio<br />

uccidetemi ! ? Ebbene i partigiani che lo hanno catturato non hanno fatto<br />

124


altro che rendere onore alle sue volontà, lo hanno ammazzato anche perché<br />

scappava con varie casse d’oro degli italiani verso la Svizzera. Un altro<br />

fuggiasco era proprio Almirante, un noto massacratore della RSI che<br />

firmava manifesti che condannavano alla fucilazione tutti coloro che<br />

avessero collaborato con la Resistenza. Fu Terracini che cercò di farlo<br />

arrestare ma un Parlamento imbelle fatto di democristiani e fascisti in<br />

doppio petto lo ha impedito. Fare un monumento ad Almirante ed<br />

intestargli una piazza può essere iniziativa solo di un paesino sperduto di<br />

una Repubblica delle Banane. Occorre inviare giornalisti e fotografi e<br />

fotografare alcuni strani abitanti della Repubblica.<br />

In questa Repubblica delle banane il Presidente è appeso ad una liana<br />

e si dondola senza sapere nulla del mondo in cui vive. Così Graziani<br />

sarebbe una brava persona ? Uno assolto dal crimine di collaborazionismo<br />

con i tedeschi. Bravo l’umano sulla liana ! E’ uno che sa tante cose ! Solo<br />

che Graziani non ha commesso crimini contro l’umanità perché ha<br />

collaborato con i tedeschi ma per altro, per moltissimo altro che in queste<br />

pagine è raccontato. Può darsi che ad un fascista le cose dette non facciano<br />

impressione, infatti sono crimini contro l’umanità e non contro quelli della<br />

Repubblica delle banane.<br />

Ma il sindaco che tra un’oscillazione ed un’altra della liana adocchia<br />

qualche notizia ci racconta di foibe e massacro degli italiani d’Istria.<br />

Poverino, non ne azzecca una. Ma poiché occorre salvare dal degrado tanta<br />

persona occorre raccontargli come stanno le cose.<br />

FOIBE: GLI ASSASSINI RECLAMANO LA<br />

MEMORIA<br />

www.<strong>fisica</strong><strong>mente</strong>.net<br />

Tanti anni fa, nel 1945, le brigate di Tito in Jugoslavia, si liberarono dal nazifascismo<br />

senza alcun intervento di qualche potenza esterna. Da soli, dopo anni sulle montagne<br />

e soggetti alle violenze criminali degli occupanti sostenuti da una Chiesa fascista,<br />

quella di Beato Stepinac, riuscirono a cacciare gli occupanti. Chi erano in dettaglio<br />

questi ultimi ? Tedeschi ed italiani che misero in piedi 22 campi di concentramento<br />

per sterminare i serbi, gli zingari, gli ebrei, i gay, ... ogni persona che puzzasse di<br />

125


antifascismo o risultasse diversa. Da questa operazione che tra gli italiani era guidata<br />

da generali e da ladri come Gelli che si addestrava alla professione rubando lingotti<br />

d'oro alla Banca di Belgrado.<br />

Nei campi di sterminio nazisti e fascisti, dove si veniva ammazzati anche da una<br />

mazza spaccapietre che ti colpiva sul cranio sfondandolo, furono fatte fuori 800 mila<br />

persone gettate in fosse comuni (vedi: http://www.<strong>fisica</strong><strong>mente</strong>.net/MEMORIA/index-612.htm ,<br />

http://www.<strong>fisica</strong><strong>mente</strong>.net/MEMORIA/index-299.htm, http://www.<strong>fisica</strong><strong>mente</strong>.net/MEMORIA/index-52.htm). La<br />

Jugoslavia ebbe nella Seconda Guerra Mondiale ben 1 milione e 400 mila morti civili<br />

(e 300 mila militari), l'11 per cento della popolazione. E l'Italia, uno dei Paesi che<br />

aveva scatenato i massacri, solo 400 mila morti di cui 80 mila civili per un totale<br />

dello 0,9 per cento della popolazione (sempre furbi !).<br />

Mano a mano che avanzava la sconfitta dei criminali, i tedeschi si ritirarono verso<br />

Nord mentre gli italiani scapparono verso Ovest inseguiti dalle brigate di Tito furiose<br />

per i 4 anni di crimini e violenze che avevano dovuto subire. I primi italiani li<br />

incontrarono in Istria e nei territori ex italiani della Dalmazia. La furia era<br />

incontenibile e gli italiani erano tutti uguali, tutti nemici acerrimi da sterminare. Ne<br />

presero a caso, li gettarono, alcuni ancora vivi, in fosse carsiche presenti nel<br />

territorio, le foibe. In totale questo secondo orrore comportò secondo la maggioranza<br />

degli storici dagli 8 mila ai 10 mila ammazzati.<br />

Questi i fatti che la retorica bolsa degli italiani brava gente non ha mai voluto<br />

riconoscere, Solo pochi storici ne hanno scritto ma le cose che documentavano non<br />

avevano alcuna risonanza perché gli italiani continuavano ad essere brava gente. A<br />

questa retorica si è associato anche Napolitano quando ha esaltato in modo<br />

commosso le vittime che sarebbero state della barbarie degli jugoslavi. Vi fu la<br />

protesta del Presidente della Slovenia ma Napolitano aveva ed ha certezze incrollabili<br />

che discendono dalle amicizie anticomuniste dei tempi miglioristi. E la storia non è<br />

maestra di nulla con i fondamentalisti.<br />

I fascisti, la loro parte più ottusa (quasi tutti), esaltano la festa del 10 febbraio.<br />

Eppure grazie ad altri storici come Del Boca abbiamo appreso delle stragi che i nostri<br />

fulgidi eroi al comando di Roatta, Graziani ed altri banditi hanno fatto in Africa. I gas<br />

che ammazzavano insieme all'Iprite, un napalm allo stato brado, contro popolazioni<br />

inermi per dare un impero al Duce esercitandosi nel razzismo mai morto in quei<br />

banditi (poveri diseredati italiani potevano e possono final<strong>mente</strong> sentirsi superiori a<br />

qualcuno ...).<br />

Quindi tutti felici e tra memorie e contromemorie non ve n'è mai una che ricordi il<br />

sacrificio di migliaia di partigiani che hanno ridato la libertà (oggi grave<strong>mente</strong> offesa)<br />

a questo Paese.<br />

126


Ma noi stiamo vivendo in diretta un falso continuo giornaliero e quindi non dobbiamo<br />

stupirci. Cosa è altrimenti la telenovela dell’ex buon Presidente del Consiglio che è<br />

vittima di magistrati cattivi ? Mai nessuno ha avuto tanti processi come me, dice ! Ma<br />

nessuno gli dice che forse è perché mai nessuno con tanti crimini da verificare si è<br />

azzardato ad assumere il potere.<br />

Ed ora sindaco, se impara la lezione può scendere dalla liana. Altrimenti resti<br />

pure lì, ce ne faremo una ragione e continueremo la nostra grama vita senza il suo<br />

pendolare. Un’unica avvertenza non spenda i soldi pubblici per sciocchezze m pensi<br />

ad un asilo, ad un ambulatorio, a cose utili a tutti … Ma già, da lassù lei non è in<br />

grado di vedere ….<br />

127

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