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Marzo - Club Alpino Italiano

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LETTURE. Pagine scelte<br />

Messner, la mia vita al limite<br />

Come nasce, come si manifesta lo<br />

spirito d’avventura nei bambini? Ci<br />

sono bambini più avventurosi di altri?<br />

Tra i vari motivi d’interesse che<br />

suscita il nuovo libro autobiografico di<br />

Reinhold Messner “La mia vita al<br />

limite” (Corbaccio, 300 pagine, 16,60<br />

euro), le pagine dedicate alla sua<br />

infanzia meritano un’attenta<br />

considerazione. Perché è esemplare<br />

come il forte carattere del grande<br />

alpinista altoatesino si sia imposto fin<br />

dalla più tenera età. Niente di nuovo<br />

sotto il sole, naturalmente. Infanzia,<br />

vocazione e prime esperienze di<br />

Messner erano già state raccontate,<br />

tra l’altro, in un prezioso libretto del<br />

CAI, “Montagna primo amore”,<br />

pubblicato nel 1992 dalla<br />

Commissione alpinismo giovanile. Ma<br />

ora il discorso si definisce<br />

compiutamente proiettando prima il<br />

bambino e poi l’uomo Messner in quel<br />

mondo fatto di rocce e di ghiacci così<br />

in sintonia con il suo carattere. Scritto<br />

in forma d’intervista affidando le<br />

domande al giornalista Thomas Hüetlin<br />

e la traduzione a Valeria Montagna, il<br />

volume ci restituisce l’immagine di un<br />

ultrasessantenne che ha chiuso con le<br />

grandi avventure ma non esita a<br />

gettarsi quotidianamente in quella che<br />

ha definito “l’impresa più pericolosa<br />

della sua vita”: i cinque musei sparsi<br />

tra il Bellunese e l’Alto Adige, nei<br />

quali sta investendo tutti i suoi<br />

risparmi (il prossimo dovrebbe aprirsi<br />

per Pasqua a Castel Firmiano, BZ).<br />

Ecco dunque, per gentile concessione<br />

di Messner e dell’editore, un brano<br />

desunto dalle primissime pagine, con il<br />

piccolo Reinhold impegnato in quella<br />

ricerca dei propri limiti che lo avrebbe<br />

portato a sperimentare nuove e<br />

rivoluzionarie (per l’epoca) tecniche di<br />

arrampicata e a salire sulle più alte<br />

montagne del mondo. Buona lettura.<br />

26 • Lo Scarpone n. 3 - <strong>Marzo</strong> 2006<br />

Era mezzogiorno, eravamo<br />

in quattro sulla cresta del<br />

Secéda nel gruppo delle<br />

Odle, io, mio padre e due dei<br />

miei fratelli. Sopra di noi la<br />

Piccola Fermeda. Alla luce<br />

abbagliante del sole la parete<br />

sud appariva molto ripida, ma<br />

articolata, la via di ascesa sembrava<br />

non lasciare spazio a<br />

dubbi. Come batuffoli di cotone<br />

alcuni cumuli parevano appesi<br />

alle Dolomiti sud-orientali, le<br />

cui cime svettavano sull’altipiano<br />

di Puez. Il tempo era quindi<br />

assolutamente stabile.<br />

Non erano solo la curiosità o<br />

una certa spavalderia che mi<br />

spingevano a osservare quella<br />

parete sopra di noi, si trattava<br />

di qualcos’altro. Forse volevo<br />

misurare i miei limiti. Dal<br />

momento che mio padre non<br />

obiettò, mi misi in marcia da<br />

solo e senza corda. Procedetti<br />

per un tratto lungo una cengia rocciosa,<br />

poi risalii obliquamente sulla<br />

destra. La parete, ruvida e piuttosto<br />

scivolosa, non era particolarmente<br />

ripida nel primo tratto, ma sotto i miei<br />

piedi strapiombava. Non guardai<br />

verso il basso, bensì fissai davanti a<br />

me la parete lungo la quale salivo,<br />

presa dopo presa, passo dopo passo.<br />

Era proprio questo quello che volevo<br />

fare: arrampicare senza guardarmi<br />

attorno, seguendo solo il mio istinto,<br />

trovando da solo la via. Di questo mi<br />

sentivo orgoglioso. Nel frattempo<br />

avevo raggiunto il passaggio chiave e<br />

cominciai a fissare con attenzione la<br />

parete verticale sopra di me.<br />

Individuata una serie di appigli per<br />

mani e piedi, iniziai ad arrampicare.<br />

Avevo rimosso qualunque cosa, gli<br />

unici concetti importanti erano presa,<br />

passo e movimento, non pensavo ad<br />

altro. Forse in qualche punto ho avuto<br />

un attimo di esitazione e il mio sguardo<br />

è scivolato giù verso il vuoto che si<br />

perdeva trecento metri più in basso<br />

fra verdi pascoli. Passato qualche<br />

metro arrampicare diventò più semplice<br />

e poco dopo raggiunsi la cima<br />

sud, per poi arrivare traversando su<br />

roccia friabile alla cima principale,<br />

dalla quale, guardando a nord, potevo<br />

vedere la Gschmagenhart-Alm, da<br />

dove quella mattina eravamo partiti<br />

per il nostro giro. Verso sud mi si presentavano<br />

tutte le più importanti<br />

vette dolomitiche, dal Sassolungo al<br />

Sass Songher, più in là, sullo sfondo, la<br />

Marmolada, il monte Pelmo e il<br />

Civetta.<br />

Per me arrampicare era qualcosa di<br />

più che un’attività sportiva. Il pericolo<br />

e le difficoltà facevano parte del<br />

quadro, così come il rischio e l’avventura.<br />

Scalare una grande parete significava<br />

mettersi in gioco completamente,<br />

attratti da un mistero e<br />

costretti per qualche giorno a poter<br />

contare solo su se stessi.<br />

Arrampicare vuol dire muoversi<br />

nello spazio aperto, essere liberi di<br />

osare qualcosa al di fuori delle regole,<br />

sperimentare, raggiungere una conoscenza<br />

più profonda della natura<br />

umana. Da questo processo emerge<br />

evidente che per ogni domanda c’è<br />

sempre più di una sola risposta, più di<br />

una storia in relazione a un’esperienza.<br />

Per quanto mi riguarda, nell’arrampicata<br />

la fantasia è molto più<br />

importante dei muscoli o di un atteggiamento<br />

sprezzante nei confronti<br />

della morte. Ha più valore della tecnologia,<br />

la crescita della persona è più<br />

importante di scale posizionate in<br />

ogni punto. I nostri tesori li troviamo<br />

nelle immagini, non nei tratti attrezzati.<br />

Ha più significato assicurare la<br />

varietà delle possibilità, piuttosto che<br />

attrezzare ogni metro di roccia.<br />

Reinhold Messner

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