paola alcioni – la stirpe dei re perduti - Sardegna Cultura

PAOLA ALCIONI
LA STIRPE DEI RE PERDUTI
IL MAESTRALE

NARRATIVA

Grafica
Imago multimedia
Foto di copertina
Renato Brotzu
Imago multimedia
© 2003, Edizioni Il Maestrale
Redazione: via Massimo D’Azeglio 8 - 08100 Nuoro
Telefono e Fax 0784.31830
E-mail: edizionimaestrale@tiscalinet.it
Internet: www.edizionimaestrale.it
ISBN 88-86109-72-5
PAOLA ALCIONI
La stirpe dei re perduti
IL MAESTRALE

A Ignazio Mameli
che ha creduto nei sogni

«Piangete tutti. Oggi la quercia
antica, dove spandea già
rami alteri all’aura, innalzerà
sue squallide radici.»
Vittorio Alfieri, Saul

Non ha fretta.
È un’ombra livida che confina in ogni tratto con quelle
del crepuscolo piovoso. Odora d’acidulo e di vento. Oltrepassa
l’arco diroccato e avanza sul sentiero dove ha visto
stagione dopo stagione sconnettersi le pietre. Nelle
ferite degli interstizi ha visto coagularsi il sanguigno della
salicornia e germogliare, sfioccarsi, rinsecchire e nuovamente
germogliare l’amaro tarassaco, insieme con una
carduacea che chiamano tribulía.
Tribulía…
Tribular i acabar…
S’Acabadora - l’ombra - non ha più ricordo di quante
volte ha percorso il sentiero. Sa solo che i passi dei suoi
piedi scalzi, ormai, non sentono più quelle spine e non lasciano
più impronte.
Curva sotto il peso del sago d’orbace - o forse del destino
di morte che un dio indifferente le ha gettato sulle
spalle tanto tempo prima - arriva fino al punto in cui l’onda
punteggiata di pioggia lambisce la riva. Là si ferma. E
seguendo con lo sguardo l’avanzare ed il ritrarsi della risacca,
china il capo e aspetta.
Aspetta oramai da tanto tempo.
11

I
Gurtei 1867 - Sa domu ’e is fogus
Attento…
Tres secrets tres,
tres secrets maleïts…
– Jesús meu! – L’invocazione le sfugge dalle labbra in un
gemito che spezza il respiro ansante. Donna Aleni Ballester
si è svegliata di soprassalto con la pelle raggricciata
dai brividi, seduta sul letto, circondata dal buio più completo.
Cerca di calmare il battito del cuore con qualche respiro
profondo, poi solleva il capo in ascolto.
C’è vento intorno alla casa: sempre rinforza nelle ore
che precedono l’alba e Larentu deve aver dimenticato di
fermare le imposte della stanza di mezzo. E c’è un altro
rumore: il frastuono del mare in burrasca, in fondo alla
valle.
Ma non è stato il vento, né il mare, e neanche il rumore
delle imposte a svegliarla. È stata una voce cantilenante,
acuta e lontana, come lo stridere remoto di unghie sul vetro,
là, oltre il cortile d’onore dalla parte delle mura fortificate
della casa di pietra, deserta.
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Oi Jesús, Jesús meu…
Valencia 1494 - Fortezza di Xàtiva
«Nell’altipiano battuto dall’urlo teso del maestrale, una
ghianda germoglia, diviene pianticella, arbusto, albero,
senza conoscere altro che la spinta proterva del vento.
E avverte quell’urto continuo sentendolo governato
dalla stessa legge che regola lo scorrere della linfa.
Anche gli esseri umani possono restare convinti, a lungo,
che crescere e lasciarsi piegare siano due tratti necessari
di un unico divenire.
Non tutti però, poiché l’anima di alcuni affonda le radici
in territori più alti di quelli del vento.
VIVO TIBI MORIENTUR OCULI, NEC QUIDQUAM VIDEBIS,
NISI DORMIENS.
Castell de Xàtiva, Valencia.
a iij dies de noembre any Mil CCCCXCiv»
L’oscurità tempestosa della notte di novembre, senza
annunci d’alba, avvolge ancora le trenta torri della fortezza
di Xàtiva dilavate dalla pioggia battente. Frate Inocencio
traccia sulla pergamena, per illustrare la breve riflessione,
il disegno di un albero deradicato e capovolto.
Il giovane cappellano soffia sulla candela e lascia lo
scrittoio. Percorsa in tre passi la larghezza della cella, si lascia
andare sul giaciglio, tirandosi addosso la coperta di
pelli d’agnello. Resta così, ad occhi chiusi, rabbrividendo.
Un’ora prima si è recato nella cappella per il Mattutino.
Il freddo e l’oscurità di quelle mura, insieme alla monotonia
delle preghiere solitarie, lo hanno immerso nel torpore.
Così nel sogno il gelo è diventato neve livida, spazzata
dal vento dell’alba sulla cima del monte Gennargentu e
segnata dai passi di un uomo in armatura. Quell’uomo re-
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ca i colori della casa di Trastamara: è Re Giovanni, padre
del cattolico Ferdinando, che ha preteso per sé il titolo di
marchese di Oristano, cancellando così l’ultima traccia
del glorioso giudicato, sopravvissuta alla distruzione vicendevole
della casa d’Arborea e di quella dei conti-re, signori
di Catalogna e d’Aragona.
Il Re guarda con occhi sprezzanti l’Isola, tutta ai suoi
piedi e, voltandosi ai quattro punti cardinali, rivolge allo
spirito di quella terra le parole che il pagano Apuleio faceva
pronunciare a Carite, mentre si chinava su Trasillo dormiente,
con il proposito di trafiggergli gli occhi: “Tu sarai
vivo, ma i tuoi occhi moriranno, e non vedrai mai più,
tranne che durante il sonno.” Vivo tibi morientur oculi,
nec quidquam videbis, nisi dormiens.
Così il signore di Trastamara pronunciava la sua condanna
per quella terra e per tutti quelli che in essa sarebbero
nati.
Inocencio ripensa ora, con stupore, all’apparenza di
realtà di quel sogno dal quale si è svegliato indolenzito,
sull’inginocchiatoio della cappella. Veramente, da che Leonardo
Alagon - che ricevette l’eredità degli Arborea e ne
raccolse le insegne abbattute - è rinchiuso nella prigione
di questo castello di Xàtiva, la Sardegna si è lasciata andare
a dipanare la sua miseria nella pace sonnolenta imposta
dal Re. Quel malato sopore sul quale trascorrono i venti
della peste, della carestia e i deliri delle febbri malariche,
non pare conoscere risveglio.
Il frate sospira. Lo scrosciare della pioggia gli dà la sensazione
di trovarsi in un altro luogo, lontano da queste
colline valenzane nel tempo e nello spazio: la casa della
sua infanzia. Può persino credere di sentirli i passi di sua
madre ed i rumori lievi del suo affaccendarsi.
Nell’abbandono che precede il sonno, culla a lungo l’illusione
di poter vedere, da un attimo all’altro, schiudersi
la porta e protendersi il volto caro a spiare il risveglio dei
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figli. E quasi percepisce il calore rassicurante dell’abbraccio
che lo accoglie dal tepore smarrito del sonno.
Ma ora nella casa lontana i rumori tacciono.
Così gli scrive il fratello.
Sotto il manto di silenzio che si è posato su quelle terre,
sua madre china il capo e si assopisce, vinta dalla stanchezza,
dalle privazioni e dalla febbre. Altri dormienti
porteranno fiori di campo sulla sua tomba tornando poi a
disperdersi, per i sentieri di quei luoghi di sonno.
Inocencio invoca la grazia di riuscire a convertire in cristiana
rassegnazione il senso atroce di perdita che gli ingorga
la gola di singhiozzi.
Una lacrima affiora tra le sue ciglia e scivola, calda, lungo
la tempia.
Gurtei 1867- Sa domu ’e is fogus
Tres secrets tres
tres secrets maleïts
i un maleït tresor…
Aleni ha appena acceso la lampada dello scrittoio quando
sente di nuovo la cantilena.
Preme le mani sulle orecchie e le parole, pronunciate in
una crespa del tempo dalla voce di un bambino - il timbro
è smarrito, ma acuto, come vicino al pianto - si fanno remote
fino a spegnersi.
Con la coda dell’occhio, senza voltare il capo, cerca al di
là del vetro, nell’oscurità, la mole della casa di pietra, incombente
su quelli che in passato erano i locali della servitù,
chiamati Sa domu ’e is fogus perché vi erano sempre
accesi i forni e is forreddas dove si preparavano i cibi per i
padroni.
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Oh, Vergine degli Abbandonati!
Prima o poi doveva succedere.
Aleni allontana le mani dalle orecchie e preme il palmo
aperto sullo scrittoio, cercando di calmarne il tremito.
Sotto le dita sente la pergamena di Inocencio e sorprende
in sé la certezza che anche il frate tremava allo stesso
modo, quattro secoli prima, mentre la arrotolava per portarla
con sé verso il suo destino tragico.
Fissa il disegno dell’albero deradicato e capovolto: non
vuole vedere ciò che si muove alla periferia dello sguardo
e che ancora, nonostante tutto, le dà conati di spavento.
Sta arrivando: prima o poi doveva succedere.
Avrebbe voluto che accadesse in un altro tempo, forse
in un altro luogo, ma ha sempre saputo di non poter scegliere.
E ormai cominciava ad averne abbastanza dell’attesa.
Il cerchio, alla fine, si chiude.
Strada per Gurtei 1867
Attento…
Strappato al torpore Marco Raschini rabbrividisce. Solleva
la sciarpa fino al mento e tenta nuovamente di assopirsi,
ma un altro scossone della carrozza altera di nuovo
il senso di equilibrio appena riacquistato.
– Attento.
Quella parola di avvertimento che il giudice Stefano
Brogi, suo zio, ha aggiunto alle frasi di commiato, gli ritorna
in mente ad ogni sobbalzo, come fosse rimasta impigliata
nella soglia che separa il pensiero cosciente dal sonno.
L’esortazione poi, per logica concatenazione, gli riporta
alla mente le parole bisbigliate dall’uomo assassinato a chi
si chinava a soccorrerlo, e che Marco ha visto registrate
nel verbale del cancelliere. Ricorda che, durante una delle
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sue recenti visite nella casa di Cagliari, mentre aspettava
che lo zio si svegliasse, aveva preso a sfogliare distrattamente
la cartella di marocchino. Quella frase sottolineata
in rosso - “Questo luogo è terribile” - spiccava in mezzo a
tutte le altre, nonostante la penombra della camera.
E la voce dello zio, di nuovo, come un’eco - “È un luogo
singolare, Gurtei…” - insieme alla sensazione che, se
aprisse gli occhi, nella penombra della carrozza si troverebbe
di fronte il volto preoccupato del magistrato intento
a ripetergli ancora, prima di abbandonarsi sui cuscini
oppresso dall’affanno: Attento.
Ma sa bene di essere solo, Marco, nella carrozza che lo
sta portando proprio là, nel luogo dell’omicidio rimasto
impunito.
Allunga la mano di fianco e la posa sulla cartella di marocchino.
È rigonfia di fogli vergati con l’impersonale grafia
dei cancellieri, ma costellati di asterischi e fittamente
annotati, ai margini e in calce. Contiene poi un disegno -
ma lo zio si è sempre lamentato di non possedere talento
artistico - che ha fatto sorridere Marco: si tratta della riproduzione
approssimativa di uno stemma nobiliare recante
a tutto campo un albero deradicato.
Marco si è sentito incuriosito da quella che sembrava
l’innocua fissazione di un pensionato costretto a letto da
un imprevisto malanno:
– Deradicato e capovolto! – ha precisato il magistrato il
quale, appena saputo che Marco era in procinto di partire
per Gurtei, ha insistito perché la cartella fosse unita al bagaglio,
rifiutando di considerare ostativa la scarsa relazione
corrente tra il suo contenuto e la professione del nipote.
– Deradicato e capovolto: come se… tutto ciò che è
sotterraneo e nascosto venisse improvvisamente alla luce
e tutto ciò che è contrario alla realtà, le ombre ed i sogni,
prendesse il sopravvento…
Attento…
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Cagliari 1944 - Stazione ferroviaria
Nicola Desantis, superata con eleganza la difficoltà del
predellino, scende per ultimo dal treno che lo riporta indietro
da Oristano, dalla solita gita che si concede ogni
due settimane, presso i parenti della madre.
Il tenente delle SS Richard Hauber, dai capelli tanto
chiari da sembrare albino, accenna col capo un breve saluto
a Nicola. Anche così, a distanza, il giovane poliomielitico
coglie chiaramente, dal labbro superiore che si tende
verso l’alto e dalle narici che si dilatano, il disprezzo
dell’ufficiale. Ma sorride, con quell’aria mite da animale
ferito che fa distogliere lo sguardo anche al più spietato di
quegli uomini in divisa che, numerosi, frequentano la casa
di suo padre.
La stazione è piena di SS e fuori ci sono due camionette
della Polizia Fascista. Il compito di controllare i documenti
è lasciato a quest’ultima, mentre i tedeschi non fanno
altro che aggirarsi sospettosi tra i rari passeggeri che
transitano per le banchine e si concentrano sul controllo
del bagaglio di chi parte.
Il sorriso di Nicola, che si era come coagulato sulle labbra
piene, svanisce lentamente. Ha intravisto nuovamente
la donna dallo spolverino color tortora: sta per mettersi
in fila con gli altri, verso l’uscita.
Tiene ancora in mano la borsa porta documenti che
l’uomo in paltò color cammello le ha consegnato, ma la
tiene in punta di dita, come se non avesse l’energia sufficiente
per impugnare stretto il manico. Forse pensa ancora
alle dure parole che l’uomo le ha mormorato qualche
attimo prima sulla banchina - proprio sotto il finestrino di
Nicola - dopo averla strattonata. Ma questo suo smarrimento,
questa desolazione così vicina alle lacrime, può
suscitare da un momento all’altro il sospetto delle SS. Nicola
è in apprensione per lei.
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Quasi sicuramente l’uomo, resosi conto di non poter
superare il controllo delle SS, si è liberato di documenti
compromettenti, lasciando in pericolo lei.
Ancora qualche passo: la donna si metterà il fila verso
l’uscita e lui non potrà fare più nulla per aiutarla. Non c’è
tempo da perdere.
Nicola le si avvicina, rallentato dal passo claudicante, e
richiama la sua attenzione col gesto di togliersi il capello.
Chinandosi le sussurra:
– Signorina, ho ragione di ritenere che lei si trovi in difficoltà.
Lei si ferma e lo fissa, con gli occhi pieni di spavento.
– Posso aiutarla a superare il controllo dei documenti
senza problemi, ma deve fare esattamente come le dico io.
Certamente pensa che quel giovane elegante ha gli occhi
buoni, ma può fidarsene? O non farebbe meglio a voltargli
le spalle? Porta una mano al ventre, come se un dolore
improvviso le avesse spezzato il respiro, e accenna di
sì con un cenno breve del capo.
– Bene. Hanno controllato i suoi documenti quando è
entrata? Sì? Perfetto. Ma l’hanno vista entrare senza borsa
e se ne ricorderanno. È il loro mestiere. Quindi bisogna
che se ne liberi. Dietro quella colonna c’è il bagno delle signore:
vada là e metta su di sé, sotto gli abiti, il contenuto.
Non può trattarsi di molta roba. Nasconda la borsa come
può, e mi raggiunga.
Gli occhi della giovane si riempiono di lacrime e Nicola
sgrana i suoi, agitandosi: – Su, su… mancasse altro! Si ricomponga
e cerchi di non attirare l’attenzione. Come vede,
io sono poliomielitico. Lei, da questo momento, è l’infermiera
che mio padre ha mandato per ricevermi alla stazione.
Mio padre è il signor Desantis, ed è ben conosciuto
da quegli ufficiali. Ha capito?
– Sì.
– Benissimo. Il mio nome è Nicola. Il suo?
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– Mi chiamo Laura.
– Usciti di qui, ogni cosa sarà più facile: sicuramente là
fuori c’è un’auto che mi aspetta.
Quando la donna torna, qualche minuto dopo, Nicola si
appoggia al suo braccio, ma la sua stretta è ferma e non si
capisce quale dei due sostenga l’altro. Insieme si avviano
verso la fila dei passeggeri in attesa di uscire dalla Stazione.
Nota che si è sciacquata il viso e ravviata i capelli: ha
un’aria abbastanza normale, anche per lo sguardo acuto
delle SS e della Polizia Repubblichina.
Il tenente Hauber, ora, evita il suo sguardo voltandogli
deliberatamente le spalle.
“Sto per fregarti, signor Razza Superiore,” ride tra sé
Nicola. “Questo povero, inutile storpio, che tu volentieri
getteresti dalla Rupe Tarpea, sta per fregarti, emerito figlio
di una puttana ariana!”
Quando l’auto si muove verso la via Roma, lasciandosi
la Stazione alle spalle, Laura comincia a singhiozzare, incrociando
strettamente le braccia sotto il seno.
– Su, su… – balbetta Nicola, offrendo come consolazione
acconci colpetti sulla spalla della giovane, con la mano
guantata di pelle. – È tutto passato.
– Sono incinta.
– Ahi. – Nicola si sporge in avanti e chiude il vetro di comunicazione
con l’abitacolo dell’autista. – Stia calma, si
rilassi ora. Il pericolo è passato. Ma… si può sapere per
che cosa abbiamo rischiato l’arresto?
Lei sembra non capire, poi ricorda: si volta un poco di
lato, arrossendo, e infila una mano nella scollatura. Ne toglie
due fogli e li consegna a Nicola: – C’erano solo questi
nella borsa.
– Oh, guarda, guarda… – esclama con voce lenta, corrugando
le sopracciglia. Osserva ancora il foglio di pergame-
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na con il disegno dell’albero deradicato e capovolto, poi
l’altro di carta, con quello che sembra un calco fatto a carboncino.
– È ebreo, il suo amico?
Laura spalanca gli occhi: – No, tutt’altro. È mio marito e
si chiama Giacomo Balistreri.
– Le ha dato delle istruzioni, riguardo a questi documenti?
– Sì: distruggerli al più presto, all’interno della stazione
stessa.
Nicola schiocca la lingua contro i denti, scuotendo il capo.
– Sarebbe stato un vero peccato: queste carte hanno l’aria
di sopravvivere da alcune centinaia d’anni. Per queste
cose, però… abbiamo rischiato assai più dell’arresto, se
non mi inganno.
Laura lo guarda, mentre i suoi occhi ritrovano lo spavento
di prima.
– Perché dice questo?
Nicola la osserva qualche attimo in silenzio.
– E così suo marito, quando ha capito che non l’avrebbero
lasciato partire senza controllare il suo bagaglio, ha preferito
lasciare la borsa a lei e darsela a gambe. Bel vigliacco…
– Chi le dà il diritto… – La protesta si smorza in un singhiozzo.
Nicola la osserva ancora con sguardo penetrante.
– Mi perdoni, ma ha idea di cosa sia questo… coso? – le
chiede porgendole il calco a carboncino.
Laura scuote il capo: – Mi sembra un albero…
– Un albero? Sarà. – Le sfila il foglio dalle dita e glielo restituisce
capovolto. – A me sembra la raffigurazione della
Menorah, il candelabro eptacline, il simbolo più sacro dell’ebraismo,
cara la mia signora Balistreri…
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Strada per Gurtei 1867
II
Attento…
Zio Stefano aggiunge quell’avvertimento facendolo passare
come uno dei doni che gli offre per il viaggio: alla
stregua del maglione da marinaio - che, afferma, gli tornerà
utile quando il vento di maestro prenderà a soffiare
su per la valle di Gurtei - o della scorta di sigari. – Perché,
bada, troverai solo tabacco locale: l’importazione è proibita.
Poi, oh… attento: è un luogo singolare, la valle di
Gurtei.
Si agita tra le coltri - disordinate, da malato che tollera
male il suo stato - come se il pensiero appena espresso lo
avesse ridotto in forte disagio. Infatti, pronunciate quelle
parole, l’anziano magistrato comincia a descrivere il suo
arrivo a Gurtei qualche anno prima ed i particolari della
strada che si scorgevano mano a mano che la lampada faceva
arretrare le ombre della sera, intorno alla carrozza
che avanzava e che subito trascorrevano alla vista, ingoiati
di nuovo dall’oscurità: un viottolo che si incuneava, precipitando,
tra due muri, finestre sbarrate, racchiuse da stipiti
scolpiti in foggia d’arco aragonese, cantoni che recavano
in alto un concio, scolpito dall’uomo, che il tempo
cercava di restituire alla primitiva amorfia. E dice zio Ste-
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fano a quel ricordo, di sentire ancora nelle narici l’odore
di marcito che stagnava ovunque, come se il terreno fosse
zuppo d’acqua. Si prova a descrivere - e torna lo stesso
stupore di allora - la vegetazione che alligna su tutto come
un manto infestante, simile all’alga che si forma sulle chiglie
delle barche e sulle gomene d’attracco. Gli pare, dice
- anche se è un ricordo vago come un sogno - che le case
ne avessero i muri ricoperti, che le strade ne fossero rese
viscide e le conche delle fontane ne grondassero. Gli uomini,
insidiati ad ogni passo, dovevano raschiarla dalle
suole perché, risalendo alla tomaia, non si abbarbicasse
loro alle gambe. – Il tempo di Gurtei sta per arrivare, – dicevano
gli anziani e, sorridendo a quella profezia, scoprivano
denti chiazzati anch’essi di verde.
Intanto che gli tornano, il magistrato li racconta quei ricordi,
ma con voce tanto incerta che Marco, vedendolo
rabbrividire, allunga istintivamente la mano per cercargli
nel polso il battito della vena.
– Non ho la febbre e non sto delirando, – dichiara quello,
seccato. Ma la serenità del viso del nipote, riflettendosi
per virtù d’affetto nel suo, gli cancella dallo sguardo ogni
fastidio, placando il panico per quell’affanno che gli rompe
le frasi. Arriva persino a sorridere.
– A parte l’intelligenza, è questa tua… serenità il tratto
di somiglianza più marcato con tua madre. Povera Giulia…
Ed è, credo, sintomo della capacità di penetrare e
comprendere, prontamente ed in qualsiasi circostanza, i
moti dell’animo umano. Qualità, – aggiunge enfatizzando
il tono, – che ti sarebbe certo più utile se avessi scelto la
professione di magistrato, piuttosto che quella di medico.
– Ma… zio!
Il magistrato tormenta ancora un poco le coperte, poi
solleva l’indice.
– Là, sulla scrivania, in quella cartella di marocchino,
c’è copia del fascicolo con tutte le mie annotazioni: potrai
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partire dal punto in cui io sono stato costretto ad interrompere.
Anzi, tu hai un vantaggio: sei nato in quest’isola,
parli la lingua di questa gente. Inoltre il medico è fatto oggetto
di confidenze ed entra in luoghi nei quali il giudice
non è ammesso. Ma, ricorda: ci vuole elasticità. Il troppo
rigore e l’attitudine a giudicare ostacolano la possibilità di
capire. Ed è di capire che c’è bisogno, in questo caso. Di
penetrare in meccanismi di pensiero che non ci sono consueti.
Quando dopo qualche attimo riprende a parlare, la voce
si è inasprita e la mano comincia a sottolineare i tratti
del discorso, gesticolando.
– Nonostante, bada bene, il barone Raimundo Ballester
avesse fama di essere un uomo malvagio, l’idea che il suo
uccisore l’abbia fatta franca è il cruccio più intollerabile
di tutta la mia carriera: il miglior freno al delitto non è l’atrocità
della pena, ma la sua certezza. La sua certezza!
Questo omicidio impunito può essere stimolo, nel tempo,
allo scatenarsi di un più vasto disordine sociale. Mancasse
altro! Spero bene che tu riesca… No, no, perché sorridi?
E scuoti il capo…
– Zio, io sono un medico, non un poliziotto.
– Una cosa non esclude l’altra! La moderna criminologia
pare orientata a riconoscere che la degenerazione
mentale del delinquente abbia cause puramente fisiche.
Ma… io non sono d’accordo. Sono le circostanze a volte,
le circostanze, a indurre ad azioni, o a reazioni che… Sto
annoiandoti?
– No, ma temo che tu possa stancarti.
– Ricorda: la menzogna non è un gioco facile da condurre
a lungo, nemmeno per il più freddo dei mentitori. Figurarsi
per il più… disperato, per quello che, se non mi sono
ingannato, è giunto al delitto per ineluttabilità! Proprio
perché l’atto non è frutto di premeditazione, costui è talmente
ossessionato dal bisogno di credere nella propria
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menzogna, da giungere a ritenerla indefinitamente credibile
anche agli altri. È questo, direi, il nostro caso.
– Come fai ad esserne certo?
– Non lo sono, infatti: però lo sento! Elasticità, mio caro.
Vedi, nella mia professione, come nella tua d’altra parte,
non si fa proprio tutto con i sillogismi! Dopotutto… il
fatto che non si colgano subito i nessi eziologici, non significa
che essi non siano là a collegare, come sempre hanno
fatto, ogni effetto alla sua brava causa.
– Zio, ti conosco: se escludi la premeditazione, è segno
che hai degli elementi…
Sorride ancora il magistrato e allunga una mano a stringere
il braccio del nipote, chinandosi verso di lui: – Vedi,
se io premeditassi e mettessi in atto un delitto, sarebbe
mia cura portare avanti l’intera faccenda in maniera tale
che la vittima non abbia tempo, né modo, di confidare al
primo che si avvicina il nome dell’assassino. In questo caso,
invece, è andata proprio così: il barone, sospinto di
sotto, è sopravvissuto alla caduta il tempo necessario per
parlare!
– E dunque?
– Purtroppo quello che ha detto non è servito ad assicurare
il suo assassino alla giustizia. Figurarsi, un uomo di
tale fama che spreca il suo ultimo fiato per citare la Bibbia!
Salvo che… – Tira il lenzuolo e ne rovescia il bordo,
battendo sulle pieghe sdegnosi colpi di polpastrello.
“Lo zio cerca di incuriosirmi” pensa Marco divertito.
– Salvo che?
– Potrebbe essere che abbiano mentito tutti per coprire
l’assassino. Erano certamente in molti a volere la morte
del barone Ballester. Possono essersi messi d’accordo.
– È una ipotesi affascinante.
– Disgraziatamente non è quella per la quale propendo.
Come ti ho detto, le ultime parole del barone sono una citazione
dalla Genesi. Ci vuole una bella fantasia per in-
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ventarsi una cosa del genere. No. Quelle parole, il barone,
le ha dette. Le ha dette eccome!
– Ma se non c’è stata premeditazione…
– Se premeditazione ci fosse stata, sarebbe stata pessima
la scelta del luogo: il punto più basso dello strapiombo,
quando venti passi più in là il dislivello è molto più alto. –
Sbuffa, voltando il capo verso la finestra. – Poi… Poi tutti
in paese sapevano che a quell’ora, in quel luogo, doveva
radunarsi della gente, come infatti è stato. No… secondo
me c’è stato un diverbio. La mano che ha sospinto era
mossa da una passione… momentanea e incoercibile. Fai
tesoro di questa mia impressione per quando sarai là.
– Ma zio, temo che la faccenda delle vaccinazioni, per la
quale ho accettato di andare a Gurtei, non mi lascerà tempo
di…
Il lenzuolo finisce di nuovo, stropicciato, da un lato.
– Ah, certo. Sei l’unico medico di oltre quarant’anni che
ancora non ha famiglia e quindi può essere mandato anche
in capo al mondo! Ma questo ci favorisce. In quanto
al tempo… gioca a nostro favore anch’esso. – Torna a fissare
sul nipote uno sguardo penetrante e si accosta, abbassando
il tono della voce: – Chi per intima necessità
vuole credere alla menzogna che ha architettato, a lungo
andare finisce per dimenticare che occorre, nel contempo,
tenere nascoste le tracce della verità che, per loro misteriosa
natura, tendono sempre a palesarsi. Bisogna poter
essere là, quando questo accade. Tu ci sarai al mio posto.
Perciò tieniti copertissimo in questa faccenda e… attento.
C’è qualcosa in quel luogo - in quella casa soprattutto
- di malvagio e, insieme, di disperato.
La carrozza rallenta e Marco si sveglia del tutto, oppresso
dalla sensazione di essersi sentito ripetere di continuo
quell’esortazione, da quando ha lasciato Cagliari:
attento!
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Con due dita, mosse da un umore riluttante, scosta la
tenda dal finestrino.
Gurtei 1867 - Casaforte Ballester
«Devo scrivere. Devo scrivere tutto: mai più silenzio.
Una volta sveglia non ho sentito più quella voce, e non ho
trovato il coraggio di spingermi, in un’ora ancora così
buia, attraverso il cortile e su per la scala di pietra che conduce
a queste camere disabitate. Ma ci sono venuta questo
pomeriggio. Ora so che la terribilità di un presentimento
può essere, tutta, nello spavento di non trovare
pretesti sufficienti a respingerlo, più che nell’immaginarsi
inermi di fronte all’accadimento reale.
Cieca e sorda. Dio mio! Così ho trascinato i miei giorni
dalla morte di mio figlio Raimundo, il barone. Come morta
anch’io.
Ma ora lo sguardo e l’udito tornano a farsi, mio malgrado,
acuti.
Quando mi muovo, istintivamente mi viene fatto di
stendere le mani, come se ogni mio passo debba farsi strada
attraverso una folla di fantasmi bisbiglianti. Come se
tutto in questa casa di pietra abbia urgenza di parlarmi.
In fondo al cortile invece, nella casa di mattoni crudi
dove sono vissuta, e dove un tempo alloggiavano i servi,
c’è una presenza che fin da quando venni qua adolescente,
sposa del barone Ballester, mi tiene compagnia. È una
presenza silenziosa della quale non ho mai avuto paura.
Senza di essa, forse, mi sarei spenta già da molto.
Quest’ospite sconosciuto non è un fantasma del passato.
Ma ora - perché provo tanta amarezza nel dirlo? - il
cerchio sta per chiudersi.
Solo poco tempo prima che Raimundo fosse ucciso, mi
sono resa conto di quanto quest’ultimo figlio mi somi-
28
gliasse. Fu quel giorno in cui affermò di essere convinto
che questa casa e la gente che l’ha abitata abbiano custodito,
magari inconsapevolmente, un segreto che è la chiave
per comprendere il destino di tutti. E si disse deciso a
scoprirlo.
Anche lui, come me, sentiva l’ossessione di indagare la
vita che si era svolta qui in passato. Ma chissà se, come
me, anche lui sentiva che gli indizi di quella vita sono qui
tuttora. Che al pulviscolo che si leva al procedere dei passi,
è commista la traccia estrema di tutto ciò che vi è stato
di vita, di morte e di dolore, tra queste mura.
Chissà se anche Raimundo sentiva le voci, i respiri intrisi
nei velluti insieme alla polvere. Chissà se vedeva nei mobili
la traccia delle mani che li hanno toccati, o se nei gradini
percepiva la gioia o la pena di chi li ha percorsi nei secoli.
Nulla di ciò che è accaduto in questa casa è mai stato per
me troppo oltre la soglia che separa il percettibile dall’impercettibile.
Anche se “percettibile” non significa sempre
“decifrabile”. Era così anche per lui?
Non ho fatto in tempo a domandarglielo, perché la
morte»
La penna sospesa su quell’ultima parola, Donna Aleni
Ballester sente qualcosa di simile allo smarrimento di una
vertigine e capisce che non tutto può essere detto. E scritto.
Il maestrale gelido monta ancora burrasca, in mare: il
frastuono arriva fino lassù, come risalisse i due bracci del
fiume stringendo Gurtei in un amplesso minaccioso.
Raccontano una leggenda in paese…
Aleni rabbrividisce.
Affermano che un tempo il territorio di Gurtei era un’isola.
Durante una tremenda burrasca il mare la strappò
alle sue radici e la gettò contro la costa, mandandola ad
29

incastrarsi nella foce del fiume. Per questo il popolo ha
sempre creduto - e crede tuttora fermamente - che il paese
di Gurtei, la valle ed il suo altipiano non siano destinati a
restare in quel luogo per sempre.
30
Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Quando Gurtei approdò, sospinta dal fortunale nella foce del
fiume, ancora doveva venire il tempo in cui la Sardegna si sarebbe
divisa nei quattro territori chiamati Logus e retti da Giudici.
Poi, con il pretesto di offrire aiuto contro i predoni arabi che
razziavano le coste, vennero i pisani ed i genovesi. Per scacciarli
il giudice d’Arborea chiese aiuto al re d’Aragona, che dalle sue
terre al di là del mare d’occidente, mandò l’infante Alfonso suo
figlio, con la benedizione del Papa. Il re impose il giogo feudale,
confiscò i beni dei sardi per darli ai catalani che lo avevano aiutato
nella conquista e pretese, per sé e per i propri vassalli, tutti i
tributi riscossi dagli ufficiali regi. Il dissenso per la soffocante
dominazione esplose quasi subito e in molti luoghi diversi - al
grido di Morgen sos Cathalanos! A morte i Catalani! - ma fu repressa
nel sangue.
A Gurtei l’eco di tutti questi avvenimenti giungeva attutito.
Nessuno si era accorto che quella terra esisteva, fino a quel
momento. Non era registrata nei libri giudicali e non compariva
negli elenchi delle ville delle curatorie. La gente che abitava in
quella zona aveva sempre saputo che, oltre quel monte tagliato
con un colpo d’ascia, c’erano solo lo strapiombo ed il mare. Alcuni
pastori di capre si raccontavano da generazioni il ricordo
di una còdula che avevano scorto dall’alto, una gola scavata nella
montagna da un fiume che sboccava in mare contornato di
sabbie.
Quel luogo era inaccessibile anche dal mare, perché i fondali
intorno erano infidi e disseminati di scogli affioranti ed aguzzi
fino al largo. Così la codula non fu mai toccata da piede umano
finché Gurtei non andò ad incastrarsi nella foce dividendo il
fiume in due bracci: uno scorreva a sud della valle, l’altro al di là
dell’altipiano che la delimitava a nord.
Passò il tempo e la valle cominciò a ripopolarsi dei discendenti
di quei pochi individui che erano scampati alla furia del fortunale.
Degli estranei che giungevano a Gurtei per caso, molti
31

non se ne volevano più andare e chi se ne andava, e raccontava
in giro dov’era stato, non veniva creduto. Tu sogni, gli dicevano,
non esiste un posto così.
Solo gli ufficiali del fisco aragonese drizzarono le orecchie:
erano disposti a saggiare la consistenza di ogni illusione pur di
portare moneta alle regie casse.
Scovarono nella montagna il passaggio di capre che correva
parallelo al corso del fiume: lo percorsero. Verso sera videro, dinanzi
a loro sullo sfondo del mare, la valle con i suoi orti ed i
suoi vigneti, impreziosita dalla luce del tramonto. Individuarono
la villa, calcolarono che dovevano esserci almeno ottanta
fuochi tassabili e, sentendo battere la campana di una chiesa,
piegarono il ginocchio a terra e si segnarono.
Poi volsero le spalle alla valle e al fuoco di quel tramonto.
Tornando, portarono con sé muli, soldati ed armi. Il sentiero
si allargò sotto il loro passo e ne restò segnato per i secoli.
Era un giorno di festa. Nella piazza della chiesa c’erano molti
fuochi accesi e tanta gente che cantava e danzava in cerchio. Vedendo
arrivare quegli estranei i cantori tacquero, i ballerini si
fermarono e tutti fecero ala dietro i fuochi.
Uno dei nuovi venuti, forse il capo, domandò che gli fosse indicato
il Majore del villaggio. Tutti continuarono a guardarlo
sorridendo con curiosità, senza aver l’aria di averlo capito.
A quel punto, con molta riluttanza, venne avanti un uomo vestito
di un paio di brache e di una camicia.
– Il Majore è quel vecchio laggiù, – rispose in catalano.
– E voi, signore, chi siete? – gli domandò l’ufficiale regio. L’uomo
non parve troppo contento di quella domanda.
– Viaggiavo in una delle galere valenzane dirette a Villa di
Chiesa al seguito dell’Infante Alfonso. Facemmo naufragio: mi
salvai solo io, credo, e a mala pena. Questa gente mi ha raccolto
e curato. Mi trovo qui da qualche mese.
– Siete pazzo? L’Infante sbarcò a Villa di Chiesa cinque anni
or sono!
– Cinque anni? Oh, accidenti, come passa il tempo…
L’ufficiale rispose con una lunga frase indignata, nella quale si
era capita almeno due volte la parola disertore, ma non riuscivano
più a sentirsi perché i balli erano ripresi intorno ai fuochi ed
i canti, vibranti di note nasali e gutturali, coprivano le loro paro-
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le. Prima che l’ufficiale potesse rendersene conto furono circondati.
Il catalano in brache e camicia scomparve alla sua vista,
trascinato indietro da un nugolo di bambini che si erano aggrappati
a lui.
La chiesa era molto antica, disadorna, piena di bestie, di fieno
e odorante di stallatico.
Più a cenni che a parole, il Majore raccontò all’ufficiale che,
molto tempo prima, era giunto là un sacerdote. Dentro la chiesa
costruita secondo le sue indicazioni, aveva parlato loro di Dio.
Aveva detto che Egli era infinita bontà, che aveva creato l’uomo
a sua immagine e che era in ogni luogo.
Aveva detto molte altre cose, per la verità, ma alla sua morte la
maggior parte furono dimenticate. Così, visto che il buon Dio
era in ogni luogo e non temeva i temporali, pensarono che non
si sarebbe sentito offeso se avessero usato la casa eretta per adorarlo,
come ricovero per le creature sue.
L’ufficiale si indignò. Barbari eretici, che vestivano pelli e praticavano
l’agricoltura con mezzi rudimentali, lasciati in vita dal
Dio che avevano offeso e dimenticato. E, come ebbe a constatare,
sempre benedetti con raccolti abbondanti!
L’ufficiale decise che si sarebbe sistemato con i suoi sgherri
nella migliore casa del paese: si sarebbe fatto ricco alle spalle di
quella gente.
Purtroppo per lui la gente buona di Gurtei, più che disposta
ad offrirgli tutto quanto possedeva in nome dell’ospitalità, gli
rifiutò i tributi quando li pretese in nome del Re.
– Noi non abbiamo nessun re, – gli risposero. – Siamo venuti
dal mare e al mare un giorno torneremo. Non dobbiamo tributi
a nessuno.
Fecero spallucce quando lui insistette schierando i suoi armati
davanti alla casa del Majore, e minacciando di arrestare i capofamiglia.
Forse fu colpa di un soldato innervosito dal caldo e indebolito
dalla malaria: partì la freccia da una balestra. Il Majore, che aveva
interrotto il riposo pomeridiano per uscire a vedere chi osava
schiamazzare davanti a casa sua, cadde fulminato sulla soglia.
La vita parve interrompersi in tutte le creature della valle.
Persino i filari dei pioppi smisero di frusciare.
33

Non si udiva né gorgogliare di fiume, né frinire di cicale.
Non volava un insetto. Nell’aria gli uccelli erano immobili,
come sospesi da fili invisibili.
In quel silenzio immoto, tutti quanti, seguendo lo sguardo del
Majore, avevano alzato il loro al cielo fissando le nuvole che andavano
passando sopra la valle.
Poi tutti trasalirono.
Uomini, donne, bambini, cominciarono a sfilare davanti a
quella soglia rivolgendo la parola al Majore. Lo facevano ogni
sera, quando lui usciva a sedersi sull’uscio e, con le mani incrociate
sull’impugnatura del bastone, li ascoltava per gioire con
loro delle gioie, per rattristarsi ai loro dolori, per dare consigli.
Lo fecero anche quella sera, perché ascoltando le loro voci lui
non sentisse la tristezza di partirsene solo per quel viaggio.
Ognuno, andando via, gettava una manciata d’erba o un fiore
sulla strada verso la quale erano rivolti i piedi del Majore così
che, quando il suo spirito si fosse incamminato, il sentiero odorasse
di primavera e di gioventù, come un prato appena falciato.
Fin qui le notizie certe. Poi tutto si confonde perché nessuno
sopravvisse a tramandarlo. Si sa soltanto che dopo la morte del
Majore due famiglie imparentate, una di pastori ed una di contadini,
si allontanarono da Gurtei per recarsi a sciogliere un voto
al santuario di Nostra Signora dei Miracoli, di cui avevano
sentito parlare dai soldati. Non arrivarono mai al santuario, per
il semplice motivo che non sapevano neanche in quale direzione
si trovasse. Ricordandosi però che Dio è in ogni luogo, pensarono
che certamente anche sua madre potesse essere a portata
di voce. Così si fermarono a pregare in mezzo alle montagne,
poi si misero sulla strada del ritorno.
Quando sbucarono dal sentiero, la valle li accolse con un lezzo
di morte.
Videro il paese ridotto a un cumulo di macerie dalle quali si
levavano spirali di fumo. Videro gli orti calpestati, le vigne sradicate,
i sentieri sparsi di carogne di animali.
Senza scambiarsi una parola, si lanciarono di corsa verso
quelle rovine e, trovandole deserte, proseguirono verso la chiesa
che pareva invece ancora intatta, nella speranza di trovarvi
qualcuno.
34
Nella piazza s’imbatterono nelle ceneri ancora calde di un rogo,
dalle quali spuntavano monconi anneriti di ossa umane.
Presso quelle ceneri stava l’unica persona viva di tutta Gurtei:
il catalano. Temendo di essere arrestato per diserzione, si era rifugiato
sull’altipiano. Da lassù aveva assistito impotente alla
strage. Ora, inginocchiato accanto ai resti del rogo, dondolava
avanti e indietro il busto: invocava, come in una nenia, il nome
della donna che in quegli anni gli era stata compagna e quello
dei due figli che gli aveva dato.
Rimasero là per molto tempo, cercando di confortare l’uomo,
ma lui non pareva accorgersene. Poi cominciò il pellegrinaggio
tra le macerie, alla ricerca di tracce, di brandelli di ricordi delle
persone che avevano conosciuto e con le quali avevano vissuto
condividendo tutto. Solo alla fine andarono nelle case che erano
loro appartenute. Recuperarono tutto quello che poterono perché
quel fuoco, dopo aver cancellato i luoghi e le persone non
cancellasse anche, nei sopravvissuti, la memoria del passato.
Trascorsero la notte tra le mura della chiesa. Predisposero
delle sentinelle, ma non osarono accendere neanche un fuoco
per riscaldare i bambini. All’alba, dopo aver trascorso insonni
molte ore, decisero che restava una cosa da fare, prima di lasciarsi
alle spalle quelle rovine.
Raccolsero le ceneri del rogo, le portarono nella chiesa e là le
seppellirono sotto il lastrone di ardesia del presbiterio. Compiuto
l’ufficio pietoso, volsero le spalle al paese dove erano nati
e vissuti e s’incamminarono verso l’altipiano che chiamavano
Territori del vento, Logus de su ’entu, portandosi appresso il catalano
legato mani e piedi, perché non c’era stato verso di convincerlo
in altra maniera.
– Li ha uccisi il fulmine, – gli ripeterono tutto il tempo per
consolarlo. E quando arrivarono in cima, ormai pareva che si
fossero consolati anche loro.
– Il fulmine li ha uccisi, mentre in piazza ballavano tutti il ballo
tondo.
Nell’altipiano esistevano, scavati nella roccia da tempi immemorabili,
dei sepolcri composti da varie camere comunicanti,
alle quali si accedeva da una porta scolpita.
Si racconta che molto tempo prima del massacro un uomo,
35

giunto chissà come a Gurtei, vedendo quei sepolcri avesse esclamato:
– Ma allora non è vero che Gurtei viene dal mare, perché di
sepolcri come quelli se ne trovano dappertutto in Sardegna.
Dunque, siete sempre stati qui!
Poi vedendo tra i lecci sul ciglio dell’altipiano la sagoma diroccata
di un nuraghe, era scoppiato a ridere.
– Siete sempre stati qui! E ciò significa che non ve ne potrete
mai andare!
E mentre rideva, premendosi lo stomaco e lacrimando, lo
presero e gli misero un cappio intorno al collo. Rideva più che
mai quando lo portarono verso il leccio al centro della piazza e
là lo appesero, perché non ridesse più e perché fosse di monito
a chi rinunciava alla speranza che Gurtei potesse, un giorno, ritornare
al mare e alla libertà.
Fu quello l’unico omicidio commesso a Gurtei a memoria
d’uomo.
In quei sepolcri si nascosero per lunghi anni i superstiti del
massacro, spiando dal ciglio dell’altipiano il ritorno degli assassini.
Gurtei parve essere nuovamente dimenticata.
I venti della guerra, della carestia e della peste spazzavano le
terre oltre la montagna. In un momento di tregua fu ritrovato il
nome di Gurtei in un elenco del fisco regio e la villa andò, per
concescio rayal insieme a molte altre, ad un potente nobile, parente
del re d’Aragona.
Trovando impensabile muoversi dalla Spagna per venire a risiedere
nei suoi feudi, il nobile nominò un amministratore che
ne riscuotesse le rendite in sua vece. Lo scelse nella famiglia
amica dei Ballester, che aveva parenti in Sardegna.
Quando Bartolomeo Ballester seguito da soldati e famigli
giunse nella valle di Gurtei, vide solo un cumulo di rovine sulle
quali era cresciuta una coltre d’erba ed un intrico di rovi e ciclamini
purpurei, grandi come mani.
Bartolomeo scese da cavallo.
Si guardò intorno ed ascoltò il ronzio degli insetti e lo scro-
36
sciare dell’acqua. Aspirò il profumo dei fiori e si sentì invadere
da una grande pace. Poi si voltò.
– Vivrò in questa valle per tutta la vita. Costruirò qui la mia
casa… – e si interruppe, accorgendosi che qualcuno li stava raggiungendo.
Si trattava di una ventina di persone di aspetto selvatico ma
dignitoso. Avanzò un vecchio dalla barba bianca, appoggiandosi
ad un baculo pastorale: era il patriarca della famiglia dei pastori,
ma nei suoi nipoti scorreva anche sangue di contadini,
perché le due famiglie superstiti, trasferitesi sull’altipiano, si
erano fuse.
– Non so chi tu sia, ma vedo che porti la spada di hijo d’algo
che, a quanto ho sentito, ti rende padrone: Donnu – disse senza
aspettare il permesso di parlare, apostrofando Bartolomeo. –
Perciò, se sei venuto per terminare il rogo che il fulmine ha cominciato
con le ossa dei nostri fratelli, accomodati, ma che sia
fatto in fretta. Siamo stanchi di nasconderci nei sepolcri, uomini
e bestie insieme. Stanchi di mangiare carne cruda per la paura
di accendere fuochi. Un giorno vale l’altro per chiudere gli
occhi.
– Nessuno vuole farvi del male, – disse Bartolomeo al vecchio
e agli altri, alzando la voce. – Fu tutto un equivoco! Si diceva
che il paese si era ribellato agli ufficiali regi e che, nei disordini,
fosse rimasto ucciso il capitano Berengario Ponçoio. Fu per
questo che il Governatore Generale del Regno (un uomo giusto,
ah, eccome!) venne qua di persona ad inquisire i maggiori
colpevoli di quella morte. Essi furono trovati, impiccati e trascinati
cadaveri per tutto il paese. L’inchiesta però dimostrò che
tutti gli abitanti erano complici degli assassini. Così, perché la
punizione fosse d’esempio e non avessero più a ripetersi fatti
del genere, il Governatore fece passare a fil di spada tutti - uomini,
donne e bambini - e incendiare il paese.
Il vecchio deglutì parecchie volte, prima di riuscire a parlare.
– E… dove sta, Donnu, l’equivoco di cui parli?
– Sta in questo, uomo benedetto, l’equivoco: che sul letto di
morte un altro ufficiale confessò d’essere il vero responsabile
della morte del capitano. Per saldare un conto personale e farla
franca, aveva accusato degli innocenti. Ma quelli, ormai, saranno
nella gloria del Signore, insieme al colpevole pentito! Quin-
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di l’unico fuoco che si accenderà qui stasera sarà quello della
nostra cena!
Disse quelle parole con gioia e con tutto l’entusiasmo che gli
veniva dalla sua giovinezza e dalla sua innata bonomia. Perciò
rimase male quando si accorse che il viso del vecchio si era fatto
terreo.
Bartolomeo vide l’uomo voltarsi ad osservare l’erba, i rovi
stillanti, i ciclamini. Li osservò a lungo, mentre il mento gli tremava,
poi chinando la fronte sulle mani strette al baculo, ruppe
in singhiozzi di un’asprezza tale che Ballester li soffrì come una
mancanza di rispetto.
Le donne del gruppo che era rimasto indietro, afferrarono la
gonna esterna, la tirarono sul capo e sul volto, come un mantello,
soffocando un lamento che il vento strappava alle loro labbra
e spargeva per tutta la valle, come semente di pena.
38
Gurtei 1418
III
Bartolomeo Ballester porta le mani ai fianchi, sbuffando
infastidito.
– Donna, se non ti decidi a tenere aperte le gambe, mi risolverò
a mettertici uno sgabello per traverso!
La donna urla, a lungo, con la testa rovesciata all’indietro.
Poi quando la doglia si calma, drizza il capo digrignando
i denti:
– Cacciate quest’uomo! – Le comari si scambiano uno
sguardo senza sapere che fare, intanto che Bartolomeo si
rimbocca le maniche della camicia.
– Senti, ho aiutato a partorire cavalle più ombrose di te.
Non mi muoverò di qui.
– E invece te ne andrai, padrone, tu e i tuoi maledetti
speroni di malaugurio: non si è mai visto un uomo, cavaliere
per giunta, fare la levatrice… – Fa appena in tempo a
riprendere fiato che il grido scaturisce di nuovo incoercibile
dalla sua gola.
Bartolomeo attende che si spenga.
– Hai ragione, non si è mai visto, ma oggi si vedrà. Quello
che stai per partorire, fémina tostorrúda, sarà mio figlioccio.
Quindi levati dalla testa che io rinunci ad aiutarlo
a nascere.
39

– Ho già messo al mondo cinque figli senza il tuo aiuto,
padrone. Senza l’aiuto di nessun dannatissimo uomo!
– Taci, linguacciuta. Conserva il fiato per fare il tuo dovere.
Quando Bartolomeo esce con il fagottino in braccio, si
leva un coro di grida festose nel cortile, dove si è radunata
la gente di Gurtei. Qualcuno ridacchia degli occhi lucidi
del cavaliere Ballester e lui se ne accorge.
– Beh, che c’è? È vero, mi sento un poco padre e madre
d’ogni creatura nata in questa valle. Cristiani e bestie, già.
Ma questo… ah, questo! Compare Melas, non avrei mai
creduto che tu e quella pettegola della tua donna riusciste
a fare un figlio bello così… ah, ecco non dovevo dirlo! Fuliau,
Fuliau, un’ogu aciuntu e s’atru puntu… meglio fare lo
scongiuro. L’ho tirato fuori io da quell’impiccio di sua
madre, sapete? Ed io lo porterò a diventare cristiano. Si
chiamerà Bartolomeo, come me!
Mentre i servi cominciano a mescere il vino per tutti, un
vecchio si fa avanti.
È lo stesso che accolse Bartolomeo quando mise piede
per la prima volta nella valle di Gurtei. Adesso è molto
più vecchio. Tiene il viso sollevato e cammina lentamente,
appoggiandosi al baculo pastorale: è cieco.
– Sei un brav’uomo, Ballester… – dice.
Bartolomeo sorride e consegna il neonato al padre. – Vai
a calmare tua moglie. L’ho lasciata che sacramentava sui
miei speroni. Compare, vedi addosso a me degli speroni?
– No, padrone.
– È testarda tua moglie: Est fémina tostorrúda! Dice
che un cavaliere ha gli speroni anche quando non li ha, e
che questo porterà male al bambino. Vaneggia e straparla,
come il solito…
– Ballester…
– Che c’è, vecchio?
40
– Sei un brav’uomo, Ballester, e mi dispiace. – Bartolomeo
gli mette una mano sulla spalla e la sente fragile come
l’ala di un passero. Tutti, ora, ascoltano in silenzio.
– Cos’è che ti dispiace? Ti metti anche tu a fare l’uccello
del malaugurio?
– Stanno per tornare…
– Vecchio, ascolta…
– Ascolta tu. Non sono quelli stessi, ma altri come loro.
Peggio di loro. Questa volta ci sei anche tu: passeranno
anche su di te e sulla tua casa, come un’onda di piena.
Bartolomeo corruga le sopracciglia senza replicare: non
ha mai sentito quell’uomo parlare a vanvera. Così, dopo
un sospiro, gli si rivolge ancora, affettuosamente.
– Perché vuoi rattristarci? È un giorno di festa…
– Attento Ballester. Tu non c’eri, ma era un giorno di festa
anche quando vennero la prima volta.
Il rumore di un galoppo che si arresta presso il muro di
cinta interrompe il dialogo. Un uomo impolverato irrompe
nel cortile, consegnando a Bartolomeo una missiva sigillata.
– Dai tuoi parenti del Castell de Caller, signore. Spero di
essere giunto in tempo.
Bartolomeo prende il plico con una smorfia d’insofferenza:
quei parenti - cittadini e politicanti, legati a doppio
filo con il Viceré - gli scrivono sempre e solo per creargli
fastidi. Una volta lo hanno persino costretto a lasciare la
valle per andare a Caller a presenziare ad una noiosa cerimonia!
Per non parlare dei disagi del viaggio… Rigira il
plico tra le mani senza decidersi ad aprirlo, osservando
sottecchi il vecchio col baculo, che si è voltato a mezzo verso
l’altipiano, come in ascolto.
– Sono loro, padrone.
Una carrozza, un carro e alcuni uomini a cavallo irrompono
nel cortile. C’è un concitato accorrere di servi con le
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torce ed un incrociarsi di grida che fa sussultare Bartolomeo.
– Proprio il tipo di gente che arriva nel cuore della notte,
– brontola, e si ricorda della lettera che gli hanno scritto
i suoi parenti di Caller:
«Pel molt noble Senyor Bartumeu Ballester.
Abbiamo saputo che verranno da voi, raccomandate da
Sua Signoria, persone che in Catalogna si chiamavano con
un nome che si è coperto d’infamia. Ora portano quello
più usuale di Bayre, ma non è cambiata la sostanza. Se sarete
costretto a favorirle, attento a voi: sappiate che sono
gente pericolosa…»
Bartolomeo volge lo sguardo verso il suo Intendente,
che sbircia dalla finestra.
– Che posso farci, Nicolau? Io sono solo un amministratore,
per grazia di Sua Signoria. Prendi il lume e fammi
strada: scendiamo.
Ma un uomo, già oltre la soglia di casa, va loro incontro
con fare arrogante e senza cerimonie.
– I miei padroni sono stanchi. Reco l’ordine di Sua Signoria
che tutto sia messo loro a disposizione.
– So leggere: date qua. – Bartolomeo strappa il foglio di
mano al servitore, notando con disappunto che, nonostante
sia indirizzato a lui, il sigillo è stato già infranto e la
missiva aperta.
– Che modi sono questi? – domanda, ma quello non risponde.
Esce in cortile e sbircia nella carrozza. Un uomo ed una
donna sono seduti là dentro, e lo guardano con un’espressione
che gli dà i brividi.
L’uomo ha zigomi alti, pelle abbronzata e capelli neri
come gli occhi, ridotti questi a due fessure dall’attitudine
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sprezzante dello sguardo. La donna, di carnagione chiara,
possiede lineamenti simili al compagno, ma più delicati.
Parla lei per prima, con una voce profonda che il timbro
d’arroganza rende spiacevole.
– Dov’è il castello che deve accoglierci?
Bartolomeo sposta il peso da un piede all’altro, incerto
se ridacchiare oppure ostentare un’aria imbarazzata: – Temo
siate stati male informati, signori. Non c’è nessun castello
qui nella valle. E anche altrove, in quest’isola, temo
non ci sia nulla di paragonabile ai castelli di Catalogna…
Dovrete accontentarvi della mia casa.
L’uomo, distogliendo lo sguardo da Bartolomeo, sibila
una bestemmia che fa impallidire il cavaliere e aggiunge: –
Scaricate immediatamente il carro.
– Ma… è molto tardi: sarò lieto di farvi accompagnare
nelle vostre camere. Il carro può essere scaricato domani…
L’uomo si scaglia verso il finestrino: – Immediatamente!
Quel volto furioso ad un palmo dal suo…
Bartolomeo arretra incespicando.
Quella voce, quegli occhi, quelle maniere… Deu, que
bèstia…
Bartolomeo, accigliato e di malumore, si avvia a riposare,
ma sa già che il sonno quella notte non gli sarà compare.
È assorto in quei pensieri, quando sente delle urla nel
cortile.
Si precipita nella sua camera e solleva la pelle conciata
che ripara la finestra.
Alla luce delle torce vede una grande cassa che giace rovesciata
accanto al carro. Da un paio d’assi che hanno ceduto
nello schianto, esce qualcosa.
L’uomo, il Bayre, fronteggia i servitori di casa, che sono
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tutti vicini alla porta d’ingresso, stretti l’uno all’altro come
le pecore di un branco assalito dai cani affamati.
Ma, se il gioco di luci ed ombre non inganna lo sgomento
cavaliere, c’è qualcuno a terra, proprio ai piedi del Bayre,
il corpo in una posa scomposta…
Un gemito: – Oi Déu, Esteve…
Quella mattina Esteve, il figlio di Vicente il bottaio, ha
intagliato uno zufolo e glielo ha regalato. È innamorato
della figlia dell’Intendente e quel dono era un ringraziamento
perché Bartolomeo aveva messo una buona parola
per lui.
Aveva solo diciotto anni Esteve, e Bartolomeo aveva
pensato, felice, che presto ci sarebbe stata una festa di
nozze con porchetti a sfrigolare al fuoco, balli e allegria da
ubriacarsene.
Qualcuno bussa alla porta. Ballester si volta. Sulla soglia
c’è l’Intendente, pallido, il viso rigato di lacrime.
– L’ha strangolato – balbetta. – Gli si è avventato addosso
e l’ha strangolato con un laccio di cuoio, solo perché si
è accostato a quella cassa… solo perché si è accostato a
raccogliere la segatura!
Dio, che brutta bestia…
Bartolomeo cerca invano di deglutire, sentendo irrigidirsi
e chiudersi la gola al ricordo delle parole giunte da
Caller: “Attento… sappiate che sono gente pericolosa.”
Déu meu, Déu meu que bèstia lletja…
Gurtei 1867
Mentre sistema il contenuto del baule e della borsa, con
l’attenzione che caratterizza la sua indole meticolosa,
Marco trattiene a stento un sospiro.
Il farmacista, in seguito al loro scambio epistolare, ha
affittato per lui quella camera nella quale l’unica conces-
44
sione al lusso è uno specchio che a stento rimanda l’immagine.
Ci si sofferma davanti per cercare intorno agli occhi le
tracce della stanchezza, ma nota invece i capelli scompigliati
- di un castano cenere che si accorda al grigio degli
occhi - perché la sua mano, come spesso accade, li ha coinvolti
nel flusso dei pensieri. Torna a ravviarli, in ossequio
alle apparenze, e guarda nuovamente la camera. Non si
aspettava di meglio, ma non aveva previsto di doverci mettere
radici.
È arrivato a Gurtei da appena due giorni, ma il tempo è
volato nell’esaurire un elenco di doveri e visite di cortesia,
che si sono alternati alla ricerca di un appartamento dove
sistemare il gabinetto medico nel quale cominciare, senza
indugio, a vaccinare i bambini.
L’indugio, invece, è un rito cui nessuno si sottrae da
queste parti: una liturgia bizantina di esitazioni, pause, silenzi;
un percorso che sembra allontanare anziché condurre
alla meta.
Nelle more del rito Marco ha imparato a riconoscere i
visi dei signori del Consiglio Comunitativo, del signor Refundana
- il farmacista, che là chiamano potecariu - di sua
moglie, delle sue figlie e di tutte le altre persone di riguardo
del paese, con i loro vezzi ed i tratti caratteristici.
Persino le strade di Gurtei gli sono diventate familiari.
In molte di esse, solo allargando le braccia si può sfiorare
un muro e l’altro delle case basse, costruite in pietra vulcanica
bruno-rossiccia, tenuta insieme da malta. I muri
sono segnati da un concio corroso dal tempo - sigillo di
appartenenza impresso da un feudatario possessivo - nel
quale è scolpito in bassorilievo uno scudo araldico recante
un albero capovolto, che ormai si decifra a stento.
Quella mattina, dopo la seconda notte a Gurtei, Marco
si è svegliato nell’ora buia che precede l’alba. Tra le coltri
45

tiepide, è rimasto ad ascoltare le folate che il vento incanalava
nella valle, lacerando al passaggio la trama d’ombra e
di silenzio che ancora avvolgeva le finestre, le porte sbarrate
sui segreti minimi della vita di quella gente che, certamente,
soltanto quella certa deformazione professionale,
acquisita dallo zio Stefano in anni di attività inquisitorie,
poteva aver fatto supporre più densi e ambigui di quanto
non fossero in realtà.
Adesso, mettendo in ordine il bagaglio che aveva sperato
di dover disfare direttamente in una casa sua, gli pare di
essere a Gurtei da anni. Ma questa sensazione non fa che
inasprire il disagio di essere ancora un medico senza gabinetto
e senza pazienti.
Questa è la prima sera che gli avanza un poco di tempo
per se stesso.
Siede allo scrittoio con l’idea di dare uno sguardo alla
cartella di marocchino, ma subito solleva il capo in ascolto
di un suono portato dal vento.
Ha domandato a Victoria Luz, la figlia maggiore del farmacista,
chi suoni il violino con tanta assiduità. La giovane
ha risposto: – Oh, è Marta Sa Maca. – E, riprendendo il ricamo
ha precisato: – Sta lassù, da Donna Aleni Ballester.
Ci farà l’abitudine: io non la sento nemmeno più.
Marta Sa Maca, La Pazza. Adesso che comincia a conoscere
la gente di Gurtei, Marco si domanda che nomignolo
appiopperanno a lui, quando sarà stato con loro abbastanza
da non essere più Su Strangiu, l’estraneo.
Sospira e accende la lampada alimentata da olio di lentisco.
Conosce ormai tutto il paese - non ha fatto che stringere
mani! - ma nessuno lo ha portato a conoscere la baronessa
Ballester.
Apre la cartella di marocchino e sfoglia, fino a trovare gli
appunti dello zio.
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«I BALLESTER - Sognatori Visionari. Si dice che portino
nel sangue qualcosa di allucinato, o allucinante, e che lo
contagino a chiunque si accosti a loro. Marta, per esempio,
credo possa diventare violenta, anche se la sua follia
non pare del tipo aggressivo. Sua suocera, la baronessa, è
diventata un muro di silenzio dinanzi alla mia studiata insinuazione
che la follia della giovane fosse il prodotto di
un matrimonio infelice. Mi è sembrato che Donna Aleni
comprendesse anche troppo bene che il nesso di causalità,
posto in quei termini, si risolveva in un sospetto di omicidio»
Marco vorrebbe attardarsi ancora su quelle annotazioni,
ma qualcuno, bussando alla porta, lo avverte che la cena
è pronta.
Gurtei 1867 - Casaforte Ballester
Al primo gradino, come ogni volta, Aleni esita.
Quella scala mette in comunicazione la dipendenza con
le stanze della casa fortezza costruita, più di quattro secoli
prima, in pietra e orgoglio catalano. Da quasi cento
anni però, la casaforte è disabitata. I suoi signori si sono
ridotti a più modesta condizione ritirandosi in Sa domu ’e
is fogus, costruita in mattoni crudi di làdiri, più facile da
tenere calda in inverno.
“Don Raimundo Ballester, l’ultimo a portare il cognome,
ma non l’ultimo a portarne il sangue…”
Aleni scuote il capo, sforzandosi di allontanare quel ricordo
molesto, e sale la gradinata verso la porta massiccia,
rinforzata da traverse metalliche.
Il primo rumore che la accoglie è l’eco del cigolio dei
cardini.
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Attraversa a passo svelto la Galleria dei Ritratti che, ad
onta del nome, è solo un corridoio pieno d’ombre, dai
muri del quale troppi occhi torvi guardano in basso.
La Biblioteca è l’unico posto dove si sente sicura.
Controlla lo scrittoio. Sono al loro posto i pennini, la
carta e il calamaio: oggetti senza i quali Aleni pensa che la
sua anima tornerebbe muta, e questo è intollerabile ai
suoi cinquant’anni che hanno poco tempo e tante cose da
dire, dopo una vita di silenzio.
Nella penombra, lascia vagare lo sguardo sui palchi delle
librerie, sui dorsi di cuoio screpolato dei libri che, ormai,
tutti ha visitato: i molti scritti in catalano - lingua cui
Aleni resta affezionata quasi quanto al sardo, anche ora
che si parla italiano - e quelli in latino, che comincia appena
a decifrare, grazie alle lezioni del Notaio.
Poi c’è qualcosa, poco, in castigliano. E in italiano abbastanza,
nonostante la casaforte sia stata chiusa e abbandonata
non molti anni dopo che i piemontesi posero piede in
Sardegna.
La gente di Gurtei afferma che, da allora, quelle mura
sono ormai ritornate dominio esclusivo di coloro che là
vissero male e che malamente ci morirono, perché giurano
di vederli passare davanti alle finestre proprio in quell’ora
del crepuscolo e, uno in particolare, proprio in quella
stanza: il prete che una Ballester del settecento fece impiccare
dai suoi sgherri alle sbarre della finestra.
Hanno ragione.
Con i gomiti sullo scrittoio e il mento sul dorso delle mani
unite, Aleni riflette sul motivo che l’ha spinta di nuovo a
salire tra quelle mura.
Per anni si è sforzata di isolare da sé il ricordo della propria
vita avvolgendolo, come fa l’ostrica con un corpo
estraneo, con strati di materia intellettuale che ha la levigatezza
delle menzogne cui si vuole credere a tutti costi.
Resane in questo modo inindagabile la memoria, è co-
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me se la vita non sia stata mai vissuta. Così può pensare ai
suoi cinquant’anni come ad uno scherzo del destino, che
l’abbia gettata d’un colpo dall’adolescenza nella maturità.
Ma in buona parte quello sforzo di oblio è stato inutile.
Si fanno più frequenti i momenti di debolezza e più intensa
si manifesta quella rarefazione dell’animo che viene
dal non appartenere più interamente a questo mondo, dal
non sentirsi ancora tanto dell’altro, ma dal partecipare in
modo oscuro di tutt’e due.
Allora i ricordi ritornano e, per eluderli, Aleni si rifugia
nella casa disabitata.
Ma qui, tra echi di cigolii e di bisbigli che le ritornano
dalla penombra, si sente anche più prossima all’unico ricordo
che avrebbe voluto serbare – un figlio… un figlio
perduto… ucciso. Quale? Raimundo? No… - qualcosa
che un tempo le è appartenuto più di ogni altra cosa, perdendosi
poi e continuando a sfuggirle.
Sollevando lo sguardo, coglie un riflesso più chiaro tra
quelli lividi del crepuscolo: è lo scudo di marmo che orna
il camino, nel quale le armi delle casate Ballester e Bayre
figurano inquartate con i pali d’Aragona e sormontate dal
motto MAS FUERTE.
Más fuerte: più forte.
Un sorriso le affiora alle labbra, all’idea del sentimento
che può aver mosso un Ballester del passato a porre quel
motto sulle armi di famiglia.
Più forte.
Non certo più del tempo, che ha ridotto ogni cosa a
quello che è, dentro e fuori la casa, sbocconcellando il
tufo, tarlando i legni, coprendo di una patina scura le ceramiche
valenzane e rendendo opachi gli specchi d’Almeria.
Il tempo ha soffiato il suo alito di pruina negli intarsi,
nelle ritorte di ferro battuto, nei tessuti, rendendoli rigidi
e sbiaditi.
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Sui signori di quella casa poi, da quando unirono il loro
destino a quello dei Bayre - che allora avevano già rinunciato
all’antico nome di Baher - il tempo ha impresso sempre
più in profondità il marchio di una follia disperata,
che li ha resi simili, nell’animo, ai contorti ginepri delle
coste, piuttosto che agli alberi simboleggianti innocenza e
purezza dell’arma dei Baher: due pioppi argentei in campo
azzurro che, nelle antiche insegne della famiglia, erano
entrambi diritti e non ebbero mai le radici intrecciate.
Aleni si alza dallo scanno di cuoio e si avvicina alla finestra.
Il sole è scomparso, soffocato dalle brume del crepuscolo
autunnale. Folate di vento suscitano fughe di foglie per
le strade del paese. Osserva quelle foglie raggricchiate e le
immagina già presaghe, nel loro abbandono al vento, dell’immobilità
deturpante del marcito.
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ERRAMUN BAHER
LLUIS BAHER
JOAN BAHER*
** I due fratelli Joan e Beatriu Baher vengono in Sardegna
nel 1418 e cambiano il proprio cognome in quello di Bayre
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[ ? ]
[ ? ]
BEATRIU BAHER*

Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
1418 - primi Baher in Sardegna (cambiato il cognome in quello
di Bayre).
Due fratelli: Joan e Beatrìu.
Nonno paterno di Joan e Beatrìu: Erramun Baher, un hidalgo*
tenuto in gran considerazione alla corte aragonese.
*“hijo d’algo”: figlio di persona da conto
Erramun riveste cariche altissime - tratta da pari a pari con i
nobili di sangue reale che ne ricercano la parentela e l’amicizia -
riverito e temuto, dagli altri nobili. Nel testo di un’antica ballata,
che si trova tra le carte di famiglia, Erramun viene chiamato anche
Pollancre* e si dice avesse castello nei Pirenei.
*“Pollancre” = Pioppo. È strano…
Si dice discendesse da una stirpe la cui origine affondava nel
buio dei secoli precedenti l’anno millesimo, di rango tanto elevato
che “nessun titolo nobiliare inferiore a quello di re”* avrebbe
potuto accrescerne la nobiltà.
*Che cosa vuol dire?
Persona di rimarchevole statura morale.
Lo stesso non può e non poté dirsi del figlio: Lluis Baher.
Caduto in disgrazia presso re Alfonso.
Re Alfonso, smentendo il soprannome di Magnanimo, lo bandisce
dalla sua presenza per essere venuto meno alla condotta ed
alla condizione spirituale imposte dalla hidalguia.
Nessuno sapeva (o voleva ammettere di sapere?) di quale
mancanza si fosse reso colpevole. Si sussurrava che fosse cosa
così orrenda da non poter essere resa nota - tale da far seriamente
rischiare a Lluis il marchio d’infamia per sé e per la discendenza
sua.
A questo punto il nome di Lluis scompare* dai documenti di
corte.
* Evidentemente avevano i loro mezzi per attirare gli indesiderabili in gorghi
senza ritorno
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L’ostracismo velato* della corte cominciò ad andare affatto
stretto ai giovani figli di Lluis.
* Quello degli ambienti nobiliari doveva essere senz’altro più palese!
Joan e Beatrìu avevano ereditato dal carattere guasto del padre
una propensione a sviarsi in tortuose ambiguità, a mutare in
protervia la consapevolezza di essere di nobilissimo sangue. Liquidati
prontamente i beni, si affidano ad un loro influente protettore*
che, non avendo potuto nulla per soccorrere il padre,
aiuta almeno i figli a riparare in Sardegna ed a cambiare il proprio
nome in quello di Bayre.
* Chi? Doveva essere importante se viene taciuto il nome
Il protettore, tra i suoi numerosi feudi, possedeva anche la villa
e l’incontrada di Gurtei, per la quale aveva nominato amministratore
un Ballester, cavaliere. (Nientedimeno… Si trattava
di uno zio del Re!)
Quando i fratelli Baher giunsero a Gurtei, recando l’ordine
che ogni cosa fosse messa loro a disposizione, compresa la proprietà
di alcune terre sull’altipiano, Bartolomeo Ballester aveva
passato la mezza età. I parenti di Bartolomeo, che occupavano
posizioni di prestigio a Cagliari (Castell de Caller), lo avvertirono
tempestivamente dei torbidi trascorsi dei suoi ospiti e della
fama ambigua che li aveva preceduti.
Furono tutti ammonimenti inutili. La spregiudicatezza di
Beatrìu ed il suo fascino ebbero presto la meglio su ogni sforzo
di ragionevolezza sostenuto dal maturo cavaliere.
Il matrimonio tra lui e Beatrìu guadagnò così, ai Ballester,
quegli indesiderati parenti, i quali presto si rivelarono per ciò
che realmente erano: cattiveria, caparbietà ed orgoglio sprezzante
fatti persona. Crudeltà, perfino, come il povero Bartolomeo
poté constatare negli ultimi, infelicissimi anni della sua vita.
Prima che il marito morisse, Beatrìu ebbe un figlio. Nessuno,
lo stesso Bartolomeo meno di chiunque altro, avrebbe dato per
certa la paternità di quel bambino. Ma ciò che contava era il
cognome che portava. Attraverso il piccolo Bartolomeo, infatti,
i Bayre divenivano amministratori anche di quella parte di
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Gurtei che non era stata concessa loro in proprietà allodiale.
Per qualche anno i Bayre ed i Ballester vissero dei proventi di
quel feudo, mandando in patria, al feudatario, appena le briciole.
Ottenuto dall’arcivescovo di Cagliari il permesso di edificare
una dimora sulla distrutta parrocchiale di San Michele, si impegnarono
a terminare la fabbrica della chiesa nuova, Nostra Signora
degli Abbandonati, cominciata dal primo Bartolomeo.
Qualcosa però accadde tra i due fratelli Baher, vissuti insieme
e di comune accordo per tanto tempo.
Durante la malattia della giovanissima moglie Isabella
Esquirro, che Beatrìu aveva scelto per lui e che gli aveva dato
quattro figli, Joan divenne sempre più scontroso*, tanto che
Beatrìu, nel frattempo rimaritatasi con uno dei suoi amanti, non
poté soffrirne più la presenza e dovette chiedergli di andarsene.
* Dietro a quello affermato c’era forse un motivo taciuto, e grave, perché dal
carteggio di famiglia risulta che i due non si parlarono più dopo quel giorno
Joan fece costruire una casa per sé e per la sua famiglia, e si
comportò come se la sorella non esistesse più.
I due si riunirono solamente quando ogni parola era ormai
impossibile, per dormire fianco a fianco un sonno che avrebbe
consumato le loro spoglie, nella cripta della chiesa nuova.
Intanto la valle si andava facendo troppo stretta per contenere
e soddisfare lo strapotere delle due famiglie che erano diventate
numerose e cominciavano a covare, l’una nei confronti dell’altra,
un astio feroce.
I parenti fecero di tutto per tenere lì confinate quelle teste
calde, che si erano trasmesse di padre in figlio la cattiveria, insieme
al colore dei capelli e al cognome.
Pare sia di pugno di un Ballester, veguer* nel Castell de Caller,
la postilla ad un documento viceregio datato 1497 e conservato
nell’archivio di famiglia, che respingeva la richiesta di poter
acquistare una casa a Cagliari, inoltrata dai Ballester di Gurtei,
che avevano appena ricevuto il feudo e la corona baronale.
*Il magistrato veghiere annoverava tra i suoi poteri anche quello di reprimere le
liti tra i feudatari e i crimini contro la pace. Sospettò che, sotto il pretesto di
aprire dimora, gli scomodi parenti celavano ambizioni di ben diversa portata? Il
re li aveva costretti a delegare il diritto di voto alla Prima voce dello Stamento,
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conferendo loro la baronia, ma sub condicione. Magari intendevano riappropriarsene…
Quando il documento viceregio giunse a destinazione, quindi,
era accompagnato da alcune righe di pugno del veguer, nelle
quali, senza preamboli di alcun genere, ordinava:
“Para vosotros no hay más que el valle de Gurtei. Quedaos allí!”
Fu quella la condanna: “Per voi non c’è che la valle di Gurtei.
Restateci!”
Forse per una donna, forse per un muro di confine, ci fu il
primo morto.
Quando, dopo un secolo, il cimitero fu pieno di Ballester e
Bayre morti ammazzati, gli uni rinfacciavano ancora agli altri di
essere stati i primi a cominciare.
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IV
Valencia 1494 - Fortezza di Xàtiva
Il prigioniero è prossimo alla fine.
Pare un vecchio senza età, combusto da un fuoco che si
spegnerà con lui. Emana dalle sue coltri un odore acre di
sudore e di febbre.
Ha trascorso lunghe ore in agonia e solo ora gli è concesso
il conforto della parola di Dio!
Dopo sedici anni, guardato da quelle mura formidabili
per chiunque, tanto più per chi alla loro ombra consumava
esilio e prigionia, Leonardo de Alagon sente spegnersi,
nel pantano dei rimpianti, la fiammella che ha alimentato
il suo rancore per tutto quel tempo. Perciò rendendosi
conto che la vita gli sfugge, ha domandato di essere ascoltato
in confessione.
Uno scalpicciare di passi su per i gradini che conducono
alla sua porta, seguito da un bussare deciso, sveglia il cappellano.
Che Inocencio si affretti, sollecita una voce, poiché ogni
attimo di più si affievoliscono i sensi di colui che, per ultimo,
ha avuto l’ardire di levare, contro gli eserciti di Aragona,
il vessillo dell’antica casata d’Arborea.
– L’esilio lo sta uccidendo, – mormora Inocencio affret-
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tando il passo lungo i corridoi di pietra, dietro il capo dei
carcerieri.
– Esilio? – domanda la guida senza neppure girarsi verso
Inocencio. – Ma quale esilio, se quanto vi è nel signore
di Alagon di sangue paterno ha le sue radici qui, in terra
d’Aragona?
– Ma dal sangue materno…
– Già così poco aveva di sardo, quel sangue! Quali spiriti
poteva ricavarne un de Alagon per sentirsi qualcosa di
diverso da quello che era: un vassallo del Re? Naque in
Sardegna, se non sbaglio, ma fu educato qui e qui visse e
prese moglie…
– Sì, qui: all’ombra della corte aragonese. E probabilmente
sentiva ancora d’essere fedele alla casa di Trastamara
quando lo zio materno lo nominò suo successore nel
marchesato d’Oristano. Tornò in Sardegna e si accinse a
prendere possesso dei feudi.
– Ma, se non sbaglio, qualcuno sorse subito a contrastarlo…
Stridono i chiavistelli, e l’eco ritorna dalle volte a botte.
– Sì: il viceré Nicolò Carroz. Accampò il pretesto che
quei feudi erano stati trasmessi per via materna - e quindi
a parer suo irregolarmente - e dunque intendeva appropriarsene
in nome del re. Secondo me, la sua segreta speranza
era di vedersene poi insignorito. Ma Leonardo, che
quando lasciava andare a briglia lenta l’orgoglio e l’alterigia
dimostrava di essere - in tutti i suoi tratti e le sue inclinazioni
- spagnolissimo, lo fronteggiò, innalzando le insegne
della casata d’Arborea, di cui era lontana discendente
sua madre.
– L’ho sentito dire…
– I vessilli recanti l’albero deradicato, assunti come propri
insieme al nome antico, in appena due mesi gli conquistarono
il consenso del popolo d’Oristano e di molti nobili,
feudatari come lui, che si schierarono al suo fianco. Ma,
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giunti allo scontro in campo, dovette essere una sorpresa
anche per lui come lo fu, amara, per il Carroz, vedere le
prime fila costituite da milizie sarde fedeli alla corona trattenere
il loro assalto, ristare e ondeggiare, come percorse
da un fremito dinanzi allo sventolare dei vessilli gloriosi.
Poi scompigliarsi, rompere nel grido “Arborea, Arborea!”
che divenne un ruggito di ribellione in bocca ai più,
mentre correvano ad unirsi alle schiere dell’Alagon rivolgendo
le armi contro le truppe e la cavalleria aragonese!
– Jesús…
– Come poteva uno spettacolo del genere non esaltare?
Come potevano, le vittorie successive ottenute in quell’onda
di commozione, non far ritenere a Leonardo che
avrebbe potuto insignorirsi dell’intera Sardegna, rinnovando
nel nome d’Arborea i prodigi degli antichi giudici?
– Ma non poteva essere altro che un abbaglio! Pazzo…
– Fu per quest’abbaglio che Carroz ebbe buon gioco,
provocando Leonardo fino al punto in cui la rivalità contro
il viceré cominciò ad assumere i connotati di una ribellione
al re. E Leonardo, folle e ingenuo, si prestò al suo
gioco, affermando di voler difendere con la lança en la
mau ciò che aveva ottenuto, contro tutti, poiché era certo,
e lo proclamava, che il re volesse distruggere la casata
d’Arborea in modo che i sardi non avessero più difensori
e potessero essere trattati come schiavi e peggio di cani.
– È stato certo quell’atteggiamento a costargli la condanna
a morte per fellonia.
– È così. Gli aiuti dalla Sicilia e da Napoli, poi, accrebbero
la forza aragonese in campo e ne seguì la sconfitta di
Leonardo nella battaglia di Macomer.
– Fosse solo la sconfitta! Perse il figlio, mi pare…
– Il figlio Artal e i più cari amici. Subì anche l’onta del
tradimento. E, quel che è forse peggio, la condanna capitale
fu trasformata in prigionia a vita. Non è, quindi, piuttosto
l’esilio da un sogno quello che soffre il signore de
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Alagon? Un sogno che nel breve volgere di qualche anno
lo ha afferrato e, come in un improvviso riflusso, lasciato a
prosciugarsi d’ogni speranza tra queste mura severe, lontano
dalle risacche!
Inocencio stringe le labbra e fa un brusco cenno ai famigli
ed ai soldati perché si allontanino, poi si china all’orecchio
di Leonardo de Alagon.
– Señor marqués… – chiama, rivolgendosi a lui in quel
modo, anche se gli è stato proibito.
Leonardo apre gli occhi, ma solo dopo qualche istante
pare mettere a fuoco la figura del frate. Risponde, chiamando
per nome il giovane cappellano con una voce che
pare un soffio: – Inocencio…
– Sono qui per confessarvi.
– Ho sognato… – bisbiglia posando su quella del cappellano
una mano che, al polso, conserva la traccia del
bracciale di cuoio che per tanti anni l’ha protetto dallo
sfregare delle catene. – Lo stesso sogno che feci quella notte
disgraziata, nella rocca di Macomer, circondato dai nemici.
Il presagio di quel vessillo!
La sua voce diviene inaudibile, tanto che Inocencio, resistendo
al ribrezzo per quell’odore acre, si china ancor
più su di lui.
– Tutto intorno alla rocca e sugli altipiani sopra e sotto
Macomer, vedevo un mare di nebbia dalla quale uscivano
schiere di guerrieri grigi, muti, recanti in mano una candela
spenta.
Inocencio annuisce: nel suo breve soggiorno in terra di
Sardegna il marchese deve aver sentito la leggenda della
Réula - la schiera dei morti - da qualche superstizioso.
– Tutti si accalcavano intorno ad un’insegna. E quell’insegna
recava l’albero deradicato, ma figurato capovolto,
Inocencio, con le radici in alto e, in basso, la chioma!
Il frate ha un sussulto. La sua mano si muove in fretta nel
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segno rassicurante che ricorda il tormento sofferto dal
Cristo a salvazione nostra.
Poi lo calma il pensiero di potere, in ogni momento, ridurre
in cenere quel pezzo di pergamena. Ma quel vessillo
che Alagon descrive, quel disegno che lui stesso, un’ora
prima ha tracciato, non sono solo la fantasia di un frate solitario
o l’allucinazione di un moribondo. È certo, e solo
ora gli ritorna chiaro il ricordo, di averlo visto con i suoi
occhi, in qualche luogo, in qualche tempo.
Il morente continua: – In quell’istante pensai fosse un
presagio dell’abbattimento della casa d’Arborea, ma mio
figlio rise affermando, anzi, che il presagio era a nostro favore!
Un rantolo aspro lo costringe ad inarcare la schiena, poi
ricade spossato, sbarrando lo sguardo: forse rivede suo figlio
Artal. Era forte e giovane ancora! Appena qualche ora
dopo il colloquio con suo padre, era stato disarcionato durante
la battaglia, ed un nugolo di fanti si era gettato su di
lui per disputarsi la catena d’oro che portava al collo, spiccandogli
la testa dal corpo.
Il signore di Alagon rompe in un grido, che fa voltare i
soldati ed i famigli mandati in disparte.
– Ay, Nuestra Doña dels Abandonados! – Poi, senza più
forze, in un soffio: – Prega per me, Inocencio, perché la
mia follia è stata alimento per la loro illusione e causa della
loro fine. E questo è peccato.
Poi, ripreso fiato, gli dice altre cose che il frate ascolta
sbiancando a tratti, a tratti arrossendo.
Dopo la confessione Leonardo pare abbandonarsi, e già
Inocencio comincia a voce alta la formula assolutoria. Ma
l’agonizzante torna ad aprire gli occhi. Il suo sguardo è già
al di là di ogni visione terrena, quando parla ancora:
– Ah, Inocencio… Manda a dire a re Ferdinando che
Leonardo de Arborea y Alagon, Rey de Cerdeña, e suo figlio
Artal, lo salutano.
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Il frate guarda il corpo abbandonarsi, distendersi il volto
tormentato che riacquista, nella morte, i nobili lineamenti
di un tempo.
Terminate le preghiere, allunga una mano per abbassare
le palpebre di Leonardo, ma la lascia sospesa, esitante
dinanzi a quello sguardo sbarrato nella contemplazione
dell’ultimo sogno.
Rey de Cerdeña…
Quando gli riferiscono che Leonardo de Alagon è morto
con il conforto dei sacramenti, invocando la Vergine
degli Abbandonati, re Ferdinando risponde: – Placenos
mucho sea muerto como bueno e catholico cristiano.
Cagliari 1946
Cesare Desantis esita sulla soglia qualche attimo, godendosi
la scena che si è presentata ai suoi occhi quando ha
aperto la porta del salotto: Nicola e Laura sono seduti su
dei bassi sgabelli e la piccola Margherita lascia le braccia
della madre e si volta verso Nicola, percorrendo con passo
incerto la breve distanza che li separa. Con un gridolino di
trionfo si butta tra le braccia che le vengono tese, poi si
volta e, coraggiosamente, si appresta a ripetere il percorso
in senso contrario. In disparte, nonna Grazia osserva la
scena proprio con lo stesso sorriso affettuoso che c’è sulle
labbra di suo marito, dall’altra parte della stanza.
Nicola sta proprio bene da qualche tempo a questa parte.
Anche Grazia sostiene che l’arrivo di Laura sia stato
una fortuna per tutti loro. Poi la nascita di Margherita:
pare che la vita riprenda davvero dopo l’incubo della guerra.
Lo tradisce un sospiro, perché tutti sollevano lo sguardo
verso di lui.
– Novità, babbo? – domanda Nicola, vedendo che il padre
ha delle carte in mano.
62
– Novità, sì. Le persone che ho incaricato hanno rintracciato
il nome.
Lo sguardo di Laura si riempie di apprensione e le braccia
si stringono intorno al corpo della sua bambina.
Nicola si alza e fa cenno al padre di precederlo in un’altra
stanza, ma Laura li ferma con un diniego accorato: –
Non è più tempo di segreti: ho bisogno di sapere.
– D’accordo. È stato arrestato a Roma dalla Polizia Fascista
neanche due settimane dopo che vi siete lasciati alla
stazione.
– A Roma? Perché a Roma, e come c’è arrivato?
– Temo che non lo sapremo mai: il suo nome era su una
lista di persone che furono caricate su un vagone piombato
diretto a Bergen-Belsen…
– Un campo di sterminio… – disse Laura in un soffio.
– Già. E il suo nome non figura tra gli elenchi dei superstiti.
– Questo significa, – interviene Grazia, – che ora potrete
sposarvi senza nessun problema.
– Certo, – precisa il marito, – ci sarà tutta una trafila burocratica
da seguire, delle carte da compilare, ma alla fine…
Nicola lo interrompe: – Le tue sono prove verificabili,
giusto?
Laura si alza in piedi lentamente. Ha lo sguardo smarrito,
come il giorno che lei e Nicola si sono conosciuti. E, come
allora, ha gli occhi gonfi di lacrime.
– Voglio vedere la casa degli avi di mio marito. E voglio
che mia figlia, – aggiunge con voce desolata, – porti il cognome
di suo padre.
Barcellona 1494
Inocencio va a piedi.
Non possiede tanto denaro da potersi provvedere di
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una cavalcatura, ma anche se lo avesse potuto, viaggiando
solo lungo sentieri deserti è meglio farne senza, perché
l’avidità dei saltadors de camins, i rapinatori di strada,
non sarà suscitata da un frate lacero, con i sandali sformati
e una bisaccia floscia sulla spalla.
Ha abbandonato il suo ordine in segreto, fuggendo verso
Porfangos e poi verso Barcellona, dove conta di riuscire
ad imbarcarsi in un legno che, percorrendo la ruta de
las islas, che è rotta d’altura, faccia scalo a Cagliari. Da
quella città potrà poi mettersi in cammino verso la valle
di Gurtei dov’è nata la madre, e dove lui ricorda di aver
visto l’insegna con l’albero deradicato e capovolto.
Travestito da bastaixo, con il cranio rasato per cancellare
la tonsura, di giorno lavora sui moli e di notte dorme
sulle reti olezzanti, o in qualche angolo riparato del porto,
in attesa dell’occasione propizia per imbarcarsi.
Ma vive giorni d’angoscia: sa di essere ricercato.
Dopo la morte di Leonardo Alagon, aveva domandato
ai suoi superiori il permesso di tornare in Sardegna a causa
delle condizioni di salute di sua madre. Non gli era stato
concesso e, inoltre, gli era sembrato che quella richiesta
levasse su di lui un’onda di sospetto.
La risacca di quell’onda doveva essere giunta a lambire
l’orecchio di qualcuno molto vicino al re, perché qualche
giorno dopo, portato a spron battuto da un corriere, fu
recapitato all’abate superiore di Inocencio un messaggio
di fuoco. In poche righe lo si accusava di leggerezza per
aver assegnato un frate sardo alla cappellania di un carcere
dove era rinchiuso un pericoloso ribelle alla corona,
sardo pure. L’accusa veniva rincarata per non avere, il
detto abate, avvertito il Re del fatto che subito dopo aver
ricevuto la confessione del ribelle, il cappellano aveva domandato
- cosa che avrebbe dovuto insospettire chiunque
- di ritornare in patria.
L’abate sbiancò al tono del documento, ed atterrì alla
64
firma: Tomàs de Torquemada, consigliere spirituale delle
Loro Maestà Ferdinando ed Isabella.
Convocato immediatamente, Inocencio consegnò la lettera
del fratello nella quale lo si avvertiva che la madre
agonizzava, protestando la propria supina obbedienza al
diniego dei superiori riguardo alla sua richiesta di licenza.
Il tono umile e sottomesso del fraticello calmò l’abate e,
al tempo stesso, infiammò i suoi spiriti per la palese
infondatezza dell’accusa di Torquemada. Non ingoiava
infatti che un domenicano, fosse anche consigliere del re,
si permettesse di fare lavate di capo a lui che apparteneva
ad un altro ordine, che aveva da rendere conto esclusivamente
ai suoi superiori e al Papa.
Inocencio tremava a capo chino. L’abate lo scrutò a lungo,
rimuginando: il Papa che da due anni signoreggiava a
Roma con il nome di Alessandro VI altri non era che il suo
ottimo amico Rodrigo Borgia, la cui nobile famiglia era
originaria proprio di Xàtiva. E che dire del figlio suo, il
cardinale di Valencia, Cesare Borgia? Con tali protezioni
poteva anche permettersi di rintuzzare le accuse di quel
domenicano che aveva osato umiliarlo!
Che tornasse tranquillo alla sua cella, aveva detto paternamente
al fraticello tremebondo che non aveva affatto
l’aria del cospiratore. Avrebbe pensato lui alla protezione
della buona fede dei suoi figlioli.
Inocencio era andato verso la sua cella, ne aveva oltrepassato
la porta e si era allontanato verso la cappella, deserta
e in penombra a quell’ora, sentendo scorrere sotto i
suoi sandali ogni asperità del pavimento.
Là giunto, aveva aspirato l’aria carica di fragranza di cera
e di incenso, poi prono, con la fronte a terra, aveva
confessato a Dio i suoi peccati: quelli commessi, lievi come
piume, e quelli che a commettere si apprestava. Per
gli uni e per gli altri aveva pronunciato la formula di assoluzione
e si era rialzato, segnandosi.
65

Due ore dopo, quando si erano accorti della sua assenza,
era ormai lontano.
66
V
Gurtei 1867 - Casaforte Ballester
Donnu Remundu Ballester, s’ùrtimu a portai su sangunau,
ma no s’ùrtimu a ’ndi portai su sànguni…
Don Raimundo Ballester, l’ultimo a portare il cognome,
ma non l’ultimo ad averne il sangue…
Arrivano. Tutti.
Da ogni tempo e da ogni luogo convergono verso Gurtei
come segatura di ferro attirata da una calamita. Aleni li
sente arrivare. Ed ogni cosa in quella casa li sente attraverso
lei e soffre.
Dentro la casaforte, il vento ha una voce d’ira che pare
voler scuotere le fondamenta e le mura di pietra. Urla e
spazza i pavimenti di azulejos, mentre filacce di ragnatele
rabbrividiscono e bolle d’intonaco si sbriciolano al suo
passaggio.
«Sono stanca. Avrei voluto essere, ormai, al riparo da
ogni angoscia. Ma purtroppo quel tanto, o quel poco, che
mi importa ancora della vita è legato al sospetto, suscitato
dalle parole di una serva morente, che se anche dovessi
spegnermi, il sangue nefasto al quale mi sono legata, dura.
Dura come solo una mala pianta può durare: trovando ali-
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mento nella sua stessa amarezza, buttando fuori germogli
destinati a gelarsi ai venti alterni della follia e dell’infelicità,
l’una causa dell’altra, in un inarrestabile circolare
percorso, viziato dal ridursi del nesso logico ad una cosa
soltanto: avere quel sangue - così a lungo e da tanti maledetto
- nelle vene.
Dunque, finché l’ultimo grappolo di pazienza non sarà
ridotto al raspo, bisognerà aspettare, trovare quegli infelici,
spiegare loro che si portano nel sangue il retaggio di
una tara antica, e consolarli.»
Lascia lo scrittoio, sentendo uno strappo alle viscere.
Soprappensiero segue con la punta della scarpa il disegno
azzurro della mattonella di maiolica, e si interrompe,
sentendosi aggredita da una sensazione molesta.
Cosa le succede?
Una smania angosciosa le impedisce di stare ferma.
Si ritrova a vagare per la casa, inseguendo il confine tra
penombra e oscurità, incalzata dall’eco che il suo passo suscita
nelle stanze disabitate.
Misurando la propria inquietudine su quel ritmo concitato,
Aleni sente rinnovarsi il presentimento avuto qualche
giorno prima.
Non è la prima volta che riceve avvertimenti dalla sua
percezione più che sensibile, sensitiva. Ma questo lo sente
funesto e comincia a soffrirlo con l’atterrimento di chi, in
un incubo, non riesca a far giungere il grido fino alle labbra
e lo senta arrestarsi in gola.
Un gesto improvviso: la mano stretta a pugno si abbatte
su una porta che si spalanca, provocando echi ripetuti.
Ma finalmente il moto d’ira s’impone nel suo spirito, restituendo
calma e corso profondo al respiro.
In quella camera c’è una finestra rimasta, da chissà quando,
aperta.
Un’anta cigola sui cardini.
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Avvicinandosi alle sbarre, si ritrova immersa nella corrente
livida del crepuscolo, fragrante di terra umida e di
fumo.
Là in fondo, si scorge qualcosa: un’ombra che pare
umana, tra quelle delle piante preda del vento. È immobile,
ma le sue mani piegano e ripiegano un drappo, o un
lenzuolo.
Aleni sente irrigidirsi la radice dei capelli.
Gurtei 1867
Non è proprio una pensione quella dove alloggia Marco:
lo chiamano zilleri, una taverna, insomma. All’occorrenza,
come il celler catalano, fornisce vitto e alloggio ai
rari forestieri di passaggio.
Il tavolo è apparecchiato vicino al camino in un angolo
appartato della sala al piano terreno, che ha la volta bassa,
il pavimento in terra battuta e affaccia sulla strada, all’insegna
di una foglia di palma.
Degli uomini, sempre gli stessi tutte le sere, siedono ad
un tavolo lungo, sistemato al centro e bevono il vino che i
padroni spillano direttamente dalle botti in boccali di terracotta.
Si tratta dei printzipales, per lo più membri del
Consiglio Comunitativo, borghesi benestanti, e qualche
piccolo proprietario di greggi o di terreni. Bevendo, sbocconcellano
sottili croste di pane carasau abbrustolito e
condito con olio e sale. A questi si unisce, centellinando
un bicchiere che dura tutta la sera, uno sparuto gruppo di
uomini di più modesta condizione.
Gli uni e gli altri parlano appena, chiusi nella loro solitudine,
come se ognuno fosse una mandorla amara e fosse
convinto che non vale la pena infrangere il guscio altrui,
per trovarci nient’altro che la sua stessa amarezza.
Il poco che hanno da dire lo dicono in fretta, usando un
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linguaggio scarno misto a segni, che contiene solo affermazioni,
mai domande. La domanda, infatti, chiede una
risposta, e quegli uomini hanno nel sangue la consapevolezza
che dare conserva la dignità, mentre chiedere la spezza.
E spesso la dignità, affermano, è l’unica cosa che resta
da mettere a lievitare nelle loro madie.
Al tavolo serve una donna. Porta, come usano le vedove
in lutto stretto, le maniche di una camicia abbrunata dal
fumo rimboccate fino al gomito. Marco, che non ha mai
visto una donna servire in una taverna, si accorge che è la
stessa che lo ha accompagnato in camera quando è arrivato,
insistendo per portargli la borsa.
– Mi pagano per questo, – aveva detto senza levare lo
sguardo, ma con il tono fermo di chi trae un certo orgoglio
dallo svolgere con dignità anche le incombenze più umili.
È giovane ancora. Il suo nome significa Greca, ma nella
lingua dei sardi è quasi anagrammato e trasformato in
Arega. Come molte donne porta un fazzoletto nero che le
copre la testa, ma lei lo ferma da un lato alla maniera delle
donne arabe, lasciando scoperti solo gli occhi che sono
sempre luccicanti, forse per un patire continuamente attizzato,
come un fuoco necessario a dare calore ai ricordi.
Casaforte Ballester 1867
Aleni aguzza lo sguardo tra l’insidioso e ondivago alternarsi
di luci ed ombre, nel crepuscolo ventoso, ma già
l’ombra che le era parso di vedere è scomparsa, mentre
contro l’ultimo muro che confina con il cespugliame della
campagna, si staglia qualcosa di più consistente.
Sì, c’è una figura che avanza lenta, tenendosi vicina al
muro e appoggiandosi ad esso, ogni tanto. E non è sola:
un’altra si materializza alle spalle della prima che intanto
si volta, forse ad un richiamo.
70
Ora si fronteggiano vicinissime, una che ghermisce e
l’altra che respinge, con un gesticolare veemente.
Ma non si sente una voce. Solo il vento
C’è qualcun altro!
Aleni si getta tentoni verso la porta della stanza accanto,
la spalanca e raggiunge un’altra finestra dalla quale forse
può vedere meglio.
Il cigolio…
Un groviglio di masse che si uniscono e si disciolgono
nell’ombra con la sinuosità dei corpi in lotta, palesati solo
a tratti da un lontano palpitare di lampi.
Poi il gesto del braccio che si leva, facendo balenare
un’arma.
Una delle due figure barcolla.
Aleni apre la bocca per urlare, ma dalla gola irrigidita
non esce che un singulto.
La sera sopraggiunge, al trascorrere di nuvole veloci,
con ombre più cupe, precipiti.
Lettera di Nicola Desantis ai genitori
«Gurtei, 18 marzo 1946
Carissimi,
non so se l’ossessione di Laura di voler rivedere a tutti i
costi i luoghi dei quali il marito le parlava, si sia rivelata
positiva o negativa per quanto riguarda l’eventualità di
una nostra vita in comune. La mia, la nostra Laura, si è
fatta più distante che mai dopo che abbiamo visitato questi
luoghi.
Certo la casaforte doveva essere imponente un tempo,
ma l’abbiamo trovata devastata. Molti tratti di mura sono
pericolanti, segnati da tracce di incendio e, tutto intorno il
terreno è cosparso di grosse buche. Dei pastori, che abbiamo
incontrato nelle vicinanze, ci hanno detto che nella
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casa ci sono stati i tedeschi. Le buche non sono, come
pensavamo, la traccia di un bombardamento: pare siano
stati loro, i tedeschi, a fare quei lavori di scavo, cercando
chissà cosa.
Se qualcosa hanno trovato, l’hanno portato via insieme
a tutto il resto: i mobili, gli arredi, i ritratti di famiglia.
Laura è andata fuori di sé quando ha visto quello scempio.
Si dice certa che il marito abbia rivelato qualcosa, magari
sotto tortura, prima di essere mandato ai forni. Qualcosa
che riguardava, forse, l’ubicazione di preziosi o di
documenti di qualche interesse.
Non tarderemo a tornare, ma prima di ripartire Laura
vuole recuperare, da quella che doveva essere la dipendenza
della servitù, un baule pieno di carte che si trova sepolto
dal limo di una imponente mareggiata che ha invaso
chissà quando quelle camere…»
Gurtei 1867
Prima che sia servito il primo piatto, arrivano al tavolo
l’ingegner Enrico Pagani e sua sorella Cristina: gli altri
due ospiti della pensione.
Marco ha saputo dal farmacista che sono figli di una sarda
e di un funzionario piemontese, destinato - per punizione,
pare - a terminare la sua carriera in Sardegna. Sono
nati in una terra, quindi, che non hanno sentito mai come
propria, crescendo e nutrendosi della nostalgia del padre,
più che delle radici della madre. Enrico, che si è laureato a
Torino, soffre in maniera cocente questa nostalgia, ora
che è ritornato in Sardegna con l’incarico di partecipare al
progetto di costruzione della strada ferrata.
Per ciò che riguarda Cristina, il medico non riesce a immaginare
quali ragioni possano aver indotto una donna
del genere, colta e maritata, a lasciare la famiglia a Orista-
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no e ad accettare l’incarico di organizzare una scuola in
un posto tanto isolato, nonostante il parere contrario del
fratello e forse del marito.
Marco si alza precedendo l’ingegnere e sposta la sedia
per Cristina, che lo ringrazia con un sorriso d’autunno
rannuvolato.
Poi, mentre i due fratelli scambiano appena qualche parola,
lui, per discrezione, rivolge l’attenzione agli altri avventori.
– Alle dodici ore, – sta dicendo uno di loro, – ho sentito
il gallo di Pepe urlare come se lo scannassero. Verrà il
temporale: è vento d’acqua. – Gli altri annuiscono, scambiandosi
cenni che Marco non sa interpretare.
– Verrà acqua dal cielo e dal mare. Si leveranno onde
che risaliranno i due bracci del fiume, vedrete.
In risposta a quella divinazione, un tuono rotola rombando
sul sibilo del vento che si alza di tono, facendo
scricchiolare le ante delle finestre e portando dalla strada
polvere e foglie secche, a mulinare fra i tavoli.
– Chiudete quella porta, ché non ho voglia di masticare
la polvere dei morti mescolata al vino! – brontola un uomo
avvolto nel gabbano d’orbace, alzando la voce.
La serva con la camicia abbrunata guarda verso la padrona
e, all’assenso di questa, va a chiudere la porta.
– Sa di che parlano? – domanda Enrico, chinandosi verso
Marco: – Parlano dei morti che vanno dissotterrando a
S’ortu ’e is Abandonaus, l’Orto degli Abbandonati, il vecchio
cimitero vicino alla chiesa di Nostra Signora degli
Abbandonati, nella parte più antica del paese. Dappertutto
si sta cercando di recuperare queste aree, nelle quali
non si seppellisce più nessuno da due secoli. Ma questa
gente non vuole capire, continua a brontolare per abitudine,
ormai, ad ogni provvedimento del re, cui preme solo
di renderla più civile!”
73

Un uomo alza la voce, cercando di ottenere attenzione:
– Hanno trovato qualcosa, togliendo le vecchie lapidi:
pareva un buco, lungo il muro della chiesa, invece era la
cripta dei Bayre.
– Non raccontare balle.
– Beh, chiedi a compare Miali, è lui che l’ha trovata! Se
n’era persa la memoria. L’ingresso era in chiesa, ma più di
cento anni fa, quando hanno rifatto il pavimento, è stato
coperto. Hanno avvertito Donna Aleni…
– Non ci lasciano in pace neanche quando siamo sottoterra,
– brontola un uomo anziano, che ha i capelli ingialliti
dal fumo. – Lo dicevamo proprio ieri notte con Maria.
– Povera Maria! – sospira un altro. – È stata fortunata a
morire prima di te. Se morivi prima tu, di cosa campava?
Il vecchio annuisce intristendosi. – Che vuoi, siamo nelle
mani di Dio. Ora Maria non ha fame, non ha freddo,
non ha più paura: sta meglio di prima. È solo che non
può dimenticare.
– Sono tutti così, – interviene uno più giovane. – La morte
ci libera dai bisogni, ma non dal ricordo di aver vissuto.
– Annuiscono e sulle loro voci, che vanno spegnendosi in
un tono addolorato, un’altra se ne leva forte.
– Ho visto la coda di una lucertola, tagliata per gioco dai
monelli di strada, scrivere nella polvere che l’ora di questa
valle sta per arrivare.
Enrico Pagani scuote con decisione il capo.
– Che gente! Ha sentito, dottore? Affermano di parlare
con i morti come con i vivi. E poi, non sanno leggere
neanche i manifesti del Municipio, tirati a stampa, figurarsi
quello che scrive la coda mozza di una lucertola!
Tutti l’hanno sentito, ma solo uno smilzo, con i capelli
grigi e vestito modestamente, trova il coraggio di rintuzzarlo.
– Sono cose che si sanno, ingegnere. La lucertola non sa
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scrivere, noi non sappiamo leggere, ma tra ignoranti ci si
capisce. Non tutto s’impara dai libri e non tutto quello
che è stampato si capisce, anche a saperlo leggere.
– Io so cosa c’è scritto nei manifesti del Municipio, – riprende
un altro, appena quello tace. – Il re vuole che chiudiamo
i poderi, che da quando esiste il mondo sono sempre
stati aperti e nessuno ha avuto mai da ridire. – Il suo
volto si fa triste. – Se ci tocca un’altra carestia, e le tanche
sono chiuse, moriranno quelli che sono fuori, ma non tarderanno
a seguirli quelli che sono dentro, io credo.
Un vecchio, che biascica tabacco fra le gengive infiammate,
prende a mormorare tra sé, con un sospiro:
– Mastru Giuanni est benìu, est benìu a cuaddu i a sedda.
Gésus eita nui niedda…
Quasi tutti, si segnano all’orribile ricordo. Il cimitero
nuovo si riempì appena costruito a causa di quel cavaliere
che è chiamato Mastru Giuanni. Mastru Giuanni è la fame,
perché la fame non può essere nominata con il suo
nome vero, che sente come un richiamo al quale si affretta
a rispondere.
– Ma poi che importa? Gli ordini di quel re non riguardano
Gurtei, che non rimarrà per sempre in questi luoghi.
Oggi ci siamo, domani… chissà.
Molti annuiscono seri.
– Ma voi, credete ancora alle favole dei bambini? – replica
indispettito Pagani. – Le carestie vengono perché
non sapete coltivare la terra e perché non chiudete le tanche.
Sono passati quarant’anni dall’editto delle Chiudende
e a Gurtei non si è chiuso ancora un palmo di terreno!
– E non si chiuderà finché sarò io sindaco, – afferma
un’altra voce dal gruppo dei printzipales scatenando il
consenso di tutti che, per esprimerlo da uomini, ché l’applauso
è da donne o da piemontesi, prendono a battere i
piedi a terra.
Il frastuono inghiotte le parole dell’ingegnere, il quale
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spiega che i manifesti, questa volta, annunciano la costruzione
della strada ferrata.
– Gente strana davvero! – esclama la sorella. – È sufficiente
la minaccia di un temporale per scatenare le superstizioni
più assurde! Gente senza timor di Dio…
– Trent’anni fa, in una notte come questa, Donna Aleni
partorì un figlio con due teste: una di bimbo ed una di vitello…
– Sangue cattivo!
– Che dici! Lei è sangue nostro…
– Lei, ma non quei maledetti con i quali si è mischiata.
– State zitti, non parlate male di loro. S’Acabadora cammina
ancora per i sentieri di questa valle e vuole per sé il
diritto di tormentare i Ballester, facendoli impazzire uno
dopo l’altro.
– Perfino Arega l’ha vista. Arega, ehi, sto dicendo che…
La serva fa un brusco gesto di fastidio all’indirizzo dell’uomo
che la interpella.
– L’ho sognata! Nessuno ti ha detto che l’ho vista: l’ho
soltanto sognata. A furia di sentirvene parlare tutte le sere,
l’ho sognata!
– Sognata… vista… è la stessa cosa. Io non so mai bene
quando sono sveglio e quando sto sognando. Questa maledetta
malaria…
–Zitti! – ordina un uomo che fino a quel momento è rimasto
in disparte, all’estremità del tavolo.
È anziano. Folte sopracciglia si ancorano a due rughe
che per la loro profondità lo rendono arcigno salvo poi,
osservando meglio, denunciarlo incline alla meditazione e
alla malinconia. Veste abiti tagliati e cuciti in qualche sartoria
di città, ma con l’aria di giungere ormai al punto di
essere smessi. Tutti si rivolgono a lui chiamandolo con rispetto
Su Notaiu.
– Non bisogna ridere di queste cose! E poi ci sono is
strangius e potrebbero credere che queste siano favole,
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mentre sono cose veramente accadute ad una donna di
carne e di sangue come noi, vissuta due secoli fa.
Marco sorride: è lui uno degli estranei che “potrebbero
credere” cui il Notaio ha appena alluso.
Il Notaio restituisce il sorriso e si schiarisce la voce.
Ad un cenno della padrona, Arega aggiunge un ceppo
al fuoco.
* * *
Aleni si precipita giù dalla scalinata e si dirige alla porta
sul retro della casa, che si apre in direzione di quel sentiero.
Comincia a cadere la pioggia e si leva l’odore di terra bagnata.
Forzando le gambe rese malferme dallo sgomento, rialza
sul capo la gonna esterna ed esce: lungo il muro laggiù
qualcuno potrebbe aver bisogno d’aiuto.
In quelle poche decine di metri la pioggia prende a cadere
a rovesci. Quando Aleni comincia a percorrere il
sentiero che costeggia il muro è fradicia d’acqua.
Incespica e cade malamente, graffiandosi le mani sui cespugli.
Quel maledetto sentiero è cosparso di pietre che
affiorano dal battuto…
Si alza, ricoperta di fango, e cerca di scrollare la gonna.
Ma c’è qualcosa di traverso sul sentiero, poco più avanti.
Aguzza lo sguardo. Accidenti, un corpo…
Riconosce con un moto di ribrezzo i lineamenti del viso
al balenare dei lampi, ma vede che nello sguardo non c’è
più vita: è immobile sotto il martellare delle gocce, cristallizzato
in un’onda di stupore.
Fa qualche passo indietro, guardandosi intorno: l’aggressore
può essere ancora nelle vicinanze
In fondo al sentiero: la sagoma della taverna illuminata
da una lanterna ondeggiante. Bisogna cercare aiuto da
quella parte!
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Solleva la gonna con le mani e si lancia in avanti di corsa
quando con la coda dell’occhio, proprio mentre sta passando
oltre, vede un fagotto, poggiato, abbandonato tra
terra e muro a secco…
– Jesús…
Un altro corpo, seduto contro le pietre, la testa in una
posizione innaturale.
Solo a fatica Aleni riesce a dominare l’orrore e ad avvicinarsi.
Dalle labbra della persona riversa si leva un rantolo intermittente
e, a tratti, bolle di sangue affiorano intorno al
collo da una ferita slabbrata e subito si sciolgono nei rivoli
di pioggia.
Aleni si china e balbetta parole di conforto. La vittima
non pare accorgersi di lei, fissa qualcosa nel buio lacerato
dai lampi.
Aleni solleva il capo, ma vede solo l’ombra incombente
della montagna che chiude la valle.
Quando china di nuovo lo sguardo, vede che cadono
pallidi fiocchi su quegli occhi sbarrati, ma le palpebre non
si abbassano più a scacciarne il gelo.
Una sensazione d’urgenza la scuote.
Lascia cadere la gonna e si avvia tentoni verso la taverna,
accecata dalla pioggia.
* * *
«Si dice che arrivò all’ora del crepuscolo.
Fissò il cielo e la casa di pietra. Scarmigliata, come uscisse
in quell’attimo dalla tempesta. Lo sguardo era un lampo
tra le ombre del viso. Pareva essa stessa un’ombra. Solo
il riflesso di un lume sulle pieghe del sago d’orbace ne
marcava a tratti la corporeità.
Il lume era in fondo alla casa: una candela accanto al letto
del moribondo. La fiamma oscillava nell’aria mossa so-
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lo dall’alito delle donne in preghiera e illuminava, tra il
nero delle vesti e degli scialli, dita intrecciate a rosari, visi
avvizziti, labbra intente ad arrotolare nel fuso della fede il
filo cantilenante della preghiera.
Entrò. I piedi nudi, chiazzati dal fango del sentiero, percorsero
lo spazio che la separava da quel lume.
Alcune delle donne tacquero subito, ed altre tacquero
appresso, come se il filo spezzato della cantilena fuggisse
via da bocca in bocca. Sollevarono uno sguardo come di
bestie spaventate, ritraendosi e rabbrividendo quando a
una di esse, in un singulto, sfuggì dalle labbra il nome temuto:
– S’Acabadora!
La mano del moribondo ebbe un moto convulso sul
lenzuolo e le sue palpebre vibrarono, nello sforzo di sollevarsi.
Una donna inginocchiata, l’unica che volgesse le spalle
alla porta, sollevò la fronte dal pagliericcio e si volse.
La luce del suo sguardo si intorbidò, al levarsi di un fondame
d’odio.
A fatica si alzò e raggiunse la nuova venuta.
Si guardarono, mentre le altre riannodavano il filo
spiando il profilo delle due donne nella cornice di pietra
della porta.
Quella che si era appena alzata aveva capelli ancora neri,
spartiti in due bande lisce raccolte sulla nuca. Sul volto
rughe profonde, più fitte intorno agli occhi, arrossati
dal pianto. Erano occhi acuti, abituati a frugare nell’animo
della gente. Le labbra erano sottili e deformate da
una smorfia di amaro che il naso aquilino rendeva grottesca.
– Perché hai chiamato me? – le si rivolse brusca S’Acabadora.
– Altre donne fanno il mio mestiere nei paesi vicini.
L’altra le rispose duramente:
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– Devi farlo tu! Vuoi che lui continui a soffrire? Non puoi
rifiutare.
Non poteva. S’Acabadora non si negava mai a chi invocava
l’opera tremenda e pietosa delle sue mani, per una
persona cara che la morte tardava a liberare dalle sofferenze.
Un lamento esalò dalle labbra del moribondo.
S’Acabadora annuì e si avvicinò al letto. Prese la candela,
la sollevò e la tenne alta: la luce sul viso sfatto e sulle
ciocche scomposte sopra il cuscino. Scrutò quel viso, cercando
di ritrovarne familiari i lineamenti. Ma era stato
tanto tempo prima.
In quel tempo lontano il suo nome era un vezzeggiativo:
Nenna, ma tutti i giovani del paese la chiamavano Luzighente,
ed i suoi capelli erano neri e lucenti come i grandi
occhi scuri.
Luzighente la chiamavano, e lei rideva. Andando per i
campi con le compagne, cercava rami gemmati di tasso,
per trarre da essi auspici di nozze e, alla vigilia di San Giovanni,
gettava foglie d’ulivo sulla brace.
Nenna non aveva conosciuto i genitori. Era cresciuta
con una sorella della madre che possedeva un piccolo laboratorio
per la lavorazione e la tessitura della lana. Là
aveva imparato a camminare, reggendosi al bordo delle
vasche dove la lana era tinta con il rosso della robbia, il
giallo del lentisco, il bruno del frassino. Tra i mucchi della
lana da cardare, aveva balbettato le prime parole e aveva
imparato a filare per l’ordito e per il ripieno. Poi a tessere,
fino a che le sue mani non diventarono sicure ed eleganti
sul telaio come le dita di un suonatore di launeddas sui fori
delle canne.
Ma non le piaceva stare rinchiusa. Così, appena poteva,
correva fuori, seguita dal sorriso indulgente della zia.
Luzighente la chiamavano tutti i giovani del villaggio,
sorridendole. Ma lei aveva già scelto.
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– Attenta, – le diceva la zia, – Tieli appartiene ad una famiglia
nobile, e tu sei quello che sei, Nenna: né nobile, né
ricca. Non vorranno per il loro figlio un’operaia. Ti faranno
soffrire. – Ma Nenna rideva e scuoteva il capo. Lei aveva
scelto Tieli.
D’altra parte, la zia, nonostante parlasse così per scoraggiare
la nipote, sapeva bene che non era la prima volta
che nella famiglia Ballester entravano persone di umile
origine.
Tieli non vuol dire altro che Bartolomeo: il ragazzo portava
dunque il nome dell’avo, ed era il terzo con quel nome,
nella famiglia Ballester.
Ma ciò che Nenna nella sua spensieratezza non capiva,
era che d’altro abbondavano in quella famiglia oltre che
di ricchezza e d’orgoglio: abbondavano di cattiveria.
Così lei e Tieli cominciarono a tenersi per mano, a fare
coppia al ballu tundu, né si poté impedire che tutti in paese
li vedessero e dicessero che erano promessi.
La baronessa Ballester, madre di Tieli, mandò allora a
chiamare la zia di Nenna alla casa di pietra, ingiungendole
di tenersi in casa quella sciagurata della nipote.
– Non fanno nulla di male, – rispose la donna. A tutte le
sue raccomandazioni Nenna rispondeva con un sorriso
strano, come se sapesse tutto della vita. O non sapesse
nulla.
Poi accadde la catastrofe.
Fu la notte dei fuochi di Sant’Antonio, mentre tutta la
gente pareva impazzita intorno al grande falò irrorato
d’acqua benedetta e di vino.
Tieli era arrivato già poco sobrio. Continuando a bere,
alitava la sua richiesta insistente sul collo infreddolito di
Nenna. Pareva come impazzito anche lui, le faceva paura
con quegli occhi febbricitanti, così la ragazza fece il gesto
di respingerlo.
Allora Tieli la trascinò tra alberi e muretti a secco irti di
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ovi, incespicando. La gettò a terra e cominciò a maledire
l’oscurità e le gonne che intralciavano la sua furia.
Nenna tremava, con i pugni stretti al petto e la schiena
su erbe e pietre, senza sapere cosa fare.
All’improvviso l’oscurità maledetta da Tieli li abbandonò.
Nenna in seguito ricordò come un incubo la mano che
reggeva alta la torcia, il grido, la gente che accorreva e il
peso morto del corpo di Tieli sul suo, che le impediva di
muoversi e di fuggire.
Ma il ricordo che negli anni le restò più impresso nella
memoria fu l’espressione di chi reggeva la torcia: Arcangela
Ballester, sorella di Tieli, con i capelli pettinati in due
bande lisce e raccolti sulla nuca, le labbra sottili e i piccoli
occhi pieni di odio.
Ricordava vagamente di aver visto Tieli molti giorni dopo,
davanti alla chiesa.
Erano stati tolti loro i calzari, sciolti i capelli di Nenna,
fu posta loro in mano una candela e furono spinti sul sagrato.
Tutto il paese era riunito là.
Mentre entravano in chiesa, spintonati e derisi dalla folla,
Nenna cercò gli occhi di Tieli con i suoi, ma lui evitò
quello sguardo. Confuso e spaventato come un bimbo, dinanzi
alla violenza, agli insulti, allo sguardo duro dei parenti.
Lei abbassò il capo, allora, e non lo levò più.
Naturalmente non ci fu matrimonio.
Tieli fu mandato lontano, presso parenti del padre. Dopo
quel giorno in cui avevano camminato scalzi sul sagrato,
fianco a fianco, da estranei, Nenna non lo rivide più,.
Morti i genitori, Arcangela Ballester si sentì depositaria
dell’odio che tutta la famiglia nutriva per quella sciagurata
che aveva sedotto Tieli, infangando il nome dei Ballester,
e lo gettò a piene mani intorno a sé , come fa il seminatore
sulle zolle smosse di fresco.
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Nessuna operaia fu più disposta ad andare al laboratorio;
nessuno più volle comprare la lana tessuta da Nenna.
Sotto la luce cruda che pioveva dall’alto nel laboratorio
deserto, la zia si spense poco a poco. Un giorno, mentre
giaceva tremante e raggomitolata sul giaciglio, supplicò la
nipote di liberarla dalla pena di vivere.
– Fallo, – ordinò, – intanto mi hai già ucciso con la vergogna
che hai gettato su di noi.
Nenna allora prese un lenzuolo, lo piegò e lo ripiegò
poi, appoggiatolo sul viso febbricitante della zia, lo tenne
premuto finché il corpo non fu più scosso dai sussulti.
Da quel momento cominciò ad andare di paese in paese
ogni volta che glielo chiedevano, conducendo per mano
la morte pietosa in tutte quelle case dove la sofferenza
troppo a lungo si attardava.
Ed ora era stata chiamata per Tieli, nella casa di pietra.
Lo guardava spiando l’orrore nei suoi occhi e contemplandolo
con viso impassibile. Avrebbe voluto andare via,
ma le labbra del moribondo balbettarono: – Luzighente!
– e si tesero in un sorriso.
Il viso dell’Acabadora pareva scolpito nel marmo.
– Andate via tutti: ora è mio, – disse con voce tranquilla.
E la notte inghiottì la casa, le plaghe e i territori,
sprofondati in una tenebra scricchiolante di brina sotto i
passi del tempo.
S’Acabadora uscì dalla stanza nell’ora ancora oscura
che precede l’alba. Teneva in mano la candela ormai quasi
consumata.
– Manda in chiesa a chiedere i rintocchi: tuo fratello è
morto, – disse svegliando Arcangela che si era assopita col
capo sulle braccia. Poi si avviò verso l’uscio e discese le
scale fino al cortile, dove un lume dondolava al vento.
– Cosa vi siete detti? – domandò Arcangela a S’Acaba-
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dora con voce trepida, sbucando in cima alla gradinata.
Nenna strinse le spalle e fece per andarsene. Ma un passo
oltre il portale, si voltò ancora.
– Volevi punirmi di nuovo, trasformando il ricordo che
Tieli aveva di me in quello di un’assassina.
– Allora? – la voce di Arcangela era incrinata.
– Quando nessuno ti aiuta a vivere, chi ti aiuta a morire
compie per te un’opera preziosa.
– Cosa vi siete detti ti ho domandato!
S’Acabadora fece un altro passo incontro alla notte.
– Ti ringrazio di avermelo restituito, in quest’ora – replicò.
E scomparve nel buio.
La notte, appena sbiadita ad oriente dal chiarore, non
lasciò intravedere il sentiero che aveva preso. Pure, era lo
stesso che seguiva da quel giorno lontano, e che era cominciato
da quel sagrato. Scalza, con i capelli sciolti e
scarmigliati, espiando un peccato non commesso.»
Il Notaio allunga la mano verso il bicchiere, umettandosi
le labbra.
Il silenzio seguito al suo racconto comincia ad incrinarsi
per scricchiolii di panche e cozzare di boccali.
Il vento, che si è fatto impetuoso, rumoreggia nel camino.
Le gocce che riescono ad infilarsi di traverso nel comignolo,
fanno sibilare la brace segnandola di cerchi neri.
– Vissignoria non ha raccontato tutto, però. Si dice, infatti,
che S’Acabadora abbia gettato una maledizione sulla
famiglia Ballester e che torni ad incarnarsi in alcuni di loro,
rendendoli folli e assassini dei propri congiunti!
– Gli sciocchi lo dicono! Io vi ho raccontato la storia come
è avvenuta, non le fole che sono seguite!
Fa sempre una certa impressione, quella storia crudele.
Così, al bussare improvviso, molti sussultano.
Arega, che è rimasta tutto il tempo vicino alle botti, va
alla porta e libera la sbarra. La forza del vento quasi la get-
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ta a terra, e tutti si ritraggono davanti al soffio misto a pulviscolo
d’acqua che invade la sala. Ma rabbrividiscono
più di sorpresa che di freddo.
C’è una donna sulla soglia.
Ha i capelli striati da ciocche grigie sciolti e fradici. Il
suo viso è illividito dal freddo. La veste nera, incollata al
corpo, gocciola acqua e fango come ne fosse intrisa.
Con gli occhi sbarrati, nei quali luccica un terrore non
ancora sedimentato, la donna osserva a lungo Arega, che
cerca di contendere la porta al vento, poi sposta lo sguardo
su Cristina e schiude le labbra, come fosse in procinto
di parlare.
Ma è quando scorge Marco che i suoi occhi sembrano
perdere vita, farsi opachi nella fissità.
Fa un passo indietro, come preferisca tornare in potere
della notte. Ma infine, con un sospiro sfuggito a stento
dalle labbra irrigidite, abbassa lo sguardo e si lascia andare
contro lo stipite, serrando le braccia al petto e rabbrividendo.
Il Notaio balza in piedi e si fa avanti.
– Donna Aleni, ma come? Vissignoria è stata sorpresa
dal temporale, dunque! Ma l’accompagno io, a casa. Prego,
prego, sono solo due passi… – e afferra un parapioggia
che stava appoggiato contro il muro.
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BEATRIU
BAHER
BARTOLOMEO II
BALLESTER
VICENTE
BALLESTER
[ ? ]
86
BARTOLOMEO
BALLESTER
BARTOLOMEO III
BARONE ? ARCANGELA
(TIELI)
Cagliari 1950
VI
– Ormai mi sono rassegnato, – ammette Nicola accarezzando
distrattamente i capelli chiari di Margherita.
Laura pare non ascoltarlo, persa in un filo di pensieri
che la porta al di là di ogni tentativo di comunicazione e
d’affetto. Nicola si accorge di quanto la piccola Margherita
soffra il palese distacco della madre, ma né l’uno né l’altra
possono fare niente per accostarsi a lei.
– Forse è a causa della mia menomazione fisica che hai
sempre rifiutato di sposarmi. O forse, semplicemente perché
non hai mai smesso di sperare che tuo marito possa ritornare.
Nicola, convinto che non lo stesse ascoltando, osserva
con stupore il viso affilato voltarsi vivamente verso di lui.
In quegli anni Laura non ha fatto che dimagrire e macerarsi
in pensieri segreti e distanti, ma ora il suo sguardo
sembra acceso da una passione reale.
– Non lo spero affatto: ne sono certa.
– Lo ami ancora tanto! Torneresti con lui, se… – chiede
stupito e addolorato.
– Come sei cieco… – replica lei quasi con disprezzo,
volgendogli nuovamente il profilo, tornato enigmatico e
distante.
87

Gurtei 1867
I suoi occhi l’hanno ancora tradita.
Erano lì, le ha viste. Le due donne i cui corpi ha lasciato
riversi nel sentiero sotto la pioggia, stanno ora nella sala
della taverna, con le guance arrossate dal vino e dal calore
del fuoco.
Il sollievo, mitigando lo smarrimento di Aleni, giunge
come al risveglio da un incubo che avesse troppa apparenza
di realtà. Ma resta un’ombra di inquietudine. Il Notaio
già si allontana giù per il sentiero che dalla casaforte
torna in paese, congedato nonostante le proteste e le offerte
d’aiuto.
Quando adolescente venne a Gurtei sposa del barone
Ballester, si accorse subito che quel luogo aveva, sui suoi
sensi, un effetto singolare. Vedeva e sentiva cose che nessun
altro vedeva e sentiva.
Per molti anni non ebbe tempo di fermarci il pensiero
tranne che per sospettare d’essere impazzita
Poi, quando morirono i maggiori dei suoi figli e sentì il
desiderio di salire tra le mura dell’antica casa Ballester,
trovò le Cronache della famiglia. Scorrendo quei fatti, annotati
da mani diverse, Aleni dovette arrendersi all’idea
che le sue visioni erano legate al passato della famiglia.
Tutte tranne quella dell’ospite sconosciuto.
Qualcosa richiama la sua attenzione: manca qualcosa di
consueto…
Il violino.
Aleni si affretta verso la camera della nuora, la vedova di
Raimundo.
La camera è deserta: violino e archetto sono posati sopra
il letto e la candela è accesa.
Si precipita nel corridoio ed entra nella cucina, appena
rischiarata da un fuoco morente.
Davanti alla porta spalancata, Marta sta accovacciata in
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una pozza d’acqua che la pioggia ha formato al di qua della
soglia. Ha i piedi scalzi, ricoperti di fango, e l’orlo della
camicia ne è intriso. In fondo al cortile la porta sbatte, lasciata
aperta in balia del vento, mentre la luce dei lampi
inargenta il turbinio di pioggia che investe la figura esile.
Aleni chiude la porta e poi conduce la nuora verso la
sua camera mormorandole parole rassicuranti.
Le toglie la camicia fradicia, le friziona le membra con
un panno di lana e infine le solleva la coperta fino al mento,
soffiando sulla candela e desiderando con tutta l’anima
che qualcuno trovi anche per lei parole rassicuranti.
Per tutto il tempo ha cercato di ricordare se, al momento
dell’aggressione, il violino suonasse.
Sente le gambe cedere e le tremano tanto le mani che
domanda a Larentu, che in quel momento torna fradicio
dalla vigna, di ravvivare il fuoco in cucina.
Capisce, dai brividi e dai cedimenti di coscienza, che la
febbre sta salendo.
Dal camino, fiamme a tratti ardenti a tratti gelide, salgono
verso di lei, avvolgendole le ginocchia, lambendole
il viso.
Facendosi schermo con la mano, cerca di mitigare il riverbero
di quel calore balenante ed è così che li vede.
Tutti i suoi figli. Sono là e la fissano, con lo sguardo
smarrito, come in attesa.
L’amara Violante e Beatriz, la dura Beatriz di pietra di
basalto, chiusa nel suo velo di monaca. Poi Juan, debole
e vizioso, e Raimundo, il crudele.
Poi Bernat, Blanca e Fadrique, che sono volati via dalle
sue braccia come falene, lasciandole i seni gonfi di latte
e il cuore chiuso con chiavi che poi ha tardato a ritrovare.
E altri, che hanno lasciato il suo ventre per una culla
di terra scura, dei quali non le hanno neppure fatto vedere
il volto, ai quali non ha fatto in tempo a dare un nome.
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Tutti i suoi figli morti sono là, ognuno con la traccia del
proprio destino sulla fronte innocente.
Lo sguardo di Aleni si sofferma ora sull’uno, ora sull’altro,
riconoscendoli tutti come, anche al buio, si riconoscono
le parti del proprio corpo.
Ma, via via, una pietà indicibile per quella carne sua la
vince. Con un senso di tristezza stranita, che le fa pizzicare
il naso e le appanna lo sguardo, si domanda come abbia
potuto sopravvivere alla morte di tanta parte di sé.
Allora, trattenendo un sospiro tra le labbra perché non
vada ad impigliarsi in una ragnatela di paura, li guarda
tutti ancora una volta.
Li guarda, tutti, e piano annuisce.
Gurtei 1968 - rovine della casaforte
Piove. Bene. Questo favorisce i suoi scopi: se ci fosse in
giro della gente, qualcuno potrebbe notare lui, la sua auto,
e poi ricordarsene nel momento meno opportuno.
L’uomo parcheggia fuori strada, in un punto riparato
dai cespugli, toglie dal portabagagli la pala e la torcia elettrica
e si avvia verso le rovine, tirandosi sulla testa il cappuccio
dell’impermeabile.
Conosce perfettamente la sua meta, ma il temporale ha
reso sdrucciolevole il terreno, e lui deve aggirare le pozzanghere.
Dopo qualche minuto si ferma.
La luce della torcia illumina la base di un muro di grandi
massi squadrati poi salendo, in rapida successione, un
arco diroccato sormontato da uno stemma, una finestra
protetta da una griglia di sbarre e, più su, fino dove la luce
arriva benché indebolita, un muro d’angolo ancora integro,
sormontato da merli guelfi.
Dentro, oltre quell’arco, il cono di luce non fa che illu-
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minare ovunque macerie, muri sfondati e travi sconnesse.
Le nocche della mano che stringe la torcia sbiancano.
L’uomo si chiede se, al piano di sopra, si sia salvata la
Galleria dei Ritratti, la biblioteca, i mobili spagnoli. Ma la
luce gli toglie ogni dubbio. Al di là delle travi annerite da
tracce di incendio, c’è solo il vuoto: il piano superiore non
esiste più.
– Non hanno trovato ciò che cercavano ed hanno dato
fuoco alla casa. Imbecilli! – esclama a denti stretti.
Poi pensa che tutto ciò, per i suoi scopi, non ha in fondo
grande importanza.
Si dirige allora verso l’ala nord-ovest e raggiunge, chinandosi
e strisciando sotto travi incurvate, un locale angusto,
che un tempo era adibito a casamatta. Ispezionando
meticolosamente centimetro per centimetro la superficie
dei muri, comincia la sua ricerca.
– Finalmente! – si lascia sfuggire ad un tratto.
Un rumore: l’uomo si volta di scatto, spaventato. Delle
pietre o dei calcinacci rotolano in qualche punto delle rovine.
Ma la suggestione di ciò che ha trovato è tale che torna a
voltarsi. Al centro del cerchio di luce c’è un graffito.
– Eccolo! – Esclama senza più ritegno, con singulti di
gioia. – Quella stupida ha scoperto tutto, ma non è mai
stata qui e non saprebbe dove cercare. Non immagina
neanche! …Ora mi basta trovare gli altri punti di riferimento!
E ricomincia a percorrere i muri. È troppo assorto per
udire un nuovo rumore, un rovinare di pietre. Sente solo
lo schiocco del legno e si volta, spegnendo la torcia.
Il vento deve aver spazzato via le nuvole e scoperto la luna,
perché si scorge il rettangolo di un’apertura, stagliarsi
nel buio.
Sono rumori consueti, in una casa diroccata, dice a sé
stesso.
91

Ma c’è qualcosa, c’è qualcuno che respira e cammina
dietro quell’apertura.
Mentre lui si appiattisce contro il muro, una voce di
donna esplode nell’oscurità.
– Sapevo che saresti venuto.
Il tono è calmo, forse leggermente triste.
Un’ombra attraversa l’apertura, stagliandosi contro il
chiarore lunare. Si vede solo il profilo e le mani che compiono
un gesto strano, come piegassero e ripiegassero un
lenzuolo.
– S’Acabadora! – Esclama l’uomo con voce resa falsa
dal terrore.
Gurtei 1867
Fuori si leva ancora qualche folata di vento, ma subito
cade: continua a piovere a dirotto.
Mentre di nuovo pensa allo zio Stefano e ai suoi avvertimenti,
forse il sonno si impadronisce di quel filo di ricordi
ancora prima che lui si accorga di averlo smarrito, e lo usa
per cucire malamente frammenti di pensieri sulla trama
della sensazione di riconoscere familiare un luogo che gli
è stato rivelato solo per cenni.
Così, quando Marco vede la baronessa Ballester in un
angolo della stanza non ne è turbato. Però si rimprovera
per essere rimasto inchiodato alla panca del zilleri. Inzuppata
e infreddolita com’era, l’unica cosa ragionevole da
farsi sarebbe stata di portare la donna accanto al fuoco e
versarle un bicchiere di vino ben caldo e zuccherato. Invece
non si è mosso ed ha lasciato che quella poveretta si
riavventurasse, anche se in compagnia del Notaio, nel
temporale che inaspriva.
Ora lei è un’ombra. Avanza di un passo verso il letto,
tendendogli un libro con il taglio delle pagine tinto di ros-
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so e la copertina nera, sulla quale spicca una scritta a caratteri
vermigli: HEIMLICH.
Attento.
I richiami ed i colpi alla porta gli danno l’impressione di
procedere da quei pensieri allo spavento per strappi convulsi
della realtà, senza passare per il sonno.
Marco si ritrova seduto con i piedi sull’assito.
Ombre guizzanti filtrano da sotto la porta. I colpi continuano,
ostinati, mentre qualcuno fuori grida il nome di
Donna Aleni.
* * *
– Da questa parte, – avverte Larentu. La sua non è altro
che una voce nell’oscurità quasi totale e Marco capisce
appena, dalla direzione da cui arriva, che stanno lasciando
il sentiero principale ed aggirando la casaforte.
Superano quello che doveva essere un antico muro di
cinta, imponente anche così diroccato, poi attraversano il
cortile ed entrano in una stanza dove è acceso il fuoco. Liberato
dal mantello, Marco è condotto, attraverso un corridoio,
verso la più interna delle camere.
Donna Aleni è là, in delirio, consumata da una febbre
che non trova alcuna resistenza nel fisico debole. Il medico
le tasta il polso poi, con un corrugare di sopracciglia
che innervosisce il suo accompagnatore, ausculta il cuore.
– Le somministrerò un febbrifugo. Mi occorrono una
bacinella d’acqua e delle pezzuole: bisogna tenerle fresca
la fronte.
Larentu esegue ogni ordine con una rapidità allarmata e
confusionaria, ma quando si deve far bere ad Aleni la medicina,
è lui a scostarle le labbra con delicatezza, parlandole
pacatamente e chiamandola mamma. Questo stupisce
Marco, che ha scambiato il giovane per un servitore.
– L’alba è ancora lontana. Vada a dormire: tra due ore
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dovrà darmi il cambio, quindi è necessario che riposi. – Il
giovane accoglie questa esortazione con una brusca stretta
di labbra, ma dopo qualche attimo, forzando un cenno
d’assenso, si allontana.
Aleni si agita, proferisce monconi di parole, di frasi.
Marco cambia frequentemente la pezzuola. È abituato al
vaneggiare dei malati. Non cerca di trovarvi un senso. Ma
a un certo punto quelle parole si legano e assumono la forma
di una descrizione angosciata.
– Quella stava là, con la testa fracassata su una pietra
aguzza. L’altra aveva la gola tagliata da un’orecchia all’altra
e soffocava nel suo stesso sangue… Non domandava
aiuto, non si lamentava. Guardava verso il valico della
montagna e… sono certa che piangesse. Piangeva quietamente
e moriva. Oh, Madonna degli Abbandonati! Io
non potevo fare nulla!
Si agita tanto che il medico teme possa cadere dalla
sponda del letto. Ma il febbrifugo fa il suo effetto e, presto,
la voce di Aleni si riduce ad un mormorio del quale lui
distingue solo poche parole ancora, di cui una pronunciata
a voce appena più alta:
– S’Acabadora!
94
Cagliari 1995
VII
Uno scatto: l’ultima diapositiva scivola di nuovo nel caricatore
e lo schermo diventa bianco.
Margherita Balistreri si sfila gli occhiali e si volge verso i
suoi due ospiti.
– Per fortuna sua madre fece copia di tutto il materiale!
– osserva Angelo Liperi.
– Quello che mi sconcerta è che io sia venuta a conoscenza
di queste cose solo dopo la sua morte. Prendo
qualcosa da bere.
Accende la lampada e si allontana, lasciandosi alle spalle
una fragranza di zagare che a Michele Spano, seduto accanto
ad Angelo, ricorda il profumo d’agrume di uno dei
suoi primi amori.
Liperi apre un album che sta sulla scrivania: contiene
numerosi articoli, datati tutti tra il 1967 e 1968. Comincia
pigramente a sfogliare, soffermandosi su alcuni titoli:
Un diario rievoca antichi fantasmi d’Aragona
Trova le tracce degli antenati tra le carte di un medico
dell’Ottocento
– Ne caveremo qualcosa, secondo te, Spano?
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– Non lo so: sono trascorsi trent’anni…
– Aumentiamo la tariffa. Che ci vuole?
Il segreto del tesoro di Ugone III d’Arborea
Un monaco eretico portò il segreto nella tomba.
«Laura Balistreri racconta come un antenato del marito
si lasciò sfuggire l’opportunità di entrarne in possesso…»
– Mah, io sono molto scettico…
– Spano, Spano! L’abilità di un investigatore consiste
proprio in questo: non escludere nessuna possibilità!
Inocencio Ispisu è veramente esistito
Clamorosa conferma dei documenti ritrovati da
Laura Balistreri.
«Un nostro cronista si imbatte nelle tracce storiche del
monaco eretico: morì nel rogo acceso al Balice nel 1495
dai carnefici dell’inquisizione»
Margherita rientra, spingendo un carrello con bottiglie e
bicchieri.
Nonostante la temperatura fresca della stanza, Liperi e
Spano sono madidi e stropicciati. Lei indossa indumenti
che sembrano appena usciti dalle mani di una stiratrice ed
ha un’aria distesa.
Scompare il documento riguardante il monaco
eretico
Singolare furto in biblioteca. Il fascicolo è stato sottratto
da un volume miscellaneo.
Conteneva indicazioni per trovare il tesoro di Ugone
III?
Forse un uomo dall’accento tedesco l’autore
del furto
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«Si tinge di giallo la vicenda del furto in biblioteca. Laura
Balistreri riconosce dalla descrizione l’uomo che da qualche
settimana la pedina con insistenza»
97

Il tedesco colpisce ancora
Laura Balistreri vittima di una brutale aggressione.
«Dei testimoni hanno visto un uomo che corrisponde alla
descrizione del tedesco allontanarsi dall’appartamento.
Rubato tutto il materiale riguardante i Ballester»
Trovato cadavere tra i ruderi della casaforte
«Un uomo, dell’apparente età di cinquant’anni, corrispondente
alla descrizione del tedesco, è stato trovato
cadavere tra i ruderi della casaforte dei Ballester. L’autopsia
ha confermato il parere del medico legale, che
aveva parlato di morte per arresto cardiaco»
– Gradisce una fetta di limone?
– Ah, grazie – accetta Liperi.
Margherita inserisce un altro caricatore di diapositive.
L’immagine che appare sullo schermo è quella dei ruderi
di una costruzione fortificata, ripresa di scorcio contro
un cielo nuvoloso, con finestre protette da inferriate e
coronata, nel fronte e negli angoli, da merlatura guelfa.
– La casaforte dei Ballester, risalente al quindicesimo
secolo. Il maniero dei miei avi, – dice Margherita. – O per
meglio dire, ciò che ne è rimasto dopo la ritirata dei tedeschi.
Due settimane prima, camminando tra quelle rovine,
Margherita ne aveva parlato con Spano e Liperi in tono
più accorato. Aveva domandato se avessero idea di quante
persone, nei trecento anni che la casa fu abitata e poi
dopo, avevano calcato con il piede quell’azulejo. E con la
punta della scarpa cercava di ripulire dalle incrostazioni
di terra una piastrella di maiolica a disegni azzurri su fondo
chiaro. Persino il castigo de Dios, la peste, era entrata
98
in quella stanza, lasciando un’eco di orrore. Suo padre
Giacomo, aggiunse Margherita, fu l’ultimo padrone della
99

casa e morì in un campo di concentramento, quando lei
non era ancora nata.
I genitori si erano conosciuti a Cagliari e i primi tempi, se
non fosse stato per la guerra, sarebbero stati felici per loro.
Giacomo Balistreri parlava spesso di quella casa, della sua
famiglia, ma a Laura pareva una sorta di nostalgia morbosa
per un passato ormai morto e non se ne lasciò mai contagiare.
Poi un giorno morì il nonno paterno. Dal suo capezzale
Giacomo tornò cambiato. Decise di andare, da solo, alla
casaforte. Là parlò con qualcuno, o scoprì qualcosa che lo
rese scontroso.
Laura intanto si era accorta di essere incinta e voleva dirglielo,
ma lui le diede appuntamento alla stazione, mentre
era in procinto di ripartire. La trattò bruscamente, con
crudeltà, dicendole di non usare il cognome di lui per nessun
motivo, di dimenticarlo perché non l’aveva mai amata.
Mentre parlavano, la stazione si era riempita di SS e lui
forse ebbe paura di essere perquisito sul treno. Così le
diede una borsa di pelle dove erano conservati dei documenti,
chiedendole di distruggerli.
Margherita confessò di essere certa che solo il provvidenziale
intervento di Nicola Desantis avesse salvato la
madre dall’arresto. Nicola, che era ricco di suo, provvedette
a Laura e poi a lei, quando nacque. Divenne il suo
padrino e il suo migliore amico. Fu lui a portarla in America
a studiare. Laura non volle seguirli.
Margherita ammise di sentire ancora forte per Nicola,
morto otto anni prima, il limpido sentimento di gratitudine
e l’affetto che l’aveva legata a lui come a un padre.
Poi, confessò il suo cruccio.
Laura le aveva raccontato che, finita la guerra, erano
venuti a sapere che Giacomo era stato arrestato dalla Polizia
Fascista. Il suo nome fu rintracciato, in seguito, in
100
una lista di persone caricate sui vagoni piombati diretti ai
campi di sterminio nazisti.
A quel punto volle tornare là, a vedere i luoghi di cui il
marito le aveva parlato.
Trovarono la casaforte devastata e depredata, ma stranamente
la dipendenza della servitù era quasi intatta.
Qualche mareggiata doveva averla riempita di fango, ma
tra il limo secco Laura trovò un baule pieno di documenti,
che si portò via e che cominciò a studiare.
– Quindi lei vorrebbe che noi indagassimo sulla faccenda
del tedesco.
– Signor Liperi, sono tornata dall’America un mese fa,
poco prima che mia madre morisse. Ed ora sento quasi il
dovere di… capire, di farmi una ragione di ciò che le accadde
quando noi eravamo lontani e all’oscuro di tutto.
– Veramente non vi fece sapere nulla? E i giornali?
– Lei pensa che in America arrivi un giornale locale come
quello che pubblicò quegli articoli? Sapevamo solo
quello che mia madre ci scriveva. E non era tale da farci
sospettare qualcosa.
Spegne il proiettore e va a sollevare la tapparella. Nella
veranda la tenda da sole tesa, mossa dallo scirocco, lascia
filtrare una luce ondante, da acquario.
L’appartamento dove era vissuta Laura Balistreri fino a
un mese prima era tutto là, in quel saloncino dove, da
qualche parte era nascosto un letto.
– Ora, quello che mi preme sapere, prima di ripartire, è
cosa c’è esattamente di vero tra le carte di mia madre a
proposito della storia di famiglia. In secondo luogo, vorrei
sapere chi era l’uomo che ha rischiato di ucciderla, per
impossessarsi di quelle carte e se, in ultimo, si trattasse veramente
della stessa persona trovata cadavere nei ruderi.
Quell’uomo è stato ucciso.
– Come, ucciso!
101

– Prevengo la sua obiezione, Signor Liperi: l’autopsia.
– Se è a conoscenza di qualche fatto nuovo, – domanda
Liperi, – per quale motivo si è rivolta alla nostra agenzia
investigativa, invece che chiedere semplicemente alla polizia
di riaprire il caso?
– Perché ho ragione di credere che nella morte di quell’uomo
fosse coinvolta mia madre, e non ci tengo ad infangarne
la memoria.
Liperi (i capelli a spazzola irti come antenne) afferra
Michele Spano per un braccio e lo pilota dentro l’ascensore.
– Straordinario! Dico, Spano, stammi a sentire: bisogna
spremere tutto quello che si può da questa storia. Hai sentito
la signora: nessun problema per le spese!
– Sì, ma io non sono molto convinto di dove andremo a
parare. Hai letto quelle carte? Sembrano… appunti per
un romanzo, più che cronache. E guarda che ce ne vuole
di fantasia… no, no. Secondo me…
Liperi batte i piedi sul pavimento dell’atrio con un ritmo
notevole per un uomo della sua mole.
– Eppure qualcuno, per quegli… appunti di romanzo,
era disposto ad uccidere!
– Sempre che tutta quella storia non sia una bufala…
– Uffa, Spano! Un poco di duttilità, che diamine! Questo
non è lavoro per un uomo d’azione, ma per un uomo
di cultura, come te. Altrimenti avrei seguito personalmente
il caso. Che l’ho assunto a fare un laureato? Quella mi
paga solo se le porto risultati!… E se lei non paga me,
Spano, è automatico che io non pago te. Ho reso l’idea?
L’ha resa.
Escono dal palazzo ed il muro d’afa che trovano fuori
gli ricaccia in gola il respiro.
102
Gurtei 1867
– Com’è nuvolo, – osserva Cristina. Posa la penna e
strofina l’una contro l’altra le mani.
A quell’ora del mattino, la sala della taverna è quasi deserta:
oltre a lei ci sono solo Arega, che accende il fuoco,
e Marco.
– Pioverà di nuovo, temo, – risponde il medico.
Cristina gli è sembrata, da principio, una di quelle donne
avvolte per destino, o per scelta, in uno scialbore che
toglie loro ogni risalto, come un velo di insignificanza che
le protegge dall’indagine altrui, nascondendo le loro buone
o cattive qualità e rendendo così inutili le prime e pericolose
le seconde.
Bussano. È un tocco tanto discreto che quasi non lo sentivano.
Victoria Luz e Carmen, le figlie del farmacista, che
portano un cestino per Marco.
Victoria Luz quel giorno si è raccolta i capelli in maniera
diversa, lasciandoli morbidi e cominciando la treccia un
poco più in basso. Il viso ne guadagna in dolcezza.
– Mamma le manda queste panadas. C’è anche del vino.
Ieri sera l’abbiamo aspettata…
– Mi spiace: ho passato la serata a disfare il bagaglio. E
poi… non vorrei essere di troppo disturbo.
– Nessun disturbo. Venga quando vuole, che ci fa piacere.
– Venga più spesso che può, – aggiunge Carmen, che ha
dodici anni e non ha perso ancora l’abitudine dei bambini
di parlare chiaro in qualsiasi circostanza, lasciando da
parte le convenienze. – Lei è l’unica persona interessante
di tutta Gurtei: non mi annoio mai quando c’è lei! E neanche
Victoria Luz si annoia.
– Carmen! – la rimprovera la sorella, arrossendo. – Ora
dobbiamo andare. E scusi mia sorella…
103

Marco le accompagna fin sulla strada, aprendo per loro
il parapioggia, perché comincia a piovigginare.
Cristina sospira: dalla finestra della sala non penetra luce
sufficiente per il suo lavoro.
Il Consiglio Comunitativo le ha fornito un elenco di nomi,
e lei lo copia in un registro nuovo, sforzando gli occhi
in quella semioscurità. Ma si rende conto di fare un lavoro
inutile: sa che non sarà mai la maestra di quelle persone,
che forse non le conoscerà mai. Sa che presto cederà alle
insistenze del fratello, il quale deve partire e non intende
lasciarla sola in quel luogo. Cederà, come sempre ha ceduto
nella vita.
Sa di essersi già arresa e non ha nemmeno la forza di
rammaricarsene.
Fuori la pioggia ha cominciato a cadere a scrosci.
Arega smette per un attimo di attizzare il fuoco, fissandolo,
poi torna ad avvicinare i tizzoni, lasciando che la
fiamma li avvolga, illuminandole il viso.
È la prima volta che Marco la vede senza il fazzoletto tirato
sulla bocca. La forma tesa delle labbra gli fa tornare
in mente l’annotazione che la riguarda, nella cartella di
marocchino:
«AREGA TIDU - Donna caparbia. Disperata forse più di
quanto lasci trapelare la sua riservatezza. Dopo molta riluttanza
ha confessato di essere stata l’amante del barone
Don Raimundo. Asserisce che nessuno, a parte la baronessa
madre e la moglie di lui, era al corrente della relazione.
La levatrice l’ha assistita dopo un aborto spontaneo avvenuto
la notte successiva al ritrovamento del corpo del
barone.»
104
Arega posa l’attizzatoio, si tira su, leva sul capo la gonna
ed esce.
Marco, stupito per quella fuga improvvisa, vede che la
maestra invece non ha fatto una piega.
– Ma dove va sotto questo diluvio? – domanda. Cristina
accenna ad un sorriso.
– Va da lui: non può restare al caldo, mentre il suo amore
è in una tomba sferzata dalla pioggia.
«RAIMUNDO BALLESTER - Aveva storie imbrogliate di
bestie, di pascoli e di sconfinamenti. Dalle testimonianze
risulta che uno del paese, che aveva osato chiedergliene
conto, scomparve improvvisamente poco dopo.
Arega Tidu afferma che stava vendemmiando nella vigna
che suo padre le aveva lasciato quando, di filare in filare,
corse voce che avevano trovato don Raimundo ai
piedi della rupe, sulla sabbia della foce, con la testa fracassata.
Nessuno sapeva dire, però, se fosse vivo o morto.
La donna racconta di essere fuggita via dalla vigna, di
essere discesa nella strada per il paese, e di aver continuato
verso la casa di lui a capo chino, lungo i muri, nascondendosi
poi là vicino, per non essere vista dalle persone
che si erano raccolte nella strada.
Rimase là fino a che le urla delle prefiche le fecero capire
che per il suo amante non c’era nulla da fare. A quel
punto dice di essere fuggita verso il fiume.
La trovarono il giorno dopo come morta, rannicchiata
in un angolo tra gli abbeveratoi e la parete della montagna,
in una pozza di sangue rappreso.»
Marco si ricorda in tempo della raccomandazione dello
zio - “Tieniti copertissimo” - quindi non può mostrare di
sapere troppe cose, dato che è appena arrivato.
– Si buscherà un bel malanno. È vedova?
105

– No. Lui era marito di un’altra.
Marco corruga la fronte.
– Ah. Una faccenda assai sconveniente.
– Trova? Voi uomini amate ostentare una certa intransigenza
morale, chissà perché tanto più rigida se si tratta di
giudicare una donna.
– Le assicuro che la mia intransigenza morale è sincera e
ne faccio per primo una regola di vita. Si figuri che in queste
questioni sono rimproverato di radicalismo persino da
uno zio settantenne!
– Io ammiro le persone capaci di sentimenti profondi…
– Ed io quelle che si sforzano di vivere con coerenza, anche
a costo di sacrifici.
– Arega, – aggiunge Cristina senza badare all’interruzione,
– parla con l’uomo che ama. Tutto quello che le
succede, le cose di ogni giorno, le persone che incontra,
sono come nella nebbia, ed hanno senso soltanto per quel
soliloquio che riesce a darle l’illusione del dialogo.
Si china in avanti, sorprendendo il medico con il suo tono
appassionato:
– Sembra fare ogni cosa, toccare ogni oggetto non per sé,
ma per qualcuno che solo attraverso il suo racconto può riprendere
contatto con la vita. Ha notato la dolcezza che ha
nello sguardo quand’è assorta? Pensi, fa venire i fiori dalla
città per portarli in cimitero, e tutto il paese lo sa.
– Assai sconveniente anche questo. Ma… la moglie?
Cristina solleva verso di lui uno sguardo indecifrabile.
– Non l’ho mai vista. Dicono sia pazza. Vive in quella tetra
casaforte insieme alla suocera. Arega è certa che sia
stata una di quelle due donne a ucciderle l’amante.
Marco inarca le sopracciglia ed estrae l’orologio dal taschino.
Le parole di Cristina gli ricordano che ha una paziente
da visitare, questa mattina.
106
Quando sale nella sua camera per prendere il mantello,
annota queste parole in uno dei fogli bianchi che ha aggiunto
alla cartella di marocchino:
«L’ostentazione del lutto vedovile; i fiori fatti venire dalla
città: la riservatezza di Arega non ha più ragion d’essere?
Perché?»
Sfoglia la cartella, trovando proprio nell’ultima pagina
l’annotazione che cerca e della quale, alle prime letture,
non ha capito il significato.
«È strano, ma quando si rimane qualche tempo in questa
valle, si viene colti da un singolare stato d’animo che,
senza passare attraverso sconcerto o confusione, si risolve
in una certa propensione a perdere la cognizione del confine
tra la fantasia, il sogno, la realtà. Una specie di trasognamento,
un’assenza da sé stessi.
Ora, io non so se si tratta solo di una mia fantasia, ma
qui nulla è ciò che appare essere: ogni cosa rimanda ad
un’altra. Ognuno crede che gli avvenimenti proiettino
l’ombra del loro accadere in avanti e indietro. Così nella
vita di tutti i giorni, non si fa che imbattersi nelle vestigia
della vita passata, o nei presagi di quella a venire.
Questa gente debilitata dalla malaria, vive in un continuo
delirio di visioni di ciò che non è.»
Questa gente…
Proprio sul punto di doversene andare da Gurtei, lo zio
Stefano stava dunque cominciando a capire la verità fondamentale
che lui ha già colto al suo arrivo: la malaria è la
vera padrona di Gurtei.
La gente ha la magrezza caratteristica delle razze flagellate
da questo male, il carnato terreo che con l’esposizione
al sole dei campi diviene della tonalità del cuoio scolorito.
107

Le donne si sciupano precocemente, ma conservano ad
ogni età un sorriso particolare, metafisico quasi, che illumina
il loro volto, subito trattenuto dal calare delle ciglia.
Tutti, a Gurtei, hanno passo e movenze incerti come se,
con titubanza, provassero i passi di una danza dimenticata.
Ogni movimento appare compiuto con affanno e lo
sguardo è perso sempre dietro a qualche stupore, o a
qualche sogno.
Questa attitudine languida, che molti interpretano come
indolenza, suscita nel medico una profonda pietà, Sa
che si tratta del torpore che accompagna sintomi più gravi:
stupore cerebrale, delirio tranquillo, melanconia, allucinazioni,
amnesia. È la totale prostrazione delle forze,
l’apatia invincibile che segue i gravi accessi anemizzanti
delle febbri endemiche. I segni ci sono: in quei ventri tumidi,
labbra cianotiche, frequenza delle emorragie dal naso
e dalle gengive, infezioni puerperali ed altri allarmanti
sintomi che ha deciso di annotare e studiare, insistendo
presso il farmacista perché si approvvigioni di solfato di
chinina.
Il farmacista scuote il capo, solleva le sopracciglia e scarabocchia
qualcosa su un foglio che poi regolarmente
smarrisce.
La pietà è tanto più forte in quanto c’è qualcos’altro che
ha colpito Marco fin dai primi contatti con gli abitanti di
Gurtei: come bambini mai sfiorati dal male, sono pieni di
quella fiducia che rende, però, inermi. Manca loro la diffidenza
che in molte parti della Sardegna lui ha sentito tangibile,
levata da ognuno come un muro di reazione contro
secoli di angherie e violenze.
Neanche nei suoi confronti provano diffidenza. Lui è Su
Strangiu, quello che pretende di ferire il braccio dei loro
figli con una punta aguzza, per curarli da una malattia che
ancora non hanno preso, ma suscita solo stupore ed un
sorriso che è già, al loro modo innocente, un’accettazione
108
fiduciosa. E potrebbe anche fargli piacere, se non la intuisse
effetto di una rinuncia a comprendere.
Lo zio Stefano, sul punto di andarsene, cominciava appena
a domandarsi che movente potesse aver avuto, tra
gente così, un omicidio.
Marco se lo domanda già da ora: appena arrivato.
Sa domu ’e is fogus 1867
Donna Aleni lo accoglie con uno sguardo velato di sfinimento,
ma riesce a tendergli la mano. Per riceverlo ha voluto
raccogliere i capelli ed ha preteso di essere portata in
una poltrona vicino al fuoco, respingendo con fermezza
ogni obiezione di Larentu.
In piedi, dietro la poltrona, c’è il Notaio, che saluta il
medico con cordialità e con l’aria di chi vanta consuetudine
di ospite nella casa. Ma si dilegua senza una parola
quando Marco mette al collo lo stetoscopio e comincia a
sciogliere i legacci della camicia di Aleni, per visitarla ed
auscultarle i polmoni e il cuore.
Quando asserisce di trovarla migliorata, Aleni risponde
con un tono nel quale si coglie una traccia di fastidio.
– Non ho mai avuto bisogno del medico, ed è spiacevole
che ne spunti uno ad allontanarmi dal mio riposo, quando
ero ormai certa di essermelo guadagnato.
– Ciononostante, – replica lui con la leggerezza che riserva
ai pazienti burberi, – sappia che per averlo fatto mi
aspetto dei ringraziamenti, nonché il pagamento di un
onorario. Per morire c’è sempre tempo, baronessa Ballester.
– Oh, se è per questo, anche per pagare… – risponde di
rimando lei. Marco scoppia in una franca risata: quella
donna gli piace.
Lo affascinano il tono di distratta ironia e la limpidezza
109

del suo sorriso. Gli occhi conservano una luce di innocenza
come se, anche avendo visto il male, non abbiano potuto
comprenderlo.
Deve aver posseduto, in gioventù, quel tipo di bellezza
che si manifesta per trasparenza e contro cui il tempo può
poco. Così pensa il medico accorgendosi che, nel viso incorniciato
dai capelli striati di grigio, quella bellezza si è
raffinata e temprata in una dignità distaccata, ma non distante.
Proprio il sorriso restituisce la misura della fragilità
di Aleni. Ma è un sorriso che svanisce presto.
– Arriva troppo tardi, l’ospite sconosciuto… – bisbiglia
la baronessa Ballester, come a sé stessa.
Marco crede che si rivolga a lui: – Anzi, appena in tempo,
direi.
– Come? Ah, no. Non dicevo per questa notte scorsa.
Si tratta di qualcosa che è accaduto a disora…
– Come ha detto?
– A disora. Non conosce la mia lingua? – sorride e la
sua voce si addolcisce - Qualcosa che è accaduto in un
tempo diverso da quello in cui sarebbe dovuta accadere.
Un giorno, se avrà voglia di ascoltarmi, le racconterò...
– Voglia? Sono impaziente. Quando? Domani? Non ho
altri impegni, domani.
Aleni sgrana gli occhi e sta per aprire bocca, ma il medico
la precede:
– Domani no? Voleva dire questa sera… È uguale, anzi
meglio.
Il viso di Aleni, che aveva riacquistato colore, torna ad
impallidire e a farsi serio.
– Dottore, non mi tratti come una bambina che bisogna
a tutti costi divertire.
– È un privilegio che di solito i pazienti più affezionati
mi riconoscono. La baronessa Ballester vuole invece negarmelo?
110
Lei sospira, chinando il capo per la prima volta. Una
ciocca di capelli sfugge ai pettini e scivola su una guancia.
– La baronessa Ballester la aspetta questa sera. – E non
solleva lo sguardo neanche quando sente le labbra di
Marco sfiorarle il dorso della mano, nel saluto.
Uscendo, seguito dal Notaio, Marco si accorge di avere
un ottimo umore.
Quella donna gli piace.
E gli piace nonostante il fatto che nella cartella di marocchino
siano sollevati, intorno a lei, gravi sospetti, motivati
con argomentazioni puntigliose e articolate.
* * *
– Ho saputo che cerca un alloggio conveniente… –
esordisce il Notaio.
Scendono insieme verso la taverna attraverso il paese,
perché ogni altra scorciatoia è stata resa un pantano dalle
piogge.
Sembra un miracolo, ma uno squarcio tra le nuvole fa
sperare un poco di tregua.
– Sì, ma senza fortuna, finora.
– Ci sono quindici camere vuote nella casaforte. Però
dubito che la gente verrebbe a farsi curare da lei, se Donna
Aleni gliene desse qualcuna. Non che abbiano paura
dei morti, non è questo… Ma i Ballester erano gente cattiva.
Lo squarcio si chiude, ricucito da nodi filanti. Comincia
a cadere una pioggerella che fa svanire ogni speranza di
schiarita, levando di nuovo l’odore di marcito. Sotto quella
pioggia Gurtei assomiglia ogni ora di più al paese che
ha descritto zio Stefano.
Le strade di ciottoli, soprattutto quelle in discesa, si trasformano
in un percorso infido, con quel tempo. Il Notaio
cammina sostenendosi con la mano ai muri mentre
111

Marco, che si è fatto carico del parapioggia, si appoggia al
suo braccio.
– Piuttosto sono stato incaricato di offrirle una parte
dell’appartamento che Donna Aleni occupa attualmente.
Un tempo erano locali riservati alla servitù, ma sono migliori
di qualsiasi casa del paese: ampi, luminosi, riparati e
facili da tenere caldi, d’inverno. La parte che lei occuperebbe
è stata già resa indipendente ai tempi del matrimonio
del barone Raimundo.
– Sarebbe una fortuna inaspettata!
Ad un tratto, fermandosi e forzando le parole tra l’affanno
per la discesa malagevole e per qualcos’altro cui
Marco non sa attribuire una precisa connotazione di sentimento,
aggiunge:
– Non le nascondo che il danaro di un affitto farebbe
comodo. La gran parte dei terreni ceduti ai Ballester come
riscatto del feudo, fu… alienata o ceduta tempo fa. È
rimasto ben poco, e il povero Larentu si rompe la schiena
da mattina a sera per ricavarne appena di che sopravvivere.
– Larentu… ah, il figlio.
Il Notaio scuote il capo: – Non ci sono legami di parentela
fra loro: è un orfano che Donna Aleni ha preso con sé
tanti anni fa. Tutti i suoi figli sono morti, e così l’unico nipote.
Solo la vedova dell’ultimo figlio è rimasta qui perché
non aveva dove andare.
– La misteriosa violinista, – il Notaio annuisce, aggrottando
la fronte. – Perdoni una domanda che potrebbe
sembrare indiscreta se non fosse posta da un medico: perché
quel crudele nomignolo?
– È giusto che lei lo sappia, visto che mi pare abbia deciso
di vivere accanto a loro. In ogni caso, lo verrebbe presto
a sapere da altri. Quella giovane vive in un mondo tutto
suo. Il dolore per la tragica morte del marito… insieme
ad altre circostanze, l’ha provata in modo tale da toglierle
112
il senso della realtà. Non parla più, forse non riconosce
neanche le persone che ha attorno. L’unico legame con la
sua vita passata è quel violino.
– Viene curata, in qualche maniera?
– Oltre l’affetto della suocera è la devozione di Larentu,
credo, a tenerla in vita. Io spesso mi domando se non sia
meglio lasciare che si spenga così. Lui al contrario non è
mai colto da un dubbio: è convinto che un giorno Marta
possa guarire.”
Parlano ancora per qualche tempo, e sono giunti ormai
alla porta della taverna quando a Marco scappa detto che,
una volta sistemato nell’appartamento, chiederebbe ad
Arega di tenerlo in ordine.
Il Notaio brontola un diniego sotto i baffi grigi.
– Non lo faccia. Ci sono sicuramente molte altre donne
che potrebbero offrirle servigi migliori, in paese, Inoltre
Donna Aleni… – si corregge, con un gesto di stizza, –
…tutti loro hanno motivi di rancore contro quella donna.
«IL NOTAIO - Il Notaio Soriani Puddu è persona di cultura
e intelligente. Un’oscura vicenda di donne rovinò
una carriera cominciata sotto i migliori auspici, confinandolo
per tutta la vita a Gurtei, dove non si è mai sposato
né ha dato mai occasione di pettegolezzo. Conosceva bene
il barone. Pare manifestasse atteggiamenti da tutore
che infastidivano il Ballester ed erano causa di frequenti
diverbi tra i due. Si mostra garbatamente reticente intorno
a tutto quanto riguarda la famiglia Ballester, alla quale
è molto legato. Da interessi? Da affetti? Ho l’impressione
che provi un forte sentimento per la baronessa…»
All’appunto dello zio Marco aggiunge:
«Stando a quanto mi ha raccontato il Notaio, Raimundo
conobbe Marta a Torino, dove studiava. La sposò con il
113

consenso della famiglia di lei, di nobiltà decaduta, a cui
non pareva vero di accasare con un barone quella figlia
senza dote.
Il cruccio della sposa era di non riuscire ad avere un figlio,
perché pensava che fosse quello ad alienarle l’amore
del marito. Il fatto era che a Raimundo Ballester venne
presto a noia quella ragazza che era passata, ignara della
vita, da un collegio di monache alle sue braccia.
Arega, che era diventata l’amante del barone, andò a
gettare in faccia a Marta la sua gravidanza, il suo orgoglio
di essere in procinto di dare a Raimundo qualcosa che la
moglie legittima non era riuscita a dargli: un figlio del suo
sangue.
Non contenta di vederla già piegata dall’umiliazione e
dal dolore, giunse a raccontarle che l’amante rideva con
lei dello squallore della sua vita coniugale. Poi, voltandosi
a Donna Aleni, che aveva assistito impietrita alla scena, affermò
che il bambino che aspettava avrebbe portato il cognome
di suo padre.
Marta non fu più la stessa, da quel momento.
Solo Aleni osò parlare al figlio della spudoratezza dell’amante.
Raimundo ascoltò, poi lasciò sua madre, senza replicare.
Dopo una settimana fu trovato moribondo ai piedi della
rupe.
Anche il Notaio abbandona, dunque, la sua reticenza.
Mi pare che tutti abbiano cambiato i loro atteggiamenti: è
segno che i tempi sono maturi e che, in definitiva, le prove
della verità siano, come pensa zio Stefano, sul punto di
palesarsi?
Un violento sentimento doveva agitarsi nel petto di Arega,
per sentirsi spinta ad andare in quella casa a gettare in
faccia alle due donne la verità. A distanza di anni ha trovato
il coraggio di mostrare a tutti quel sentimento, anzi di
ostentarlo. Ma si deve diffidare più delle persone che la-
114
sciano fluire da sé i propri sentimenti con effetto liberatorio,
o di quelle che li lasciano sedimentare dentro, giungendo
a distillarne, a volte, un mortale veleno?»
Gurtei 1867 - Sa domu ’e is fogus
Aleni si alza dalla poltrona e sente salde le gambe e
sgombra la mente.
Ha riflettuto a lungo ed ha concluso che la visione della
sera precedente - le due donne che si fronteggiano, la lama,
la corsa alla taverna… - altro non è che uno scherzo
del tempo, che torce e ritorce sé stesso in spire, rendendo
contigue al presente anse del passato e del futuro, palesi a
chi ha la sfortuna di avere lo sguardo acuto. Il panico è
tutto nella consapevolezza di avere in mano la vita di due
persone, l’opportunità di salvarle o di lasciarle al loro destino
annunciato.
Ma annunciato per quando? Per il giorno dopo, per
quel giorno stesso, o per l’anno seguente?
Una sensazione di urgenza la lascia inerme ed infuriata.
Si domina: bisogna aspettare, restare lucidi, capire.
Forse, pensa intrecciando e sciogliendo le dita, lo spazio
e il tempo e il concetto di causa non appartengono alla
realtà, ma sono solo l’arcolaio con il quale pretendiamo di
dipanarla.
Con la fronte poggiata al vetro della porta che affaccia
verso la casaforte, si ritrova a fissare lo scorcio dell’arco
che introduce nel cortile d’onore.
Vede laggiù, distante quattro secoli e pochi passi appena,
tra i refoli di nebbia mossi dal vento, il bordo di un
saio, due sandali impolverati. Poi un giovane viso, quasi
imberbe sotto il cranio rasato, che volge uno sguardo
smarrito alla casa di pietra.
Davanti ai suoi occhi, ma in un altro tempo, Inocencio
115

avanza nel cortile, stringendo al petto la bisaccia e socchiudendo
gli occhi alle folate di vento.
Lei spalanca la porta, si fa sulla soglia e grida, conficcando
le unghie nel palmo delle mani: – Fermati!
Non entrare - vorrebbe aggiungere se la gola non le si
tendesse in un nodo di spasimo - fuggi via da questa casa,
dai suoi segreti, dalla cattiveria di chi la abita!
Inocencio si ferma, sente qualcosa nel vento, si guarda
attorno poi riprende ad avanzare, con gli occhi sgranati
ed il capo sollevato.
Aleni grida di nuovo, un lungo lamento inarticolato. Fa
qualche passo in cortile, barcollante per la spinta del vento
e per la debolezza.
Inocencio è così vicino che può vedere la polvere sollevata
dai suoi piedi infilarsi, sospinta dalle folate di vento,
nella trama del saio. Ma è anche così distante, perché
quella stessa polvere è mista alla polvere sollevata da un
rogo di quattro secoli prima, nel quale il fraticello che le
sta davanti è stato bruciato.
Poi tutto svanisce: la polvere è solo nebbia che si leva
dalle pozzanghere del cortile deserto.
Con un gemito, Aleni nasconde il volto tra le mani,
chiudendo le palpebre su due lacrime gelide, mentre comincia
a montare la nausea. Si sente venire meno, cadere.
Ma poi subito sorreggere. Apre gli occhi con un lungo
brivido di stupore e si ritrova a fissare lo sguardo preoccupato
del dottore.
– Cosa fa qui? – riesce a balbettare.
– Lei sta male. La accompagno dentro.
Aleni ha un moto di ribellione e si divincola.
– Mi lasci e vada via…
– Certo, quando la saprò al sicuro, nel suo letto. Se vuole
che vada via prima, temo dovrà trovare la forza di cacciarmi.
Aleni scuote il capo, ma la vertigine che la coglie a quel
gesto caparbio la fa barcollare. Così le braccia di Marco
devono tornare a sorreggerla e lei è costretta a lasciarsi
condurre.
Mentre il medico le stende una coperta addosso, lei
chiede di nuovo:
– Perché è tornato?
– Il Notaio mi ha detto della sua offerta di ospitalità e
volevo ringraziarla.
– Ed erano ringraziamenti che non potevano aspettare
questa sera?
– No, non potevano, per sua fortuna. Se io non fossi stato
là a sorreggerla… Si vede che mi tocca il destino di farle
da angelo custode.
– Oh sì, lo so, – mormora, – lo so da molto tempo.
– Lo sa? Beata lei! Allora perché mi rimprovera come se
le avessi fatto un torto?
Aleni chiude gli occhi: sembra molto stanca e in procinto
di assopirsi.
– Verrà… questa sera?
– Neanche per sogno!
– Allora venga domani mattina. Per piacere. Vorrei che
mi accompagnasse in… un luogo. Verrà? … Mi risponda,
e non vada via in collera con me.
117

118
Cagliari 1995
VIII
– Spano! Finalmente! Ma cosa fai, scompari? Lo tieni
sempre spento quel diamine di cellulare?
L’urlo lo costringe ad allontanare il capo dal ricevitore.
– Ah, Liperi, sei tu. Che succede?
– Che succede? Me lo devi dire tu, che succede, figlio
di…
– Tutto a posto: mi trovo a Fiumicino e tra… esattamente…
otto minuti, prendo un volo per raggiungere il sud
della Francia. Devo controllare un paio di cose. Ti ricordi
di quella ballata…
– Ma quale ballata! Che scempiaggini mi vai dicendo…
– Erramun Baher, ricordi? Lo chiamavano Pollancre,
cioè pioppo. Hai idea di cosa significhi?
Rumore di mantice.
– No, Spano, non lo so. So invece che tu biascichi: hai
bevuto, è vero?
– I catari, Liperi! La risposta a tutto si trova nel sud della
Francia. Quantunque Perpignano e le sue finestre…
– Perpi… che? Quali finestre! Sei ubriaco, Spano, e io ti
licenzio. Diamine, stiamo scherzando? Torna subito qui,
o te lo faccio prendere io un volo per il sud della mamma
che ti ha fatto!
119

– Lascia stare. Piuttosto, non ci sono problemi di spese,
no?
– Ma che ca… Spano! Spaaanooo! Per l’amor di Dio e di
tutti i santi! È automatico che tu torni subito qui! Non
metterti in testa di gonfiare il conto spese con me, eh? Spano…
Che diavolo… Spano?
– Come? Il cellulare si sta scaricando: non riesco a sentirti.
Ma ti chiamo appena torno!
Gurtei 1867 - Orto degli Abbandonati
L’aria, già pesante per le avvisaglie di un nuovo temporale,
si fa cupa sotto i grandi alberi dell’Orto degli Abbandonati,
che si piegano al vento.
I lavoranti allargano il foro quel tanto che basta perché
riesca a passare una persona per volta.
L’uomo che entra per primo nella cripta, posa la lampada
e tende la mano a Marco.
Scendendo, il medico viene investito da un tanfo di
chiuso nel quale predomina un sentore di umidità commisto
a quello di morte, antico e rarefatto.
Si volta per aiutare Donna Aleni, ma il primo lavorante
già si è fatto avanti e la afferra per la vita, con poche cerimonie.
Nella cripta biancheggia qualche sarcofago, ma sono parecchie
le casse che sono state semplicemente lasciate là, a
ridosso del muro, alcune su sostegni, altre in terra o impilate
l’una sull’altra.
Una vena d’acqua è riuscita ad infiltrarsi nel sacello: il
pavimento è ricoperto di melma ed il muro in qualche
punto è rigonfio. Qualcuna delle poche lapidi murate,
penzola.
Cominciano ad aggirarsi nella semioscurità della cripta
ingombra, compitando i nomi sulle bare. Aleni si aggrappa
al braccio del medico.
120
– Mi faccia coraggio, – mormora inaspettatamente, mentre
la mano si contrae sulla stoffa della manica, – molti di
costoro erano persone malvagie.
Marco nota che le casse più recenti, quelle sotto la chiesa,
riportano solo il nome di Bayre, oppure altri cognomi
sconosciuti, mentre i sarcofagi più antichi - risalenti al
1400 - sono Ballester e Bayre. Due di questi, addirittura,
riportano il nome nella grafia più antica: Baher, e si trovano
nella parte più interna della cripta, proprio quella in
cui sono appena penetrati loro.
– Eccoli, – indica Aleni. – I folli Baher: Beatrìu e Joan.
Là: l’infelice Bartolomeo, primo Ballester di Gurtei. E qui
c’è uno che portava il suo nome, ma dicono che non avesse
il suo sangue.
Marco si china a sfiorare lo scudo araldico scolpito sul
lato del sarcofago che Aleni ha indicato come quello di
Joan. I suoi polpastrelli, ricevendo brividi fugaci dalla scabrosità
della pietra, incontrano le sette radici ricurve dell’albero
deradicato e capovolto e, scendendo verso il basso,
il tronco e cinque rami.
Aleni intanto fa cenno agli uomini di spostare le lastre di
pietra che chiudono i sarcofagi, ma quelli si ritraggono,
scuotendo il capo. La baronessa Ballester sospira, rivolgendosi
al suo accompagnatore.
– Non posso biasimarli. Comunque vedrà in chiesa il
volto dei primi padroni di Gurtei.
Lasciando il braccio di Marco, torna ad addentrarsi fin
sotto la chiesa, come alla ricerca di qualcosa. Nell’estremità
del sacello, una ripida gradinata si interrompe sotto
una grata che è stata murata dall’esterno. Là Aleni si ferma,
davanti ad un sarcofago di pietra scabra, non ancora
rifinito, dal quale sono state malamente abrase due lettere
che ancora si intravedono: C. B.
Fa nuovamente cenno agli uomini di rimuovere il coperchio,
ma nuovamente quelli scuotono il capo e, come
un’onda, passa di bocca in bocca un nome: Cramu Bayre.
121

– No, – replica Aleni decisa. – Cramu Bayre non è qui.
Può darsi che questa bara fosse preparata per lui, ma si
impiccò e fu certo seppellito in terra non consacrata.
Aprite.
– Lo faccio io, – si offre uno degli uomini, magro e un
poco strabico, che gli altri chiamano Malacarìu. Si fa
avanti con una leva in mano e gli altri, alla fine, si avvicinano
per aiutarlo.
Mentre forzano il coperchio, Marco si china a raccogliere
qualcosa che, restando tra il sarcofago ed il muro, è stato
preservato almeno dall’umidità del suolo: è un foglio
stampato, di piccolo formato, ingiallito e molle.
Il coperchio del sarcofago viene finalmente tirato di lato:
dentro c’è un’altra cassa di assi di legno, che pare incredibilmente
piccola. La lanterna viene tenuta alta e, dopo
qualche minuto di sforzi, i chiodi cedono e il coperchio
salta con uno schiocco di legna marcia, sollevando
una nuvola di pulviscolo.
Aleni è l’unica a farsi avanti, mentre tutti gli altri indietreggiano.
Marco osserva oltre la spalla di lei, con distacco.
– Nassia Bayre! – esclama la baronessa. E nel tempo che
impiega a pronunciare quel nome, il corpo ha un brivido,
come un sospiro, ed è subito polvere e lembi scoloriti di
tessuto.
Aleni barcolla, sostenendosi a Marco, mentre gli altri si
segnano, ricomponendo alla meglio, sulla bara, il coperchio
divelto.
– Ho avuto l’impressione di vederla intatta, per un momento.
Serena, come dormisse, – balbetta. – Ma questo
non può essere, perché l’ultima immagine che vide da viva,
fu suo figlio che le puntava al petto il fucile. – Poi, distogliendo
il viso aggiunge con un sospiro aspro: – Povera
donna…
Fuori, nel vento, Aleni pare ritrovare la calma scuoten-
122
do le gonne con ribrezzo. Poi solleva lo sguardo a scrutare
i lembi visibili di cielo.
– Si prepara un altro temporale. Cosa ha trovato? – chiede,
osservando Marco il quale cerca di leggere il foglio
che, per quanto abbia cercato di trattarlo con riguardo, si
è come sfatto.
– Solo la pagina di un vecchio libro di preghiere. – Le dita
di Aleni sfiorano appena la carta umida. – La cosa più
strana, – aggiunge Marco come soprappensiero, – è che ho
sognato il libro a cui appartiene. Vede? Si nota ancora la
tintura rossa del taglio delle pagine. La notte del temporale,
quando Larentu venne a chiamarmi, stavo sognando
lei, Donna Aleni. Nel sogno mi tendeva un libro dalla copertina
nera e il taglio delle pagine tinto di rosso. C’era anche
una scritta sulla copertina, ma non riesco a ricordare
cosa significasse.
Aleni lo guarda a lungo diritto in viso, poi distoglie lo
sguardo e dice, quasi con tristezza:
– I sogni sono avvisi.
– Sì, così si dice. I miei però non lo sono mai stati.
– Ne è sicuro? Forse in luoghi dove c’è troppa gente e
troppo rumore non possono esserlo, ma qui lo sono sempre.
* * *
In chiesa vengono accolti da un sacerdote imbronciato.
La figura claudicante è resa grottesca dal ventre intumidito
dalla malaria,
– Guardi, – esorta Aleni. Le vibrazioni della sua voce si
moltiplicano in echi, sotto la volta dell’abside.
Sui quattro peducci pensili degli archi che si incrociano
nella volta sono scolpiti quattro busti, rivolti verso l’altare.
– Quella è Beatrìu Baher, – Aleni indica, – quell’altro è
suo fratello Joan; là in fondo c’è Bartolomeo Ballester,
123

marito di Beatrìu; nel secondo peduccio di fondo c’è il
piccolo Bartolomeo, loro figlio. Si tramanda però che quel
bimbo non avesse sangue Ballester nelle vene: forse era figlio
illegittimo. Dai documenti risulta che la chiesa fu
commissionata da Bartolomeo Ballester padre, ma quando
furono scolpiti quei piè d’arco, lui doveva essere già
morto, altrimenti lo scalpellino non lo avrebbe relegato in
uno dei peducci di fondo. – Torna a voltarsi verso i peducci
degli archi esterni. – Guardi il volto dei due fratelli
Baher: Beatrìu e Joan.
– Sono molto simili.
– Ora guardi quello del piccolo Bartolomeo.
Marco osserva i tratti incisi nella pietra dalla maestria
dell’antico scalpellino: hanno tutta la volitività di quelli
della madre, per nulla mitigata dalla morbidezza di quelli
di colui che gli diede il cognome.
– Ma Bartolomeo Ballester doveva essere morto da molto,
tanto da essersi persa la memoria dei suoi lineamenti.
È’ appena sbozzato: un’ombra, il volto di uno che indietreggi
nella nebbia.
Aleni accenna un diniego.
– Si sbaglia. Lo scalpellino l’ha tanto ben conosciuto da
riprodurre, a memoria, la forma irregolare di una cicatrice,
là, accanto all’orecchio destro. Ma ci sono persone di
poco peso, – aggiunge, – che la vita travolge più di altre,
quasi avessero segnata, nel destino, la tara di una più marcata
contingenza. Venga.
Aleni guida Marco verso una cappella laterale, che ha
tracce di affreschi alle pareti.
– Ecco. Ci sono ancora i perni della cancellata che chiudeva
la cappella.
Entrano e, aggirando l’altare, sentono il rumore dei loro
passi farsi più grave, come per un rimbombo.
– La grata d’accesso alla cripta era in questo punto. Ora,
dottore, dal momento che io non sottovaluto mai gli avvi-
124
si, veniamo al libro del suo sogno. Una persona che fosse
venuta qui a pregare, avrebbe potuto vedere sotto di sé il
sarcofago di Nassia Bayre. Quel foglio, scivolando dal libro,
non avrebbe potuto mai cadere tanto perpendicolarmente
da infilarsi in uno spazio così stretto. Ritengo, invece,
che sia stato il libro a cadere attraverso la grata, oppure
ad essere gettato. Il foglio è certo scivolato via nel momento
in cui esso ha toccato il coperchio del sarcofago.
– Ma laggiù non c’era nessun libro! – esclama, stupito di
sentirla argomentare su un particolare che a lui è sembrato
di così poca importanza. Aleni gli sorride.
– Ha ragione. Ma a volte i fatti si annunciano per vie segrete,
che nulla hanno a che vedere con quelle della ragione.
Ha dimenticato il suo sogno? Troveremo quel libro.
Poi, rivolgendosi al sacerdote che li segue in silenzio:
– Predi Liori, vorrei consultare i registri della parrocchia.
Comparirà pure da qualche parte il nome del sacerdote
che ordinò i lavori di ripavimentazione…
– Come, non lo sa? – si stupisce quello. E continua con
voce melensa: – Eppure molti sono certi che frequenti
tuttora la casa dei Ballester, dove si dice che sia stato assassinato
e appeso a penzolare fuori da una finestra.
I lineamenti di Aleni si irrigidiscono: – Ah, quello…
– Quello, sì. Dona Inés Ballester commissionò i lavori,
come ringraziamento di una scampata malattia. Chi non
poté scampare a lei, – aggiunge il sacerdote con un sorriso
spiacevole che gli scopre denti lunghi e giallastri, – fu invece
il povero prete Gracián.
La mano di Aleni diventa pesante sul braccio di Marco.
– Ringraziamo, – replica con voce gelida, – che i tempi
siano cambiati, prete Liori.
– Ringraziamo, soprattutto, che non ci sia più gente di
quel sangue, in questo paese.
– Quanto a questo, non lo affermerei con tanta sicurezza.
Dica, cosa le hanno fatto i Ballester?
125

– Oh, a me nulla. Non sono nato a Gurtei.
– Probabilmente neanche prete Gracián. Questo però
non gli risparmiò di morirci nel peggiore dei modi.
E si volta, avviandosi verso il sagrato deserto al fianco di
Marco, mentre il vento strattona le sue gonne.
Seguendo col passo le connessioni delle lastre d’ardesia,
Marco si ritrova a pensare, con un certo stupore, di ripercorrere
i passi dei piedi nudi di Nenna che secoli prima,
da quello stesso sagrato, la portavano tra due ali di folla
verso il suo destino di Acabadora.
Per un breve attimo, quel vento ha la voce terribile di
una folla dileggiante.
* * *
Enrico accoglie la sorella con una lettera in mano e il
volto teso da una smorfia di durezza. Quando Cristina vede
la busta e riconosce la grafia, quasi gliela strappa di mano
e la dissigilla febbrilmente.
Lui, che fa un vanto della propria discrezione, o magari
tiene all’apparenza di essa, distoglie lo sguardo da quella
lettura concitata e guarda fuori dalla finestra.
I temporali di quei giorni hanno ripulito ogni cosa dalla
polvere dell’estate. Ora le gronde hanno smesso di gocciolare,
i cumuli plumbei si sono squarciati e formano intorno
al sole un drappeggio di cenere orlata di brace.
Tra i colori lavati spicca il rugginino degli embrici, maculato
di bruno, il bianco-grigiastro dei rami e il nero, il
sanguigno e l’ocra delle pietre vulcaniche dei muri. Ma il
vento smuove i cumuli plumbei, velando di nuovo tutto.
– Oh, gli uomini! – esclama Cristina con voce molle.
Enrico si volta, riacconciando la smorfia di durezza.
– Non avresti dovuto mai allontanarti da tuo marito.
– Ma lui non è in collera! Mi scrive che è giusto che io
segua le mie inclinazioni…
126
Enrico si costringe ad un respiro misurato, cercando di
contenere l’impulso di prendere per le spalle la sorella per
scuoterne la torpida cecità.
– Ma come puoi… Tutta Oristano sa che tuo marito mantiene
un’amante!
Gli occhi di Cristina hanno, d’un tratto, la lucentezza liquida
del pianto che sale dal profondo, senza avviso, ed
ogni sua parola è cenere che scricchiola tra lingua e palato.
– Mi giura che tra loro non c’è più nulla.
– Certo! Ma non ti chiede di tornare! Non avresti mai
dovuto allontanarti.
La donna solleva su di lui quel suo sguardo dirupato,
senza più correnti ascensionali, nel quale si smarriscono
gabbiani d’angoscia. È rassegnata a non riconoscere più
senso al riserbo che le ha imposto di mascherare - anche
con il fratello - il motivo di quella partenza e ad ingoiare
rimproveri e sgarbatezze.
Si lascia andare sul bordo del pagliericcio.
– È stato lui a chiedermi di partire. Mi disse che forse un
periodo di lontananza gli avrebbe chiarito la natura dei
suoi sentimenti per me.
– E tu gli hai creduto!
La bellezza scialba di Cristina si sbiadisce, comincia a
sfarsi nel pianto che le riga il volto.
– Avevo qualche alternativa?
Lui sente stringersi un nodo di pietà per la sorella, ricordando
la derisione cui è fatta oggetto in città, da parte dei
benpensanti, per non essere stata capace di tenersi il marito
o di imporgli, nelle sue relazioni, un riserbo che facesse
salva almeno la facciata.
– Se almeno aveste dei figli…
I lineamenti le si deformano in un sorriso: – Per fare i figli
bisogna essere in due… – Fa per continuare, ma poi
scuote il capo: le manca il cuore di confidare quel segreto
che la soffoca impedendole, ad ogni respiro di sentirsi viva.
127

Ma lui ha capito ugualmente. Da tempo sa che quello è
stato, per il cognato, un matrimonio di pura convenienza.
Tante unioni di quel genere finiscono, poi, per rivelarsi
più salde di molte unioni d’amore. Cristina non ha avuto
quella fortuna.
Le siede accanto posando una mano sulle sue, senza
parlare. E rimangono così fratello e sorella, in silenzio, sopraffatti
dall’improvviso stupore di ritrovarsi, dopo anni
di lontananza e di estraneità, di nuovo come da bambini.
* * *
– Fermi qui per favore.
Marco tira le redini obbedendo all’ordine di Aleni ed il
calesse si arresta.
Sopra le loro teste si innalza la scarpata della casaforte.
I merli d’angolo, alla sommità delle mura, ingrigiscono
sotto il cielo aggrondato.
Aleni indica la finestra valenzana, con l’architrave ornato
da un merletto di pietra.
– Prete Gracián fu appeso alla grata di quella finestra.
Molti sostengono che quei segni sulla pietra, vede?, siano
le tracce della sua agonia. Io non ci credo: l’agonia di quel
prete ha certo lasciato delle tracce in questa casa, ma non
sono quelle. A cosa pensa, così accigliato?
– Penso a quel sogno, a quel libro.
– Le cose parlano a chi domanda, dottore, si mostrano a
chi cerca la verità. Bisogna saper guardare. – Poi aggiunge,
inaspettatamente: – Ma perché c’è in lei questa domanda?
Chi è lei veramente?
La giumenta passa sotto l’arco, conducendoli nel cortile
d’onore, tra il silenzio sospeso della pietra.
Marco tiene qualche attimo in punta di lingua la possibilità
di attenersi al riserbo che lo zio gli ha raccomandato.
Ma alla fine, con sollievo, prende una decisione.
– Si dà il caso che io sia nipote del giudice Stefano Brogi.
128
– Ah. – L’espressione di Donna Aleni si chiude, si fa indecifrabile,
si addensa di pensieri che devono avere lo
stesso colore delle nuvole che si addensano in cielo. – Si
dà il caso. Non sarà stato… il calcolo, piuttosto che il caso,
a portarla qui? Suo zio vuole ancora trovare l’assassino
di mio figlio, non è vero?
– Non lo vuole anche lei?
Marco smonta e le porge la mano. Per un attimo ha l’impressione
che lei voglia rifiutarla, perché guarda altrove
con un sorriso senza gioia che le lascia opaco lo sguardo.
– … E magari le pare di avermi fatto una domanda da
nulla.
Dopo un’esitazione che dura tutto il tempo necessario a
far radicare in lui una sorta di disperazione, Aleni lascia
che l’aiuti a smontare dal calesse.
* * *
Da quando quella dipendenza della casaforte, da ricovero
dei servi, è diventata rifugio dei padroni, la cucina,
dove Marco è stato ricevuto anche il giorno precedente, è
stata trasformata in soggiorno.
– Questo è il cuore della casa, – dice Aleni aprendo la
porta. – Qui sono trascorsi su di me tanti anni e tanti dolori
che sarebbe quasi dolce finire di consumarmi così, come
quel ceppo che si imbianca di cenere nel focolare, continuando
a palpitare di un calore che scalda solo se stesso.
Ma il destino non vuole. Non vuole ancora.
– Se teme che possa essere io ad interrompere la sua pace,
sbaglia, – afferma Marco colpito da quelle parole. – È
vero, il magistrato che si occupò di quel caso è mio zio.
Ma io sono venuto a Gurtei per tutt’altro. Sono un medico,
ed il mio lavoro è curare le persone e, se occorre, salvare
loro la vita.
– Lo so bene. Posso chiederle di riattizzare il fuoco? Ma
129

non accenda la lampada: mi piace la penombra del crepuscolo.
Mi scusi, vado a cambiarmi.
Mentre afferra l’attizzatoio e comincia a trafficare con il
fuoco, Marco occupa quegli attimi di solitudine nello sforzo
di aggirarsi in una ridda di pensieri confusi.
Trasale.
Era certo che nella stanza non ci fosse nessun altro, ma
voltandosi a posare l’attizzatoio ha intravisto una giovane
donna china sui fornelli.
Marco ha negli occhi l’abbaglio delle fiamme, e lei è
un’ombra tra le ombre. Intorno, tre bambini gridano con
voci remote, spintonandosi a vicenda e correndo poi a
farsi scudo del corpo della madre.
D’un tratto tutti si voltano verso di lui interrompendo la
lite e sgranando gli occhi. La donna avanza di qualche
passo e Marco sente il suo sguardo - quanta innocenza e
quanta tristezza, in quello sguardo! - fissarsi nel profondo
dei suoi occhi.
Un battito di ciglia.
– Si sente bene?
Aleni è là accanto, con i capelli sciolti che odorano di lavanda.
Marco si guarda attorno: la cucina, a parte loro
due, è deserta.
– Cos’ha visto, perché è così turbato?
– Ma no, nulla: ero abbagliato dalle fiamme e sollevandomi
ho avuto un capogiro.
– Lei non somiglia a suo zio, – osserva Aleni. – Lui non
ha capito nulla di Gurtei! Vedeva ciò che c’era sotto i suoi
occhi. Il suo sguardo invece vede di là dell’apparenza.
Con un gesto lo invita a sedere, scegliendo per sé una sedia
vicino alla finestra.
– Ha promesso di raccontarmi… – comincia Marco,
che ha premura di deviare il discorso. Ma Aleni accenna
un diniego.
– Un’altra volta. Io sono in debito di una promessa, ma
130
lei è in debito di due risposte. Teniamo in sospeso l’una e
le altre per quando ci sarà, tra noi, maggiore confidenza.
– Due risposte? Io non…
– Non ricorda? Le rinfresco la memoria: deve ancora
dirmi perché ieri mattina è ritornato, da solo, immediatamente
dopo che il Notaio l’aveva accompagnata alla taverna,
e poi deve dirmi cosa ha visto poco fa. In cambio io
le racconterò la storia dell’ospite sconosciuto.
Marco è grato alla penombra, che maschera il leggero
rossore d’imbarazzo che gli sale al viso.
– Sarò pronto a rinegoziare l’accordo, quando vorrà.
– Non ho parlato della possibilità di rinegoziare.
Aleni raccoglie le mani in grembo e prende fiato come
se si apprestasse a cominciare un difficile discorso.
– Ora occorre che l’annoi un poco con le mie cose. Lei
dovrà dimostrare a suo zio d’aver potuto sbrogliare qualche
nodo di questa matassa con il mio aiuto: l’onta del suo
sospetto mi è pesata addosso in questi due anni, più di
quanto io stessa ammettessi all’inizio e lui possa immaginare
mai.
Si agita nella sedia, ma il tono è più di dolore che d’ira.
– Per giungere a sospettare una madre di avere ucciso il
proprio figlio è necessario penetrare segreti ben più
profondi di quanti avesse la possibilità di penetrarne lui.
– Non lo giudica troppo severamente?
– Ho parlato di possibilità, – replica Aleni non riuscendo
a temperare il disappunto per essere stata fraintesa. –
Le capacità non dubito le avesse. Ma non basta rimanere
qui due settimane, per capire. O due anni. Io ho trascorso
in questo posto quasi tutta la mia vita, e non mi ritengo
una stupida, eppure…
S’interrompe. Il suo profilo si staglia contro i vetri.
– Ma ora diventa urgente capire, trovare risposte. – Si
volta verso di lui: – Crede alle visioni?
Marco pronuncia un diniego, ma con poca convinzione,
131

aguzzando lo sguardo nella penombra. Il chiarore livido
che penetra dalla finestra lumeggia appena, sullo sfondo
del vestito, il groviglio delle mani di Aleni, che si tormentano.
– Come le ho già detto, le cose si mostrano a chi domanda.
Ma, a volte, anche a chi non lo fa. Temo, – aggiunge, –
che stiano per essere uccise altre persone.
Così Aleni comincia a parlare, senza accorgersi dello
sbalordimento di Marco, che cresce con il dilagare dell’oscurità
e con il procedere angoscioso del racconto.
Gli parla di sé, di come abbia scoperto acuti i suoi sensi,
arrivando a Gurtei. Poi gli racconta della visione avuta la
sera del temporale, diversa dalle altre e più diretta, tanto
da farle credere che fosse realtà. Gli parla dei suoi timori e
del sospetto che, in ogni modo, quella visione sia legata al
mistero della morte di Raimundo.
Il buio è ormai rischiarato solo dalla brace, quando
Marco sente lo sfregare di uno zolfanello e vede illuminarsi
il viso di Aleni, che si è alzata in silenzio ed ora si trova
in piedi vicino al tavolo. Il globo che tiene in mano tintinna
contro il bronzo della lampada.
– Ho sentito parlare di persone che hanno queste allucinazioni.
Anche loro affermano che sono assai simili alla
realtà. Sono persone di una sensibilità fuori dal comune,
che hanno facoltà medianiche. Riescono ad entrare e ad
uscire dal sogno, come noi da una porta. Può darsi che lei
abbia questo tipo di sensibilità.
Aleni scuote il capo.
– No, non io sola. Secondo me in questo caso la responsabilità
di quelle che lei chiama allucinazioni non è tanto
della sensibilità di una o più persone, quanto del luogo. È
questo posto, queste mura, l’aria stessa di questa valle…
Mi dica, cosa ha visto poco fa?
Marco ha un brivido, a quella domanda improvvisa.
– E ieri mattina? – incalza lei. – Cos’ha visto che l’ha fatta
tornare di nuovo qui quando se n’era appena andato, in
tempo per reggermi mentre svenivo?
– No, no, no… – esclama lui, sollevando le mani, – quella
è un’altra questione.
– Che questione?
Lui balza in piedi.
– Bene. Bisogna dirlo? Lo dirò, allora. Ieri sono tornato
solamente… per il piacere di parlare ancora con lei. Non
ho avuto nessuna visione, nessuna allucinazione. Solo
questa… irragionevole necessità! È un delitto così imperdonabile
desiderare la compagnia di un essere umano, in
questo luogo dove tutti sembrano trovare maggiore piacere
a conversare con i morti?
Aleni riceve quella confessione con un’espressione di
stupore. Quindi china il capo, sospirando.
– Mi devo scusare: non avevo proprio messo in conto
che il motivo potesse essere questo. E grazie anche per
quell’aggettivo. Com’era? Irragionevole, giusto? Me lo sono
meritata…
133

134
IX
«Mentono tutti, spudoratamente, a me che domando e
che insisto e che, qualche volta, accuso. “No, giudice” mi
rispondono con gli occhi fissi nei miei “non è come lei dice.”
E sembrano compatirmi perché non credo alla loro
menzogna che affermano come verità.
Poi alzano un braccio, indicano il mare e ripetono quella
cosa. Sempre la stessa. Tutti: “Non resteremo qui per
sempre”, come se quella follia sia una risposta ad ogni domanda,
un alibi per ogni delitto, oppure una sorta di formula
magica contro ogni ingiustizia ed ogni sofferenza.
Mentono. In piedi davanti a me, rigirano il copricapo
tra le mani come intimoriti, ma nelle loro risposte non c’è
mai l’esitazione della paura. I visi dei vecchi, o quelli dei
giovani con le loro barbacce nere, tutti mi fronteggiano
con un’aria di stupore, come facessi domande la cui risposta
essi succhiarono con il latte materno, tanto hanno l’aria
di ritenerla scontata.
Nessuno voleva male al barone, dicono, perché ognuno
è come il suo sangue impone che sia, e non ne ha colpa. È
stata S’Acabadora, come fa con tutti coloro che soffrono
troppo, a dare la morte pietosa all’ultimo dei Ballester e,
con lui, alla stirpe sua.
Affermano questo con la tranquillità e la convinzione di
chi proclama una verità di fede e fossi dunque io, che li
135

contraddico, a cadere in peccato mortale. Ed è tale lo
sguardo di pietà con il quale accolgono il mio diniego, che
sono preso mio malgrado dall’affanno di gridare loro che
sono qui per giudicare, non per essere giudicato.
Mi sono sentito preso in giro, infine. Ho ricordato che
la loro fortuna stava unicamente nel fatto che fosse stata
abolita per legge l’incarica, la responsabilità collettiva degli
abitanti di un villaggio quando non fosse scoperto l’autore
di un delitto. Ma in ogni modo potevo accusarli di
aver assassinato il barone.
Hanno scosso il capo, rispondendo che non avevano
motivo alcuno per farlo: la donna che il barone si era scelta
per amante era una donna libera e nessuno sentiva offeso
il suo onore, per quello. Ma, ho replicato, aveva sottratto
la terra ad un uomo e, forse, lo aveva ucciso in modo
atroce. Hanno fatto spallucce e, mi è sembrato, la limpidezza
del loro sguardo si è appena un poco appannata,
nella risposta: che se avessero dovuto uccidere tutti quelli
che gli hanno portato via la terra ed hanno commesso
atrocità su di loro, sarebbero oramai soli in questa parte
del mondo.»
Marco annota:
«Ecco, ero partito dal presupposto di condurre uno studio
sulle febbri perniciose e mi ritrovo ad apprestare un
elenco di stranezze degne dell’attenzione di un frenologo.
Lo zio Stefano sarebbe stupito se potesse sapere quanto
io stia abbandonando quegli schematismi che mi rimproverava.
Si comincia a perdere il gusto per gli schemi rigidi,
io credo, quando ci si deve adattare a vivere in un mondo
in cui le regole della logica non valgono più…»
Ha trascorso la notte quasi insonne, Marco.
L’alba lo trova in piedi.
136
Quando si avvia verso casa Ballester, massaggiandosi
con le dita le tempie doloranti, capisce di aver guadagnato
solo un pessimo umore da quella veglia inutile.
Aleni è pallida quella mattina. Barcolla per la debolezza,
ma rifiuta il braccio di Marco quando si tratta di salire
la scalinata che porta alla casaforte.
All’esterno si presentiva soltanto, ma all’interno delle
mura il senso di abbandono tipico dei luoghi disabitati è
più tangibile.
Si percepisce il disfarsi delle pietre, la prostrazione dei
velluti infiltrati trama a trama di voci e respiri e polvere
centenaria, la rigidità delle stoffe broccate.
Mentre si addentrano nella penombra, alla svolta di un
corridoio si fa loro incontro una teoria di visi ora sanguigni,
ora giallastri, emergenti da zimarre, cappe, gorgere e
soggoli, che spiccano su sfondi bui, racchiusi in cornici
d’oro spento.
Entrano in una stanza dal soffitto in legno cassettonato,
con le travi di carico poggianti su mensole di legno lavorate
all’intaglio.
Mentre Aleni scosta i cortinaggi dalle finestre, lui sfiora
con i polpastrelli il cuoio screpolato di uno scanno che appare
molto antico tra le cose antiche di quella stanza.
– È questo, ora, lo scopo della mia vita: scavare nel passato.
Vede? – Aleni fa un gesto verso i palchetti stipati di
libri. – Molti di questi provengono dalla casa dei Bayre.
Dopo la morte dell’ultimo di loro, Cramu, che morì suicida,
la casa fu lasciata in stato d’abbandono dagli eredi
Ballester e andò rapidamente in rovina. Ora è un cumulo
di macerie. Dicono che fosse ornata da splendidi affreschi.
Una pittura a guazzo, grande quanto una parete,
rappresentava gli alberi genealogici dei Bayre e dei Ballester,
con le radici intrecciate. Nei documenti si parla anche
di un pavimento a mosaico, dov’era rappresentata
137

l’arma personale di Joan. Ma se c’è, si trova sotto un cumulo
di macerie.
– Ha trovato dei documenti che riguardano la famiglia?
– Sì, molti. Fortunatamente sia i Ballester che i Bayre
avevano una propensione quasi fanatica per la scrittura.
Gli uni e gli altri hanno lasciato una grande mole di materiale:
registrazioni di avvenimenti, aneddoti, concise annotazioni
o prolisse apologie, come se la frenesia di lasciare
traccia di sé fosse uno dei caratteri dominanti della stirpe.
Purtroppo temo che questi documenti non siano imparziali,
ma sono l’unica base che ho per ricostruire l’albero
genealogico delle due famiglie e per organizzare il
resto del carteggio, finora di incerta attribuzione a causa
del ricorrere degli stessi nomi attraverso le generazioni.
Sfiora alcune carte che stanno sulla scrivania, come accarezzandole
con un affetto che incuriosisce Marco.
– Come mai questa passione? Sente ancora l’orgoglio di
avere unito il suo sangue a quello di una famiglia feudataria?
– Orgoglio? Si sbaglia. Queste due famiglie, che covavano
reciprocamente un odio mortale, condividevano un’altra
cosa, oltre la parentela: erano afflitte da un’atroce tara.
I Bayre ne furono sterminati, ma essa sopravvisse nei Ballester.
Ora per me non si tratta di orgoglio, o di curiosità:
ho ragione di credere che esista ancora gente di quel sangue,
che soffre quella tara, e sento di dover fare qualcosa.
– Trae un respiro lento e si lascia andare su una sedia. –
Ho constatato sui miei figli come essa operi e, mi creda,
chiunque sia preda di quella follia è più da compatire che
da biasimare.
Marco ricorda d’un tratto le parole della cartella di marocchino:
«Si portano nel sangue qualcosa di allucinato o
allucinante…»
– Non capisco, – confessa.
– Le mura di questa casa riuscirebbero a spiegarglielo
138
meglio di me. È certo una cosa che ha impedito alla gioia
di entrare qui, in qualsiasi forma. Credo che la stirpe fosse
afflitta da una tara. I Bayre se la portavano già nel sangue
come una peste, quando vennero qua e la trasmisero ai
Ballester, ai quali si unirono. Si tratta, – si sforza di spiegare
Aleni, – di una sorta di negazione del cuore ai sentimenti
umani più naturali.
– Sarà solo la voce del popolo, che a volte esagera, a volte
inventa…
– Magari! Nei carteggi di famiglia c’è la prova dell’estrema
convivenza degli opposti: amore e odio, desiderio e rifiuto,
tenerezza e asprezza possedevano insieme i loro spiriti,
dilaniandoli. Ma, – conclude con un gesto vago della
mano, – per naturale propensione, era sempre il sentimento
più negativo a predominare e ad affermarsi con tanta
più violenza quanta più forza trovava nel suo opposto.
– Piacevoli persone… Ora mi spiego le battute di quel
sacerdote!
– Prete Liori è uno stupido! … Ma non ha tutti i torti.
Solo l’oscurità dei tempi ed il potere che detenevano ed
esercitavano per occultare i loro delitti risparmiò a quegli
infelici il carcere, la morte con infamia per essersi macchiati
del sangue dei figli, delle madri, delle mogli, dei fratelli.
Ma non poté risparmiare loro la follia, condanna che
giungeva implacabile quando si rendevano conto d’aver
ucciso coloro che più odiavano, ma che più, al tempo stesso,
amavano!
– Come è possibile questo?
– Non lo so. Quello che è più tragico, è che loro ne erano
consapevoli. In tutte le carte che ho avuto per le mani,
chiunque di essi scrivesse, ho trovato tracce di questa disperata
consapevolezza e degli sforzi, spesso vani, di opporsi
al loro destino.
– Ma, chi potrebbe avere quel sangue, ormai?
– Chiunque, nel paese. Ma anche fuori, perché alcuni
139

della famiglia hanno disperso il loro seme lontano da
Gurtei. E chissà che strade ha percorso, e dove è giunto, –
conclude amaramente.
– Tracce difficili, da seguire.
– Impossibili. Ma qualcosa mi dice che tutto ciò che da
Gurtei si allontana, a Gurtei ritorna alla fine, non mi chieda
come.
– Se pure fosse possibile ritrovare quelle tracce, a che
pro?
– Per saldare un debito.
Poi, dopo un silenzio che pareva ormai aver chiuso il discorso,
Aleni riprende:
– Quando venni a Gurtei, sposa di Iñigo Ballester contro
la mia volontà, poco più che bambina, non sapevo nulla
di queste cose. Il luogo dove sono nata è lontano da qui,
e non vi è mai arrivata la fama della famiglia alla quale mi
univo. Allora vivevo lasciando che tutto trascorresse su di
me, tempo e dolori, senza reagire. Poi mi ritrovai adulta
che ormai il destino dei miei figli si era compiuto. Io non
ne avevo compresa la trama, non capivo che era già segnato
dal fatto di avere quel sangue. Solo ora capisco.
China il capo e Marco teme che stia per piangere. Ma
quando lei solleva di nuovo lo sguardo, gli occhi sono
asciutti.
– Ero troppo giovane e troppo disperata. Mi sono difesa
col silenzio. Non ho saputo comprendere, né aiutare, mai.
Solo a Raimundo ho potuto parlare di quella eredità nefasta
e offrirgli tutto il mio amore per contrastarla. Raimundo,
l’unico che mi tornava accanto, come un miracolo,
dopo quel naufragio della vita che mi aveva tolto tutto.
Si interrompe, per frenare il tremito delle labbra.
– Avevamo appena cominciato a parlare… Pensi: madre
e figlio che dopo una vita di silenzio, finalmente si parlano,
diventano alleati! Raimundo cominciava a capire, a
credere che avremo potuto, insieme, scioglierci da quel-
140
l’incubo. Cominciava appena… – Poi il tono cresce e si fa
duro: – E suo zio invece ha potuto credere… ha avuto
l’ardire di manifestare, e in malo modo, il sospetto che potessi
averlo ucciso io! Era tutto ciò che mi restava, Raimundo.
Avrei dato la vita…
* * *
Enrico Pagani si affretta lungo la Via Maggiore e si accinge
ad attraversare la piazza. È stato avvisato che al telegrafo
c’è un messaggio per lui ed è impaziente di stabilire
quanto tempo ancora sarà costretto a restare in quel pantano
di inattività, che gli inaridisce le energie.
Mentre passa davanti al Municipio, un uomo lo interpella,
nonostante l’ingegnere ostenti fretta.
– Il Sindaco ci assicura che sono tutte sciocchezze, ma
qualcuno non gli crede. Perché non lo dice lei, che è
istruito, cosa dicono questi manifesti.
– Annunciano che alcuni dei terreni, che facevano parte
dei feudi riscattati, saranno ceduti all’Ente per le Ferrovie,
– taglia corto decidendo, in cuor suo, di fare una lavata
di capo al Sindaco e di riferire ai superiori su quell’indolenza.
– Ma noi non sappiamo che cos’è la ferrovia.
L’ingegner Pagani sospira spazientito.
– Lo dice la parola: è una strada ferrata. Delle rotaie di
ferro accoppiate su cui corrono i vagoni del treno, poggiate
su traverse di legno.
Sta per riprendere la sua strada quando si accorge che al
primo interlocutore si è aggiunto un altro gruppo di persone,
e tutti lo guardano con espressione rannuvolata.
– Inchiavardate a terra, – azzarda uno.
– Fissate alla massicciata, certo. Farà il giro di Gurtei,
attraversando il fiume su un ponte, poi ritornerà fuori della
valle.
141

– Come un cappio, insomma.
Enrico solleva ostentatamente le sopracciglia.
– Significherà la fine dell’isolamento, per voi.
– Nessuno si è mai lamentato.
L’ingegnere volta le spalle e si allontana per i fatti suoi,
disgustato dall’ignoranza di quella gente, da cui non esclude
i signori del Consiglio Comunitativo.
Gurtei 1867 - Logus de su ’entu
Cristina scorge da lontano la figura di Arega stagliarsi
come disegnata da un carbone contro una fuga di nuvole
inseguite dal vento che ha sostituito lo scirocco dei primi
temporali.
Ha chiesto alla serva di mostrarle un posto dal quale fosse
agevole prendere dei bozzetti della valle, con i suoi bastoncini
di sanguigna. Ma subito si è pentita: il tempo non
è adatto ad una passeggiata e le è parso che Arega, a quella
richiesta, abbia preso con lei un tono di confidenza eccessivo.
D’altra parte, i bozzetti di sanguigna sono solo un pretesto.
La passeggiata ha un altro scopo: Cristina vuole capire.
Risalendo alla spianata dall’ultimo tratto di sentiero riparato
che porta a Logus de su ’entu, la maestra si sente afferrare
dal maestrale, irrigidito da un pulviscolo d’acqua.
Fa per aprire l’ombrellino, ma all’atto stesso di sollevarlo
se lo sente strappare di mano, così rinuncia con un sospiro,
rabbrividendo sotto le sferzate di acquerugiola.
L’altipiano e la sua foresta di lecci contorti, si estendono
a perdita d’occhio osservati da quello sperone che ricade,
con uno strapiombo di una ventina di metri dal lato della
valle.
142
Poco lontano, i cespugli di cisto soffocano i ruderi di
una casa ridotti ai resti di due muri d’angolo, che racchiudono
un focolare annerito.
– Si vede dentro il camposanto, da qui, – dice Arega,
quando la maestra le si accosta. – Si vede la cappella dei
Ballester e la croce bianca che c’è sulla tomba di Raimundo.
– Non riesci dunque a dimenticarlo. – Arega scuote il capo
con violenza.
– Perché dovrei? Non ho altro. Prete Liori mi assicura
che non si può piangere per persa una cosa che non ci è
mai appartenuta, ma sbaglia: ci sono legami che valgono
più di quelli di sangue o di sacramento. Raimundo era
mio, mio molto più di chiunque altro, fosse anche sua madre,
che non lo amava. Io salto il recinto, metto i miei fiori
sulla tomba e butto via quelli che gli porta lei. Tanto che
quell’ipocrita non osa più metterli nei vasi, i suoi miseri
fiori da cortile: li lascia là, sul marmo, ma io li getto via
ugualmente. Alla fine rinuncerà anche ad andarci, su quella
tomba. – Poi aggiunge: – Non ho saputo lottare quando
era in vita, per averlo per me. Ma almeno da morto…
Spenzolando i piedi nel burrone, fruga nella tasca del
grembiule e ne toglie un libretto dalla copertina nera,
macchiata di chiazze argillose, col taglio delle pagine tinto
di rosso: un libro di preghiere sdrucito.
Dopo qualche esitazione lo tende a Cristina, che la paura
del vuoto ha costretto a rimanere più indietro, in piedi.
– Raimundo me l’ha dato. Mi confidò che in questo libro
era scritta la condanna dei Ballester, quindi anche la sua.
Non aggiunse altro ed io non ho mai capito cosa volesse
dire. Forse… – conclude con una certa ansia, – c’è qualcosa
che può aiutare a scoprire chi l’ha ucciso. Guardi, ci sono
delle parole scritte a mano.
Si tira su mettendosi al fianco di Cristina che cerca di
difendere le pagine sottili dalla pioggia e dagli strappi del
vento.
143

Dopo aver compitato quelle BARTOLOMEO brevi frasi miste II di sardo e catalano,
tracciate con grafia alquanto BALLESTER incerta, ingoiate insieme a gelide
gocce che sembrano neve disciolta, la maestra restituisce il libro
ad Arega, che lo chiude con un gesto brusco, di delusione.
Si incammina, chiusa in un silenzio astioso e, quando Cristina
domanda cosa siano i ruderi là VICENTE accanto, le risponde sgarbata-
BALLESTER
mente di farselo raccontare da qualcun altro. Poi, dinanzi allo
stupore addolorato di lei che domanda ragione di quel tono, aggiunge:
– È perché non potremo mai essere veramente amiche. È perché
può darmi del tu, mentre io devo [ ? ] darle del lei. Perché io sono
una serva.
– Ti ho mai trattata come tale? – domanda la maestra cui le
guance, raggelate dal maestrale, vanno ora colorandosi.
Arega non risponde, ormai presa nel vortice delle sue recriminazioni.
BARTOLOMEO III
– Se BARONE Raimundo ? non fosse tornato da Torino con quel ARCANGELA
(TIELI)
ravanello
vuoto, sarei stata io la baronessa Ballester, e lui sarebbe vivo.
L’astio di quelle parole, urlate tra gli urli del vento, scrollano lo
spirito di Cristina dalla sua immobilità stagnante.
– Sarà un ravanello vuoto, ma sa leggere, scrivere, suonare il
violino… BARONE ?
[ ? ] ANNA
Arega si volta, il viso in fiamme sotto il fazzoletto nero, ma Cristina
continua con la sua voce dalla cadenza estranea all’orecchio
della serva.
– Siamo così piccoli, a volte, troppo piccoli per i nostri stessi
sentimenti, che ci [ travolgono ? ] ROMULO e ci spazzano [ via ? ] come fa il vento
con l’anima dei cardi. Fammi un piacere, – aggiunge, – non gettare
via i fiori che gli porta la madre: ognuno ama come sa e come
può. Saranno poveri fiori da cortile, ma credimi, siamo tutti fatti
di carne e di sangue. Purtroppo.
PEDRU
SANCHO ROSITA
MARIA
CONCAS
– Potrei odiarla per questo che ha detto! – replica Arega, a mascelle
serrate. Poi urla, indicando le rovine che stanno là accanto:
– Tutti di carne e di sangue, eh? Si faccia raccontare cosa accadde
quando quella casa era in piedi. Di carne e di sangue… e di vele-
144
no mortale, alcuni!
Ansima, come a corto di fiato, ma non ha finito:
– Per quanto riguarda la signora che suona il violino, ora
è veramente un ravanello vuoto, che sbava e si piscia addosso!
Si volta, gettandosi giù per il sentiero e scomparendo allo
sguardo. Turbini di pioggia mulinano intorno a Cristina
che è rimasta là, immobile, a cercare di sentirsi viva per
l’acqua che le rende diacce le spalle impregnandole il
mantello, per il vento che la schiaffeggia, per il sentimento
che le attizza dentro, in penosa alternanza, speranza e disperazione.
Fissa la valle di Gurtei con occhi vitrei, come non riuscisse
a mettere a fuoco l’immagine. Ma poi, presa dalla fascinazione
del vuoto che a volte coglie coloro che lo temono,
avanza di un passo e guarda in fondo al dirupo che le si
spalanca ondeggiando sotto i piedi.
145

146
Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Nei Territori del vento una voce di donna, sommessa, cantava:
Fillu miu stimau, longu a longu abetau,
frutu ’e s’intrannia mia, anninnia,… anninnia…
Solo Nassia sentiva, nel vento, quel canto.
Il sembiante di Maria Ballester si intorbidò, come si intorbidava
quel crepuscolo di febbraio, per l’aggrovigliarsi di nuvole
in corsa.
Nassia si voltò dal ciglio del dirupo e, con sguardo fermo, sostenne
quello di lei.
Il vento fischiava forte lassù, facendo danzare intorno al viso
della donna le ciocche grigie, sfuggite ai pettini d’osso, e strattonando
la sua veste. Era di ossatura minuta, Nassia Sa Levadora,
e una folata di vento più forte delle altre avrebbe potuto
facilmente farle perdere l’equilibrio, gettandola al di là di quel
ciglio di roccia.
Benché appesantita dalla gravidanza e con le doglie incalzanti,
Maria era sicura che, se fosse avanzata di un passo, la sua
mano avrebbe avuto più forza di qualsiasi folata di vento: la disperazione
e l’orgoglio incalzavano più del travaglio. Il frastuono
del vento le ricacciò in gola le prime parole, allora urlò con
rabbia, portando le mani al ventre:
– Mi hai sentito?
Un lampo ferì il groviglio di nubi, palpitò un attimo, spegnendosi
subitaneo come si era acceso. Il brontolio che lo seguì,
rotolò verso di loro, salendo di tono e rimbombando.
Improvvisa scrosciò la pioggia.
– Mi hai sentito? Giurami, adesso, che non glielo dirai, altrimenti…
– le labbra lasciarono in sospeso la minaccia: doveva
aver avuto il gusto di un boccone di neve perché Maria l’aveva
masticata con una smorfia. Ma il braccio si era teso: il gesto già
147

andava oltre le parole, oltre i ragionamenti, spinto dalla cattiveria
istintiva, dall’odio covato e nutrito.
Nassia trasse un lento sospiro.
Guardò la donna che le stava davanti, bellissima perfino nella
maternità avanzata.
Crudeltà e caparbietà avevano modellato, nei secoli, i lineamenti
dei Ballester, ma nel giovane volto di lei quella eredità era
riconoscibile appena nella piega dura delle labbra, nella fronte
corrugata.
Nassia sollevò la mano in un cenno d’addio breve e muto. Il
suo sguardo era triste, quando voltò le spalle a Maria.
Dinanzi a lei, oltre il velo fitto della pioggia, sprofondava e si
estendeva la valle di Gurtei, fino alle propaggini dei monti, coronati
di rocce e di nebbia. Negli occhi tristi di Nassia passò,
per un breve istante il ricordo, sfumato come un sogno, di
quando, tra gli alberi di quella valle, anche lei era stata giovane.
Sotto la pioggia battente, Cramu Bayre avanzava trascinando
la giovane donna che cercava di divincolarsi.
Dolore e terrore forzavano quel cammino. Così, né Rosita né
Cramu si accorsero della buca piena d’acqua al centro del sentiero.
Pareva solo una pozzanghera: lei ci infilò un piede cadendo
male su un fianco e trascinando anche l’uomo nella caduta.
Cramu Bayre si rialzò con una bestemmia, infangato fino ai
capelli. Prese per un braccio la donna che gemeva e la tirò su in
malo modo. Poi raccolse il fucile, si rimise in spalla la bisaccia e
riprese il cammino.
Rosita, zoppicando penosamente, lo seguì verso le ombre incipienti
della notte, pensando con amarezza che quell’uomo
non conosceva la pietà.
La porta di assi di leccio si spalancò, sbattendo sulla pietra viva
del muro. Entrarono Cramu e il vento: l’uno si fermò a due
passi dalla soglia, cupo; l’altro avanzò, scompigliando ogni cosa
nel tugurio: la fiamma nel focolare affumicato, il pelo ingrigito
di un gatto, le ragnatele in mezzo alle travi annerite, i capelli
sciolti di Nassia, la levatrice di Gurtei.
Si guardarono un attimo: la vecchia seduta in terra accanto al
camino e l’uomo alto e forte, in piedi a qualche passo da lei. I lo-
148
ro sguardi si incontrarono, si toccarono, come riflettendosi l’uno
nell’altro e si riconobbero.
Non si erano mai scambiati altre carezze che quelle.
– Come sta Maria? – domandò lui.
Nassia allungò una mano al focolare, raccolse lentamente un
pugno di cenere, poi sollevò il braccio. Sotto lo sguardo di Cramu
allentò la stretta del pugno e la cenere cominciò a cadere in
un rivolo sottile, che il vento subito disperdeva.
Nella bufera di fuori, un pianto di donna si levò improvviso:
Rosita Ballester piangeva per sua sorella Maria. L’uomo indietreggiò
scuotendo il capo. Il suo viso pareva quello di un bimbo
imbronciato, agli occhi della madre.
Per scacciare quella dolorosa illusione, Sa Levadora
riaffondò lo sguardo nella fiamma del camino.
Cramu si accostò guardingo, scivolando lungo i muri. Rosita
Ballester non singhiozzava più, non si lamentava: si lasciava
condurre, a capo chino.
Fideli Marras colse il movimento con la coda dell’occhio e fece
qualche passo indietro, lontano dall’alone di luce dei lumi
che oscillavano al vento. Alte si udivano provenire, dalla casa di
pietra, le urla delle atitadoras.
– Non mi farei vedere, se fossi in te, compare. C’è troppa gente
arrabbiata in casa Ballester, stasera.
– Non mi fanno paura, – replicò Cramu Bayre. Diede uno
strattone al polso di Rosita e si incamminò tra il silenzio dei pochi
che ancora, a quell’ora ormai vicina all’alba, si trattenevano
sulla via dove sorgeva la casaforte dei baroni.
Le atitadoras gridavano intorno al letto.
Le vesti delle prefiche spiccavano, nere, contro la luminosità
che le circondava.
La camera era stata preparata nello stesso modo in cui, nove
mesi prima, era stata addobbata per la festa nuziale.
Ora, però, erano state accese molte candele e la loro luce, cadendo
sui lini e sui pizzi, era riflessa abbagliante.
Maria era stata composta al centro del letto, vestita del suo
abito da sposa e circondata di fiori bianchi.
L’emorragia inarrestabile che l’aveva colpita dopo il parto,
149

l’aveva completamente dissanguata. Ora la sua pelle aveva il colore
madreperlaceo delle gocce di cera.
I fiori cominciavano ad appassire, spandendo nell’aria vibrante
di lamenti un sentore dolciastro.
Si sentiva morire Rosita Ballester, ad ogni passo che metteva
nella casa di pietra dove era nata e cresciuta.
Ad un tratto le parve che la fuga, la vita umiliante che aveva
condotto negli ultimi mesi al fianco di quell’uomo che non la
amava, fossero solo un incubo dal quale tra quelle mura familiari
potesse svegliarsi.
Ma la stretta ferrea di Cramu Bayre intorno al suo polso, ridussero
ad un attimo, appena un battere di ciglia, quell’illusione.
Nassia aspettava.
Sapeva che Cramu sarebbe tornato e lo aspettava come sempre
aveva fatto. Per nove mesi, poi per trent’anni. Ed ancora era
là ad attenderlo.
Un sospiro lento sollevò appena il petto avvizzito.
Sentiva di non avere più molto tempo. Guardò le mani ossute
attraverso le quali si vedeva la fiamma. Quanti bimbi avevano
aiutato a venire al mondo! Per quello era rispettata da tutti, nella
valle di Gurtei.
Quel rispetto era l’unica ricchezza che la vita, avara di gioie e
d’amore come era stata, le avesse permesso di guadagnare per
sé sola.
Tutti a Gurtei chinavano il capo quando, per strada, passava
Nassia Sa Levadora, perché sentivano, con quell’oscuro sentire
della gente semplice, che quella donna era vicina a Dio, essendo
in qualche modo partecipe del mistero della vita.
Inoltre, gente umile per condizione imposta e duramente
mantenuta dall’autorità feudale e dal suo retaggio, ma accettata
e vissuta dignitosamente, riconosceva in lei un’altra umiltà:
Nassia, nonostante avesse diritto ad essere chiamata Dona
Ignacia Bayre, era aliena da superbia e da arroganza. Era stata e
rimase sempre una di loro.
I Bayre ed i Ballester erano tutt’altra cosa, erano is strangius,
che dopo secoli di angherie non si erano meritati neanche il titolo
di padroni, ma solo quello di stranieri, anzi, di estranei.
150
Nassia ripensò a quando era giovane. Orfana e poverissima,
oltre la giovinezza, non possedeva nient’altro, neanche le scarpe
lacere che portava ai piedi.
Come l’acqua del disgelo scorre su una pietra di torrente, donandole
lucentezza di pietra preziosa, così trascorreva su di lei
la giovinezza.
Domingo Bayre la vide quando la stagione della siccità era ancora
lontana e ne fu abbagliato. Desiderarla e prenderla non furono
che due attimi dello stesso respiro, due affermazioni della
stessa volontà.
Quella volontà, però, non era espressione d’amore, ma dell’istinto
di tracotanza che scorreva nel sangue dei Bayre fin da
quando, venuti in Sardegna per dominare, usarono di ogni cosa,
di ogni persona, come fosse loro proprietà indiscussa.
Adesso che le famiglie nobili del circondario ricusavano di
imparentarsi con loro, come pure con i Ballester, essi imponevano
il sangue ed il nome a chi nobile non era, così come imponevano
la volontà, convinti come erano, per esserselo sentito ripetere,
di appartenere ad un rango tanto elevato che nessuna
unione poteva nobilitarlo di più, né degradarlo.
Nassia trasse un profondo respiro, ma un nodo di commozione
lo ruppe in un singulto.
Anna. Com’era bella anche lei nel tempo lontano della loro
giovinezza!
Erano cresciute insieme, come sorelle. Poi la vita le aveva divise.
Più che divise: rese diverse, così come dal grano si discerne
crusca e farina. Anna entrata nella casa baronale, andata
sposa ad un Ballester cadetto, lei a Domingo Bayre: gettate una
su una riva, una sull’altra di un fiume centenario di odio e di
rancore.
Anna aveva due figli quando le uccisero il marito.
Un mese dopo Domingo Bayre tornava dalla campagna tenendo
dinanzi a sé, sul cavallo, il figlio primogenito: furono abbattuti
a fucilate.
Un fiotto di saliva amara le inondò la bocca. Nassia sentì assalirla,
improvvisamente, tutto il dolore di allora per la morte di
quel figlio. Un lamento acre, acuto come lo stridio di un’unghia
sul vetro, le uscì lacerante dalla gola: era l’unico suono che po-
151

tesse produrre da quel giorno. Non una parola le era uscita più
dalle labbra: quel dolore l’aveva resa muta. Nella gola disseccata
era rimasto inchiodato quell’unico, ultimo grido.
Per il marito no, non aveva provato dolore.
Domingo Bayre non aveva fatto nulla per conquistare l’amore
della donna che, impulsivamente, aveva preteso di sposare. Se
qualche sentimento c’era, lui non sapeva dimostrarlo in altro
modo che maltrattandola, quasi ritenesse umiliante il nesso di
reciprocità che impone un sentimento amoroso e volesse ostentare
di sentirsene dispensato. La prendeva con brutalità, come
se volesse farle pagare caro essere bella ed aver attirato la sua attenzione.
Nassia attese a lungo una parola, un cenno di gentilezza da
quell’uomo cui si era trovata legata senza averlo mai scelto. Attese
invano: né la nascita del primo figlio, né la gravidanza del
secondo cambiarono qualcosa fra loro. Ma, in fondo, non le importava.
Per lei, che non aveva mai posseduto niente, i figli erano una
ricchezza che la appagava più di ogni altra cosa.
Quando Domingo fu ucciso, Nassia era al sesto mese di gravidanza:
quel bimbo che aveva in seno era tutto ciò che le era rimasto
al mondo.
Poco tempo dopo, sotto il sole abbacinante di un pomeriggio
d’estate, passò dinanzi alle finestre di Nassia un funerale. Dietro
la bara, con il viso gonfio dal gran pianto, c’era Anna Ballester.
Sollevò il viso e i loro sguardi si incontrarono.
Allora Anna fece fermare il corteo. Respingendo i parenti che
volevano dissuaderla, venne a grandi passi davanti al portone di
palazzo Bayre e chiamò Nassia per nome.
Lei uscì dalla casa e le venne incontro, in mezzo alla strada.
Si fronteggiarono: Nassia minuta, anche nella gravidanza, e
consunta dal dolore; Anna alta e robusta, con il viso stravolto
dall’ira. Nella sua mano c’era una lama.
– Ti hanno ucciso un figlio, – disse, – perché si chiamava Bayre.
Uno ne hanno ucciso a me, perché si chiamava Ballester. Sono
pronta a dare il mio sangue qui, ora, perché nessuna madre
soffra più come noi stiamo soffrendo.
Aprì la veste, scoprendo il seno turgido e segnato dall’aver al-
152
lattato due figli, premette la lama affilata sulla pelle e la fece
scorrere.
I rintocchi della campana a morto appesantivano di vibrazioni,
distorte dalla calura del pomeriggio, l’aria già densa.
Gocce di sangue vivo caddero sulla polvere della strada, scavando
crateri vermigli ai piedi di Anna.
– Giuro che, se qualcuno dei Ballester alzerà ancora la mano
su un Bayre, mi ucciderò con questo stesso coltello, per disonorare
il nome che porto.
Nassia schiuse le labbra, ma non un suono salì ad esse, perché
potesse pronunciare il suo giuramento. Allora tese la mano verso
il coltello, ma Anna lo ritirò.
– No. Tu devi allattare un figlio ancora. Per il tuo giuramento
varrà il sangue che verserai partorendolo. Piangiamo insieme,
ora, e che sia finita.
Per la prima volta dopo tanto tempo, una Ballester ed una
Bayre si abbracciavano davanti ai parenti e a tutto il paese.
Ma quel sangue non doveva bastare.
Nassia capì subito che suo figlio era un Bayre. Somigliava in
tutto a suo padre così come l’altro figlio, quello che le avevano
ucciso, somigliava a lei. Ma di quello subito le svanì il ricordo,
sentendo come un miracolo quella piccola vita che aiutò lei
stessa a nascere.
Trasfuse in quel bimbo tutto l’amore che lei aveva dovuto respingere
nel fondo di se stessa, ricacciare in un territorio della
sua anima dove anche le speranze avevano assunto la finezza dei
sogni.
Ma suo figlio era un Bayre e l’amore, per i Bayre di Gurtei, era
debolezza.
La prima volta che il piccino respinse le sue carezze, il cuore
di Nassia si riempì di gelo.
Divenne una lotta quotidiana tra loro, mano a mano che Cramu
faceva i primi passi, diceva le prime parole, cresceva. Una
lotta fatta di continue offerte e di continui rifiuti, perché il bambino
pretendeva ed accettava dalla madre solo quelle cure che
non implicassero eccessiva confidenza, respingendo tutte le altre.
Era caparbio e prepotente: un vero Bayre. Degli sculaccioni
153

che a volte Nassia gli allungava esasperata dalle sue malefatte,
aveva imparato a vendicarsi sottilmente, con cattiveria, restituendo
cento per uno.
Quante volte, dopo averlo messo a letto dopo una giornata di
lotta, lei aveva pianto in silenzio, nella penombra della camera,
ascoltando il respiro del figlio, sfiorandogli appena la curva del
viso, cercando di convincere sé stessa che forse, se avesse potuto
parlare, spiegare con dolcezza, Cramu non sarebbe stato così,
distante da lei come al di là di un fiume senza guadi.
Solo una volta era andato tra le braccia della madre di sua volontà.
Aveva quattro anni e in cucina le aveva buscate da un compagno
più grande, il figlio di una serva, a causa della sua prepotenza.
Allora era corso verso la camera dove Nassia cuciva fermandosi
sull’uscio, imbronciato e con gli occhi colmi di lacrime che
non voleva lasciar traboccare.
Vedendolo così, la madre aveva teso le braccia e lui le era corso
incontro, rifugiandovisi.
Era stato solo un attimo, durante il quale Nassia aveva provato
la sensazione della stretta di quelle piccole braccia, della
guancia liscia che premeva la sua, della carezza dei capelli sottili
come seta.
Un attimo solo. Ancora lei non aveva chiuso le braccia intorno
al suo corpo, che già lui la respingeva.
– Non ti voglio! – aveva urlato allontanandosi e lasciandola
barcollante e smarrita, svuotata da una sensazione di perdita.
Non poteva gridare, non poteva richiamarlo indietro.
Poteva solo attenderlo.
Da quel giorno Nassia, ogni volta che il figlio entrava in casa,
gli tendeva le braccia.
Quel gesto di offerta e di attesa era diventato un rito tra i due.
Nassia era giunta a pensare che fosse, in qualche modo, un legame.
Provava una infinita pietà per quel figlio che non sapeva accettare
l’amore, che non poteva, legato dal retaggio dei pregiudizi
del suo sangue e dal suo carattere. Ma proprio per questo
lei non poteva cessare di offrirglielo.
Se lo era imposto: Cramu doveva sapere che lei lo attendeva,
sempre.
154
Così, negli anni, mano a mano che l’età le aveva incurvato le
spalle e sollevato gli omeri, quel gesto d’offerta aveva assunto
l’apparenza di un gesto di rassegnazione. Ma nel cuore di lei
nulla era cambiato, perché il rifiuto di un figlio non è cosa cui
una madre possa rassegnarsi.
Cramu si era fatto grande e, spesso, arrivavano alle orecchie
di Nassia lamentele sul suo conto.
Un giorno se ne andò di casa, lasciandole detto che non lo
cercasse. Gente del paese le raccontò che era andato a vivere
con una prostituta di Isili.
Nella casa vuota dei Bayre, dalla quale già da qualche tempo
aveva congedato i pochi servitori, Nassia non ci si trovava più.
Inseguiva per le stanze fantasmi di ricordi che si divertivano a
sfuggirle, per ritrovarsi, a sera, davanti ad un focolare che non
aveva mai sentito suo, spento e freddo.
Anna era morta qualche tempo prima, certa che il loro giuramento
avesse portato la pace tra i Ballester ed i Bayre.
Nassia si sentiva sola. Sola e, soprattutto, povera. Più povera
di quando andava a spigolare per i campi con ai piedi le scarpe
smesse da Anna, troppo grandi per lei.
Quei ricordi la portarono, un giorno, in cima a Logus de su
’entu, su uno spuntone roccioso proteso sul paese, dal quale si
poteva vedere tutta la valle di Gurtei.
I Territori del vento era chiamato quel luogo dove Nassia era
cresciuta, nella casa dei genitori di Anna che l’avevano accolta,
orfana, a dividere la loro vita modesta.
La casa era ancora là. Era ormai abbandonata, ma colma,
questa, di ricordi che non sfuggivano. Ricordi sereni, che le fecero
bene.
Ci si stabilì, portando con sé poche cose.
In quel periodo morì la levatrice di Gurtei. Prima di quella,
c’era stata la madre di Anna, da cui Nassia aveva appreso l’arte
di aiutare le donne a partorire. Così un gruppo di persone del
paese si recò da lei a Logus de su ’entu, per domandarle se volesse
prendere il posto della vecchia levatrice.
Nassia si sentì ritornare alla vita.
155

Quando Cramu seppe che la casa dei Bayre era vuota, ci si stabilì
da solo e, nei dieci anni che seguirono, non andò mai a trovare
sua madre.
Ci si era appena risollevati da una terribile carestia durante la
quale, si diceva, la povera gente era giunta persino a mangiare i
cadaveri dei cani e dei propri congiunti, per sopravvivere. Continuamente
arrivavano voci del diffondersi di epidemie di peste,
che gettavano nel panico poveri e benestanti.
Nassia viveva di poco. Al figlio non chiedeva nulla, ma qualcosa
per ordine di lui le portavano i servi pastori e i fattori dei
Bayre.
Lei, conoscendo la povertà di quelle famiglie, li respingeva
spiegando a gesti che non le mancava nulla.
Era vero. In fondo alla levatrice di Gurtei non mancava quasi
nulla.
Solo suo figlio.
Là, sospeso tra cielo e terra, il vivere di Nassia era diventato
un’alchimia di sogni e di sensazioni.
Nei Territori del vento l’alba giungeva prima che a Gurtei; il
crepuscolo indugiava a lungo, violaceo e cristallino, trafitto dagli
ultimi barbagli del sole morente, prima di mutarsi in tenebra.
Da lassù, ogni orizzonte era più distante, ogni spazio più aperto
e il divenire era più fluido, ininterrotto, scandito solo dal respiro
del vento tra i lecci curvi.
Il diaframma tra realtà e sogno pareva assottigliarsi, divenire
fragilissimo. A volte, a Nassia, pareva di udire anche i suoni
provenire di là da quel sottile confine. Parole che non aveva mai
potuto dire e parole che non le erano state dette mai, bisbigli di
una voce di bimbo, canti che non aveva cantato mai altro che in
sogno.
Tutto questo pareva a Nassia di udire nei Territori del vento. E
le sarebbe bastato.
Ma non era quello il destino.
Un giorno andò da lei Romulo Ballester.
– Tu e mia madre, – le disse, – vi siete scambiate un giuramento
cui io non verrò mai meno. Però tieni tuo figlio lontano dalle
figlie mie. Cramu sta ronzando intorno a Maria, ma il nostro
sangue non si può mischiare di nuovo!
156
Nassia trascolorò. Con pochi gesti angosciati gli fece capire di
non avere alcun potere sul figlio, e guardò andar via Romulo con
un orribile presentimento.
Allora lui mandò a chiamare Pedru Concas, un bravo giovane
che gli aveva chiesto in moglie Maria.
Le rendite dei Ballester, negli anni, si erano fatte insufficienti
per mantenere la famiglia dei cadetti oltre quella del barone. I
Concas avevano vigne e tancati, oltre la montagna. Inoltre Pedru
era un buon lavoratore ed aveva un carattere dolce ed arrendevole.
Romulo, dando Maria a Pedru, oltre che raggiungere lo
scopo di scoraggiare Cramu, avrebbe acquistato un genero che
poteva risollevare le sorti della famiglia.
Maria per capriccio accettò Pedru per marito. Per capriccio e
per dispetto a Cramu, che la corteggiava con ruvidezza, in malo
modo, indispettendo la sua superbia.
Non passarono due mesi dalle nozze, che il padre di Maria fu
trovato morto in riva ad un torrente.
Un brivido di paura attraversò la valle di Gurtei, raggelando il
cuore di tutti.
Nassia si lavò alla fonte, tra i lecci piegati dal vento. Pettinò i
capelli grigi, li raccolse e li fermò con pettini d’osso, poi gettò
sulle spalle lo scialle e scese in paese.
Dopo dieci anni, con il cuore che batteva troppo in fretta, salì
la scalinata di Palazzo Bayre. Cramu guardò con astio la madre e
con indifferenza la lama che stringeva in mano.
– Che vuoi che me ne importi dei tuoi giuramenti, vecchia
pazza? Vuoi ucciderti? Fallo, ma vallo a fare fuori di casa mia.
Nassia chinò il capo.
No, non era quello suo figlio: quello era Cramu Bayre. Eppure
in lui, dietro quei bruschi modi e quelle parole taglienti, c’era il
bimbo che quel giorno lontano l’aveva abbracciata. E lei, amando
profondamente l’uno, non poteva non amare anche l’altro.
Voltò le spalle e lasciò per sempre quella casa.
* * *
La porta fu chiusa.
Gli uomini di casa Ballester erano tutti là e fronteggiavano
157

Cramu e Rosita. Il lamento delle prefiche giungeva smorzato,
come un brusio, in quel magazzino in fondo alla casaforte.
– Quella lì non fa più parte della famiglia, – disse il barone
Ballester venendo innanzi, sotto la luce ondeggiante del piccolo
lume pendente da una trave. – In quanto a te, vieni a vegliare
Maria dopo averle ucciso il padre?
– Sono venuto per un motivo ben preciso. Quel bimbo è figlio
mio.
Un silenzio stupito seguì quelle parole.
– La sera che Pedru è morto, io ero con Maria. Chiedetelo a
lei, chiedeteglielo, – disse strattonando Rosita. Sotto gli occhi
degli zii e dei cugini Rosita annuì, senza staccare lo sguardo dal
pavimento.
– Cosa significa? – domandò il barone con voce incrinata.
– Per Maria quel mezzo uomo di Pedru Concas non esisteva.
Era me che voleva e, quando l’ho presa quella sera, ho capito
bene che al marito non si era ancora concessa. Quel bimbo è nato
di sette mesi ed è mio. Se mi uccidete, rendete due volte orfano
quel bambino, sangue mio e vostro.
– Tua madre l’ha aiutata a partorire.
– Stai certo, mia madre testimonierà che ho ragione.
Rosita non li ascoltava più.
Aveva ripreso silenziosamente a piangere, riandando con il
pensiero agli avvenimenti che l’avevano condotta in potere di
quell’uomo.
Lo aveva amato, affascinata dalla sua forza e dalla sua rudezza,
ma Cramu pareva accorgersi solo di Maria.
Alla veglia funebre del loro padre Romulo Ballester, ucciso a
tradimento, Maria aveva fatto l’errore di confidare alla sorella
l’intenzione di tendere un’imboscata a Cramu Bayre. Intendeva
vendicarsi, ma vendicarsi soprattutto del fatto che Cramu non
avesse combattuto a viso aperto per averla, giungendo a quell’omicidio
che non risolveva nulla, lasciandola in potere di un
marito insipido, che la disgustava.
Rosita era andata da Cramu e gli aveva svelato quel progetto,
sperando di guadagnare così la sua considerazione.
Cramu se la trascinò appresso tra le ombre profumate della
sera primaverile. Raggiunsero il luogo dove Maria si doveva ap-
158
postare e la videro, con il fucile appoggiato al muretto, inginocchiata
in mezzo all’erba. Arrivarono alle sue spalle senza che lei
se ne accorgesse.
Rosita restò indietro, ma vide tutto. Vide come Cramu
strappò il fucile a Maria, come la schiaffeggiò, gettandola a terra,
gridandole parole deliranti.
Vide la loro lotta, la passione che riduceva brandelli ogni determinazione
d’odio. Vide l’amore che si strappavano a vicenda,
violento come uno stupro, lacerando carne e silenzio con
urla e abbandoni d’agonia.
Indietreggiando verso l’oscurità dei lecci, con il cuore ferito,
vide com’era crudele l’amore di due persone cresciute con la
stessa stortura in cuore.
Vide in quell’atto tutta la loro disperazione di riuscire solo così
a dare e a ricevere amore, e assaporò il suo disinganno, amaro
come la cicoria.
Poi fuggì, andò da Pedru a raccontargli tutto, ma lui la scacciò.
Non sapeva dove andare. Camminò a caso, finché Cramu la
raggiunse e se la portò a casa, per dispetto a Maria.
Il giorno successivo Pedru fu trovato impiccato.
Gli amici raccontavano che non era più lui da quando aveva
sposato Maria Ballester: il suo carattere dolce ed arrendevole ne
aveva fatto lo zimbello di quella donna, che si vantava di essere
sua moglie solo di nome.
Rosita non faticò a crederci, perché conosceva sua sorella e
perché, per sua sfortuna, cominciò a conoscere anche Cramu.
– Quel figlio è mio, vi dico, e mia madre lo dichiarerà. In
quanto a questa, – disse spingendo avanti Rosita, – è venuta di
sua volontà in casa mia, ma non so che farmene. tenetevela pure.
Una lama comparve in mano a Sancho Ballester, ma la mano
del barone si chiuse intorno al polso del giovane.
– No. Mia cognata aveva fatto un giuramento cui intendo tenere
fede, nonostante tutto. Basta sangue: nemmeno gli animali
si scannano così tra loro. Sentiremo Nassia Bayre.
Nassia Bayre aspettava.
159

Ricordava quando il calessino dei Ballester era salito, traballante,
fino a Logus de su ’entu: Maria Ballester aveva il viso colore
del gesso e i primi cenni di doglie.
– Sono incinta di tuo figlio, – le aveva detto con voce aspra, –
ma tu non glielo dirai. Giuralo, altrimenti…
Mancavano due mesi al compimento della gravidanza, ma le
doglie si facevano più incalzanti. Nassia vide un filo di sangue
colare da una narice di Maria e a gesti le chiese ragione di quella
piccola emorragia.
Rispose che, negli ultimi tempi, sanguinava per ore a causa di
ferite da nulla.
Nassia corrugò la fronte. La fece entrare in casa e la visitò.
Quando terminò, dai suoi gesti lenti, misurati ed espressivi,
Maria capì che era cominciato il travaglio, che sarebbe stato un
travaglio lungo e il parto sarebbe stato molto difficile. Vide che
Nassia era preoccupata. Insistette, volle sapere di più. Nassia,
con sguardo triste, le fece capire che, se fosse sopraggiunta una
emorragia, come era probabile, difficilmente sarebbe sopravvissuta
al parto.
Il sembiante di Maria Ballester si intorbidò.
– Sono l’ultimo dei Bayre! – le gridò Cramu. – Rosita non è rimasta
incinta, in tutti questi mesi. Il bimbo di Maria è figlio mio
e tu devi dichiarare che è nato di sette mesi, perché lo voglio con
me. Non posso sopportare l’idea che un figlio mio sia cresciuto
dai Ballester o, peggio, dai Concas!
Nassia scosse il capo. “No” pensava. “Lo nutriresti d’odio e
di pregiudizi contro la famiglia della madre, ed il sangue di Anna
sarebbe stato versato inutilmente.”
– Bada, se non farai ciò che ti dico, ti ucciderò. Ti ucciderò:
una fucilata al petto! Attenta… non me ne credi capace? – urlò,
stravolto da un dolore che non riusciva a dimostrare in altro
modo che con quella furia.
Nassia annuì lentamente, dondolando il capo avanti e indietro:
– Sì, fillu stimau, te ne credo capace, – rispose a se stessa.
Così, si lavò alla fonte, fermò i capelli con pettini d’osso, gettò
lo scialle sulle spalle e scese in paese.
In casa dei Concas l’aspettava il notaio. Nassia rispose a tutte
160
le sue domande con cenni del capo e gesti delle mani. Poi tracciò
una croce sotto la dichiarazione che il bimbo era nato da
una gravidanza compiuta e che era figlio di Maria Ballester e di
Pedru Concas.
Dopo aver posato la penna, chiese di vedere il bambino che
aveva aiutato a nascere. Le fu messo tra le braccia e lei lo osservò
ISABELLA a lungo, studiandone i lineamenti, lo sguardo, le JOAN espres-
sioni. ESQUIRRO Sospirò, pregando che non ci fossero in lui né Bayre BAYRE né
Ballester, ma solo gli innocenti che quei pazzi avevano coinvolto
nel loro destino di violenza.
Posò sulla fronte di quel bimbo le labbra avvizzite, segnate da
rughe verticali che parevano i segni di una cucitura, scolpiti su
quella bocca che non parlava da trent’anni.
Solo la madre di Pedru, Grazia Concas, capì. Vide quanta
forza occorreva a Nassia per strapparsi quel bimbo dal petto,
restituirlo e voltargli le spalle per sempre. Capì che solo una
grande speranza di pace poteva averle dato quella forza.
Seduta in terra accanto al focolare affumicato, Nassia ricordava
le parole di Anna: “Sono disposta a dare il mio sangue ora,
qui, perché sia finita.”
DOMINGO BAYRE
NASSIA
Ora toccava a lei.
Aveva atteso Cramu per nove mesi, poi per trent’anni. Ma ora
lui sarebbe arrivato.
La porta si sarebbe spalancata e Cramu sarebbe corso tra le
sue braccia a farsi consolare, premendo CRAMU la guancia liscia contro
la sua, sfiorandola con i capelli sottili ancora
BAYRE*
come seta, stringendola.
Poi si sarebbero presi per mano e avrebbero camminato insieme
nei Territori del vento, percorsi dai primi, tiepidi, brividi
di primavera.
Sorrise a quel pensiero, sentendosi invadere da una dolcezza
che mai, prima, aveva conosciuto.
Poi la porta si spalancò colpita dal calcio del fucile, andando a
sbattere sulla pietra viva del muro.
Nassia, presa ancora dall’abbaglio del sogno, o della realtà sognata,
si voltò a guardare con occhi di madre, senza tempo e
senza rancore, quel volto di bimbo imbronciato.
161

Sorrise a quel bimbo e, aprendo le braccia come un tempo,
come in tutti i tempi e tutte le stagioni della sua vita, attese.
Fuori, nei territori del vento, o del sogno, una voce di donna,
sommessa, cantava.
* Cramu Bayre muore senza discendenza legittima
163

164
Gurtei 1867
X
– Non viene più a trovarci, dottor Raschini? Victoria
Luz ne è dispiaciuta…
La domestica, che tiene per mano Carmen Refundana,
la figlia più piccola del farmacista, deve aver dato una
brusca stretta perché la bambina si interrompe e la guarda
di sotto in su, imbronciandosi. Poi riacconcia per Marco il
suo sorriso.
– Volevo dire che mamma e babbo ne sono dispiaciuti.
Victoria, poi, non se ne parli… E tu, vuoi piantarla di
strizzarmi le dita? Sto discorrendo con un amico! – conclude,
cercando di liberare la mano dalla stretta.
– Verrò prestissimo, – le assicura Marco. – Questa sera
stessa.
– Oh, questa sera non glielo consiglio: ci sarà una folla
di quelle smorfiose amiche di Victoria, perché è il suo
compleanno. Se viene, le avrà tutte attorno: non fanno
che parlare di lei!
Le guarda allontanarsi ed aspetta che svoltino, prima di
prendere la strada per casa Ballester. Ma, fatti pochi passi,
le raggiunge.
La signora Refundana sta versando un bicchierino di
165

anice, e ogni tanto solleva verso la porta uno sguardo
preoccupato perché, nonostante abbia mandato a chiamare
Victoria Luz, vuol riuscire a scambiare qualche parola
con Marco da sola a solo.
– Ho saputo che andrà a stare tra quei matti, lassù.
Marco vede bene che Carmen deve avere ereditato dalla
madre quel modo così diretto di affrontare le questioni.
– Come? Ah, sì: la baronessa Ballester mi ha offerto una
parte della sua casa.
– Ah, conveniente davvero, come sistemazione! No, no,
non è assolutamente possibile che lei si mischi a quella
gente. La baronessa è molto pericolosa, mi creda. Se avessimo
saputo che lei si accontentava di appena qualche camera,
non ci sarebbero stati problemi ad ospitarla qui!
– Mi sembrava di aver spiegato a suo marito…
– Lasci Liandru alle sue erbe ed ai suoi medicamenti…
Doveva rivolgersi a me, dottore, l’avrei potuta aiutare.
Potrei ancora…
Victoria Luz entra, preceduta da Carmen e seguita dalla
domestica che porta un vassoio di pabassinas appena
sfornate.
Mentre le porge gli auguri di compleanno, Marco nota
che la ragazza in quei giorni è rifiorita. L’ha conosciuta
pallida e trasandata ed ora è una piacevole giovane donna
che riesce ad acconciarsi in maniera quasi raffinata.
– Si può ancora rimediare, – insiste la signora, chinandosi
al suo orecchio con tono di complicità.
Gurtei 1867 - Sa domu ’e is fogus
– Come si sente?
– Bene. Ma mi è mancato. Mi sono sentita… abbandonata,
questa mattina.
Marco sfila l’orologio dal taschino, prende il polso di
166
Aleni e resta in silenzio fino a quando non termina di contarne
i battiti.
– Ho preferito non venire. Ho notato che lei ha una tolleranza
assai scarsa nei confronti della mia presenza. Il
medico può approfittare del pretesto della visita di controllo,
ma non più di una volta al giorno.
Lascia la mano della sua paziente e riprende la borsa.
– Oh, per piacere, ora non sciupi il suo bel pretesto! Rimanga:
mi ha punito abbastanza!
Marco sorride di se stesso: quel tono addolorato, incrinato
di stanchezza, ha il potere di piegare all’istante ogni
sua determinazione di freddezza.
Siede ad un lato del camino, lontano dal riverbero e dalla
luce delle fiamme.
La baronessa è davanti al fuoco e tiene delle carte in
grembo. Altre ingombrano uno sgabello, là vicino. Ma
non è del tutto vero che sta bene: il viso mostra le tracce di
un grave sfinimento.
– La verità è che sono stato invitato altrove. La famiglia
Refundana ha voluto informarmi d’essere disposta a rinunciare,
per ospitarmi, ad alcune camere al piano terreno
della casa.
– Ah, quindi è così.
Nel silenzio che segue, animato solo da qualche schiocco
della legna, Marco ha tempo di pentirsi di quella frase.
– La sto perdendo. E la perdo proprio nel momento in
cui ho più bisogno di lei, – bisbiglia Aleni, finalmente.
– Non c’è più molto da fare per me: lei si sta riprendendo
bene, a parte una certa debolezza.
– Le debolezze, alla mia età, non possono essere più curate.
Piuttosto assecondate, come quelle dei bambini.
– Alludevo alla debolezza fisica. E non dica alla mia età,
come se avesse cento anni! Se lei fosse una paziente più
condiscendente, e avesse seguito tutte le mie istruzioni,
ora starebbe assai meglio.
167

Aleni scuote il capo accennando un sorriso breve, che
subito scompare.
– Non è del medico che ho bisogno. Piuttosto… dell’amico.
Voglio parlarle di questo.
Gli mostra un foglio di carta completamente ricoperto
di disegni e scarabocchi che si perdono tra i punti di ruggine
e le chiazze. Poi legge:
– Tre segreti tre / tre segreti maledetti / e un maledetto tesoro
/ questo è quanto ti porto / in dote, o mio amore. / E se
troppo sarà il peso / la Dama Pietosa piegherà il suo lenzuolo
/ per toglierti la pena.
– Versi d’amore!
– Sembrerebbe. Sono in catalano, ma l’autore è ignoto e
non c’è data. Cosa ne pensa?
– Tre segreti e un tesoro. Interessante.
– L’ho trovato tra le carte di famiglia. Raimundo si diceva
spesso convinto, negli ultimi tempi, dell’esistenza di un
segreto custodito per secoli dai Ballester, magari inconsapevolmente.
Riteneva che quel segreto fosse la chiave della
terribilità del loro destino.
– Pensa che sia morto a causa di quel segreto?
– Ah, lo sapessi! Non l’ha colpita l’accenno alla Dama
Pietosa?
– Cosa dice della Dama Pietosa?
Aleni rilegge: – …piegherà il suo lenzuolo per toglierti la
pena.
– S’Acabadora? A quanto pare la leggenda della maledizione
non è nata in tempi recenti.
Aleni sembra centellinare il fiato in un profondo sospiro.
– Lei mi ha salvato la vita, e quindi sono in debito. Eppure
le chiedo un altro favore: non mi neghi la sua amicizia
e mi aiuti ad evitare che muoiano altre persone.
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Gurtei 1867 - Logus de su ’entu
Nell’ovile di pietre e frasche non c’è più posto, ma gli
uomini continuano ad arrivare e ad assieparsi fuori, in attesa
che il pastore ed il massaio più anziano prendano la
parola.
Finalmente i due escono ed invitano gli altri a sedere all’interno
del circolo di pietre. Uno spezza le sfoglie rotonde
di pane carasau, l’altro le fa passare in giro, perché le intingano
nel vino, come fece Nostro Signore nell’ultima cena.
Quando tutti hanno inzuppato il pane e mangiato, il pastore
invita Malacarìu a parlare.
L’uomo si alza e dice quello che ha da raccontare, gesticolando
con le braccia magre e rispondendo alle domande
che gli sono rivolte. Un mormorio segue le sue parole,
finché il massaio non lo tacita con un gesto.
Sospira, poi dice solennemente:
– È giunto il momento.
– Bisognerà avvertire Donna Aleni, – osserva Malacarìu.
Molti si alzano per protestare, ma il pastore anziano
levandosi a fatica li zittisce, volgendo lo sguardo attorno.
– È giusto. Avremmo smesso di sperare e avremmo dimenticato
chi siamo se non ci fossero stati i Ballester con
la loro cattiveria, con la loro follia, a ricordarcelo. È giusto
che Donna Aleni lo sappia, – afferma con forza.
Gurtei 1867
Cristina ha gli occhi gonfi e, per tutto il tempo della cena,
il fratello sembra non accorgersene. Così, quando Enrico
lascia il tavolo, Marco domanda alla maestra se può,
come medico o come amico, esserle utile a qualcosa.
– Lei è molto gentile, – replica lei all’offerta. – Credo di
essermi buscata un malanno, per colpa di Arega.
169

– Arega? Ah, la serva…
– Mi ha fatto andare fino in cima all’altipiano ieri, proprio
quando soffiava il maestrale e non ho potuto aprire il
parapioggia. Mi sono bagnata, ed ora ho il naso congestionato
e gli occhi mi dolgono.
– Le farò preparare un decotto, e lo berrà ben caldo, appena
prima di mettersi a letto. Ma perché una scampagnata,
con quel tempaccio?
Cristina scuote il capo: – Ha ragione mio fratello: faccio
male a dare confidenza. Si figuri: Arega non sa leggere, ed
ha voluto che andassi fino lassù solo per mostrarmi un
vecchio libro di preghiere, su cui erano annotate a mano
delle parole. Poi mi ha trattata tanto male che ho ridisceso
l’altipiano in lacrime! Avevo terrore che Enrico se ne accorgesse,
e potesse nascerne una discussione…
– Ora non ci pensi più. Farò mettere nel decotto anche
la passiflora, che le garantirà un sonno tranquillo.
* * *
Rientrato nella sua camera, Marco si sofferma ad aggiungere
qualche annotazione nella cartella di marocchino:
«GURTEI - Luogo di malaria perenne, di febbre spossante,
di allucinata alterità. D’inverno è un pantano putrescente.
D’estate il corso dei fiumi si assottiglia e, sulle
sponde, rimangono qua e là pozzanghere e strisce d’acqua
morta sulla quale nascono veli di melma verde. Fino al
mare restano vaste zone pantanose, dalle quali il sole
strappa vapori malsani che portano le febbri endemiche.
A nulla serve accendere grandi falò davanti alle case. È
inutile, a sera prima di dormire, bruciare nelle stanze fiori
sbriciolati e mettere recipienti ricolmi di petrolio con un
lume al centro, sui davanzali.
170
Qui, in questo clima di trasognamento febbrile e di visionarietà,
tutti ritengono più degno di attenzione ciò che
non esiste, rispetto a ciò che esiste.
La realtà è vista come incombente, disordinata, incomprensibile.
A questa allora è contrapposto l’ordine del
“possibile”, di ciò che ancora non è accaduto, ma si può
sognare che accada.»
* * *
Isabel Refundana stringe le labbra: è donna schietta e
caparbia. Al contrario del marito, diplomatico fino al ridicolo,
ritiene che la sincerità trovi sempre un suo posto dignitoso
nei discorsi di una persona onesta.
Versa un poco d’acqua nel lavamano di ceramica e,
mentre Marco si lava e si asciuga nella salvietta di lino che
gli porge, lei continua il discorso, incurante del fatto che
sembri avere così poca presa.
– Speravamo, tutti noi, che lei accettasse l’offerta di trasferirsi
qui. Victoria Luz deve averci riposto una speranza
maggiore, magari una speranza… di tipo diverso. Il malore
di oggi testimonia quanto questa speranza fosse fervida.
Marco non permette alle parole di circostanza di mitigare
il tono distante della risposta.
– Mi dispiace. Se ho anche solo involontariamente…
– Oh, no. Lei è stato fin troppo corretto. Persino sfuggente,
se devo dire la verità. Davvero mia figlia le è così indifferente
o la sua è solo… discrezione? Tutti pensano che
Victoria Luz sia molto bella. Ma forse lei ha già una fidanzata
che la aspetta a Cagliari.
– No, non ce l’ho.
Isabel sospira.
– Che vuole, la gioventù è estrema in tutto: nella speranza
come nella disperazione. Victoria non trova partiti alla
171

sua altezza, qui a Gurtei. È naturale che sia rimasta colpita
da lei, dalla sua dignità, dal suo fascino… E anche lei,
mi lasci dire come se fossi sua madre… non pensa sia ora
di approfittare dell’occasione, quando gliene capita una?
Non desidera farsi una famiglia, sistemarsi con una donna
di buona educazione e bella presenza, che la faccia ben figurare
e possa capirla, darle dei figli…
– Francamente… non ho fatto ancora programmi in
proposito.
– Male. Li faccia. Ma insomma, Victoria si riprenderà.
La prego di non lasciarle capire che abbiamo discusso di
queste cose. Sappia però che la porta di questa casa resterà
aperta per lei: non intendiamo rinunciare alla sua
amicizia e al piacere della sua compagnia… sempre che i
suoi… pazienti le lascino tempo di fare anche un poco di
vita sociale. Ma, mi dia retta: non si fidi di quella donna,
dottore. Stia attento…
* * *
– No, non le do il polso da controllare. Oggi sto bene.
Larentu ha frullato per me delle uova e… mi ha praticamente
costretta a prenderle.
Sta davvero meglio: il suo viso ha perduto ogni traccia
di stanchezza, ritrovando la freschezza di un’alba di fine
estate.
– Però non ha permesso in nessun modo che io salissi alla
casaforte: mi accompagna lei? Devo mostrarle dei documenti.
– Ancora carte? Ecco perché è così allegra. Per suscitare
il suo interesse ed il suo affetto bisogna essere un foglio di
cartapecora! Perché invece non usciamo a godere questo
sole che, temo, sarà di breve durata?
Aleni sorride e gli tende la mano.
172
– Come sta Victoria Luz?
– Perché me lo chiede?
Aleni apre la porta in cima alla gradinata e si fa da parte
per lasciarlo passare.
– Quella ragazza mi piace. Non trova anche lei che sia
bella? E poi sarà una buona compagna, per l’uomo che la
sceglierà.
– Sì, trovo che sia bella…
– Bene!
– … ma non ho intenzione di prendere moglie.
Lo stridio dei cardini, alternato alla risata di Aleni, sembra
suscitare echi anomali.
– L’ha detto con una faccia!
– È che, già stamattina, la signora Refundana…
L’oscurità della Galleria dei Ritratti sembra fatta apposta
per favorire le confidenze, se si evita di guardare le pareti.
– Ah, ho capito. Ma non si lasci innervosire da Isabel: è
una brava donna, anche se la prospettiva di averla come
suocera…
– Tra le mie prospettive non c’è assolutamente quella di
avere Isabel Refundana come suocera!
– Bene, parliamo seriamente, ora. Anch’io, come Raimundo,
credo che lo scioglimento di un mistero a lungo
conservato tra queste mura, sia la chiave per capire molti
accadimenti restati sempre oscuri. Chissà, forse anche per
comprendere come è morto lui, e perché. Ma è un mistero
che ha radici lontane.
Rovista tra un mucchio di carte sparse sullo scrittoio.
– Osservi questo documento. Lo tratti con riguardo.
– Sembra molto antico. È una fortuna che sia leggibile.
– Riesce a tradurre la data? È stato compilato nel novembre
del 1494 nella fortezza valenzana di Xàtiva dal
cappellano, frate Inocencio Ispisu.
173

– Quest’albero… somiglia all’arma di Joan Baher.
Aleni gli tende altri fogli, legati insieme.
– Osservi ora questi. Si tratta di una sorta di riassunto
degli atti di un processo tenutosi nel 1495. Ho trovato il
documento tra le carte di famiglia, ben confuso in mezzo
a lunghi elenchi di tributi riscossi e spese sostenute. Dubito
che qualcuno, dopo colui che lo ricevette e prima di
me, l’abbia avuto tra le mani.
– Ah, ecco qui di nuovo quel nome: Fray Inocencio…
– Il processo è a suo carico. L’accusatore, nonché destinatario
di questo riassunto in forma di lettera, era Vicente
Ballester, figlio di Bartolomeo II. Per quanto riguarda il
compilatore, non abbiamo che le iniziali del suo nome: S.
M. Ritrovare e leggere questo documento ha rafforzato la
mia intenzione di sapere quanto più sia possibile della famiglia,
per arrivare a comprendere.
– Ma, Xàtiva… dunque in Spagna. Cos’hanno a che fare
con la famiglia Ballester questi documenti?
– Il processo di cui si parla nel secondo documento, si
svolse nel tribunale dell’Inquisizione a Cagliari. Glielo
traduco. La prima parte della lettera riporta il racconto
che il frate fece in presenza del solo Inquisitore:
«A Don Vicente Ballester. Signore, così raccontò frate
Inocencio.
Messo piede sul suolo della patria lo aspettava una lunga
strada prima di giungere al luogo dove aveva visto, in
un giorno della sua infanzia, l’arma con l’albero capovolto.
Ad Oristano si fermò presso un amico, dove trovò ad attenderlo
una cattiva notizia.
Inocencio si chiuse in preghiera, raccomandò a Dio l’anima
buona della madre, ma non pensò neanche di recarsi
sulla tomba di lei, dove sicuramente lo attendevano per
arrestarlo.
Vedendolo turbato l’amico lo interrogò e Inocencio, in-
174
fine, gli raccontò ogni cosa: il sogno del signore de Alagon,
la coincidenza con i suoi pensieri di quella notte, il ricordo
dell’arma gentilizia che era venuto a cercare e le altre
cose che gli erano state rivelate.
Quell’amico, che era un dotto e possedeva molti libri,
udito il suo racconto si mise a rovistare tra essi, finché
trovò un libello polveroso, malamente legato in pergamena,
che affermò essere una copia degli ARCANA SILENDA di
Nigidius da Heussburg. In quell’opera ricordava di aver
letto qualcosa a proposito dell’albero capovolto.
Così era infatti. Dopo aver letto e a lungo discusso, Inocencio
riprese la strada rinfrancato e fortificato nel suo
proposito.
Giunse infine, sul principio dell’estate, nella valle
dov’era nata sua madre. Là trovò che, in verità, nonostante
l’albero capovolto fosse riprodotto in conci di pietra
posti ad ogni angolo di strada, nessuno lo teneva per insegna,
essendo stata l’arma personale di un signore del quale
era restata scarsa fama. C’erano però due famiglie imparentate,
i Bayre, discendenti da quello, ed i Ballester,
amministratori del feudo, che avevano nelle armi due alberi,
uno diritto ed uno capovolto, aventi le radici intrecciate.
Saputo che i Ballester avevano unito il proprio sangue
con una discendente della casa di Arborea, e ricordandosi
del racconto della madre a proposito di quelle famiglie,
Inocencio andò nella casa di pietra. Ma il signore di questa,
uditolo parlare di presagi e di sogni, avendo l’impressione
che fosse posseduto da diaboliche potenze, lo fece
imprigionare e ben guardare finché gli inviati del Santo
Officio non se lo vennero a prendere.»
Marco solleva lo sguardo e osserva lo scudo di marmo
che orna il camino: – … Nella casa di pietra… Dai Ballester,
qui!
175

– Esatto. Poi la lettera riferisce di quattro domande poste
ad Inocencio dall’Inquisitore, dinanzi ai Reverendi padri
del Tribunale. E cioè:
«Primeramente se era a conoscenza che Nigidius di
Heussburg era stato riconosciuto reo di propalare errori
ereticali e che le sue opere erano nell’elenco dei libri sospetti.
Rispose che non lo sapeva.
Ytem se aveva detto ogni cosa riguardo alle ultime parole
del prigioniero Leonardo de Alagon, da lui assistito in limine
mortis, soprattutto riguardo a qualche sollevazione
che si preparasse in Sardegna contro la Corona.
Rispose che aveva tutto detto, che non aveva sentito parlare,
né parlato, di sollevazioni.
Poi di specificare con quale intento si fosse recato nella
villa di Gurtei.
Rispose che vi si era recato per cercare spiegazione di un
presagio.
Poi chi fosse e dove abitasse questo suo amico di Oristano.
Dopo aver alquanto esitato, sollecitato dall’Inquisitore,
disse di non voler rispondere per non mettere un innocente
in pericolo di vita, e non ci fu verso di convincerlo.
Allora, vista la sua fermezza nel rifiuto, poiché si trattava
di fare il nome di una persona che deteneva e propalava
scritti eretici, decisero di condannare Inocencio al tormento
de agua y cordeles. »
– Ma, a Cagliari…
– Sì. Segue anche un resoconto delle torture. Senta:
«L’Alguazil condusse il frate nel Carcel de tormento, dove
fu eseguita la sentenza.
Gli fu tolto il saio e fu lasciato qualche minuto sentado
en el banquillo, desnudo, in attesa che dicesse ciò che gli
era stato chiesto. E poiché taceva, fu coperto con la vestidura
del torment - calzoni e camicia - ed appeso ad una
176
corda con le mani in croce. Come gli furono messi i contrappesi
ai piedi, cominciò a lamentarsi, voltando il viso
da un lato e dall’altro e mordendo la camicia. Questo per
mezz’ora. Quando i pesi gli furono tolti disse: “Laudadu
siat Christus” e perse i sensi.
Quando li riacquistò, rifiutando ancora egli di dire ciò
che gli era stato chiesto, fu dato l’ordine di riappenderlo,
nonostante supplicasse: “Pro more de Deu, qui no hapu
fatu male!” Fu appeso dunque per la seconda volta, che
doveva durare un’ora. E, poiché mentre lo riappendevano
sporcò la veste di urina, si ebbe dei pesi più grandi ai
piedi. Allora cominciò a lamentarsi senza interruzione,
con ringhi di gola che pareva un cane, mordendo la camicia
e dicendo: “Ay, Señor! Señor myo, Dios myo, ayudame!”
Al termine dell’ora, quando il torturato fu staccato, il
Maestro Chirurgo dichiarò che aveva il romput – l’ernia –
e chiese la porrogation al giorno dopo. Y así fue suspenso
el dicho tormento».
– Mio Dio… – interrompe Marco, a fior di labbra.
– Non è finita: le sofferenze di Inocencio dovevano continuare:
«Otto giorni di questa tortura subì, ytem se le començó
el tormento del agua.
Quando il suo ventre era enfiato d’acqua, il Torturatore
gli saliva sopra con i piedi, saltando, ma quel nome non si
poté fargli dire, perché continuamente cadeva in deliquio.
Questo dico, per soddisfazione Vostra, e aggiungo che,
pronunciata la sentenza di morte, fu stabilito il giorno
dell’autodafé.
Quel giorno fu rivestito del San-Benito e condotto scalzo
nella piazza del Balice, sotto la torre dell’Elefante. Tutta
la città era radunata in quel luogo per l’autodafé, intor-
177

no al palco e alla gradinata dove presero posto il Viceré, le
Voci degli Stamenti ed altri nobili ed ecclesiastici.
Sul palco c’erano le gabbie nelle quali i condannati
avrebbero ascoltato la sentenza e la predica.
La processione che recava i condannati era aperta come
al solito dai carbonai armati di picche i quali, come sapete,
hanno questo diritto perché forniscono la legna per abbruciare
gli eretici. Dopo di loro venivano i Domenicani,
preceduti da una croce bianca e seguiti dallo stendardo di
damasco rosso dell’Inquisizione. I Familiari dell’Inquisizione
precedevano e accompagnavano i condannati, allineati
a seconda delle pene loro inflitte e recanti in mano un cero.
L’Inquisitore veniva per ultimo, scortato dalle sue guardie
e attorniato dal clero.
Il detto frate Inocencio, prima ancora di entrare nella
sua gabbia per ascoltare la sentenza, riavendosi dal torpore
e gettando intorno uno sguardo smarrito, si accorse che
gli era stato messo in mano il cero, così lo scagliò via dicendo:
“Por muerto me tratan.” Poi nella sua lingua, rivolto all’Inquisitore,
aggiunse: “Daenanti de Deus mi nde dades
contu.” Per aver detto quello, se le pueso mordaza en la boca
y así salió con ella en el brasero, el malaventurado.»
– Non credevo… Io ho letto l’opera di Tamburini, ma
non pensavo che queste atrocità…
– Abbia pazienza: è qui che il racconto si fa più interessante:
«Quando en fin le pegaron fuego, una donna biancovestita
avanzò dal recinto del popolo senza che nessuno
pensasse a fermarla.
“Cur desperas?” disse a voce alta, e il frate sentì quella
domanda al di sopra del crepitio delle fiamme che già gli
mordevano i piedi scalzi, perché volse il capo grondante
sudore e guardò la bianca figura di traverso al fumo che si
levava.
178
Le guardie ebbero ordine di prenderla, ma non poterono
farlo perché ella salì sul rogo, incurante delle fiamme,
che invero non la toccavano.
“Et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos” disse
ancora la donna e, facendo un gesto che pareva una carezza
sul viso del condannato, fece scivolare giù dal rogo con
grande clangore la mordacchia, che pure era bene inchiavardata
alla bocca di lui. E sorrise, nonostante le fiamme,
lo sventurato.
Allora, tra le grida delle gente, balenò nel palco la veste
viola dell’Inquisitore, che balzava in piedi con un urlo,
additando la donna come creatura del Demonio. Come
colpita dal vento la folla sbandò: parve ritrarsi inorridita,
poi avanzò di nuovo, con un ruggito più alto di quello delle
fiamme, rompendo il recinto e giungendo come un’onda
di marea a lambire il rogo.
Ma il fumo già impediva di vedere e le fiamme crepitavano,
restituendo le due creature all’inferno. Solo una voce
si udì ancora dalle fiamme, mentre i clerigos levavano
alta dinanzi al rogo la croce, tra i clamori della folla:
“Felix qui potest rerum cognoscere causas.” »
– Felice colui che può conoscere le cause degli avvenimenti…
– bisbiglia Marco assorto.
– E il nostro misterioso relatore, dopo tanta dovizia di
particolari, si congeda così, lapidario:
«Così accadde, così testimonio per Voi che lo avete
chiesto, che detto frate Inocencio así murió.
Preciso che nulla mai disse in pubblico il condannato riguardo
alla Vostra famiglia, oltre a ciò che ho riferito. A
parte quello che già dice la voce del popolo, che Bartolomeo
Vostro nonno fu generato da un coito illecito, impuro
e dannato.
S. M.»
179

* * *
Marco guarda fuori dalla finestra, profondamente scosso.
Aleni, che a tratti ha letto talmente assorta nella pietà
da dimenticarsi di tradurre, ora ansima ed ha lo sguardo
remoto.
– Pensa davvero che un passato così lontano possa dare
risposte riguardo a fatti accaduti così di recente? – domanda
lui.
– Sì, lo penso. Felix qui potest rerum cognoscere causas,
come disse la misteriosa apparizione biancovestita che
salì sul rogo di Inocencio, chiunque essa fosse. Dottore,
l’assassino di Raimundo non verrà a consegnarsi a noi. Ma
se riusciamo a capire perché, sapere chi sarà solo il breve
passo successivo.
Dopo avere un poco esitato, aggiunge: – Ripercorra con
me alcuni passi. Mi risponda: perché Vicente Ballester denunciò
Inocencio?
– Il documento riporta il motivo: lo riteneva posseduto
dal Demonio.
Aleni esita un attimo, portando le mani giunte davanti
alle labbra, poi chiede:
– Che idea si è fatta lei di Inocencio?
– Non so… un fraticello…
– Un fraticello, ecco: una creatura mite, innocente, portata
alla meditazione. Una creatura che non dava certo l’idea
di un indemoniato.
– Oh, innocente poi no, ad onta del suo nome: mentì e
dovette fuggire disperatamente a causa della sua menzogna.
– No… – interloquisce Aleni. – Al contrario. Non c’è
disperazione nella sua fuga: lui mentì e fuggì per correre
dietro ad una speranza. La ragione vera per cui Vicente lo
fece arrestare deve essere un’altra, perché poi non si parla
più di possessione demoniaca nel processo. Rifletta. Due
180
sono le famiglie imparentate che hanno nello scudo araldico
un albero diritto ed uno capovolto: i Bayre, perché è
la loro insegna, i Ballester perché si imparentarono con i
Bayre. Se Inocencio cercava quell’insegna, quindi, sarebbe
stato logico che andasse dai primi, discendenti da Joan
Baher, colui che prese l’albero capovolto come insegna
personale.
– Ma non lo fece.
– No. Ricordandosi del racconto della madre, dice il testo
che le ho appena tradotto, andò alla casa di pietra, cioè
dai Ballester.
– Inocencio, però, sapeva che i Ballester si erano uniti
con legami di parentela alla casa d’Arborea, e che quindi
erano parenti anche di Leonardo Alagon. Magari voleva
riferire qualcosa che lui gli aveva detto in punto di
morte.
– Bravo: lo penso anch’io. Ma il testo dice: «Saputo che
i Ballester avevano unito il proprio sangue con una discendente
della casa d’Arborea, e ricordandosi del racconto
della madre, andò nella casa di pietra.» Di quale
racconto parla? Gli inquisitori non gli fanno nessuna domanda
su questo punto. Dunque, se la faccenda della possessione
demoniaca era solo un pretesto, qual era il motivo
vero per cui Vicente Ballester fece arrestare Inocencio?
– Probabilmente il frate era in possesso di qualche
informazione che a Vicente non tornava comodo che si
divulgasse.
– Certo. Allora supponiamo che questa informazione
Inocencio l’abbia avuta dalla madre. Perché decide di utilizzarla
solo dopo la morte di Leonardo Alagon?
– Non so. Forse alla luce di ciò che Leonardo gli dice
in punto di morte, quella informazione diventa determinante.
– Ecco il punto: non solo diventa determinante, ma pericolosa.
Per Vicente? Forse a questo scopo Inocencio fu
181

consegnato all’Inquisizione: bisognava che l’informazione
morisse con lui.
– Ma avrebbe potuto eliminarlo lui stesso: nessuno sapeva
della presenza del frate fuggiasco nella sua casa.
– Questo è vero. E se non lo ha fatto, rischiando che
quel segreto venisse confessato alle orecchie estranee di
tutto un tribunale, significa che aveva comunque il suo
buon tornaconto.
– E se le informazioni fossero più d’una? Magari Vicente
intendeva venderne una ed il silenzio su quella che gli
nuoceva faceva parte del prezzo.
Aleni spalanca gli occhi.
– Lei mi sorprende! I nostri percorsi di pensiero sono
contigui, a quanto pare. Ma riprendiamo. Vicente teneva
dunque molto a quel silenzio. Altrimenti non si spiega
quella furia di far confessare ad Inocencio il nome dell’amico
di Oristano, l’unico cui potesse aver confidato ciò
che sapeva e quindi l’unico che poteva divulgarlo.
– Magari è questa la ragione per cui Vicente ha chiesto
la cronaca minuziosa del processo: per essere certo che
quell’informazione non fosse trapelata.
– Ricorda l’ultima frase della lettera? «Preciso che nulla
mai disse in pubblico il condannato riguardo alla Vostra
famiglia, oltre a ciò che ho riferito. A parte quello che già
dice la voce del popolo, che Bartolomeo vostro nonno…»
– Quindi l’informazione pericolosa riguardava la famiglia!
– Eccoci all’altro punto cruciale. È chiaro che gli interrogatori
sono stati condotti in modo da non far mai risalire
a galla quella informazione, la quale, senza dubbio, doveva
riguardare la famiglia di Vicente. Qualcosa che, inoltre,
non avesse a che vedere con la sua origine bastarda,
che viene anzi sottolineata - con cinico piacere direi - nell’ultima
frase della cronaca.
– Ha idea di chi fosse il relatore della lettera? – doman-
182
da Marco, vedendo che Aleni prova piacere ad inseguire
quelle tracce nel labirinto delle ipotesi.
– Vediamo: S. M… Può essere chiunque, ma alcune considerazioni
restringono il campo delle possibilità. Data la
delicatezza della questione la cronaca, che costituiva per
Vicente la prova documentaria di essere stato favorito,
non sarà stata certo affidata ad uno qualsiasi dei famigli. Il
relatore, infatti, mostra di essere al corrente di certi accordi
intercorsi tra Vicente e colui che poteva guidare il processo
in un certo modo.
Il respiro di Aleni si è fatto più frequente e le guance
hanno preso colore.
L’aver salvato la vita a quella donna straordinaria - riflette
Marco - resterà certo l’impresa più notevole della
sua carriera di medico. Nonostante abbia paura che lei
possa stancarsi, non prova nessuna voglia di interrompere
quelle riflessioni ad alta voce.
– …Inoltre, benché costretto da quegli accordi, ci sono
indizi che mostrano come il compilatore adempisse malvolentieri
a quel compito. Qui, per esempio: parla di Inocencio
chiamandolo per due volte malaventurado. E non
basta. Guardi, qui all’inizio e alla fine poi: mancano assolutamente
quelle formule di cortesia che sono praticamente
obbligatorie nella corrispondenza di quel tempo,
anche fra estranei.
– Insomma, Vicente viene favorito, forse perché si è costretti
a farlo.
– Certo, ma viene trattato sprezzantemente, come un ricattatore,
scaricando su di lui tutta la colpa morale delle
torture e della morte di Inocencio.
Aleni sfoglia un libretto snello, a stampa, e lo porge
aperto a Marco.
– Ecco un elenco dei primi dieci inquisitori che operarono
a Cagliari dal 1492 al momento in cui la sede del
Santo Officio fu trasferita a Sassari.
183

– «Anno 1492», – legge Marco orientando il libro verso
la luce della finestra, – «Incepit administrari gubernum
Sancti Officii… Sancho Marin!»
– Già. Il nostro misterioso S. M. potrebbe essere lui.
Sancho Marin, Inquisitore per il Santo Officio, Vicario
Generale della diocesi di Cagliari.
E se una persona di tale potere, così vicina a corte - argomenta
Aleni - si presta a favorire un piccolo, oscuro cavaliere,
è segno che uno dei segreti che si vogliono custodire
è di portata ben ampia e tocca interessi molto in alto.
Proprio al periodo in cui si svolge il processo ad Inocencio
risale l’investitura di Vicente. Riceve dal re la corona
baronale ed il feudo della villa e del territorio di Gurtei,
insieme al diritto di ornare il proprio blasone con l’elmo
in terza, d’argento bordato in oro, con sette affibbiature.
Gurtei faceva parte di un feudo più ampio, appartenente
a parenti del re. I Ballester ne erano sempre stati amministratori,
tranne che per quella parte concessa in proprietà
allodiale ai primi Baher e che i discendenti conservavano.
– Risulta – precisa Aleni – che Vicente acquistò il feudo
dal titolare, ma documenti contemporanei dimostrano
che non se lo sarebbe potuto permettere. I piccoli cavalieri
Ballester non nuotavano per niente nell’oro: stavano
senz’altro peggio dei loro parenti Bayre, che avevano danari
e proprietà personali.
– Qualcun altro avrà pagato il prezzo.
– Certo dottore, ma per quale ragione il re aggiunse di
suo, in questa transazione, un titolo nobiliare che solitamente
veniva venduto pure a caro prezzo? La conclusione
più ovvia pare essere che Vicente otteneva il feudo ed il
titolo in cambio di un favore al re.
– Ma cosa poteva barattare con il re il piccolo Ballester?
184
Qualche informazione appresa da Inocencio sulle manovre
dell’ormai morto Alagon?
– No, non credo: ormai il re aveva avocato a sé il titolo
di Marchese di Oristano, e nessun pericolo poteva venire
alla corona da quella parte.
LLUIS
– Ma, signora, cosa poteva BAHERmai
sapere Vicente Ballester
di così enorme da avere potere di ricatto nei confronti di
un re che non teme ormai di perdere la Sardegna?
– Ottima domanda! Forse qualcosa che faceva temere il
ISABELLA re per il suo regno JOAN stesso. Regno, BEATRIU poi, che proprio BARTOLOMEO
in que-
ESQUIRRO gli anni diventava BAYRE un impero enorme: BAYRE Las Españas! BALLESTER Pensi…
– Ma a quel punto il povero frate, offerto come prova
della conoscenza di quel segreto, non poteva uscirne vivo…
L’espressione di Aleni torna a rabbuiarsi: – Forse non
aveva neanche capito il peso di ciò BARTOLOMEO che aveva gettato IIsulla
bilancia del proprio destino. Ma qualcosa, dell’orribile
trappola che gli si stava chiudendo attorno, deve averla
intuita anche lui, altrimenti non si spiega la sua tenacia nel
tacere quel nome.
– Inocencio non aveva la tempra dell’eroe: avrà capito
VICENTE
che sarebbe stato in ogni modo eliminato. ? D’ARBOREA
BALLESTER
– Povero Inocencio, la sua sorte fu segnata nel momento
in cui decise di recarsi alla casa di pietra. In questa casa,
dottore. Magari venne ricevuto in questa stanza e Vicente,
ascoltandolo, sedeva là dove siede lei in questo momento.
Si muovono per uscire, perché si va facendo buio. Marco,
passando accanto al camino, ferma nuovamente lo
sguardo sullo scudo araldico.
– Non ha detto che le due famiglie si odiavano? Allora
perché i Ballester hanno conservato lo stemma dei Baher
inquartato con il proprio?
– Se è per questo, è curioso anche che non sia avvenuto
185

il contrario: i Bayre non presero mai, nel proprio, lo stemma
dei Ballester. Ma perché, continuo a chiederle, perché
Inocencio venne qui e non andò invece dai Bayre, com’era
più logico?
Escono dalla biblioteca, ritrovandosi faccia a faccia con
i visi degli antichi Bayre e Ballester, allineati nella galleria
ormai invasa dall’ombra. I volti si scorgono appena, ma il
loro sguardo è pesante, gravato dalla pregnanza di quella
domanda.
In fondo alla galleria si intravede una porta, seminascosta
da una cortina penzolante.
– Dove conduce quell’uscita? – domanda il medico.
Aleni sporge il capo, aguzza lo sguardo, alza le spalle:
– Forse è un ripostiglio… Non so. Ci sono le mura, là
dietro.
Ma i suoi occhi hanno del tutto perso la luce di buon
umore.
186
* Vicente diventa Barone di Gurtei intorno al 1500
Anno 1494: Leonardo Alagon muore nella fortezza di Xàtiva
187

***
«… Comunque sia, questa popolazione ha le stigmate
della cronicità malarica. E poiché i prodromi delle complicanze
della malaria in fase acuta sono assai simili a
quelli della patologia isterica, mi limiterò ad un lavoro di
descrizione che, temo, avrà le manchevolezze del lavoro
di un profano che non riesce a discernere il limite tra le
due patologie.
I gravi accessi anemizzanti, che caratterizzano queste
febbri endemiche, sono responsabili, tra l’altro, di un severo
depotenziamento dell’attività sensoriale vigile, così
che questa gente è spesso preda di uno stato di stupore cerebrale
o di delirio tranquillo. Ho notato altre perturbazioni
psichiche come la melanconia, l’amnesia. I più conducono
la vita in uno stato allucinatorio simile al sogno, in
uno stato semisonnambulico, con allucinazioni continue,
visioni interiori, premonizioni, presentimenti, stati d’animo
inspiegabili, fantasticherie.
Solo raramente si verificano casi di delirio grave e di agitazione,
soprattutto quando le loro allucinazioni vengono
contraddette, quando viene negato il loro sogno, che assumono,
mi è parso, come riappropriazione del diritto alla
speranza.»
188
Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Cramu Bayre aprì gli occhi.
Un brivido lo rese consapevole del contatto, ormai gelido sulla
pelle, degli abiti intrisi del sudore distillato dai suoi incubi,
durante la tregua di sonno.
* * *
Rosita Ballester annuì, senza staccare gli occhi dal pavimento.
La carnagione del viso era segnata da chiazze rubescenti, come
fosse stata schiaffeggiata.
– Sì, – intervenne il barone, – mia nipote ammette di essere
stata tutta la giornata insieme a Cramu Bayre, quando Nassia
Bayre è stata uccisa.
Il funzionario incaricato del Veguer sollevò le sopracciglia in
una espressione di stupore che non smosse un muscolo in viso
agli uomini radunati nella stanza da ricevimento di palazzo Ballester.
Continuavano a fissarlo con una espressione che l’uomo
conosceva bene. Era sempre la stessa storia: quando qualcuno
moriva ammazzato, era dura fatica venirne a capo, perché il più
delle volte erano gli stessi parenti della vittima a tenere nascosta
la verità, per attuare una vendetta che perpetuava le faide.
– Ballester, attento, – sbottò il funzionario, forte del potere
che gli veniva dal viceré. – Se sottrai alla giustizia l’assassino di
quella donna… Dannazione, il matricidio è un delitto infamante,
anche per chi lo copre!
– Non ne so nulla.
Il funzionario fremette per qualche attimo, poi voltò le spalle
e si allontanò verso la porta. Nessuno si mosse per accompagnarlo.
– Rinchiudete questa donnaccia, – ordinò bruscamente il barone,
accennando a Rosita.
La ragazza sollevò il viso e così, restando a testa alta, si lasciò
condurre.
Il disprezzo dei suoi parenti non la feriva più. La sua mente,
189

senza che ne cercasse le tracce, era giunta alla consapevolezza
della differenza fra il peccato commesso per odio e quello commesso
per amore, agli occhi di Dio.
Ignorava quale sarebbe stato il suo destino, ma vi si incamminava,
ora, con animo più leggero.
* * *
Sotto un cielo coperto di nuvole Nassia fu condotta alla sepoltura.
La carrozza che la portava aveva il colore della notte e della
tristezza così, senza un fiore. Il cavallo, abituato a sentire mormorio
di preghiere e singhiozzi al seguito di quei suoi viaggi lenti,
annusava l’aria con le froge vibranti e gli occhi sbarrati, come
terrorizzato di condurre un morto per il quale nessuno piangeva,
nessuno pregava. Così, avrebbe fatto la strada fino all’Orto
degli Abbandonati al galoppo, se il cocchiere non l’avesse tenuto
a freno, faticando non poco per costringerlo a incedere con la
consueta dignitosa lentezza.
Così la carrozza procedeva a scatti, sopra una fiumana di foglie
morte, tra le raffiche di vento che ne frustavano i fianchi.
Se Nassia si fosse svegliata un istante, avrebbe potuto pensare
che quel fruscio fosse prodotto dai passi di tutte le donne che
aveva aiutato a partorire, dei loro uomini e dei loro figli che l’accompagnavano.
Avrebbe potuto, per quell’attimo solo, pensare
che tra tutti quei passi ci fosse anche quello di Cramu, il suo
bambino dal cuore chiuso come un riccio di castagno, diventato
adulto senza sentire mai l’unica voce che avrebbe potuto
schiuderglielo.
Ma nessuno aveva accompagnato Nassia al suo ultimo riposo:
tutti temevano Su Bocimama.
Lui, Cramu Il Matricida, si era chiuso in casa. Il suo spirito si
disfaceva come una foglia marcia, roso da dolori e rimorsi che,
per non averli ammessi neanche con sé stesso si erano incruditi
e fatti più tormentosi.
Là, tra i mobili spagnoli e gli altri resti della passata potenza,
cercò di convincersi che il suo orgoglio poteva ancora sostenerlo.
190
Ma quando calò il crepuscolo, cancellando i contorni degli
oggetti e mutandone le forme, troppi fantasmi cominciarono a
farglisi incontro dall’oscurità, perché potesse ancora crederlo.
Rosita tamponò alla meglio la ferita al polso. Poi, dopo aver
tolto i resti del vetro rimasti incastrati nello stucco, si infilò nella
finestra.
Cadde nel vicolo, con un tonfo che nessuno sentì.
Cramu, assediato dai fantasmi, si sorprese a parlare con l’unico
che non gli appariva. Ricordò a sua madre certe sere d’autunno,
profumate come quella, quando lei preparava le castagne
per arrostirle al camino e, mentre cuocevano, confezionava
per lui pupazzi di stracci.
Perché ora, nel ricordo, quei momenti gli parevano così dolci?
Lo domandava a lei, ma erano altri i fantasmi che rispondevano,
beffardi.
Rosita correva, per raggiungere Cramu prima dei suoi cugini
e della morte. Continuò a correre nel buio, finché non trovò la
porta del cortile di casa Bayre. La sospinse accorgendosi che era
aperta.
Si diresse subito verso la sala grande: il suo istinto ed il suo
amore le dicevano che Cramu era là.
Là lo trovò, infatti.
Oscillava, appeso ad una corda frettolosamente annodata. Ai
suoi piedi uno sgabello rovesciato.
Rosita non urlò: sentì lo stomaco strappare, gettarle in gola
un fiotto di bile e, cadendo in ginocchio, si domandò perché anche
la pietà dovesse avere un sapore così amaro.
Dall’altro lato della sala, l’ombra di Cramu, proiettata dalle
fiamme del camino, oscillava da uno all’altro dei due grandi alberi
genealogici dipinti a guazzo sulla parete, sfiorando con i
piedi l’intreccio delle loro radici.
Qualche anno dopo, Grazia Concas gettava sulla bara di Nassia
Bayre, attraverso la grata della cappella, un libro di preghiere
sul quale aveva scritto queste parole:
«Che Dio ci perdoni, Nassia. Abbiamo sbagliato a sfidare il
191

destino. Il sangue dei Bayre comincia a prevalere in lui. Non
posso far altro che portarlo lontano da Gurtei. Che la Vergine
degli Abbandonati mi aiuti.»
* * *
Nell’archivio della famiglia Ballester è conservata una lettera
del cappellano dell’ospedale di Sant’Antonio di Cagliari.
In quel documento si comunicava che una donna di nome
Rosita, di cui non si era mai saputo il cognome, era deceduta
presso quell’ospedale, consumata dalla sifilide.
Prima di morire aveva pregato il sacerdote di dare notizia della
sua morte ai baroni di Gurtei presso i quali - pareva al sacerdote
di aver capito - la donna aveva lavorato come serva, prima
di volgere il passo alla mala strada della prostituzione.
Lo scrivente aggiungeva che la donna era morta con il conforto
dei sacramenti, chiedendo perdono per i suoi peccati e perdonando
coloro che le avevano fatto del male, compreso l’unico
uomo che avesse amato.
192
XI
Gurtei 1867 - Casaforte Ballester
Quando raggiunge Aleni nella biblioteca della casaforte,
Marco la trova alla scrivania. Lo accoglie stringendogli
entrambe le mani, ma lo sguardo di lui è sfuggente.
– Qualcosa non va?
– Va tutto bene, a parte che mi sono annoiato a morte,
lontano dalle sue scartoffie. Un esilio di tre giorni…
– Le è sembrato tanto? Le ho chiesto di non venire perché
qui c’era solo baraonda e polvere: Larentu ha portato
una scala ed ha tirato giù una quantità di cose interessanti
dal palco là in alto. E poi, volevo che potesse decidere in assoluta
libertà se accettare o meno l’offerta dei Refundana.
– Al diavolo i Refundana.
L’imprecazione, proferita con tono assolutamente pacato,
fa sorridere Aleni.
– Ma si accomodi ora, ho delle cose urgenti da riferirle.
– Con un gesto indica i libri e le carte sparsi sullo scrittoio
e su alcune sedie. – Le abbiamo tirate giù da là sopra, perché
sul legno del palco abbiamo trovato tracce del passaggio
di Raimundo.
Si accorge che Marco non capisce.
– Raimundo aveva sempre con sé un temperino, legato
ad un polso, ed ha lasciato tracce di sé ovunque è andato,
con quella lama. Era una sua fissazione: grafomane, come
193

tutti i suoi avi. Questo libro, per esempio, lo ha avuto certamente
anche lui, tra le mani, perché c’è una sua annotazione.
Toglie dal mucchio un volume di piccolo formato e lo
porge a Marco.
La coperta non riporta nessuna intitolatura. Il medico la
solleva con precauzione e sotto i suoi occhi appaiono dei
caratteri a stampa, antichi e sbavati, che formano un nome
ed una data: Joannes Nigidius Heussburgus, 1506.
– Gli Arcana Silenda! – esclama incredulo. – Ma, se Inocencio
è morto nel 1495, questa è una copia più tarda di
quella che lui consultò in casa del suo amico di Oristano.
– Vicente Ballester deve averlo cercato subito, ma con
cautela: era un libro considerato eretico, e lui certo si rendeva
conto di rischiare parecchio. Comunque sia, riuscì a
procurarselo. Ho trascorso molte ore della notte scorsa a
leggerlo: purtroppo il latino che mi ha insegnato il Notaio
mi permette di arrivare appena a capire il senso delle frasi.
Ma tanto basta: credo di aver trovato il passo cui faceva
cenno Inocencio.
Cercando nella confusione delle carte, trova il foglio sul
quale ha annotato la traduzione. Poi indica il segnalibro
che pende dal volumetto:
– Prenda a quella pagina, al secondo capoverso: Somnio
portenditur arbitrium… «Il sogno significa dominio illimitato
sulle cose che accadono, poiché chi possiede i simboli
possiede per forza di magia la realtà.
Tra questi simboli il maggiore è l’albero capovolto, che
significa il sogno stesso.
Poiché le radici sono ciò che dell’albero si estende nel
mondo sotterraneo delle ombre, se esse vengono messe alla
luce le ombre ed i sogni prendono il sopravvento sulla
realtà.
Ma gli uomini che non hanno sogni sono perduti per la
libertà, e gli uomini che vegliano sono perduti per il sogno.
194
Coloro che sognano, quanto più forte sogneranno più saranno
liberi e maggiormente si riscatteranno.»
– Perché pensa che sia questo il brano che Inocencio gli
citò?
– Quanto più forte sogneranno, più saranno liberi… Forse
il sogno di Inocencio, lo stesso di Leonardo Alagon, era
quello di una Sardegna libera, una volta restaurata la potenza
della casata di Arborea. Il fraticello credeva veramente
che l’albero capovolto, il sogno e la speranza fossero
la stessa cosa, e cercò quell’insegna. Vicente, invece, fu
colpito da qualcos’altro, tanto da sentirsi spinto a procurarsi
il libro. Magari dalle ultime frasi.
Marco solleva lo sguardo. – Perché?
– Non capisce? Più forte era il motto dei Ballester! Non
ha visto, in giro per il paese, i conci con l’albero capovolto?
Qualcuno, nonostante i guasti del tempo, mostra ancora
il motto di Joan Baher, che era MAGNA VIS. Fu Vicente
a scegliere di adottarlo in lingua catalana, modificando
leggermente il senso: Més fort che poi, in spagnolo, divenne
Más fuerte.
– Pensa che Vicente lo abbia scelto dopo aver letto questo
brano?
– Sì, anche se non saprei dirle perché. Forse fu colpito
dalla seconda parte dell’affermazione di Nigidius: maggiormente
si riscatteranno. Secondo me la coscienza di essere
di animo così contorto, oppure qualche colpa antica a
lungo nascosta rodeva le coscienze dei Bayre e dei Ballester.
– Magari, per Vicente, era il rimorso di aver mandato ad
una morte così atroce un fraticello innocente.
– Rammarico, più che rimorso, direi… – afferma concisamente
Aleni, agitando l’indice.
Rovista ancora sulla scrivania e appare gongolante, come
rovistasse in un mucchio di tesori.
– Eccola qua: si tratta della minuta di una lettera che
195

non riporta né il mittente né il destinatario, ma alla luce di
ciò che sappiamo, non sono necessari. Il destinatario forse
distrusse l’originale, ma il mittente, per educazione ancor
prima che per abitudine, aveva già allegato all’archivio
di famiglia la copia. Lei - perché di una donna si tratta
- proveniva da una famiglia che, vedendo distrutto ogni
ricordo della sua esistenza passata, della sua passata gloria
e del suo potere, riteneva quasi vitale lasciare traccia duratura
di sé e di ogni suo atto, come a riacquistare diritto all’esistenza.
– La moglie di Vicente?
– Bravo. L’anonima discendente della casata d’Arborea,
parente quindi anche di Leonardo Alagon, che Vicente
aveva sposato. Scrive da Gurtei al marito, che era momentaneamente
assente, forse addirittura in Spagna a ricevere
l’investitura del feudo. Le risparmio i preamboli ed ecco il
testo della lettera, espressione di una grande ira seguita
certo ad una altrettanto grande disillusione:
«Abbattute le armi palate, spento il sangue reale e trucidato
chi gli diede vita. Avete di che essere fiero ed il sovrano
della stirpe castigliana di Trastamara dormirà sonni
tranquilli dopo lo scampato pericolo. Ma voi? La morte
dell’ultimo della stirpe dei conti-re per la morte di un frate!
Un prezzo troppo alto e un ben misero guadagno se
poi il segreto di cui tanto temevate la divulgazione, insieme
a quello del tesoro del mio avo Ugone d’Arborea, che
mi apparteneva di diritto, furono confidati ad un altro che
seppe approfittarne. Infatti mi duole assai comunicarvi
che, fatte le ricerche da voi ordinate, non si trovò traccia
alcuna del tesoro!
Foste stolto. Bene avreste fatto a barattare con re Ferdinando
un nome sbagliato, lasciando in vita colui che poteva
aiutarvi a conquistare un regno e colui che poteva investirvene.
Li avete denunciati entrambi, invece, mandandoli
a morte in cambio di un tesoro già trafugato, della
196
protezione di sbirri sanguinari e di una nobiltà che vi rende
signore di questo lembo sperduto di mondo. Voi, che
vantate di discendere da tale schiatta da non esisterne di
più nobile! Vi accontentate di vedere, dinanzi alla vostra
insignificante corona baronale, il disappunto dei vostri
parenti Bayre che vi chiamano bastardo, affermando che
nelle loro vene, più che nelle vostre, scorre il sangue dei
Re Perduti.»
– Bene, dottore, qualche risposta cominciamo ad averla,
non le pare? E se Leonardo Alagon avesse confidato a
Inocencio che in Sardegna viveva un discendente di Martino
il Giovane?
Marco risponde a quella domanda con un sorriso: – Potrei
essere d’accordo, se solo sapessi chi era Martino il
Giovane!
Aleni sorride: – Le racconto.
Martino il Giovane Re di Sicilia, figlio di Martino il Vecchio,
re d’Aragona e conte di Barcellona, ultimo della stirpe
catalano-aragonese. Venne in Sardegna per volgere in
favore della corona aragonese i torbidi seguiti alla morte,
senza eredi diretti, del giudice Mariano V.
Dopo aver vinto nel 1409 la battaglia di Sanluri, si ritirò
a Cagliari già con i sintomi, pare, della febbre malarica.
Per di più, certi cavalieri gli condussero una bellissima
fanciulla, presa prigioniera a Sanluri. Con lei Martino
consumò le già scarse energie, offrendosi inerme alle terribili
febbri che in dieci giorni lo uccisero.
Il padre lo seguì nella tomba ad appena un anno di distanza.
In questo periodo non fece che cercare disperatamente
di accertare una discendenza almeno illegittima del
figlio, per dare un futuro alla dinastia.
Si occupò anche del figlio naturale di Martino che sarebbe
dovuto nascere dalla ragazza di Sanluri, ultima
197

amante dello sfortunato re di Sicilia, disponendo che, alla
nascita, fosse portato a Barcellona e allevato a spese della
corona. Ma dopo la sua morte, la bella di Sanluri fu completamente
dimenticata, e non si è mai saputo se il figlio
sia effettivamente nato. La dinastia dei conti-re era finita:
dopo il Compromesso di Caspe, la corona passò alla dinastia
castigliana di Trastamara.
Molti affermano che il figlio di Martino nacque.
– Fu questo, allora, che Leonardo confidò a Inocencio.
– Questo. Quando Inocencio ricevette questa confidenza,
Cristoforo Colombo aveva da poco scoperto l’America.
Ricchezze enormi erano in ballo. Gli echi della
guerra civile non si erano ancora spenti e la casa d’Aragona
aveva ancora molti sostenitori in Spagna. Se un discendente
di Martino fosse spuntato in quel momento,
sarebbe stato un bel problema per re Ferdinando.
– Ma nella lettera della moglie di Vicente si parla anche
di un tesoro.
– Sì, il tesoro del Giudice Ugone d’Arborea, a lungo cercato
dopo la sua tragica morte. Entrambe le cose erano nei
disegni - o forse dovrei dire nei sogni - di Leonardo: due
mezzi per restaurare la gloria della casata d’Arborea. Leonardo
conosceva l’erede di Martino e, chissà in quale maniera,
il nascondiglio del tesoro di Ugone. Con quest’ultimo
intendeva finanziare la riscossa dell’erede dei conti-re.
Reinsediato nel suo regno - il regno usurpato dalla casa di
Trastamara - questo avrebbe reso libera la Sardegna in mano
a colui che lo aveva aiutato nell’impresa. Magari erano
già intercorsi accordi in questo senso, prima che Leonardo
fosse sconfitto e tratto in prigionia.
– Inocencio si sarà chiesto chi poteva ora realizzare quel
sogno. Chi se non uno che portava nelle insegne il simbolo
del sogno e quindi della libertà e, insieme, aveva unito il
sangue con una discendente d’Arborea?
198
– Ecco perché andò da Vicente! Sperava di convincerlo
a portare avanti il progetto di Leonardo…
– Dev’essere andata così. Ma Vicente era un vigliacco.
Tacendo del tesoro, vendette a Re Ferdinando la vita del
legittimo erede della corona d’Aragona. In cambio ebbe
una corona baronale, un feudo insignificante e la vita di
Inocencio, che conosceva un segreto che lo riguardava,
qualunque esso fosse.
– Ma c’è una cosa che mi ha colpito, – osserva Marco. –
Per ben due volte nella lettera viene detto che lo stesso Vicente,
ed i suoi parenti Bayre, sono di stirpe reale, del sangue
dei Re Perduti…
– Ho trovato molto spesso cenni a questo sangue reale,
nei carteggi. I Ballester non hanno storia finché non si
uniscono ai Bayre. Ma ci sono sempre indicazioni molto
vaghe sull’ascendenza dei Baher. In quanto ai Re Perduti,
non so chi siano. La nostra ignoranza della storia è ancora
tanto grande, che per raccontarle queste cose ho dovuto
passare due giorni interi tra i libri del Notaio!
– Ma ciò che abbiamo guadagnato in conoscenza, a cosa
ci serve per prendere l’assassino di Raimundo e per salvare
la vita di Cristina e Arega?
Aleni gli risponde con un sospiro rauco.
– Guardi l’ultima pagina degli Arcana Silenda, c’è
un’annotazione scritta a mano: la grafia è di Raimundo, ne
sono certa.
Marco obbedisce, leggendo a voce alta e poi traducendo:
– Arcana radix luxuriae silenda tuerit. La radice della
lussuria custodisce i segreti che devono tacersi. Ma… è
una frase senza senso!
Aleni solleva gli omeri in un gesto di impotenza.
– Se non significa nulla, perché Raimundo si è preso la
briga di scriverla?
Marco scuote il capo, enumerando sulle dita:
199

– L’esistenza di un erede di Martino il giovane era un segreto
che non riguardava la famiglia, quindi Vicente lo
barattò con il feudo. Ma, a dare retta all’anonimo poeta, ci
sono tre segreti ed un tesoro che riguardano la famiglia
Ballester.
– Il tesoro non può essere quello di Ugone, perché fu
trafugato.
– Così almeno dice la moglie di Vicente. Ma i tre segreti?
Raimundo doveva averne scoperti almeno due, se parla
di arcana, al plurale… A meno che non si riferisca al titolo
del libro di Nigidius, il che…
– Il che ci riporta al punto di partenza.
Con un gesto scoraggiato Marco si avvicina ai palchi e
cerca di decifrare i segni che Aleni gli ha indicato all’inizio
del colloquio: sono tagli frettolosi, imprecisi. Afferra la
lampada e la solleva: la luce evidenzia un rozzo disegno.
– È la testa di un cane, – mormora Aleni avvicinandosi.
– … O di un lupo.
* * *
Mentre viene servita la cena, Marco non riesce a distogliere
lo sguardo da Marta.
Invece di sciupare la sua bellezza, lo sguardo assente la
rende solo distante. È davvero come in un altro mondo, là
solo con il corpo, mentre tutto il resto di lei si è allontanato.
Larentu se ne occupa con una sollecitudine della quale
la ragazza non dà segno di accorgersi. Ma è una sollecitudine
gelosa, che non tollera sguardi, così Marco, si rivolge
ad Aleni.
– Arega possiede il libro di preghiere che fu gettato sulla
bara di Nassia.
Lei trasale e resta con la posata a mezz’aria.
– E lei come lo sa?
200
– Me lo ha detto Cristina Pagani. Raimundo, poco prima
di morire, diede il libro di preghiere ad Arega dicendole
che c’era scritta la condanna dei Ballester. Arega
però non sa leggere, quindi si è rivolta alla maestra, della
quale evidentemente si fida. C’era, a quanto pare, una annotazione
manoscritta.
– Ma perché Raimundo lo ha dato a lei… E l’annotazione,
di che tenore è?
– Non lo so: Cristina Pagani non lo ha detto.
Larentu smette di imboccare Marta e si volta. Resta a
guardarli qualche attimo, come indeciso, poi parla: – Io so
cosa c’è scritto. Quel libro Don Raimundo lo prese a me.
Quando lo prese in casa, decenne, Aleni rideva di Larentu
per la sua abitudine di andare in giro con le tasche
colme di ogni sorta di piccoli oggetti che scovava rovistando
in ogni angolo della casa: chiodi, bottoni, pezzi di corda,
sapone e quant’altro la sua fantasia gli suggeriva come
degno di essere collezionato.
Qualche tempo dopo, nel periodo in cui Aleni gli insegnava
a leggere, un nuovo gioco cominciò ad affascinarlo:
sfidare il terrore che gli incutevano le stanze disabitate della
casaforte, piene di echi di vita passata che non si udivano
solo, ma si percepivano nel naso e sotto i polpastrelli.
Così, spingendo le sue esplorazioni sempre più all’interno,
un giorno penetrò in una camera da letto dell’ala occidentale.
Quella camera era stata abitata per l’ultima volta
nel settecento, dalla sorella di uno dei baroni Ballester. In
paese si diceva che là, ogni notte da più di cento anni, Dona
Inés stringesse in amplessi appassionati il prete che l’aveva
sedotta e che, poco prima dell’alba, lo facesse impiccare
ad una finestra della facciata.
In quella camera c’era un comodino, seminascosto dal
drappo amaranto che pendeva dal baldacchino, accasciato
da un lato dell’alcova. In fondo a quel comodino La-
201

entu scovò il libro di preghiere, lo prese, e lo usò per
esercitarsi a riconoscere le lettere che Aleni gli aveva insegnato.
Per anni restò un segreto mai rivelato. Le parole di quel
libro, di cui non capiva il significato, glielo facevano ritenere
ancora più prezioso, come fossero formule magiche
così simili, nel suono, a quelle che la domenica usava in
chiesa il prete, per parlare con Dio.
Le uniche di cui capiva il senso erano le altre, quelle vergate
a penna in sardo commisto a catalano, e che aveva
imparato, a furia di esercizio, a memoria.
Un giorno Raimundo, appena tornato da Torino con la
giovanissima moglie, lo sorprese in un sottoscala a leggere,
speditamente ormai, nel suo prezioso libro. Per farsi due
risate glielo aveva preso e aveva letto la parte manoscritta.
Ma glielo restituì subito accorgendosi che Larentu, fattosi
ormai un ragazzo, accoglieva male il suo scherzo.
Qualche tempo dopo, però, Raimundo lo fece chiamare
e gli imbastì un discorso con voce burbera: lui era Don
Ballester, il barone, padrone di quella casa e di tutto quanto
c’era dentro. Che gli consegnasse il libro di preghiere,
dunque, perché apparteneva alla famiglia. Inoltre, pretese
che gli spiegasse bene dove lo aveva trovato, e gli fece giurare
che non ne avrebbe fatto parola con nessuno.
Facendo quel discorso, Raimundo teneva in mano un
nerbo di bue: Larentu dovette obbedire.
– Ma non apparteneva alla famiglia: il nome scritto nella
prima pagina era Grazia Concas, la suocera di Maria Ballester,
– conclude Larentu con voce inasprita dal ricordo
della prevaricazione subita.
Aleni, dimentica della cena che si fredda nel piatto, gli
chiede cosa ci fosse scritto nell’annotazione a penna e lui
risponde, compitando a memoria le frasi.
Marco riconosce il nome di Nassia Bayre, e viene col-
pito da una frase: il sangue dei Bayre comincia a prevalere
in lui…
– Allora il bimbo di Maria era veramente figlio di Cramu
Bayre, – osserva.
– Solo così si spiegano le parole di Grazia Concas. Deve
essere stata lei stessa a gettare il libro di preghiere sulla bara
di Nassia. Nella caduta un foglio si deve essere staccato,
scivolando tra il sarcofago ed il muro.
– Ma chi ha preso il libro di preghiere dalla cripta?
– L’unico che poteva farlo: prete Gracián. Seppellita
Nassia e morto Cramu, dei Bayre non era rimasto nessuno.
Nessuno scese più là sotto: i Ballester avevano la loro
cappella nel camposanto nuovo.
– Se Larentu l’ha trovato nella camera di Dona Inés, fu
dunque prete Gracián a darlo a lei.
Aleni fa una smorfia curiosa, con le labbra.
– Non… propriamente di sua volontà, temo. La voce di
quel prete, nella casaforte, è soltanto un lamento che non
racconta nulla. Ma io mi sono fatta una certa idea sulla sua
morte.
203

204
Gurtei 1995
XII
Liperi ferma l’auto in vista della casaforte e aiuta Margherita
a scendere.
Il tempo è nuvolo e la vegetazione che cresce abbondante
sopra e intorno alle rovine, si piega al vento.
– Il primo accostamento, – comincia Michele, – mi venne
fatto di intuirlo quando, per caso, mi caddero sott’occhio
alcune immagini della reggia aragonese di Perpignano:
le finestre sono simili a queste – aggiunge, indicando
gli architravi polilobati.
– Ora, Perpignano si trova in una zona che in passato
era chiamata Gothia perché vi si stanziarono anche i visigoti
di Ataulfo, che lasciavano l’Italia dopo il sacco di Roma
e la morte di Alarico. Siamo intorno al 415.
Liperi è nervoso. Margherita pare bersi ogni parola di
ciò che Michele Spano dice, ma Liperi continua a non capire
come Alarico, Perpignano e quant’altro, possano entrarci
con le loro faccende.
205

Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Inés Ballester era molto bella ed era vedova da poco: suo marito
era morto di vaiolo.
Il contagio aveva quasi sterminato anche la famiglia del barone,
suo fratello: era rimasta in vita solo la figlia di lui Miguela.
Per quella bimba, visto che non erano sopravvissuti eredi maschi,
Inés aveva chiesto al re il riconoscimento del titolo e dell’eredità
paterna.
Per ringraziamento della scampata malattia, e forse perché in
lei permanevano resti di odio nei confronti degli estinti Bayre,
Dona Inés commissionò la pavimentazione nuova per la chiesa
degli Abbandonati, che avrebbe cancellato l’entrata alla loro
cripta.
Ma prete Gracián discese in quella cripta prima che fosse sigillata.
Canonico con cura d’anime, avvenente, ricco di suo, era stato
mandato a Gurtei da uno zio cardinale che, intanto che lavorava
a preparargli una veloce ascesa nella carriera ecclesiastica,
voleva tenerlo al sicuro in un luogo tranquillo, lontano dai pericoli
e dalle gelosie dell’ambiente cagliaritano.
Chissà quale attrazione o curiosità spinse prete Gracián a
scendere tra quei morti. Fatto sta che trovò il libro di preghiere
e, ispirato da una torbida inclinazione, credette utile portarselo
via.
Quello che ci trovò scritto dovette fargli nascere qualche idea
pericolosa, in seguito alla quale si ritrovò a penzolare dal muro
scarpato della casaforte.
Inés dovette andare in Spagna, a discolparsi davanti al re di
quel delitto. Disse che il sacerdote aveva tentato di sedurla e di
usarle violenza: fu creduta e reintegrata nei suoi beni, ma non fu
più la stessa, e scelse di finire i suoi giorni in convento.
La versione dei fatti che rese Inés poteva non essere del tutto
menzognera: solo un grave affronto poteva averla indotta a reagire
in quel modo, ostentando il suo delitto e mettendosi contro
206
il potere della Chiesa in un momento in cui questo poteva significare,
per la famiglia Ballester, la perdita del feudo e del titolo.
Forse prete Gracián cercò di ricattarla, con qualcosa che aveva
appreso dalle parole scritte nel libro di preghiere e pretese,
quale prezzo del ricatto, i suoi favori.
I favori di una dama della sua schiatta! E non implorati come
SANCHO BALLESTER
una grazia o strappati con la forza della passione, come lei
avrebbe forse desiderato, ma imposti come prezzo di una transazione,
come un meretricio!
Inés si sentì ribollire il sangue, ma dovette cedere, aprire la
sua camera da letto al canonico, lasciare che si prendesse, magari
assecondandolo, quello che voleva, facendogli perdere la testa
e
BARONE
la prudenza.
?
INÉS
morto di vaiolo nel 1747
BALLESTER
Prete Gracián dovette essere abbagliato da tanta buona sorte.
Cominciò a fidarsi di lei, sentendo sincera la passione con la
quale gli si dava.
Ma il canonico, per sua sfortuna, JUANNI non conosceva la doppiezza
del cuore MIGUELA
dei Ballester, non sapeva quanto MASSApotessero
amare sinceramente
predisponendo, nel contempo, la rovina dell’amato.
Perciò non si insospettì quando Inés lo indusse, con chissà quali
lusinghe, a cedere il libro di preghiere.
Quando Inés lo ebbe tra le mani, la sorte del sacerdote fu segnata.
207

Gurtei 1867 - Casaforte Ballester
– Ma cosa c’è nelle parole di Grazia Concas che potesse
indurre Inés ad un delitto così pericoloso?
– È chiaro. Grazia confessava, in quelle parole, che il
bambino allevato dai Concas era in realtà figlio di Cramu
Bayre. Capisce? Un erede di Cramu, quindi, poteva essere
in vita ancora e, se fosse venuto a conoscenza della sua
ascendenza, poteva reclamare l’eredità dei Bayre passata,
nel frattempo, ai loro parenti Ballester. Inés non poteva
permetterlo. Per questo, e per altre più personali ragioni,
reagì in quella maniera quando prete Gracián la ricattò
minacciando di rivelare pubblicamente ciò che aveva appreso
dal libro di preghiere.
– Una volta ucciso il prete, Inés dovette pensare che in
casa Ballester ogni nascondiglio era buono, per quel segreto.
– Sì. Ma quello che ci interessa è che forse ancora oggi è
in vita un discendente di Cramu Bayre e di Maria Ballester,
– concluse amaramente Aleni. – E bisogna trovarlo.
– Per impedire che nuoccia…
– O che gli venga fatto del male. Dottore, non tutti i Ballester
sono stati dei mostri. Ricorda quel ritratto proprio
di fronte alla porta della biblioteca: quella donna dai lineamenti
dolci? Quella era la nonna di mio marito e, per
quanto non credo che fosse indenne da una misura di follia,
forse nelle sue vene il sangue scorreva, per qualche miracolo,
purificato. La chiamavano Sa Strupiada, ma il suo
nome era Miguela, ed era figlia del barone fratello di Donna
Inés Ballester.
208
209

Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Quel sogno, ancora.
Il vento, la luce di un’alba soffocata, all’orizzonte, da nuvolaglia
rappresa. Incombente sul sentiero in salita: il leccio del muricciolo,
con i rami contorti protesi tutti nella stessa direzione,
annodati al flusso della brezza di maestrale.
Dall’oscurità, emerge una mano con le dita intinte di cenere…
Miguela Ballester sollevò le palpebre, risalendo a galla dal
sonno con la solita pena, con il solito stupore del risveglio.
Dove si trovava?
Cercò a lungo di schiarirsi lo sguardo, ma c’erano sempre tante
tracce di oscurità in quella casa, filacce lasciate dalle ore più
buie che né il lucore dell’alba, né la luce del giorno riuscivano a
dissipare del tutto. Quei residui di tenebra indugiavano in alto,
negli angoli del soffitto cassettonato, dietro le cortine di velluto,
tra i mobili e il muro.
Rannicchiate in quei nidi, farfalle nere la osservavano.
Miguela cercava di non guardarle, ma sapeva che erano là,
quelle ali vibranti, a covare l’attesa.
Oh, si era addormentata con il lavoro in grembo!
Adesso ricordava: quel pomeriggio aveva ricevuto la visita del
funzionario Musso, incaricato della Regia Governazione per il
paese di Gurtei.
Dinanzi all’accoglienza di lei, indifferente più che scortese,
Musso era rimasto qualche minuto a corrugare le labbra tumide,
poi aveva allargato le braccia, scoraggiato.
– Baronessa, io vi ho avvertita: peggio per voi.
– Ma che volete che mi facciano, che volete che mi portino via
se in questa casa, con tutti i suoi velluti, manca il pane più spesso
che nelle loro? Se non ci fossero i miei cognati, tornerei a nutrirmi
di pane di ghiande e argilla, perché i debiti del mio defunto
marito si mangeranno tutte le rendite per molti anni ancora.
– Sì, lo so, ma il vostro è un nome ancora odiato, da queste
210
parti. I privilegi feudali… In buona sostanza, la vostra famiglia,
qui, è straniera e straniera resta, anche dopo centinaia di anni.
Anche ora che il re non è più spagnolo! Da tutti i paesi giunge
notizia di sollevazioni ed io ho solo due dragoni!
Musso aveva fatto un passo avanti, diventando rosso in viso
ed agitando in aria l’indice. Miguela lo ascoltava sollevando gli
zigomi e strizzando gli occhi, come una bambina rimproverata.
– … Ed ho la responsabilità dell’ordine pubblico! Quella testa
calda di Miali Urru, insieme a qualche compare par suo, non
fa che parlare della rivoluzione dei francesi e…
Miguela, con un sospiro, cercò di calmarlo:
– Non accadrà nulla…
– Si vedrà! Si vedrà… – e se ne era andato furibondo.
Mentre il funzionario Musso si allontanava, il cielo si era fatto
plumbeo di nuvole, accostate dalle intermittenti folate di vento.
Cominciava a piovere e Miguela, per non accendere la lampada
così presto, era andata a sedersi in uno dei fastijador, i sedili
di pietra nel vano della finestra. Le mani danzavano intorno alla
trina, guidando i guizzi dell’uncinetto, ma lo sguardo si era assorto
sullo scorrere ininterrotto dell’acqua sui vetri.
Per stemperare la malinconia, aveva immaginato di sentire il
tintinnio dei campanacci delle greggi ritornanti, che sempre allontanava
il terrore degli incubi.
Altre volte, a respingere i fantasmi nel loro confino d’ombra
era l’acutezza dei profumi che la rugiada serotina raffinava nell’aria:
il fumo dei comignoli, l’aroma di vinacce e di zolle rivoltate
di fresco.
Allora, in quei momenti, Miguela si sentiva riconciliata.
Mescolandosi a quei pensieri, immagini di sogni avevano preso
a sciabordare contro la riva della sua coscienza come risacca
lenta, via via più stanca, finché le erano calate le palpebre sugli
occhi.
L’avevano risvegliata grida di ragazzini.
– Ragazzi, non avvicinatevi alla casa di Cramu Bayre l’Assassino,
– raccomandava la madre di Jacu. – Tra quelle rovine ci sono
i fantasmi!
Nonostante l’avvertimento di Errita, che li teneva svegli la
notte, il desiderio dei ragazzi di entrare nella casa abbandonata
211

stava diventando una fissazione e quella sera, seduti accanto al
camino, si bisbigliarono all’orecchio la decisione di andare.
Trascorrendo, il temporale lasciava il passo ad un crepuscolo
pervaso da sentori di foglie e terra bagnata.
La testa riccioluta di Jacu fece capolino dallo spigolo dell’arco,
incurante dell’acqua che s’erba ’e bentu aggrappata alle pietre,
gli gocciolava addosso.
I compagni, accosciati poco indietro, aspettavano un suo ordine,
per seguirlo verso i muri diroccati.
Miguela, togliendo la trina dal grembo, si levò a mezzo dal sedile
di pietra per avvicinare meglio il viso ai vetri.
Ragazzi. Ragazzi nella casa di tziu Cramu.
Sospirò, abbandonando il sedile e zoppicando qualche passo,
faticosamente.
Era ancora stordita dal sonno e le pietre di quella casa, ormai,
pesavano sopra ogni suo atto, sopra ogni pensiero. Una vertigine
la costrinse a cercare sostegno nella mensola del camino, poi
si riscosse e, sempre zoppicando, andò verso la porta.
Solo Jacu ebbe il coraggio di entrare in casa di Cramu Bayre
Su Bocimama. Gli altri rimasero fuori, nel cortile dove cominciava
a far buio, lanciando occhiate impaurite a quei muri, ridotti
a pietra viva dal tempo e dalle intemperie, tra i quali era
buio da molto.
Passo dopo passo, schivando le pozzanghere in cui gocciolavano
gli ultimi resti di pioggia, penetrati tra calcine e travi sconnesse,
Jacu avanzava.
Teneva alta la lanterna che gli tremava in mano, facendo guizzare
le ombre.
Nelle ultime stanze, quelle che mostravano alla strada principale
finestre sbarrate con travi di legno, si indovinavano ancora
le forme degli arredi che erano stati rimossi. Quelli che ancora
si trovavano al loro posto si erano ridotti a vecchie cose sgangherate,
fra le tende strappate ed i calcinacci caduti dal soffitto.
Un pavimento a mosaico, che mostrava un grande scudo
identico a quelli che si vedevano in tutti i cantoni del paese, ma
pieno di iscrizioni nere, tessera a tessera si disfaceva.
212
Ansimando, Miguela si appoggiò alle pietre dell’arco, per riprendere
fiato: l’orlo della gonna, appesantito dall’acqua, le
aveva reso ancora più difficoltoso il cammino, legandole il passo
claudicante.
Colti alla sprovvista da quell’ombra oscillante, i ragazzi fuggirono
a scapicollo, come uno stormo di passeri inseguito dal
tuono.
Jacu giunse alla stanza da ricevimento: là, dicevano, si era impiccato
Cramu.
D’un tratto, la luce della lanterna colpì qualcosa che attirò la
sua attenzione: una pittura a guazzo, realizzata su una intera parete,
contro la quale il tempo si era accanito abbrunando i colori,
gonfiando e spaccando l’intonaco. Ritraeva due alberi e le radici
dell’uno erano strettamente annodate a quelle dell’altro.
Sui rami, spogli e allargati, erano posate una quantità di farfalle
nere con le ali aperte, come pronte a spiccare il volo. In un’ala
portavano scritto un nome, nell’altra il cognome; un albero era
per la famiglia Ballester, l’altro per la famiglia Bayre. Altre farfalle,
bianche, circondavano i due alberi.
Mani che erano polvere ormai da tanto tempo avevano, via
via, aggiunto farfalle e nomi.
La paura gli mordeva le viscere, ma quegli alberi dipinti da
tanti anni, da secoli ormai, nascosti nel buio di quella casa, lo affascinavano.
In alto, vicino all’ultimo ramo, una farfalla bianca aveva qualcosa
di familiare. Si accostò, sollevò la lanterna e lesse: Juanni
Massa 1750-1780… Suo zio Juanni! Accanto, sul ramo, la farfalla
nera portava nome e cognome della baronessa Miguela
Ballester.
Miguela La Storpia!
– Sì, sono tua zia, Jacu Massa. Ho sposato tuo zio Juanni,
buonanima.
La lanterna, impazzita nella giravolta di Jacu, non mostrava
altro che ombre lunghe e guizzanti. Una, più nera delle altre,
era appoggiata all’anta della porta e la sua voce penetrava, rotta,
tra gli echi del grido di Jacu:
– Non avere paura di me. Se avessi avuto figli, avrebbero portato
anche il tuo cognome…
213

Ma il ragazzo non la ascoltava.
La sfiorò, gettandosi all’impazzata nel corridoio. Già i passi
rimbombavano lontani, in fondo alla casa, spegnendosi insieme
alla luce che si erano portati via.
Miguela restò nel buio a rabbrividire per il brusio minaccioso
delle farfalle.
Quel nomignolo era stato il marito a darglielo, ridendo con
gli amici alle spalle di quella moglie dal viso bellissimo.
– Sì, certo, il viso, – ammise davanti a tutti, nella taverna, – ma
il corpo… – e scolò il bicchiere senza guardarlo, come per esorcizzare
l’immagine deforme di lei: quei primi giorni di matrimonio
gli si era tanto impressa nelle pupille, che qualsiasi superficie
riflettente tenesse dinanzi al viso, inesorabilmente gliela restituiva.
– Il danno è tutto tuo, – osservò qualcuno. – Perché l’hai sposata?
Neanche con una canna l’avrei toccata, anche se è una baronessa…
– Senza un uomo in casa i suoi denari andavano in malora, – si
giustificò lui con una alzata di spalle. – Ci voleva qualcuno che
l’aiutasse ad amministrarli.
– Che l’aiutasse a spenderli, vorrai dire!
Risero tutti nella taverna piena di fumo mentre lui, ciondolando
il capo in un assenso tormentato, brindava alle proprie
nozze, maledicendo il padrone della taverna che, a suo dire, gli
aveva ammisturato il vino.
Sentiva, infatti, nel vermentino, uno strano retrogusto che lo
riportava all’infanzia. Coglieva, più deciso ad ogni sorso, un sapore
amaro simile a quello dell’infuso di cicoria che la madre gli
cacciava in gola a forza, quando riteneva necessario purgarlo.
Era una persona di poco equilibrio e le rendite della moglie,
anziché ispirargli senso della misura, lo portarono, sostenuto
dagli amici interessati, sulla strada dei vizi.
La percorse fino alla rovina, preso nel vortice di un moto spiraliforme,
come un cane cui sfugga continuamente la propria
coda, ma che non sappia rinunciare all’illusione di acchiapparla.
In ultimo, la forza di inerzia l’avrebbe avuta vinta su ogni rigurgito
di buon senso, se ce ne fosse stato. Ma Juanni, non aveva
mai saputo dove appendesse le chiavi, il buon senso.
214
Così, la baronessa Ballester rimase vedova.
Tutti pensarono che il cambiamento nella sua vita non fosse
sostanziale: si bisbigliava che non fosse mai stata moglie, dato
che l’uomo che aveva sposato aveva visitato parecchi letti, troppi
per aver trovato tempo e voglia di entrare anche in quello
della donna per la quale, pubblicamente, dichiarava di provare
ribrezzo.
Si diceva pure che, se non avesse tolto il disturbo andando a
morire così, come un cane, con la faccia in un rigagnolo, c’erano
molti uomini sul punto di regolare il conto con lui in altra maniera.
Una fortuna per Miguela quindi, alla quale venivano a mancare
solo quei segni violenti di presenza che il marito si degnava
di darle quando tornava a casa ubriaco, e dei quali i pochi servitori
rimasti facevano argomento di conversazione con tutto il
vicinato.
Ma nessuno giunse a pensare che Miguela potesse ritrovarsene,
in aggiunta, qualcos’altro.
Qualcosa come un quesito irrisolto: quella morte, dopo tante
umiliazioni patite, non le era stata di sollievo. Al contrario, le
aveva lasciato una risonanza di desolazione della cui eco faticava
a cogliere il senso, nel vuoto della solitudine.
Giunse a credere di avere amato quell’uomo e la consapevolezza
di quel sentimento sciolse i nodi dell’animo schivo di Miguela
con abili dita di marinaio.
Così, avendo preso l’abitudine di non farsi vedere in giro perché
il marito si vergognava di lei, andava la notte a porgli sempre
la stessa domanda, presso il cancello del camposanto.
Non potendolo riempire né di ricordi né d’altro, Miguela
riempì quel vuoto di sogni.
Attraverso il sentiero faticoso che saliva a Logus de su ’entu,
se li portava verso un muricciolo vicino al grande leccio alto sul
paese, di faccia al campanile, come un fardello in spalla che divenisse
più leggero ad ogni passo. Là, essi prendevano il volo
dalle sue mani tese e salivano in alto, dove nessuna nuvola poteva
offuscarli e nessun vento disperderli.
A quell’albero vivo le farfalle nere non potevano accostarsi,
così lei restava lunghe ore sotto i rami, a guardare i suoi sogni al-
215

lontanarsi e tornare con un calmo respiro di risacca che dava
pace al cuore.
Si attardava ancora, nell’ombra dell’ultimo crepuscolo, ad assaporare
il profumo dei comignoli, i fremiti di primavera, le
dolcezze autunnali: tutte cose che, odorando tanto di vita, rendono
increduli di ogni possibilità di disinganno.
Miguela ne traeva, appena, la forza per sopravvivere al dissolversi
dei suoi sogni.
Infine, compiuta quella alchimia, al primo infittirsi della tenebra
veniva giù dal muricciolo, con movimenti sgraziati che la facevano
somigliare ad un ragno che percorra la propria tela.
Tornando, il suo viso era sempre sorridente, poiché nella sua
mente il discernimento si era come sfocato: aveva finito per credere
che i sogni fossero la sua realtà e la vita in casa Ballester un
incubo tra quei sogni, durante il quale l’unico conforto era rappresentato
dalla certezza che si sarebbe risvegliata.
Il sorriso che era ancora, per Miguela, traccia del sogno, veniva
preso dai paesani per cognizione della realtà.
C’era infatti, una realtà segreta a Gurtei.
Il paese, nel tempo, aveva allevato una borghesia che fondava
il proprio minimo benessere sulla lavorazione della lana unendo
in sé le abilità dell’artigiano e del commerciante.
Ma più i Ballester-Bayre, dopo essersi quasi sterminati a vicenda,
consumavano sé stessi e i loro beni in una sorta di disfacimento
interno, più dal loro spirito in sfacelo emanava come
una radiazione di colpa che aveva cominciato a contagiare chi,
pur odiandoli, cercava di prenderli a modello di vita.
Era questo che a Gurtei cercavano di occultare, ognuno agli
altri e tutti alla propria coscienza.
Una miseria morale masticata come pane quotidiano fino a
sentirla scipita al palato. Una miseria fatta di piccoli e grandi
peccati, consumati complice l’oscuro, intestinale contorcersi
delle viuzze, il silenzio profondo oltre i muri alti dei cortili, la
penombra ambigua delle finestre, dietro le trine delle tende.
I tempi cambiavano, ma nel paese era rimasta impressa nei
muri l’eco degli amplessi disperati consumati durante l’imperversare
delle pestilenze, quando ogni regola morale era tacitamente
sospesa perché ogni attimo poteva essere l’ultimo e la vi-
216
ta e la morte erano tanto contigue e assurde, che si pensava di
esorcizzare la seconda riaffermando disperatamente la prima,
senza rendersi conto che in quel modo non si faceva che favorire
il diffondersi del contagio.
Quella eco durava ancora nella realtà di Gurtei. Realtà che
pensavano dovesse essere, vista dall’alto di quel muricciolo, palese
a Miguela quasi più che a loro stessi, spoglia di ogni tipo di
motivazione, ridotta pura colpa, sciolta dai nessi logici che la legano
alla debolezza umana.
– Il malaugurio ci getta, da lassù, – mormoravano i paesani,
che avevano sempre considerata diabolica la bellezza di quel viso
appaiata a quel corpo deforme.
– È una maledetta strega: va in cimitero la notte!
Detto una volta, presero l’abitudine di dirlo spesso e, infine,
di crederlo.
Qualche tempo prima il destino, annodando le sue trame
complicate sull’ordito del tempo, aveva unito l’albero al campanile
con un filo di morte.
Il portale della chiesa era socchiuso. Entrava una striscia di
sole smorto che velava di pulviscolo i banchi e le statue dei santi
minori.
La pila dell’acqua santa era asciutta e tutto era avvolto in un
silenzio come di abbandono: la cera che incrostava i candelabri,
i fiori secchi non ancora rimossi dai vasi rendevano compiuta la
sensazione, se non fosse stato per una persona che stava in preghiera,
china, quasi rannicchiata nel primo banco presso la balaustra
del presbiterio.
Era prete Bosincu, un sacerdote la cui età giovanile era stata
tutta bruciata dal fuoco della vocazione, in un tempo in cui pochi
erano quelli che sceglievano lo stato sacerdotale per vocazione.
Ora, in piena maturità, finiva di biascicare il boccone amaro
di una sorpresa che lo aveva colto all’improvviso, qualche anno
prima: si era sentito d’un tratto lo spirito sbilenco, come privo
del supporto che fino a quel momento lo aveva sostenuto. Lo
stupore di non ritrovarsi più, dentro, la vocazione che aveva dato
un senso alla sua esistenza, si era mutato in rabbia, in ribellio-
217

ne, poi, con i primi acciacchi dell’età in consapevolezza piena
del vuoto.
Assillato da smarrimenti che lo coglievano inerme, mancandogli
ormai la forza della fede e l’uso della logica, prete Bosincu
era giunto a dibattersi in una sensazione singolare, che lo riempiva
di vergogna: gli pareva di essere uscito da un lungo periodo
di vita sospesa e di ritrovarsi, sulla via della vecchiaia, con le curiosità
e le aspettative di un adolescente.
E proprio come un adolescente si era innamorato.
Fu proprio questo a ridurlo di nuovo in ginocchio davanti a
quell’altare che, negli ultimi anni, aveva fronteggiato quasi a
pugni chiusi.
Le ali del padiglione dell’altare ricadevano in un drappeggio
marmoreo fino alle cantorie. Dinanzi al prospetto del padiglione
stava la statua di una Madonna, con il Gesù benedicente sulle
ginocchia. Al sorriso del bambino, tanto rarefatto da sembrare
vacuo, era di esatto contrappunto quello della madre, reso
intenso da un adombramento delle occhiaie, come se l’artefice
avesse voluto ritrarla tristemente presaga del dolore e del pianto,
anche nella gioia della maternità.
Sotto lo sguardo di quella madre, prete Bosincu teneva il viso
affondato tra le dita lunghe e scarne, scosse da un tremito che si
ripercuoteva sulle spalle.
La lama di luce si allargò e vi comparve un’ombra.
Udito, nel suo stordimento, il cigolio dei cardini, il sacerdote
trasse meccanicamente un fazzoletto dalla tasca della tonaca, si
asciugò il viso e si schiarì la voce.
I passi avanzavano, diseguali, claudicanti. Capì subito di chi
si trattava. Si alzò, voltandosi e salutando con un cenno del capo.
– Vissignoria…
– Oh, predi Bosincu…
In quell’attimo la chiesa si riempì di vibrazioni. Rintoccavano
le campane a morto: sei colpi veloci suonati con la campana piccola,
dalla voce acuta, e uno lento, suonato con la campana
grande, dalla voce profonda. Quei rintocchi restituivano al sacerdote
il senso della vita cui, tanti anni prima, si era votato.
Alzò il capo a catturarne le vibrazioni, come fossero una promessa
di rasserenamento.
218
Poi trasalì, si accorse che Miguela parlava: il discorso più lungo
che mai avesse sentito sulle labbra di quella donna schiva.
Ne aveva colto qualche parola appena, inseguendo i suoi pensieri.
Ma, in quel poco gli sembrava che avesse parlato d’amore.
D’amore?
Prete Bosincu, che sapeva così poco della vita di Miguela,
fraintese e sentì, in quelle parole, l’eco della voce della propria
carne, risvegliata dai suoi primaverili desideri in un autunno
della realtà, rancoroso e disperato.
– Se Vissignoria è venuta a confessarsi… – disse allora, irritato
dalle oscillazioni di spavento che quella voce aveva impresso
alla sua anima.
– Confessarmi? E di quali peccati?
Stettero per qualche tempo senza guardarsi, combattendo
con la crescente consapevolezza di non conoscere un linguaggio
comune per intendersi, ognuno chiuso nella sua solitudine,
ognuno perso nel tentativo di decifrare le trame del proprio destino.
Finalmente Miguela, si voltò con un sobbalzo e si incamminò
lungo la striscia di luce, cedendo sulla gamba zoppa con
più abbandono del solito, quasi trascinandosi.
Non aveva ancora disceso il sagrato quando Mauneli la raggiunse,
uscendo dal campanile.
Mauneli era il campanaro.
Scuro, magro e reso curvo dall’abitudine di ripiegarsi su se
stesso, per scomparire tra le ombre della chiesa, aveva gli occhi
circondati da una raggiera di rughe, scolpite dallo sforzo costante
di aguzzare lo sguardo, per distinguere a distanza.
Aveva fama di non essere sano di cervello, Mauneli, perché
non conduceva una vita normale: dormiva, mangiava, viveva
nella cella del campanile ed era l’unico che avesse toccato quelle
campane negli ultimi trent’anni.
Già ai tempi di prete Gracián, il canonico che aveva preceduto
i due ultimi parroci, Mauneli era campanaro.
Miguela lo ricordava sempre alle calcagna dell’elegante canonico
dallo sguardo profondo, per il quale aveva un’adorazione
fanatica. Era uno dei pochi ricordi vividi della sua infanzia: quegli
interminabili pomeriggi nella penombra della sala da ricevimento.
Mauneli gettava in continuazione la sua trottola contro
219

la base del muro, sbocconcellando piccoli dolci di ricotta con le
orecchie ritte a cogliere i richiami del suo padrone.
Miguela si annoiava a guardarlo: ardeva dal desiderio di uscire
fuori, nella luce piena, di guardare i bimbi correre per la strada
per sentire il suo cuore correre con essi, non più prigioniero
delle sue gambe zoppe. Ma non le era permesso neanche accostarsi
alle finestre, presso le quali Dona Inés, sorella del barone
suo padre, ricamava, ascoltando i discorsi che predi Gracián le
faceva con voce profonda, accarezzando di continuo, con i polpastrelli
delle mani sensibili e forti che non parevano affatto
quelle di un prete, la copertina di seta del suo breviario.
Un immagine colta di scorcio prima che i servi la strappassero
via dalla grata della finestra, le era rimasta impressa: i piedi calzati
di nero che sussultavano e oscillavano nel vento che colpiva
le mura e quelle mani forti, che non parevano di un prete, che
raspavano il muro scarpato della casaforte, cercando un appiglio,
nell’agonia.
Ricordava anche il viso terreo di zia Inés, i suoi occhi sbarrati
nei quali ardeva il fuoco terribile di un tremendo odio di sé, alimentato
dalla passione che le straziava anima e carne insieme,
per l’uomo appena fatto uccidere.
Anche le grida d’angoscia di Mauneli ricordava: disperate,
orribili, mentre stando ai piedi delle mura assisteva all’agonia
dell’uomo che adorava.
Quanto tempo era passato!
Quel giorno Mauneli si fermò dinanzi a lei nel sagrato e le si
rivolse con il tono strascicato di chi non è abituato a parlare, scivolando
sulle sillabe come fanno gli ubriachi. Però non aveva
bevuto: il suo alito sapeva piuttosto di muffito e di coscienza
travagliata.
– Le campane che ho suonato poco fa erano per l’ultimo, –
disse. Il suo sguardo era un groviglio di lampi febbrili. L’aveva
forgiato nelle lunghe auscultazioni dei bisbigli e dei sospiri dei
parrocchiani, perpetrate nell’ombra accanto al confessionale,
giungendo così a caricarsi sulle spalle tutto il peso, tutto l’orrore
del peccato, senza poterli sterilizzare con il potere della remissione.
– Sono rimasti quelli marci. Dio, – aggiunse socchiudendo gli
220
occhi come se fissasse una visione, – farà piovere zolfo e fuoco
su questo paese. Mundeddu. Sai di Mundeddu, è vero? E Su
Potecariu, con la moglie di Pepe Scanu: hanno ucciso, quei due.
E Angiula Urru, che è incinta del fratello? Finirà per ucciderla
Miali… E quell’altra, la figlia di Fieli Chessa, che fa più carezze
alla cognata che al marito…
– Cosa vuoi da me? – lo interruppe lei, spaventata più dal suo
sguardo che da quella fiumana di parole, delle quali non aveva
capito nulla.
Mauneli, torcendosi le mani, si accostò ancora come se la vicinanza
fisica potesse far si che lei riuscisse a condividere il suo
delirio.
– Zolfo e fuoco, ti dico. Ma come posso reggere più a lungo
dinanzi a Dio il peso dei peccati di tutti? Tu ed io, vediamo. Io
dal mio campanile, tu dal tuo albero.
Miguela scosse il capo a quelle parole, sollevando il braccio
ad indicare il leccio, alto sul paese: – Tu vaneggi! Io, lassù, non
vado per spiare in basso, ma per guardare in alto!
– In alto? – mormorò Mauneli fissando l’albero. Ma Miguela
non lo udì: si allontanava a ballonzoli, sotto gli sguardi divertiti
della gente.
All’alba del giorno dopo il campanaro fu trovato impiccato
all’albero del muricciolo.
L’impressione che quella morte produsse nel paese fu terreno
fertile per una abbondante messe di paura e di odio. Si fece un
gran parlare di quello strano colloquio in piazza tra Miguela e
Mauneli, e del gesto di lei verso il leccio. E parlando, gli animi
della gente si infiammarono contro quella creatura repellente,
della genia maledetta degli oppressori, che scrutava dall’alto le
loro vite e, probabilmente, conosceva i loro segreti più inconfessabili.
Il funzionario Musso ne era stato informato ed aveva reputato
suo dovere avvertire Miguela, in precisa applicazione del
Trattato di Londra che conservava all’aristocrazia spagnola in
Sardegna tutti i benefici ed i privilegi avuti in passato. Non essere
riuscito a scalfire la sua indifferenza, l’aveva irritato.
Si vedrà, aveva detto. In realtà non intendeva vedere proprio
nulla. La sua ferma intenzione, anzi, era di lasciare Gurtei il
221

giorno dopo all’alba, con la sua famiglia, i due dragoni di scorta
ed il nome dell’Intendente Pitzolo come lasciapassare. Fidava
nella buona sorte e nel fatto che tutti i pendagli da forca dei
dintorni, solitamente impegnati a rapinare i viandanti, avevano
in quel momento obiettivi più allettanti.
Le sollevazioni popolari contro i feudatari, dopo la cacciata
dei piemontesi da Cagliari, si stavano estendendo a quasi tutto
il Logudoro e oltre. Da Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore, Bonorva
e Ozieri giungeva notizia che, dalle dimostrazioni passive,
ora i vassalli passavano alla reazione armata, disponevano di
cavalleria e, dove potevano, si impossessavano dei granai dei
feudatari. Correva voce, inoltre, che i rivoluzionari cagliaritani
intendevano chiedere l’intervento della Francia. Dovunque era
pericolo e caos. Anche là, nella sonnolenta Gurtei, si cominciavano
a sentire discorsi che impensierivano il funzionario.
Per fortuna un nuovo viceré era venuto in Sardegna in luogo
dell’altro, cacciato dai rivoltosi di Cagliari. Girolamo Pitzolo
era adesso Intendente Generale delle Finanze e il marchese Paliaccio
della Planargia, era stato nominato Generale delle Armi.
Senza bisogno d’altro che di far giungere loro il suo nome,
Musso era convinto che questi amici si sarebbero ricordati di
chi, in passato, li aveva serviti con tanto zelo.
Jacu andò a sedersi in cucina.
Masica, una domestica anziana che serviva in casa da quando
Jacu aveva pochi mesi, sedeva vicino al focolare, intenta a intaccare
delle castagne con un coltello affilato, per poi gettarle
in una padella bucata, che avrebbe messo sulla brace.
Si diceva che, da giovane, Masica avesse dato latte a Miguela
appena nata, perché la madre, Dona Magdalena, agonizzava.
In casa non se ne parlava, ma Jacu l’aveva vista molte volte affrettarsi
nella strada di casa Ballester, con lo scialle levato fin
sugli occhi.
– Ho visto gli alberi, in casa di Cramu L’Assassino.
Masica gli gettò uno sguardo sottecchi.
– Non hai paura neanche del diavolo, tu.
Jacu strinse le spalle: – Ma di lei sì che ho avuto paura, quando
è comparsa.
222
– Di chi, di Dona Miguela? Quando mai! Nascere storpi è
certo un castigo di Dio, ma lei poverina non se lo meritava: paga
tutto il male che ha avuto in eredità con il sangue. – Il viso
di Masica si rabbuiò. – Cosa poteva nascere di diverso da quella
specie di… bestemmia a Dio che fu la stirpe Ballester-Bayre?
Gli uomini e le donne che hanno avuto la cattiva sorte di entrare
in quella famiglia, hanno conosciuto l’inferno in terra, insieme
all’orrore di partorire e generare dei diavoli, che gli si rivoltavano
contro!
Diede una rivoltata alle castagne e qualcuna, per la troppa
furia, rotolò fuori dalla padella.
– E finché erano cattivi, la gente di qui camminava dinanzi a
loro a coda bassa. Adesso, con Dona Miguela si stanno rivoltando!
Che razza di coraggio: la vedono debole, la sanno innocente…
Tuo zio Juanni, in cielo sia!, l’ha sposata per i suoi beni
e li ha sperperati in donne e in vino, prima di morire, facendogliene
passare di tutti i colori. Se non fosse stato per tuo padre
Antiogu, che cercava in tutti i modi di far ragionare il fratello
con preghiere e rimproveri, neanche occhi per piangere
avrebbe più, la baronessa.
Così raccontò Masica, tenendo d’occhio la porta ché non si
avvicinassero i padroni.
– Figli non ne hanno avuto? – domandò Jacu dopo un lungo
silenzio, rotto appena dal sibilo delle castagne.
– No… perché?
– Nel dipinto degli alberi, sopra i nomi di Dona Miguela e di
zio Juanni, il cielo era di un azzurro più vivo, come se fosse stato
aggiunto colore per cancellare qualcosa.
Sollevando lo sguardo, Jacu si ritrovò dinanzi il profilo trascolorato
di Masica, nonostante fosse acceso un fuoco vivace,
nel camino.
Nel buio della sala, dove Jacu l’aveva lasciata fuggendo, l’ultima
dei Ballester imparò qualcosa che non sapeva. Sentì sfiorarla
come un alito gelido, rimasto imprigionato tra quelle pareti
insieme all’ultimo respiro di lui, l’ostinata protervia di Cramu,
che gli si era stretta al collo ben prima del cappio, soffocando
in lui ogni umanità.
Ma sentiva anche, incrollabile, la pietà e l’amore di Nassia e
223

si accorse che quella corrente di pietà correva parallela al suo
sentire di sempre.
In quell’attimo, il brusio delle farfalle nere tacque stupito, riprendendo
incerto e tacendo di nuovo, come in ascolto di quel
sentimento così nuovo, che sentivano emanare da una del loro
sangue.
Poi quelle ali fredde si erano levate in volo dagli alberi dipinti,
con il rumore di un brivido di brezza tra le foglie, venendo a
sfiorarle il viso come domandandole di condividere con esse il
suo segreto, perché fossero liberate dal giogo che aveva sempre
pesato sul loro cuore.
Lungo la strada del ritorno la seguirono, ma Miguela non aveva
più paura di loro, anzi: per la prima volta sentiva meno pesante
la sua solitudine.
Il funzionario Musso, aprendo la porta di casa, scorse la moglie
nel corridoio.
Reggeva un foglio tra le dita ed era come assorta.
La donna si riscosse e sollevò il capo. Musso vide il suo pallore
e, prima ancora che lei parlasse, capì che le sue speranze scemavano.
– Pitzolo è stato trucidato dalla popolazione di Cagliari, presso
la torre di San Pancrazio, – disse la donna con voce atona. –
L’hanno ferito con una pistolettata e finito con spade e pugnali.
Il Marchese della Planargia ha seguito la sua sorte, sotto la torre
dell’Elefante, il suo corpo è stato denudato, straziato e abbandonato
nella piazza del mercato del pesce. – Il tono le si incrinò
in una nota stridula: – Il viceré Vivalda non ha mosso un dito,
per aiutarli!
Verso le due del mattino Jacu sentì scricchiolare i gradini di
legno della scala.
– Masica…
– Oh, benedetto ragazzo, mi fai scendere un colpo!
– Stai andando là? Non hai paura del fantasma di Cramu?
– Alla mia età, si ha più paura dei vivi che dei morti! Su, muoviti,
tieni la lanterna: andiamo a vedere cosa c’è in cima a quell’albero.
Sono tanti anni che mi gira per la mente un sospetto.
224
Le farfalle nere ora tacevano.
Ma quanto spesso avevano schernito la stanchezza di Miguela,
costringendola a rigirarsi nel letto, come fosse cosparso di
braci ardenti!
Quante notti, nel buio della sua camera, le avevano ripetuto:
“Siamo qui, stiamo aspettando. Ricordati: sei una farfalla nera
anche tu, Miguela Ballester. Ma sei l’ultima, cosa resti a fare?
Vieni con noi, vieni… è facile.”
Le ripetevano spesso quelle parole.
A volte, quando sostava nel ballatoio alto che dava sul cortile
delle antiche scuderie, le ripetevano quell’invito in maniera
pressante, irosa. Miguela allora si ritraeva inorridita. No, no. Le
farfalle bianche non potevano aver sofferto invano, per non lasciare
neanche una goccia del loro sangue nella stirpe!
Ma quella notte, per la prima volta, c’era un silenzio profondo
intorno al letto di Miguela. Il suo sguardo beveva il chiarore
lunare che inondava la coperta.
Provava una serenità pacata e quel sentimento le riportò, tra
veglia e sonno, un ricordo lontano.
Si vide, a capo chino, chiusa nel lutto stretto per Juanni, lasciare
la casa di pietra e trasferirsi a casa dei cognati per dare
compagnia ed aiuto alla cognata Errita, che era incinta.
Errita Massa, per quel figlio che aveva desiderato ed atteso invano
per anni, si era recata di casa in casa ad elemosinare il lino
per la camiciola e, come voleva la tradizione, in un giorno e una
notte l’aveva tessuta e cucita, perché ciò fosse di buon auspicio.
E la mostrava a tutti con orgoglio, nonostante prete Bosincu si
asciugasse la gola nel sermone domenicale, invocando le norme
sinodali e tuonando minacce di scomunica contro gli atti di superstizione.
Anche ad Antiogu non importava sfidare la scomunica per
auspicare buona fortuna a suo figlio. Di notte, avvolse con strette
fasce il muso di un cagnolino e lo condusse con carezze e lusinghe
fin sulla soglia di casa, dove già era pronta la fossa che
doveva accoglierlo e la terra che doveva ricoprirlo vivo, perché
il suo spirito fosse perenne custode di quella casa e di quanti la
abitavano.
A Miguela, che soffocava i singhiozzi nel lembo dello scialle,
raccontò di avere sentito dire che, tanto tempo prima, un Balle-
225

ster aveva seppellito un Bayre in quel modo, per vendetta.
Quindi non piangesse, che almeno quello che faceva lui era un
atto d’amore per suo figlio e non di odio, come quell’altro, dei
parenti di lei.
Jacu nacque una notte di aprile.
La buonanima di Annica, la levatrice vecchia, lo portò fuori,
nel letamaio, posandolo a terra e voltandogli le spalle, come faceva
con tutti i bimbi che aiutava a nascere. Là fuori, nel tepore
della notte primaverile, gli impose ad alta voce il nome Fuliau,
Buttato, che per quegli attimi soli sostituiva il nome scelto dai
genitori, in modo che l’invidia non potesse colpirlo ed il bimbo
avesse molti anni di vita. Solo dopo lo mostrò alla madre e alla
zia.
Nell’ora più buia prima dell’alba quando l’ultimo lume si fu
spento nella stanza, le tre donne si accostarono al focolare, dove
erano stati bruciati i panni insanguinati del parto.
La levatrice, dopo aver sfiorato la cenere con la punta delle
dita come se le intingesse nell’acqua benedetta, si segnò. Così
fece Errita, pallida, allungando una mano tremante.
Miguela fissava con occhi sbarrati quelle ceneri, senza accostarsi,
e fu la cognata a trarla innanzi, a forzare la sua mano riluttante
verso il focolare e a levarla, costringendo le dita a schiacciare
le labbra, tracciandovi una croce di cenere, amara come il
veleno.
Miguela, anche in quella prima notte di sonno quieto, continuava
a sentire l’amaro di quella cenere.
Lo schiaffo la colpì sulla guancia e sull’orecchio e fu talmente
forte che Angiula dovette aggrapparsi allo schienale della seggiola
per non cadere.
– Prima non la pensavi così, o mi sbaglio? – ma Angiula non
sentiva le parole del fratello: era stordita da un ronzio doloroso,
nel cranio. Fu quel dolore così vivo, sommato all’altro insopportabile
che le gravava l’animo, a darle la forza: la sedia fu scagliata
con tale violenza che, ricevutala in pieno petto Miali Urru
cadde.
Angiula si ritrovò in cortile, in strada, incalzata da una furia di
allontanarsi che sentiva più determinata nelle gambe, che non
nella volontà.
226
Corse, aggirando la piazza per non essere vista e dirigendosi
verso la canonica.
Batté con i due pugni chiusi alla porticina. Mentre aspettava
che le aprissero sollevò lo sguardo, vide la mole dei Territori del
vento e, stagliarsi distintamente contro il violaceo crepuscolo, il
leccio.
Aprendo la porta prete Bosincu la vide così, voltata a mezzo
verso l’altipiano, con i capelli in disordine, lo scialle in mano e il
viso macerato dal pianto. Rimase impietrito.
– Vorrei confessarmi, – disse lei con la voce rotta dall’affanno
della corsa, ma come vuota di ogni emozione.
Prete Bosincu non ebbe fiato per replicare che era tardi e si
fece di lato, per lasciar passare la donna che da un mese, e nel
segreto del cuore, era il suo solo desiderio e la sua dannazione.
La sagrestia era buia: rilucevano solo, attraverso il vano della
porta, le candele che ardevano in chiesa e che, morto Mauneli,
prete Bosincu si dimenticava di spegnere.
Salirono i tre gradini di pietra e si ritrovarono nella penombra
aureolata della navata laterale. Il sacerdote portò la stola alle
labbra, poi la sistemò intorno al collo, dirigendosi verso il confessionale.
– Prete Bosincu, – fece lei con un sospiro, incapace di aspettare,
– sono così stanca! Ho taciuto dei peccati, nelle altre confessioni…
Sono incinta di mio fratello.
– Cosa? – domandò prete Bosincu in un soffio, sciogliendo le
mani che aveva incrociato per una preghiera che, ad un tratto
non ricordava più. Un sentimento violento di gelosia diede uno
strattone alle sue viscere, riempiendogli la bocca di bile. Il sangue
che in quei minuti era risalito alle sue gote, fuggì nuovamente,
cacciato dal dolore di ricevere una tale confessione proprio
dalla donna che amava, più che dall’orrore per il peccato
confessato.
– Questo è un sacrilegio! – aggiunse con voce dura. – Non sapevi
distinguere il bene dal male?
– No, non ho saputo, – replicò lei mentre le mille verità della
sua miseria, della sua innocenza e della sua colpa si assiepavano
dietro le labbra: troppe per essere dette in quel momento, mentre
il sincero pentimento premeva contro gli argini della sua coscienza.
227

– Vattene, – ordinò prete Bosincu e sillabò quella breve parola
sentendo una misura di gioia amara disciogliersi in bocca con essa,
insieme ad una misura di disperazione.
– Sono assolta? – domandò Angiula. La sua voce aveva una
sfumatura di supplica.
– Non ho il potere di farlo, – fu la risposta.
La ragazza stette qualche attimo davanti al prete, barcollante,
con lo sguardo legato a quello di lui da una risacca di disperazione.
Poi, con un gesto meccanico, si avvolse nello scialle e scese
nella sagrestia, senza aggiungere altro. Prete Bosincu ascoltò il
rumore dei suoi passi allontanarsi dalla canonica e si ritrovò in
ginocchio, con le palme a terra, colto da una vertigine.
La notte era fredda, ma la luna, ben visibile nel cielo terso,
permise ad Angiula di distinguere la strada.
Si fermò due o tre volte, ma la rabbia o, forse, solo la paura, la
spinsero a proseguire.
Si fermò ancora, questa volta perché aveva udito come uno
scalpiccio alle sue spalle, ma era solo il vento.
I capelli sciolti le venivano a tratti sul viso, soffocandola. Accelerò
il passo.
Sapeva dove si trovava la corda: il giorno prima aveva visto dei
bimbi legarla ad un albero per giocarci all’altalena. Era ancora là
e legata male: la prese ma, quando la ebbe tra le mani, procedette
a rilento, come se le vacillasse la volontà.
Vide il leccio all’improvviso, sollevando il volto, vicinissimo e
si fermò a guardarlo colta da un orrore che le paralizzava le gambe.
Si rese conto che non avrebbe avuto mai il coraggio di morire
in quel modo, in compagnia dello spettro maligno di Mauneli.
Eppure la vergogna che portava in sé, e la volontà di sottrarsi ad
un giogo che ora la disgustava, le imponevano una decisione.
Si sentì sfinita, oppressa da un peso più grande di lei. Uno
schiocco alle sue spalle, nell’ombra, la intirizzì di paura. La corda
le cadde dalle mani.
Il vento sibilava tra l’erba bassa e, nel canalone, urlava con una
voce che pareva umana. La luce della luna scompariva dietro un
cumulo di nubi in corsa.
– Chi c’è là? – domandò Angiula in un soffio.
228
Il cadavere di Angiula Urru fu trovato il giorno dopo, nel fiume.
Qualcuno disse di aver visto la baronessa Ballester dirigersi
verso quei luoghi, la sera precedente.
La paura e l’odio si avvicinavano al loro culmine.
Miguela, schiva e fuori dal mondo come sempre, non sapeva
nulla e non comprese, quindi, il motivo dell’espressione stravolta
di un giovane che si presentò alla sua porta, parlandole senza
rispetto, venendo innanzi con le mani sollevate, come volesse
agguantarla.
– Sono Miali, il fratello di Angiula Urru. Mi hanno detto di
avervi vista ieri, verso sera, scendere al fiume!
Miguela non lo conosceva, non capiva il perché di quella domanda,
ma il suo sguardo delirante le faceva paura e, come una
difesa, le salirono alle labbra le uniche parole che nella sua mente
si ricollegavano a quel nome:
– A me Mauneli ha detto che tua sorella ha in grembo un figlio
tuo e che avresti finito per ucciderla.
Il viso febbricitante di Miali Urru divenne colore della terra
asciutta.
Quel pomeriggio era soffocato da un groviglio di nubi e c’era,
nell’aria, un acidulo sentore di pioggia. Prete Bosincu, seduto
sulla panca dell’organista, nell’angolo più buio della chiesa, fissava
con sguardo stanco la navata centrale, da un pertugio fra le
colonne.
Così, tutto era finito, pensava. Il giorno dopo lui stesso avrebbe
accompagnato alla sepoltura l’unico sogno della sua vita. Sogno
breve, a stento confessato e mandato incontro alla morte,
senza una parola di conforto.
– L’ho uccisa io, – ripeteva. E quella penombra che lo circondava
da tutte le parti, restituiva l’eco di quelle parole, in cento
bisbigli accusatori.
In quel momento arrivò Miguela.
Si era avviata in chiesa con l’idea di domandare, a prete Bosincu,
se la sua autorità di ministro di Dio bastasse a scioglierla dal
peso di un giuramento. Strada facendo, però, le si era indebolito
il proposito col rimuginare le antiche ragioni, quindi si era ritrovata
in chiesa senza più nulla da domandare.
229

Molti occhi immobili si posavano su di lei dalle cappelle; quelli
che la osservavano dalla cantoria erano sbarrati. Miguela si
fermò, appoggiandosi alla balaustra del presbiterio, e sollevò lo
sguardo smarrito.
Prete Bosincu credette, per un attimo che lo avesse scorto, ma
Miguela pensava ad altro e il prete era talmente lontano dai suoi
pensieri che anche lui avvertì quella distanza, sentendosi sicuro
nel suo nascondiglio.
Ma ad un tratto, salendo dai recessi di un dolore troppo a lungo
soffocato, una lacrima si addensò negli occhi di Miguela. Lei,
con un sospiro, sollevò il dorso della mano ad asciugarla.
Quella lacrima fu troppo per prete Bosincu, che si alzò silenziosamente
in piedi: il suo sguardo era terribile mentre osservava
la storpia guadagnare l’uscita della chiesa con tutto il peso del
suo dolore intatto. Dolore che, anche in lei, come in Angiula,
non aveva saputo consolare. Quella sofferenza, piccola o grande
che fosse, divenne ad un tratto ai suoi occhi, il simbolo di una
sofferenza universale della quale ora si domandava il senso, senza
trovare risposta.
I passi concitati, giù per la scaletta della cantoria, riempirono
la chiesa con il rumore ritmico. Si udì uno schianto, dei tonfi, ed
un pesante oggetto di metallo rotolò sul pavimento di pietra.
Scricchiolò la porticina della sagrestia e prete Bosincu si ritirò
nell’ombra, tremante, stordito e svuotato dalla sua stessa ribellione.
– Cosa succede? – domandò la serva trafelata, asciugandosi le
mani nel grembiule e venendo avanti.
Si arrestò sconvolta, dinanzi all’altare: il tabernacolo era aperto,
il lume del Santissimo rovesciato. Per terra il calice giaceva
tra le particole sparse.
Lo sguardo stupito e spaventato della donna vagò intorno, sul
viso sfigurato del bambin Gesù, su quello desolato della vergine,
sulle ostie disseminate e sul pesante candelabro a terra, che ancora
oscillava sulla base rotonda con un raschiare metallico.
Si accostò al portale, sempre asciugandosi meccanicamente le
mani e sbirciò fuori.
Nella piazza deserta, si allontanava il corpo claudicante di Miguela.
230
Masica giunse sul tardi, quando la veglia funebre era già cominciata.
Era ancora nella strada quando cominciò a sentire le
urla delle prefiche.
La morta era stata composta, con i piedi rivolti verso l’uscio,
sul pavimento. Le candele proiettavano sulle pareti le grandi
ombre oscillanti delle atitadoras inginocchiate intorno.
Con la fronte posata su quella livida della sorella, Miali Urru
pronunciava parole di odio e di disperazione, che il lamento funebre
riprendeva ed esaltava in urla.
Masica ascoltò. Poi girò le spalle e si allontanò incespicando,
come se le gambe non la reggessero.
Il muricciolo non era lontano. Miguela lo raggiunse e continuò
a costeggiarlo. Conosceva tutte le pietre, i fili d’erba, la
roccia affiorante di quel sentiero, più che non conoscesse le
strade del paese.
La sera era tranquilla, appena percorsa da brividi di brezza
umida e lenta che, nel sentore acidulo, portava già il presentimento
di quell’elettricità opprimente che precede i temporali.
A maestro, infatti, oltre i Territori del vento, balenavano lampi
ancora muti, per la distanza.
L’irregolare tonfo dei passi di Miguela sulle rocce nude e sugli
sterpi si interruppe.
Lasciando calmare l’affanno, la donna posò la lanterna a terra
e volse lo sguardo all’albero: nel tronco antico portava ancora
la ferita viva inflittagli da Mauneli prima di arrendersi alla
morte.
Lei distolse lo sguardo con un brivido d’angoscia e si voltò
verso il paese.
Il campanile, alto sui tetti, stava proprio dirimpetto all’albero
e spartiva appena, allo sguardo, tutto l’orizzonte di Miguela:
le plaghe che ogni giorno percorrevano i suoi sogni, prima di
dissolversi nella purezza cristallina del crepuscolo.
Jacu si trovava nella piazza con i suoi compagni. Giocavano
a passarsi, a calci, una palla fatta di stracci e di strisce di cuoio.
Quando scorse Masica, arrivare reggendosi al muro come se
stesse male, lasciò il gioco e le si accostò impensierito.
231

Quella sera Miguela si sentiva tutt’uno con la materia dei suoi
sogni. Questo le dava una sensazione di pace così totale, da sentirsi
smarrita in essa. Ma le pesava sul cuore, ancora, il giuramento
che le aveva sigillato le labbra per anni.
Lo aveva fatto per quel figlio che Juanni le aveva seminato in
grembo con brutalità senza poi, ubriaco com’era, ricordare nulla.
Lo aveva fatto perché quel bambino potesse vivere sereno, in
una famiglia che non gli lasciasse l’eredità orribile e vergognosa
della sua.
– Sei storpia, – le avevano detto, perché rinunciasse al figlio
che aveva in grembo. – Sei vedova. Impazzirai come tutti i tuoi
parenti. Qualche notte ti verrà in mente di ucciderlo, tuo figlio.
Altrimenti sarà lui ad uccidere te, come ha fatto Cramu Bayre
con la madre.
Così le avevano detto.
Ma ora il nugolo delle farfalle nere era sciamato lontano, a ponente,
verso le nuvole insanguinate che trascoloravano in ombra
verso l’alto.
Miguela non temeva più di essere una di loro.
– Fillu… – bisbigliò. E quel bisbiglio spazzò via dalle sue labbra
la croce di cenere.
– È salita anche stasera, a gettarci il malocchio, Sa Strupiada.
Non sente nemmeno, sulle spalle, il peso del sacrilegio che ha
commesso. Chi la toglie dal mondo compie un servizio ad ogni
buon cristiano!
Questa e altre cose dissero i paesani sull’uscio della casa di
Angiula Urru. E quella sera non si allontanarono in fretta come
al solito, con gli omeri sollevati e lo sguardo sottecchi verso il
monte.
Guardarono Miguela salire verso il leccio e attesero le prime
ombre della sera.
Errita Massa, appena si rese conto di cosa c’era in aria, li fronteggiò,
impaurita.
– Ma siete impazziti? Lasciatela stare: è una povera donna…
– La sospinsero via replicando col silenzio, ma Errita colse il
torbido del loro sguardo e si allontanò di corsa verso la strada
delle vigne, in cerca del marito.
Dieci, cento lanterne furono accese e sguardi stravolti si leva-
232
rono a scrutare la montagna: si scorgeva un lume venire giù traballante
nell’oscurità che montava, densa.
In ogni mano comparvero bastoni e pietre.
Si radunarono urlando alla fine del sentiero e là attesero.
Miguela udì le grida, ma non ne capì l’origine né la ragione.
Continuò a scendere, sentendo un presentimento stringerle lo
stomaco.
Prete Bosincu pregava.
Il suo animo si era placato, esaurendo nella violenza della ribellione
ogni rimorso ed energia. Ora, ritrovava una qualche
dolcezza nel sapore consueto di quelle parole e, infine, ritrovava
sé stesso e la sua fede.
Quando Masica bussò con violenza al vetro della sua finestra,
l’anziano sacerdote si voltò lentamente, mettendo meccanicamente
il segnalibro tra le pagine del breviario, e stette a guardare
a bocca aperta, al di sopra delle lenti, il viso stravolto della
serva.
Poiché Miguela aveva rallentato il passo quelli, credendo che
volesse fuggire, presero a correrle incontro.
Per la sorpresa il braccio di Miguela ebbe uno scatto convulso
e la lanterna le cadde di mano, infrangendosi tra le pietre con
una vampata.
La folla urlante si avvicinava.
Miguela non cercò neanche una via di scampo, non concepì
nemmeno l’idea di fuggire, che pure è nell’istinto di ogni creatura
in pericolo. Attese lì, battendo i denti, con lo sguardo pieno di
lacrime inchiodato a quelle luci enormi ed ondeggianti che parevano
volare verso di lei.
Quando le lacrime traboccarono, le luci rimpicciolirono e lei
poté vedere chiaramente le sagome e le facce di quelli che avanzano
a semicerchio. Ne sentiva l’ansimare aspro, ma nessuno
parlava più, quasi per paura che una parola, un grido potesse
farla fuggire.
Fuggire! Dove? Il semicerchio di luci palpitanti la stringeva
ormai da destra e da sinistra. Dietro c’era l’altipiano, buio e senza
sentieri. A che le sarebbe servito poi un sentiero senza un lume
per seguirlo? Le altre luci l’avrebbero presto raggiunta.
233

Miguela non aveva più un lume e non c’era alcun sentiero attraverso
cui cercare scampo, oltre il muricciolo. Dunque non
aveva neanche il peso della scelta. Era perduta. E quel che era
peggio, se ne rendeva conto, perché sentiva l’odio precedere
quella gente, più mortale delle loro armi.
Quando arrivarono ad un palmo da lei, i visi pieni di ombre
guizzanti, una donna le gridò con voce isterica: – Assassina!
Jacu correva, ma gli pareva di non guadagnare che passi di formica
verso la meta, come nei suoi incubi di bimbo.
Finalmente giunse ai covoni e, con le mani agitate da un tremito
che non riusciva a calmare, tagliò le funi che tenevano tese le
tele incerate sui mucchi di fieno.
– Cosa volete da me? – domandò Miguela con voce stupita.
Tutti le si strinsero intorno.
Non una parola le salì più alle labbra: non sarebbe stata ascoltata.
Li guardò uno ad uno, osservò le ombre mobili disegnare e
scavare smorfie di odio sui loro visi e pensò: – È un incubo. –
Questo pensiero, ritrovando il percorso consueto nella sua mente,
le portò sulle labbra un sorriso.
Fu un segnale per la folla.
I bastoni e le pietre si alzarono per colpire sulle mani istintivamente
protese a riparo. Miguela cadde.
– È solo un incubo, – pensò, come in delirio. E continuò a pensarlo,
mentre filacce dolorose di oscurità riempivano i suoi occhi.
In quell’attimo, mentre i bastoni stavano per calare di nuovo,
si udirono, soffocate dal vento contrario, suonare le campane a
stormo.
Le braccia rimasero a mezz’aria, le voci scemarono.
– Sembrano i rintocchi dell’incendio, – azzardò una. Lo scalpiccio
dei passi di Jacu fece ammutolire tutte le altre.
– Al fuoco! – Il ragazzo correva verso di loro incespicando e
gridando con voce rotta: – Il fieno di Cicinu ha preso fuoco e il
vento spinge le fiamme verso le case!
La folla ondeggiò, incredula. Poi una folata di vento sollevò
fumo rossastro e scintille, oltre la curva del sentiero. Tutti allora
voltarono le spalle al corpo di Miguela e si precipitarono con urla
e gemiti verso il paese, dove avevano lasciato i figli, le poche
ricchezze.
234
Masica giungeva in quel momento in cima al sentiero.
Cominciava a scrosciare una pioggia disordinata, tagliente,
sgravata da nubi irte di lampi che si erano andate addensando
per tutto il giorno, sospinte dalle raffiche di vento. I tuoni parevano
venire dal ventre della montagna.
Miguela ricevette in viso quell’acqua e sollevò a fatica le palpebre.
Distinse Jacu accovacciato poco lontano, che la fissava, illuminato
da riverberi. Cercò allora di accostarsi, trascinandosi e
tendendogli una mano, ma lui indietreggiò, rincantucciandosi
contro il muricciolo, con gli occhi sbarrati dall’orrore di vederla
così, sfigurata, grondante sangue.
Miguela comprese e si lasciò andare, con un sospiro.
Rimase così, con il capo chino sul petto ed il braccio teso, tra
le pietre ed i rivoli sempre più gonfi d’acqua.
Giungendo, Errita e Antiogu videro Masica lasciarsi andare
sulle ginocchia, il volto gonfio di pianto, lo sguardo inchiodato
al corpo riverso di Miguela.
Antiogu prese subito in braccio Jacu, che si riscosse e rabbrividì,
come risvegliandosi in quell’attimo.
Errita, dopo essersi chinata con un cenno di carezza sul corpo
della cognata, si volse a raggiungere il marito, che in fretta scendeva
verso il paese.
Rimasta sola, Masica si levò, trascinando i piedi con un lamento
acre verso la bimba che aveva allattato, parendole che
quei pochi passi fossero la strada più lunga e dolorosa che le
fosse mai toccato di fare.
Prete Bosincu risaliva il sentiero riparandosi con un parapioggia
malconcio, quando Masica gli piombò addosso.
– Ohi, prete Bosincu, per tutti i santi di Dio, aiutatemi!
I colpi risuonarono forti e ripetuti alla porta di Antiogu Massa.
Errita impallidì dinanzi a Masica che, in piedi sulla soglia, diceva
con voce decisa:
– Prete Bosincu la sta portando giù, ma ha bisogno d’aiuto.
– Qui? Ma perché… – domandò Antiogu, cambiando colore
anche lui. La voce di Masica si indurì ancora:
– Perché è viva. Ed anche per un’altra ragione, che sapete meglio
di me.
235

Errita, convulsamente, le fece cenno di tacere, strappandola
dalla soglia e chiudendo la porta. Masica la respinse:
– Visto che tutti si rivoltano, mi rivolto anch’io. Con tutto
quello che ho passato oggi, non tarderò molto a comparire davanti
ad un giudice che se ne ride di tutti i giudici ed i giudizi di
questo mondo. Mi preme più la verità che la vita.
Errita chinò il capo, con un sospiro. Il marito le strinse una
mano, poi si rivolse alla serva: – Non credere di farci torto, Masica:
arrivi come la mano di Dio, a levarci un peso dalla coscienza.
Sentirono dei singhiozzi e si voltarono: aggrappato allo stipite
della porta di camera sua, Jacu piangeva.
La festa d’Ognissanti, quell’anno, cadeva di domenica.
Da quella sera di veglia funebre e temporale, in cui le grida
delle prefiche avevano attizzato il delirio nella mente di molti, il
nome di Miguela non era stato più pronunciato, nessuno aveva
osato sollevare lo sguardo verso le sue finestre, o verso l’altipiano.
L’unica cosa che ammettevano con sé stessi era che La Storpia
continuava ad essere un’ossessione da morta, così come lo
era stata da viva.
Al crepuscolo d’Ognissanti la processione con le reliquie scese
per la via Maggiore, cantilenando il rosario.
– Ave Maria prena de gratzia, su Sennori est cun tegus…
– Non è possibile! – bisbigliò una delle prime persone che,
dietro il reliquiario, sbucò in piazza.
– Santa Maria, mama de Deus…
Tutti, mano a mano che la processione avanzava, volgevano lo
sguardo al gradino della casa di Antiogu Massa, dove sedevano
Miguela e Jacu.
La preghiera scemò sulle loro labbra, allora, e lo sgomento si
impossessò dei loro animi più profondamente di qualsiasi altro
moto, più ancora della paura, della colpa che avevano proiettato
fuori di sé, dandole il volto e il nome di un’innocente.
Ma quello che li sgomentava di più era che Miguela, nonostante
portasse ancora sul capo e sul viso, i segni della loro violenza,
non rivolgeva loro uno sguardo di rimprovero.
Miguela invece sorrideva, e guardava più in là.
Più in là delle strade, dei tetti, più in là dei voli di rondini indugianti,
appesantiti d’ombra e di rugiada.
Per quel sorriso, che li aveva sempre irritati e che aveva ora
una dolcezza che li intimidiva, si sentirono come appena usciti
da un lavacro, guariti dal contagio che li aveva colpiti.
Avrebbero voluto possedere il segreto del suo cuore.
Miguela il cuore lo sentiva sciogliersi goccia a goccia, come un
pugno di neve nel tepore della mano. Ricordava il sembiante di
un sogno a lungo inseguito e si stupiva di scoprirlo così simile alla
realtà.
Seduto in terra, accanto alla madre, Jacu bisbigliava qualcosa.
Miguela gli rispondeva pacata.
Nel grembo di lei si scorgevano le loro mani vicine, con le dita
che si sfioravano appena. Sembravano, nel lucore del primo
quarto di luna, ali di farfalle bianche posatesi sullo stesso fiore.
237

238
XIII
Arega si para dinanzi alla maestra che, lasciando la sala
della taverna, cerca di evitarla.
– Le ho chiesto scusa. Cosa pretende di più?
– Pretendere? Ti sbagli: io non pretendo nulla.
Un colpo di tosse, discreto ma deciso, le fa volgere entrambe:
una con il viso in fiamme, l’altra con lo sguardo
furibondo, circondato dal nero del fazzoletto. Il medico
scende le scale con le braccia ingombre di bagaglio. Appena
mette piede nella sala lo posa a terra, salutando Cristina
ed ignorando Arega che indietreggia nella penombra
del sottoscala.
– Ci lascia, dottore? Ne sono dispiaciuta…
– Non vado distante e avrei piacere che lei e suo fratello
foste i miei primi ospiti, nella nuova casa.
– Volentieri. Ma anche noi non ci tratterremo ancora a
lungo. Dispero di riuscire a portare a termine il compito
che mi ero prefissa.
– La capacità e la forza d’animo non le mancano.
– È gentile a dire questo, dottore. Ma forza d’animo e
capacità non implicano spirito di adattamento: mi sento
così… estranea a questo luogo e alla sua gente. Vuol dire
che avrò preparato il terreno per un altro. In quanto a mio
fratello, gli affari della ferrovia lo porteranno distante ed
io dovrò tornare ad Oristano.
– Sono io ad essere dispiaciuto, allora. Resterò l’unico
239

strangiu in quest’angolo di mondo dimenticato… – si interrompe,
rendendosi conto di pronunciare una frase certo
poco gradita ad una credente come Cristina. Ma lei annuisce:
– Dimenticato da Dio? Forse, dottore: perciò vado via.
Questo posto non mi piace: c’è qualcosa di torbido… non
so spiegarmi. Certamente lei penserà che sono i miei nervi,
ma non posso vivere oltre in un posto come questo. Pensi,
– aggiunge abbassando la voce, – questa mattina non ci è
stata servita la colazione, perché la padrona asseriva che il
latte, messo al fuoco si coagulava immediatamente. E continuava
a dire: è un brutto segno, brutto!
– È gente superstiziosa.
– Dottore, lei certamente può capirmi: tutte le certezze
sulle quali avevo fondato la mia vita, qui non esistono. Ed
io, a differenza di questa gente, non so come sostituirle.
Quando si lasciano, salutandosi, Cristina passa oltre la
porta, avviandosi verso la scala.
Dal pavimento in terra battuta della sala, attraversando
quella porta, si passa ad un piancito di legno, sotto il quale
si trovano le cantine.
Forse le scarpe di Cristina sono bagnate, fatto sta che
sembrano lasciare sul piancito, nitide orme color sanguigna.
Poi, forse per un cambiamento di luce, per il passare
rapido di una nuvola, non si vede più nulla.
La padrona, arrivata silenziosamente, sta sbirciando oltre
la spalla di Marco e fissa anche lei il piancito. Poi mormora:
– Poverina! … Dottore, se si accontenta… – e mostra
il vassoio con pane e formaggio. – Oggi non posso servirle
altra colazione. Il latte…
– Sì, sì, lo so: non importa, – taglia corto lui.
* * *
Non gli pare vero. Per la seconda volta, da quando è arri-
240
vato a Gurtei, disfa il suo bagaglio, ma questa volta lo fa
con un umore di ottimismo che lo mette in condizioni di
fare programmi per il futuro e di organizzare, oltre che la
sua vita, il suo lavoro.
Marco è proprio soddisfatto di come Aleni ha fatto preparare
quelle tre camere. Ora, oltre alla camera da letto,
ha uno studio - un vero studio! - con una scrivania ed una
libreria. Ha già scritto a casa per farsi mandare i suoi libri.
La terza camera, quella che affaccia sulla strada e che
doveva essere attrezzata a gabinetto medico, la utilizzerà
come soggiorno, data la presenza, in un angolo appartato,
di un camino e di un piccolo focolare in pietra, nel quale
potrà prepararsi qualche bevanda calda. I pasti, quando
non avesse voglia di scendere alla taverna, gli verranno
portati fino a casa, per un prezzo ragionevole.
Per quanto riguarda il gabinetto medico, ha dovuto cedere
alle insistenze della famiglia Refundana, e accettare
un locale, ampio e luminoso, al piano terreno della loro
casa.
Le ragioni, discusse tra sé prima di prendere quella decisione,
sono state molte e decisive. Anzitutto la considerazione
che i pazienti salirebbero malvolentieri fino alla
dipendenza della casaforte; in secondo luogo, l’affitto che
il Notaio gli ha chiesto a nome di Aleni, unito a quello che
gli domandano i Refundana, corrisponde a quanto lui
aveva preventivato di spendere. Ma, accettando di allestire
il gabinetto in paese, può godere dell’uso personale di
un’altra camera nell’appartamento dove vivrà.
La sistemazione comincia a convenirgli, tanto che sta
prendendo in considerazione l’idea di accettare lo stipendio
che gli fu proposto per occuparsi stabilmente della
popolazione di quella zona, e che lui respinse, ritenendo
che ne avrebbe avuto abbastanza della campagna vaccinazioni.
Il terzo motivo di quella scelta, assai meno confessato
241

degli altri, è che ha piacere di abitare vicino ad Aleni.
Il suo appartamento è separato soltanto da una porta da
quello dove la baronessa vive con Larentu e Marta. Di
quella porta, che divide il corridoio in due, chissà mai se è
esistita una chiave.
Se il gabinetto fosse stato allestito in casa, quella porta
sarebbe dovuta essere murata. Invece così, basta un bussare
discreto per annunciarsi, evitando di passare dal sentiero
esterno che è sotto gli occhi di chiunque sollevi lo
sguardo, dalle strade del paese o dalle finestre.
Li ha appena formulati, che tutti quei pensieri gli levano
nello sguardo un’ombra di preoccupazione.
La parte più rigorosa e intransigente di sé, quella che
non piace a zio Stefano, non fa che bacchettarlo perché,
dopo aver elegantemente chiuso porte di discrezione in
faccia a tutti, ha lasciato come unico accesso proprio quella
porta senza chiave.
La signora Refundana gli ha fatto capire che tutto il paese
ritiene disdicevole che lui abbia preso alloggio in casa
di una vedova.
Marco, sorridendo, le ha risposto che gli è stato dato
l’appartamento già reso indipendente per Raimundo e la
moglie. Quindi, che non alloggia presso chicchessia, ma è
in casa sua. Le ha detto, inoltre, che benché in principio
fosse intenzionato ad accettare la sua offerta, ci ha rinunciato
perché la gente avrebbe ritenuto assai più disdicevole
se avesse preso alloggio da lei, una donna sposata con
due figlie in casa. Ha aggiunto, anche, che la gente da poco
trova disdicevoli le cose più normali, quando non ne ha
di davvero disdicevoli da criticare. Ma che raglio d’asino
non sale al cielo, quindi lui non ci fa caso.
La Refundana, che non l’ha mai sentito parlare in maniera
così decisa, è stata costretta a dargli ragione. Ma è
persona di modi troppo diretti per rinunciare a reiterare
un consiglio.
242
– Dottore, avrà certo ragione lei, ma… non si fidi della
sua vicina. Da quattrocento anni a questa parte, chi si è fidato
dei Ballester se ne è sempre dovuto pentire!
* * *
Aleni è salita alla casaforte molto presto, ed ora è davanti
alla porta in fondo alla Galleria dei Ritratti.
Ha detto a Marco che chiude un ripostiglio, ma in cuor
suo sa di avere visto cento, mille volte, le ragnatele intessute
tra gli stipiti ed il drappeggio della tenda, tremare per
lo spiffero d’aria.
Sa di avere sentito cento, mille volte, oltre quella porta,
ma più distante, quel sussurro desolato: – Mamma… –
Quante volte, affrettando il passo nella semioscurità della
galleria, si è sentita drizzare i capelli in capo e intirizzire
tutta per quella voce - appena un bisbiglio, tra le altre voci
che sente - di là da quella porta.
Si sforza di vedere chiaro dentro sé stessa. E mentre cerca
il bandolo dei propri pensieri, strappa con un gesto
meccanico, senza proponimento, le ragnatele.
Finalmente, risvegliata dalla sensazione di disgusto che
quelle filacce vischiose le causano, abbassa la maniglia e
spinge.
La porta, vecchia e chiusa da tanto tempo, resiste cedendo
solo ad una spinta più decisa, raschiando con un
rumore che echeggia a lungo. Aleni si ritrova un muro dinanzi,
ma intravede sulla destra, nell’oscurità del pianerottolo,
i gradini di una scala ripida. Comincia a risalirla
trovandosi, per le vicissitudini della vita, sempre meno indugi
da rompere.
In cima ai gradini, ammucchiati l’uno sull’altro con una
pendenza che sfida la vertigine, una tessitura di spiragli di
luce le permette di orientarsi.
Quella parte della casa le è sconosciuta. O forse no? Il
243

groviglio di pensieri forma un nodo di dubbio che, di colpo,
si stringe ad un rumore inaspettato.
È un raschiare intermittente.
Trattiene il respiro e tende l’orecchio.
Allunga la mano e ne lascia cadere il peso sulla maniglia
della porta che si para tra lei e il rumore. Quella si apre,
con un cigolio.
Investita dalla corrente d’aria, guarda interdetta: le foglie
accartocciate ricoprono il pavimento come un tappeto,
dalla finestra al camino e dalla porta a quella dirimpetto.
Fuori, un albero più che centenario sferza l’aria ventosa
con i rami. Una folata più violenta delle altre accentua il risucchio
all’interno e le foglie si levano, lasciandosi trascinare
tutte incontro ad Aleni, con la leggerezza delle cose
restate in questo mondo senza più legame con esso, a parte
un’apparenza fisica che via via si muta in trasparenza, in
fantasma.
Lei, che sente di essere unita a tutto quanto se ne va da
una comunanza di linguaggio che discende dalla consapevolezza
di un identico destino, tende le braccia.
Frusciando sul sibilo del vento, le foglie salgono alle sue
mani, brulicano sulle braccia, dandole brividi che le sembrano
di sangue restituito al suo scorrere più vigoroso. Indugiando
sul viso e sui capelli, che ondeggiano sul risucchio
della corrente d’aria, le foglie sussurrano la necessità
che l’ultimo perdono sia concesso.
Poi tutte passano oltre.
Aleni, ancora con le braccia tese, avanza di un passo.
Ora che il pavimento è sgombro vede le gocce scure, rapprese,
che segnano un percorso di dolore e paura dalla finestra
a sinistra fino alla porta che si trova dirimpetto a lei.
Con un sospiro che è quasi un gemito, si arrende all’evidenza
di essere caduta nelle panie che da tanto tempo, e
con tanta attenzione, si è sforzata di eludere.
244
Sente le ginocchia piegarsi e asseconda quel cedimento.
China il busto in avanti e, con i polpastrelli cerca le gocce
scure, soffia via da esse la polvere, con i lineamenti alterati
dallo struggimento, finché un singhiozzo la costringe
ad interrompere la sua ricerca e a lasciarsi andare contro
il muro.
Remigando come uccelli smarriti, immagini del passato
si radunano su di lei, oscurandole la mente, scendendo a
tagliare con l’ala, la superficie del tempo che Aleni si è
sempre sforzata di tenere immobile, come quella di uno
stagno.
La scala che dalla casaforte scende al cortile, ha una
ringhiera di ferro, che ormai la ruggine ha reso fragilissima.
Aleni, uscendo nel pianerottolo vi si aggrappa barcollante,
abbagliata dalla luce improvvisa. Ma cosa c’è laggiù,
sotto l’arco del portale?
Sotto l’arco del portale Aleni giovinetta entra per la prima
volta nel cortile della casa di pietra. Si guarda attorno,
schiudendo le labbra per lo stupore.
Intravede, ma non ne è sicura perché il sole la costringe
a socchiudere gli occhi, una donna vestita di nero aggrapparsi
alla ringhiera di una scalinata che si inerpica di fianco
alle mura.
Si domanda chi sia, ma Don Iñigo la prende con poche
cerimonie per un braccio e la conduce verso la casa dei
servi, dove abiteranno per economia, riscaldandosi con lo
stesso fuoco che si userà per cucinare. Aleni quasi ne gioisce,
perché pensa che il peso di tanta pietra le graverebbe
il cuore, insopportabilmente più di quanto lo senta gravato
da ogni parola dello sposo.
“Altre cose ti graveranno, più pesanti delle pietre,” pensa
Donna Aleni e, per un altro breve attimo incontra an-
245

cora quello sguardo di giovinetta, quegli occhi di primavera
fugace, incantati e tristi.
E Iñigo! Che stupore vedere, ora, quella smorfia di affettata
severità che tanto timore le aveva ispirato per anni.
Che pietà vedergli scavare nel volto, in certe espressioni,
le stesse rughe che il travaglio dell’agonia gli avrebbe più
profondamente inciso.
Come sembra piccolo e meschino, visto dall’alto di
quella scala. Perché, si domanda, ha lasciato che quell’uomo
le facesse tanto male?
Forse perché sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe,
come ora, potuto provarne pietà.
Aleni trasale. In piedi sulla soglia della porta della Domu
’e is fogus, è comparso Marco. Lei però non sembra
avvedersene: fissa con occhi sbarrati lo sguardo di primavera
fugace nel viso di quella Aleni giovinetta che le passa
accanto, e che si ferma nel suo con lo stesso stupore, con
la stessa muta domanda.
Aleni gli porge la tazza di latte fumante, e Marco la
prende come soprappensiero.
– Non voleva credermi? Eppure le ho detto che questo è
un luogo di visioni. E deve averglielo detto anche suo zio.
– Come posso credere in un accadimento che contraddice
tutte le regole che fino ad ora hanno governato la mia
intelligenza?
– Dottore, io non so perché, né infrangendo quale regola
accadano queste cose, ma devo arrendermi all’evidenza.
A che pro negarlo? Mi dica, ha visto me anche l’altra
mattina, in questa stanza. È vero? Più giovane, tanto tempo
fa…
Marco stringe tra due dita la radice del naso, come se
quel semplice massaggio possa riattivargli l’uso di un raziocinio
che, per il momento, sembra darsi alla latitanza.
246
Caparbiamente, evita di rispondere, così è lei che parla
nuovamente.
– Io la vidi per la prima volta proprio il giorno in cui misi
piede a Gurtei, in piedi su quella soglia.
– … Me?
– Sì. E poi mille altre volte, negli anni successivi. L’ho vista
là, dove siede adesso, e laggiù, e qui accanto. Ogni angolo
di questa casa mi è diventato sopportabile soltanto
perché ci vedevo lei. Il mio ospite sconosciuto…
– Perché mi racconta queste cose? – chiede Marco, turbato.
– Perché sono la verità e perché, lo voglia o no, la riguardano.
Anche l’impulso che quella mattina la spinse a tornare…
non capisce? Cerca ancora spiegazioni razionali,
giungendo a ritenerle, al più, irragionevoli? C’è una sola
spiegazione: siamo legati. Uno di qua, uno di là da un baratro
di tempo, ma in qualche maniera, legati. Si figuri che
l’ho sentita arrivare quando la sua carrozza era sicuramente
ancora lontana dalla valle di Gurtei.
– Ma, – interloquisce stupito di sentire la propria voce
proferire quella domanda, – cosa significava per lei, quella
presenza?
– Significava speranza. Io credo di essere sopravvissuta
soltanto per la speranza che, un giorno lei sarebbe arrivato
e la mia vita sarebbe cambiata. Irragionevole speranza.
Un sogno! Ma basta quello, per sopravvivere. Poi gli anni
sono passati, i miei capelli sono diventati grigi e anche
quella speranza si è spenta.
La voce ha un timbro di desolazione che fa ribellare
Marco. Si alza, non potendo più contenere l’agitazione e
lo stupore che quel racconto gli hanno suscitato, e si appoggia
alla mensola del camino, con le spalle rivolte al
fuoco.
– Ma io sono arrivato. Sono qui.
– È vero. Troppo tardi, però.
247

– Perché dice questo?
Gli occhi di Aleni, d’un tratto, si riempiono di luccichii.
– Quella presenza, che mi teneva compagnia nei momenti
peggiori, è stata l’unica cosa bella della mia vita. La
amavo così come si amano i sogni che vorremmo si avverassero…
Non mi fraintenda: voglio farle capire! Le racconterò
cos’era la mia vita, cosa è stata, perché lei capisca
il motivo del mio attaccamento a quel sogno. Ma ad un
certo momento, quando mi sono resa conto che troppi
anni erano trascorsi e che l’avveramento non era più possibile,
rinunciare è stato giocoforza…
Si leva dalla sedia, a fatica, come se quella confessione
l’abbia sfinita.
– Anche se ho rinunciato a quel sogno, però, non posso
perderla ugualmente: lei è rimasto troppo tempo dentro
di me, come l’unica luce in un buio totale. La prego, – aggiunge,
– non mi faccia mai mancare la sua amicizia.
– Ad un patto: che lei impari ad avere per me l’attaccamento
che aveva per quel sogno.
* * *
«Sempre in autunno la pioggia seguita da vento sciroccale
scatena l’endemia.
Molti casi di amaurosi malarica persistente. Grande
percentuale di ciechi per atrofia del nervo ottico.
“Vivo tibi morientur oculi…” e non vedrai mai più,
tranne che in sogno.
Soffro da alcune ore di mal di capo e brividi intensi: a
tratti mi sembra di sragionare. Temo di aver preso il contagio.
A Gurtei, questo luogo maledetto, o benedetto, le allucinazioni
cominciano a manifestarsi come sogni notturni,
poi trapassano nello stato di veglia, e si perde la capacità
248
di distinguere tra sogno e realtà. Oppure, la realtà acquista
dimensioni più vaste che altrove, a causa del regime allucinatorio
in cui si vive. Il tempo non pare unidirezionale;
lo spazio si contrae e si dilata.
Quale è il rapporto tra amore e sogno?»
MIGUELA
BALLESTER
* * *
– È il letto di Raimundo? – domanda Marco posando la
lampada sul suo comodino. JACU BALLESTER
– Sì. – Aleni si è stupita quando ha sentito bussare alla
porta di comunicazione, ed ora non capisce il motivo di
quella domanda.
Senza rispondere Marco indica lo stipite dell’alcova: il
legno è stato scalfito con qualcosa di appuntito, fino a
ALENI
IÑIGO BALLESTER
comporre una miriade di parole a caratteri diversi che si
ammassano, si intersecano le une con le altre, alcune diritte,
altre storte. Molte sono italiane, ma alcune sono incomprensibili.
Tra queste, una spicca per il taglio grande
VIOLANTE ed angoloso JUAN delle lettere. BEATRIZ È quella che Marco indica.
Aleni compita, aguzzando lo sguardo nella penombra:
– UNHEIMLICH. Cosa significa?
– È una parola tedesca, credo.
– Può darsi: Raimundo si vantava di avere imparato il
tedesco, a Torino. Aveva portato con sé qualche libro MARTA
MIGUEL
RAIMUNDO in
sa maca
quella lingua, – aggiunge accarezzando le incisioni con i
polpastrelli. – Perché questa parola la turba tanto?
– Perché è quasi la stessa parola che vidi scritta sulla copertina
del libro di preghiere che lei mi porgeva in sogno,
la notte del temporale. Quella era HEIMLICH.
Aleni scuote il capo: – Heimlich, unheimlich… cosa significano?
– Mi viene in mente quando scherzavamo, all’università,
costruendo giochi di parole. Il negativo UN, in tedesco,
significa qualcosa come strano, inquietante, che susci-
249
JUANNI
MASSA

ta paura. Lo usavamo come prefisso al nome dei professori.
La mia conoscenza del tedesco è tutta qui, purtroppo.
Ride brevemente, ma è una risata nervosa, perché fino
al momento in cui ha notato quella parola incisa nell’alcova,
non aveva ricordato quella incisa sul libro del sogno. E
questo lo turba.
Rimangono qualche tempo in silenzio, tentando percorsi
di pensiero che conducano ad una meta. – Mi parli di
suo figlio Raimundo, – domanda.
Aleni lo fissa a lungo, poi sospira: – Per raccontarle di
Raimundo, dovrò prima raccontarle di me.
250
251

Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Quando Iñigo, figlio di Jacu e di una castigliana di nobili origini
ma di scarsi mezzi, ottenne il permesso di assumere il cognome
della nonna Miguela Ballester ed il feudo, la famiglia era
ormai decaduta a causa della sconsideratezza del nonno Juanni.
Quella disgrazia, che aveva colpito la famiglia ben prima che
Iñigo nascesse, si attardò come una crudele disillusione nello
spirito del piccolo barone e, lungamente rimuginata, con il passare
del tempo gli radicò nel carattere un certo timbro d’amaro
che risuonava sordo contro la sua ferrigna protervia.
La madre, per il tempo che era rimasta in vita, aveva nutrito
Iñigo con il latte dell’orgoglio di casta, risvegliando sopite propensioni.
Allora il barone prese la decisione di trovarsi una moglie
che portasse sangue nuovo e nuove sostanze alla famiglia. E
che, soprattutto, venisse di tanto lontano da non conoscere la
fama che il nome Ballester evocava.
Era quella stagione dell’anno in cui, con gran concorso di popolo,
si svolgeva in Ogliastra la festa di Santa Maria, nell’antico
santuario a mare.
Iñigo, che era in viaggio in quella parte della Sardegna, così
lontana dalle sue terre, si degnò di accettare l’invito a partecipare,
con la sua gente, al banchetto allestito accanto al santuario.
Il cibo però non volle accettarlo: un nobile spagnolo non poteva
mischiarsi al popolo e cibarsi di carne di capra e pane di ghiande
impastato con argilla.
Mentre Iñigo respingeva la carne, una giovane del gruppo
che serviva a tavola, andò a mescere il vino a suo zio, parroco
del luogo. Così sentì anche lei le parole che questi ascoltava dal
sacerdote che Iñigo aveva condotto come suo cappellano e capì
che poteva approfittarne per certe sue cose.
Si chinò a bisbigliare qualche parola all’orecchio dello zio, in
un momento in cui non poteva essere vista, e quelle parole furono
riferite al cappellano e, da questi, al barone.
Lo sguardo del barone si sollevò su Aleni che, ad occhi bassi,
si avvicinava con il paniere della frutta.
252
La guardò: era poco più che una bambina e serviva con grazia
i commensali, insieme ad altre donne parenti della Prioressa
della festa. La osservò con interesse ancora maggiore quando
cominciò a danzare al braccio dei coetanei, con il viso colorito e
gli occhi bassi.
A sera, quando tutti ciondolavano stanchi intorno ai fuochi,
la nipote del parroco si accostò ad un giovane e lo trasse da parte.
Gli parlò a lungo, mentre quello faceva spallucce, poi si unirono
a loro il parroco ed il cappellano, terminando le loro trattative
lontano dagli sguardi.
Quando ritornarono in piazza, il barone si rivolse al padre di
Aleni domandandola in sposa ad alta voce.
L’uomo apparteneva a famiglia di antica nobiltà isolana che,
sotto gli spagnoli, aveva conservato i beni ed una certa misura di
prestigio. Aveva allevato la sua unica figlia provvedendole una
educazione ed una istruzione che non era consueto trovare in
una ragazza, a quei tempi. Non conosceva la famiglia Ballester e
la sua fama, perché Gurtei, per lui, era un luogo in capo al mondo,
così affermò di sentirsi onorato e acconsentì, non trovando
altro modo di trarsi onorevolmente d’impaccio dinanzi alla richiesta
pubblica di un barone, giunto là con grande sfoggio e
apparato.
Aleni sgomentò, si lasciò prendere da una disperazione stordita,
perché troppo in fretta e troppo dissimilmente dalle sue più
fervide speranze il destino si compiva, senza lasciarle scampo.
Presa per mano e trascinata in un festoso girotondo dalle sue
coetanee cercò invano tra i volti, i cui tratti si sfumavano nel
vorticoso girare, quello del giovane cui, ignara degli intrecci del
destino, si era promessa in un giorno di primavera. Sciolto il
cerchio del ballo, si accostò il fratello maggiore.
– Pensa, Aleni: abiterai in un castello ed avrai servi e cameriere.
Tutti ti faranno l’inchino, chiamandoti Signora baronessa,
Donna Aleni, padrona…
Durante il viaggio senza fine che la portava verso la casaforte
di pietra, in un paese dal nome che si impigliava in gola, Aleni
sospettò presto che le sarebbe toccato di essere serva, in quella
casa, piuttosto che padrona.
253

E lo fu per tutta la vita. Ma soprattutto fu serva del suo silenzio.
Serva alla maniera in cui deve esserlo una sacerdotessa, come
lo furono quelle sue antenate che, quando ancora la notte
del solstizio non portava il nome del santo battezzatore, recavano
l’acqua muta lungo il sentiero del silenzio alle case, per curare
i malanni e scacciare gli insetti.
In questo modo fu serva del silenzio, devotamente certa che
fosse l’unica via, concessa ad una del suo stato, per passare il più
indenne possibile tra i mali del mondo.
Don Iñigo non ebbe mai un atto di considerazione nei confronti
di quella moglie così strana, sempre con il naso in aria ad
annusare il vento come un cane da caccia, nella speranza che la
brezza di levante le portasse il profumo dei suoi monti in quella
terra febbrile e pestilente, gravata da un orizzonte che ostentava
il fasto barocco del sole morente e non la gloria fresca dell’alba,
come quella davanti al quale era nata.
L’aria di quel luogo, poi, pervasa da un odore denso, agliato,
che proveniva dagli stagni riarsi dal sole estivo, quando cambiava
il vento lasciava in bocca un gusto di sale, una sete ardente
che nessuna bevanda riusciva a temperare.
Il giorno in cui giunsero, Aleni guardò a bocca aperta, piegando
il capo all’indietro, la casa di pietra. Ma il marito scosse il
capo e le indicò le costruzioni in mattoni crudi tutto intorno al
cortile. Avviandosi verso la casa che doveva accoglierli sposi,
Iñigo le confessò, ridendo, di averla comprata per due lire dal
giovane al quale si era promessa, e che l’aveva presa nella speranza
che fosse di poche pretese e buona fattrice, ma che non
era certo, infine, d’aver fatto un buon affare.
Aleni chinò il capo, ingoiando quell’umiliazione che davvero
le pareva troppo amara per venirle prodigata dal marito sulla
soglia di casa, come dono di nozze.
Pretese Aleni non ne aveva. Persino quella di un poco di felicità,
legittima anche nella più povera delle creature, si era frantumata
nell’attimo stesso dell’infrangersi del sogno più caro.
In quanto ad essere una buona fattrice, lo fu: non riusciva ad
arrivare al capoparto che sentiva di nuovo crescerle in grembo
una nuova vita.
Alcuni di quei figli li perse ai primi mesi, con emorragie che la
condussero sull’orlo della tomba. Altri le morirono piccini. Al-
254
cuni vissero e, quando erano tutti piccoli, Aleni li chiamava uno
con il nome dell’altro, dava due volte il seno ad uno e si disperava
che l’altro piangesse tanto, atterrita dalla morte sempre in agguato
che gliene aveva ghermito già tanti.
La verità era che li confondeva, e non per poco amore di madre,
ma per sfinimento. Suo marito era tanto tirchio che, dopo il
primo mese di matrimonio, quando Aleni era già incinta, cacciò
i due domestici con la scusa che rubavano. In questo modo la
casa fu tutta sulle spalle di Aleni, insieme all’alternarsi dei fastidi
della gravidanza e delle fatiche del puerperio che, assai spesso,
si sovrapponevano.
Non aveva vizi quell’uomo, ma non conosceva né gentilezza,
né pietà. Del resto nemmeno lui si risparmiava. Per ricavare di
che campare dalle modeste risorse che gli erano avanzate dal riscatto
del feudo, si sforzava di metterle a frutto con la dote della
moglie. Il suo unico svago era, tornato a casa, sgravarsi del peso
di fatica e di passione con un amore rapido e brutale che lo sfiniva
e gli conciliava il sonno.
La notte, ascoltando il respiro di quell’estraneo, Aleni piangeva,
oppressa da una stanchezza tale che persino il sonno tardava
a giungere, a darle sollievo. Di quelle lacrime che le salivano
dal profondo quanto più cercava di ingoiarle, non capiva ella
stessa il motivo.
A volte, crollando nel sonno che scorrevano ancora, sognava
che il mare e il pianto fossero la stessa cosa ed era che, sulle sue
labbra, avevano lo stesso sapore di sale amaro.
L’alba la sorprendeva già china nella conca di terracotta, unico
privilegio concesso da Don Iñigo che non voleva si vedesse la
moglie del barone scendere al fiume con le popolane. Ma i panni
da lavare erano tanti che parevano non finire mai alle mani di
Aleni, già piagate.
Spesso le toccava, infatti, uccidere le cocciniglie tintorie raccolte
sulle querce spinose, tuffandole nell’aceto per poterle poi
far asciugare e sbriciolare, ottenendone il prezioso colore scarlatto
che si usava per tingere la lana.
Capitava raramente che il marito la picchiasse. Ma una notte
gliene diede tante che per giorni e giorni Aleni fu costretta a
biascicare pane ammorbidito nel latte, perché non poteva masticare.
255

Fu poco tempo dopo aver partorito il suo decimo figlio, nato
morto.
La febbre puerperale le restituiva a tratti la coscienza, ma era
molto debole. Quella notte Don Iñigo, svegliatosi da un sogno
che gli aveva rimescolato i desideri già troppo a lungo repressi,
si voltò a cercare la moglie. Lei, prostrata da un sonno ancora
malsano, reagì d’istinto, respingendo quell’aggressione alla carne
sua ancora pulsante del martirio del parto senza frutto. Egli
picchiò selvaggiamente, accecato da quel diniego al suo sacrosanto
diritto.
Aleni emerse dal sonno al dolore di quei colpi impietosi, di
cui non comprese mai la ragione, né mai osò chiederla.
Un giorno Don Iñigo morì.
Se ne andò di schianto, dopo aver riempito la casa di urla
atroci, gridando che mille granchi gli stavano divorando le viscere,
che l’aveva morsicato l’argia.
E chiamava il nome della moglie.
A lei pareva di non averglielo sentito mai sulle labbra il suo
nome e lo guardava spaurita, senza saper che fare.
Quando tutto fu finito e l’ebbero disteso sulla cassapanca
grande, era così livido che pareva l’avessero strofinato con le foglie
di guado e vestito per scherno con abiti troppo larghi.
Raimundo, piccino di quattro anni, si arrampicò su una sedia
e cominciò a giocare con i bottoni del vestito del morto.
Beatriz, la figlia minore congedò le prefiche e il vicinato dicendo:
– Andate, non c’è bisogno di piangerlo: era un uomo cattivo.
– Quando nella sala non ci furono altri che la madre ed i fratelli,
accennò il gesto di sputare sul viso di cera sporca del cadavere.
Il fratello Juan, solo un ragazzetto, l’unico che il morto avesse
in considerazione perché era il maschio primogenito, si ribellò a
quel gesto, esigendo rispetto. La sorella lo schiaffeggiò.
– Comanderai, qui, dopo che io mi sarò fatta monaca!
– Se non ti avrò ucciso prima, – replicò lui con le guance in
fiamme. Poi rivolgendosi alla maggiore delle sorelle:
– E tu, perché piangi? Se non fosse morto avrebbe presto scoperto
che sei incinta, e l’avresti pagata!
256
– Sì – singhiozzò quella, rivolgendo lo sguardo alla sorella minore,
– ma io non lo avrei ucciso, come ha fatto lei!
Aleni stordita, nel suo angolo di vedova troppo giovane,
guardò i figli come li vedesse la prima volta. Li ascoltò discutere
accorgendosi, allora, che erano cresciuti.
Non erano più i bambini che le mordevano a sangue i seni,
voraci di vita, né i tiranni prepotenti che si appendevano alla
sua gonna al solo udire la voce del padre.
Erano degli estranei come lo era stato lui. Così, capì che le sarebbe
toccato di avere paura di loro e del loro cupo fuoco, così
come ne aveva avuta di Iñigo e del suo gelo allontanante.
Beatriz si fece veramente monaca, espiando per tutta la vita il
parricidio commesso, senza che Aleni giungesse per lungo tempo
ad intenderne la ragione.
L’ultima volta che la vide, dietro la grata del convento nel
quale si era ritirata poco più che bambina, le gravò sul cuore
tutto il peso mortale della verità:
– Lui ha tolto a me la verginità ed io l’ho ucciso. Ma la colpa è
tua: se tu non lo avessi respinto, quella notte, lui non sarebbe
venuto da me.
Non si videro mai più. Aleni se ne tornò verso il calesse incespicando
nei suoi stessi passi, come un muflone ferito, sincopando
nel pensiero ragioni ed emozioni fino a sentirsene residuare
in bocca un amaro d’euforbia che la fece giungere a casa
boccheggiante.
Beatriz. Dura Beatriz dal cuore sigillato. Beatriz di pietra di
basalto, con il capo chino dietro la grata, che dal fondo del suo
esilio aveva preferito l’accusa al silenzio, scegliendo di iniziare
l’espiazione da un colmo di peccati che comprendesse anche
quella cattiveria, contro la madre innocente.
Aleni restò, per molto tempo, annientata da quelle parole. Ma
la vita incalzava.
Una notte dei lamenti la strapparono al sonno: la figlia maggiore
Violante, appena quindicenne, abortiva, inarcando il corpo
minuto in una pozza di sangue.
Aleni l’assistette, pensando che la morte del padre avesse provato
la ragazza più di quanto avesse mostrato. Ma alcune parole,
forzate dal delirio e tradite dalle labbra, la fecero impallidire:
257

Violante aveva rifiutato con tutte le forze quel figlio, fino a rischiare
la sua vita stessa, pur di sopprimere quella che le cresceva
in seno. Aleni comprese presto il perché, a sentire il nome
dell’amante che la giovinetta urlava nel delirio: il nome di un
giovane che, come si raccontava in paese, era stato ammazzato
per vendetta in modo orrendo, forse da un rivale in amore. Era
stato legato, evirato e lasciato morire dissanguato con i suoi
stessi genitali cacciati in gola, perché non potesse urlare.
Mancava ancora parecchio a che gli spuntasse la prima barba,
che il baronello Juan cominciò a spendere a piene mani. Così se
ne andarono parte delle vigne e dei salti acquistati con la dote di
Aleni. E se ne sarebbero andati anche gli altri se Violante non si
fosse ribellata, affrontando il fratello e giurandogli che l’avrebbe
ucciso nel sonno, se non le avesse lasciato il tanto per farsi
una dote onorevole.
Ma tutti, nei dintorni, sapevano che Violante non era vergine.
Solo uno venne a domandarla in sposa. Lei accettò, ma Aleni vide
il suo viso impietrirsi, nell’assenso.
La sera, mentre consumavano una magra cena, Violante disse:
“È lui che ha fatto uccidere il mio uomo. Non lascerò che goda
a lungo di me, lo giuro.” L’odio di quelle parole, fulmineo,
colpì lo sposo poco tempo dopo le nozze.
Aleni non si domandò nulla, questa volta, neanche per quale
via i suoi figli conoscessero così bene l’arte di fare del male,
ignorando del tutto quella di far bene.
Violante fu diversa, da quel giorno. Le si leggeva in viso l’angoscia
rabbiosa di un sospetto che, dopo poco, divenne certezza:
nel ventre dal quale aveva scacciato il figlio dell’amante, cresceva
ora quello dell’assassino, ucciso a sua volta in una vendetta
che non aveva dato pace, anzi, le aveva tolto l’uomo che, in
quel breve tempo, era riuscito ad accendere in lei un fuoco di
desiderio oscuro e rodente.
Quel bimbo nacque e fu chiamato Miguel.
Violante si riconciliò con il fratello Juan, ritrovandosi nel sangue,
torbido in entrambi, una propensione a legare a quelle di
lui, morbose, tutte le sue inclinazioni. Insieme si diedero a dilapidare
in vizi quanto era entrato nella famiglia con quel matrimonio.
258
Così, come loro affondavano, Aleni rinasceva. Provava per la
prima volta la gioia della maternità. Accorgendosi che Raimundo,
crescendo, assomigliava troppo a colui che lo aveva generato,
si dedicò a crescere il bambino di Violante, che le fu del tutto
abbandonato. Lo fece con la totale dedizione che aveva avuto
per i suoi, ma consapevole ora, godendola attimo per attimo
e strappandola alla vita ed al destino, trasfondendo in quell’essere
tutta l’inclinazione alla bontà che si sentiva dentro.
Crebbe Miguel, dolce di carattere, sognatore, con un unico
grande dolore: quella madre che non lo amava, che lo guardava
con odio.
L’amore della nonna, pure totalmente accettato, non riusciva
a colmargli tutti gli spazi del cuore, lasciandogli profondità di
solitudine che, entrambi lo sapevano, non potevano da quello
solo essere riempite.
Violante, per cattiveria, ostentava affetto per il fratellino ed
ignorava il figlio. Un giorno decise che avrebbe pagato gli studi
a Raimundo, perché godeva già ora alla prospettiva della differenza
che gli anni avrebbero creato tra lui ed il suo compagno di
giochi.
Così Raimundo partì per un collegio di Torino e, quando tornava
a casa per le vacanze, Aleni vedeva crescere l’immagine di
Iñigo in lui, spogliata della sua grettezza, ma con la protervia intatta.
Miguel aveva quindici anni quel giorno di novembre agitato
di venti che tentavano di prevalere l’uno sull’altro, in un ribollire
di nuvole plumbee.
Il giorno precedente Oristano si era levata in armi al rintocco
del campanone. Si urlava a voce piena contro i tributi, si chiedeva
l’apertura dei magazzini del grano. Come il fuoco di una miccia,
la rivolta corse veloce a Bauladu, a Milis, a Bosa. Truppe regolari
con i cannoni e l’appoggio della cavalleria miliziana cominciavano
a convergere verso quei luoghi, con l’ordine di usare
la forza per ricondurre la popolazione all’obbedienza.
Si diceva che alcuni ricercati si fossero diretti a Gurtei.
Miguel mancava dalla mattina. La madre capitò in casa nel pomeriggio
e trovò Aleni disfatta dall’attesa e terrorizzata all’idea
che il ragazzo potesse, per curiosità, essersi mischiato ai rivoltosi.
259

Calava un crepuscolo precoce, ed il vento portava l’eco di
sporadici spari.
Attesa la faccenda per cui era venuta, Violante uscì e, con la
coda dell’occhio, colse un movimento lungo la scarpata della
casaforte. Era suo figlio che si arrampicava su un albero alla disperata,
con un braccio inerte e insanguinato.
Era appena riuscito a buttarsi oltre il davanzale di una della
camere più alte della casa, quando sbucò nella via un gruppo di
gente di truppa, armata di moschetto.
I soldati, ansimanti per il lungo inseguimento, si guardarono
attorno, fermando infine lo sguardo su Violante.
Lei fece un gesto solo. Tutti gli occhi seguirono la direzione
del gesto fino alla finestrella in alto.
Aleni vide i soldati irrompere nel cortile, guardò i moschetti e
gridò, trascinando i piedi di piombo appresso a loro che salivano,
salivano, violandole casa, viscere e cuore, senza curarsi di lei.
Arrancò nella galleria e poi nello stretto budello della scala.
Entrò nella stanza sparsa di gocce vivide nel momento in cui i
soldati spalancavano la porta della stanza dirimpetto, rivelando
il letto dove Miguel, sfinito, si era gettato.
Aleni fece in tempo a scorgerlo, insanguinato, gettare uno
sguardo smarrito sui soldati che lo agguantavano, poi ebbe un
cedimento di coscienza, uno strappo, e l’unica cosa di cui si rese
conto fu che il budello oscuro, con la ripida gradinata in discesa,
le veniva incontro inghiottendola.
Restò là, nell’angolo tra l’ultimo gradino e la porta come uno
straccio dimenticato.
Fu forse la misericordia di Dio a risparmiarle il resto, lasciandola
per molti giorni in preda al delirio.
Le raccontarono poi dell’ordine crudele, del cappio preparato
in piazza, come avvertimento per chiunque avesse in mente
di unirsi ai rivoltosi. Le dissero dell’unica straziante parola che
il ragazzo aveva rivolto a Violante, ferma in mezzo alla strada: –
Mamma, – chinando poi il capo e lasciandosi condurre via.
Aleni seppe sempre, con certezza, che fu il tono di quella parola
a segnare il destino di sua figlia. Lei conosceva il cuore del
ragazzo che aveva allevato. Sapeva che, domandando con quella
sola parola la ragione di tanto odio in quel momento estremo,
260
nella sua voce non poteva esserci risentimento, ma solo il desolato
stupore degli innocenti, che lascia tutto intatto l’amore.
Il ragazzo non staccava lo sguardo dalla madre, come comprendesse
che non c’era più molto tempo perché potesse saziarsi
della visione di lei.
Violante, inchiodata da quello sguardo, non si mosse. Assistette
all’orribile armeggiare intorno al collo del figlio come fosse
fatta di pietra, flagellata dal vento del crepuscolo e dalla polvere.
Guardò i sussulti del corpo, uno ad uno, fino all’abbandonata
immobilità della morte; attese che spiccassero la testa dal
cadavere e la esponessero, gocciolante sangue e umori, nella
piazza deserta. Continuò a sostenere quello sguardo, lasciando
che l’orrore entrasse in lei, permeandole ogni fibra dell’essere,
prima di voltare le spalle.
Aleni poteva solo immaginare quale orribile arsura potesse
aver disseccato il cuore di quella madre, quale vento di odio per
sé stessa potesse aver spazzato le garighe della sua anima, da
quel momento in poi.
Dicevano che si vendesse per strada, ai carrettieri, per un tozzo
di pane, sperando di sentirsi crescere nel ventre un figlio che
riempisse il vuoto lasciato da quelli cui lei aveva tolto la vita.
Raccontarono come, un giorno di agosto, arrivasse al mezzodì
in un’aia gremita di cani. Dissero che aveva i capelli sciolti,
gli occhi asciutti e folli, una ferita fresca al braccio.
I cani, impazziti per il gran caldo, affamati ed eccitati dall’odore
del sangue, la circondarono.
La lingua penzoloni tra le fauci, gli occhi incollati alla preda,
impiegarono un’eternità ad attraversare l’aia a rallentate falcate,
sollevando nugoli di polvere.
Cadde senza un lamento o, forse, il suo grido non superò la
poltiglia d’aria rovente e polvere, nella quale anche i gesti erano
lenti, impediti.
Gli aggressori si contesero a lungo, sulla polvere dell’aia,
chiazzata di sangue, il corpo fatto a brani, mentre l’aria ronzante
di mosche tremolava di riverberi vermigli.
Qualcuno disse che si era ferita apposta. Nell’aia non restò
che qualche lembo insanguinato di camicia, che il vento esausto
di scirocco batteva a terra con uno schiocco lento, osceno.
261

Un gemito aspro. Aleni si sente mancare. Ma le vibrano nel
sangue i brividi del suo stesso digrignare di denti, del graffiare
delle unghie sul legno del tavolo al quale si aggrappa, per vincere
la nausea.
Amara Violente! Aleni si chiede, a voce alta, davanti a Marco
che la guarda con gli occhi lucidi e desolati, quanta pace abbia
potuto trovare sua figlia in quel gettarsi ai cani nella vita e nella
morte, in quell’espiazione che davvero pare troppa, e troppo
cruda per qualsiasi peccato, fosse anche quello, terribile, per il
quale lei l’ha cercata.
Ah, come la terribilità della vita sopravanza, spesso, quella
della stessa morte!
Chissà se ha intuito almeno, dietro il silenzio della madre, il
suo perdono. Certo, lei ha tutti capito, tutti perdonato. Un unico
perdono le è restato nel cuore, impietrito, come silice in una
clessidra da troppo tempo immobile: il perdono per se stessa e
per il suo silenzio. Per quel suo essere stata così umile e tacita
anche oltre ogni ragionevolezza, anche quando, con una parola,
avrebbe potuto cambiare il destino di coloro che amava.
Don Juan se ne andò poco tempo dopo, consumato dai suoi
vizi, con la mente ottenebrata dalla disillusione che, dall’anima
del padre, si era distillata nella sua, goccia a goccia, come estrema
eredità.
Fu in quel periodo che Aleni cominciò a visitare la casaforte,
a leggere, a ritrovare il senso di se stessa e del suo essere al mondo,
aiutata con discrezione dal Notaio.
Inoltre non era sola.
Qualche anno prima, una sera di novembre, mentre allestiva,
com’era tradizione, la cena dei morti, un’altra persona entrò
nella sua vita.
Aleni aveva sparso luminelli in tutta la casa e, a quella fioca luce,
apparecchiava per tutti i suoi morti. La campana grande rintoccava
un colpo, alternato ad un colpo della piccola, lentamente.
Bussò il sacrista, con il grido consueto: A su Purgadoriu! domandando
l’offerta per le anime, che depositò nella bisaccia in
groppa ad un asinello. Il giorno dopo, accompagnate le anime
al camposanto, l’elemosina raccolta sarebbe stata distribuita ai
poveri.
Quando l’asinello si fu allontanato, trascinato dai chierichetti,
sulla porta comparve un giovane che conduceva per mano un
bambino.
Era gente del suo paese, si rese conto Aleni con un tuffo al
cuore, riconoscendo l’inflessione della voce. Poi, guardando
meglio i due nuovi venuti, si sentì trasportare indietro nel tempo:
nei tratti del volto i due avevano, marcata, una rassomiglianza
con il giovane al quale Aleni si era legata tanto tempo prima
da una promessa che era stata costretta, poi, ad infrangere.
Il giovane, condotto vicino al fuoco e rifocillato, raccontò che
suo padre, morendo, gli aveva raccomandato di andare da Aleni,
di raccontarle in quale maniera il loro destino si era compiuto.
La migliore amica di lei lo aveva istigato a rompere la promessa,
accettando dal barone una somma di danaro. Riteneva, comunque,
che quella promessa infranta avesse fatto la fortuna di
Aleni, che era andata sposa ad un barone, mentre lui, sposata la
sua istigatrice, aveva vissuto una vita infelice. Quindi non le
chiedeva perdono, anzi, come compenso per la fortuna che le
aveva procurato, le chiedeva, in punto di morte, di occuparsi
del figlio minore perché l’estrema povertà non avrebbe consentito
al maggiore di garantirgli il necessario per vivere.
Aleni ascoltò, ingoiando amaro, sfiorò con una carezza le gote
scarne del bambino, ne sondò lo sguardo degli occhi buoni e
riuscì a sorridergli.
Al giovane che lo accompagnava offrì un lavoro, ma quello
disse di avere moglie e figli altrove. Allora, poiché non aveva danaro,
ordinò ai fattori di dargli qualche capo di bestiame perché
alla famigliola non mancasse il latte, il formaggio, la carne.
Il giovane si inginocchiò ringraziandola, ed abbracciò il piccolo,
con mille raccomandazioni. Larentu guardò andar via il fratello.
Poi sollevò, sulla donna vestita di nero, due grandi occhi fiduciosi,
mettendo in quella di lei, tremante ancora per la rivelazione,
la piccola mano.
263

264
XIV
Aprono una dopo l’altra le casse dove sono stati raccolti
gli oggetti appartenuti a Raimundo.
– Ah, vediamo questi: sembrano in lingua tedesca.
Marco solleva alcuni libri. Li sfoglia a lungo, con cura,
cercando un indizio che possa aiutarli a capire. Finalmente,
mentre scorre un’opera di Schelling, la sua attenzione
è attratta da una sottolineatura decisa che rimanda con un
asterisco ad una nota di traduzione, a piè di pagina:
UN: strano, inquietante, che suscita ignote paure.
HEIM: casa.
HEIMLICH: familiare, celato agli sguardi, segreto.
UNEIMLICH: tutto ciò che dovrebbe rimanere segreto e celato,
ma invece è venuto alla luce.
– Ecco, finalmente! – Porge il libro aperto ad Aleni e,
mentre lei si rialza scuotendo la polvere dalle mani, un foglio
ripiegato scivola dalle pagine e plana ai suoi piedi.
Nel soggiorno c’è un tepore piacevole ora che Larentu
ha aggiunto legna al fuoco e riempito i bicchieri.
Il Notaio, che ha ascoltato con attenzione tutto il racconto,
inforca gli occhiali, controlla la nota di pugno di
Raimundo, poi annuisce.
– Il barone, come voi mi dite, parlò ad Arega di un segreto
riguardante il destino della stirpe, quando le diede il
265

libro di preghiere. HEIM significa casa, ma credo che il significato
del vocabolo possa estendersi fino a ricomprendere
quello di casata, di stirpe. In qualche maniera deve
aver appreso di questo segreto.
– Magari, – propone Marco, – nelle parole del libro di
preghiere riuscì a cogliere qualcosa che noi non cogliamo.
Aleni accenna un diniego. – Secondo me deve aver trovato
e letto gli Arcana Silenda, ricollegando alcuni passaggi
a qualche concetto letto in Schelling, come li ricollegò
Inocencio all’albero del sogno di Leonardo e a quello dell’arma
di Joan Baher.
– Ma il filosofo non parla di un albero…
Marco solleva un dito, per interrompere l’obbiezione
del Notaio. – No, ma l’albero genealogico è la trasposizione
visiva di una stirpe. Quindi un segreto inquietante che
riguarda la stirpe poteva venire alla luce e Raimundo in
qualche modo lo temeva, come dovette temerlo Vicente.
Il Notaio segue il filo del ragionamento: – Ma se l’albero
genealogico e la stirpe sono la stessa cosa, quello che di esso
viene alla luce mentre dovrebbe stare nascosto sono le
radici!
– E quand’è che le radici vengono alla luce? – domanda
Marco.
Il Notaio solleva le sopracciglia. – Quando l’albero viene
capovolto! Il segreto potrebbe dunque riguardare le
radici della stirpe, i Baher!
Aleni dispiega davanti a lui il foglio scivolato dal libro.
– Lo abbiamo trovato in mezzo ad un libro di Raimundo.
Si tratta di un ricalco, eseguito a carboncino, dello
scudo che si trova sulla bara di Joan.
Il Notaio atteggia le labbra ad una smorfia dubbiosa.
– Ma non può essere quello: la cripta era murata fino a
poco tempo fa e Raimundo, che io sappia, non ne conosceva
neanche l’esistenza.
– Eppure è proprio quello: in esso le radici dell’albero
266
capovolto, tranne quella centrale, sono curve. In tutte le
altre riproduzioni dello scudo di Joan, in paese come nelle
mura, rami e radici sono ramiformi. Ma nessuno poté
fare questo calco dopo che prete Gracián entrò nella cripta:
infatti il foglio è antico, chiazzato di muffa. Raimundo
l’ha trovato da qualche parte. Le annotazioni sono di suo
pugno.
Il Notaio inforca nuovamente gli occhiali e legge: – AR-
CANA RADIX LUXURIAE SILENDA TUERIT, – e più giù: – Il lupo
rigurgita dunque il suo pasto? Ancora quella frase! E cosa
c’entrano i lupi?
– Nel palco della libreria dove si trovavano gli Arcana
Silenda c’era la testa di un lupo, incisa da lui. Sembra che,
prima di essere ucciso, Raimundo abbia voluto lasciare
dietro a sé le tracce di qualcosa che andava scoprendo.
Ma la mano che l’ha ucciso ha anche interrotto questa sua
ricerca.
Il Notaio si alza e va a scuotere il sigaro nel camino, poi
prende a camminare, come se i piedi tenessero il passo con
i pensieri.
– Joan Baher, venendo in Sardegna e prendendo il cognome
Bayre, chiese al re di poter cambiare le sue insegne.
I due pioppi deradicati ed affiancati dell’arma antica,
divennero uno diritto ed uno rovesciato, con le radici intrecciate.
Questo stemma, attraverso la sorella Beatrìu,
passò in quello dei Ballester. Ma Joan, e non se ne seppe
mai la ragione, scelse come arma personale un solo albero
capovolto, portandola fino alla morte…
– E condannandosi all’irrealtà, se c’è da dare retta a Nigidius,
insieme alla sua stirpe ed a Gurtei tutta, – concluse
per lui Marco.
– Perché dice questo?
– Ricorda quel passo degli Arcana Silenda? Tra questi
simboli il maggiore è l’albero capovolto, che significa il sogno
stesso. Poiché le radici sono ciò che dell’albero si esten-
267

de nel mondo sotterraneo delle ombre, se sono messe alla
luce, le ombre ed i sogni prendono il sopravvento sulla
realtà.
Si guardano. Ma il loro sguardo, dopo quelle rivelazioni,
non ha la luce trasparente della comprensione. Piuttosto
quella appannata dello smarrimento.
È Larentu a dare voce a quell’angoscia sottile: – Già.
Sembra proprio che stia parlando di Gurtei! Ma tutto
questo non ci dice quale sia il segreto che Vicente e Raimundo
temevano. Né se altra gente è destinata a morire
per esso.
– Né dice a me perché quella strana parola abbia visitato
i miei sogni, – rincarò Marco.
– Dottore, – lo confortò il Notaio, – somnia sunt
signa…
La voce di Aleni è remota, immersa nei pensieri.
– Notaio, devo chiederle un favore.
– Cumandit , Donna Aleni.
* * *
L’Orto degli Abbandonati è un labirinto d’oscurità, a
quell’ora.
Marco solleva la tavola che ricopre il foro e si cala nella
cripta. Aleni gli porge la lampada e, quando lui la posa,
scivola dentro anche lei, lasciandosi andare tra le sue
braccia.
Si trovano tra le tombe più antiche.
– È proprio questo, – dice Marco illuminando lo scudo
scolpito sul sarcofago di Joan. Ma perché prete Gracián
ne fece il calco, posto che sia stato lui?
Aleni non lo ascolta. È andata verso la bara di Nassia
Bayre, presso la quale è rimasta la sbarra di ferro usata da
Malacarìu per sollevare la lastra di copertura, l’ha presa
ed ora gliela porge.
268
– Mi aiuti a spostare la lastra. – Marco la guarda interrogativamente,
ma lei insiste. – Per piacere, mi aiuti: bisogna
sempre dare retta ai presentimenti.
La pietra non vuole sentirne di muoversi. Quando finalmente
si arrende agli sforzi congiunti dei due e scivola di
lato, si rendono conto che è stata cementata con uno strato
di malta che, fortunatamente, si è sfibrata per l’umidità.
Quella malta, però, non è stata messa per proteggere il
sonno eterno di Joan Baher, ma per scoraggiare la curiosità.
Per evitare che qualcuno, come accade ora ad Aleni e
Marco, scopra che il sarcofago è, ed è sempre stato, assolutamente
vuoto.
– Scommettiamo quello che vuole che non troveremo
nemmeno il corpo di Beatrìu? – domanda Aleni con uno
sguardo acceso che, se non fosse per uno strano bagliore,
parrebbe di gioia.
* * *
Enrico bussa con le nocche intirizzite al vetro del telegrafista.
L’uomo solleva il volto, facendo segno all’ingegnere che
è tardi, che non accetta più dispacci, che passi domani.
Enrico, furioso con sé stesso per non aver preso il soprabito,
ha sopportato il disagio del freddo per tutto il cammino
e non vuole che sia stato per nulla: bussa con più
energia, facendo il nome di Tizio, ministro di qualcosa, di
Caio segretario di Sempronio e, minacciando fuoco e fulmini
riesce a far avvicinare il telegrafista al vetro. Gli tende
il foglio e l’uomo, mugugnando sotto i baffi, lo legge:
– «Alla Compagnia Regia delle Ferrovie Sarde. Riferisco
forte avversione residenti a lavori posa in opera strada
ferrata. Se si intende aprire un cantiere in loco suggerisco
prudenza et appoggio truppe.»
269

– In… loco? – domanda l’impiegato sollevando il capo
in modo da guardare in faccia Enrico attraverso le lenti
scivolate sul naso arricciato.
– Com’è scritto. E raccomando la discrezione: mi appello
al segreto professionale.
– Dovere, – replica il telegrafista con voce atona.
* * *
Dopo i temporali, l’autunno sembra essersi improvvisamente
irrigidito e la temperatura continua a scendere.
Marco, sfoggiando doti che nessuno gli sospettava, ha
cucinato ed apparecchiato un pranzo per tutti, nel soggiorno
del suo appartamento.
Appena ritirate le stoviglie e servito il caffè, il Notaio toglie
dalla borsa un fascio di appunti stenografati, posandoli
in bell’ordine.
– A detta di predi Liori, Raimundo andò parecchie volte
a rovistare tra i libri della Parrocchia. Probabilmente
trovò là il ricalco fatto da predi Gracián sullo stemma del
sarcofago di Joan Baher. E predi Gracián lo lasciò là perché
stava cercando le stesse informazioni che cercò Raimundo
e che ho cercato io: tutti e tre siamo partiti da
quella frase annotata da Grazia Concas nel libro di preghiere.
Ma sfogliare quei tomi pieni di polvere è servito
poco a me e, senz’altro, non ha aiutato loro.
Rovista un poco tra le sue carte, conscio di avere l’attenzione
dei suoi ascoltatori.
– Dunque, ci siamo domandati che ragione avesse Grazia
Concas di condurre il figlio di Cramu e Maria lontano
da Gurtei, come afferma di aver fatto. L’ipotesi è che quel
bambino, diventato ragazzo, abbia combinato qualcosa,
qualcosa di grave, dato che Grazia Concas arriva a dire
che il sangue dei Bayre comincia a prevalere in lui.
– È riuscito a scoprire cosa ha fatto?
270
Il Notaio solleva una mano, come ad arginare l’impazienza
di Aleni.
– Andiamo per ordine, se a Vissignoria non dispiace.
Dunque: dalle carte parrocchiali ho potuto solo ricostruire
la data della morte del figlio di Cramu, da una messa di
trigesimo celebrata a Gurtei appena qualche mese dopo
che lui fu portato via. Morì giovane, quindi, e Grazia Concas
non tardò a seguirlo nella tomba. Ma nel libro parrocchiale,
accanto al suo nome, c’era segnato il rito funebre
più economico. Mi sono chiesto, allora, che fine avessero
fatto i beni della famiglia Concas.
– Domanda legittima, – ammette Marco.
– Presso il Consiglio Comunitativo sono conservate le
registrazioni delle transazioni e dei passaggi di proprietà.
Là ho trovato qualcosa di curioso: risultano due cessioni
di terreni dei Concas. Una è precedente la partenza della
donna, perché lei figura come partecipante personalmente
all’atto; una immediatamente precedente la sua morte.
In entrambe le transazioni figurava, come controparte acquirente,
un certo Gaspare Canu, che compare in continuazione
nei registri, citato in giudizio dai creditori. Costui,
quindi, era un uomo pieno di debiti e non possedeva
certo la somma necessaria per pagare quei terreni. Inoltre,
che fine ha fatto il prezzo pagato, se il sacerdote di allora
segnò nel suo registro che Grazia Concas fu seppellita con
il funerale dei poveri?
Aleni si sporge e sbircia gli appunti del notaio – Dunque?
– Sono andato di nuovo da prete Liori: mi interessava
appurare se la moglie di Gaspare Canu avesse avuto un figlio
nell’arco di qualche mese dopo la data della prima
transazione. Lo ebbe, infatti: una femmina cui imposero il
nome di Giovanna. Ecco che cosa aveva combinato il figlio
di Cramu e Maria: aveva sedotto una donna sposata!
Tutti i beni dei Concas servirono a tacitare le ire del marito
271

offeso, che dovette cederli a poco a poco, e ce n’è la prova,
per far fronte ai suoi debiti!
– Ma… non c’è nessun Canu più, in paese, – osserva
Aleni con una certa delusione.
– No: l’ultima Canu fu quella bambina che, diventata
donna, morì in circostanze a dir poco inconsuete.
– Giovanna Canu… ma, Giuanna ’e bentu, Sa Pascifera?
Il Notaio annuisce: – Proprio lei.
– Che nome…
– Dottore, si trattava di un soprannome: la gente diceva
che fosse la pastorissa dei mufloni selvatici. E quel suo figlio
mezzo bimbo e mezzo muflone, che nessuno vide mai,
aveva nelle vene il sangue dei Ballester e dei Bayre, mischiato.
– Allora le nostre ricerche si fermano qui: da chiunque
sia stato concepito, il bimbo di Giuanna è morto appena
nato.
Il Notaio riapparecchia la sua smorfia di dubbio.
– Non ci giurerei. Questo disse lo zio di Giuanna. Ma
non esiste traccia del funerale nei registri, né esiste una
tomba nel cimitero.
– D’altra parte, se nacque con una malformazione…
Il Notaio interrompe Marco con un sorriso che gli fa
brillare gli occhi. – Per come la racconta la gente, non si
seppe mai se la malformazione ci fosse o no. Ma… poniamo
che ci fosse. Quando si cerca qualcosa bisogna pur cominciare
da una direzione qualsiasi, a caso. E il Caso ed io
siamo compari! Ho telegrafato ad un vecchio amico, a
Cagliari, perché controllasse nel registro del Padre d’Orfani
se risultasse abbandonato nella ruota degli esposti, in
quegli anni, un bimbo malformato. La risposta non dovrebbe
tardare…
272
Appunti di Laura Balistreri
Per una Storia della famiglia Ballester-Bayre
Giuanna non aveva mai capito se fosse la verità oppure una
bugia pietosa, ma il tempo aveva ormai assottigliato la differenza.
Viveva confinata in cima all’altipiano colpito dai quattro venti,
ma non invidiava il veloce migrare delle nuvole, che le passavano
tanto vicino da sfiorarla.
In quella solitudine cercava percorsi di vita, invano.
Quando, con le prime ombre, cominciava a piovigginare la rugiada
serotina, gli occhi di Giuanna, stanchi di seguire voli di
astori, distillavano una lacrima, una sola, perché il suo era un dolore
avaro: come se ricordi e dispiaceri fossero un patrimonio da
amministrare con parsimonia.
In realtà, quella era la sua sola ricchezza.
Era nata povera e cresciuta disgraziata: a cinque anni le avevano
ucciso il padre.
Tutti dissero che era accaduto per questioni di donne, ché
avere tanti soldi e tutti insieme aveva dato alla testa a Gaspare
Canu.
Solo lui poteva sapere cosa incrinava la spensieratezza della
sua risata, quella sera. Cavalcava verso casa, sotto la luna, raccontando
alla bambina che amava davvero come fosse sua figlia
- e che le aveva portato in tasca tanto denaro - una storia di orchi
che la faceva rabbrividire.
Due colpi di fucile da dietro la siepe e le parole, la vita di quell’uomo
forte, si frantumarono e si sparsero come l’anima del
cardo al soffio del vento.
Il cavallo li disarcionò e Giuanna, prima che li trovassero,
passò tutta quella notte d’orrore schiacciata sotto l’ultimo abbraccio
di quello che credeva suo padre, chiamandolo mille volte,
disperata di sentir svanire piano piano il suo calore.
Condotta a casa, scivolò in un delirio febbrile, dal quale non
fece che reiterare quell’inutile richiamo.
Cessato il delirio e aperti gli occhi, non parlò più.
273

La madre, già segnata dalle privazioni, cominciò a consumarsi
in un dolore che non conosceva neanche il sollievo della preghiera.
A rendere intollerabile il carico per quelle spalle, restò il rimorso
per il peccato di adulterio, dal quale non era ancora riuscita
ad assolversi, cui si aggiunse l’amarezza di venire a sapere,
dalla impietosa voce del pettegolezzo, quello che il marito aveva
combinato alle sue spalle per vendicarsi, lasciandole tutta la vergogna,
oltre il dolore e la fame, per eredità.
Aveva preso l’abitudine di sedere lunghe ore in silenzio, vicino
al letto di Giuanna. Una sera, mentre infuriava un temporale di
pioggia e vento, parve essere sul punto di dire qualcosa alla figlia,
ma poi, con un sospiro, accarezzò il viso della malata, lasciando
indugiare la mano.
Per la prima volta dopo tanto tempo, le sue labbra si tesero in
un sorriso, poi chinò il mento sul petto, simile ad un lume che
abbia offerto, con l’ultima fiamma, la sua luce più vivida.
Così Giuanna rimase sola.
Giuanna La Scema la chiamavano in paese vedendo che, a
parte averle tolto la parola, la disgrazia non le aveva lasciato sano
neanche il cervello.
Una zia, che l’aveva tenuta a battesimo, la prese in casa. Ma era
come cercare di allevare un cinghiale. Non che fosse cattiva: era
come persa in un mondo suo, in una realtà rarefatta. Quando la
chiamavano, si voltava come un muflone che avesse avvertito rumori
nella selva e, verso chi le parlava, sollevava occhi che sembravano
voragini di tristezza. Una paura tenace legava i suoi sentimenti,
rendendola schiva.
La dolcezza dell’ultima risata del padre e dell’ultima carezza
della madre, l’aveva riposta a lievitare nel canto più segreto dell’anima.
Ma era destino che servisse per impastare focacce di dolore.
I cacciatori del paese raccontavano di aver visto sul monte, più
di una volta, un giovane vestito di pelli e circondato di mufloni,
di cui era il pastore. I cacciatori affermavano di non aver più potuto
avvicinarsi ai mufloni, a causa di quell’estraneo che metteva
in guardia le bestie.
274
Così la leggenda del Pascifera, accennata per gioco nella taverna
dai cacciatori sfortunati, si sparse in un baleno, raccontata
come verità.
Giuanna era affascinata da quella storia. Appena lo zio, che
era cacciatore, terminava di raccontare, lei gli strattonava il lembo
della giubba perché ricominciasse da capo.
Aveva, allora, sedici anni e la bellezza vivida dei fiori di campo
che sbocciano al primo sole.
Pian piano, senza che la zia se ne accorgesse, prese ad allontanarsi
dalle ultime case del paese, nel suo girovagare. Pian piano
cominciò a salire a Logus de su ’entu, alle rovine di una casa dove
era vissuta, come raccontavano a Gurtei, una muta come lei.
Giuanna non poteva saperlo, ma quella donna era Nassia
Bayre, la sua bisnonna.
Là Giuanna indugiava, a guardare il monte che si alzava dall’altipiano,
coperto di selve nebbiose.
Un giorno rientrò a casa tremante come una foglia, spettinata,
con la sottana macchiata di sangue e lo sguardo istupidito.
– Chi ti ha fatto quest’affronto! – domandò piangendo la zia,
prostrata dalla vergogna e con il cuore pieno di pietà, dinanzi a
quello sguardo che la fissava, smarrito. – Devi rivelarmi chi è
stato, per carità!
Giuanna rispondeva sempre allo stesso modo: facendo un gesto
come mostrasse le corna dei mufloni. Poi indicava il monte.
La zia scuoteva il capo, rattristata.
– Come? Su Pascifera? Qualche figlio di buona madre è stato,
altro che storie!
Dopo poco tempo la zia si accorse che Giuanna era incinta.
La gente maligna sosteneva che era stato lo zio. Giuanna, dal
canto suo, credeva davvero che quel giorno, a Logus de su ’entu,
il Pascifera si fosse avvicinato a parlarle con voce dolce, la
stessa voce con la quale si rivolgeva ai mufloni, per ammansirli.
Quello sognava ad occhi chiusi e ad occhi aperti, stemperando
così lo stupore e la paura per quella vita che sentiva crescerle
dentro.
Conclusi i nove mesi, sorse un’alba di dolore: Giuanna credette
di essere sul punto di morire. Dopo, un delirio di febbre la
tenne lontana dai vivi per altri quattro giorni.
275

Riprendendo i sensi, le prime persone che vide furono la zia,
seduta vicino al letto con gli occhi gonfi di pianto, e lo zio in piedi
con le mani dietro la schiena, corrucciato.
– Tuo figlio è morto, – disse lui. E aggiunse: – L’hai partorito
mezzo bambino e mezzo bestia. È morto subito e l’abbiamo dovuto
seppellire. Meglio un morto da piangere che un bastardo
da allevare.
Giuanna chinò il capo cercando con la mano, sotto il seno, il
conforto della presenza palpitante cui ormai si era abituata. Ma
trovò solo un ventre appassito e dolorante.
La zia parlò alla nipote solo dopo che il marito fu uscito.
– Tuo zio non ha voluto dirti la verità. È stato il padre, Su Pascifera,
che si è portato il figlio sul monte. Rassegnati.
Giuanna non sapeva, allora, né seppe mai, se quelle parole
fossero la verità, oppure una bugia pietosa.
Lasciò il mondo e salì a Logus de su ’entu ad aspettare.
Stese la sua speranza a rinsecchire al sole dell’estate, a rabbrividire
sotto la brina d’inverno e attese per tutta la vita che quel
figlio le fosse restituito.
Giuanna ’e bentu la chiamavano, perché i Territori del vento
erano diventati la sua casa. Ma nessuno più la derideva. Viveva
di elemosine e aspettava, a volte seduta contro il muro diroccato
della casa che era stata di Nassia Sa Levadora, altre volte
sdraiata con il braccio teso tra pietre ed erbe, verso il monte
scuro di selve e avvolto di nebbie, sperando che un mufloncino
si avvicinasse a bere la rugiada dalla sua mano.
Aspettava, cardando quell’unico desiderio e avvolgendolo
nella rocca della pazienza. Il Tempo, filatore maestro, ne tirava
e attorcigliava un filo per prepararle l’ordito della vita, ma era
lei che non aveva filo per tesserne la trama: il suo filo si era annodato
e aggrovigliato tanto tempo prima.
Quell’attesa era l’unico modo che il destino le offrisse per vivere
la sua maternità.
Aspettava.
Qualche volta i mufloni, abituati a vederla sempre là, immobile,
facevano capolino dai cespugli di cisto.
Sperando che tra quelli ci fosse suo figlio, Giuanna lo imma-
276
ginava a volte mufloncino, a volte bambino. Così, negli anni,
come se il tempo passasse solo per appesantirle il fardello dell’attesa,
lasciandole intatto il sogno, come intatto sentiva il suo
amore di madre.
– Adesso viene fuori dal cisto, – pensava tra sé da anni, con
brividi che le irrigidivano le viscere, – si avvicina e mi cinge con
le braccia, avvicina la guancia alla mia adesso… adesso…
Così, apriva le braccia e aspettava, tremando. Ma solo il vento
riempiva quell’abbraccio: nessuno si accostava.
Quando Giuanna vedeva avvicinarsi i cacciatori, metteva in
guardia i mufloni con il solo rumore che la sua gola riuscisse a
produrre: un grido aspro che pareva il richiamo dell’astore.
Passato il pericolo, i mufloni facevano di nuovo capolino, con
lo sguardo gonfio di paura e di stupore. Giuanna lo vedeva gonfio
di sogni, come il suo.
Solitudine era tutto ciò che il Tempo lasciava nella mano di
Giuanna, come elemosina. Lei ed il figlio sarebbero stati sempre
sui cigli opposti di una voragine senza ponti, più di quanto
lo fossero stati Nassia e Cramu.
Un crepuscolo di primavera, nell’ora in cui il giorno si smorza
in ombre tiepide, piene di brividi di vita, Giuanna si accorse che
anche il suo giorno stava declinando, che un sonno più profondo
stava gravandole le palpebre.
Sarebbe piovuto sopra quella mano tesa. Il sole avrebbe dardeggiato
e sarebbe piovuto ancora sciogliendo quell’inutile gesto
d’amore come si scioglie un voto.
Così lei sarebbe tornata alla terra, sprofondando con l’acqua
tra radici e pietre, per ritornare a fiorire nel cisto, nel mirto e
nello splendore della ginestra; per nutrire le fronde novelle di
leccio che si sarebbero offerte al muso del mufloncino così, come
una madre offre il capezzolo alle labbra del figlio. A quello
solo era destinata, fin da principio.
Dunque, perché non era tristezza quella che sentiva dilagarle
dentro?
Non era nemmeno la pazienza masticata giorno per giorno a
denti stretti. Era piuttosto un abbandono stanco, senza amarezza.
Una sensazione che le pareva simile alla rassegnazione.
277

No.
Giuanna scosse il capo, tra le ombre che si addensavano, pervase
di profumi e di aliti tiepidi che le sfioravano il viso come
carezze.
Somigliava piuttosto a qualcos’altro, sì.
Forse alla pace.
278
XV
Marco ed il Notaio stanno cenando con Cristina ed Enrico
I due hanno insistito per averli alla loro tavola, perché
Cristina sta per partire ed il fratello la seguirà appena ricevuto
un dispaccio che aspetta. L’ingegnere è di un umore
brillante, che contrasta con quello malinconico della sorella.
Ma si è conversato del più e del meno, e la serata è
trascorsa piacevolmente.
Mentre cenano, l’impiegato dell’ufficio postale, con le
mezze maniche che gli spuntano dalla mantellina, si avvicina
a consegnare al Notaio un plico con la dicitura UR-
GENTE, arrivato in serata con la posta.
Scambiato uno sguardo eloquente, Marco e il Notaio
aspettano che i loro ospiti si ritirino, poi lasciano anche
loro la taverna.
* * *
Aleni afferra la lampada e si affretta nel corridoio, verso
la porta di comunicazione: quel bussare così imperioso
non è da Marco. Le sembra piuttosto il tocco del Notaio,
e questo può voler dire che i due hanno la risposta da Cagliari.
Mentre apre, sente che si è nuovamente alzato anche
Larentu, e sta uscendo dalla sua camera.
Il Notaio sorride e agita in aria una busta.
279

– Venite in soggiorno: aggiungo due ciocchi al fuoco.
Con la punta di un coltello la busta è presto aperta. Il
Notaio ne toglie un foglio con un’annotazione scarna.
– Dunque? – domanda impaziente Aleni, lasciando Larentu
ad occuparsi del fuoco.
– Dunque, avevo detto che il Caso ed io siamo compari!
Sentite: bimbo di sesso maschile, esposto addì 4 aprile, venerdì
ultimo di quaresima, nella ruota dell’Ospedale di
Sant’Antonio Abate. Presentava bozze frontali sporgenti,
forse per qualche manipolazione delle ossa craniali, tuttora
morbide, piuttosto che per malformazione congenita. È stato
infatti possibile riportare il suo cranio alla normalità.
Posa il foglio e solleva lo sguardo, soddisfatto dello stupore
che legge sul viso degli altri.
– Pensate, se la voce del popolo dicesse il vero e il padre
di quel bimbo fosse veramente lo zio di Giuanna. Quell’uomo
avrebbe avuto dei buoni motivi per tacitare le voci
infamanti, avvalorando la leggenda del Pascifera. Magari
riuscì a corrompere la levatrice perché manipolasse le ossa
del cranio del neonato, in modo che la moglie credesse
alla malformazione e cessasse di sospettare di lui. Poi il
bimbo fu condotto lontano, a Cagliari, e lasciato nella
ruota degli esposti: il gioco è fatto.
Larentu brontola, occupandosi ancora del fuoco: – Già,
ma le tracce di quel bambino sono comunque perse!
– No, fortunatamente, – gli viene risposto. Il Notaio toglie
dalla tasca un altro foglio, con una annotazione di suo
pugno. – Forse la levatrice parlò, o forse fu il padre del
bambino a confessare alla moglie, in punto di morte, la
verità. La realtà dei fatti, registrata ed incontrovertibile, è
che la zia di Giuanna lasciò per testamento i suoi pochi
beni ad un ragazzo che viveva presso parenti di lei, in un
paese oltre la montagna: i Tidu. Quel ragazzo non era figlio
naturale. Risulta che i Tidu, che non potevano avere
figli, lo adottarono a Cagliari, scegliendolo tra gli esposti
280
raccolti dal Padre d’Orfani, Probabilmente dietro consiglio
della zia di Giuanna, che raccontò loro ogni cosa.
Aspettavo solo il plico per poter legittimamente concludere
che quel ragazzo era il figlio di Giuanna.
Aleni esala un sospiro pieno d’angoscia.
– Aveva ragione Giuanna. Quel ragazzo venne a Gurtei
per godere della sua eredità quando lei ancora lo aspettava
a Logus de su ’entu! Chissà per quanto tempo sono vissuti
vicini senza potersi incontrare, senza sapere uno dell’esistenza
dell’altro.
– I Tidu… – la interrompe Marco, rendendosi conto all’improvviso
di riconoscere quel cognome. – Dunque…
Arega!
– Arega, già, – annuisce Aleni. – L’ultimo dei Tidu, il padre
di Arega, era il figlio di Giuanna Sa Pascifera. Pareva
me lo dicesse il cuore. Raimundo deve averlo scoperto come
noi. Anche senza sapere che il figlio di Giuanna era
stato portato a Cagliari, gli sarà sembrato strano che la zia
lasciasse i suoi beni ad uno sconosciuto, ed avrà tirato le
somme, arrivando fino ad Arega e scoprendo che l’amante
aveva nelle vene il suo stesso sangue.
– Proprio, – conferma il Notaio. – D’altra parte, non si
può dire che Arega non faccia onore alla sua schiatta, con
tutto il rispetto per Vissignoria… Ex illicito et incesto
damnatoque coitu genita!
Aleni gli rivolge uno sguardo costernato. – Come? – domanda
con voce rauca.
– Come? – ripete simile ad un’eco il Notaio. Poi, comprendendo,
risponde: – Parafrasavo l’ultima frase della
cronaca del processo a frate Inocencio…
– Ma, quella… non è in latino.
– No. Ma il processo dovette esserlo. Figurarsi! Un processo
celebrato da religiosi, contro un religioso…
– Ripeta quella frase, – ordina Aleni brusca, con una
precipitazione che stupisce tutti.
281

– Diceva, – comincia pazientemente il Notaio, – che
Bartolomeo Ballester, nonno di Vicente, era stato generato
attraverso un rapporto illecito, impuro e dannato…
che il latino doveva suonare circa così: Bartholomeus Balistarius
illicito et incesto damnatoque…
– Incesto! – esclama Aleni stringendo i pugni tanto da
sbiancarne le nocche. – Com’è che non ci siamo resi conto
prima? Lo abbiamo avuto sempre sotto gli occhi! – E, vedendo
lo smarrimento degli altri, aggiunge: – Non capite?
Le radici intrecciate dei due alberi genealogici, dipinti a
guazzo nel salone di casa Bayre! Il figlio avuto da Beatrìu
Baher non era figlio di Bartolomeo Ballester…
– Questo la vox populi l’ha sempre ribadito.
– Sì, ma… ricorda, dottore, i lineamenti del piccolo Bartolomeo,
nel peduccio dell’arco dell’abside?
– Sì, dicevamo della rassomiglianza tra i due fratelli
Baher…
– … E di quella di Bartolomeo con la madre e con lo zio.
Ma quello che non potevamo sapere era che la rassomiglianza
con lo zio non gli veniva solo da parte materna!
Un incesto, capite? Bartolomeo era figlio dei due Baher.
Non era Ballester, ma Baher due volte!
– Com’è possibile…
– No, non possiamo essere certi di questo…
– Eppure…
Le voci si accavallano, tutte con il medesimo timbro di
stupore.
– Può essere solo per questo che Inocencio andò da lui,
non capite? Sua madre, comunque fosse venuta a conoscenza
di quel segreto - aveva servito in casa Ballester, ricordate?
- gli aveva parlato dell’incesto.
– Questo spiegherebbe anche perché i Ballester presero
le insegne dei Bayre e non i Bayre quelle dei Ballester – interviene
Marco. – Il sangue dei Ballester morì con il povero
Bartolomeo I, il marito tradito di Beatrìu, e non si è mai
unito con quello dei Baher.
282
– Ma, ripeto, non potremo mai avere la prova di questo.
Aleni scuote il capo: – Si sbaglia, Notaio. La prova è stata
sotto gli occhi di tutti per secoli: le radici intrecciate di
quegli alberi!
– Era questo, dunque, il segreto che Vicente temeva che
si divulgasse. Sancho Marin si prese il gusto di trarlo in inganno,
traducendo il latino incestus con il termine impuro.
– Ma l’incesto, una cosa così… enorme!
– Forse quello che nei secoli ha deturpato lo spirito delle
due famiglie è l’essere Ballester e Bayre nel cognome,
ma non essere che Bayre nel sangue: l’ombra di quell’incesto,
di quell’amore contro natura, ha negato la loro natura
all’amore, per sempre. Temo che anche Arega e Raimundo,
senza saperlo, sentissero quella torbida attrazione
che veniva loro dal sangue uguale. E per questo che
Raimundo, avendo scoperto ogni cosa, disse ad Arega
che nel libro di preghiere c’era la condanna dei Ballester.
Là c’era, infatti, la prova che era una Ballester anche lei e
che l’inclinazione all’incesto si ripeteva in loro due come,
a suo tempo, si ripeté tra Maria e Cramu.
– Ecco perché Raimundo scrive quelle annotazioni!
Unheimlich: un inquietante segreto familiare, inerente alle
radici, che dovrebbe rimanere celato, ed invece viene
alla luce. Ha condensato in quella parola il suono tragico
del segreto dei Ballester-Bayre.
– Ma tutte le altre tracce che ha lasciato? Quella frase:
Arcana radix luxuriae silenda tuerit, che ha scritto negli
Arcana Silenda e quella testa di lupo incisa nel palco…
– E la frase in calce allo stemma ricalcato da prete Gracián:
il lupo rigurgita dunque il suo pasto…
Il Notaio si avvicina alla finestra, fregandosi le mani. –
Il lupo… Può anche non entrarci nulla, ma lo scrittore latino
Macrobio, nel Signum triciput, assimila il Passato ad
un lupo che divora i ricordi.
– Il lupo rigurgita il suo pasto… – continua a bisbigliare
283

tra sé Marco. – Ma dove sono finiti i corpi di Beatrìu e
Joan Baher?
– Non si vede una stella! È troppo nuvolo e stasera l’aria
sembrava foriera di neve. Farei meglio ad andare…
Un silenzio assorto, rotto solo dallo schiocco dei rami al
fuoco, grava per qualche attimo la camera in penombra.
Aleni lentamente si alza, con il volto intento, come cercasse
di afferrare con la mente un pensiero, un ricordo che le
sfugga.
È interrotta da un bussare alla porta che affaccia sul vicolo.
Marco e il Notaio si ritirano nell’ombra, oltre la porta di
comunicazione: non è conveniente farsi trovare là.
Larentu va ad aprire e ritorna seguito da un gruppo di
paesani. Hanno un’aria imbarazzata e, insieme, solenne.
Si scusano per essere venuti a disturbare ad un’ora così
tarda, ma - dicono - è cosa urgente.
– È solo per informarla, – dice Malacarìu rivolgendosi
ad Aleni, – che al di là dell’altipiano il letto del fiume si è
allargato del doppio, per un tratto di due chilometri, che
si allunga ad ogni istante.
Larentu solleva il capo, poi si mette di nuovo a versare
da bere ai nuovi venuti. Aleni non da altro segno di emozione
che un lieve aggrottare di ciglia.
– Il fiume sarà in piena, dopo queste piogge…
– Può darsi. Ma se fosse, invece, che Gurtei si sta… – si
volta, cercando nello sguardo degli altri il coraggio che gli
viene meno. – Ecco, se il momento è arrivato, ci sarà da temere
l’onda di riflusso.
Tutti i visi sono intenti, preoccupati. Per qualche attimo
pensano che Aleni rida loro in faccia, e che li cacci. Ma il
suo viso resta immobile. – Le bestie? – domanda con voce
quasi inaudibile.
– Sono già state portate a Logus de su ’entu e sistemate
nei recinti: è il posto più sicuro. Bisognerà trasferire lassù
284
anche la gente e tutto quanto si riuscirà a trasportare delle
sementi, degli attrezzi, delle provviste.
– Quando credete che…
– Al massimo tra cinque giorni, saremo in mare aperto.
– Ma è pazzesco! – sfugge detto a Marco in un bisbiglio,
dietro la porta accostata. Il Notaio sorride bonariamente
e stringe le spalle.
– Verrà su con noi, Donna Aleni?
– … Non lo so.
– Siamo qui per dirle, ecco, che a tutti noi farebbe piacere
che venisse, con la sua famiglia.
– Vi ringrazio tutti.
Gli ospiti bevono, poi salutano Aleni e voltano le spalle,
incamminandosi. Come passano la soglia di casa, si infilano
nel soggiorno i primi refoli di vento.
Monta nuovamente il maestrale.
– Raggiungo quella buona gente, per fare la strada fino
in paese in compagnia loro e della loro lanterna, – annuncia
il Notaio facendo capolino dal corridoio. – Ma conviene
che esca dalla porta del dottore.
Fa un breve cenno di saluto e si avvia.
Dopo averlo accompagnato, tornando indietro nel buio
del corridoio Marco si accorge che ogni luce è spenta in
casa di Aleni. Un chiarore, forse di candela, filtra da sotto
la porta della camera da letto di lei e da quella di Larentu.
Ma presto anche quelle, una dopo l’altra, si spengono.
Disorientato dall’oscurità, si sente cogliere da uno stordimento
che non è solo stanchezza o solo confusione. Troppe
cose stanno accadendo, e troppo in fretta.
Prima di andare a letto vuole annotare, per la seconda
volta in quella giornata, la temperatura corporea.
Vacilla.
Ci mancava solo questa, ora. Si sdraierà un poco per riprendersi.
285

È un bisbiglio, quello che sente? O forse è solo il vento
che si infila tra le connessure, e gli sfiora la fronte febbricitante?
Deve aver dormito, ed ora è intirizzito.
Ma c’è veramente una voce che chiama il suo nome, ed
una luce che balugina nel corridoio. Sente le braccia all’improvviso
irte di pelle d’oca.
Chi lo chiama, in quel luogo di fantasmi?
Siede sul letto rabbrividendo e si accorge di non aver
chiuso la porta della camera e, presumibilmente, neanche
quella di comunicazione.
– Chi è? – domanda alzandosi.
Aleni compare sulla soglia, tenendo sollevata una bugia
nella quale arde un mozzicone di candela. Ha gettato un
mantello sulla camicia ed il suo sguardo è preoccupato.
Ma tutta la sua figura ondeggia, agli occhi di Marco.
– Oh, meno male: ancora non si è messo a letto! Ho visto
che era aperta la porta di comunicazione e non ho potuto
aspettare domani! La neve… – mormora in tono concitato,
avvicinandosi. – Non riuscivo a capire perché quell’osservazione
del Notaio sulle nuvole dovesse darmi tanta angoscia,
ma come stavo per assopirmi, ho ricordato! Scendevano
fiocchi di neve sul viso di Cristina, nella visione
che ebbi quella sera! Sta per accadere, dunque. Dobbiamo
fare qualcosa, chiamare Arega, parlarle…
Marco sente le gambe mancargli e barcolla appoggiandosi
allo stipite dell’alcova.
– Ma… lei sta male.
– Oh, non è niente: qualche brivido. Per fortuna ho con
me del chinino.
– Ha preso le febbri, come tutti noi. Si metta a letto, ora:
è stata una giornata pesante.
– Non se ne vada!
Quel tono precipitoso, nella voce, ferma Aleni che stava
voltandosi. – Ha bisogno di qualcosa? Le mando Larentu…
286
Una risata, a scatti, gli sale alle labbra: – E che me ne faccio
di Larentu?
– Posso fare qualcosa io?
– Certo: può starmi vicino. Io l’ho fatto, quando era lei a
stare male.
– … È vero.
– Appoggi CRAMU quella candela…
MARIA
La BAYRE candela, vacillando per la sorpresa di lei BALLESTER al gesto improvviso,
versa gocce di cera fusa sul polso di Marco, ma
lui sembra non accorgersene.
– Lasci… oh, si è bruciato? Chiamo Larentu…
Marco digrigna i denti. – Larentu! Ah!… Perché sta tremando…
[ ? ]
Aleni si lascia sfuggire un gemito, divincolandosi.
– Lei non è in sé, la febbre le fa fare sciocchezze! Mi lasci!
– Ha paura di me! Perché? Non tremi così: la stringo solo
perché voglio che rimanga… Ma non è tutta la verità.
JUANNA
– Non sarei dovuta venire… sa pascifera
– Cosa le hanno fatto gli uomini, perché debba temere
così l’abbraccio di una persona che le vuole bene? Siamo
entrambi liberi: non trovo nulla di strano… Aspetti… non
ho intenzione di mancarle di rispetto, né di farle del male.
Mi basta la sua presenza:
bambino adottato dai
non chiedo altro. Bisogna che le
TIDU
spieghi. È che… le ore che trascorro lontano da lei, mi pesano.
Mi dica, – aggiunge con tono accorato, – che sentimento
è questo?
– Un abbaglio. Non è… ragionevole che sia qualcos’altro.
Non per noi due. AREGA
– Trema ancora? Forse non è certa di quanto va affermando.
– È lei che ha la febbre e non sa quello che dice. Noi siamo
in qualche modo legati, al di là del tempo e dello spazio…
– Dunque, in qualche maniera, già ci apparteniamo a
vicenda.
287

– … E se ci pare, – insiste Aleni indurendo la voce dopo
l’interruzione, – che questo legame abbia una somiglianza,
una qualche… contiguità con i sentimenti consueti,
dobbiamo renderci conto che è solo somiglianza, è solo
contiguità. Tutto il resto è follia. Mi lasci.
– Ah, io solo devo rimanere savio, in un posto di folli?
No. La smetta di divincolarsi: tra noi due, sono io ad avere
più forza. E la follia me ne aggiunge.
– Mi lasci… mi fa cadere il mantello!
– Bene: non lo raccoglieremo, per ora. Vede: sono del
tutto folle anch’io, perché se chiudo gli occhi, sotto le dita
sento il volto della donna delle mie visioni.
– E se li riapre, cosa vede? Una vecchia! La smetta: è ridicolo…
– Vedo il volto di una persona che mi è cara più di quella,
perché questa è reale come me, mentre l’altra è solo un
sogno.
– I sogni sono tutto quello che la vita ha concesso, a me!
Sospira, smettendo di forzare la stretta e lasciandosi andare.
Dopo un poco, aggiunge: –Va bene: resto. – E un
sorriso dal sapore certo amaro le increspa le labbra: – Le
rimboccherò le coperte, come si fa con un fratello minore.
Però in cambio mi dica, se la sua febbre le lascia ancora un
poco di discernimento, qual è secondo lei la morte dei sogni?
Marco socchiude gli occhi, lucidi di febbre: – … L’inveramento?
– Appunto. E crede che io abbia tutta questa furia di assassinare
i miei?
E lui ingoia, sentendone il sapore amaro, la medicina di
quella precisazione.
289

290
XVI
Cristina sta preparando il bagaglio quando nella camera
entra Arega, con una pila di lenzuola pulite. La serva
resta immobile sulla soglia, lo sguardo stupito.
– Parto questo pomeriggio, – annuncia Cristina semplicemente.
La serva si fa avanti.
– Ha pianto. Non è contenta di tornare a casa?
Cristina stringe le spalle.
– È perché… non sono certa di cosa mi aspetti.
– Come! Suo marito…
– Lo sto perdendo a causa di un’altra donna, – risponde
con semplicità.
Arega impallidisce. – Non sapevo, – mormora.
– Non sapevi che io stessi vivendo una storia simile alla
tua, ma… dall’altra parte? Ognuno ha i suoi motivi di dolore.
Perché arrossisci, ora?
– Io? Non arrossisco per niente.
Cristina scuote il capo in un lento diniego, con un sorriso
che le rende angolosi i lineamenti. – Parlando con te
ho cercato disperatamente di capire, di avvicinarmi ad
una verità che potesse aiutarmi. Invece… – e stringe di
nuovo le spalle, – l’unica verità che ho capito, a me non
serve a nulla!
E china sulla sponda del letto, continuando a sistemare
la biancheria nella valigia, aggiunge: – Hai ucciso tu Raimundo,
è vero?
291

Il lamento che giunge in risposta a quella domanda è
breve, quasi inaudibile, come un sospiro. Ma quando solleva
lo sguardo incontrando quegli occhi impietriti e vedendo
le labbra ritirarsi sulle gengive, la risposta è inequivocabile.
– Cosa ti disse lassù, perché tu decidessi di togliergli la
vita? Che ti avrebbe lasciata? Che non voleva o non poteva
più incontrarti, che non ti amava più?
La voce di Cristina è pietosa: scioglie un nodo che da
anni stringe il cuore di Arega. Un singulto irrompe nella
gola tesa della serva: – Affermò che sua moglie era incinta.
Mi assicurò che tra noi tutto era finito, ché ci divideva un
baratro che nulla avrebbe potuto mai colmare, e che avrei
fatto bene a soffocare appena nato il figlio che portavo in
grembo. Oh, mio Dio… così mi disse. Così.
– Allora per farlo tacere, perché non continuasse a dirti
quelle cose terribili, ti sei gettata contro di lui, poi sei fuggita.
La vigna dei tuoi genitori non era lontana per chi, fin
da bambina, aveva esplorato i sentieri di Logus de su ’entu
e li conosceva come le sue tasche. Forse quelli che vendemmiavano
non si accorsero neanche della tua breve assenza.
Ed era tanto lo smarrimento, che trovavi difficoltà
a credere che tutto ciò fosse veramente accaduto. Continuando
la vendemmia, cercavi di trovare nei gesti consueti
la forza di uscire dall’incubo dove, all’improvviso, eri
entrata. Ma l’incubo cominciava appena. È vero?
Arega piange. Singhiozzi frequenti le sollevano il petto.
I suoi occhi, fissi nel vuoto, offuscati dai ricordi, grondano
lacrime che scendono ad intridere l’orlo del fazzoletto,
tirato sotto il mento.
– E il figlio? – incalza la voce di Cristina, comprensiva.
– Non si è mai visto: era una bugia di Raimundo, detta
apposta per ferirmi!
Cristina riabbassa gli occhi. – Ti auguro di riuscire, col
tempo, a soffrire meno.
292
– Lo amavo tanto! – confessa la serva in un soffio che le
torce il viso.
– Lo credo, – ammette Cristina con semplicità. – Lo
amavi troppo. Se tu lo avessi amato meno, sarebbe ancora
vivo.
* * *
La diligenza non scende in paese. È necessario raggiungerla
in uno spiazzo in cima al sentiero, dove si ferma
perché i cavalli possano abbeverarsi, all’ombra di alcuni
lecci.
Enrico stava cercando un uomo che accompagnasse la
sorella e portasse il bagaglio, ma è capitato Larentu che,
essendosi offerto quel giorno di andare a ritirare la posta
con il calesse, accompagna Cristina senza compenso, a
nome di Donna Aleni.
Il vento è calato: l’aria è immota e gelida. Il breve tratto
di strada è consumato in silenzio, poiché Larentu è taciturno
per carattere e Cristina è pensierosa.
Nello spiazzo, il conducente della diligenza fuma tranquillamente
la pipa, conversando con l’unica passeggera
che ha condotto fino a Gurtei: una donna dai lineamenti
molto belli e austeri.
Larentu, dopo aver trasalito vedendola, non riesce a
staccarle lo sguardo di dosso. Si riscuote solo quando il
conducente gli consegna uno smilzo pacchetto che apre,
per confrontare il numero delle lettere con quello segnato
nella ricevuta.
– C’è una lettera per lei, signora, – annuncia, porgendo
a Cristina un plico.
La maestra, a quel richiamo, emerge da un complicato
turbine di pensieri, ritrovandosi, con stupore, la busta tra
le mani. Riconosce la grafia dell’indirizzo ed ha un lungo
tremito, poi riesce a scuotersi e strappa il sigillo, dirigen-
293

dosi verso i lecci. Un timore oscuro le tende le viscere,
ghiacciandole le mani.
Devono essere poche righe, perché quasi subito solleva
uno sguardo smarrito e, riposto il foglio in una tasca interna
del mantello, trascinando i passi va a sedere sul bordo
dell’abbeveratoio.
La passeggera chiede a Larentu se, dietro compenso,
può portarla in paese e lui risponde con un assenso cerimonioso,
scrutando la donna con un’insistenza quasi scortese.
Poi scambia poche parole con il conducente, avendo
l’aria di non volersi muovere da quel luogo finché la diligenza
non sia ripartita e continua a scrutarla: gli pare un
viso familiare, sui cui tratti il tempo sia tornato indietro,
cancellando come un’onda di risacca i segni di se stesso.
Cristina sfila nuovamente il foglio dalla tasca, lo stropiccia
senza guardarlo, riponendolo ancora. Con lo sguardo
perso, sembra osservare la curva oltre la quale la diligenza
comincerà la sua discesa verso la pianura, verso la città dove
è nata, verso l’uomo che ha sposato. Chissà come, immemore
della stagione, con quel tentennamento della coscienza
che coglie agli improvvisi dolori, lei si figura quella
pianura battuta dal vento di scirocco che trascina l’anima
dei cardi, maturata al calcinarsi dei fiori al sole estivo e poi
esplosa, riempiendo le distese di cisto come di una nevicata
di soffici fiocchi.
Sentendo ormai l’argine della vita farsi infido di scoscendimenti
continui sotto ai suoi piedi, immagina di essere
tra quei fiocchi quello di più poco peso, che si aggrappa
un attimo ai cespugli appiccicosi di umori troppo amari,
per lasciarsi strappare nuovamente e trascinare, sotto il
cielo gravido di pioggia.
Chissà dove.
Si avvicina il momento della partenza, poiché i cavalli
sono stati riattaccati. Cristina trasale e si leva, dirigendosi
294
verso la diligenza e accettando il sostegno di Larentu per
salire sul predellino.
Sembra esserle penosa persino la lieve fatica del respiro.
Rivolge al giovane un breve saluto, riuscendo a sorridere,
ma quando si lascia andare contro lo schienale del sedile, il
sorriso svanisce del tutto e una tristezza abbandonata, senza
più difese, le colma di ombre lo sguardo.
– Dunque, dove devo portarla? – chiede Larentu alla
donna che, tenendo stretta l’unica borsa che ha per bagaglio,
lo aspetta vicino al calesse.
Il bel viso si corruga in una smorfia d’incertezza: – È ancora
in piedi casa Ballester? – domanda alla fine.
* * *
Marco è accigliato quel pomeriggio.
Non vede Aleni dalla notte precedente e ora si trova nella
biblioteca della casaforte, ma solo perché è stato chiamato.
Ha trascorso la mattina a casa Refundana, ben chiuso
dentro il gabinetto medico che sta allestendo, con il pretesto
di mettere in ordine lo scaffale dei libri scientifici. In
realtà il motivo di quella ricercata solitudine è un altro.
È la necessità di ritrovare un bandolo in quel groviglio di
accadimenti e sensazioni, che minacciano di condurlo a
comportamenti assai difformi da quelli che l’educazione e
l’indole personale gli hanno sempre ispirato.
Per tutta la notte ha avuto l’impressione di trascorrere le
ore in un dormiveglia nel quale all’esaltazione dei sensi si
alternava lo spossamento febbrile. Ha sognato di trovarsi
tra le braccia di una donna, di baciarla e di possederla senza
riuscire a scorgerne, nel buio, i lineamenti. Ma non sa,
in realtà, se ha del tutto sognato. Nei frequenti risvegli,
poi, gli pare di aver teso le braccia, trovando vuote le coltri
295

al suo fianco. Così è stato nell’ultimo risveglio, molto dopo
l’alba, quando ha aperto gli occhi del tutto in sé.
Le ore solitarie passate nel chiuso del suo studio, però,
non gli hanno giovato. Le ha trascorse in una specie di
stordimento nel quale senza sosta si sono alternati pensieri
che la parte più intransigente di sé non ha fatto che criticare.
Inoltre, proprio quando maggiormente sentiva il bisogno
di stare solo, Victoria Luz lo ha raggiunto.
Chiaramente era là senza il permesso della madre, e già
questo lo metteva in un grande imbarazzo. Poi aveva un’aria
spiritata che non faceva presagire nulla di buono in
quanto stava per dire. – Tutti vanno sull’altipiano. Tra non
molto andremo anche noi. La prego, mi assicuri che ci accompagnerà,
perché solo in quel caso salirò anche io.
– Non voglio credere che la sua famiglia dia retta alle
fantasie dei paesani…
– Tra non molto Gurtei sarà in mare aperto! La supplico,
venga su con noi, altrimenti resterò qui giù con lei.
Aveva faticato a convincerla a tornarsene a casa, ma non
aveva potuto impedire che qualcuno la vedesse uscire dal
suo gabinetto.
Quel fatto ha reso più acuto in lui un sentimento che già
durante la mattinata cominciava a predominare sugli altri.
Aleni sembra preoccupata, sfuggente, ma ha nello
sguardo una luce che le addolcisce i lineamenti.
– Dottore, grazie per essere venuto. Come si sente questo
pomeriggio?
– Come un giunco al vento: vuoto e ondeggiante. Inoltre
furibondo per molti motivi, tutti assolutamente… irragionevoli.
– Non sta scherzando: lei se ne accorge dalla tensione
dei muscoli della mascella e dallo sguardo. – Sono
furibondo con me stesso, con queste maledette e intempestive
febbri, con lei.
– Con me?
296
– Sì, anche se ho un ricordo molto… vago della notte
scorsa. Soprattutto non ricordo cosa è successo dopo che
le ho strappato la promessa di restare.
– Ah. Non si preoccupi: capita a chi ha avuto la febbre
molto alta. Lei è crollato subito in un sonno di piombo:
non è successo nulla.
– No? Peccato… – Poi aggiunge, dubbioso: – È sicura?
La voce di lei si va sfreddando, inframmettendo distanze.
– Dottor Raschini, stia attento a ciò che dice: questa mattina
non ha la scusante della febbre.
Lui si rannuvola. – …Dottor Raschini? A questo punto,
siamo! Bene, adesso che sono stato rimesso al mio posto
mi dica, baronessa Ballester, perché con me - solo con
me! - usa le frasi come fossero scudisciate?
– Ho i miei motivi. Come sta Victoria Luz? Cercava il
medico, oppure aveva… urgenza di qualcos’altro?
Marco trasale a quelle parole. Si rianima ed esclama: –
Ah, ma guarda! È proprio una fortuna che nessuno, qui,
badi ai fatti propri! Sì, Victoria è stata da me. C’è rimasta
un bel poco, anzi, che Dio la benedica! È per merito suo
che stiamo litigando come due innamorati? Sì? La prego:
mi dica che sta provando un sentimento normale come la
gelosia! Lo dica, e metà del mio regno sarà suo!
– Lei non ha un regno.
– Si sbaglia! È un regno dove i sogni possono anche restare
tali, ma ci si sforza in ogni caso di vivere, per quanto
possibile felicemente, la realtà.
Lei annuisce e un’ombra le attraversa lo sguardo, ma
quando lo solleva, quell’ombra è scomparsa: – Ha ragione.
Oggi posso proprio dire che lei ha ragione.
Allunga la mano al tavolo e fa tintinnare una campanella
di bronzo.
Larentu apre la porta poi si fa da parte per lasciar entrare
la donna che ha accompagnato qualche ora prima in
calesse.
297

– Dottor Raschini, – annuncia Aleni con voce incrinata,
– questa è mia figlia Beatriz. Ha deciso di lasciare il convento
per motivi di salute ed è ritornata da me, ringraziando
Dio.
Marco si volta stupito.
Beatriz, dura Beatriz, Beatriz di pietra di basalto…
– Mia madre parla di salute mentale, naturalmente. Era
ormai troppo tempo che ero rinchiusa tra quelle mura.
È tanto simile a sua madre, come doveva essere da giovane,
che per un attimo Marco pensa di essere nuovamente
di fronte al fantasma incontrato i giorni precedenti.
Si accorge subito, però, che la differenza sta tutta nello
sguardo. Da quello della donna, che gli viene incontro
con la mano tesa e le sopracciglia appena corrugate, traspare
lo spirito temprato di chi ha saputo scegliere per sé
e per gli altri senza incertezze. Fossero pure, queste scelte,
la vendetta e l’espiazione impietosa. Con la stessa sicurezza
ha deciso che l’espiazione era finita, che era tempo
di ricominciare a vivere.
È una donna che non conosce scorciatoie né cedimenti.
Nel suo sguardo c’è qualcosa di pacatamente minaccioso,
come ammonisse il mondo dicendo: bada…
Ma c’è anche, forse rinnovata dal perdono cercato con
quel ritorno, la dolcezza dello sguardo della bisnonna, Miguela
Ballester.
Forse è ciò che Aleni avrebbe desiderato essere.
Nella stretta di mano e nello sguardo che a lungo Marco
scambia con la nuova venuta, Aleni trova alimento per
la sua disperazione. Ma anche per la nuova, folle, speranza
che l’ultimo debito che ha con la vita possa essere in
qualche modo saldato.
* * *
Il Notaio si fa da parte e, con un cenno, invita Arega ad
entrare.
298
La serva viene avanti tenendo le mani nascoste sotto il
grembiule, perché non riesce a controllarne il tremito.
In silenzio, per tutti quegli anni, ha detto a sé stessa: me
lo hanno ucciso, potendo solo in quel modo riacquistare il
diritto a soffrire per la morte di Raimundo senza rimorso.
Ha desiderato con tutta se stessa che fosse vero, ma così
ha operato senza rendersene conto una coercizione continua
della memoria che l’ha portata, infine, a crederci.
Ora, nell’attimo in cui la benda del suo accanito diniego
le è stata strappata dagli occhi, si è sentita addosso, tutti
insieme, smarrimento, dolore, rimorso e umiliazione.
Vorrebbe stare sola, cicatrizzare di nuovo, con l’unguento
della dimenticanza la carne viva del suo sentimento.
È questo che ha tentato di fare, ma non ne ha avuto
il tempo: Donna Aleni l’ha mandata a chiamare.
Stupita di quella convocazione, rifiuta di andare, conscia
solo, nel crollo di ogni certezza, del pericolo che Cristina
possa aver condiviso con qualcuno le sue intuizioni.
Ma il Notaio insiste cortesemente, affermando che si
tratta di cosa delicata, importante. Lei ha timore, d’un
tratto, che proprio il suo rifiuto possa suscitare il loro sospetto.
Ma protesta di non sentirsi bene, rinviando tutto
al pomeriggio, conscia di doversi in qualche modo preparare
a quel colloquio.
Procrastinare, però, non le serve ad altro che a rodersi
nel digiuno e nell’incertezza, indebolendosi ancor più.
Così quando arriva e capisce che sarà ricevuta nella casaforte,
sente lo spirito piegarsi come una canna al troppo
forte vento.
Aleni la aspetta in una stanza in fondo ad un corridoio
pieno di ritratti di gente corrucciata e di cortine scolorite
che si muovono, come respirassero. Arega trasecola quando
si accorge che quella donna, la quale ha tante ragioni di
odio contro di lei anche senza conoscere il suo delitto, la
accoglie con un sorriso, stanco e tirato, pieno di mille cose
che Arega non può comprendere.
299

Vicino ad una delle finestre, il dottor Raschini sembra
intento a pensare ai fatti suoi e quasi non bada a lei, mentre
il Notaio va a mettersi in piedi dietro la baronessa.
Ma Aleni non le lascia tempo per altre riflessioni.
– Tu possiedi un vecchio libro di preghiere, che ti ha dato
mio figlio.
La serva annuisce e due chiazze livide si accendono nel
pallore del viso.
– Me lo diede Raimundo: è l’unico ricordo di lui che
posso toccare, dopo aver perduto suo figlio, – risponde. –
Volete portarmi via anche quello?
La voce di Aleni ha una dolcezza che fa male: – Nessuno
vuole portartelo via, Arega. Ma è tempo che tu sappia cosa
c’è scritto di tanto terribile. Sai, io credo che tu abbia
ucciso Raimundo, prima che facesse in tempo a spiegarti
perché non voleva quel figlio con il quale cercavi di legarlo
a te.
Si interrompe a bocca aperta.
Aveva deciso di gettarle in faccia quell’accusa per scuoterla,
per costringerla a reagire, ma in cuor suo ha sempre
sperato che la morte di Raimundo fosse frutto della vendetta
di un mezzadro. Ora si ritrova, muta e stupita, ad attendere
un diniego che non arriva.
Nella cornice del fazzoletto, gli occhi di Arega si sono
fatti remoti, infossati in un gorgo livido di rassegnazione.
Il suo respiro è lento e rauco, come un rantolo.
– Vergine degli Abbandonati! Così… è vero! – esclama
lentamente Aleni, con la voce piena di pietà.
– Mi disse che sua moglie era incinta!
– Era vero: lo abbiamo scoperto dopo la tua visita, perché
Marta è stata male. Lei, piuttosto, non ha potuto mai
averne coscienza. Ancora oggi non si rende conto di avere
un figlio. D’altra parte non lo vede: abbiamo dovuto mandarlo
altrove, per paura. Per paura dell’assassino del padre,
per paura di te, Arega.
300
Lei non replica. Piange quietamente le lacrime che per
tanto tempo ha lasciato impietrire nel cuore.
– Uccidendo Raimundo hai ucciso una verità che avrebbe
potuto cambiarti la vita. L’hai avuta tra le mani senza
capirla, scritta in quel libro di preghiere. Ci tenevi tanto a
chiamarti Ballester, è vero? Ma tu, Arega, sei una Ballester.
Si sente mancare a quel verbo sottolineato dalla voce di
Aleni che continua incalzante: – Peggio, sei una Ballester-
Bayre, che è quanto dire Bayre due volte, pronipote di
Cramu Bayre Su Bocimama, che sparò a sua madre e si
impiccò, e di Maria Ballester, sua sorella di sangue non
meno di quanto ne sia stata amante, così come a suo tempo
lo furono Beatrìu e Joan Baher ed altri dopo di loro,
mischiando sempre lo stesso sangue folle. E come te e Raimundo,
in ultimo.
Arega tace a lungo, poi scuote con violenza il capo e
dalla confusione disperata emerge una difesa: – Non ci
credo.
– Il Notaio ti farà vedere i documenti.
Arega guarda il Notaio annuire e una risata stridula le
gorgoglia in gola. – Io una Ballester! Siete pazzi.
–Può darsi, ma non baratterei la mia pazzia con la tua,
che è quella di chi si rivolta morbosamente contro il proprio
sangue: tu hai amato Raimundo, tu l’hai ucciso. È la
tara che voi Ballester-Bayre vi portare nel sangue, di amare
in maniera così tragica!
Arega solleva lo sguardo degli occhi remoti, che paiono
ingoiati dall’angoscia. – S’Acabadora… la maledizione!
– Oh, no. Non ho mai creduto a quella storia. La morte
che portava S’Acabadora era una morte pietosa, per chi
soffriva troppo. – Poi ogni dolcezza scompare dal suo viso,
che si fa terribile. – Tu l’hai incontrata spesso nei tuoi
sogni e nelle tue veglie, è vero?
Le risponde un singhiozzo di paura.
301

– Mi dici questo per odio!
– No, Arega. Nessuno ti odia. Qui sei a casa tua e nessuno
può comprenderti meglio di chi vive in questa casa. Chi
vive qui ancora, anche se non respira più come me e te.
Arega ha uno scarto e un gemito: il poco che si vede del
suo viso è colore di cera sporca. – Tu vuoi spaventarmi,
maledetta!
– Oh, no, molto di più. Mi occorre di atterrirti, non solo
di spaventarti, perché tu non compia ciò che temo, per il
tuo stesso bene, per la tua vita!
Arega è percorsa da correnti di tremito convulso ed il
suo sguardo comincia a somigliare a quello di una bestia
braccata.
Alzando un dito ad indicare la finestra inferriata, Aleni
incalza: – Da quella finestra ho visto la morte di Cristina e
la tua, in una visione alla luce dei lampi.
Si è aspettata una reazione di incredulità, invece la serva
mormora: – Dunque tornerà, tornerà per tradirmi!
– Ti aiuteremo.
– Aiutarmi! Chi può aiutarmi?
– La madre dell’uomo che hai ucciso.
– Lei tornerà per tradirmi: bisogna impedirglielo…
– Anche se tornasse, non tornerebbe per tradirti. Tornerebbe
perché non ha nessun altro luogo dove andare e
nessuno, nessuno in nessun luogo, che l’aspetti.
Poi cambiando tono, trascinata dalla pietà e dal ricordo
che le torna vivo mano a mano che le ombre del crepuscolo,
fuori, si addensano:
– La vedo, curva e stanca, arrivare per quella strada, là.
La vedi anche tu dalle camere alte della taverna, l’unico
luogo del paese dal quale si vede quel sentiero. La raggiungi
alle spalle. Povera innocente! Quando arrivo io sta
morendo. E piange, guardando verso la montagna, verso
il sentiero che avrebbe dovuto portarla dall’uomo che
ama, ma che per lei non porta più da nessuna parte!
302
– Io non ho fatto niente! – geme Arega nascondendo il
viso tra le mani. Aleni si riscuote.
– Anche se dovesse tornare, ora, cosa potrebbe rivelare
che tutti noi non sappiamo? Il dottor Raschini ed il Notaio
sono testimoni che non abbiamo nessuna intenzione
di denunciarti. Ma tu non devi toccarla.
Arega non ascolta più. Pare rattrappita in sé stessa, sopraffatta
da ciò che le è accaduto in quegli ultimi giorni e
che deve essere stato per lei davvero troppo. Sta abbandonata
come uno straccio nero contro il muro, guscio vuoto
di qualcosa che è stato, un tempo, pieno di passioni.
Marco distoglie gli occhi da lei e guarda un fiocco pallido
danzare nell’aria immota di quell’ora livida che precede
il crepuscolo.
* * *
Gli uomini, sul ciglio di Logus de su ’entu, guardano a
nord e in basso, verso il letto del fiume che, in quel punto,
si divide per abbracciare Gurtei.
– Bisogna avvertire la gente perché si tenga pronta, – dice
il Sindaco. – Ho paura che dopo questa nevicata arriverà
una bufera di maestrale: non si può mai sapere quello
che la forza del mare riesce a fare.
– O a disfare, – fa eco Malacarìu. Gli altri uomini annuiscono,
seri.
– Se è necessario possono muoversi tutti, anche ora.
– Prudenza: non credo che tutti siano in grado di farlo.
Domani porteremo su gli anziani e le famiglie con bambini
molto piccoli. Dopodomani all’alba, seguiranno quelli
che possono muoversi autonomamente e con più velocità,
– conclude gravemente il Sindaco.
– Ma il sentiero sarà infido, dopo la nevicata.
Malacarìu guarda il cielo e storce le labbra: – Macché,
ne verrà giù appena una spolverata. Non è la neve che te-
303

mo. Il conducente della diligenza ha detto che c’è una colonna
di soldati in marcia verso la valle…
* * *
Arega non si sente meglio dopo aver varcato il portale
del cortile d’onore. Anzi, per un attimo tutta quella pietra
intorno le ha dato un senso di protezione. Ora la vertigine
la coglie, facendola barcollare, riempiendola di nausea e
di una paura fatta di mille cose e di niente.
È colta da un lungo brivido quando esce. Il tramonto
precoce ha lasciato il mondo gravato da un’aria gelida che
le si sfiocca intorno, posando sui rami e sui ciuffi d’erba,
la sua pruina.
Marta allunga il braccio nudo fuori dalla finestra della
sua camera. I fiocchi freddi raggiungono la pelle e perdono
la loro opacità al calore. La donna osserva quella metamorfosi
con sguardo vacuo nel quale, lontana, brilla una
scintilla di curiosità.
– Esiste una legge che punisce l’omicidio, Donna Aleni,
– ammonisce il Notaio con voce condiscendente.
Prima che Aleni possa rispondere, Beatriz si alza con
impeto dallo scanno di cuoio: – Ma certo! Fossero altri
tempi, non avreste da ricordare la legge a noi. Noi saremo
la legge!
Il Notaio stringe le labbra, fa spallucce, ma non batte in
ritirata: non deve certamente ignorare di trovarsi dinanzi
ad una parricida. – Quei tempi, Vissignoria lo sa, sono
passati…
– Forse ancora no, a Gurtei.
– A che servirebbe denunciare Arega? – domanda pacatamente
Aleni. – È già prigioniera di ciò che ha fatto, ma
soprattutto di ciò che è.
304
– Ciononostante… – protesta Marco per dare manforte
al Notaio e, soprattutto, perché d’un tratto si è ricordato
di essere nipote di un giudice.
Con un gesto d’ira, Aleni batte il palmo delle mani sui
braccioli della poltrona, li impugna e lentamente si alza,
con uno sguardo che non pare il suo.
Arega è sfinita. Si prova a mettere un passo avanti all’altro,
con il vago pensiero di tornare a casa, di chiudersi in
uno spazio che le conceda l’illusione amniotica che niente
sia accaduto, che ci sia ancora scampo, ancora vita.
Nel turbinio di pensieri e sentimenti dolorosi che accompagnano
quei passi incerti, ce n’è uno più straziante
degli altri: la sensazione d’estraneità, di sconvolgente alterità
che prova nei confronti di se stessa, di quell’essere
alieno che, come un tumore, è sempre stato dentro di lei, a
maturare in silenzio la sua terribile essenza per esplodere
poi, annullandola e prendendo il suo posto. Questo essere
ha spento la vita dell’uomo che lei ha amato più di sé
stessa ed ha usato, per farlo, le sue mani.
L’orrore di quel pensiero la soverchia, costringendola
contro le pietre di un muro, piegata da un conato di vomito.
I fiocchi continuano a cadere e sempre più, posandosi
uno sul freddo dell’altro, formano un velo bianco come
un guanto, sul braccio di Marta. Nella direzione verso la
quale è teso quel braccio una figura si staglia contro il
chiarore smorzato di un muretto che confina con il groviglio
della campagna.
Marta solleva lo sguardo verso quella figura.
– Badate a voi, – continua a dire Aleni.
Marco la guarda sbalordito: può solo pensare che abbia
attinto quella forza d’animo dal ritorno della figlia.
305

– Non so come, ma non sono più la donnetta di un tempo.
Né uomini - mi capite? - né sorte avversa lascerò che
mi passino sopra senza reagire. Non più. Non farete nulla
contro Arega, fino a che non ne avremo parlato di nuovo,
domani. Questo è un ordine al quale non oserete disobbedire!
– E fronteggiando lo stupore di Marco e del Notaio,
aggiunge: – Ora, lasciatemi sola con mia figlia.
I due uomini si scambiano uno sguardo interdetto, poi
si muovono per uscire.
Beatriz, che si era voltata verso la finestra richiama la loro
attenzione con un’esclamazione: – Laggiù, quella donna
che è appena andata via: sta male… – e tende l’indice
verso una figura che avanza lenta nel sentiero in fondo, tenendosi
accosta alle pietre di un muro, appoggiandosi ad
esse e piegandosi, di quando in quando.
Aleni accorre. – È come l’ho visto quella sera! – afferma
in un grido. – Correte, fermatele! Oh, Vergine degli Abbandonati,
forse abbiamo fatto un tragico errore…
Le sue mani si sono sbiancate, per la forza con la quale
stringe il braccio di Marco, accorso al suo fianco.
Quando Arega solleva il viso, ansimando e tergendosi le
labbra con il dorso della mano, vede qualcosa venire verso
di lei dall’ombra violacea e dalla nebbia della nausea.
Premendosi lo stomaco con le mani, aguzza lo sguardo.
È una donna e viene innanzi scalza, sul sentiero. Ha lunghi
capelli grigi, sciolti, ed è avvolta in un sago d’orbace.
Nel pallido ovale del viso il lampo dello sguardo è temperato
da un velo di comprensione.
Viene innanzi senza fretta, facendo il gesto come di piegare
e ripiegare qualcosa con mani pietose.
– Arega.
La serva distoglie a fatica gli occhi dal suo incubo e si
volta.
306
Battendo le palpebre le pare di distinguere, tra i fiocchi
danzanti, la figura sottile di Cristina. Solo lo sguardo non
pare il suo.
I capelli pendono intorno al suo viso, appesantiti dalla
neve disciolta. La mantella è intrisa per un buon tratto,
dalle spalle in giù. Ai suoi piedi le scarpe cittadine, sformate
e infangate, dicono quanto abbia camminato da
quando, trovato il coraggio di fermare la diligenza e di
scenderne, ha dato al vetturino, insieme a del denaro, l’ordine
vago che le sia spedito indietro il bagaglio.
Arega, persa ancora nella profondità dei suoi pensieri,
non fa un gesto, non dice una parola.
Cristina si avvicina tanto che, istintivamente, Arega fa
l’atto di indietreggiare.
La maestra allunga una mano alla sua spalla, ghermendo
la stoffa dell’abito.
– Tu… e quell’altra! Ladre di uomini altrui, che siate
maledette!
Arega si divincola, balbettando:
– Che dici? Cosa vuoi…
L’altra mano di Cristina si solleva ad afferrarla. Arega la
blocca con la sua al polso, d’istinto, torcendola.
Echeggia un breve grido di dolore, ma inferocito, e con
tutto il peso del corpo la maestra si getta contro la serva,
in un delirio di accuse che le escono come rigurgitate dalla
bocca distorta in una smorfia.
Ad un tratto Arega si sente sopraffare dalla forza furiosa
dell’altra e, più ancora, dalla sorpresa.
Ma sopraggiunge qualcuno! O forse è l’incupirsi del
crepuscolo… Sente che la pressione di una delle mani che
stringono si allenta. Poi intravede un balenio metallico nel
braccio di Cristina che si alza, attraversandole lo sguardo.
Le sue mani si tendono verso l’alto, a riparo. Annaspano,
cercando un appiglio.
Lo trovano.
307

Una figura bianca emerge accanto a loro, la pupilla vacua
che si dilata per lo spavento e l’allarme.
Un grido…
Cristina ha un fremito a quell’urlo improvviso e il braccio
che regge l’arma cessa di forzare l’opposizione di Arega,
che è sbilanciata in avanti da quel cedimento. Il suo
peso sposta la lama verso il collo di Cristina.
Lei sente una scudisciata alla gola. Un gemito e, con entrambe
le braccia con la forza dell’ira e della disperazione,
si scrolla Arega di dosso.
La serva incespica, cade all’indietro, battendo con violenza
il capo su una pietra aguzza che sporge dal sentiero.
Ha un lungo sussulto, poi giace immobile.
Marta urla ancora.
Al suo grido si aggiungono le voci concitate di coloro
che arrivano di corsa, lungo il sentiero.
Cristina barcolla, cercando invano di deglutire quel
fiotto acre e lancinante che le riempie la gola.
Marco e il Notaio giungono in tempo per impedirle di
cadere e, toltole di mano lo stiletto, delicatamente, cercano
di tamponare l’orribile ferita, di sostenerle il capo,
mentre lei grava le loro braccia con il peso di un corpo che
si abbandona.
La adagiano allora e, mentre il medico cerca di tenerle
la testa in una posizione tale che nella trachea recisa non
entri troppo sangue, Beatriz le mormora parole di conforto
ed il Notaio si affretta verso la taverna.
– Oh, Gesù, Giuseppe, Maria… – mormora Marta con
la lingua incespicante, disabituata alla parola. Trema come
una foglia e quel tremito, che è una guarigione, alla
povera donna pare segnare, invece, il passaggio da un incubo
ad un altro.
Una figura consueta si avvicina e lei, riconoscendo un
volto al quale non ricollega nessun ricordo di dolore, si
aggrappa a Larentu scoppiando in un pianto convulso, risanatore.
Aleni con un grido aspro, cade in ginocchio accanto ad
Arega.
Solo lo sguardo è ancora vivo, sbarrato per il terrore, in
quel volto che si va rapidamente dissanguando. La serva
lo fissa sulla donna che, sconvolta, chiama il suo nome, invocando
perdono per l’atrocità dell’errore commesso,
per averla indebolita con le sue rivelazioni e mandata,
inerme, contro la morte.
E chiamandola figlia e piangendo, le accarezza il viso.
Arega soffre quel contatto, con il rifiuto degli esseri selvatici
che è sempre, e solo, paura. Ma sotto quelle dita tremanti,
sente placarsi via via ogni affanno, mentre in lei penetra
una dolcezza che non ha conosciuta mai.
Così, in quell’onda di quiete che va diluendo ogni terrore,
il suo sguardo lentamente si fa remoto, si spegne, cristallizzato
in uno stupore che è sul punto già di mutarsi in
rimpianto.
309

310
XVII
All’alba, quando i primi soldati compaiono in cima al
sentiero, il maestrale già si annuncia nel mare, che si allunga
in rincorse di risacca e che presto si gonfierà di onde.
Entrano nel soggiorno lasciandosi andare, stanchi, sulle
sedie. Aleni dal suo angolo accanto al camino, dove siede
accanto a Beatriz, solleva su di loro uno sguardo tormentato.
– Non ho potuto fare niente, – mormora il medico. Ha
il viso pallidissimo e i capelli sono scompigliati. – Al di là
della gravità della ferita, Cristina non aveva volontà di
lottare: se ne è andata nell’attimo in cui le chiedevo di
avere più coraggio!
Il Notaio tamburella sul tavolo con un pugno serrato.
– Ora è la disperazione del fratello che temo, – dice.
– Non siamo riusciti a convincerlo del modo in cui sono
andate le cose. Si è infuriato, accusandoci di coprire i
veri assassini. È fuori di sé.
Marco si lascia andare con i gomiti sul tavolo.
– … Marta?
– Dorme, e Larentu la veglia.
– L’emozione violenta ce l’ha restituita, ma non credo
che sarà facile per lei accettare tutto questo. Forse, col
tempo…
– Purtroppo tempo non ce n’è, – lo interrompe Aleni.
311

Marco solleva su di lei uno sguardo velato di stanchezza e
di interrogativi. – Non c’è tempo, mi creda. Perciò, qualunque
cosa accada, mi prometta che porterà Marta, il suo
bambino e Larentu e… e Beatriz lontani da questa valle,
al sicuro. Un Ballester, ancora… che Dio lo protegga. Mi
prometta che li condurrà tutti in salvo. Non vede i segni?
Non si accorge che qualcosa sta maturando?
– Parla delle follie dei paesani?
Aleni pare rincantucciarsi ancor più nel suo angolo.
– Más fuerte… – mormora. – Povera Arega, abbiamo
creduto che fosse lei l’omicida, solo perché abbiamo scoperto
che era una Ballester.
– Non possiamo rimproverarci per questo.
– Ci sforziamo di capire, ma il tempo non basta, – dice
Aleni, come riflettendo a voce alta. – La morte incalza, ride
dei nostri vani balbettii di comprensione e ci annienta.
Il senso della vita non può cercarsi in una vita sola: ma lo
condividiamo con chi ci precede e con chi ci segue. Non
possiamo mai vedere intera la distanza che separa noi dall’orizzonte,
perché esso è sempre più in là, quanto più noi
avanziamo. La verità è inconoscibile.
Trae un sospiro rotto, come se avesse molto pianto.
– Io… io non sono certa che esista un Dio buono. Non
posso spiegarmi perché la salvezza dovesse venire a noi attraverso
l’orrore della morte in croce del figlio suo. Non
scontiamo già abbastanza noi, ogni giorno, con la disperazione,
il martirio e… lo smarrimento di essere al mondo?
A volte sento che sta per salire alle mie labbra una parola -
una sola! – che una volta pronunciata avrà il potere di far
volgere dalla mia parte questo Dio, perché io possa vedere
se c’è misericordia, sul suo volto, o l’indifferenza di una
cattiveria senza senso. Ma quella parola non viene mai, è
come… perduta!
Nasconde il viso tra le mani e, quando le ritira, pare più
stanca della notte in cui Marco le salvò la vita.
312
– Oh, quante cose si vedono quando si guarda da una
certa distanza! Io mi sto allontanando, Marco, e quanto
più mi discosto più chiaro vedo.
Quelle parole senza enfasi, ma dolenti, scuotono il medico.
Si accorge che lei, per la prima volta, lo ha chiamato
con il nome di battesimo e questo gli fa male, perché
avverte in quella confidenza tutto l’affetto e la tristezza di
un commiato. Si sente soffocare da una sensazione di impotenza,
da una stanchezza e da un’incapacità di capire
che non riesce a scrollarsi di dosso e a mutare in ribellione.
* * *
– I soldati!
La colonna di anziani e bambini si arresta sul sentiero
che porta a Logus de su ’entu. Tutti contemplano, interdetti,
la lunga fila di uomini in uniforme che, a piedi e a
cavallo, scendono dal fianco della montagna, verso la valle.
Sono così numerosi che formano una vivida macchia
di colore, sullo sfondo della montagna illuminata da un
sole freddo. Dietro a loro seguono le salmerie, in una
confusione di muli e carriaggi che riescono a sollevare
polvere persino dal sentiero umido.
– Saranno almeno tremila. Che ci vengono a fare a Gurtei?
– balbetta un vecchio, che non ha un buon ricordo
dei soldati piemontesi. Tutti azzardano qualche ipotesi.
– Vengono certo per impedirci, – afferma in ultimo Malacarìu
con astio. – Li ha chiamati dal telegrafo l’ingegnere
piemontese: me lo ha detto Antiogu.
E di astio sono pieni gli occhi di tutti, quando si voltano
di nuovo verso la montagna.
– Non è più tempo di indugi: bisogna muoversi.
– Voi occupatevi di portare su la gente, – soggiunge
Malacarìu. – Per i soldati ho in mente io uno scherzetto.
313

* * *
Enrico sta in piedi davanti al Comandante.
Si sforza di mantenere il suo dolore imbrigliato in una
dignità che lasci però tutta libera la forza della sua rabbia,
e non ha voluto accettare di sedersi.
Il maestrale, che ora soffia con forza, gli è penetrato fin
nelle fibre più riposte del corpo, dandogli una freddezza
sotto la quale cova la brace del risentimento.
– L’hanno uccisa per rappresaglia contro di me, anzi,
contro quello che io rappresento: la Compagnia Reale
delle Ferrovie! – insiste.
– Può darsi.
– È fuor di dubbio che possa darsi, visto che è accaduto,
Comandante.
L’ufficiale accenna un sorriso che gli increspa i baffi
brizzolati e che, nel suo intendimento, deve far comprendere
all’irruente interlocutore che non tollera il suo
tono indisponente.
– Ingegnere, dubito che lei capisca la mia posizione.
Sono qui con l’ordine preciso di stabilire un campo base
dal quale intervenire sui disordini di Alghero, che preoccupano
molto il Ministro. Del suo dispaccio non so nulla.
Le dirò di più, l’incresciosa situazione cui lei accenna,
mi consiglia di ripiegare immediatamente in un luogo più
conveniente, perché non possiamo assolutamente rischiare
di essere coinvolti nei suoi sviluppi e, di conseguenza,
mancare il nostro obiettivo principale.
– Incresciosa situazione! Lei chiama un omicidio incresciosa
situazione!
– Alludevo, veramente, allo stato di rivolta cui lei ha
fatto cenno…
– Così, mentre io faccio cenno, e lei allude, gli assassini
di mia sorella se la svignano!
– Si calmi, ingegnere: io eseguo ordini superiori.
314
– Almeno faccia dare ordine che non si permetta a nessuno
di lasciare la valle!
– D’accordo.
Il sole, tuffandosi in mare dietro il promontorio, si è lasciato
alle spalle una luce irreale, monocroma, percorsa
da brividi possenti di maestrale.
Il paese appare deserto. Nel volgere di qualche ora le
case si sono svuotate e la gente è scomparsa.
Il Comandante ha preso una decisione.
Era già pomeriggio avanzato quando sono arrivati; uomini
e bestie sono stanchi; il colloquio con il testardo ingegnere
gli ha portato via altro tempo prezioso ed è tardi
per avventurarsi di nuovo nel sentiero tra le montagne,
al buio. Così, decide che la truppa passerà in ogni
caso la notte nella valle, ma in assetto da combattimento,
e con sentinelle piazzate: non sottovaluta affatto gli
avvertimenti di Enrico e non si può mai sapere cosa abbia
in mente quella gente, che spia la valle dal ciglio dell’altipiano.
Inoltre è accaduto qualcosa che conferma ancor più
l’ufficiale nella determinazione di ripartire il giorno dopo:
un gruppo di soldati, appena resosi conto che le case
erano deserte, si è dato a saccheggiarle. C’è voluta tutta
la determinazione dei sottufficiali e qualche colpo di fucile
per dissuaderli. Dopo quell’episodio, l’atmosfera si è
fatta, d’improvviso, rovente.
Il trombettiere della Compagnia ha girato tutte le strade
del paese, gridando l’ordine di non lasciare la valle e
minacciando l’impiccagione immediata ai trasgressori.
Ma il Comandante ha deciso di dormire con un occhio
solo, nonostante le sentinelle.
* * *
È scuro ormai. Aleni e Beatriz aiutano Marta a raduna-
315

e un piccolo bagaglio, mentre Marco e Larentu preparano
qualche provvista.
– Prenderete il calesse: Larentu condurrà il cavallo per
le briglie, con una lanterna cieca, fino ad un passo che conoscono
solo i caprai, e dove non sono state messe sentinelle.
Poi potrete continuare senza paura di essere visti,
verso il paese in cui è tenuto a balia il bambino.
Abbraccia i due giovani con una fretta che non lascia
spazio alla commozione e li congeda. Marco, invece di
uscire con loro, la fronteggia con un’aria tutt’altro che
condiscendente.
– Io non capisco ancora da cosa stiamo fuggendo.
– Forse da nulla. O forse dalla rovina di Gurtei.
Poi aggiunge con un’ombra di terrore, premendosi le
mani sulle orecchie:
– Non sente anche lei le grida di avvertimento? Ininterrottamente,
dalla notte scorsa, le voci che prima bisbigliavano
tra le mura della casaforte, urlano tutte insieme! Ho
negli occhi, come tra veglia e sonno, l’immagine di un’onda
di cadaveri galleggianti, che batte la sua risacca sotto
le mura della casaforte. Mi creda, sta per accadere qualcosa.
Poi accostandosi con voce appena bisbigliata, ma profondamente
accorata:
– Porti via mia figlia, e ne abbia cura come ne avrebbe
di me. E mia nuora, Larentu e il bambino: posso andarmene
in pace solo se vado via con la speranza che almeno
loro possano essere felici. Sono tutto ciò che resta della
mia famiglia, della mia vita intera.
Marco ha un moto di ribellione.
– E io? Eseguiti i suoi ordini, quello che succede di me
non ha importanza. Non è così?
Aleni scuote il capo. Con un gesto inatteso, struggente,
si volta a baciarlo sulla bocca e quello, senza un attimo di
esitazione, la stringe e ricambia il bacio perché quello sfio-
316
rarsi ingannevole di labbra non gli è bastato affatto e vuole
farle capire come intende lui, invece, la faccenda. Poi decide
di averne abbastanza di quelle schermaglie: – Ora tu
vieni con me, e niente questioni.
– Per me, c’è ancora da fare qualcosa, qui. Poi sarà come
vorrai.
In quell’attimo uno sparo risuona secco nell’aria della
valle.
Marco e Aleni si voltano verso la finestra.
Urla esplodono all’improvviso, si incrociano rauche di
paura, a richiami. Di seguito, crepita una scarica di fucileria
e altri colpi sparsi, senza interruzione.
Aleni, afferrato un lume, esce nel cortile e apre la porticina
piccola nel portale. Da lì si vede gran parte della valle:
qualche puntino luminoso si agita tra le case di Gurtei,
come uno sciame di lucciole perduto nel maestrale che,
di attimo in attimo, rinforza.
Una di quelle luci viene verso la casaforte.
Chiude la porticina e si accorge che Marco l’ha seguita.
– Vai, presto, non si può mai sapere cosa accade, e che
pericolo possa esserci. Il calesse è già nel vicolo: penserò
io a trattenere quelli che stanno salendo. – E vedendo che
sulle labbra di Marco salgono delle obiezioni, ordina di
nuovo: – Vai! – con un tono che non ammette repliche.
Ma in quegli ultimi minuti lui ha mandato al diavolo i
resti della sua intransigenza e perfino, perché ci sono cose
che gli premono assai di più, i principi della sua buona
educazione.
– Accidenti! Li accompagno solo fino in cima al passo.
Poi torno.
Aspetta di sentire il rumore del calesse che si allontana,
Aleni, poi sale alla casaforte. Guarda di nuovo fuori, sco-
317

stando appena una tenda: la luce è ormai vicina e, intorno
ad essa corrono parecchi uomini armati.
Cinquanta metri di sentiero, fatti di corsa, e saranno
sotto le mura della casaforte. Paiono inseguire qualcuno,
lanciandosi richiami ed indicandosi vicendevolmente delle
direzioni.
Aleni trae un profondo sospiro.
Lascia cadere la tenda, prende il lume e si avvia verso la
porta che conduce di sopra, alla stanza più alta della casa.
La raggiunge. Si accosta alla finestra, la apre e quando il
gruppo dei soldati sbuca dalla curva del sentiero, solleva
alto il lume, poi lo posa a terra e lo spegne.
Immediatamente delle grida le danno la certezza che è
stato notato. Allora, nel buio, fa a ritroso la scala verso la
Galleria dei Ritratti.
Come arriva in fondo, sente che i soldati entrano nel
cortile d’onore, che forzano e abbattono la porta, che entrano
nella casaforte.
Un tremito violento la coglie quando vede il lume danzante
venire verso di lei, ma dice a sé stessa che non è più
tempo di avere paura, che la vita dei suoi cari dipende da
quanto tempo sarà in grado di trattenere là quei soldati, di
confonderli.
Alla prima curva del sentiero Marco ferma Larentu.
– Io torno da Donna Aleni…
Il giovane annuisce con un sospiro. – È una pazzia lasciarla
laggiù. Anche se è la padrona, non bisogna obbedirle,
questa volta. Porti in salvo Marta: andrò io, – conclude.
– No, Marta ha bisogno di te, ed anche il suo bambino:
andrò io e mi aspetterete. Se ci sarà vero pericolo, ve ne
accorgerete in tempo, da quassù, per fuggire. Se fra un’ora
non sarò tornato, andate a prendere il bambino, poi dirigetevi
verso Cagliari e cercate di mio zio.
318
– Vengo con lei, – annuncia la voce di Beatriz nel buio.
E Marco capisce che non può dirle di no.
Irrompono vociando nella galleria e si fermano davanti
ad Aleni, che fa scudo con il suo corpo alla porta che conduce
alle stanze alte.
Il manipolo è comandato da un sottufficiale che si fa innanzi
con l’arma spianata. Ha paura quanto i suoi commilitoni,
ma ostenta un’aria di esagerata determinazione.
– Togliti di là, donna…
– Il mio nome è Elena, baronessa Ballester di Gurtei, e
questa è casa mia. Come osi entrare in questo modo, soldato?
La sua voce calma ha un effetto sedativo sui soldati terrorizzati,
ma ha il potere di irritare il sottufficiale. Il soldato
che regge la lanterna fa un passo indietro e lui gli da
uno spintone, ricacciandolo avanti.
– Sto inseguendo due uomini, forse più, che hanno gettato
lo scompiglio nel nostro campo e che hanno causato
la morte di tanti miei commilitoni, che credendo di essere
attaccati hanno finito per spararsi addosso a vicenda.
– E insandus? De innoi no passat nisciunus…
– Parli in modo che io possa capirla!
– Io parlo la mia lingua perché sono nella mia terra e, se
non mi capisci, sei in torto tu.
– Prenderò quell’uomo anche passando sopra il corpo
di una baronessa spagnola, se sarà necessario. Si tolga da
quella porta.
– Io sono baronessa, sì, ma sono sarda. Quindi, torno a
dirti, sono a casa mia e nella mia terra. Incapas tui, pedditzoni
strangiu, di aundi stocada ses lompendindi? O mancai,
naramì in cali furrungoni ’nci ’olis torrai…
– Non riesco a capire il suo spagnolo, madama, ma non
ho tempo da perdere, si faccia da parte!
Alza le braccia ed il calcio del fucile si abbatte sul legno,
319

sfiorando la tempia di Aleni. La porta scatta indietro, liberata
dalla serratura arrugginita che, al colpo, si è scardinata.
Il sottufficiale con un gesto spinge da parte Aleni e passa
oltre.
Lei si aggrappa alla cortina, per non perdere l’equilibrio,
ma quella viene giù, in un turbinio di polvere.
Ecco. È la soglia che separa il silenzio dall’ira.
È là davanti.
Vi si lancia attraverso, si getta sulle scale, afferra i piedi
del sottufficiale, facendogli perdere l’equilibrio, supera il
suo corpo e finisce di arrampicarsi sulla scala, mentre i
soldati, sotto di lei, cercano tutti insieme di salire, accalcandosi
gli uni sugli altri con grida e bestemmie.
Un colpo parte dal fucile del sottufficiale, provocando
un crollo di polvere e calcinacci.
Come si corre in sogno, a passi rallentati, Aleni attraversa
la stanza ancora cosparsa di foglie. Si sente leggera come
una di esse e vola verso la porta dirimpetto, allarga le
braccia e si volta.
Un pensiero le attraversa la mente: il calesse che conduce
Marta verso il suo bambino e verso la salvezza, deve essere
ormai lontano. Marco e Beatriz potranno forse innamorarsi
e amarsi e a Beatriz sarà restituita la vita che le fu
tolta. E a lei?
A lei, donna di quella terra, accecata e resa muta da secoli
da una maledizione straniera, sarà tolta la cucitura
che ha serrato le labbra e così quella che serrò le labbra di
Nassia, di Giuanna, di Miguela.
E il loro grido di ribellione sarà la parola a lungo attesa,
che farà volgere Dio, e trasfigurerà quel silenzio in ira.
– Donna, spostati.
Aleni guarda il sottufficiale, rendendosi conto di contemplare
in viso la propria morte.
320
Ma la sua voce, quando risponde, non ha neanche traccia
di emozione. E sorride, la signora di Gurtei.
– Beni, Past’ ’e lati, beni… Stesiaminci tui de innoi…
Il Notaio è appena entrato nel cortile d’onore quando
sente il secondo sparo.
Tentoni, nel buio, fidando nella sua memoria, si affretta
su per la gradinata che sale alla casaforte, sgomentandosi
dei segni di violenza che incontra via via.
Cos’è accaduto, si domanda sentendosi assalire da presentimenti
angosciosi.
Giunto in cima alla gradinata, oltrepassa la porta che
pende sconnessa dallo stipite e corre verso la Galleria dei
Ritratti avendo l’impressione, come nella vertigine, che
siano le cose a venirgli incontro, non lui a muoversi.
Supera la cortina strappata ed è a metà del ripido budello
delle scale, illuminato in cima da una luce oscillante.
Voci, esclamazioni, odore acre di polvere da sparo e, all’improvviso,
dei soldati che si gettano giù per la scala, arrestandosi
davanti a lui.
Il sottufficiale, con il viso tumefatto, rigato di tracce
sanguinolente, dinanzi a quell’uomo vestito alla cittadina
sente il bisogno di giustificarsi.
– Si ostinava a non farsi da parte…
Loro impediscono a lui di salire e lui impedisce loro di
scendere, e tutti restano chiusi nell’angoscia soffocante di
quel budello, finché la voce del Notaio non si alza rauca,
con una punta di disperazione.
– Cosa le avete fatto, sciagurati! Po s’amori ’e Deus…
– Si ostinava a difendere quella porta, dietro la quale
non abbiamo trovato nessuno… Forse è disceso attraverso
l’albero. Si faccia da parte!
– Ah, maledetti, che avete fatto? L’uomo che quella
donna difendeva, è stato già preso ed impiccato!
– … Come?
321

– Qualche anno fa, si, da sbirraglia come voi! Maladitus
siais…
Il sottufficiale fa cenno ai suoi. – Andiamo! Non se ne
cava nulla da questi spagnoli! – E scendono, schiacciando
il corpo del Notaio contro il muro.
Quando tutti sono passati, finalmente può muoversi lui.
Arranca su per gli ultimi scalini ed entra nella stanza sentendosi
assalire da una paura strangolante.
Chiama il nome di Aleni, vagando tentoni per la stanza
buia e sentendosi chiudere il naso e rigare il volto da un
pianto senza preavviso, come il suo cuore intuisca qualcosa
che i suoi occhi non riescono ancora a vedere.
Finalmente i suoi piedi urtano un ostacolo cedevole.
Cade in ginocchio, le dita trovano un volto, delle mani
inerti, serrate a pugno.
Con il petto scosso da singhiozzi inarrestabili, prende
quelle mani tra le sue e vi posa le labbra.
Hanno quasi raggiunto la porta di casa, Marco avanti e
alle sue spalle Beatriz, quando si sente il primo sparo.
– Viene dalle camere alte della casaforte! – esclama il
medico e infila la chiave nella serratura con un’ansia che
gli fa tremare le dita.
In quel momento si sente il secondo sparo. Marco entra
in casa, raggiunge di corsa il corridoio di comunicazione,
apre l’altra porta e si getta nell’oscurità del cortile d’onore,
mentre Beatriz lo segue in silenzio.
Dal portale stanno uscendo di corsa dei soldati. Marco
raggiunge la scala, con il cuore in gola.
Tutto è oscuro dentro la casaforte ma, dal fondo della
Galleria, proviene un pianto.
Quando emerge dall’oscurità della scala a quella della
stanza d’ombre, sparsa di foglie, il nodo di disperazione
alla gola è tanto teso, che quasi non riesce a respirare l’aria
acre di odore di polvere da sparo.
322
– Chi è là? – balbetta il Notaio.
– Dottor Raschini. Dov’è Aleni?
– Oh, dottore, è qui, è qui, l’hanno uccisa!
Marco si getta in ginocchio nell’angolo da dove viene la
voce, trova il corpo presso cui si china il Notaio e cerca nel
collo il battito dell’arteria.
Ma le sue dita non trovano vita.
Non c’è vita.
Con un gemito che è già un singhiozzo di pianto Marco
posa la fronte sulla fronte di lei, per coglierne l’ultimo, debole,
tepore.
No, dice tra sé. No. Non è possibile.
Per questo l’ha mandato via: ha scelto di morire per permettere
ai suoi cari di fuggire, per spezzare il suo destino
di inerzia e di silenzio. Perché la sua ribellione fosse più
forte. Più forte di quella di Arega e di Beatriz. Più forte
dello sdegno di Inés, del forte amore di Nassia e del miracolo
di cui Rosita aveva scelto di portare il peso sulle spalle,
come una croce. Più forte del sacrificio di rinuncia di
Miguela, più forte della pazienza di Giuanna. Più forte.
Marco si sente annientare dal peso di quella scelta.
È morta con le braccia spalancate e i pugni chiusi, inchiodata
al suo sogno di ribellione come gli altri, prima di
lei, sono morti crocifissi alla propria sorte, dal primo respiro
all’ultimo, alcuni causa, altri affetto, confusi in un
unico destino di contingenza e di fragilità, in balia degli
inconoscibili disegni della Causa non causata dalla quale
tutte le altre cause procedono, unitamente ai loro effetti.
Per saecula saeculorum.
No, Dio. No.
In piedi sulla soglia, Beatriz piange, con un lamento accorato,
come piangono i bimbi.
In quel momento il Notaio inciampa in qualcosa che
produce un tintinnio.
323

Una lampada.
Lo sfregare di uno zolfanello e la stanza si illumina.
Marco solleva Aleni tra le braccia e quasi non ne sente il
peso. La adagia sul letto della stanza che ha difeso fino alla
fine e, mentre la ricompone, gli torna alla memoria d’un
tratto tutto ciò che quella donna gli ha raccontato di sé, il
rispetto che gli è cresciuto per lei, a dispetto dei sospetti
dello zio, e l’amore, a dispetto di tutto.
La fragilità di Aleni ora si vede tutta nel corpo insanguinato,
abbandonato dalla forza vitale. Pare strano, anzi, che
la vita vi si sia attardata tanto, aggrappata con chissà quali
radici, a quale terra.
Lo scalpiccio sulle scale lo fa trasalire.
È Malacarìu, rosso in volto per l’eccitazione.
– Ha visto, dottore, che bello scherzetto che ho combinato
ai piemontesi? …Oh, Donna Aleni…
– Donna Aleni s’at lassau… – balbetta il Notaio.
– In su celu siat, – risponde quello con tono rattristato,
ma l’urgenza lo rende concitato: – Ho un carro qui fuori.
Ero venuto per lei, ma c’è posto per tutti, se volete venire.
Non è più tempo di indugi: il mare è giunto fino sotto le
mura e sta entrando nel cortile d’onore. Solo Logus de su
’entu è sicuro.
Marco rivolge uno sguardo interrogativo al Notaio, che
gli indica la finestra.
– Guardi, guardi…
Marco obbedisce, ma non vede nient’altro che oscurità
percorsa da raffiche di maestrale. Eppure c’è qualcos’altro.
Apre la finestra, prende il lume e si sporge un poco dal
davanzale.
Il vento è forte e lui deve tenere il lume con due mani,
perché non gli sia strappato. Alla fine indietreggia pallidissimo,
poggiandolo.
324
– Dunque era vero! Avevano ragione! – balbetta il Notaio.
– Non posso crederci… – mormora Marco scuotendo il
capo, ma tra il suo sguardo e quello del Notaio, consolato
da un miraggio di speranza, ci sono le onde vorticose che
RAIMUNDU
ha appena intravisto lambire il muro scarpato MARTA
BALLESTER
della casaforte,
cosparse di cadaveri galleggianti.
– Deve andare, dottore, – lo esorta il Notaio. – Vada,
porti in salvo quei ragazzi: lei lo voleva. Il vicolo sarà forse
ancora sgombro d’acqua, poi Gurtei si allontanerà in mare
aperto. Con lei resto io.
Marco ha un gesto d’ira: [ – ? Ma ] cosa dice! Lei vada con i
ragazzi: hanno bisogno di qualcuno con la testa sulle spalle,
che li conduca fino a mio zio. Lui saprà cosa fare.
Poi si rivolge a Malacarìu: – Occorrerà un medico, lassù:
vengo con voi. Vada giù in casa e carichi sul carro tutto
GIACOMO
quello che può essere utile.
LAURA
BALISTRERI
– Vestiti, coperte e medicine, se ce ne sono: non serve altro.
Beatriz fa un passo avanti: – Ho assistito malati per molti
anni, con le suore: verrò anch’io, – afferma, come non
mettesse neanche in conto un diniego. MARGHERITA
BALISTRERI
– Bene. Dia una mano a quell’uomo: io scenderò tra qualche
minuto.
Rimasto solo, Marco si volge ancora una volta verso Aleni,
sollevando alta la lampada su di lei per guardarla l’ultima
volta, per farle l’ultimo rimprovero.
Chissà se la parola perduta è tornata al suo labbro, nel
momento in cui la vita le veniva strappata. Chissà se ha incontrato
il Dio malvagio delle sue paure, o se l’ha accolta
un Padre misericordioso, placando in un abbraccio i suoi
terrori. Vorrebbe chiederglielo, Marco, ma Aleni non può
più rispondere: è al di là della parola e del sogno o, forse,
nel Sogno e nella Parola, per sempre.
325

Resta a lungo a fissare quel viso, ma gli occhi della signora
di Gurtei non possono restituirgli lo sguardo: sono vitrei,
lucenti della lucentezza riflessa di un mare senza più
né gabbiani, né onde. Disteso, stanco, e immemore delle
maree.
327

328
XVIII
Michele Spano distoglie lo sguardo dall’architrave polilobato
della finestra.
Sta per voltarsi verso Margherita ed Angelo Liperi,
quando la sua attenzione viene attratta da un particolare
sul quale non aveva mai soffermato l’attenzione: uno zoccolo
più scuro, come il segno di una marea più alta, che
corre a cinquanta centimetri da terra lungo tutto il perimetro
delle mura scarpate della casaforte.
Sollevando il bavero dell’impermeabile, si accinge a continuare.
– Ora, come dicevo, la reggia aragonese di Perpignano,
si trova in una zona che in passato, quando il regno di Aragona
ancora non esisteva, era abitata quasi esclusivamente
da ebrei: la Linguadoca, a nord dei Pirenei. Un tempo
quella regione era chiamata Gothia perché vi si stanziarono
anche i visigoti di Ataulfo, che lasciavano l’Italia dopo
il sacco di Roma e la morte di Alarico, nel 400 d.C.
– Beh, finestre così ce ne saranno state in ogni parte
della Spagna, – azzarda Liperi.
– Sì. Molte delle famiglie ispano-ebree, però, provenivano
da quella zona.
– E che c’entrano gli ebrei, adesso?
A Liperi preme stabilire cosa possa aver gonfiato in
quella maniera la nota spese del suo collaboratore.
329

– I Baher discendevano da una famiglia ebrea di rito sefardita:
Sefarád era l’occidente mediterraneo. L’albero di
Joan era la rappresentazione più tipica dell’ebraismo, la
Menorah, il candelabro eptacline, cioè a sette braccia. Sette
come le radici dell’albero dei Baher. Joan ha capovolto
l’albero per assumere come arma personale la Menorah.
Le sopracciglia di Margherita si corrugano: – Nicola
aveva ragione, dunque…
– I Baher erano ebrei, signora Balistreri. Ecco il segreto
inerente alle radici della stirpe che Vicente Ballester tanto
temeva. Finché cristiani, musulmani ed ebrei vissero fianco
a fianco in pace, per Sefarád furono tempi di grande
prosperità e fulgore di cultura. Ma poi cominciarono le
crisi antiebraiche che dovevano geograficamente allargarsi
e culminare, in tempi vicini a noi, nella diaspora e nella
shoah , la dispersione e l’annientamento degli ebrei. La
consapevolezza di Vicente di avere sangue ebreo nelle vene
- visto che si chiamava Ballester, ma era Baher per parte
di entrambi i nonni - divenne un’ossessione.
– Quella stessa ossessione che prese mio padre, evidentemente,
– osserva Margherita. – Mamma mi raccontava
che babbo aveva sempre manifestato un acceso antisemitismo.
Quando, dopo la morte di nonno, tornò alla casaforte,
deve aver trovato qualcosa che lo rese certo di
avere in sé i caratteri che tanto odiava.
– Forse anche lui riconobbe la Menorah nelle carte che
il padre gli consegnò prima di morire.
– E suo padre, come ebbe quelle carte? – si intromette
Liperi.
– Le prese dalla casaforte, a sua volta. Erano rimaste là,
dopo la fuga di Larentu, di Marta e del Notaio. La cartella
di marocchino e tutti gli appunti che il dottor Raschini
prese, mano a mano che Aleni gli raccontava la storia della
famiglia, erano invece nella dipendenza, e li ritrovò mia
madre.
330
Michele annuisce: – Ritorniamo a Vicente. Era ebreo, e
lo era in un momento in cui non bisognava esserlo. Infatti
proprio in quegli anni i sovrani cattolicissimi di Spagna,
Ferdinando e Isabella, cacciavano dal regno ebrei e
mori, confiscando loro i beni. Anche se i Baher furono da
subito cristianos nuevos, conversos o, come erano chiamati
spregiativamente, marranos, che significa porci, Joan
aveva ostentato nello stemma il suo attaccamento all’ebraismo
e Vicente non si sentiva sicuro, anche a causa dei
torbidi trascorsi della famiglia.
– Ma un giorno gli capita in casa Inocencio…
– Sì, signora Balistreri, ci stavo arrivando. Il frate è andato
là a proporgli un’impresa disperata che lui non ha
voglia alcuna di intraprendere, ma sa anche altre cose pericolose
sulla famiglia Baher. Gliele ha sicuramente dette
l’Alagon, che è vissuto abbastanza presso la corte aragonese
per aver colto gli echi, non ancora spenti, degli avvenimenti
che avevano causato la fuga dei Baher dalla
Spagna. Ma ragioniamo: se Inocencio avesse saputo dell’ascendenza
ebrea dei Ballester, Vicente non avrebbe rischiato
di mettere il frate in mano ad una Inquisizione e
ad un re che odiavano gli ebrei: avrebbe tradito il suo segreto
alle prime torture e lui sarebbe stato perduto. Non
sono riuscito a spiegarmi il comportamento di Vicente,
fino a che non ho cominciato a chiedermi se il segreto
dei Ballester-Bayre fosse tutto nell’essere ebrei e nell’incesto.
– Non lo era? – domanda Liperi, infilandosi le mani in
tasca e dondolandosi tra le punte e i tacchi delle scarpe.
Non è un appassionato di trame complicate.
– No. C’era un’altra macchia nella storia dei Baher.
D’altra parte nella poesia ritrovata da Donna Aleni, si
parla di tre segreti, tre segreti maledetti.
Il sole è scomparso ed il vento rinforza, sibilando tra i
pertugi delle rovine.
331

– Tre segreti e… un maledetto tesoro, se non ricordo
male.
– Sì, Liperi, ma andiamo con ordine. Dunque, sono andato
negli Archivi della Corona d’Aragona per rintracciare
elementi che mi consentissero di ricostruire da principio
la storia della famiglia. Risalendo indietro nel tempo, si
trova un Baher censito tra i Ricos Ombres. Successivamente
un diploma di Alfonso il Casto concede ad un Arnaldo
Baher e a tutta la discendenza, di inquartare con le proprie,
le armi palate catalane, per il valore dimostrato durante
l’assedio di Lerida. Siamo negli ultimi decenni del
1100. In quel tempo Arnaldo Baher era signore del castello
di Montpeuplier, a sud-est di Tolosa, sui primi contrafforti
dei Pirenei. Questa fortezza doveva essere costruita
su precedenti rovine visigote, infatti è riconosciuto
ad Arnaldo di dimorare sul focolare del proprio avo, Rikja
- cioè Potente Signore - tra i nobili della Gothia. Inoltre è
detto che nelle sue vene scorre il sangue della Casa di Davide,
sangue reale ebreo. Quindi i Baher avevano sangue
visigoto e sangue ebreo nelle vene. Ma non solo. Sono andato
a Montpeuplier. Della fortezza non esiste più traccia.
In compenso le leggende hanno resistito più delle pietre e
raccontano che i Baher erano strettamente imparentati
anche con la stirpe merovingia. Questa stirpe, chiamata
dei re taumaturghi, dopo aver a lungo regnato nei territori
franchi, si indebolì e, dopo l’assassinio di re Dagoberto II,
pur conservando nominalmente il trono per qualche anno,
parve scomparire nel nulla. Fu soppiantata da quella
dei Carolingi, che erano i loro Maestri di Palazzo, spalleggiati
dalla Chiesa. Ma, si dice, i discendenti di Dagoberto
II continuarono a vivere nella clandestinità.
– I Re Perduti! – esclama Margherita.
– Sì. Era quello il sangue che i Baher vantavano: sangue
reale tanto nobile che nessuna unione poteva nobilitarlo
di più né degradarlo, perché era considerato sacro. San-
332
gue reale di Davide, sangue merovingio e visigoto, anche,
perché Dagoberto aveva sposato una principessa visigota.
E forse questa leggenda ha un fondo di verità, perché se si
vanno ad esaminare alcune genealogie che gli studiosi si
sono provati a compilare per seguire lo scorrere del sangue
merovingio attraverso i secoli, si trova ricorrente il
nome semitico di Bera. Questo era il nome del suocero di
re Dagoberto e di numerosi suoi supposti discendenti.
Nella grafia ebraica il nome è Beerah. Assai simile a Baher,
non vi pare? Eppure, gli ultimi Baher che vissero nel loro
castello non lasciarono un fulgido ricordo di sé. All’inizio
del XIII secolo la Linguadoca era un principato indipendente
e prospero, governato da alcune famiglie nobili.
Quella prosperità faceva gola alla nobiltà nord europea.
La Chiesa era interessata a quella zona per altri motivi: la
Linguadoca era contagiata dall’eresia catara, la più grande
della cristianità medioevale. Per estirpare l’eresia da
quei luoghi ed impedire che si propagasse, la Chiesa indisse
una crociata. Nel 1209 si radunò un grande esercito
di fanti e cavalieri provenienti dall’Europa settentrionale,
che piombò sulla Linguadoca, devastandola e passando
per le armi interi villaggi. Dopo vari decenni, alla caduta
dell’ultima roccaforte catara - Montségur, nel 1244 - piccole
enclavi di eretici continuarono a resistere sulle montagne,
guidate dai superstiti delle famiglie nobili. Nelle
grotte fortificate di Ornolac, nell’Ariège, furono trovati
gli scheletri dei catari appartenuti ad uno di questi gruppi.
A quanto si racconta, furono i Baher a tradire quell’ultimo
manipolo di resistenza. Non se ne sa la ragione, ma
tutti insistono su un punto: in quelle grotte c’erano molti
congiunti dei Baher. Con quel tradimento, frutto dell’apostasia,
i Baher li mandarono a morte.
Margherita, la coda di cavallo che comincia a disfarsi
nel vento, lo guarda incuriosita.
– Perché parla di apostasia?
333

– I Baher avevano due pioppi nelle loro insegne, e
Montepioppo si chiamava la loro rocca. Ricordate come
veniva chiamato Erramun Baher nelle ballate? Pollancre,
cioè Pioppo. In araldica il pioppo è simbolo di purezza,
ed il termine Cataro significa Puro. Quelli della famiglia
che ordirono il tradimento erano quindi dei catari apostati,
così come furono degli ebrei apostati, quando fece
loro comodo.
– Ma questi fatti così lontani, come potevano avere ancora
un’importanza per Vicente?
– L’avevano e come! Ci sono le prove storiche, nelle
carte dell’Inquisizione, che al tempo di Vicente esistevano
dei gruppi catari in Sardegna. L’eresia, dopo lo sterminio
che fu in pratica il primo genocidio nella storia dell’Europa
moderna, non era stata del tutto estirpata. Vicente
temeva la vendetta di quei catari: il nome dei Baher
non poteva essere stato dimenticato e, inoltre, Inocencio
sapeva, poteva denunciarlo… Ecco il terzo segreto, quello
più infamante: aver tradito e fatto trucidare i propri
congiunti. I Ballester-Bayre tentarono di occultarlo e ne
sentirono il peso, tramandandoselo di generazione in generazione,
per sette secoli.
Si allontanano dai resti del muro della casaforte. Margherita,
però, non pare soddisfatta.
– Ma dov’erano sepolti i corpi di Beatrìu e Joan? Perché
prete Gracián fece il calco dell’albero di Joan? Ci sono
ancora molti punti oscuri.
Passeggiano su un costone, in fondo al quale le onde si
allungano e si ritirano, lasciando affiorare scogli spigolosi.
– Qui, dove ora c’è il mare, doveva esserci Gurtei e l’altipiano.
– Lei crede a quella storia?
Senza cogliere lo scetticismo di Michele, o restandone
indifferente, risponde:
334
– Forse è rimasto anche qualcos’altro, oltre la casaforte.
Quella, – aggiunge sollevando l’indice, – è vegetazione
tipica dei ruderi, per esempio.
Si avviano nella direzione che indica, in un punto dove
sorgono delle piccole colline di terra.
Michele, con la punta di un piede, inclina un cespuglio.
– Chissà cosa c’era qui.
– Oh, guardate, – fa Liperi con voce annoiata – un sassolino
perfettamente quadrato…
Margherita china lo sguardo sulla sua mano.
– Non è un sassolino. È la tessera di un mosaico! …
C’era un solo mosaico in tutta Gurtei. Signori, benvenuti
in casa Bayre.
Scavare senza gli attrezzi adatti non è impresa facile.
Devono rassegnarsi a lasciare la casaforte e a darsi appuntamento
per il giorno successivo.
Impiegano tutta la mattina seguente a liberare gran
parte della superficie del mosaico. È in pessime condizioni,
ma si riconosce l’albero di Joan: c’è ancora la parte del
tronco, i rami in basso e, in alto, le radici o, per meglio dire,
i bracci della Menorah.
Mentre con il palmo della mano Margherita cerca di
spostare i residui di terra, cominciano ad apparire dei segni
scuri, delle lettere.
– Radix Avaritiae, radix Luxuriae… – compita, con una
certa difficoltà. Il flash della macchina fotografica di Liperi
illumina per due volte consecutive il mosaico.
– Radix luxuriae! – esclama Michele. – L’annotazione
di Raimundo sugli Arcana Silenda!
* * *
– Ecco.
Margherita sposta da un lato della scrivania le foto e
335

posa, aperto vicino ad esse, il libro che ha tolto da uno
scaffale.
– L’albero araldico del male, così come è rappresentato
in alcuni manoscritti del Duecento e del Trecento, come
il Miroir de Vie et de Mort ed il Verger de Soulas. Guardate:
il tronco è l’orgoglio. I sette rami sono i sette peccati
capitali: Invidia, Vanagloria, Ira, Tristizia, Avarizia, Intemperanza,
Lussuria. A volte i peccati sono le radici: Radix
Avaritiae… che formano un grande albero sotterraneo.
– Arcana radix luxuriae silenda tuerit… – ricorda Michele
a memoria. – Com’è che l’aveva tradotto il dottor
Raschini? La radice della lussuria custodisce i segreti che
devono tacersi… A pensarci bene, la casaforte fu costruita
sulla vecchia chiesa. Ricordate la leggenda di Gurtei?
Dove seppellirono i morti del rogo, i superstiti, prima di
fuggire a Logus de su ’entu?
– … Sotto la lastra d’ardesia del presbiterio.
– Certo, ma non poteva essere solo un buco, mi spiego?
Le chiese hanno sempre cripte e gallerie. E se, – azzarda –
l’albero di Joan fosse la mappa di un sistema di sotterranei?
Forse prete Gracián ne fece il calco per questo…
I due lo guardano come se avesse appena risolto l’enigma
della sfinge.
* * *
– Se la mia ipotesi è giusta, quando scoprì che la parrocchiale
distrutta aveva un sistema di gallerie a forma di
albero, Joan deve averlo ritenuto un segno del destino.
Forse aveva bisogno di un posto sicuro nel quale nascondersi
all’occorrenza, o dove nascondere qualcosa. Là sopra
fu costruita la casaforte. Con tutta probabilità casa
Bayre fu costruita in modo che quelle gallerie la collegassero
ad essa. Attraverso quei sotterranei i due fratelli si
336
incontravano quando la loro convivenza cominciò a destare
sospetti nei rispettivi coniugi. Là probabilmente si
fecero seppellire, uno al fianco dell’altro, da famigli fidati.
Evidentemente prete Gracián sapeva che la casaforte
era stata costruita sulla vecchia parrocchiale e sospettava
l’esistenza delle gallerie. Magari qualche notizia in proposito
era trapelata nel segreto del confessionale ed era
stata poi portata nella tomba dall’ultimo barone, cui il
vaiolo aveva sigillato le labbra prima che potesse trasmettere
il segreto di famiglia al suo erede. Prima di sigillare la
cripta, prete Gracián ricalcò l’albero di Joan. Si sentì depositario
di quel segreto e ritenne forse che questo gli
desse dei diritti su Inés, che già stava ricattando con le
parole ritrovate nel libro di preghiere. Ma non arrivò a
servirsene, perché Inés lo fece uccidere. In questo modo,
però, anche lei perdette l’occasione di conoscere quel segreto.
Miguela, suo figlio Jacu e il figlio di lui, Iñigo, vissero
e morirono all’oscuro di tutto. Raimundo, ritrovando
tra i libri parrocchiali il calco fatto da prete Gracián,
cercò le gallerie, le trovò, scoprì cosa nascondevano e lasciò
l’indicazione negli Arcana Silenda e nel calco dell’albero
di Joan. Macrobio assimila il passato ad un lupo che
divora i ricordi. Scrivere il lupo rigurgita il suo pasto, è
quanto dire: le tracce del passato riaffiorano.
Michele afferra le fotografie scattate da Liperi, sparpagliandole
sulla scrivania.
– Ecco: nel mosaico Radix Luxuriae è la terza radice a
sinistra. Non ci resta che trovare la lastra del presbiterio,
che sicuramente copre il passaggio per le gallerie, e infilarci
nella terza a destra.
* * *
– Ma, di preciso cosa stiamo andando a cercare? – domanda
Liperi, che guida in maniera nervosa, niente affat-
337

to contento di dover rifare i chilometri che li separano
dalla casaforte.
– Un tesoro, spero. – risponde Margherita.
– Ma un tesoro come? – È particolarmente sensibile a
tutto ciò che abbia un valore commerciale, ma quasi indifferente
ai valori intellettuali e artistici. Quindi gli urge
di appurare se Margherita parli di qualcosa che sia possibile
tramutare in quattrini.
– Ho una mia idea in proposito.
– Nel 66 d. C. la Giudea si rivoltò contro i romani.
L’imperatore mandò le sue legioni, comandate dal figlio
Tito a sedare la rivolta. Quattro anni dopo, nel 70, Gerusalemme
fu rasa al suolo, il Tempio saccheggiato ed il suo
contenuto portato a Roma come bottino di guerra. Dai
bassorilievi dell’arco trionfale di Tito, si può vedere che
di questo tesoro faceva parte il grande candelabro eptacline
d’oro e gemme e altri oggetti, tra cui il Graal e l’altare
di Salomone. Lo storico Procopio racconta che Alarico,
re goto, durante il sacco di Roma del 410, si impadronì
dei tesori di Salomone. Morto Alarico, il bottino
passò ad Ataulfo, che risalì la penisola italiana ed andò a
stabilirsi con i suoi visigoti nella regione ultrapirenaica
che fu chiamata Gothia. Nel 507 il regno visigoto, con capitale
Tolosa, si sfasciò sotto l’incalzare delle forze merovinge.
I visigoti - tra cui l’avo dei Baher - avevano già
stretto alleanze matrimoniali con gli ebrei di Linguadoca,
e ne strinsero anche con i merovingi. È a quel punto che
il sangue reale visigoto, quello ebreo e quello merovingio
si uniscono e danno vita alla stirpe che sarà quella dei Re
Perduti. L’eresia catara si sviluppò proprio in questa regione.
C’è ragione di ritenere, quindi, che il tesoro di Salomone
passò nelle mani delle famiglie nobili catare, discendenti
dai visigoti, dai merovingi e dagli ebrei.
– Quante chiacchiere! – sbotta Liperi, che frigge per
passare all’azione. – Sono solo ipotesi! Tutto ciò è talmente
lontano nel tempo!
338
– Vuole qualche prova più vicina a noi, dottor Liperi? –
replica Margherita con un sorriso sornione. – Eccola: Hitler,
d’accordo con Rosemberg, mandò segretamente Otto
Rahn a localizzare quel tesoro, o parte di esso, che riteneva
fosse stato occultato dagli eretici catari nelle caverne
della Linguadoca. Durante la seconda guerra mondiale
furono eseguiti scavi a Montségur e in numerose altre
località legate ai catari. Le dicono nulla gli scavi fatti
dai tedeschi qui intorno, dopo che mio padre fu arrestato?
Lui si deve essere lasciato strappare, magari sotto tortura
prima di morire, la notizia sull’origine catara della
famiglia.
– Può darsi che abbia dato questa notizia ai tedeschi,
ma non certo sotto tortura. – obietta Michele.
Margherita gli rivolge uno sguardo duro, gli occhi ridotti
due fessure.
– Perché dice questo?
– Ho fatto delle ricerche incrociate presso le associazioni
ebraiche e gli archivi dei reduci dei campi di concentramento,
dove è raccolta una mole enorme di testimonianze:
nessuno ha mai visto suo padre, nessuno ha
mai avuto notizia di un Giacomo Balistreri, nel campo in
cui è stato internato.
– Come sarebbe? Il suo nome fu trovato…
– Solo il suo nome, però.
– Cosa vuol dire?
– Non mi dica che non lo immaginava. Suo padre fece
in modo di ottenere una nuova identità. Forse gliela fornirono
i fascisti o gli stessi tedeschi, in cambio di delazioni
o… chissà! Se sua madre ha fatto le stesse ricerche che
ho fatto io, doveva sospettare anche lei che suo marito
fosse ancora vivo.
– Allora questo tesoro? – Liperi guida socchiudendo gli
occhi, come se l’azione dei tergicristallo non sia sufficien-
339

te a migliorare la visibilità ridotta da quella pioggia battente.
– Riflettiamo: quale motivo avevano i Baher, benché ormai
catari pentiti, di tradire i loro congiunti? Forse lo fecero
per impadronirsi di qualche cosa. Otto Rahn non
trovò nulla nella Linguadoca perché forse il tesoro di Salomone
era stato portato via secoli prima. Certo qualcosa
di molto speciale i Baher dovettero portarsela, in Sardegna.
Ricordate l’episodio della cassa caduta dal carro,
quando misero piede a Gurtei? Non volevano che nessuno
toccasse quella cassa, né che ne vedesse il contenuto.
Era qualcosa che fu nascosto nella casaforte e che Vicente
aveva terrore che i catari potessero venire a riprendersi.
– Il tesoro di Salomone! – esclama Liperi, mentre l’auto
sbanda percettibilmente.
– Forse solo una parte. Ma, seppure piccola, potrebbe
avere oggi un valore incalcolabile. Procopio li descrive
come oggetti mirabili, d’oro adorno di smeraldi…
La pioggia impedisce loro di uscire dall’auto. Così restano
ancora a chiacchierare chiusi nell’abitacolo, sotto
quei resti di mura incombenti.
– Cosa le disse sua madre in punto di morte? – domanda
Michele.
Margherita stringe le spalle:
– Tutto. Ma io volevo la conferma. Mi disse di aver preparato
una trappola per mio padre, perché voleva vendicarsi
dell’abbandono, che sentiva come un tradimento.
La pubblicazione di quegli articoli era un tentativo per
farlo uscire allo scoperto. Lui probabilmente era all’estero,
ma si faceva spedire il giornale, sempre preso da quella
sorta di nostalgia per il luogo dove era nato. Quegli articoli
dovettero riportarlo indietro nel tempo. Ma probabilmente
pensava che il tesoro fosse quello di Ugone, così
rubò il documento dalla miscellanea: documento che non
340
gli servì a nulla. Forse nonno gli aveva parlato di un tesoro
enorme, prima di morire, e lui si fece prendere dalla smania
di ritrovarlo. A quel punto decise di sottrarre tutti i
documenti a mia madre. Nonostante i capelli tinti di
biondo, mia madre riconobbe nel suo aggressore l’uomo
che l’aveva abbandonata senza una spiegazione, ma non
disse nulla alla polizia. Così Giacomo Balistreri, senza
nessun sospetto, seguì nelle carte del dottor Raschini, come
abbiamo fatto noi, le tracce lasciate da Raimundo e
andò alla casaforte per cercare il tesoro. Mia madre lo
aspettava là da quando aveva capito che la sua esca era
stata ingoiata. Mi ha detto di aver portato un’arma, con
sé. Ma non le servì. Non so cosa sia successo là dentro.
Mamma mi ha solo detto che mio padre è stato vittima
della sua cattiva coscienza.
* * *
Sono tre giorni che perlustrano palmo a palmo quelle
rovine pericolanti.
Finalmente, una sera, quando stanno oramai per decidere
di rinunciare, Margherita li chiama in una piccola
camera a piano terra, che un tempo è stata una casamatta
nell’ala sinistra della casaforte.
Su una pietra d’angolo, quasi invisibile per l’erosione
del tempo, c’è un bassorilievo, raffigurante una figura
maschile a mezzo busto, che tiene in mano un compasso.
– Guardate, ha in mano il compasso piccolo! Questo
concio scolpito è la firma dell’architetto: usavano lasciare
raffigurazioni come questa.
– C’è scritto qualcosa: Dedalus alter… Nigidius!
– L’autore degli Arcana Silenda! Non posso crederci…
Fu lui, dunque, a costruire la casaforte…
La voce di Liperi li costringe a voltarsi.
– Ehi, qui ce n’è un altro, di disegnino.
341

La luce delle tre torce converge verso un graffito rozzo.
– Nigidius ha lasciato le tracce per l’accesso ai sotterranei!
– bisbiglia Margherita.
Si guarda intorno, illuminando le pareti. Poi aggiunge:
– Aiutatemi a tirare giù l’intonaco.
* * *
È ormai notte fonda, ma continuano a lavorare, impolverati
da capo a piedi. Nessuno si fida degli altri, così decidono
di andare fino in fondo quella notte stessa, fino a
quando dura la scorta di pile per le torce.
– Ci siamo arenati, – annuncia Margherita illuminando
le pareti una ad una. – Nella quarta parete non c’è nessun
graffito.
Liperi siede su un sasso, e dà fondo alla scorta di panini.
– Forse è in terra, – bofonchia.
– Potrebbe essere un’idea. Cerchiamo di prolungare
idealmente delle rette che partono dai graffiti e vediamo
dove si congiungono.
– Ecco, dovrebbe essere circa in questo punto.
Cominciano a spostare a mani nude le macerie che ingombrano
il centro del pavimento e scoprono una pietra
più grande, tra le altre che costituiscono la pavimentazione
del locale.
– Ci siamo! – esclama Liperi con voce soffocata dall’affanno.
Sulla pietra è graffita la figura di un lupo.
Michele si accoscia sui talloni. Per un attimo che sembra
infinito all’impazienza degli altri, tace. Poi solleva il
capo e dice, con tono stranamente solenne: – È qui che il
lupo rigurgita il suo pasto…
Quando riescono a trovare modo di sollevare la pietra
che dà accesso al vecchio presbiterio, è quasi l’alba. Mar-
342
gherita trema vistosamente e Liperi è ormai incapace di
dominarsi.
Su Michele, invece, è scesa una calma che, se non fosse
per l’energia con la quale lavora, sembrerebbe tristezza.
Aperto un varco sufficiente, si calano tra quelle rovine,
inglobate tra le pietre di fondamenta della casaforte.
L’aria è irrespirabile ed il terriccio continua a franare loro
intorno. Il piccolo vano è invaso dalle ragnatele e l’oscurità
ha sentore di muffito.
Scendono tutti e tre, ma due di loro devono subito risalire,
per permettere all’altro di avere spazio di manovra
sufficiente a sollevare la lastra di ardesia dell’antico presbiterio.
Questa si trova davanti a due pilastri che, fino a
seicento anni prima, devono aver retto la mensa dell’altare.
La lastra viene scalzata a fatica: il tempo ormai l’ha rinsaldata.
Forse, l’ultimo a visitare i sotterranei fu il padre di Inés,
prima di portarsi il segreto nella tomba.
Poi quella pietra è rimasta quasi altri due secoli al suo
posto, prima che Raimundo la toccasse. E da allora, altri
centotrenta anni sono trascorsi.
Quando il passaggio è libero, si calano uno dopo l’altro
in un budello dalla volta bassa, che si solleva gradatamente,
mano a mano che si procede nel sottosuolo.
Quasi immediatamente, trovano uno slargo, dove stanno
sistemati, lungo la parete di sinistra, una gran quantità
di brocche, orci ed altri recipienti di terracotta, di fattura
molto grezza, coperti di polvere e ragnatele: hanno trovato
la sepoltura di coloro che erano stati arsi nel rogo acceso
a Gurtei dai primi catalani.
Passando oltre, solo Liperi accenna ad un segno di
croce.
A un certo punto la galleria si ramifica e i tre si avviano
verso il terzo cunicolo a sinistra.
343

Fatti pochi passi, si imbattono in due grandi sarcofagi di
pietra.
Vedendo che Margherita e Michele badano di tenersene
bene alla larga, Liperi comincia a parlare della possibilità
che possano contenere dei preziosi o, magari, il tesoro
stesso di Salomone, ma tace di botto quando Michele gli
sussurra all’orecchio il nome delle due persone che presumibilmente
vi sono sepolte: Beatrìu e Joan Baher.
Quella prima visita non riserva loro altre sorprese: dopo
i primi cinquanta metri, il cunicolo è interrotto da una frana.
Nessuno di loro vuole tornare a Cagliari: sono troppo
eccitati. Nello stesso tempo, nessuno di loro si fida dell’altro.
Così, l’unica soluzione è quella di prendere tre camere
nell’unico albergo di un paese dell’entroterra, il più vicino
alla casaforte. Sforzandosi di non dare nell’occhio,
acquistano nel negozio di ferramenta, attrezzi adatti allo
scavo.
Cenano in una pizzeria squallida, dove, per compensare
forse la scarsità di illuminazione e di convenevoli, al di là
di ogni aspettativa la pizza è davvero ottima. È quello a
metterli di buon umore, rendendoli loquaci e propensi a
bere qualche birra in più, fino a che non si ritrovano, a voce
bassa come cospiratori d’altri tempi, a stipulare un accordo
sulla spartizione del tesoro.
La notte è, per tutti e tre, quasi insonne. Appena chiaro,
sono già sotto le mura della casaforte.
La frana è dura, compattata dall’umidità. Dopo tre ore
di lavoro, sembrano essere al punto di partenza.
Liperi, continuando a lavorare di piccozza, dà voce ad
una perplessità che lo assilla.
– Com’è che in questo posto erano un po’ tutti fuori di
testa?
– Si possono formulare solo delle ipotesi, – risponde
344
Michele. – Si pensa che, dall’incontro di particolari masse
rocciose, possano essere prodotte energie geomagnetiche
capaci di agire sugli esseri umani modificando la percezione
della realtà circostante. Sono causati fenomeni psichici
e spirituali che possono apparire come una specie
di… apertura della coscienza. È indubbio che molti a
Gurtei avessero facoltà medianiche, se si deve dare retta a
ciò che racconta il dottor Raschini.
Liperi storce il muso.
– Per quanto riguarda la casaforte dei Ballester, – continua
Michele, – pare che certe case funzionino come una
sorta di… batteria psichica. Assorbono e incamerano le
emozioni espresse tra le loro mura e serbano il ricordo di
fatti cruenti, tanto che pare abbiano subito una maledizione.
I fenomeni visivi e auditivi che si percepiscono in
seguito, non sono altro che tracce, riaffioramenti di voci e
immagini del passato. Anche i muri sprigionano radiazioni
misurabili, e certe case presentano lunghezze d’onda tipiche
delle cellule malate. Può darsi che esse assorbano le
emanazioni di certe persone… disturbate, mantenendone
la memoria e contagiando i successivi occupanti.
– Ecco perché erano tutti pazzi, – conclude con poca diplomazia
Liperi. Margherita gli strappa di mano la piccozza,
per iniziare il suo turno di scavo.
– Molto spesso sono case costruite su terreni impermeabili,
sopra un corso d’acqua sotterraneo o una grotta. Sono
terreni che respingono l’elettromagnetismo riversandolo
sui muri degli edifici sovrastanti. E, volete sapere
una cosa? I santuari dedicati a San Michele, come quello
sopra il quale fu costruita questa casaforte, sono situati
sempre sui terreni impermeabili delle alture, sopra corsi
d’acqua sotterranei o grotte…
– Ora si spiega tutto! Facciamo svelti svelti ad uscire di
qua…
Ma sono necessarie ancora due ore di lavoro.
345

Tocca a Liperi, nel suo turno di scavo, dare il colpo di
grazia all’ultimo tratto di materiale franoso, liberando un
pertugio.
Non è il suo grido di vittoria, però, a stupire i compagni.
È la folata di vento gagliardo che li investe, con il suo
profumo di salsedine.
Il fondo al moncone di cunicolo che prosegue oltre la
frana, sciabordano le onde.
Gurtei, staccandosi dalla terraferma, ha fatto crollare le
gallerie.
O le ha trascinate con sé.
346
Cercai Margherita qualche giorno dopo, ma invariabilmente
mi rispondeva la segreteria telefonica della madre,
Laura Balistreri, che mi chiedeva con voce stanca di lasciare
un messaggio. Così, feci una corsa in auto fino alla
casaforte.
Era là e mi accolse con un sorriso fuxia seduta tra le rovine
della casa dei suoi avi.
– Pensavo fossi ripartita senza salutarmi.
Strinse le spalle. – Jorge Amado ed io sosteniamo che
non esiste diritto più grande e inalienabile del diritto al
sogno. È nel sogno, caro Michele, che si può trovare la volontà
di resistere a qualsiasi vento. Più forte.
Guardava il sole che si liquefaceva in mare, riverberando
su di lei e sulle rovine la sua luce d’oro antico.
Al di là di quel mare, e al di là del tempo, Sefarád caccia
oltre i suoi confini coloro che hanno dato lustro alla sua
civiltà.
Da un porto pieno di animazione salpa una nave che
porta il giovane frate Inocencio verso il suo destino, mentre
alle nostre spalle, in quello che è stato il cortile d’onore
della casaforte, una donna in nero gli grida invano di non
entrare.
Là, sul fastijador di pietra, c’è la trina che Miguela ha
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appena posato per scendere a vedere perché gridano i ragazzi,
tra le rovine di casa Bayre.
Da qualche parte, nel vento, Nassia Bayre cammina con
la mano di suo figlio stretta nella sua.
E S’Acabadora continua la sua attesa.
– L’attesa e il sogno sono due metafore reciproche. La
fine dell’attesa è la fine del sogno, e viceversa, – disse Margherita
con voce quasi sommessa. – Nel sogno spesso l’effetto
non è prodotto, ma produce la causa. Un giorno mi
vestirò di bianco, andrò sotto la torre dell’Elefante, nei
bastioni del Balice e allungherò una mano gridando: Perché
disperi? Accarezzerò il viso di Inocencio e gli spiegherò
che la sua morte è stata necessaria perché, due secoli
dopo, due uomini, una donna ed un bambino potessero
salvarsi dai fucili dei piemontesi. E perché Marco e Beatriz
potessero andarsene con Gurtei nel sogno, per sempre.
E perché non senta i morsi delle fiamme, gli dirò: felice
colui che conosce le cause degli eventi, perché la verità
rende liberi. Poi farò cadere la mordacchia dalla sua bocca
in modo che possa invocare Dio ad alta voce. Non il dio
infero dei suoi torturatori, ma il Dio pietoso dei martiri.
Rimanemmo in silenzio molto tempo, mentre il maestrale
rinforzava, portando onde abbrunate di minuzzoli.
Quando il crepuscolo fu tanto avanzato che quasi non
scorgevo più i suoi lineamenti, trovai il coraggio di chiederle:
– Cosa farai, ora?
Scorsi un sorriso fuxia nell’ombra e mi sembrò che le
sue mani, muovendosi leggere e, ormai, quasi invisibili, ripetessero
continuamente un gesto: come piegassero qualcosa
o dipanassero dall’aria crepuscolare dei fili per una
tessitura nuova.
– Aspetterò che Gurtei ritorni, – mi rispose, con il tono
di chi fosse sul punto di aggiungere: che altro?
– Perché, – domandai, sentendomi stupido. – Per il tesoro
dei sotterranei?
– No, – mi rispose. – Per vivere nel sogno che possa tornare
ad allontanarsi.
* * *
Dovunque mi è capitato di parlare di Gurtei, ho trovato
persone concordi nell’affermare l’esistenza di un paese
con quel nome. I più prudenti sostengono che si tratti di
uno dei tanti villaggi che si spopolarono a causa delle carestie,
delle epidemie, della povertà.
Io penso invece che un posto del genere non sia esistito
altro che dentro ognuno di noi: luogo dell’anima dove il
sonno può mutarsi in sogno, ed il silenzio in ira.
349

INDICE
LA STIRPE DEI RE PERDUTI
I 13
II 23
III 39
IV 57
V 67
VI 87
VII 95
VIII 117
IX 133
X 163
XI 191
XII 203
XIII 237
XIV 263
XV 277
XVI 289
XVII 309
XVIII 327

Volumi pubblicati:
Tascabili . Narrativa
Grazia Deledda, Chiaroscuro
Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto
Grazia Deledda, Ferro e fuoco
Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche
Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2 a ristampa)
Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)
Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Giulio Angioni, L’oro di Fraus
Antonio Cossu, Il riscatto
Bachisio Zizi, Greggi d’ira
Ernst Jünger, Terra sarda
Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)
Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)
Gianluca Floris, I maestri cantori
D.H. Lawrence, Mare e Sardegna
Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2 a edizione)
Giorgio Todde, Lo stato delle anime
Francesco Masala, Il parroco di Arasolè
Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (ristampa)
Salvatore Niffoi, Cristolu
Giulio Angioni, Millant’anni
Luciano Marrocu, Debrà Libanòs
Giorgio Todde, La matta bestialità (2 a edizione)
Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»
Marcello Fois, Materiali
Maria Giacobbe, Diario di una maestrina
Giuseppe Dessì, Paese d’ombre
Francesco Abate, Il cattivo cronista
Gavino Ledda, Padre padrone
Salvatore Niffoi, La sesta ora
Narrativa
Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito
Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)
Francesco Cucca, Muni rosa del Suf
Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi
Bachisio Zizi, Lettere da Orune
Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia
Giulio Angioni, Il gioco del mondo
Aldo Tanchis, Pesi leggeri
Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole
Giulia Clarkson, La città d’acqua
Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti
Poesia
Giovanni Dettori, Amarante
Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo
Gigi Dessì, Il disegno
Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza
Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole
Saggistica
Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario
Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale
Dessanai
FuoriCollana
Salvatore Cambosu, I racconti
Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre
Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea
I Menhir
Salvatore Cambosu, Miele amaro
Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina
Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi
Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna
In coedizione con Edizioni Frassinelli
Marcello Fois, Sempre caro
Marcello Fois, Sangue dal cielo
Giorgio Todde, Lo stato delle anime
Marcello Fois, L’altro mondo
Giorgio Todde, Paura e carne
353

Finito di stampare
nel mese di ottobre 2003
dalla Tipolitografia ME.CA. - Recco GE