free | anno nono | numero sessantanove | novembre ... - Il Mattino
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6 opinioni<br />
uNDIcIDEcIMI<br />
Lady Noire diretto da Olivier Dahan. Lady Rouge diretto Dajonas Akerlund. Lady<br />
Blue per la regia di David Lynch. Un corto ogni sei mesi. L’ultimo con gli stilemi<br />
classici di Lynch: tagli di luce abbaglianti, flashback e colonna sonora da film noir.<br />
A calcare la scena, Marion Cotillard (Oscar per La vie en rose) che scambia baci<br />
sognanti con un azzimato amante cinese agghindato in perfetto stile anni ‘30.<br />
La Cotillard compare anche nei due corti precedenti e tuttavia non è lei la vera<br />
protagonista. La Lady al centro dell’attenzione è una borsa, il costosissimo accessorio simbolo<br />
della maison Dior, la griffe di punta del più potente tra i gruppi de lusso internazionale, LVMH.<br />
Al regista di Blue Velvet per realizzare questo filmato è stata posta una sola condizione: che<br />
l’ambientazione fosse cinese. Non è questo del resto il mercato che sta tenendo in piedi i<br />
fatturati dei gruppi internazionali del lusso? E difatti lo skyline di Shanghai appare sin dal primo<br />
fotogramma di Lady Blue, con al centro la più alta tra le costruzioni della Cina contemporanea,<br />
la Pearl Tower, luogo d’incontro privilegiato dei due amanti... Inutile domandarsi se l’operazione<br />
dal punto di vista estetico sia riuscita. Vale la pena invece di sottolineare come per i brand<br />
di moda più celebri sembri giunto il momento della produzione cinematografica in proprio. La<br />
comunicazione nel fashion system è bulimica e le sue formule adottate e dismesse con grande<br />
velocità: ma questo è senza dubbio il momento del corto realizzato da un grande cineasta.<br />
Quello di David Lynch non è un debutto del resto: ha già lavorato per brand come Gucci, Kalvin<br />
Klein e Yves St. Laurent. E non è il solo: Baz Luhrman, Jean Pierre Jeunet e Martin Scorsese<br />
lo h<strong>anno</strong> fatto per Chanel. Scorsese anche per Emporio Armani. Ridley Scott per Prada... Si<br />
tratta di lavori quasi mai destinati alle sale cinematografiche e tuttavia molto cinematografici,<br />
spesso addirittura un po’ retrò. Vengono inizialmente diffusi attraverso il sito del brand, senza<br />
nascondere tuttavia la vera ambizione, che è quella di essere immediatamente catturati dal<br />
maggior <strong>numero</strong> di clic possibili su YouTube o scaricati attraverso i mille strumenti che lo<br />
consentono. A Milano, lo scorso maggio, Diane Pernet ha portato la sua rassegna A shaded<br />
view on fashion film, dove si sono viste proiezioni di corto e medio metraggio costruite per la<br />
moda nell’intento di uscire dall’idea dello spot pubblicitario. Esperimenti interessanti, ma lontani<br />
dall’intento che vogliono raggiungere le case di moda alla ricerca di cineasti celebri. Nemmeno<br />
si può ridurre questo rapporto a un banale scambio tra denaro e visibilità; la controprova è facile:<br />
tra i milioni di consumatori vecchi e nuovi che costituiscono il potenziale mercato di marchi<br />
globali come questi, è più famoso il nome di Chanel o quello di Baz Luhrman? Quello di Dior o<br />
quello di Olivier Dahan? La ragione per cui il fashion system si avvale di grandi cineasti in questo<br />
momento è un’altra. Forse meno evidente, più sottile ma altrettanto importante: i brand più<br />
blasonati sentono il bisogno di rappresentarsi suggerendo l’idea di non essere solo superficie,<br />
apparenza, lustrini e tartine. Si rivolgono ai modi del cinema d’autore per accreditarsi come<br />
depositarie di un savoir faire, di una tradizione, di uno stile che non è riproducibile ovunque o<br />
da chiunque. Non si tratta di sottigliezze o atteggiamenti snobistici, ma di una vera e propria<br />
strategia per resistere all’aggressione crescente - e in tempi di crisi particolarmente efficace -<br />
delle catene di fast fashion. Per riversare sui propri prodotti un’aura che li distingua da quelli in<br />
rapida crescita di appeal provenienti dalla Cina, dal Vietnam, dall’India, dalla Thailandia. I mezzi<br />
messi in campo sono molti. Sfilate, costosissimi scatti di star dell’obiettivo, liaison sempre più<br />
fitte con il mondo dell’arte contemporanea, spazi progettati da archistar, lussuosi siti internet<br />
vivacizzati da blog e show diffusi in streaming. Ora è il momento dei corti. Una medicina nuova<br />
per un malessere che resta difficile da combattere.<br />
ALDo PrEMoLI<br />
cool hunter<br />
luMIèrE<br />
N’EST PAS<br />
FÈ vero, è un disastro. La cultura sarà tagliata nel 2011 dell’80%. Le amministrazioni<br />
pubbliche dovr<strong>anno</strong> fare i bilanci con i peanuts. Che succederà negli 8.155 Comuni<br />
italiani? Nelle oltre cento Province, e venti e rotte Regioni? È un tema non trascurabile.<br />
Che metterà in seria difficoltà moltissimi progetti, azioni, festival, produzioni. Spazzerà via<br />
molto di trascurabile e inutile, ma anche molto di qualità. <strong>Il</strong> problema, però, è a monte.<br />
E rischiamo di non volerlo mai affrontare. È il <strong>numero</strong> straordinario di istituzioni. Decine<br />
di migliaia. Decine di migliaia di direttori, assessori, presidenti, consigli, con relativa straordinaria<br />
parcellizzazione di contributi, azioni, progetti. Tutto ciò è oggi sostenibile? È utile? È nato un sistema<br />
con questa gestione? Ne abbiamo visti risultati concreti? No. Non cado nella retorica blanda delle<br />
soluzioni. Voglio solo portarvi, in questo desolato panorama che ci aspetta, una piccola ma significativa<br />
best practice. Parola anche questa noiosa e a tratti pericolosa. Partiamo da lì. Da quelli che provano<br />
a ripensarsi. Da quelli che non si piangono addosso e tentano di tirar fuori un nuovo pensiero. <strong>Il</strong> 4<br />
ottobre si sono riuniti in un’assemblea dei consigli comunali quasi 200 consiglieri di 11 Comuni, per<br />
dar vita alla Federazione dei Comuni del Camposampierese, che fonde i Comuni di Villa del Conte, Santa<br />
Giustina in Colle, Loreggia, Camposampiero, San Giorgio delle Pertiche, Borgoricco, Campodarsego,<br />
Villanova con Piombino Dese, Trebaseleghe e Massanzago. Nomi che sembrer<strong>anno</strong> esotici, ma che<br />
sono a soli 10 minuti dal centro di Padova e dall’autostrada A4. Per la prima volta in Italia è nata, con<br />
l’approvazione di uno statuto e di un atto costitutivo, un’unica realtà territoriale. L’ente amministrerà<br />
quasi 100mila abitanti con un reddito pro capite di 16.161 euro, una superficie di 226 kmq, 12.200<br />
imprese con quasi 40mila addetti. Questi Comuni lavoravano già da tempo nel tavolo dell’Ipa, un tavolo<br />
di concertazione territoriale, guidato da una giovane sindachessa, Silvia Fattore. Colori politici diversi,<br />
ma tutti con la stessa intenzione. Con relativi grandi vantaggi per tutto il clima sociale ed economico.<br />
L’idea non è solo di condividere servizi e tasse, ma una visione competitiva e internazionale dei territori.<br />
La Federazione si permette così progetti e azioni impensabili a Comuni della stessa dimensione.<br />
Esempi? Attualmente st<strong>anno</strong> facendo tutti assieme un progetto con la Biennale di Venezia con una<br />
partecipazione esemplare di tutta la comunità. Un laboratorio per ripensare i territori. L’altra sera, a<br />
Trebaseleghe, c’erano 200 persone che fino a notte fonda sono rimaste a parlare di processi partecipativi.<br />
H<strong>anno</strong> in programma in due mesi quasi 30 appuntamenti. E se provassimo ad applicare questo<br />
modello agli altri 8.000 comuni italiani?<br />
CrISTIANo SEGANFrEDDo<br />
direttore di fuoribiennale e innov(e)tion valley<br />
A MONDO MIO<br />
INCEPTION di CHRISTOPHER NOLAN - USA/GRAN BRETAGNA 2010. <strong>Il</strong> consiglio è quello di leggere il meno possibile<br />
su Inception, andarlo a vedere senza alcun condizionamento, lasciarsi trasportare, perché quello che fa di<br />
Christopher Nolan uno dei più grandi registi in circolazione non è solo la maniera in cui fa recitare i suoi attori, né<br />
i temi ormai conosciuti (ovvero, tutte le dinamiche che riguardano il tempo: memoria, amnesia, durata, senso di<br />
colpa...), ma il fatto di combinare tutto questo con una maestria visiva tale da farci perdere qualunque tentativo di<br />
discernimento, tant’è che alla fine di ogni suo film il primo pensiero è “questo film voglio vederlo un’altra volta”. Ad<br />
esempio, vi dir<strong>anno</strong> che Inception è un film di fantascienza: è vero, ma è talmente riduttivo che è come dire che Cattelan è<br />
uno scultore. I fan di Nolan, quella ristretta cerchia per cui Nolan segna una generazione con l’immagine di Guy Pearce che<br />
si sveglia ogni mattina nella stessa stanza dell’Icann Motel (Memento, 2000), quelli per i quali i due Batman (e un terzo in<br />
lavorazione che è stato rimandato proprio per permettere a Nolan di finire Inception) sono solo la pagnotta necessaria per<br />
accontentare i produttori e Insomnia l’indispensabile incontro-scontro col mercato, sar<strong>anno</strong> invece felici di aver ritrovato il<br />
loro autore cavalcare senza compromessi una produzione di ben 120 milioni di euro (recuperati, comunque, nelle prime<br />
due settimane di programmazione). Nolan è l’erede di David Lynch, il maestro dell’uncanny, del non-familiare, del mondo “altro”,<br />
perverso, pazzesco... ma rispetto al maestro possiede la dote di restituirci questo mondo privo di coordinate con una<br />
macchina narrativa altrettanto intricata, ma consistente e più spettacolare di quella lynchiana. David Lynch è Photoshop,<br />
mentre Nolan è a suo agio con Premiere. Se Lynch ci mette a tu per tu con l’inconscio, lasciandoci a volte in una condizione<br />
di splendida ammirazione, Nolan ci rimette in gioco come se guardassimo al ralenti l’esperienza di qualcun altro con il forte<br />
sospetto che si tratti di noi stessi. David Lynch resterà per sempre “poetico”, un artista prestato al cinema, Christopher<br />
Nolan trae la sua forza dal racconto. Per Lynch non è importante che tutto sia spiegabile, una zona d’ombra è bene che<br />
resti oscura, per Nolan una zona d’ombra è un’area di propulsione che prima o poi tornerà all’interno della storia; questo è<br />
il motivo per cui alcuni citano Stanley Kubrick tra le influenze del regista inglese, mentre l’altro maestro nel creare situazioni<br />
che ampliano la trama è senz’altro Hitchcock (Michael Caine durante le riprese di The Prestige: “Nolan mi ricorda Alfred<br />
Hitchcock nel modo in cui riesce a creare dei bei momenti di suspense”). Quella delle influenze è comunque una dinamica<br />
sulla quale il regista ama giocare: ad esempio, guardando Inception la prima volta ho avuto qualche problema a liberarmi<br />
dall’effetto Matrix nella prima parte del film (lo slittamento tra dimensione del sogno e la realtà, tra realtà e softwareality,<br />
per poi scoprire che in effetti Nolan ammira quanto fatto dai Wachowski perché dimostra come il pubblico sia pronto ad<br />
affrontare tematiche complesse quando sono presentate in maniera interessante: “È il mondo che ti è stato messo davanti<br />
agli occhi per nasconderti la verità”). Da Michael Mann deriva certamente la ricerca di location reali che costringe i collaboratori<br />
di Nolan a girarsi mezzo mondo (questo film è stato girato in Giappone, Inghilterra, Francia, Marocco, Stati Uniti e<br />
Canada) per trovare “il posto giusto”. E infine, naturalmente, Mr. Scott di Blade Runner con la sua capacità di denunciare<br />
allo spettatore la possibilità di un’umanità diversa o la dimensione familiare che domina la Nostromo e che colpì il pubblico<br />
alla visione del primo Alien. La dedizione di Di Caprio al ricordo della moglie che incontra solo in fase onirica è un rimando<br />
forse troppo diretto al personaggio di Hari nel Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij. Inception è il progetto di una vita, quello<br />
con il quale Nolan (che liquida i giornalisti dicendo che si tratta di un “thriller di fantascienza ambientato nell’architettura<br />
della mente”) riesce a “innescare” la storia di un ladro di sogni in un complesso alternarsi tra sogno e realtà durante il quale<br />
i personaggi provano l’esperienza del sogno condiviso. Di Caprio è meno ingenuo che in Shutter Island, più in sintonia con<br />
il cast che Nolan ha messo insieme; anzi, questo suo mostrarsi continuamente accigliato corrisponde bene al tipico personaggio<br />
alla Nolan, preoccupato da tensioni interne, dal fare i conti con emozioni e ricordi, sempre sull’orlo di una crisi di<br />
nervi. Nel corso del film il sogno prende il sopravvento e da spettatore non ve ne potrà importare di meno della realtà, anzi<br />
vi troverete d’accordo con Tom Berenger che a un certo punto dice: “You mustn’t be afraid to dream a little bigger darlin”.<br />
GIANNI roMANo<br />
critico d’arte ed editore di postmediabooks<br />
Nella storia dei tormentoni avrebbe sicuramente diritto a un posto d’onore la domanda<br />
“ma che fine ha fatto Second Life?”. Una domanda oziosa e scontata, che si<br />
basa soprattutto sul calo mediatico di quel mondo virtuale. Per quanto mi riguarda,<br />
Second Life è viva e vegeta. Però, come ho detto in altre occasioni, si presta decisamente<br />
meno di un tempo alle notizie a effetto e alle ricerche giornalistiche basate<br />
su qualcosa di veramente nuovo e sensazionale. Second Life è stato un mondo<br />
straordinario nel 2005/2006, quando ogni cosa era una novità e quasi nessuno se n’era ancora<br />
occupato in maniera puntuale e dettagliata. Anche adesso ci sono cose interessanti da vedere e da<br />
raccontare. Però tutto ciò che accade è una variazione sul tema di ciò che si è già visto anni fa, che si<br />
parli di arte, di strategie di marketing, di business o di relazioni sociali. Per questo motivo ultimamente<br />
ho spostato l’attenzione su alcuni fenomeni del mondo vero che offrono una rimediazione delle culture<br />
dei mondi virtuali. Che questa ricaduta, con influenze reciproche da una<br />
parte e dall’altra, ci sia è dimostrato dal fatto che un altro tormentone,<br />
in verità un po’ meno diffuso, è: “Sembra di essere in Second Life”. <strong>Il</strong> vero<br />
problema, se mai, è un altro: confondere tutto l’universo dei mondi virtuali<br />
con Second Life. È vero, Second Life per molto tempo ha avuto una certa<br />
supremazia su tutti gli altri mondi sintetici. Però non è che i concorrenti o<br />
i compagni di corsa siano spariti. Anzi, ci sono mondi virtuali più vecchi di<br />
SL che nel frattempo si sono evoluti, senza aver avuto però la giusta attenzione<br />
da parte dei media. Ma qual è allora la situazione generale dei mondi<br />
virtuali? Decisamente buona. Secondo quanto riporta il blog della società di<br />
consulenza inglese KZero (www.kzero.co.uk), nel terzo trimestre del 2010<br />
c’è stata un’impennata degli utenti complessivi di mondi virtuali, che h<strong>anno</strong><br />
superato il miliardo. Di questi utenti, la maggior parte è composta da chi<br />
ha tra i 10 e i 15 anni (da soli contano 468 milioni). In generale, poi, il<br />
trend degli utenti di mondi virtuali è in crescita continua. Ma la cosa più<br />
interessante è che si continuano a mettere in cantiere nuovi mondi. Per<br />
esempio, nel 2011 la See Global Entertainment lancerà Planet Michael,<br />
un universo sintetico dedicato alla poetica di Michael Jackson. Una scelta<br />
vincente, quella della musica, come testimonia RockTropia, uno dei pianeti<br />
di Entropia Universe, che sta iniziando a lavorare sul concetto di piattaforma,<br />
proponendo diversi mondi differenti, tutti a tema. In tal modo i mondi<br />
virtuali st<strong>anno</strong> diventando parchi dei divertimenti, dove passa momentaneamente<br />
in second’ordine il discorso dell’apporto degli utenti e delle culture<br />
generate dal basso e dove invece si può contare su show appassionanti<br />
messi a punto dagli staff degli sviluppatori e su occasioni talvolta uniche per<br />
ascoltare musica e incontrare gli altri fan. Allora, forse, anziché chiedersi<br />
se è in crisi “Second Life”, o meglio “il modello Second Life”, e cioè i mondi<br />
virtuali (che molti identificano in SL), bisognerebbe domandarsi se è in crisi<br />
una parte dell’ideologia del web 2.0, almeno per quanto riguarda la creatività<br />
negli universi sintetici. Dico questo traendo semplicemente delle conclusioni<br />
dalle statistiche. Se World of Warcraft dopo anni continua a avere<br />
uno zoccolo duro di fan, se nascono mondi virtuali a tema pensati come<br />
stadi da concerto - sale giochi - parchi dei divertimenti, se la gente frequenta<br />
le sale da poker virtuali e il Bingo 3D, significa che in genere si continua<br />
a preferire la qualità certificata dei professionisti, lasciando da parte le<br />
visite (senza dubbio divertenti e ricche di sorprese) nei negozi della piccola<br />
e media impresa sviluppatasi all’interno di Second Life. A una boutique goth<br />
o steampunk di SL si preferisce un solido calendario di enti pop-rock con<br />
star certificate. Se così fosse, bisognerebbe cominciare a rivedere la strategia<br />
dell’arte e della creatività legata alla cosiddetta “grassroot culture”.<br />
Evidentemente nei mondi virtuali non si è riusciti ancora a legittimare o a<br />
fare apprezzare del tutto il dilettantismo di genio, e l’idea di far trionfare e<br />
soprattutto di far apprezzare da altri l’immaginazione dell’uomo qualunque<br />
è ancora un’utopia. Almeno per ora.<br />
MArIo GEroSA<br />
docente di multimedia e paesaggi virtuali al politecnico di milano