free | anno nono | numero sessantanove | novembre ... - Il Mattino
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58 intervallo<br />
FACCIAMO13CON<br />
le preferenze di Davide Rampello<br />
direttore de La Triennale di Milano<br />
01. città Parigi<br />
02. libro De hominis dignitate di Pico della Mirandola<br />
03. film Andrej Rublëv<br />
04. cantante Freddie Mercury<br />
05. ristorante Ristorante dal Pescatore a Runate, Canneto sull’Oglio<br />
06. cocktail Martini (secchissimo)<br />
07. uomo politico Giorgio Napolitano<br />
08. quotidiano <strong>Il</strong> Foglio<br />
09. automobile Audi<br />
10. stilista Giorgio Armani<br />
11. attore Al Pacino<br />
12. programma tv La Storia siamo noi<br />
13. canzone I was made for loving you<br />
Antonio Manfredi (CAM di Casoria), tenterà il 13 sul prossimo <strong>numero</strong><br />
<strong>Il</strong> PoDIo<br />
art chart sulle mostre del mese a cura di<br />
ludovico pratesi<br />
aRGENTo<br />
DIMITRI GUToV<br />
L’opera dell’artista Dimitri Gutov<br />
esposta nell’esemplare<br />
mostra collettiva Landascapes/Confini<br />
in disordine, curata<br />
da Lorenzo<br />
#2<br />
Bruni alla Chiesa<br />
di San Filippo Neri in via Giulia<br />
a Roma, dove Gutov si conferma<br />
come uno dei massimi<br />
interpreti dell’arte russa contemporanea,<br />
sospesa tra memoria<br />
e futuro.<br />
oRo<br />
THIERRY DE CoRDIER<br />
La Crocefissione dell’artista<br />
belga Thierry de Cordier<br />
esposta nella collettiva Ca-<br />
#1<br />
mere XII a RAM - Radio Arte<br />
Mobile, a Roma. Un dipinto<br />
drammatico e intimo che fa<br />
capire quanto la pittura contemporanea<br />
possa sfidare<br />
ad armi pari i capolavori del<br />
passato.<br />
premio spam per l’arte<br />
abbiate pietà di noi (e della nostra e-mail)<br />
Tutto sommato h<strong>anno</strong> avuto una buona idea. Anche se, visto il vincitore di questo premio<br />
spam, un po’ di paurina per il mood permaloso che è stato dimostrato finora la conserviamo.<br />
H<strong>anno</strong> avuto una buona idea, dicevamo, i colleghi che ci h<strong>anno</strong> scritto e ci h<strong>anno</strong> consigliato:<br />
“Ma perché sul prossimo <strong>numero</strong>, vista la quantità di comunicati stampa e la <strong>numero</strong>sità<br />
dell’ufficio stampa interno, non gli affibbiate simpaticamente il Premio Spam?”. A chi si<br />
riferivano? Tenetevi forte: al<br />
MUSEO MADRE<br />
BRoNZo<br />
DaVID TREMlETT<br />
Le opere concettuali di David<br />
Tremlett esposte alla mostra<br />
Conceptual Art.The Panza<br />
Collection al Mart di Rovereto.<br />
Secche, asciutte, essenziali<br />
nella loro<br />
#3<br />
semplicità. Fondamentali<br />
per comprendere il<br />
suo percorso successivo.<br />
il quale, per carità, non certo per colpa sua, è stato oggetto - o almeno così ci ha detto,<br />
anche in inglese (“we are under attack”) - di un attacco da parte di chi ne vorrebbe il<br />
ridimensionamento. Ed ecco che il centro d’arte contemporanea partenopeo è stato costretto<br />
a una quantità un filino sopra la media di comunicati stampa. Tanto da meritarsi il nostro<br />
scherzoso riconoscimento: se la piglier<strong>anno</strong> pure stavolta?<br />
SCALA<br />
La scala del Senza titolo (1968) di<br />
Pier Paolo Calzolari, esposta alla<br />
Biennale veneziana di dieci anni dopo,<br />
era ovviamente refrigerata. E tuttavia,<br />
per una strana casualità mnemonica,<br />
richiama una scala più calda, assolata,<br />
quella poggiata a The Haystack, calotipo<br />
di Fox Talbot che, nella mente di<br />
Jean-Christophe Bailly - nel bel libro L’istante<br />
e la sua ombra -, ha a sua volta<br />
ripescato due scale ancor più roventi,<br />
l’una rimasta miracolosamente intatta<br />
e l’altra letteralmente ridotta alla sua<br />
ombra (come quella nella Delocazione<br />
del 1970 di Claudio Parmiggiani),<br />
che h<strong>anno</strong> assistito allo scoppio della<br />
bomba atomica in Giappone. Scale testimoniali,<br />
scale mentali, scale metaforiche.<br />
Un altro filone si apre, parte<br />
da Piranesi, passa per Escher (citato<br />
in Untitled (Spiral Staircase) di Peter<br />
Coffin), scorge un approdo ancora<br />
alla Biennale del 1978, dove si trova<br />
una scala lignea di Alice Aycock che<br />
s’inabissa in una torre, più che permetterne<br />
l’uscita. Allo stesso modo,<br />
quella a chiocciola - e molte altre ve ne<br />
sono di simili, come quella di Periodo di<br />
Giuseppe Gabellone - di Cell (Tha Last<br />
Climb) di Louise Bourgeois è un simulacro<br />
di salvezza, mentre chiaramente<br />
svela la sua inutilità, così sfociante in<br />
uno spazio isolato appena al di sopra<br />
della gabbia. Fuori sì, ma pur sempre<br />
dentro l’impossibilità di andare altrove.<br />
Ed è, questo, un tema che ritorna ossessivamente<br />
quando gli artisti figurano<br />
l’oggetto-scala, come di consueto<br />
ri- o de-funzionalizzandolo. Così è per<br />
Alexandre Léger, nei suoi Escalators,<br />
disegni su carta riciclata che ritraggono<br />
schiere di scale mobili che portano<br />
in nessun luogo; per quelle vertiginose<br />
del Vito Acconci di Decoy for Birds<br />
and People; per la vitrea trasparenza<br />
di quella che Carsten Höller immagina<br />
per la Maison Ronquières, non a caso<br />
# lemma<br />
di marco enrico giacomelli<br />
Peter Coffin - Untitled (Spiral Staircase) (particolare) - 2007 - alluminio e acciaio<br />
cm 670,6x670,6x213,4 - courtesy The Saatchi Gallery, Londra<br />
sottotitolata The Laboratory of Doubt;<br />
per quelle di Alessandro Piangiamore,<br />
che sì h<strong>anno</strong> un obiettivo, ma i cui<br />
pioli sono fissati con deboli nastri colorati,<br />
dunque inetti a sopportare il peso<br />
d’un essere umano; per la scala “musicale”<br />
di Ceal Floyer, realizzata con<br />
speaker e amplificatori. Quand’anche la<br />
scala - intesa come icona atta a rappresentare<br />
il tema classico dell’elevazione<br />
(Georges Didi-Huberman cita la scala di<br />
Giacobbe) - trovi spazio nella contemporaneità,<br />
è il tema stesso a subire un<br />
détournement, a finire in un cortocircuito<br />
indebolente. Così avviene, per citare<br />
un caso particolarmente eloquente, in<br />
Steps to Hell di Tom Burr, dove una<br />
scala metallica, di quelle richiudibili, è<br />
“incappucciata” da un paracadute bianco.<br />
Come a dire che ascesa e ascesi<br />
non sono più appartenenti alla medesima<br />
costellazione teorico-semantica. Si<br />
può d’altro canto utilizzare la scala per<br />
una funzione altra, e qui l’esempio princeps<br />
è il celeberrimo dipinto del 1912<br />
di Marcel Duchamp, Nu descendant<br />
un escalier, rievocato da Gerhard<br />
Richter nell’evanescente Ema (Nude<br />
on a Staircase) e, in quell’inquietante<br />
abbondanza di arti orfani (celibi, verrebbe<br />
da dire), ne La scala di Fausto<br />
Pirandello. In altre parole, non v’è più<br />
spazio per Steps grandangolari e magniloquenti<br />
come quelli fotografati, nello<br />
stesso 1934, da Margaret Bourke-White<br />
a Washington. Su scalinate<br />
monumentali siffatte, come quella che<br />
conduce al piano nobile della Triennale<br />
di Milano, oramai si può solo incedere<br />
con ironia. Magari portandosi in spalla<br />
un’altra scala, da imbianchino, come<br />
fece Ugo La Pietra per la sua Grande<br />
occasione.<br />
marco enrico giacomelli<br />
il prossimo lemma sarà clown