free | anno nono | numero sessantanove | novembre ... - Il Mattino
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oma<br />
ARNULF RAINER<br />
Le vedute del Tempio di Antonino e<br />
quella di piazza del Popolo che vivevano<br />
nell’autenticità dell’architetto<br />
e incisore Giovambattista Piranesi<br />
avevano subito la negazione della pittura<br />
dall’artista Arnulf Rainer (Baden,<br />
1929; vive a Vienna) già alla fine degli<br />
anni ‘80.<br />
Ed è proprio con questi lavori che Gallerja<br />
ospita per la seconda volta ospite<br />
l’artista austriaco figlio dell’Espressionismo<br />
astratto, non più alle prese con<br />
la fotografia e la body art. Le “tecniche<br />
miste su pagina di libro antico” dimostrano<br />
oli, matite e pastelli graffiare le<br />
magnificenze romane, così come l’incisore<br />
italiano le aveva elogiate alla fine<br />
del Settecento.<br />
È il caso di Piranesi Zyklus 2 o Zyklus 6<br />
in cui graffi di pastello blu confondono il<br />
bianco e nero di una perfetta incisione<br />
alla monumentalità romana. La serie di<br />
cicli presenti in mostra non f<strong>anno</strong> altro<br />
che sottolineare la fine di una sperimentazione<br />
avviata già a partire verso<br />
i primi anni ’50 con il ciclo del Dead<br />
Self-Portrait. La cancellazione di ciò<br />
che è stato, come poteva essere per un<br />
volto defunto o nel caso di Piranesi, di<br />
architetture magniloquenti appartenenti<br />
a un’epoca remota, porta Rainer al suo<br />
eterno confronto con la morte e la distruzione,<br />
condizione incombente entro<br />
la quale ha espresso i suo gesti grafici,<br />
fotografici e pittorici.<br />
<strong>Il</strong> gesto sovversivo che ricade sui suoi<br />
lavori pone a confronto due realtà artistiche<br />
lontane e neppure opposte:<br />
nelle vedute di Piranesi la delicatezza<br />
sublime di un tratto incisivo e tuttavia<br />
elegantemente superbo è interrotto<br />
dalla violenza rapida di tagli in pastello<br />
diretti e decisi. Rainer non ha pudore<br />
né conservazione e schiaccia il gioco<br />
prospettico settecentesco con una<br />
violenza espressionista rarefatta ma<br />
sempre sua. Le tavole divengono così<br />
bidimensionali, sfidando il pubblico<br />
“conservatore” a leggere Piranesi nel<br />
modo espressivo di Rainer.<br />
Si tratta di oltraggio? Disprezzo? Nulla<br />
nell’arte dell’austriaco viene preso<br />
come una sfida alla rappresentazione in<br />
sé. È con la condizione di annullamento<br />
che Rainer si scontra, con la passione<br />
perversa della negazione del trapasso.<br />
Operare su incisioni lontane secoli<br />
senza intervenire su esse ma sopra<br />
esse, assecondando il gesto spontaneo<br />
e drammatico della sua pittura, porta<br />
Rainer e i suoi lavori nello sgomento di<br />
un’affermazione: il ricordo esuberante<br />
dei fasti imperiali andati viene affrontato<br />
con un intervento personale di cancellatura<br />
che, nello stesso tempo, permette<br />
di ricordare, perché non è totale ma invita<br />
al sorpasso, al superamento.<br />
Arnulf Rainer, votato al continuo rinnovo<br />
della sua arte, non ha smesso dunque<br />
di smentire il suo percorso artistico<br />
aggressivo e insieme sottomesso nei<br />
confronti di ciò che è passato.<br />
[flavia montecchi]<br />
Arnulf Rainer<br />
da lunedì a venerdì<br />
ore 11-13.30 e 15-19.30<br />
Testo critico di Bruno Corà<br />
tel. 06 68801662<br />
info@gallerja.it<br />
www.gallerja.it<br />
GALLERJA<br />
Via della Lupa 24<br />
roma<br />
FRANZ WEST<br />
Vietato non toccare. Così Franz West<br />
(Vienna, 1947) potrebbe titolare tutti i<br />
suoi lavori, compresi quelli realizzati<br />
agli inizi della sua carriera, negli anni<br />
‘70. E, infatti, l’intento fondamentale<br />
dell’artista è proprio quello di far sì che<br />
lo spettatore interagisca con le sue opere,<br />
col chiaro proposito di instaurare un<br />
cortocircuito tra l’oggetto e il potenziale<br />
utilizzatore, anche se solo per pura<br />
e mera curiosità. Perché ai Passtücke<br />
(sculture portatili che lo spettatore può<br />
maneggiare e utilizzare a suo piacimento),<br />
come generalmente a ogni sua<br />
opera, West sottrae la fisiologica connotazione<br />
passiva.<br />
Un incontro, quello tra le opere e<br />
lo spettatore, possibile allorquando<br />
quest’ultimo è intenzionato e ben disposto<br />
ad accogliere l’invito a prendersi<br />
una pausa dal caos quotidiano, per<br />
entrare nell’arte e perdersi nei lavori in<br />
una sorta di mistica contemplazione.<br />
Una prolungata osservazione che lo<br />
stesso artista sollecita con le sue note<br />
sedie (in galleria) e con un’invitante pedana<br />
(in piazza).<br />
Anche stavolta, nella mostra romana,<br />
ci sono tutte le costanti dell’austriaco: i<br />
Passtücke, la performance, due video,<br />
le sculture, una sedia e un divanetto, e<br />
la volontà di creare un ambiente accogliente<br />
per un diretto incontro fra opera<br />
e pubblico. Perché ciascun lavoro è la<br />
traduzione materiale del concetto principale<br />
che sottostà alla produzione tutta<br />
di West: “L’arte stessa è una sorta di<br />
enorme sedia” (è quasi d’obbligo ricordare<br />
che alcune di queste sedie f<strong>anno</strong><br />
parte della collezione del Maxxi).<br />
Non poche perplessità e reazioni contrastanti<br />
ha creato tra i romani Room<br />
in Rome, il lavoro di grandi dimensioni<br />
allestito in Piazza di Pietra. Ed è interessante<br />
osservare il differente approccio<br />
all’installazione: ludico da parte dei<br />
più piccoli, che tentano di rintracciare<br />
somiglianze con oggetti a loro noti; di<br />
curiosità da parte dei turisti stranieri,<br />
ben felici di farsi immortalare con alle<br />
spalle il bizzarro oggetto e sullo sfondo<br />
il Tempio di Adriano; di critica negativa<br />
da parte dei turisti italiani e dei romani,<br />
che l’h<strong>anno</strong> vista come uno modo per<br />
“deturpare una bella piazza”.<br />
<strong>Il</strong> “bizzarro oggetto” è una scultura<br />
composta da tre elementi con caramellosi<br />
colori e dall’apparente soffice consistenza,<br />
come stoffa ripiena o nastro<br />
adesivo accartocciato, ma in realtà di<br />
solido ferro.<br />
Invece in Roman Room f<strong>anno</strong> mostra<br />
di sé, nella grande sala ovale della<br />
galleria, i sette totem che compongono<br />
Ecolalia. Realizzate con la cartapesta e<br />
posizionate su improbabili basi, come<br />
secchi o valigie, le sculture sembrano<br />
sfidare la gravità e appaiono come il<br />
risultato di un’improvvisa esplosione.<br />
Sculture che muovono da forme geometriche<br />
solide ben precise, quali il<br />
cilindro o il parallelepipedo, per poi essere<br />
manipolate e giungere a qualcosa<br />
d’altro.<br />
Su queste forme inedite, i colori colati<br />
dall’alto si v<strong>anno</strong> a sedimentare, sovrapponendosi<br />
l’uno sull’altro o combinandosi<br />
e mescolandosi insieme.<br />
Ognuna è collocata su una piccola<br />
piattaforma di legno, come un lacerto di<br />
pavimento, sulla quale sono sparse le<br />
tracce dei colori utilizzati.<br />
Strutture in ferro massiccio sono lo<br />
scheletro degli invitanti sofà bianchi<br />
e della parete sulle cui facciate sono<br />
proiettati i video delle performance con<br />
i Passtücke.<br />
[daniela trincia]<br />
GAGOSIAN GALLERY<br />
Via Francesco Crispi 16<br />
Franz West<br />
da martedì a sabato ore 10.30-19<br />
tel. 06 42746429<br />
roma@gagosian.com<br />
www.gagosian.com<br />
roma<br />
UNA QUESTIONE DI SPAZIO<br />
Quattro artisti di fama internazionale<br />
sono stati chiamati da Ludovico Pratesi<br />
a partecipare alla mostra dal titolo<br />
Una questione di spazio, ciascuno con<br />
una propria opera ritenuta significativa<br />
per rappresentare il tema. Jan Dibbets,<br />
Candida Höfer, Giulio Paolini e Imi<br />
Knoebel è il poker di artisti che ha realizzato<br />
le altrettante opere esposte nella<br />
galleria romana. Tre lavori fotografici e<br />
una scultura che, sebbene diversi, dialogano<br />
alla grande tra loro, uniti dalla<br />
comune dimensione concettuale dello<br />
spazio.<br />
Jan Dibbets, con una fotografia di<br />
grande formato dai colori tenui e da una<br />
trama quasi materica, intitolata Robert<br />
Ryman Blue, interviene sulla relazione<br />
tra dipinto e ambiente con la monocromia<br />
di un rarefatto trompe l’oeil, che<br />
mette in gioco l’azzeramento della pittura<br />
minimalista di Ryman esaltandone al<br />
contempo il rigore concettuale.<br />
La tedesca Candida Höfer propone<br />
uno scatto che ritrae il teatro comunale<br />
di Bologna completamente vuoto,<br />
com’è consuetudine nei suoi lavori,<br />
valorizzandone così architettura e dettagli,<br />
conferendogli il valore di “tempio”<br />
della cultura. L’inquadratura e la perfezione<br />
tecnica dell’opera esaltano l’identità<br />
di questo spazio, consentendone la<br />
lettura fin nei minimi particolari.<br />
Ancora dalla Germania, Imi Knoebel<br />
presenta Lolita-Wan, una scultura formata<br />
da barre d’acciaio sovrapposte e<br />
dipinte con pennellate orizzontali molto<br />
acquose, dove ogni elemento è identificato<br />
da una componente cromatica precisa<br />
e definita, quanto morbida e calda.<br />
Lo spazio di quest’artista è quello del<br />
colore inteso come linguaggio strutturale<br />
di una pittura minimalista.<br />
Infine, Giulio Paolini presenta un quadrittico<br />
di collage fotografici, un’opera<br />
che si può definire una sintesi del suo<br />
lavoro: c’è il fronte e il retro, il cavalletto<br />
vuoto e il cavalletto pieno, l’artista di<br />
spalle... Lo spazio è lo studio dell’artista,<br />
e Studio per Synopsis è l’ideale<br />
laboratorio per riflessioni sul senso<br />
dell’opera d’arte come gioco di specchi<br />
fra artista e spettatore.<br />
Un gruppo costituito da artisti importanti<br />
e pressoché coetanei, che h<strong>anno</strong> vissuto<br />
anni in cui l’arte ha avuto modo di svilupparsi<br />
in modo estremamente libero:<br />
Höfer e Knoebel nella Düsseldorf degli<br />
anni ‘70 e ‘80 alla scuola dei Becher<br />
e di Beuys, Dibbets in Olanda con un<br />
periodo di formazione a Londra, Paolini<br />
come testimone dell’arte concettuale<br />
e di quel contesto torinese dimenicato<br />
dall’Arte Povera.<br />
La mostra si pone dunque l’interrogativo<br />
se tra lo spazio e l’opera d’arte esista<br />
una relazione: è l’opera che racchiude<br />
lo spazio o viceversa? I lavori esposti<br />
nello spazio ampio ma compatto della<br />
galleria sembrano dimostrare che ambedue<br />
le affermazioni sono vere. Così,<br />
spazio reale e spazi concettuali dei lavori<br />
si integrano in un unicum altrettanto<br />
compatto.<br />
[pierluigi sacconi]<br />
GIACOMO GUIDI & MG ART<br />
Vicolo di Sant’Onofrio 22/23<br />
Una questione di spazio<br />
a cura di Ludovico Pratesi<br />
da martedì a sabato ore 11-13 e 16–20<br />
Catalogo disponibile<br />
tel. 06 96043003<br />
info@giacomoguidimgart.it<br />
www.giacomoguidimgart.it<br />
napoli<br />
ANDRE / NORO<br />
Cemento e acciaio, pareti grigie e pavimenti<br />
plumbei. Le oleografiche icone<br />
delle depravazioni architettoniche<br />
odierne sono protagoniste di una riflessione<br />
sul costruito umano, ma con<br />
ruoli diversi dalla solita identificazione<br />
col crimine urbanistico assoluto. E sia<br />
il veterano pluridecorato Carl Andre<br />
che i promettenti cadetti Gioberto Noro<br />
scivolano in modalità comunicative simili:<br />
non superficiale interazione con<br />
lo spettatore, riflessione sui luoghi reali<br />
dell’ambiente ospitante, sfruttamento<br />
della casualità.<br />
Per Carl Andre (Quincy, 1935; vive a<br />
New York) è un’abitudine richiedere<br />
all’osservatore un completamento nella<br />
fruizione dell’opera. <strong>Il</strong> suo “pavimento”<br />
di 243 omologhe lastre d’acciaio è muta<br />
presenza a-narrativa, a-rappresentativa,<br />
a-metaforica, secondo la migliore<br />
tradizione minimalista, e proprio perciò<br />
è pronto a prender vita, come le assi di<br />
un palcoscenico, se calpestato.<br />
Dall’attore, che con rivoluzione copernicana<br />
coincide con lo spettatore - il<br />
visitatore della mostra - integrato quale<br />
protagonista nell’opera dal suo gesto.<br />
E l’azione reale (presentazione, mai<br />
rappresentazione) che nasce col suo<br />
casuale camminare è leggibile e fruibile<br />
su più piani. La lieve vertigine della momentanea<br />
perdita di baricentro dovuta<br />
agli impercettibili dislivelli delle lastre e<br />
della base su cui queste poggiano offre<br />
un canovaccio esperienziale ed emotivo,<br />
incrementando anche la percezione<br />
delle peculiarità del concreto contesto<br />
ospitante.<br />
La stessa fioca differenza di rilevo suggerisce<br />
uno svolgimento scultoreo esteso<br />
nel tempo, plasmando livelli e volumi<br />
non solo nell’oggetto, ma soprattutto,<br />
insieme alle invisibili forze della dinamica<br />
e della gravità, nel corpo del fruitore,<br />
modulandone il diverso modo di muoversi<br />
come risposta fisica di adattamento<br />
per contrastare lo sbilanciamento.<br />
Le innumerevoli, sottilissime variazioni<br />
del metallo, venato di sfumature grigioazzurre<br />
mai identiche pur nella serialità<br />
della produzione, propongono un diverso<br />
vissuto estetico e visivo. Gradazioni<br />
cromatiche e luministiche sottilmente<br />
indagate anche in Camera #7 di Gioberto<br />
Noro (Sergio Gioberto, Torino,<br />
1952, e Marilena Noro, Rosta, Torino,<br />
1961; vivono a Torino). E a decidere è<br />
ancora la casualità zen, o l’”inconscia<br />
verità” - l’opposto dell’inconscio tecnologico<br />
vaccariano - dell’oggetto fotografato,<br />
il modellino di una stanza vuota,<br />
mosso fino a intercettare l’illuminazione<br />
adatta.<br />
“Ma è ‘lui’ a sceglierla, e non si interferisce”.<br />
E “lui” si personifica davvero,<br />
perchè le “camere mentali” del duo<br />
sono prosceni per l’inferenza dell’osservatore,<br />
psicodrammatiche “sedie vuote”<br />
per aneliti e turbamenti, la cui irreale<br />
plausibilità è enfatizzata dalla digitale<br />
“pelle” cementizia e dalla singolare consonanza<br />
morfologica e luminosa con lo<br />
spazio ospitante, la nuova project room<br />
di Artiaco.<br />
Ancor più convincenti degli altri scatti<br />
sul rapporto modernità-natura, “sovrapposizioni<br />
di trasparenze” e di dimensioni<br />
esistenziali che evitano il pericolo decorativo<br />
e lezioso della fotocomposizione.<br />
E, dalla muta materia, nuovamente<br />
spunta l’uomo.<br />
[diana gianquitto]<br />
déjàvu [gallerie & co.] 57<br />
ALFONSO ARTIACO<br />
Piazza dei Martiri 58<br />
Carl Andre / Gioberto Noro<br />
da lunedì a sabato ore 10-13.30 e 16-20<br />
tel. 081 4976072<br />
info@alfonsoartiaco.com<br />
www.alfonsoartiaco.com<br />
modica (RG)<br />
FRANCESCO LAURETTA<br />
Imbattersi nell’immagine del cimitero di<br />
Ispica che Francesco Lauretta (Ispica,<br />
Ragusa, 1964; vive a Firenze) ha<br />
fissato sulla prima parete, utilizzando<br />
l’antica tecnica dello spolvero. Scorgere<br />
quindi quel rosso che richiama i funerali<br />
guttusiani in mezzo a tanto verde fico<br />
d’India; e ritrovarsi a picchiare con gli<br />
occhi sul giallo fico d’India che domina<br />
il ritratto del volto dell’altro quadro. Tutto<br />
questo dà una certa sensazione di “sicilianità”.<br />
Lauretta forse è siciliano o forse no, ma<br />
è difficile tirarsi fuori da questo impatto:<br />
Guttuso e i fichi d’India. Non che<br />
si voglia affermare una guttusianità di<br />
Lauretta, ma piuttosto testimoniare una<br />
percezione più articolata e interessata:<br />
Lauretta alla Galleria La Veronica si misura<br />
con alcuni dei valori di quella terra<br />
e lo fa, tra l’altro, con i colori “acidi” di<br />
cui parla Elio Grazioli nella sua presentazione.<br />
Lo fa con un ritratto che evoca<br />
certe opzioni fotografiche di grandangolo.<br />
Lo fa con la descrizione di una festa<br />
finita male.<br />
La festa è un luogo importante nella società,<br />
in cui certe pratiche dei soggetti<br />
sociali sono condotte su piani che le riflettono,<br />
le macerano e le restituiscono.<br />
E la festa finita male offre un’interessante<br />
figurazione di questa relazione<br />
tra società e rappresentazione. Lauretta<br />
la dipinge descrivendo, quasi con<br />
fare cronachistico, sia la caduta del baldacchino<br />
religioso il cui tetto è bruciato<br />
dalla luce, sia l’interesse del personaggio<br />
con la fotocamera in mano. Ma al<br />
contempo si astrae dalla descrizione,<br />
tratteggiando i personaggi con una particolare<br />
tecnica “a macchie”.<br />
Sta raccontando la società e lo fa utilizzando<br />
squarci o, meglio, macchie.<br />
Una di queste è la descrizione della<br />
débâcle della festa. Un altro è il ritratto<br />
- quasi un grandangolo - fatto a un<br />
signore abbastanza anziano, un “volto<br />
della storia, che resta sconosciuta, anonima,<br />
dimenticata”, scrive Grazioli. Non<br />
è però una storia dei vinti; piuttosto una<br />
storia della personalità di questo volto,<br />
che impone la propria caratterialità e<br />
la propone in modo principesco, come<br />
può essere la maschera di un principe<br />
popolare. E questa principalità, o “principescheria”<br />
(e con questa definizione<br />
siamo agli antipodi della marginalità) si<br />
propone in tutto il suo splendore, rappresentato<br />
da Lauretta con il giallo, i<br />
rossi e i verde-blu fico d’India, e con tutta<br />
la presenza di quell’ideale “mantello”:<br />
Lo splendore portato come un mantello.<br />
<strong>Il</strong> titolo del ritratto è infatti una delle cose<br />
più efficaci della mostra.<br />
Ma il percorso non si ferma qui: c’è l’”introibo”<br />
del cimitero, una scritta al neon<br />
che invita a uscire perché la festa è finita<br />
(Uscite, uscite, stiamo chiudendo!),<br />
una gabbia vuota (Ex stasis) e un ultimo<br />
quadro che ritrae un pollo arrosto con<br />
le patate. E sono, queste ultime - come<br />
suggerisce Grazioli -, anche un po’ andate<br />
a male, dipinte quasi con un certo<br />
timore della propria capacità tecnica.<br />
La parte più convincente resta il dialogo<br />
tra i due quadri. <strong>Il</strong> resto è una grande ed<br />
elegante didascalia, come un display<br />
che, nel proporsi come anti-sistema, ne<br />
utilizza alcune delle sue componenti.<br />
[vito calabretta]<br />
LA VERONICA<br />
Via Clemente Grimaldi 55<br />
fino al 20 <strong>novembre</strong><br />
Francesco Lauretta<br />
a cura di Elio Grazioli<br />
da martedì a domenica ore 15-22.30<br />
tel. 0932 948803<br />
info@gallerialaveronica.it<br />
www.gallerialaveronica.it