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30.05.2013 Views

34 inteoria a cura di christian caliandro Chilometri e chilometri di recinzioni si parano di fronte a chi si aggiri per la città di Roma, ne scortano il passeggio, lo obbligano a peripli impensabili. Al di là delle delimitazioni, si levano le rovine antiche, scarnificate e congelate in assetti che sono il risultato di un processo tutto sommato recente, il cui apice si ebbe tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Allora la plurisecolare pratica del riuso di monumenti antichi e rovine fu interrotta; templi, teatri e mausolei, raschiate via le superfetazioni di epoca post-antica, furono portati fuori dal tessuto urbano e dalla Storia, in un limbo desolante dove ancora fluttuano. Negli ultimi tempi, tuttavia, più d’uno si è accorto dell’inadeguatezza di questa soluzione. Si è sviluppata una riflessione sul rapporto tra il monumento antico e l’area archeologica, da una parte, e la città contemporanea, dall’altra. Sul ruolo che le rovine giocano nella nostra società, sulla relazione tra archeologia e architettura. Tra le condizioni che possono aver favorito lo sviluppo di tale riflessione andranno menzionati almeno, a un livello più generale, il diffuso interesse, tra sociologi, antropologi e urbanisti, per i modi in cui le persone vivono - o non vivono - gli spazi urbani (si pensi soltanto ai “non-luoghi” di Augé, tra cui, accanto ad aeroporti, stazioni e centri commerciali, potrebbero rientrare parecchie aree archeologiche); la fioritura di studi sul reimpiego nel Medioevo e in Età Moderna, nonché sulla stagione otto-no- rivestire la nuda pietra Le aree archeologiche urbane (in primis quella di Roma, la più grande del mondo)? Sono ferite. Se non, addirittura, “non luoghi”. Ferite che, come tali, vanno sanate. Un saggio di qualche anno fa ha rilanciato l’argomento sul come vivere l’antico. E come riconnetterlo al contemporaneo e alla vita della città... vecentesca dei raschiamenti e degli isolamenti; la discussione suscitata, prima di tutto fra gli stessi archeologi, da alcune controverse sistemazioni di aree archeologiche (ad esempio il “buco” del Portico d’Ottavia) e dalla vorace espansione di scavi illeggibili, che attendono invano di essere ricoperti (come quelli lungo via dei Fori Imperiali). Sono stati proprio alcuni archeologi sensibili alla dimensione sociale della loro disciplina a dare il via al dibattito, al quale hanno preso parte sin da subito numerosi architetti. Meno presenti sembrano essere gli urbanisti, a indicare che ci si è sinora interessati più all’aspetto dell’intervento sul singolo monumento o sito piuttosto che al suo reinserimento nel tessuto urbano; latitano, invece, gli storici dell’arte. Tra le principali tappe della discussione meritano di essere ricordati i due volumi che presentano tesi di laurea di argomento archeologico discusse presso la facoltà di architettura di Roma 3 1 , i seminari che si svolgono da diversi anni presso questa stessa università, ora in parte raccolti in volume 2 , le attività dell’area di ricerca Architettura e archeologie dello IUAV 3 . Ma è stato soprattutto il pamphlet di Andreina Ricci, Attorno alla nuda pietra (2006), ad accendere l’interesse intorno a questi temi presso un pubblico più vasto della ristretta cerchia degli specialisti: con grande chiarezza, l’archeologa ripercorre le vicende recenti delle rovine, dall’impiego strumentale che ne fece il Fascismo alla successiva presa di distanza da ogni uso ideologico, che si tradusse nella rinuncia a un’assunzione di responsabilità, preludio al degrado dei siti e alla loro progressiva sparizione dalla coscienza e dalla stessa percezione visiva dei cittadini, specialmente nel caso dei tanti resti disseminati tra i palazzoni della Roma moderna, ai quali giustamente Ricci dedica ampio spazio. È giunto il momento di sanare le ferite e riconnettere l’antico al nuovo, per garantire la fruizione e una migliore conservazione dei resti, restituire porzioni enormi di abitato alla cittadinanza, creare spazi pubblici, che suonino come una combattiva risposta alla progressiva privatizzazione delle città 4 . Si tratta quindi di sostituire all’“uso pubblico della storia”, di cui parla Ricci a proposito dell’utilizzazione delle rovine in epoca fascista, l’“uso pubblico del monumento storico”. Questa strada può essere percorsa in due maniere distinte, a seconda che si abbia a che fare con scavi o con strutture in elevato. I primi occorre in molti casi ricoprirli, dando vita a piazze o spazi verdi e provve- Gli scavi urbani? Occorre in molti casi ricoprirli, dando vita a piazze o spazi verdi e provvedendo a creare strutture ipogee che permettano la visita ai resti dendo a creare, laddove la differenza tra il piano di calpestio attuale e quello antico lo consenta, strutture ipogee che permettano la visita ai resti; idea che già sostenne, purtroppo senza successo, Giuseppe Valadier 5 . Per quanto riguarda gli edifici antichi, bisognerà provvedere ad attribuire loro una funzione, che ne consenta un pieno reinserimento nella città contemporanea: non si può quindi pensare al solo fine espositivo (il monumento classico come museo di se stesso o come sede di mostre, come avviene ai Mercati di Traiano), ma a una pluralità di utilizzi, possibilmente “alti” (biblioteche, centri di documentazione, sale da concerto o per proiezioni...). Specialmente per quelle strutture antiche situate in contesti ormai del tutto stravolti, come quelle della periferia romana, il riuso appare una prospettiva inevitabile, che può fare dei resti del passato i centri identitari di quartieri che, fra tanti problemi, hanno anche quello di essere privi di un’identità. L’architettura è chiamata a rendere possibile il reimpiego attraverso interventi che siano però rispettosi delle strutture antiche. Il compito non è facile: una suggestione viene da quanto fatto da David Chipperfield al Neues Museum di Berlino [nella foto in alto]. Non restauro, ma vero recupero di una rovina. [fabrizio federici] 1. Archeologia e progetto, Roma 2002 e 2009. 2. Arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura, Roma 2009. 3. In particolare, il convegno Luoghi dell’archeologia e usi contemporanei, Venezia, novembre 2009, e gli omonimi workshop dedicati alla progettazione di coperture e piccole strutture per siti archeologici. 4. Cfr., per Roma, P. Berdini, La città in vendita, Roma 2008 coperture e piccole strutture per siti archeologici. 5. Cit. da T. Kirk in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti, Torino 2009.

voglia di epica Signori, è ufficiale. Abbiamo la prima opera della “nuova epica” anche in campo visivo. Ovviamente non è venuta fuori dall’arte contemporanea (e come potrebbe essere altrimenti, nelle condizioni attuali, anche e soprattutto italiane?). Si tratta invece del cortometraggio fantascientifico 2081 (2009) di Chandler Tuttle, basato sul racconto Harrison Bergeron (1961) di Kurt Vonnegut. Ambientato in una società - naturalmente - distopica, in cui l’eccezionalità atletica e intellettuale viene annichilita a vantaggio dell’universale mediocrità, dell’egualitarismo al ribasso. Harrison è l’eroe neo-romantico della riscossa creativa, di un’attitudine finalmente eroica e anti-conformista. Pur con tutta la rozzezza concettuale e le ingenuità artistiche di un giovane autore americano alle prese con questi argomenti, l’opera registra efficacemente il mutamento di un clima culturale, di un’atmosfera, di un atteggiamento diffuso. La rinascita di un’esigenza. In musica - senza dimenticare il discorso unico che stanno portando avanti da più di dieci anni i Sigur Rós, all’insegna di un efficace emotional ambient - il nuovo respiro epico caratterizza le ricerche di gruppi “primitivi” già nei nomi che si sono dati, come Mastodon, Baroness, Torch, e poi Down, Isis, Neurosis. E ancora, su un versante più riflessivo-meditativo (a tratti, anche depresso e ossessivo; ma, effettivamente, epica è anche La Gerusalemme liberata): Crowbar, Sleep, Weedeater, Jesu. I quali hanno scelto di fondere creativamente progressive, metal e post-grunge, sulla scia dei Kyuss e del loro stoner rock. L’idea base era quella di espandere indefinitamente l’intuizione fondamentale spalancando immense praterie sonore. E anche di narrazione, come fanno i The Sword, che rivitalizzano gli impianti grandiosi dei Metallica con un immaginario preso di peso dalla nuova dark fantasy (George R. R. Martin & Co.). Nell’arte visiva contemporanea, qualcosa del genere si comincia a intravedere, per esempio, nelle installazioni a metà fra esoterismo primonovecentesco e mitografie vichinghe di Matthew Day Jackson (1974), o nelle sculture composte ossessivamente dallo svedese Michael Johansson, assemblando e montando oggetti di design provenienti dall’età dell’oro della produzione industriale (dagli anni ‘50 ai ‘70) [nella foto in alto]. E proprio l’ossessione sembra essere il concetto chiave di queste nuove epiche. Ossessione intesa come ricerca spasmodica, come creazione di interi mondi a partire da frammenti-relitti-rovine culturali (al di fuori e al di là della prospettiva nostalgica), come costruzione del sé alternativa e contrapposta a quella proposta dal vi è una strana e feconda saldatura fra tempo mitico e tempo storico: la narrazione epica è la via scelta per affrontare e interpretare l’italia di oggi mainstream. In un periodo in cui il concetto stesso di un “fuori”, di “underground”, persino di “avanguardia” non solo è andato incontro a pesanti ridefinizioni in ogni campo della conoscenza, ma è stato perfettamente integrato fino all’annullamento nella produzione culturale, che cosa rimane di assolutamente e propriamente estraneo a questo “dentro” che tutto pervade e riduce (e che possiamo chiamare, alternativamente, Spettacolo, Ordine, Omologazione) se non una sana e robusta ossessione creativa? Tanto più che in tale mutamento espressivo ci inseriamo a pieno titolo, e non solo con personalità singole e isolate ma con un movimento vero e proprio, ormai solidamente strutturato: il New Italian Epic, sistematizzato dai Wu Ming nell’ormai famoso promemoria omonimo 1 . In Italia, l’adozione di un approccio del genere trova la sua ragion d’essere nella situazione attuale, che sembra prefigurare gli sviluppi eventuali di altri Paesi, e al tempo stesso costituisce una sorta di sprofondamento, di paralisi collettiva e connettiva, lo “spaesamento” di cui parla Giorgio Vasta 2 . Gli scrittori più consapevoli rispondono a questa sfida sopperendo alle lacune della storiografia ufficiale e innestando la narrazione letteraria in quella storica: la memoria, la ricostruzione del passato e dei rapporti causali tra gli eventi sono gli unici antidoti disponibili ed efficaci al presente perpetuo che ormai costituisce, da almeno un trentennio, l’estensione unica e monolitica della percezione (“questa specie di ‘anni ‘80 ideali eterni’ che abbiamo avuto in sorte, e che non sembrano avere nessuna voglia di passare” 3 ). Si assiste allora nelle opere di questi autori più o meno nuovi - il Romanzo criminale (2002) di Giancarlo De Cataldo, Gomorra (2006) di Roberto Saviano, L’ottava vibrazione (2008) di Carlo Lucarelli, Hitler e inteoria 35 a cura di christian caliandro C’è dell’epos nella produzione creativa attuale? Certo che c’è. A partire dal cortometraggio di Chandler Tuttle, “2081”, ripercorriamo la topografia dell’epica contemporanea attraverso musica, arte, fiction, letteratura. Con un’ossessione: l’ossessione... Italia De Profundis (2008) di Giuseppe Genna - a una strana e feconda saldatura fra tempo mitico e tempo storico: la narrazione epica è la via scelta per affrontare e interpretare l’Italia di oggi. Mentre, con ben altra potenza e complessità, l’americano William T. Vollman è riuscito addirittura a comporre in Europe Central (2005) “la nostra epica occidentale, mentre l’occidente si folgora nel suo tramonto [...] epica apparentemente storica, fondamentalisticamente storica” 4 . Infine, a chi - come Alessandro Dal Lago 5 - dipinge questo atteggiamento come pretestuoso e velleitario, bisognerebbe ricordare che il ruolo degli intellettuali non è quello di vagheggiare perdute età dell’oro (un vecchio vizio italico, peraltro), ma di investire tutte le proprie forze nella comprensione e nella trasformazione della realtà: se siamo ridotti così, è anche per la sostanziale e completa abdicazione a questo compito. Il racconto di questi difficili e disgraziati anni italiani è invece propriamente, intrinsecamente epico - tolkieniano verrebbe quasi da dire - e non una proiezione spettrale, un’illusione auto-generata e consolatoria. Come tale, perciò, va elaborato. 1. Cfr. Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino 2009. 2. Cfr. G. Vasta, Spaesamento, Roma-Bari 2010. 3. Editoriale, in alfabeta2, 24 giugno 2010, www.alfabeta2.it 4. G. Genna, “William T. Vollmann, Europe Central” (recensione), in Carmilla, 20 settembre 2010, www.carmillaonline.com 5. Cfr. A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Roma 2010.

34 inteoria<br />

a cura di christian caliandro<br />

Chilometri e chilometri di recinzioni<br />

si parano di fronte a chi si aggiri<br />

per la città di Roma, ne scortano il<br />

passeggio, lo obbligano a peripli impensabili.<br />

Al di là delle delimitazioni,<br />

si levano le rovine antiche, scarnificate<br />

e congelate in assetti che sono<br />

il risultato di un processo tutto sommato<br />

recente, il cui apice si ebbe tra<br />

la fine dell’Ottocento e la prima metà<br />

del Novecento. Allora la plurisecolare<br />

pratica del riuso di monumenti<br />

antichi e rovine fu interrotta; templi,<br />

teatri e mausolei, raschiate via le superfetazioni<br />

di epoca post-antica, furono<br />

portati fuori dal tessuto urbano<br />

e dalla Storia, in un limbo desolante<br />

dove ancora fluttuano.<br />

Negli ultimi tempi, tuttavia, più d’uno<br />

si è accorto dell’inadeguatezza di<br />

questa soluzione. Si è sviluppata una<br />

riflessione sul rapporto tra il monumento<br />

antico e l’area archeologica,<br />

da una parte, e la città contemporanea,<br />

dall’altra. Sul ruolo che le rovine<br />

giocano nella nostra società, sulla<br />

relazione tra archeologia e architettura.<br />

Tra le condizioni che possono<br />

aver favorito lo sviluppo di tale riflessione<br />

andr<strong>anno</strong> menzionati almeno,<br />

a un livello più generale, il diffuso interesse,<br />

tra sociologi, antropologi e<br />

urbanisti, per i modi in cui le persone<br />

vivono - o non vivono - gli spazi urbani<br />

(si pensi soltanto ai “non-luoghi”<br />

di Augé, tra cui, accanto ad aeroporti,<br />

stazioni e centri commerciali,<br />

potrebbero rientrare parecchie aree<br />

archeologiche); la fioritura di studi sul<br />

reimpiego nel Medioevo e in Età Moderna,<br />

nonché sulla stagione otto-no-<br />

rivestire la nuda pietra<br />

Le aree archeologiche urbane (in primis quella di Roma, la più grande del mondo)? Sono ferite. Se non, addirittura, “non<br />

luoghi”. Ferite che, come tali, v<strong>anno</strong> sanate. Un saggio di qualche <strong>anno</strong> fa ha rilanciato l’argomento sul come vivere l’antico.<br />

E come riconnetterlo al contemporaneo e alla vita della città...<br />

vecentesca dei raschiamenti e degli<br />

isolamenti; la discussione suscitata,<br />

prima di tutto fra gli stessi archeologi,<br />

da alcune controverse sistemazioni<br />

di aree archeologiche (ad esempio<br />

il “buco” del Portico d’Ottavia) e dalla<br />

vorace espansione di scavi illeggibili,<br />

che attendono invano di essere ricoperti<br />

(come quelli lungo via dei Fori<br />

Imperiali).<br />

Sono stati proprio alcuni archeologi<br />

sensibili alla dimensione sociale della<br />

loro disciplina a dare il via al dibattito,<br />

al quale h<strong>anno</strong> preso parte sin da subito<br />

<strong>numero</strong>si architetti. Meno presenti<br />

sembrano essere gli urbanisti,<br />

a indicare che ci si è sinora interessati<br />

più all’aspetto dell’intervento sul<br />

singolo monumento o sito piuttosto<br />

che al suo reinserimento nel tessuto<br />

urbano; latitano, invece, gli storici<br />

dell’arte.<br />

Tra le principali tappe della discussione<br />

meritano di essere ricordati i due<br />

volumi che presentano tesi di laurea<br />

di argomento archeologico discusse<br />

presso la facoltà di architettura<br />

di Roma 3 1 , i seminari che si svolgono<br />

da diversi anni presso questa<br />

stessa università, ora in parte raccolti<br />

in volume 2 , le attività dell’area<br />

di ricerca Architettura e archeologie<br />

dello IUAV 3 . Ma è stato soprattutto il<br />

pamphlet di Andreina Ricci, Attorno<br />

alla nuda pietra (2006), ad accendere<br />

l’interesse intorno a questi temi<br />

presso un pubblico più vasto della<br />

ristretta cerchia degli specialisti: con<br />

grande chiarezza, l’archeologa ripercorre<br />

le vicende recenti delle rovine,<br />

dall’impiego strumentale che ne fece<br />

il Fascismo alla successiva presa di<br />

distanza da ogni uso ideologico, che<br />

si tradusse nella rinuncia a un’assunzione<br />

di responsabilità, preludio al<br />

degrado dei siti e alla loro progressiva<br />

sparizione dalla coscienza e dalla<br />

stessa percezione visiva dei cittadini,<br />

specialmente nel caso dei tanti resti<br />

disseminati tra i palazzoni della Roma<br />

moderna, ai quali giustamente Ricci<br />

dedica ampio spazio.<br />

È giunto il momento di sanare le ferite<br />

e riconnettere l’antico al nuovo,<br />

per garantire la fruizione e una migliore<br />

conservazione dei resti, restituire<br />

porzioni enormi di abitato alla<br />

cittadinanza, creare spazi pubblici,<br />

che suonino come una combattiva<br />

risposta alla progressiva privatizzazione<br />

delle città 4 . Si tratta quindi di<br />

sostituire all’“uso pubblico della storia”,<br />

di cui parla Ricci a proposito<br />

dell’utilizzazione delle rovine in epoca<br />

fascista, l’“uso pubblico del monumento<br />

storico”.<br />

Questa strada può essere percorsa<br />

in due maniere distinte, a seconda<br />

che si abbia a che fare con scavi o<br />

con strutture in elevato. I primi occorre<br />

in molti casi ricoprirli, dando<br />

vita a piazze o spazi verdi e provve-<br />

Gli scavi urbani? Occorre in molti casi<br />

ricoprirli, dando vita a piazze o spazi<br />

verdi e provvedendo a creare strutture<br />

ipogee che permettano la visita ai resti<br />

dendo a creare, laddove la differenza<br />

tra il piano di calpestio attuale e<br />

quello antico lo consenta, strutture<br />

ipogee che permettano la visita ai resti;<br />

idea che già sostenne, purtroppo<br />

senza successo, Giuseppe Valadier 5 .<br />

Per quanto riguarda gli edifici antichi,<br />

bisognerà provvedere ad attribuire<br />

loro una funzione, che ne consenta<br />

un pieno reinserimento nella città<br />

contemporanea: non si può quindi<br />

pensare al solo fine espositivo (il monumento<br />

classico come museo di se<br />

stesso o come sede di mostre, come<br />

avviene ai Mercati di Traiano), ma a<br />

una pluralità di utilizzi, possibilmente<br />

“alti” (biblioteche, centri di documentazione,<br />

sale da concerto o per proiezioni...).<br />

Specialmente per quelle<br />

strutture antiche situate in contesti<br />

ormai del tutto stravolti, come quelle<br />

della periferia romana, il riuso<br />

appare una prospettiva inevitabile,<br />

che può fare dei resti del passato i<br />

centri identitari di quartieri che, fra<br />

tanti problemi, h<strong>anno</strong> anche quello di<br />

essere privi di un’identità.<br />

L’architettura è chiamata a rendere<br />

possibile il reimpiego attraverso interventi<br />

che siano però rispettosi delle<br />

strutture antiche. <strong>Il</strong> compito non<br />

è facile: una suggestione viene da<br />

quanto fatto da David Chipperfield<br />

al Neues Museum di Berlino [nella<br />

foto in alto]. Non restauro, ma vero<br />

recupero di una rovina. <br />

[fabrizio federici]<br />

1. Archeologia e progetto, Roma 2002 e 2009.<br />

2. Arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura, Roma 2009.<br />

3. In particolare, il convegno Luoghi dell’archeologia e usi contemporanei,<br />

Venezia, <strong>novembre</strong> 2009, e gli omonimi workshop dedicati alla progettazione<br />

di coperture e piccole strutture per siti archeologici.<br />

4. Cfr., per Roma, P. Berdini, La città in vendita, Roma 2008 coperture e<br />

piccole strutture per siti archeologici.<br />

5. Cit. da T. Kirk in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti, Torino 2009.

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