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2011-12AntonelliLingua in Modernità italiana - Università del Salento

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1<br />

L<strong>in</strong>gua<br />

di Giuseppe Antonelli<br />

Una l<strong>in</strong>gua <strong>in</strong> movimento:<br />

le tendenze generali<br />

La modernità l<strong>in</strong>guistica com<strong>in</strong>cia <strong>in</strong> Italia con gli anni sessanta. A cento<br />

anni di distanza dal raggiungimento <strong>del</strong>l’unità politica (1861, proclamazione<br />

<strong>del</strong> Regno d’Italia) e a mille da quello che è considerato il primo<br />

testo <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> (960, placito capuano), una fase storica di<br />

discussioni sull’italiano è archiviata dalla monumentale Storia <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua<br />

<strong>italiana</strong> di Bruno Miglior<strong>in</strong>i (1960) e un’altra è aperta dall’<strong>in</strong>novativa<br />

Storia l<strong>in</strong>guistica <strong>del</strong>l’Italia unita di Tullio De Mauro (1963).<br />

Gli anni dal 1958 al 1963 – quelli <strong>del</strong> boom economico, <strong>del</strong>la televisione<br />

che entra nelle case degli italiani, <strong>del</strong>la prima vera scolarizzazione<br />

di massa – sono anche per la l<strong>in</strong>gua un periodo di rapido cambiamento:<br />

«uno dei momenti critici <strong>in</strong> cui i fenomeni di deriva sono ulteriormente<br />

accentuati dalle condizioni materiali <strong>in</strong> cui avviene la trasformazione»<br />

(Tesi, 2005, p. 248). È alla f<strong>in</strong>e di questo periodo che Pier Paolo Pasol<strong>in</strong>i,<br />

basandosi sul mo<strong>del</strong>lo costituito dal pensiero di Gramsci 1 , lancia<br />

quella che verrà def<strong>in</strong>ita la «nuova questione <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua».<br />

A scatenarla è, nel 1964, un articolo <strong>in</strong>titolato Nuove questioni l<strong>in</strong>guistiche,<br />

<strong>in</strong> cui Pasol<strong>in</strong>i teorizza la nascita di un nuovo italiano “tecnologico”,<br />

mo<strong>del</strong>lato e alimentato non più dai letterati, ma dai protagonisti<br />

<strong>del</strong>l’economia neocapitalistica; e dunque irradiato non più dal classico<br />

asse Roma-Firenze, ma dall’<strong>in</strong>dustrializzato asse Tor<strong>in</strong>o-Milano: «la<br />

nascente tecnocrazia <strong>del</strong> Nord si identifica egemonicamente con l’<strong>in</strong>tera<br />

nazione, ed elabora qu<strong>in</strong>di un nuovo tipo di cultura e di l<strong>in</strong>gua effettivamente<br />

nazionali» (<strong>in</strong> Parlangèli, 1971 [1969], p. 97). Secondo Pasoli-<br />

1. «Ogni volta che affiora, <strong>in</strong> un modo o nell’altro, la quistione <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua, significa<br />

che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento <strong>del</strong>la classe<br />

dirigente, la necessità di stabilire rapporti più <strong>in</strong>timi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la<br />

massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Gramsci, 1975, p.<br />

2346; è il paragrafo 3 <strong>del</strong> Quaderno 29, databile al 1935).<br />

15


MODERNITÀ ITALIANA<br />

ni, l’affermarsi di questo italiano tecnologico avrebbe provocato – <strong>in</strong> un<br />

sol colpo – il ripiegamento <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua letteraria su un’anonima l<strong>in</strong>gua<br />

media e la scomparsa dei dialetti, irrimediabilmente legati a un mondo<br />

rurale <strong>in</strong> via di est<strong>in</strong>zione. Tra i moltissimi <strong>in</strong>terventi che seguirono (tutti,<br />

di fatto, critici verso le tesi pasol<strong>in</strong>iane), spicca quello di Italo Calv<strong>in</strong>o,<br />

che capovolse il discorso di Pasol<strong>in</strong>i <strong>in</strong>sistendo su due punti. Uno:<br />

lungi dall’essere appena nato, l’«italiano da un pezzo sta morendo»,<br />

soffocato dall’ipocrisia <strong>del</strong>l’«antil<strong>in</strong>gua» burocratica («l’italiano di chi<br />

non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”»). Due: l’italiano è<br />

dest<strong>in</strong>ato a sopravvivere solo se riuscirà «a diventare una l<strong>in</strong>gua strumentalmente<br />

moderna» (ivi, pp. 173-6).<br />

È da qui, dunque, che bisogna ripartire per cercare di capire come<br />

quella sfida è stata v<strong>in</strong>ta. Il decennio successivo (1965-74) è caratterizzato<br />

da una vivacissima riflessione sulla l<strong>in</strong>gua e <strong>in</strong> particolare sul mutato<br />

rapporto tra l<strong>in</strong>gua e società. Un dibattito non solo accademico o ristretto<br />

all’élite <strong>in</strong>tellettuale: «<strong>in</strong>dicative di una larga richiesta di sociol<strong>in</strong>guistica<br />

sono le rubriche e le <strong>in</strong>chieste giornalistiche dedicate ai risvolti<br />

sociali <strong>del</strong> fenomeno l<strong>in</strong>guistico» (Coveri, 1977, p. 267); come quelle<br />

tenuto dallo stesso Pasol<strong>in</strong>i e da Umberto Eco nelle pag<strong>in</strong>e <strong>del</strong> “Corriere<br />

<strong>del</strong>la Sera”; da Maria Corti, Maurizio Dardano ed Enzo Gol<strong>in</strong>o nel<br />

“Giorno”; da Tullio De Mauro <strong>in</strong> “Paese Sera” 2 .<br />

Una significativa svolta nell’ambito <strong>del</strong> rapporto tra l<strong>in</strong>gua e utenti<br />

è – nel 1975 – la presentazione <strong>del</strong>le Dieci tesi per un’educazione l<strong>in</strong>guistica<br />

democratica promosse dal GISCEL (Gruppo di <strong>in</strong>tervento e studio<br />

nel campo <strong>del</strong>l’educazione l<strong>in</strong>guistica, di cui fa parte anche De Mauro):<br />

pr<strong>in</strong>cipi che <strong>in</strong>fluiranno profondamente sul modo di <strong>in</strong>segnare l’italiano<br />

a scuola, e di riflesso sull’idea stessa di norma e di grammatica. In quegli<br />

anni, peraltro, lo svecchiamento l<strong>in</strong>guistico <strong>in</strong>veste anche i giornali<br />

(dal 1976 “la Repubblica” impone «uno stile più narrativo e brillante»:<br />

Gualdo, 2007, pp. 21-2), la pubblicità (personaggi come Pasquale Barbella,<br />

Annamaria Testa, Emanuele Pirella, Aldo Biasi «tra la f<strong>in</strong>e degli<br />

anni Settanta e gli anni Ottanta hanno modernizzato la comunicazione<br />

<strong>italiana</strong> e il copywrit<strong>in</strong>g <strong>in</strong> particolare», Afribo, 2009), la televisione (il<br />

1976 è l’anno <strong>in</strong> cui vengono liberalizzate le TV locali, mentre trasmissioni<br />

come Bontà loro e Domenica <strong>in</strong> <strong>in</strong>augurano il tempo che Eco chiamerà<br />

2. In Carrafiello (1977, p. 593) si censisce «tutto ciò che, sul l<strong>in</strong>guaggio, è stato scritto<br />

[...] da sette importanti quotidiani: “La Stampa”, “Corriere <strong>del</strong>la Sera”, “Il Giorno” per il<br />

nord; “La Nazione”, “Paese Sera”, “L’Unità” per il centro; “Il Matt<strong>in</strong>o” per il sud» nei<br />

bienni 1962-63 e 1972-73. Scorrendo l’<strong>in</strong>dice degli argomenti, il più frequente risulta quello<br />

degli anglicismi e <strong>in</strong> generale degli esotismi (21 articoli nel 1962-63; 28 nel 1972-73); seguono<br />

i dialetti (rispettivamente 13 e 5), i neologismi (11 e 10), la didattica <strong>del</strong>l’italiano (5 e 9).<br />

16


1. LINGUA<br />

<strong>del</strong>la neotelevisione: cfr. Alfieri, Bonomi, 2008, pp. 11-2), anche le canzoni<br />

(con una notevole apertura verso alcuni tratti <strong>del</strong> parlato: cfr. Antonelli,<br />

2010a, pp. 235-6).<br />

Insomma, con Michele Cortelazzo (2000, p. 22), «si può davvero dire<br />

che il decennio di svolta per la storia recente <strong>del</strong>l’italiano sono gli anni<br />

Settanta». A confermarlo, anche il susseguirsi – nella seconda metà <strong>del</strong><br />

decennio – di bilanci a più voci (convegni, antologie, opere collettive):<br />

Italiano d’oggi. L<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> e varietà regionali (Italiano d’oggi, 1977),<br />

La l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> oggi: un problema scolastico e sociale (Renzi, Cortelazzo,<br />

1977), La l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> oggi (LLIO, 1980). Bilanci che possono essere<br />

riassunti nella lucida s<strong>in</strong>tesi di Dardano (1978, p. 243):<br />

1 – Estendendosi a spese dei dialetti, l’italiano è diventato la l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong>la nazione.<br />

Certo rimane <strong>del</strong> camm<strong>in</strong>o da compiere, ma il processo di italianizzazione<br />

è <strong>in</strong> una fase avanzata [...]. 2 – I l<strong>in</strong>guaggi tecnici e le varietà socioprofessionali<br />

hanno progredito rapidamente negli ultimi anni. Crescono i particolarismi;<br />

si alzano barriere. Al tempo stesso, molti elementi rifluiscono nella l<strong>in</strong>gua<br />

comune, travasano da un settore all’altro [...]. 3 – L’<strong>in</strong>flusso <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>glese è<br />

un fenomeno strettamente connesso con il punto precedente. Accanto agli<br />

aspetti negativi (<strong>in</strong>utilità di molti anglismi, scarsa perspicuità) è opportuno ricordare<br />

quelli positivi: acquisto di calchi e di prestiti necessari a varie term<strong>in</strong>ologie,<br />

<strong>in</strong>centivo a una più estesa formazione <strong>del</strong>le parole e a una s<strong>in</strong>tassi più<br />

snella [...]. 4 – I moderni mezzi di comunicazione di massa determ<strong>in</strong>ano la forma<br />

<strong>del</strong> messaggio. Talvolta – purtroppo – ne modificano anche il contenuto,<br />

diventando essi stessi produttori di realtà [...]. Viviamo <strong>in</strong> un’epoca di transizione.<br />

L’uso che facciamo <strong>del</strong>la nostra l<strong>in</strong>gua riflette i progressi e le contraddizioni<br />

di un Paese che è mutato e cont<strong>in</strong>ua a mutare.<br />

Nella l<strong>in</strong>gua di tutti i giorni, <strong>in</strong>tanto, è ormai avviato il processo che <strong>in</strong><br />

una dec<strong>in</strong>a d’anni porterà a quell’«italiano <strong>del</strong>l’uso medio» descritto da<br />

Francesco Sabat<strong>in</strong>i (1985). Sancendo l’affermazione di quello che altri<br />

chiameranno neostandard, il saggio di Sabat<strong>in</strong>i chiude un periodo caratterizzato<br />

dalla difficile presa d’atto – da parte dei l<strong>in</strong>guisti, ma ancor più<br />

di tutti i parlanti colti – dei cambiamenti che la l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> aveva subito<br />

(e subiva) nell’impatto con una massa sempre più ampia di parlanti.<br />

Titoli come L<strong>in</strong>gua <strong>in</strong> rivoluzione (Fochi, 1966), Il museo degli errori.<br />

L’italiano come si parla oggi (Gabrielli, 1977), Prontuario <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua selvaggia<br />

(Z<strong>in</strong>garelli, 1979), Ma che l<strong>in</strong>gua parliamo? (Todisco, 1984) rendono<br />

bene il contrasto tra «una prepotente, vitale, <strong>in</strong>arrestabile espansione,<br />

quale la l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong> non aveva forse mai conosciuto nella sua storia»<br />

e l’«immag<strong>in</strong>e di decadimento e di corruzione presentata non solo<br />

da pubblicisti palesemente sprovveduti [...] ma anche da letterati e l<strong>in</strong>guisti»<br />

(Lepschy, Lepschy, 1992, pp. 28-9).<br />

17


MODERNITÀ ITALIANA<br />

Alla f<strong>in</strong>e degli anni ottanta, l’italiano è ormai una l<strong>in</strong>gua parlata da<br />

quasi tutti gli italiani. Secondo un’<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e ISTAT <strong>del</strong> 1988, a parlare<br />

esclusivamente <strong>in</strong> dialetto è rimasto il 14% <strong>del</strong>la popolazione; una percentuale<br />

che pochi anni dopo risulta già dimezzata (7% secondo un’<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e<br />

ISTAT <strong>del</strong> 1995; cfr. D’Agost<strong>in</strong>o, 2007, p. 55). L’importanza sempre<br />

maggiore rivestita dai mezzi di comunicazione di massa (televisione su<br />

tutti), la pressione sempre più forte dei l<strong>in</strong>guaggi settoriali (specie quelli<br />

tecnico-scientifici), la progressiva <strong>in</strong>ternazionalizzazione <strong>del</strong> lessico su<br />

base anglo-americana trasformano a poco a poco l’italiano da l<strong>in</strong>gua moderna<br />

a l<strong>in</strong>gua – se così si può dire – postmoderna.<br />

Un ulteriore potente impulso al cambiamento verrà, alla metà degli<br />

anni novanta, dall’avvento <strong>del</strong>la telematica. Internet (con le e-mail, le<br />

chat l<strong>in</strong>e, i blog, i social network) e il telefono cellulare (con gli SMS e l’<strong>in</strong>stant<br />

messag<strong>in</strong>g) arricchiranno il repertorio di nuove varietà trasmesse<br />

(come quelle <strong>del</strong>la radio, <strong>del</strong> telefono, <strong>del</strong>la televisione), ma scritte. Anche<br />

alla nostra l<strong>in</strong>gua si apriranno così nuove frontiere, legate a un uso<br />

quotidiano scritto e non più solo parlato. Un’evoluzione imprevedibile<br />

f<strong>in</strong>o a pochi anni fa e <strong>in</strong> netta controtendenza rispetto alla prima tra le l<strong>in</strong>ee<br />

di sviluppo che hanno caratterizzato l’italiano degli ultimi decenni.<br />

ORALIZZAZIONE<br />

Dopo aver vissuto per secoli (compreso quello successivo all’Unità d’Italia)<br />

soprattutto come l<strong>in</strong>gua scritta, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta<br />

l’italiano conquista f<strong>in</strong>almente la dimensione parlata spontanea e<br />

familiare che f<strong>in</strong>o a quel momento era stata <strong>del</strong> dialetto. «Tra coloro che<br />

conoscevano vent’anni fa l’italiano», nota De Mauro (<strong>in</strong> Beccaria, 1973,<br />

p. 109), «la grande maggioranza ne aveva una conoscenza prevalentemente<br />

scritta [...], qu<strong>in</strong>di era portata ad usare l’italiano secondo moduli<br />

stilistici di tipo formale, tendenzialmente scolastico». Nel giro di pochi<br />

decenni, lo sbilanciamento verso l’oralità – proprio anche <strong>del</strong>la nuova<br />

educazione scolastica – porterà a capovolgere il tradizionale rapporto<br />

tra scritto e parlato. «Si è rovesciato il rapporto che c’era trent’anni<br />

fa, quando l’italiano orale nazionale quasi non esisteva, era regionale, e,<br />

<strong>in</strong>vece, reggeva lo scritto», nota Maria Corti (<strong>in</strong> Todisco, 1984, p. 38), lamentando<br />

che nelle tesi di laurea, anche di studenti brillanti, «l’<strong>in</strong>sufficienza<br />

va da errori di ortografia a un parlato riprodotto nello scritto che<br />

risulta un italiano poverissimo».<br />

Su un piano di diversa consapevolezza, la tendenza a simulare il parlato<br />

nello scritto permea <strong>in</strong> quegli anni lo stile dei giornali e di molta letteratura.<br />

Tutto era com<strong>in</strong>ciato, ancora una volta, alla metà degli anni ses-<br />

18


1. LINGUA<br />

santa: «la l<strong>in</strong>gua letteraria <strong>italiana</strong>, oggi, è irrequieta» – scriveva la stessa<br />

Corti (2001 [1965], p. 93) – «<strong>in</strong> essa succede qualcosa. Il contraccolpo <strong>del</strong><br />

progressivo mutarsi di situazione nel settore <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua parlata non può<br />

non agire sul sistema nervoso letterario». Quanto ai giornali, l’espansione<br />

<strong>del</strong> parlato 3 parte alla f<strong>in</strong>e degli anni sessanta dalla cronaca cittad<strong>in</strong>a,<br />

<strong>in</strong> cui la pat<strong>in</strong>a dialettale e gergale serve a dare ai resoconti un tono di volta<br />

<strong>in</strong> volta comico o patetico. Nel decennio successivo, orientandosi verso<br />

registri meno marcati, questa «tonalità parlata» diventa la cifra specifica<br />

dei quotidiani più <strong>in</strong>novativi.<br />

Inf<strong>in</strong>e, complice la tecnica <strong>del</strong> «mosaico di citazioni» e la presenza<br />

sempre più <strong>in</strong>vadente <strong>del</strong>le <strong>in</strong>terviste, la simulazione di parlato si afferma<br />

come il pr<strong>in</strong>cipale strumento di “animazione” <strong>del</strong>la scrittura (Dardano,<br />

2008 [1994], p. 276). Non più solo scelte lessicali basse, ma anche strutture<br />

s<strong>in</strong>tattiche anomale, <strong>in</strong>teriezioni, <strong>in</strong>tercalari, abbondanza di segnali<br />

discorsivi che si cristallizzano <strong>in</strong> una manieristica stilizzazione <strong>del</strong>l’oralità<br />

(cfr. Serianni, 2000, pp. 321-8). Tuttavia, la vivacizzazione, lo svecchiamento,<br />

l’avvic<strong>in</strong>amento al parlato che la l<strong>in</strong>gua dei mass media italiani ha<br />

conosciuto non sono serviti – o solo apparentemente – a co<strong>in</strong>volgere i cittad<strong>in</strong>i<br />

<strong>in</strong> un circuito d’<strong>in</strong>formazione più maturo, utile alla società civile: il<br />

passaggio «dalla vecchia retorica <strong>del</strong>l’oscurità alla nuova retorica <strong>del</strong>la<br />

brillantezza non ha cambiato, nella sostanza, il discorso dei giornali italiani»<br />

(Loporcaro, 2005, p. 71).<br />

L’oralizzazione <strong>in</strong>veste <strong>in</strong> questi anni anche i media orali, <strong>in</strong> cui si<br />

passa <strong>in</strong> misura sempre più massiccia dallo scritto-parlato (cioè detto<br />

sulla base di una traccia scritta, più o meno precisa: Nencioni, 1983<br />

[1976]) al parlato-parlato: il parlato spontaneo, non pianificato. Quello<br />

dei presentatori come Mike Bongiorno (che «rende movenze tipiche <strong>del</strong><br />

parlato più irriflesso»: De Mauro, 1970 [1963], p. 437) 4 , ma anche dei<br />

3. Che Dardano (1981 [1973], p. 253) mette <strong>in</strong> relazione «con il grande progresso dei<br />

mezzi di registrazione <strong>del</strong>la parola. La possibilità di riascoltare un discorso, un dialogo fa<br />

sì che certi caratteri formali possano essere più facilmente ritenuti e successivamente immessi<br />

nella l<strong>in</strong>gua scritta».<br />

4. «Guardi, questa sera le dobbiamo dire due cose molto belle: la prima è che nell’evenienza<br />

che lei non raddoppi questa sera, c’è un gruppo di persone, che non so bene<br />

quale gruppo sia, che le costruirà un appartamento che lei potrà andare ad abitare il giorno<br />

<strong>in</strong> cui si sposa». In effetti, il brano con cui De Mauro (1970 [1963], p. 437) esemplifica<br />

questo «parlato <strong>in</strong>formale standard, povero lessicalmente, s<strong>in</strong>tatticamente precario»<br />

(tratto da una puntata di Lascia o raddoppia? <strong>del</strong>l’11 febbraio 1956) presenta una «<strong>in</strong>filata<br />

di che a cannocchiale», ma si mostra anche attento all’uso <strong>del</strong> congiuntivo, al rispetto <strong>del</strong>la<br />

consecutio temporum, alla formalità <strong>del</strong> le. Siamo lontani, <strong>in</strong>somma, dal «basic italian»<br />

attribuito a Mike Bongiorno da Eco (1963 [1961], p. 75): «il suo discorso realizza il massimo<br />

di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subord<strong>in</strong>ate, riesce quasi a rendere<br />

<strong>in</strong>visibile la dimensione s<strong>in</strong>tassi».<br />

19


MODERNITÀ ITALIANA<br />

concorrenti che partecipano ai suoi quiz; e poi quello degli <strong>in</strong>tervistati:<br />

i politici, i cantanti, gli sportivi, e le tante persone qualunque che vengono<br />

co<strong>in</strong>volte nelle <strong>in</strong>chieste e nei numerosi reportage prodotti dalla<br />

RAI. Una componente, quella <strong>del</strong> parlato quotidiano, che si affaccerà<br />

precocemente alla radio (la prima trasmissione con le telefonate degli<br />

ascoltatori <strong>in</strong> diretta è Chiamate Roma 3131, 1969) 5 e tenderà a prendere<br />

il sopravvento nelle trasmissioni più o meno abborracciate <strong>del</strong>le prime<br />

radio e TV locali (dal 1976), e poi nella cosiddetta “TV verità” <strong>del</strong>la<br />

RAI 3 diretta da Angelo Guglielmi (dal 1987). Inf<strong>in</strong>e, dagli anni novanta,<br />

<strong>in</strong>vaderà def<strong>in</strong>itivamente i teleschermi attraverso il proliferare dei talk<br />

show, con la loro «conversazione spettacolarizzata» (Romano, 2010) e<br />

dei cosiddetti reality, <strong>in</strong> cui assumerà le forme di un enfatico iperparlato<br />

(Antonelli, 2007, pp. 113-4) 6 .<br />

La progressiva perdita di terreno <strong>del</strong>la scrittura, d’altra parte, è legata<br />

anche all’uso <strong>del</strong> telefono. «La differenza tra me e mia figlia», chiosava<br />

nel 1983 la l<strong>in</strong>guista Maria Luisa Altieri Biagi, <strong>in</strong>tervenendo a un convegno<br />

<strong>del</strong>l’Accademia <strong>del</strong>la Crusca, «è scandita dal fatto che i miei epistolari<br />

amorosi erano per me importantissimi. Ho perf<strong>in</strong>o desiderato che<br />

i miei fidanzati partissero per avere questo tipo di contatto verbale. Invece<br />

mia figlia telefona, con grave danno <strong>del</strong>le f<strong>in</strong>anze familiari, e, a parer<br />

mio, perdendo qualche cosa nel tipo di rapporto» (<strong>in</strong> Todisco, 1984,<br />

p. 85). Negli stessi anni, d’altra parte, il semiologo Gian Paolo Caprett<strong>in</strong>i<br />

assimilava la telefonata a una lettera simultanea: «la telefonata ha strette<br />

analogie con certe forme epistolari, anzi è l’attuale equivalente <strong>del</strong>la<br />

lettera» (Caprett<strong>in</strong>i, 1985, p. 223). Era il trionfo <strong>del</strong>la cosiddetta «oralità<br />

secondaria»: all’<strong>in</strong>terno «<strong>del</strong>l’attuale cultura tecnologica avanzata», scriveva<br />

Ong (1986 [1982], pp. 29-30), «una nuova oralità è <strong>in</strong>coraggiata dal<br />

telefono, dalla radio, dalla televisione e da altri mezzi elettronici». L’analfabetismo<br />

di ritorno appariva come una ch<strong>in</strong>a <strong>in</strong>esorabile; la scrittura<br />

stessa veniva data per spacciata <strong>in</strong> molte prognosi autorevoli.<br />

Negli ultimi vent’anni, però, lo sviluppo <strong>del</strong>la telematica ha reso possibile<br />

<strong>in</strong>viare contemporaneamente testi scritti, immag<strong>in</strong>i fisse e <strong>in</strong> movi-<br />

5. «Bisogna per onestà ricordare che la radio RAI non ha aspettato il ’76 per <strong>in</strong>staurare<br />

un filo diretto col proprio pubblico. Basta <strong>in</strong> proposito citare una trasmissione famosa,<br />

Chiamate Roma 3131, <strong>in</strong> onda tutte le matt<strong>in</strong>e a partire dal 7 gennaio 1969 (condotta<br />

da Gianni Boncompagni, Franco Moccagatta e Federica Taddei), cont<strong>in</strong>uata dal ’72 da<br />

Dalla vostra parte, condotta da Guglielmo Zacconi e Maurizio Costanzo» (Maraschio,<br />

1987, p. 207).<br />

6. Significativo che anche quello messo <strong>in</strong> scena nelle fiction <strong>del</strong>la neotelevisione non<br />

venga più def<strong>in</strong>ito un parlato recitato (cfr. ancora Nencioni, 1983 [1976]), ma un «parlato-oralizzato»<br />

(Alfieri et al., 2010).<br />

20


1. LINGUA<br />

mento, suoni; anche nei telefoni cellulari di ultima generazione la trasmissione<br />

<strong>del</strong>la voce è diventato solo uno dei diversi impieghi. Così il concetto<br />

di audiovisivo è stato riassorbito all’<strong>in</strong>terno di quello più ampio di<br />

multimediale: l’evoluzione tecnologica ci ha abituati a una fruizione <strong>in</strong>tegrata<br />

<strong>del</strong>la comunicazione, <strong>in</strong> cui la parola scritta ha riconquistato uno<br />

spazio importante. «È con la rete, o meglio con le diverse forme di Comunicazione<br />

Mediata dal Computer (CMC), che la parola sembra davvero<br />

conoscere un poderoso ritorno» (Carl<strong>in</strong>i, 1999, p. 40).<br />

Chi pone l’accento sulla scrittura, parla di una «terza fase» – dopo<br />

quelle dom<strong>in</strong>ate dalla scrittura alfabetica e dalla stampa – <strong>in</strong> cui all’<strong>in</strong>telligenza<br />

sequenziale si va sostituendo un’<strong>in</strong>telligenza simultanea, che<br />

“guarda” <strong>in</strong>vece di leggere (cfr. Simone, 2000, pp. 71-95). Chi <strong>in</strong>vece si<br />

concentra sul parlato, segnala lo sviluppo di un’oralità terziaria: «quella<br />

dei sistemi multimediali, <strong>del</strong>la realtà virtuale e <strong>del</strong>la rete è un’oralità elettronica,<br />

come la “seconda”, ma si basa sulla simulazione <strong>del</strong>la sensorialità,<br />

non più sulla trasmissione <strong>del</strong>la sensorialità» (De Kerckhove, 2004).<br />

SEMPLIFICAZIONE<br />

Proprio la conquista di una dimensione parlata sempre più significativa<br />

ha creato nell’italiano <strong>del</strong>l’uso diversi «punti di crisi soggetti a pressioni<br />

di vario ord<strong>in</strong>e (strutturale, tipologico, di contatto <strong>in</strong>terl<strong>in</strong>guistico, diastratico,<br />

diatopico, diamesico) che nel complesso mirano ad una semplificazione<br />

<strong>del</strong> suo complicato sistema e fanno riemergere tratti <strong>del</strong>l’italiano<br />

non letterario già presenti nel passato» (Ramat, 1993, p. 35). Come ricorda<br />

Berruto (1987, pp. 42-3), il concetto di semplificazione è <strong>in</strong> l<strong>in</strong>guistica<br />

un concetto comodo, ma rischioso: <strong>in</strong>tuitivo, ma anche vago nei<br />

suoi contorni. Nondimeno, la nozione può essere def<strong>in</strong>ita facendo riferimento<br />

allo scarto che esiste tra «le risorse messe a disposizione dalla<br />

l<strong>in</strong>gua e quelle effettivamente adoperate dai parlanti»: «l’italiano ha dovuto<br />

adattarsi alle esigenze di una più vasta massa di parlanti, ed ha così<br />

perduto un certo numero di proprietà che questi percepivano come<br />

eccessivamente complicate» (Simone, 1993, pp. 64-5).<br />

Le aree <strong>del</strong> sistema che sono state maggiormente <strong>in</strong>vestite dal movimento<br />

verso il neostandard sono senz’altro quella dei pronomi personali<br />

(lui, lei, loro come soggetto al posto di egli, ella, essi/esse; gli anche per<br />

“a lei” e “a loro”); quella dei tempi verbali (uso sempre più frequente <strong>del</strong><br />

passato prossimo e sempre più raro <strong>del</strong> passato remoto, scomparsa def<strong>in</strong>itiva<br />

<strong>del</strong> trapassato remoto 7 , espansione <strong>del</strong>l’imperfetto controfattua-<br />

7. Cfr. Telve (2005).<br />

21


MODERNITÀ ITALIANA<br />

le <strong>in</strong> frasi come «se lo sapevo venivo» e <strong>del</strong> presente a spese <strong>del</strong> futuro<br />

<strong>in</strong> frasi come «domani passo») 8 .<br />

Alcuni cambiamenti nell’uso dei modi verbali vanno <strong>in</strong>terpretati nel<br />

quadro di un più vasto mutamento. In particolare, «la scelta <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>dicativo<br />

nelle subord<strong>in</strong>ate» al posto <strong>del</strong> congiuntivo 9 può essere considerata<br />

«un <strong>in</strong>dicatore prezioso <strong>del</strong> movimento <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo<br />

verso la semplificazione profonda <strong>del</strong>le strutture s<strong>in</strong>tattiche» (Tesi, 2005,<br />

p. 231). Mettendo a confronto un campione di prosa argomentativa <strong>del</strong><br />

1913 (il Breviario di estetica di Benedetto Croce) e uno <strong>del</strong> 1985 (Sugli specchi<br />

e altri saggi di Umberto Eco), il rarefarsi <strong>del</strong> congiuntivo (da 19 casi<br />

a 4) va di pari passo con la drastica riduzione <strong>del</strong> numero medio di proposizioni<br />

per periodo s<strong>in</strong>tattico (da 7,8 a 3,5) e <strong>del</strong>la profondità <strong>del</strong>la subord<strong>in</strong>azione:<br />

l’italiano scritto contemporaneo «non scende oltre la soglia<br />

<strong>del</strong> 2° grado di subord<strong>in</strong>azione, se non <strong>in</strong> casi quantitativamente limitati<br />

o prossimi allo zero» (ivi, p. 233).<br />

Dati analoghi emergono da confronti a campione sull’italiano dei<br />

giornali. In base ai calcoli fatti da Bonomi (2002, pp. 249-50), il numero<br />

di parole che costituiscono un periodo nei giornali di oggi è <strong>in</strong> media tra<br />

20 e 25; negli anni c<strong>in</strong>quanta era maggiore di circa dieci punti, negli anni<br />

ottanta era poco meno di 28. Il numero medio di proposizioni per periodo<br />

è oggi 2,5 (2,39 nei quotidiani on l<strong>in</strong>e): una sessant<strong>in</strong>a d’anni fa era<br />

3,5. Si tratta – d’altra parte – di un fenomeno generalizzato, che ultimamente<br />

ha <strong>in</strong>vestito anche la scrittura letteraria, specie quella dei best seller.<br />

«Lo accompagnai <strong>in</strong> ospedale. Abbracciò forte la mamma. Le disse<br />

parole di conforto. Poi portarono Stella. Lui la guardò <strong>in</strong> silenzio, confuso».<br />

Nel romanzo di Walter Veltroni, La scoperta <strong>del</strong>l’alba (pubblicato<br />

da Rizzoli nel 2006: oltre centomila copie vendute nei primi due giorni<br />

dall’uscita), la media – calcolata a campione – rimane al di sotto <strong>del</strong>le<br />

10 parole per periodo; gran parte dei periodi è composta da una sola<br />

proposizione; la subord<strong>in</strong>azione non scende mai oltre il primo grado.<br />

Come si vede, la brevità dei periodi è spesso dovuta all’uso abnorme <strong>del</strong><br />

punto fermo. Un fenomeno già segnalato nella scrittura giornalistica di<br />

f<strong>in</strong>e anni sessanta (cfr. Frescaroli, 1968, pp. 21-3), poi dilagante a partire<br />

dagli anni novanta (cfr. Gatta, 2004, pp. 269-71), che va <strong>in</strong>quadrato <strong>in</strong> un<br />

più generale processo di semplificazione <strong>del</strong>la punteggiatura.<br />

A fronte di un ricorso sempre più frequente alla punteggiatura espressiva,<br />

<strong>in</strong>fatti (punti esclamativi e punti di sospensione: L’Italia è una Re-<br />

8. Per un s<strong>in</strong>tetico ma articolato quadro <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo, cfr. D’Achille<br />

(2010 [2003]).<br />

9. Nei limiti e nelle condizioni emerse da studi come Schneider (1999) e Lombardi<br />

Vallauri (2003).<br />

22


1. LINGUA<br />

pubblica fondata sui punt<strong>in</strong>i di sospensione, scherzava Eco, 1992), sta prendendo<br />

piede un «estremismo <strong>in</strong>terpuntorio» (Garavelli, 2003, p. 67). Ovvero<br />

un uso che privilegia il sistema bipartito virgola per pausa breve, punto<br />

fermo per pausa forte, a scapito <strong>del</strong>la cosiddetta punteggiatura <strong>in</strong>termedia<br />

(due punti e punto e virgola). Non sarà un caso che il T9 di molti<br />

telefoni cellulari offra <strong>in</strong> sequenza punto, virgola, tratt<strong>in</strong>o, punto <strong>in</strong>terrogativo,<br />

punto esclamativo, apostrofo, chiocciola e solo <strong>in</strong> fondo alla lista i<br />

due punti e il punto e virgola. Ma la tendenza è riscontrabile ben oltre i<br />

conf<strong>in</strong>i <strong>del</strong>la scrittura digitata. Se ancora nel 2001 tutti i libri f<strong>in</strong>alisti al premio<br />

Strega usavano regolarmente il punto e virgola (con l’eccezione di Annalucia<br />

Lomunno, classe 1972: cfr. Serianni, 2001), nel suo best seller <strong>del</strong><br />

2008 – La solitud<strong>in</strong>e dei numeri di primi, più di un milione di copie vendute<br />

a oggi solo <strong>in</strong> Italia – Paolo Giordano (classe 1982) usa soltanto punti<br />

fermi, virgole e qualche sparuto quanto <strong>in</strong>evitabile punto <strong>in</strong>terrogativo.<br />

ICONICITÀ<br />

In compenso, due punti e punti e virgola sono molto usati negli emoticons,<br />

le “facc<strong>in</strong>e” ottenute comb<strong>in</strong>ando tratt<strong>in</strong>i, parentesi e segni di punteggiatura<br />

che appaiono con grande frequenza nelle chat e nelle e-mail<br />

<strong>in</strong>formali, un po’ meno negli SMS (perché scomode da digitare sulla tastiera<br />

<strong>del</strong> telefono). Le facc<strong>in</strong>e sono una <strong>del</strong>le tante soluzioni <strong>del</strong>la scrittura<br />

digitata miranti a restituire gli aspetti non verbali <strong>del</strong> parlato faccia<br />

a faccia: la mimica, appunto, ma anche l’<strong>in</strong>tonazione e il volume <strong>del</strong>la voce,<br />

la gestualità. Soluzioni che, da un punto di vista l<strong>in</strong>guistico, si possono<br />

def<strong>in</strong>ire iconiche. Nella stessa direzione vanno le onomatopee come<br />

smack, brrr, eccì, pruuuuuu!; la resa emotiva affidata all’uso <strong>del</strong> maiuscolo<br />

(«c’è il PORCONE mascherato da docile PECORELLA»), all’iterazione<br />

vocalica (ciaooo, arrivooooo), a tratt<strong>in</strong>i e asterischi (che servono a mettere<br />

*qualcosa* <strong>in</strong> particolare e-v-i-d-e-n-z-a).<br />

Facc<strong>in</strong>e escluse, non si tratta certo di novità. Moltissimi, ad esempio,<br />

i punti di contatto che chat, e-mail e SMS presentano con le lettere di adolescenti<br />

degli anni ottanta. In quelle lettere, notava D<strong>in</strong>ale (2001, p. 57),<br />

«compaiono numerosi elementi extral<strong>in</strong>guistici, che possono essere considerati<br />

gli equivalenti grafici di risorse espressive non-verbali quali sguardi,<br />

gesti, espressioni facciali». E segnalava la presenza di cumuli <strong>in</strong>terpuntivi<br />

ispirati alla l<strong>in</strong>gua dei fumetti e <strong>del</strong>la pubblicità (??, !!!, !?!?); di<br />

simbolismi iconici e fonici come onomatopee, acrostici, disegn<strong>in</strong>i stilizzati<br />

(«che 0 0!» “che palle!”); di grafie espressive (come le più bbone o<br />

ciaoooo); oltre al largo uso di sottol<strong>in</strong>eature, alternanze stampatello/corsivo,<br />

freccette e molti altri espedienti grafici (frasi a raggiera, a festone, a<br />

23


MODERNITÀ ITALIANA<br />

nuvoletta, a quadro). Una iconicità che deve molto – anche se non consapevolmente<br />

– a quella <strong>del</strong> l<strong>in</strong>guaggio pubblicitario, <strong>in</strong> cui erano normali<br />

f<strong>in</strong> dai decenni precedenti soluzioni come «cafffè Camer<strong>in</strong>o, il caffè con<br />

tre effe» e «la refrigerazione Costan brrrevetta il freddo» (più tardi anche<br />

Brr Brancamenta o «siamo tutti soffffffici, soffffffici Fay») e spesseggiavano<br />

trovate grafiche come «perché seduti anziché S.D.R.A.I.A.T.I. f<strong>in</strong>o agli<br />

USA?» o «c<strong>in</strong> contriamo con C<strong>in</strong> Soda» (cfr. Arcangeli, 2008, p. 58) 10 .<br />

F<strong>in</strong> dagli anni settanta, d’altra parte, l’iconismo non ha riguardato<br />

solo il modo di scrivere le parole, ma anche quello di organizzare e presentare<br />

i testi. «Con immag<strong>in</strong>i e iconismi di varia natura, prima il rotocalco<br />

poi il quotidiano, hanno com<strong>in</strong>ciato a mimare la “visibilità” e il<br />

parlato-parlato <strong>del</strong>la televisione» (Dardano, 2008 [1994], p. 250). Oggi è<br />

normale che <strong>in</strong> una pag<strong>in</strong>a di giornale «riepiloghi storici, argomenti collaterali,<br />

testimonianze, <strong>in</strong>terviste, statistiche, glossari» (<strong>in</strong>sieme a elementi<br />

visivi come foto e grafici e a microtesti come sommari, didascalie,<br />

trafiletti, riquadri) si dispongano <strong>in</strong>torno al testo centrale secondo una<br />

«struttura a stella» spiccatamente iconica (ibid.). Una tendenza che, fortemente<br />

condizionata dall’abitud<strong>in</strong>e <strong>del</strong>la lettura a schermo, co<strong>in</strong>volge<br />

ultimamente anche la scrittura professionale: basti pensare al corredo di<br />

elenchi punti, rientri, frecce usato sull’esempio <strong>del</strong>la scrittura-cartello<br />

veicolata prima dalle diapositive e dai lucidi, poi dalle presentazioni <strong>in</strong><br />

power po<strong>in</strong>t.<br />

L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/1<br />

A proposito di iconismo, per rendere anche visivamente l’evoluzione<br />

<strong>del</strong>l’italiano <strong>in</strong> questi quarant’anni, si è scelto di riportare – <strong>in</strong> fondo a<br />

ognuna <strong>del</strong>le tre parti <strong>in</strong> cui è strutturato questo contributo – uno schema<br />

s<strong>in</strong>ottico (FIG. 1). Il primo è quello con cui Wandruska (1974, p. 6),<br />

pur riconoscendo che «non è facile raffigurare la polifonia socio-culturale<br />

di una l<strong>in</strong>gua umana senza <strong>in</strong>correre <strong>in</strong> geometrizzazioni abusive»<br />

(ivi, p. 5), prova a s<strong>in</strong>tetizzare la situazione <strong>del</strong>l’italiano all’<strong>in</strong>izio degli anni<br />

settanta.<br />

10. Un aspetto, questo, per cui si potrebbe risalire f<strong>in</strong>o al futurismo, con la sua stretta<br />

<strong>in</strong>terazione tra scrittura e arti visive che portava a soluzioni grafiche («fffiiiischia»,<br />

«goonfio» <strong>in</strong> una Tavola parolibera di Francesco Cangiullo) o tipografiche («SOLE colossale<br />

blocco di sapone» nelle Rarefazioni e parole <strong>in</strong> libertà di Corrado Govoni) miranti a ricondurre<br />

le parole non tanto al senso, quanto ai sensi. Tra tutti, l’udito, come nella ben nota<br />

Fontana malata di Palazzeschi («Clof, clop, cloch, / cloffete, / cloppete, / clocchete, /<br />

chchch») o nel mar<strong>in</strong>ettiano Zang rumb tumb («sulla spiaggia <strong>del</strong> silenzio bulgaro mare<br />

agonie eleganti Nizza Menton Sanremo patapum-pluff ONDA fraaaaaah GHIAIA»).<br />

24


1. LINGUA<br />

FIGURA 1<br />

L’architettura <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo (Wandruska, 1974)<br />

Poetoletti<br />

locale<br />

regionale<br />

Regioletti<br />

Dialetti<br />

registro letterario<br />

LINGUA STANDARD<br />

l<strong>in</strong>gua parlata<br />

familiare<br />

popolare<br />

Socioletti<br />

Adottando una term<strong>in</strong>ologia che oggi ci appare datata 11 , Wandruska colloca<br />

al di sopra <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua standard un ventaglio di varietà settoriali che<br />

scende dai poetoletti (facili all’arcaismo) verso i tecnoletti (i più ricchi di<br />

«europeismi» e «<strong>in</strong>ternazionalismi»). Al di sotto si situano, <strong>in</strong>vece, le varietà<br />

locali («utilissimo il term<strong>in</strong>e regioletto»: ivi, p. 6) e quelle socialmente<br />

caratterizzate (socioletti, appunto), f<strong>in</strong>o ai gerghi («si pensi ai tecnoletti-socioletti<br />

dei vari sottogruppi e sottoculti marg<strong>in</strong>ali [...] al gergo<br />

hippy, a quello <strong>del</strong>la droga...»: ivi, p. 10).<br />

L’italiano nella società dei consumi:<br />

gli anni settanta e ottanta<br />

Il punto da cui partire per ricostruire la storia <strong>del</strong>l’italiano moderno è,<br />

come s’è detto, il dibattito sorto alla metà degli anni sessanta <strong>in</strong>torno al-<br />

11. E rifiutando, <strong>in</strong>vece, quella dest<strong>in</strong>ata a diventare di uso generale: «Leiv Flydal s<strong>in</strong><br />

dal 1952 aveva proposto di nom<strong>in</strong>are («sulla scia <strong>del</strong> dia-letto e <strong>del</strong> neologismo saussuriano<br />

dia-cronico») diatopico tutto ciò che è varietà regionale, diastratico i vari registri sociali;<br />

coniature non molto felici, e ancora meno felice diafasico, aggiunto da Eugenio Coseriu<br />

per designare i vari “tipi di modalità espressiva”» (Wandruska, 1974, p. 4).<br />

25<br />

religioso<br />

filosofico<br />

ufficiale giuridico<br />

medico<br />

scientifico<br />

tecnologico<br />

sportivo<br />

ecc. ecc.<br />

gerghi<br />

Tecnoletti


MODERNITÀ ITALIANA<br />

le posizioni di Pier Paolo Pasol<strong>in</strong>i. Raccogliendo <strong>in</strong> volume i pr<strong>in</strong>cipali<br />

<strong>in</strong>terventi di quella Nuova questione <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua, Oronzo Parlangèli confuta<br />

recisamente l’assunto di Pasol<strong>in</strong>i («cioè che <strong>in</strong> Italia non esiste una<br />

vera e propria l<strong>in</strong>gua nazionale»), ed esclama: «<strong>in</strong>vece, la l<strong>in</strong>gua nazionale<br />

esiste ed è vera!» (Parlangèli, 1971 [1969], p. 22). Ma l’affermazione,<br />

qualche pag<strong>in</strong>a più avanti, si rivela più che altro un auspicio: «una l<strong>in</strong>gua<br />

<strong>italiana</strong>, dignitosa ma non pedante, vivace ma non sguaiata, è un traguardo<br />

che merita d’essere raggiunto. Quella l<strong>in</strong>gua comune ci appare<br />

quasi come un “miracolo”: ma si potrà raggiungere soltanto se gli Italiani<br />

leggeranno più libri, se i giornali saranno più diffusi e più facili, se la<br />

TV sarà più istruttiva, ma soprattutto se nella scuola si <strong>in</strong>segnerà veramente<br />

l’italiano» (ivi, p. 36).<br />

Solo alcune di queste condizioni si realizzeranno negli anni a venire.<br />

Eppure, nel giro di due decenni, l’italiano riuscirà a diventare f<strong>in</strong>almente<br />

una vera l<strong>in</strong>gua nazionale, superando quegli ostacoli che un secolo di<br />

unità politica non era bastato a superare: «Uno è l’affermazione nei confronti<br />

<strong>del</strong> dialetto [...]. L’altro aspetto è l’affermazione di un italiano medio<br />

usuale, cioè di un mo<strong>del</strong>lo l<strong>in</strong>guistico per l’uso quotidiano <strong>del</strong>la collettività»<br />

(Peruzzi, 1964 [1961], pp. 6-7).<br />

DAL DIALETTO ALL’ITALIANO REGIONALE<br />

Dal primo dei due aspetti ripartivano, nella loro descrizione <strong>del</strong>l’italiano<br />

contemporaneo, Giacomo Devoto e Maria Luisa Altieri Biagi (1979<br />

[1968], p. 271):<br />

In cento anni di unità nazionale la l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong>la «repubblica letteraria» è diventata<br />

la l<strong>in</strong>gua di tutti gli italiani [...]. È <strong>in</strong>negabile che il ruolo dei dialetti,<br />

negli ultimi decenni, sia diventato di secondo piano. I dialetti non si pongono<br />

più come alternativa: annacquano le loro caratteristiche più spiccate (lessicali,<br />

morfologiche, s<strong>in</strong>tattiche, fonetiche) <strong>in</strong> un progressivo accostamento alla<br />

l<strong>in</strong>gua nazionale.<br />

La progressiva diffusione <strong>del</strong>la conoscenza <strong>del</strong>l’italiano implica un <strong>in</strong>debolimento<br />

dei dialetti sia sotto il profilo quantitativo (sempre meno<br />

persone che si esprimono <strong>in</strong> dialetto o soltanto <strong>in</strong> dialetto), sia sotto il<br />

profilo qualitativo (progressivo avvic<strong>in</strong>amento dei dialetti all’italiano) 12 .<br />

Il primo processo è quello più clamoroso ed evidente, con le maggiori<br />

12. È quella che è stata def<strong>in</strong>ita la «trasfigurazione dei dialetti» (Francescato, 1986):<br />

una tendenza che, nel giro di qualche decennio, ha portato a dist<strong>in</strong>guere nettamente tra<br />

dialetto «arcaico» e dialetto «moderno» (Marcato, 2002a, pp. 53-69).<br />

26


1. LINGUA<br />

TABELLA 1<br />

I sondaggi Doxa degli anni settanta e ottanta<br />

– Domanda: Quando parla con i suoi familiari, lei che cosa fa di solito?<br />

1974 1982 1988<br />

parlo con tutti i familiari <strong>in</strong> dialetto 51,3% 46,7% 39,6%<br />

parlo con tutti i familiari <strong>in</strong> italiano 25,0% 29,4% 34,4%<br />

con qualcuno parlo <strong>in</strong> dialetto e con altri <strong>in</strong> italiano 23,7% 23,9% 26,0%<br />

– Domanda: Quando lei parla fuori di casa, cioè con gli amici, con i compagni di lavoro,<br />

che cosa fa, di solito?<br />

1974 1982 1988<br />

parlo sempre <strong>in</strong> dialetto 28,9% 23,0% 23,3%<br />

parlo più spesso <strong>in</strong> dialetto 13,4% 13,1% 9,9%<br />

parlo sia <strong>in</strong> dialetto che <strong>in</strong> italiano 22,1% 22,0% 19,5%<br />

parlo più spesso <strong>in</strong> italiano 12,9% 15,2% 16,3%<br />

parlo sempre <strong>in</strong> italiano 22,7% 26,7% 31,0%<br />

ricadute sociali. Se f<strong>in</strong>o agli anni sessanta i dati sulla diffusione di italiano<br />

e dialetto possono essere ricavati solo <strong>in</strong>direttamente da altri fattori<br />

(come l’alfabetizzazione o il livello di istruzione) 13 , dal decennio successivo<br />

si com<strong>in</strong>cia a disporre di dati statistici più o meno ampi.<br />

I primi sono – nel 1974, 1982 e 1988 – quelli dei sondaggi Doxa (TAB. 1),<br />

<strong>in</strong> cui veniva chiesto a un campione tra i mille e i duemila <strong>in</strong>tervistati di<br />

valutare il proprio modo di parlare. Per quanto riguarda il dialetto, si registra<br />

<strong>in</strong> qu<strong>in</strong>dici anni una dim<strong>in</strong>uzione che è all’<strong>in</strong>circa <strong>del</strong> 10% fuori di<br />

casa e <strong>del</strong> 12% <strong>in</strong> casa; per l’italiano un aumento <strong>del</strong> 12% fuori di casa e<br />

<strong>del</strong> 9% <strong>in</strong> casa. Tuttavia, mentre nell’uso fuori di casa l’italiano supera il<br />

dialetto già nel 1982, nell’uso <strong>in</strong> famiglia il dialetto risulta maggioritario<br />

ancora alla f<strong>in</strong>e degli anni ottanta.<br />

Nello stesso 1988, però, dati diversi emergono da un’<strong>in</strong>chiesta <strong>del</strong>l’ISTAT<br />

basata sullo stesso meccanismo <strong>del</strong>l’autovalutazione, ma su un<br />

campione molto più ampio. In questo caso, «il l<strong>in</strong>guaggio abitualmente<br />

usato <strong>in</strong> famiglia» è solo o prevalentemente italiano per il 41,9%<br />

degli italiani, solo o prevalentemente il dialetto per il 31,9%, sia italiano<br />

che dialetto per il 25%; «il l<strong>in</strong>guaggio abitualmente usato con estra-<br />

13. Secondo i calcoli di De Mauro (1970 [1963], p. 131), nel 1951 «per oltre quattro qu<strong>in</strong>ti<br />

<strong>del</strong>la popolazione <strong>italiana</strong> il dialetto era ancora abituale e per quasi due terzi [...] era l’idioma<br />

d’uso normale nel parlare <strong>in</strong> ogni circostanza».<br />

27


MODERNITÀ ITALIANA<br />

nei» è solo o prevalentemente l’italiano per il 64,1%, solo o prevalentemente<br />

l’italiano per il 13,9%, sia l’uno che l’altro per il 20,3%. Una<br />

situazione nettamente più sbilanciata a favore <strong>del</strong>l’italiano, che – stando<br />

così le cose – sarebbe la l<strong>in</strong>gua di gran lunga più usata con gli estranei,<br />

ma anche (sia pure da meno di metà degli italiani) <strong>in</strong> famiglia 14 . In<br />

ogni caso, vale ancora – a quest’epoca – l’osservazione fatta quasi dieci<br />

anni prima da Manlio Cortelazzo (1980, p. 22): «i dialetti, lontanissimi<br />

dall’est<strong>in</strong>zione, cont<strong>in</strong>uano ad essere usati <strong>in</strong> circostanze diverse,<br />

non come parlata esclusiva, ma <strong>in</strong> situazioni di diglossia e/o bil<strong>in</strong>guismo,<br />

con acquisti sempre più numerosi e fitti, e non solo nel lessico,<br />

dall’italiano».<br />

L’abitud<strong>in</strong>e a parlare l’una e l’altra l<strong>in</strong>gua porta a una permeabilità<br />

sempre maggiore <strong>in</strong> entrambe le direzioni. Secondo i calcoli fatti da<br />

Trifone (<strong>2011</strong>, pp. 157-60) sull’edizione digitale <strong>del</strong> GRADIT, più <strong>del</strong>la metà<br />

<strong>del</strong>le parole dialettali e regionali censite da quel vocabolario è entrata <strong>in</strong><br />

italiano dopo l’Unità (3.648 parole datate tra 1861 e 2000 contro le 2.386<br />

dalle orig<strong>in</strong>i al 1860). In particolare, «nella seconda metà <strong>del</strong> Novecento,<br />

dal 1951 al Duemila, si sarebbero diffuse nella nostra l<strong>in</strong>gua 1.664 parole<br />

dialettali o regionali». Anche se l’afflusso si affievolisce via via che il dialetto<br />

perde terreno sull’italiano:<br />

dalla fase di transizione costituita dagli anni C<strong>in</strong>quanta [691 parole], all’affermazione<br />

<strong>del</strong> consumismo con i suoi stili di vita e i connessi mutamenti sociol<strong>in</strong>guistici<br />

negli anni Sessanta [310 parole], al consolidamento dei processi paralleli<br />

di italianizzazione e sdialettizzazione negli anni Settanta [191 parole], f<strong>in</strong>o<br />

al superamento <strong>del</strong> tabù dialettale da parte di una comunità di parlanti ormai<br />

largamente italofona negli anni Ottanta [260 parole] e Novanta [212 parole]<br />

(ivi, p. 159).<br />

I conf<strong>in</strong>i tra l<strong>in</strong>gua e dialetto tendono sempre più ad assottigliarsi. Già<br />

nel 1959, Giovan Battista Pellegr<strong>in</strong>i soffermava la sua attenzione sul<br />

«settore che possiamo def<strong>in</strong>ire mediano tra “l<strong>in</strong>gua e dialetto”», ovvero<br />

«tra i due poli opposti <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua letteraria (o, meglio, italiano<br />

standard) e <strong>del</strong> dialetto schietto (che tende a sparire)». In quel settore<br />

potevano <strong>in</strong>dividuarsi, «non senza difficoltà di separazione o d’<strong>in</strong>dividuazione»,<br />

due varietà dist<strong>in</strong>te: l’italiano regionale e le ko<strong>in</strong>ài dia-<br />

14. «La discrepanza a favore <strong>del</strong>l’italofonia nei dati ISTAT rispetto a quelli Doxa si potrebbe<br />

<strong>in</strong> parte spiegare con la presenza <strong>del</strong>la classe d’età più giovane, molto propensa all’italofonia.<br />

Nei sondaggi Doxa sono esclusi dall’<strong>in</strong>tervista parlanti al di sotto dei qu<strong>in</strong>dici<br />

anni», nelle <strong>in</strong>chieste ISTAT si prende <strong>in</strong> considerazione la popolazione dai sei anni <strong>in</strong><br />

su (Berruto, 1994, p. 43).<br />

28


1. LINGUA<br />

lettali o dialetti regionali (Pellegr<strong>in</strong>i, 1975 [1959], pp. 11-2). Ne veniva<br />

fuori una stratificazione a quattro livelli – italiano, italiano regionale,<br />

dialetto regionale, dialetto locale – che per diversi anni avrebbe rappresentato,<br />

con m<strong>in</strong>ime varianti, il mo<strong>del</strong>lo condiviso <strong>del</strong> repertorio<br />

l<strong>in</strong>guistico italiano 15 .<br />

Tra la f<strong>in</strong>e degli anni settanta e i primi anni ottanta, gli studi sull’uso<br />

<strong>del</strong> dialetto (Sornicola, 1977; Trumper, 1984; Berruto, 1985) mettono<br />

<strong>in</strong> evidenza la frequenza sempre maggiore, nel parlato spontaneo,<br />

dei fenomeni di code switch<strong>in</strong>g e code mix<strong>in</strong>g, cioè <strong>del</strong>l’abitud<strong>in</strong>e ad alternare<br />

nel discorso le due varietà o a mescolarle anche all’<strong>in</strong>terno di<br />

una stessa frase. Il rapporto tra l<strong>in</strong>gua e dialetto non è più descrivibile<br />

<strong>in</strong> term<strong>in</strong>i di contrapposizione, e neanche di gradatum a quattro o più<br />

livelli, ma di cont<strong>in</strong>uum, ovvero di un <strong>in</strong>sieme separato da una serie<br />

tendenzialmente <strong>in</strong>f<strong>in</strong>ita di possibilità <strong>in</strong>termedie che sfumano l’una<br />

nell’altra («cont<strong>in</strong>uum con addensamenti», lo def<strong>in</strong>isce Berruto, 1987,<br />

p. 29). Come dire che all’<strong>in</strong>terno dei due estremi <strong>del</strong>la dialettofonia e<br />

<strong>del</strong>l’italofonia esclusiva (limitate sempre più a particolari contesti o situazioni),<br />

la comunicazione quotidiana <strong>in</strong>formale è rappresentata ormai<br />

da una l<strong>in</strong>gua <strong>in</strong> cui, <strong>in</strong> diversa forma e misura, italiano e dialetto<br />

vengono mescidati.<br />

Sempre <strong>in</strong> quegli anni, le varietà regionali – dapprima «considerate<br />

una tappa <strong>in</strong>termedia verso la standardizzazione l<strong>in</strong>guistica, un passaggio<br />

necessario nel lungo camm<strong>in</strong>o che dalla dialettofonia porta all’italofonia»<br />

– conoscono una legittimazione culturale» tale da consentirne<br />

«un “rilancio” prima <strong>del</strong> tutto imprevedibile» (Sobrero, 1978, p. 210). E<br />

questo anche grazie alla rivoluzione avvenuta nella comunicazione radiotelevisiva:<br />

con la fortuna e la proliferazione eccezionale <strong>del</strong>le emittenti locali uno strumento<br />

di comunicazione che s<strong>in</strong>o a due-tre anni fa era unanimemente ritenuto<br />

il pr<strong>in</strong>cipale fattore di standardizzazione l<strong>in</strong>guistica si è radicalmente trasformato,<br />

offrendo all’ascoltatore la disponibilità ricettiva – e produttiva – di un italiano<br />

geograficamente connotato, che è, nella maggior parte dei casi, la varietà<br />

usata dai presentatori e dagli annunciatori <strong>del</strong>le emittenti locali (ivi, p. 211).<br />

«Le <strong>in</strong>chieste sull’italiano regionale» si avviano così a diventare «la fonte<br />

più utile per la conoscenza <strong>del</strong>l’italiano parlato» (Nencioni, 1989<br />

[1973], p. 256) e, giunti agli anni novanta, «la vera realtà parlata <strong>del</strong>l’italiano<br />

sono gli italiani regionali» (Mengaldo, 1994, p. 98).<br />

15. Sulla storia e l’evoluzione <strong>del</strong> concetto di italiano regionale, cfr. L’italiano e le regioni<br />

(2002; <strong>in</strong> particolare Marcato, 2002b, pp. 53-69) e D’Achille (2001).<br />

29


MODERNITÀ ITALIANA<br />

DALL’ITALIANO POPOLARE ALL’ITALIANO DELL’USO MEDIO<br />

L’italiano regionale, dunque, non è solo la l<strong>in</strong>gua di chi ha per l<strong>in</strong>gua madre<br />

il dialetto: è anche – <strong>in</strong> condizioni d’<strong>in</strong>formalità – una forma d’espressione<br />

<strong>del</strong>le persone colte 16 . Questo lo differenzia nettamente dal cosiddetto<br />

«italiano popolare», varietà <strong>in</strong>dividuata per la prima volta da De<br />

Mauro (1970a, p. 43: «il modo di esprimersi di un <strong>in</strong>colto che, sotto la sp<strong>in</strong>ta<br />

di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente<br />

si chiama l<strong>in</strong>gua “nazionale”») e sistematicamente descritta da Cortelazzo<br />

(1976 [1972], p. 11), che la def<strong>in</strong>isce «il tipo di italiano imperfettamente<br />

acquisito da chi ha per madrel<strong>in</strong>gua il dialetto». Esemplificata quasi<br />

sempre con esempi di l<strong>in</strong>gua scritta e suscettibile di essere applicata anche<br />

a testi prodotti nei secoli precedenti, l’etichetta <strong>in</strong>dividua – stavolta<br />

sì – quella che oggi si def<strong>in</strong>irebbe un’“<strong>in</strong>terl<strong>in</strong>gua”, vale a dire l’<strong>in</strong>sieme di<br />

“errori” comuni dovuti all’<strong>in</strong>sufficiente conoscenza di una l<strong>in</strong>gua diversa<br />

dalla l<strong>in</strong>gua madre. Questa matrice comune era enfatizzata sia da De Mauro<br />

(1970a, p. 43), che parlava esplicitamente di «italiano popolare unitario»,<br />

sia da Cortelazzo (1976 [1972], p. 13): «sebbene sorto dalla multiforme<br />

matrice di <strong>in</strong>numerevoli varietà dialettali, l’italiano popolare presenta<br />

sorprendenti caratteri comuni, che lo rendono, al di là <strong>del</strong>le superficiali variegature<br />

di provenienza locale, fondamentalmente unitario nella forma e<br />

nella sostanza». Questa «impressione di unitarietà [...] è stata poi molto ridimensionata<br />

negli studi successivi» (D’Achille, <strong>2011</strong>, p. 724), e all’etichetta<br />

di italiano popolare si è spesso preferita quella di italiano dei semicolti<br />

(cioè di coloro che «pur essendo alfabetizzati, non hanno acquisito una<br />

piena competenza <strong>del</strong>la scrittura»: D’Achille, 1994, p. 40) 17 .<br />

Ancora per tutti gli anni ottanta, tuttavia, le nozioni di italiano regionale<br />

e italiano popolare tenderanno a confondersi e a essere identificate<br />

con l’«italiano tendenziale» (Mioni, 1983), ovvero con quello che <strong>in</strong><br />

proiezione si pensava sarebbe diventato l’italiano <strong>del</strong> futuro. Del futuro<br />

forse, ma nel presente di quegli anni ancora un italiano scorretto, sbagliato,<br />

pieno di usi e costrutti tutt’altro che accettati dalla coscienza l<strong>in</strong>guistica<br />

collettiva. Un italiano, <strong>in</strong>somma, al di sotto di quell’uso medio<br />

che Sabat<strong>in</strong>i (1985) descriveva sulla base di una vent<strong>in</strong>a di fenomeni<br />

grammaticali e micros<strong>in</strong>tattici. Tra i pr<strong>in</strong>cipali: l’uso di lui, lei e loro <strong>in</strong><br />

funzione di soggetto 18 ; i tipi c(i) ho (“ci attualizzante”) e il caffè lo bevo<br />

amaro per bevo il caffè amaro (“dislocazione”); il ci locativo al posto di<br />

16. Cfr. almeno Sabat<strong>in</strong>i (1985, p. 176); Telmon (1994, p. 609) e Avolio (1994, p. 574).<br />

17. La def<strong>in</strong>izione di semicolti è stata promossa da Bruni (1984, pp. 144-89).<br />

18. All’altezza dei primi anni novanta, nel Lessico di frequenza <strong>del</strong>l’italiano parlato<br />

(LIP), «il rapporto egli/lui è mediamente di 1/20 (ma egli è assente dai testi meno forma-<br />

30


1. LINGUA<br />

vi; la preferenza per questo rispetto a ciò e per siccome, perché, quando<br />

nei confronti di poiché, giacché, allorché; la maggiore diffusione di costrutti<br />

con l’<strong>in</strong>dicativo al posto <strong>del</strong> congiuntivo (penso che è bello) e il<br />

presente al posto <strong>del</strong> futuro (domani parto); una generale estensione degli<br />

impieghi <strong>del</strong>l’imperfetto <strong>in</strong>dicativo (come nel periodo ipotetico: se lo<br />

sapevo non venivo). A un livello che ancora oggi risulta accettato solo <strong>in</strong><br />

registri <strong>in</strong>formali (e comunque non nello scritto), anche l’uso di gli per<br />

“a lei” e “a loro”; le forme ’sto e ’sta per questo e questa; l’uso di costrutti<br />

come a me mi o il ragazzo che ci ho parlato ieri.<br />

In molti casi – come lo stesso Sabat<strong>in</strong>i faceva notare – si tratta di usi<br />

attestati nella nostra l<strong>in</strong>gua f<strong>in</strong> da epoca molto antica, a volte corrispondenti<br />

a tendenze <strong>del</strong> parlato che già dall’<strong>in</strong>izio <strong>del</strong>l’Ottocento com<strong>in</strong>ciano<br />

a far breccia nello scritto 19 . L’impiego di lui, lei e loro come pronomi<br />

soggetto, ad esempio, è una <strong>del</strong>le novità <strong>in</strong>trodotte da Alessandro Manzoni<br />

nella seconda edizione dei Promessi sposi (1840-42). I cambiamenti<br />

rispetto al passato, dunque, non possono essere def<strong>in</strong>iti <strong>in</strong> term<strong>in</strong>i di<br />

contraddizione, quanto piuttosto di avanzamento quantitativo e soprattutto<br />

qualitativo: nel senso, cioè, <strong>del</strong>l’ascesa di alcuni tratti prima relegati<br />

alle varietà più basse <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua f<strong>in</strong>o ai registri di maggior prestigio.<br />

Il fatto nuovo è proprio la conquistata accettabilità di quei tratti anche<br />

<strong>in</strong> contesti <strong>in</strong> cui prima non erano permessi: una «risalita verso la<br />

norma (certamente orale, <strong>in</strong> gran parte anche scritta) di esiti, <strong>in</strong> genere<br />

riscontrabili da tempo nella l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong>, f<strong>in</strong>o ad ora considerati non<br />

standard, normativamente non accettabili» (Cortelazzo, 1995, p. 109) che<br />

fa di questo italiano <strong>del</strong>l’uso medio l’equivalente di un «neostandard»<br />

(Berruto, 1987, pp. 23-4 e 62-5).<br />

DALLA NORMA ALLA CONTESTAZIONE<br />

In una l<strong>in</strong>gua viva, d’altra parte, la norma è un concetto d<strong>in</strong>amico, <strong>in</strong><br />

cont<strong>in</strong>ua evoluzione. La norma degli utenti – scriveva Antonio Gramsci<br />

nei suoi Quaderni <strong>del</strong> carcere – è def<strong>in</strong>ita «dal controllo reciproco, dall’<strong>in</strong>segnamento<br />

reciproco, dalla “censura” reciproca»: «tutto questo<br />

complesso di azioni e reazioni confluiscono a determ<strong>in</strong>are un conformismo<br />

grammaticale, cioè a stabilire “norme” o giudizi di correttezza o di<br />

scorrettezza» (cit. <strong>in</strong> Tesi, 2005, p. 210). Nel secondo Novecento, svanito<br />

il potere mo<strong>del</strong>lizzante dei testi letterari, cont<strong>in</strong>uano ovviamente a es-<br />

li), ella risulta def<strong>in</strong>itivamente scomparso» (Sobrero, 1993, p. 414) e anche nei quotidiani<br />

la preferenza per lui/lei/loro risulta schiacciante (Bonomi, 1993, pp. 182-5).<br />

19. Tanto che Castellani (1991) li riconduceva all’«italiano normale» o «senz’aggettivi».<br />

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MODERNITÀ ITALIANA<br />

sere tenuti <strong>in</strong> considerazione i testi normativi per def<strong>in</strong>izione: grammatiche<br />

e dizionari. Ma le maggiori responsabilità nel plasmare la sensibilità<br />

normativa degli utenti spettano senz’altro alla scuola.<br />

Proprio su quest’aspetto puntava polemicamente l’<strong>in</strong>tervento di<br />

don Lorenzo Milani, priore di Barbiana <strong>in</strong> Toscana. La sua Lettera a una<br />

professoressa (1967) ebbe un impatto notevolissimo sulla cultura <strong>del</strong><br />

tempo, ponendo la questione l<strong>in</strong>guistica al centro <strong>del</strong>la scuola e dunque<br />

<strong>del</strong>la società. Conv<strong>in</strong>to che la l<strong>in</strong>gua svolga un ruolo determ<strong>in</strong>ante per<br />

l’<strong>in</strong>tegrazione sociale dei poveri, don Milani denunciò la complessità e<br />

l’artificiosità <strong>del</strong>l’italiano che si <strong>in</strong>segnava a scuola: «Bisognerebbe <strong>in</strong>tendersi<br />

su cosa sia l<strong>in</strong>gua corretta. Le l<strong>in</strong>gue le creano i poveri e poi seguitano<br />

a r<strong>in</strong>novarle all’<strong>in</strong>f<strong>in</strong>ito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere<br />

chi non parla come loro». Non solo: la l<strong>in</strong>gua aulica <strong>in</strong>segnata a<br />

scuola era – a suo modo di vedere – dannosa per tutti: «Ai poveri toglie<br />

il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza <strong>del</strong>le cose». Di qui<br />

l’esigenza di «elim<strong>in</strong>are ogni parola che non usiamo parlando» e il sogno<br />

di una l<strong>in</strong>gua «che possa essere letta da tutti, fatta di parola d’ogni giorno».<br />

Infatti, «è solo la l<strong>in</strong>gua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e<br />

<strong>in</strong>tende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta<br />

che parli» (Lettera, 1967, pp. 18, 104, 96).<br />

Molto polemico nei confronti <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>segnamento l<strong>in</strong>guistico impartito<br />

a scuola era anche Tullio De Mauro, che già qualche anno prima aveva<br />

denunciato la scarsa capacità <strong>del</strong>la scuola nel promuovere realmente<br />

l’italofonia:<br />

Se la situazione l<strong>in</strong>guistica <strong>del</strong> paese si è andata modificando, se sempre crescente<br />

è stato di anno <strong>in</strong> anno il numero degli italofoni, ciò è dipeso non tanto<br />

dall’azione <strong>del</strong>la scuola, quanto da altri fattori: <strong>in</strong>dustrializzazione, migrazioni<br />

<strong>in</strong>terne, urbanesimo, allargamento <strong>del</strong> dibattito politico a ceti più vasti, adozione<br />

dei mezzi di <strong>in</strong>formazione e di spettacolo di massa, hanno consentito e imposto<br />

a masse enormi di <strong>in</strong>dividui di varie regioni di venire a contatto fra loro e<br />

di venire a conoscere la l<strong>in</strong>gua comune (De Mauro, 1977 [1965], p. 21).<br />

Di qui la battaglia sostenuta <strong>in</strong> prima persona da De Mauro (<strong>in</strong>sieme ad<br />

altri l<strong>in</strong>guisti) perché quell’<strong>in</strong>segnamento fosse svecchiato nelle forme e<br />

nei contenuti: «La scuola tradizionale ha <strong>in</strong>segnato come si deve dire una<br />

cosa. La scuola democratica <strong>in</strong>segnerà come si può dire una cosa, <strong>in</strong> quale<br />

<strong>in</strong>f<strong>in</strong>ito universo di modi dist<strong>in</strong>ti di comunicare noi siamo proiettati<br />

nel momento <strong>in</strong> cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa»<br />

(De Mauro, 1977 [1974], p. 100).<br />

Valga, come esempio <strong>del</strong>l’«italiano artificiale veicolato e codificato»<br />

dalle grammatiche scolastiche di quegli anni e <strong>del</strong>la perfetta convergen-<br />

32


1. LINGUA<br />

za tra «grammatica <strong>del</strong>la società e grammatica <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua», l’autodiacronia<br />

l<strong>in</strong>guistica di Giuseppe Patota (2009, p. 87), nella quale si riporta<br />

un brano <strong>del</strong>la grammatica su cui il futuro l<strong>in</strong>guista – dodicenne – studiava<br />

nel 1968:<br />

Roberto e Mariol<strong>in</strong>a Nerelli sono due fanciulli di dodici e di dieci anni. Roberto<br />

è il primogenito, Mariol<strong>in</strong>a la secondogenita. Essi abitano, con i loro genitori, a<br />

Roma; il loro babbo è funzionario di una Compagnia Aerea e, per questo motivo,<br />

viaggia molto. La loro mamma non ha un lavoro extradomestico; ella è una<br />

casal<strong>in</strong>ga, accudisce alle faccende di casa con l’aiuto di una lavoratrice a ore e si<br />

occupa particolarmente <strong>del</strong>l’educazione e <strong>del</strong>l’istruzione dei suoi due bamb<strong>in</strong>i.<br />

Dopo la diffusione <strong>del</strong>le Dieci tesi per un’educazione l<strong>in</strong>guistica democratica<br />

promosse dal GISCEL (1975), si registra, nel campo <strong>del</strong>le grammatiche<br />

scolastiche, una vigorosa ventata <strong>in</strong>novativa e ant<strong>in</strong>ormativa 20 . Il libro di<br />

grammatica si apre alle nozioni teoriche – soprattutto a quelle <strong>del</strong>lo strutturalismo,<br />

molto <strong>in</strong> voga <strong>in</strong> quegli anni – e r<strong>in</strong>uncia a dare <strong>in</strong>dicazioni assolute<br />

su ciò che è giusto o sbagliato: «le “regole” di una “l<strong>in</strong>gua”, le “leggi”<br />

che bisogna rispettare nel parlarle, non ci sono imposte da Dio, non<br />

sono fissate per l’eternità», proclamava Raffaele Simone nel suo Libro d’italiano<br />

(Simone, 1976, p. 98). Il risultato è, come annota lo stesso Simone<br />

(1980, p. 12), che «quanto alla scuola, f<strong>in</strong>o a un decennio fa la si poteva<br />

tranquillamente accusare di esser lei l’ostacolo più serio ad una seria diffusione<br />

<strong>del</strong>l’italiano. [...] Oggi le cose per fortuna non stanno più così».<br />

Già con gli anni ottanta, però, le grammatiche scolastiche sarebbero tornate<br />

a un atteggiamento più tradizionalmente normativo, sia pure attento<br />

alle variazioni legate ai diversi contesti e ai diversi usi <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua e<br />

aperto alle acquisizioni <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>guistica scientifica 21 .<br />

Si era ormai chiusa (con il cosiddetto “riflusso” verso i valori <strong>del</strong> privato:<br />

lavoro, guadagno, famiglia) la stagione contestataria aperta dal<br />

maggio 1968. Una contestazione che <strong>in</strong> pochi anni era stata <strong>in</strong> grado di<br />

cambiare <strong>in</strong> buona parte il costume l<strong>in</strong>guistico degli italiani. «Moto di<br />

democratizzazione “profonda”, il 1968 ha significato la conquista <strong>del</strong>la<br />

parola per categorie di subalterni e di emarg<strong>in</strong>ati; è nata la contro<strong>in</strong>formazione;<br />

si è affermata una precisa esigenza di controllo sul l<strong>in</strong>guaggio<br />

20. «L’<strong>in</strong>teresse e l’attenzione degli addetti ai lavori <strong>in</strong> l<strong>in</strong>guistica nei riguardi <strong>del</strong>l’educazione<br />

l<strong>in</strong>guistica sta crescendo con rapidità esponenziale» (Berruto, 1979 [1975],<br />

p. 120). Per una rassegna critica <strong>del</strong>le grammatiche scolastiche disponibili <strong>in</strong> quegli anni,<br />

cfr. Cardona, Simone (1971) e Bert<strong>in</strong>etto (1974).<br />

21. «Abbiamo avuto da qualche anno a questa parte un ritorno ad antiche certezze:<br />

lo studio <strong>del</strong>la grammatica e <strong>del</strong>l’analisi logica, le ragioni <strong>del</strong>la norma, i mo<strong>del</strong>li da tener<br />

presente nella pratica dei vari tipi di scrittura» (Dardano, 1994, p. 377).<br />

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MODERNITÀ ITALIANA<br />

politico; sono caduti tabù sociali e l<strong>in</strong>guistici» (Dardano, 1978, p. 244). E<br />

c’è stato anche l’affacciarsi alla ribalta nazionale <strong>del</strong> l<strong>in</strong>guaggio giovanile:<br />

una varietà generazionale che negli anni a venire avrebbe dato un importante<br />

contributo all’italiano colloquiale.<br />

F<strong>in</strong>o alla seconda metà <strong>del</strong> Novecento, «che i figli [...] cercassero un<br />

l<strong>in</strong>guaggio diverso da quello dei padri non passava per la mente né ai genitori<br />

né ai professori» (Nencioni, 1988 [1983], p. 104). Se i primi cenni a<br />

un gergo <strong>del</strong>le signor<strong>in</strong>e snob risalgono addirittura al 1940 («Quel Giorgio<br />

mi piace un pozzo!», «Oggi mi sento racchia, racchissima», «Mi fa<br />

un baffo»: cfr. Lauta, 2006, p. 10), è solo dai primi anni sessanta che si<br />

avverte «presso le classi giovanili <strong>del</strong>la media e <strong>del</strong>l’alta borghesia» una<br />

«tendenza a sovvertire gli equilibri e i pudori <strong>del</strong>la comunicazione verbale»,<br />

dando vita a «un l<strong>in</strong>guaggio che oscilla tra il burlesco e il c<strong>in</strong>ico,<br />

<strong>in</strong>dulge a esibizionismi snobistici, a <strong>in</strong>venzioni grottesche, a vocaboli<br />

stranieri, dialettali, furbeschi [...]. E lascio i casi di estrema libertà di l<strong>in</strong>guaggio,<br />

di turpiloquio, di trivialità», come scriveva nel 1961 Alfredo<br />

Schiaff<strong>in</strong>i (cit. ivi, p. 9).<br />

Dalla f<strong>in</strong>e degli anni sessanta, <strong>in</strong> corrispondenza col primo momento<br />

storico di vera contrapposizione generazionale, il l<strong>in</strong>guaggio giovanile si<br />

trasforma <strong>in</strong> un fenomeno di massa e tende a essere connotato <strong>in</strong> senso<br />

contestatario. «Il control<strong>in</strong>guaggio dei giovani» lo chiama addirittura Lanza<br />

(1974), un dizionarietto che raccoglie espressioni <strong>in</strong> uso ancora oggi come<br />

sfiga “sfortuna”, fuso “esaurito” o gasato “euforico, presuntuoso”, e altre<br />

scomparse presto come streppo “bidone, fregatura” o zippo “cafone”.<br />

In realtà, a prevalere è già la funzione ludica e autoidentitaria; la stessa che,<br />

scrostata da ogni implicazione politica, caratterizzerà i decenni successivi:<br />

«l’<strong>in</strong>tenzione non è tanto quella di non farsi capire, quanto quella di riconoscersi<br />

come appartenente al medesimo gruppo»; «se c’è contestazione,<br />

questa non è certo ideologica, bensì l<strong>in</strong>guistica, nelle forme <strong>del</strong>lo stravolgimento,<br />

<strong>del</strong>la parodia, <strong>del</strong> gioco» (Coveri, 1992, pp. 63-4).<br />

Tra i portati l<strong>in</strong>guistici <strong>del</strong> Sessantotto, c’è anche la detabuizzazione<br />

<strong>del</strong> turpiloquio. Nei primi anni sessanta, le parolacce si potevano considerare<br />

ancora una caratteristica di «ambienti chiusi come scolaresche o<br />

caserme», legate a «un tentativo di affrancarsi dalla repressione, analogo<br />

a quello <strong>del</strong> turpiloquio adolescenziale» (Galli de’ Paratesi, 1969<br />

[1964], p. 58). Qualche anno dopo, sull’onda <strong>del</strong>la contestazione, quei<br />

«term<strong>in</strong>i <strong>in</strong>terdetti» sono ormai parole alla moda, che fanno tutt’uno coi<br />

tic l<strong>in</strong>guistici <strong>del</strong> cosiddetto s<strong>in</strong>istrese 22 . Tra i lemmi <strong>del</strong>l’ironico dizio-<br />

22. Scrive Giorgio Bocca nell’<strong>in</strong>troduzione che «il s<strong>in</strong>istrese è una <strong>in</strong>venzione l<strong>in</strong>guistica,<br />

collettiva e spontanea, di rapida e facile comunicazione, <strong>in</strong>tesa a coprire la mancanza<br />

di idee generali e di prospettive per il futuro [...]. Esso è tutto una <strong>in</strong>terlocuzione,<br />

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1. LINGUA<br />

narietto <strong>in</strong>titolato Il piccolo s<strong>in</strong>istrese illustrato (Flores d’Arcais, Mugh<strong>in</strong>i,<br />

1977), si possono trovare impegno, militanza, oggettivamente («è la parola<br />

chiave <strong>del</strong> terrorismo ideologico», ivi, p. 65), (il) personale è politico,<br />

revisionismo, ribadire («è un non dire pieno di forza, di energie, di<br />

conv<strong>in</strong>zione», ivi, p. 82), struttura e sovrastruttura, ma anche cazzate<br />

(«parola magica che esorcizza», ivi, p. 24) e scopare. Basta sfogliare la raccolta<br />

Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta Cont<strong>in</strong>ua (Lotta Cont<strong>in</strong>ua,<br />

1978) per rendersi conto <strong>del</strong>l’iteratività rituale con cui <strong>in</strong> effetti<br />

vengono usate certe parolacce: «Mi riferisco alle varie cazzate fatte durante<br />

il percorso <strong>del</strong> corteo, “giustificate” da chi le ha fatte perché “si è<br />

repressi”, <strong>in</strong>cazzati, e c’è una grossa rabbia» (ivi, p. 25); «Io non parlo<br />

<strong>del</strong>le altre femm<strong>in</strong>iste (per ora), ma di te che non capisci un cazzo» (ivi,<br />

p. 75), «ha deciso di farla f<strong>in</strong>ita con questa vita merdosa e ruffiana» (ivi,<br />

p. 128); «<strong>in</strong> mezzo ai cas<strong>in</strong>i ci sono sempre stato e sono sicuro che ci resterò»<br />

(ivi, p. 192), «con ribadita frociagg<strong>in</strong>e» (ivi, p. 194); «Ma quanti<br />

compagni hanno veramente capito che cazzo vuol dire questa storia <strong>del</strong><br />

personale e <strong>del</strong> politico?» (ivi, p. 324) 23 .<br />

DA CAROSELLO ALLA NEOTELEVISIONE<br />

Il contagio <strong>del</strong>la trasgressione arriva f<strong>in</strong>o alla pubblicità, <strong>in</strong> cui si fa sempre<br />

più presente l’elemento <strong>del</strong> richiamo sessuale («Chiamami Peroni,<br />

sarò la tua birra»; «Bionda naturale, forte e gentile. Un “corpo” morbido,<br />

caldo. Un profumo sottile e stimolante. Se vuoi è tua»: Grappa Stravecchia<br />

Ramazzotti) e si parafrasano le sacre scritture con allusioni ai limiti<br />

<strong>del</strong>la blasfemia. È <strong>del</strong> 1973 la campagna di Emanuele Pirella con lo<br />

slogan «Chi mi ama mi segua» stampato sulle tasche posteriori dei jeans<br />

Jesus, e allo stesso decennio risalgono «Rispetta il piede tuo. È il comandamento<br />

di ogni buon sciatore [sic]» (scarponi Nordica), «Tratta gli<br />

amici tuoi come te stesso» (brandy Stock 84) e «Non desiderare la M<strong>in</strong>i<br />

d’altri» (M<strong>in</strong>i Morris).<br />

un ripetitivo, una <strong>in</strong>teriezione, un susseguirsi di parole onnicomprensive che ognuno può<br />

<strong>in</strong>terpretare a suo comodo» (<strong>in</strong> Flores d’Arcais, Mugh<strong>in</strong>i, 1977, pp. 8-9). Il fastidio per<br />

certe espressioni stereotipate, peraltro, era emerso già all’<strong>in</strong>izio <strong>del</strong>la stagione contestataria.<br />

Racconta Beccaria (1988, pp. 294-5) di una scritta «su una lavagna <strong>del</strong>la facoltà di Architettura<br />

occupata nel ’68 a Roma», che recitava: «I signori oratori si astengano dal pronunciare<br />

le seguenti parole: a livello, strumentalizzazione, al limite, demistificazione, documento,<br />

sensibilizzazione, discorso – dico discorso –, momento, nelle strutture, non a<br />

caso, nella misura <strong>in</strong> cui».<br />

23. Cfr. Violi (1977) e, per un confronto col l<strong>in</strong>guaggio giovanile degli anni ottanta,<br />

Cortelazzo (1993).<br />

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MODERNITÀ ITALIANA<br />

Una l<strong>in</strong>gua, quella <strong>del</strong>la pubblicità, che viene guardata con sospetto<br />

non solo dai benpensanti, ma anche da chi le si accosta con sguardo scientifico.<br />

Secondo Maria Corti, «dal momento <strong>in</strong> cui la motivazione <strong>del</strong>l’ord<strong>in</strong>e<br />

economico copre <strong>in</strong> pieno e sostituisce l’area <strong>del</strong>l’“<strong>in</strong>formazione”, la<br />

l<strong>in</strong>gua diviene un mostro di pura “ridondanza”» (<strong>in</strong> Beccaria, 1973, p.<br />

120). E l’idea di mostruosità torna nel giudizio di Maria Luisa Altieri Biagi:<br />

«ognuno di noi saprebbe elencare facilmente parecchi di quei mostri<br />

l<strong>in</strong>guistici che sono aperimio, digestimola, trissetante, simmenthalmente<br />

buona, c<strong>in</strong> contriamo con C<strong>in</strong> Soda, necessori per auto, oroelogio, ecc.<br />

[...] Talvolta la crisi <strong>in</strong> cui il l<strong>in</strong>guaggio pubblicitario mette la l<strong>in</strong>gua è<br />

una crisi totale» (Devoto, Altieri Biagi, 1979 [1968], p. 316). Per Tullio De<br />

Mauro, <strong>in</strong>vece, quello pubblicitario è un l<strong>in</strong>guaggio subalterno, «sottomesso<br />

al triplice legame con l’immag<strong>in</strong>e visiva, con gli usi l<strong>in</strong>guistici già<br />

affermati, con i fenomeni strutturali <strong>del</strong>la società» (De Mauro, 1987<br />

[1967], p. 57).<br />

Dalla pubblicità scritta a quella trasmessa. «Voglio la caramella che<br />

mi piace tanto e che fa dudududududududu Dufour» (Dolcevoglia,<br />

1969), «Miguel son mi» (El merendero, 1969), «Brooklyn, la gomma <strong>del</strong><br />

ponte» (Scopriamo Brooklyn, 1974), «Oh no, su De Rica non si può»<br />

(Silvestro, castellano maldestro, 1974), «Se una bella serata ti coglie di<br />

sorpresa, Rexona deodorante non ti pianta <strong>in</strong> asso» (Non ti pianta <strong>in</strong> asso,<br />

1975). La condanna non risparmia neanche una l<strong>in</strong>gua pubblicitaria<br />

che a noi suona oggi quasi <strong>in</strong>genua, come quella di Carosello: anzi – trovandosi<br />

all’<strong>in</strong>crocio fra pubblicità e televisione – quel tipo di comunicazione<br />

viene visto come ancor più pericoloso, perché capace di sommare<br />

<strong>in</strong> sé un doppio potere di seduzione 24 . Un mo<strong>del</strong>lo, anche l<strong>in</strong>guisticamente,<br />

diseducativo: «la pratica <strong>del</strong>lo scrivere decade per la mancanza<br />

di occasioni e per l’assenza di mo<strong>del</strong>li che non siano “Carosello”<br />

(o i suoi sostituti) e i vari l<strong>in</strong>guaggi tecnici di cui tutti si compiacciono.<br />

I risultati sono ben noti: il lessico è povero e mal strutturato; la s<strong>in</strong>tassi<br />

zoppica», scrive Dardano (1978, p. 166); ma nel frattempo Carosello<br />

è diventato già un ricordo: l’ultima puntata è andata <strong>in</strong> onda il 1° gennaio<br />

1977.<br />

Il fatto è che negli anni settanta, per alcuni l<strong>in</strong>guisti l’antil<strong>in</strong>gua non<br />

è più quella burocratica (come sosteneva Calv<strong>in</strong>o dieci anni prima), ma<br />

quella dei mezzi di comunicazione di massa:<br />

24. «Carosello ha <strong>in</strong>contrato l’ostilità <strong>del</strong>la s<strong>in</strong>istra marxista come <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>tellighenzia<br />

elitaria, dei cattolici più <strong>in</strong>transigenti come dei laici più snob» (Dorfles, 1998, p. 87). Basti<br />

il giudizio espresso da Guglielmo Zucconi nel 1971: «Considero Carosello la più perniciosa<br />

trasmissione <strong>del</strong>la TV. Perché? Perché offre un mo<strong>del</strong>lo di vita assolutamente irreale,<br />

basato sul consumismo più sfrenato» (<strong>in</strong> Ballio, Zanacchi, 2009 [1987], pp. 141-2).<br />

36


1. LINGUA<br />

La l<strong>in</strong>gua dei grandi mezzi di <strong>in</strong>formazione di massa (l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong>la cronaca, <strong>del</strong>la<br />

televisione, <strong>del</strong>la pubblicità) tende ad uniformare, a livellare, a standardizzare<br />

l’italiano d’oggi perché la l<strong>in</strong>gua è [...] uno strumento (spesso alienante) accettato<br />

<strong>in</strong> formule già confezionate, non criticamente assorbite, da avidi e disarmati<br />

consumatori; un’antil<strong>in</strong>gua che parla noi stessi, più di quanto siamo noi a<br />

parlare la l<strong>in</strong>gua (Beccaria, 1973, pp. 51-2).<br />

Il rischio pr<strong>in</strong>cipale che viene <strong>in</strong>dividuato è quello <strong>del</strong>l’omologazione<br />

espressiva legata alla nuova civiltà dei consumi 25 . La pressione <strong>del</strong> mercato<br />

pubblicitario non sarà certo estranea – <strong>in</strong> effetti – al diffondersi <strong>del</strong>le<br />

radio e soprattutto <strong>del</strong>le televisioni private: significativo che nella term<strong>in</strong>ologia<br />

anni settanta si parli di radio libere, <strong>in</strong> quella anni ottanta di<br />

TV commerciali. La liberalizzazione <strong>del</strong>l’etere sancita nel 1976 è anche liberalizzazione<br />

degli spazi pubblicitari, il cui valore aumenta <strong>in</strong> maniera<br />

direttamente proporzionale al séguito <strong>del</strong>la trasmissione che <strong>in</strong>terrompono.<br />

La cosiddetta neotelevisione (Eco, 1983) si lascia contemporaneamente<br />

alle spalle la sp<strong>in</strong>ta centralistica e quella educativa, addentrandosi<br />

sempre più nella dimensione <strong>del</strong> puro <strong>in</strong>trattenimento (quella che porta<br />

verso l’<strong>in</strong>fota<strong>in</strong>ment, l’eduta<strong>in</strong>ment, l’emota<strong>in</strong>ment). Da questo momento<br />

<strong>in</strong> poi, non si cerca di risolvere lo scarto tra produzione culturale<br />

e consumo di massa alzando il livello <strong>del</strong>la cultura di massa, ma abbassando<br />

quello <strong>del</strong>l’offerta culturale: un atteggiamento «populista e demagogico»,<br />

che apre la «“fase demotica” <strong>del</strong>la TV <strong>italiana</strong>».<br />

Una <strong>del</strong>le conseguenze più importanti di questa “fase demotica”, particolarmente<br />

sul piano l<strong>in</strong>guistico, è l’irruzione <strong>del</strong>la gente comune sullo schermo, che<br />

era <strong>in</strong>iziata con il telefono <strong>in</strong> radio: si moltiplica dunque un parlato non professionale,<br />

a cui – sempre per tensione demagogica – si adeguano anche i conduttori<br />

professionali <strong>del</strong>la TV (Menduni, 2010, pp. 26-7).<br />

Il risultato è che «i parlanti sono esposti ad un tipo di l<strong>in</strong>gua non “ortodosso”<br />

da parte di emittenti che, anche quando non si tratta di quella ufficiale,<br />

essi f<strong>in</strong>iscono con l’identificare almeno <strong>in</strong> parte con un mo<strong>del</strong>lo»<br />

(Galli de’ Paratesi, 1984, p. 53). L’esposizione è sempre più lunga, tanto<br />

da arrivare a superare – per i bamb<strong>in</strong>i – le ore passate a scuola 26 ; ma il<br />

25. Tipica, <strong>in</strong> questo senso, la posizione di Pasol<strong>in</strong>i (1999 [1973], p. 291): «per mezzo<br />

<strong>del</strong>la televisione, il Centro ha assimilato a sé l’<strong>in</strong>tero paese che era così storicamente differenziato<br />

e ricco di culture orig<strong>in</strong>ali» e ha imposto «i mo<strong>del</strong>li voluti dalla nuova <strong>in</strong>dustrializzazione,<br />

la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende<br />

che non siano concepibili altre ideologie che quella <strong>del</strong> consumo».<br />

26. «La TV sta sconfiggendo la scuola? Secondo un’<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e <strong>del</strong> settimanale “Il Sabato”<br />

[...], il bamb<strong>in</strong>o italiano ha passato davanti alla televisione, nel 1987, tre ore e 20 mi-<br />

37


MODERNITÀ ITALIANA<br />

mo<strong>del</strong>lo è ben diverso da quello normativo e sorvegliato dei programmi<br />

RAI, grazie al quale per vent’anni «la televisione è stata, giorno per<br />

giorno, una scuola di usi l<strong>in</strong>guistici italiani» (De Mauro, 1973, p. 114).<br />

Ormai, più che una scuola, la televisione è diventata uno «specchio<br />

<strong>del</strong>le l<strong>in</strong>gue» (Simone, 1987), che riporta sullo schermo le diverse varietà<br />

di parlato esistenti nel paese. Così, attraverso quello che gli psicologi<br />

chiamano “ricalco”, si gratifica il narcisismo degli spettatori: “la<br />

televisione parla come me”, deve pensare chi la guarda, “e io parlo come<br />

lei”.<br />

L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/2<br />

Verso la f<strong>in</strong>e degli anni ottanta, Gaetano Berruto (1987, p. 21) 27 ha s<strong>in</strong>tetizzato<br />

s<strong>in</strong>otticamente l’architettura <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo<br />

(FIG. 2). Le nove varietà l<strong>in</strong>guistiche <strong>in</strong>dividuate sono disposte lungo<br />

gli assi complanari <strong>del</strong>la diastratia (dal polo alto al polo basso), <strong>del</strong>la<br />

diamesia (dallo “scritto scritto” al “parlato parlato”, secondo la term<strong>in</strong>ologia<br />

di Nencioni, 1983 [1976]) e <strong>del</strong>la diafasia (dal polo “formale-formalizzato”<br />

al polo “<strong>in</strong>formale”: cfr. De Mauro, 1970b). Vista la<br />

particolare storia <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua <strong>italiana</strong>, «la dimensione diatopica è stata<br />

messa sullo sfondo e considerata <strong>in</strong> un certo senso a priori» (Berruto,<br />

1987, p. 20).<br />

Per dar conto dei fenomeni di r<strong>in</strong>ormativizzazione e di ristandardizzazione<br />

verificatisi nei decenni precedenti, al centro <strong>del</strong>lo schema<br />

si dist<strong>in</strong>gue tra la l<strong>in</strong>gua di tradizione letteraria, mo<strong>del</strong>lo ancora di<br />

molti manuali e grammatiche (lo standard), e la concreta applicazione<br />

di quel mo<strong>del</strong>lo nell’uso dei parlanti (il neostandard). L’etichetta di<br />

neostandard, pur trovandosi sopra alla l<strong>in</strong>ea che divide lo scritto dal<br />

parlato, è considerata sovrapponibile a quella di «italiano regionale<br />

colto medio» (ivi, p. 23), da non confondersi con l’italiano regionale<br />

popolare (che qui appare nel settore <strong>in</strong> basso a destra, quello <strong>del</strong> parlato<br />

sub-standard) 28 .<br />

nuti di media al giorno, pari a 1.338 ore l’anno, contro le 850 passate a scuola» (Beccaria,<br />

1988, p. 255).<br />

27. Poi con m<strong>in</strong>ime modifiche <strong>in</strong> Berruto (1993, p. 12), da cui si riproduce lo schema.<br />

28. Piuttosto diversa, qualche anno dopo, l’architettura proposta da Dardano<br />

(1994, p. 370), <strong>in</strong> cui «non si riconosce un’identità propria al cosiddetto “italiano neostandard”,<br />

che qui non è considerato come una varietà centrale <strong>del</strong> sistema, ma piuttosto<br />

come un fascio di tratti che attraversa più di una varietà <strong>del</strong>l’italiano di oggi» e<br />

«non è contemplato l’italiano popolare, la cui esistenza è affermata da alcuni studiosi<br />

e negata da altri».<br />

38


1. LINGUA<br />

FIGURA 2<br />

L’architettura <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo (Berruto, 1987)<br />

7. Italiano aulico formale<br />

8. Italiano<br />

tecnico-scientifico<br />

9. Italiano<br />

burocratico<br />

DIAMESIA<br />

DIAFASIA<br />

1. Italiano standard<br />

letterario<br />

2. Italiano neostandard<br />

L’italiano nella società <strong>del</strong>la comunicazione:<br />

dagli anni novanta a oggi<br />

Negli anni ottanta la comunicazione era già abbastanza di moda, ma<br />

sentendo parlare di medium veniva ancora ist<strong>in</strong>tivo pensare ai fenomeni<br />

paranormali; <strong>del</strong> computer si aveva un’idea molto vaga – figuriamoci<br />

se ci s’immag<strong>in</strong>ava che il nostro accesso al mondo sarebbe diventato<br />

un click sul mouse – e dicendo il cellulare ci si riferiva alla camionetta<br />

<strong>del</strong>la polizia: nessuno poteva prevedere che pochi anni dopo<br />

quel nome avrebbe identificato un oggetto-totem <strong>in</strong>separabile da ognuno<br />

di noi. Quella era la civiltà <strong>del</strong>l’immag<strong>in</strong>e, questa è la società <strong>del</strong>la<br />

comunicazione.<br />

Basta <strong>in</strong>terrogare l’oracolo di Google per avere la conferma che l’etichetta<br />

di «società <strong>del</strong>la comunicazione» (presente il 30 settembre <strong>2011</strong><br />

<strong>in</strong> 625.000 pag<strong>in</strong>e tra quelle censite nella rete) ha ormai preso il sopravvento<br />

sull’altra, molto <strong>in</strong> voga già dagli anni sessanta (per la str<strong>in</strong>ga «civiltà<br />

<strong>del</strong>l’immag<strong>in</strong>e» solo 200.000 risultati). Lasciato alle spalle il dom<strong>in</strong>io<br />

<strong>in</strong>contrastato degli audiovisivi – e nell’attesa di sapere dove ci porterà<br />

il «paradigma multimediale» –, stiamo vivendo appieno il dispie-<br />

39<br />

DIASTRATIA<br />

4. Italiano<br />

regionale<br />

popolare<br />

3. Italiano<br />

parlato colloquiale<br />

DIATOPIA<br />

5. Italiano<br />

<strong>in</strong>formale-trascurato<br />

6. Italiano<br />

gergale


MODERNITÀ ITALIANA<br />

garsi di quello che Raffaele Simone ha chiamato il «paradigma digitale»<br />

(Simone, 2001) 29 . Si tratta di «una rivoluzione <strong>in</strong>iziata con l’avvento dei<br />

word processor e proseguita con la telematica»: «l’attuale primato <strong>del</strong>la<br />

scrittura [...] non è pensabile fuori dal contesto multimediale che ne ha<br />

ridef<strong>in</strong>ito il ruolo, poiché la scrittura è oggi solo uno dei tanti l<strong>in</strong>guaggi<br />

che le nuove tecnologie consentono di all<strong>in</strong>eare, sovrapporre e contam<strong>in</strong>are»<br />

(Pistolesi, 2004, pp. 10-1).<br />

LA RIVINCITA DELLA SCRITTURA<br />

Nel novembre 2000, l’ISPO (Istituto per gli studi sulla pubblica op<strong>in</strong>ione)<br />

svolgeva per conto di Poste italiane un’<strong>in</strong>chiesta sugli italiani e la<br />

scrittura. Ne risultava che le uniche forme di scrittura quotidiana erano<br />

– per gli italiani <strong>in</strong> età postscolare – gli appuntamenti sull’agenda e la lista<br />

<strong>del</strong>la spesa. Per il resto, l’11% degli <strong>in</strong>tervistati dichiarava di scrivere<br />

lettere almeno una volta al mese, il 9% ogni due-tre mesi; tra i 18-29enni,<br />

l’8% diceva di scrivere lettere personali tutti i giorni o quasi, il 9% e-mail,<br />

il 39% messaggi con il cellulare. Era già com<strong>in</strong>ciato il passaggio – decisivo<br />

– dall’epistola all’e-pistola (Schwarze, 2003).<br />

Oggi, a dieci anni di distanza, quasi la metà degli italiani frequenta<br />

Internet: più di un terzo la usa per mandare e ricevere e-mail, un qu<strong>in</strong>to<br />

per comunicare tramite i social network, poco meno per scrivere <strong>in</strong> chat,<br />

blog o newsgroup (ISTAT, 2010). Ancora più numerosi gli italiani che usano<br />

un telefon<strong>in</strong>o: l’85% nel 2009, il 79,5% nel <strong>2011</strong> secondo CENSIS (<strong>2011</strong>);<br />

e sempre di più – tra questi – lo usano anche per scrivere: secondo un<br />

sondaggio svolto dalla Astra ricerche, nel 2008 sfioravano già il 90% 30 .<br />

È evidente che negli ultimi anni si è verificato – nella storia <strong>del</strong>la nostra<br />

l<strong>in</strong>gua – un fatto decisamente nuovo: per la prima volta l’italiano si<br />

ritrova a essere non solo parlato, ma anche scritto quotidianamente dalla<br />

maggioranza degli italiani. Una novità apparentemente paradossale,<br />

visto che l’italiano è vissuto per secoli soltanto come l<strong>in</strong>gua scritta. In<br />

realtà clamorosa, se si pensa che l’italiano scritto è sempre stato una varietà<br />

tanto forte nella sua codificazione quanto debole nella sua diffusione,<br />

ostacolata prima dall’analfabetismo (ancora nel 1971 un terzo degli<br />

italiani non possedeva la licenza elementare: D’Agost<strong>in</strong>o, 2007, p. 50),<br />

29. L’idea di una «rivoluzione digitale» <strong>in</strong> atto era stata divulgata da Negroponte (1995).<br />

30. Dai dati ISTAT (2006) risultava che, tra gli utenti <strong>del</strong> telefono cellulare – il 77,4%<br />

<strong>del</strong>le persone con più di 6 anni –, quasi il 37% se ne serviva per <strong>in</strong>viare e ricevere SMS (con<br />

punte tra il 70 e l’80% nella fascia 11-24 anni), poco più <strong>del</strong> 13% MMS (ma la percentuale<br />

triplica fra i 15 e i 19 anni), solo il 2,2% e-mail.<br />

40


1. LINGUA<br />

poi dal dom<strong>in</strong>io dei mezzi audiovisivi (la già citata «oralità secondaria»).<br />

Ora <strong>in</strong>vece, dopo aver conquistato l’uso parlato (a scapito <strong>del</strong> dialetto),<br />

la l<strong>in</strong>gua nazionale ha conquistato f<strong>in</strong>almente anche l’uso scritto di massa<br />

(a scapito <strong>del</strong> non uso). Nel primo caso il merito è stato <strong>in</strong> buona parte<br />

<strong>del</strong>la televisione; nel secondo, tutto <strong>del</strong>la telematica.<br />

Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: la straord<strong>in</strong>aria fortuna <strong>del</strong>le<br />

varie forme di «neoepistolarità tecnologica» (la posta elettronica, gli SMS<br />

e – su un piano diverso – le chat l<strong>in</strong>e e l’<strong>in</strong>stant messag<strong>in</strong>g) ha provocato<br />

un clamoroso ritorno alla comunicazione per iscritto. Moltissime persone<br />

che f<strong>in</strong>o a poco tempo fa non scrivevano un rigo, oggi producono<br />

<strong>in</strong>cessantemente una mole impressionante – sia pure frammentaria e<br />

quasi atomizzata – di testi digitati. E ciò comporta il venir meno <strong>del</strong>le<br />

coord<strong>in</strong>ate che avevano caratterizzato e condizionato la scrittura per secoli:<br />

se il testo diventa labile, la scrittura passa nella sfera <strong>del</strong>l’effimero;<br />

se si scrive tanto spesso, scrivere diventa un gesto quotidiano, lontanissimo<br />

da quella solennità di cui si era sempre ammantato.<br />

Resta da capire come tutto questo conviva con gli allarmanti dati sull’analfabetismo.<br />

Accanto agli analfabeti tradizionali (che l’ISTAT stima <strong>in</strong><br />

782.000), tende <strong>in</strong>fatti a <strong>in</strong>foltirsi la schiera degli analfabeti “di ritorno”.<br />

Dilaga, <strong>in</strong> particolare, quello che viene def<strong>in</strong>ito analfabetismo “funzionale”,<br />

ovvero l’<strong>in</strong>capacità di comprendere adeguatamente un testo. Secondo<br />

<strong>in</strong>dag<strong>in</strong>i svolte una dec<strong>in</strong>a d’anni fa nell’ambito <strong>del</strong>la ricerca IALS<br />

(International Adult Literacy and Lifeskills Survey), circa il 33% degli<br />

italiani aveva serie difficoltà di lettura e scrittura (oltre che di conteggio)<br />

e un altro 33% era poco al di sopra <strong>del</strong>la soglia m<strong>in</strong>ima di competenza<br />

l<strong>in</strong>guistica; solo il 10% mostrava una competenza elevata. La situazione<br />

– preoccupante anche per i diplomati e per i laureati – risulta confermata<br />

dalla ricerca ALL (Adult Literacy and Life Skills) svoltasi nei primi anni<br />

Duemila. E stime più pessimistiche (come quella <strong>del</strong>l’UNLA, l’Unione nazionale<br />

per la lotta contro l’analfabetismo diretta da Saverio Avveduto:<br />

cfr. De Mauro, 2010 [2004], pp. 242-3) arrivano a considerare tra gli analfabeti<br />

oltre un terzo <strong>del</strong>la popolazione.<br />

Stando ai risultati dei test OCSE-Pisa (2009), un qu<strong>in</strong>to dei qu<strong>in</strong>dicenni<br />

italiani (il 21%) mostra «scarsi risultati <strong>in</strong> lettura»: vale a dire che<br />

è «<strong>in</strong> grado di svolgere soltanto gli esercizi di lettura meno complessi come<br />

<strong>in</strong>dividuare una s<strong>in</strong>gola <strong>in</strong>formazione, identificare il tema pr<strong>in</strong>cipale<br />

di un testo, o fare un semplice collegamento con la conoscenza di tutti i<br />

giorni». Non oltre 31 . D’altra parte, gli italiani che leggono almeno un li-<br />

31. Nel quadro di un generale «calo nella literacy dei qu<strong>in</strong>dicenni dei paesi più avanzati»,<br />

l’Italia «ha visto peggiorare ulteriormente la propria posizione», che già nel 2000<br />

era al di sotto <strong>del</strong>la media (Tavosanis, <strong>2011</strong>, p. 242).<br />

41


MODERNITÀ ITALIANA<br />

bro al mese superano a stento il 15% (AIE, 2010); quelli <strong>del</strong> tutto estranei<br />

ai mezzi a stampa sono più <strong>del</strong> 45% (CENSIS, <strong>2011</strong>).<br />

Viene da chiedersi se saper digitare equivalga davvero a saper scrivere<br />

(o anche solo leggere). Tanto più che la vera differenza tra le due attività<br />

andrà cercata nella capacità di gestire testualità e s<strong>in</strong>tassi (cfr. Pistolesi,<br />

2008, <strong>2011</strong>), non certo negli aspetti superficiali su cui si sofferma abitualmente<br />

la pubblicistica. Quasi tutti i tratti che nell’immag<strong>in</strong>ario collettivo<br />

(<strong>in</strong> Italia e all’estero) caratterizzano la scrittura elettronica sono <strong>in</strong><br />

effetti di natura grafica o paragrafematica. Alcune sono rese grafiche che<br />

– sul mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>le forme <strong>in</strong>glesi, da subito diventate <strong>in</strong>ternazionalismi<br />

(per l’italiano, cfr. Fiorent<strong>in</strong>o, Pellegr<strong>in</strong>i, Perucci, 2007) – mirano a una<br />

maggiore brevità o rapidità di esecuzione. Ciò vale sia per gli acronimi (il<br />

tipo TVB per ti voglio bene) sia per le grafie simboliche (7imana, scem8 e<br />

3mendo; su un piano diverso: c “ci, a noi” e t “ti, a te”, d “di”) o fonetiche<br />

(ke, riskiare) o contratte (nn “non”, cn “con”, cmq “comunque”) 32 .<br />

La presunta oralità <strong>del</strong>la scrittura elettronica si esprime più che altro<br />

<strong>in</strong> una resa <strong>del</strong>la pronuncia secondo criteri diversi da quelli <strong>del</strong>l’ortografia<br />

tradizionale. Si potrebbe dist<strong>in</strong>guere tra errori volontari, legati<br />

a <strong>in</strong>tenzioni di tipo gergale; errori di battitura, il cui aumento va messo<br />

<strong>in</strong> relazione con le nuove condizioni di scrittura e con lo statuto <strong>in</strong>formale<br />

<strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua digitata; errori di competenza, dovuti cioè all’ignoranza<br />

<strong>del</strong>la corretta ortografia (cfr. Tavosanis, 2007; <strong>2011</strong>, pp. 73-5); ma è l’<strong>in</strong>sieme<br />

dei tre fattori a creare le condizioni per una diffusa poligrafia (Fairon<br />

et al., 2006, p. 58). Da questo punto di vista, la scrittura elettronica<br />

sembra riprodurre una situazione simile a quella che ha preceduto la diffusione<br />

<strong>del</strong>la stampa e il conseguente fissarsi di una norma ortografica<br />

(oltre che l<strong>in</strong>guistica) condivisa. La libertà portata dalla scrittura elettronica<br />

nel rapporto tra pronuncia e grafia ha messo <strong>in</strong> moto un processo<br />

centrifugo che – se dovesse estendersi al di fuori degli usi neoepistolari<br />

– potrebbe creare le condizioni per una sorta di nuovo Medioevo ortografico<br />

(Lorenzetti, Schirru, 2006, pp. 74-5; Véronis, De Neef, 2006;<br />

Baron, 2008).<br />

È <strong>in</strong>teressante che considerazioni analoghe siano state fatte dai paleografi<br />

a proposito <strong>del</strong>l’epistolografia popolare ottocentesca. Anche <strong>in</strong><br />

quel caso, l’avvic<strong>in</strong>arsi alla scrittura di una cerchia di persone molto più<br />

vasta rispetto al passato (Petrucci, 2008, pp. 130-3) favorì una larga emersione<br />

di tratti substandard. «Efficacia e nettezza comunicativa sì», ma<br />

«assente o <strong>in</strong>certa dist<strong>in</strong>zione tra maiuscole e m<strong>in</strong>uscole»; «nella grafia e<br />

32. Per la diffusione <strong>in</strong>ternazionale di usi analoghi, mi permetto di rimandare ad Antonelli<br />

(2009a, 2009b).<br />

42


1. LINGUA<br />

nella separazione <strong>del</strong>le parole, tendenza a riprodurre la catena parlata»;<br />

«difficoltà nel rendere determ<strong>in</strong>ati fonemi oppure, che è lo stesso, nell’uso<br />

di alcune consonanti e digrammi»: «a leggere gli autografi “popolari”<br />

otto-novecenteschi hai l’impressione che poco o nulla sia cambiato<br />

dai tempi <strong>in</strong>iziali <strong>del</strong>la diffusione <strong>del</strong>lo scrivere volgare» (Bartoli Langeli,<br />

2000, p. 166).<br />

IL TRIONFO DELL’INFORMALITÀ<br />

È difficile, <strong>in</strong>somma, trovare elementi che possano far parlare a ragion<br />

veduta di una “nuova” l<strong>in</strong>gua. La novità, più che l<strong>in</strong>guistica, è sociol<strong>in</strong>guistica:<br />

la desacralizzazione <strong>del</strong>la scrittura legata alle nuove tecnologie<br />

ha alzato la soglia di tolleranza nei confronti di questi usi. È quello che,<br />

riprendendo Baron (2008), è stato def<strong>in</strong>ito il whateverismo l<strong>in</strong>guistico<br />

(dall’<strong>in</strong>glese whatever), ovvero «l’atteggiamento per cui qualunque soluzione<br />

va bene» (Tavosanis, <strong>2011</strong>, p. 94) 33 : come notava già Sobrero<br />

(2001, p. 52), «spensieratamente, si parla e si scrive “come viene”, senza<br />

il m<strong>in</strong>imo dubbio, senza un attimo di esitazione». Un atteggiamento<br />

sempre più diffuso, che negli ultimi decenni (<strong>in</strong>coraggiato talvolta dagli<br />

stessi l<strong>in</strong>guisti: cfr. Sgroi, 2010) ha allargato progressivamente la sfera <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>formalità<br />

f<strong>in</strong>o a comprendere rapporti <strong>in</strong>terpersonali legati un tempo<br />

a registri più controllati.<br />

Anche al di fuori <strong>del</strong>l’italiano digitato, l’idea di una comunicazione<br />

che risulti più spontanea, diretta, “amichevole” (come si usa dire ricalcando<br />

l’<strong>in</strong>glese friendly) sp<strong>in</strong>ge verso il progressivo diffondersi di modi<br />

<strong>del</strong> parlato nella scrittura giornalistica o verso l’abbassamento <strong>del</strong> tasso<br />

di formalità nel discorso politico. Tutto questo, nel bene e nel male, sta<br />

f<strong>in</strong>endo col capovolgere la situazione che ha caratterizzato da sempre la<br />

storia <strong>del</strong>la nostra l<strong>in</strong>gua: ancora «all’<strong>in</strong>izio <strong>del</strong> Novecento l’italiano risultava<br />

una l<strong>in</strong>gua fortemente deficitaria per gli usi <strong>in</strong>formali; all’<strong>in</strong>izio<br />

<strong>del</strong> nuovo millennio l’italiano risulta tendenzialmente deficitario per gli<br />

usi formali» (Cortelazzo, 2002, p. 100).<br />

La dittatura <strong>del</strong> tu – <strong>in</strong>teso come modo di accorciare le distanze, non<br />

solo comunicative – riguarda ormai i rapporti tra persone che si conoscono<br />

appena, tra colleghi di lavoro, con i clienti, con i dest<strong>in</strong>atari dei<br />

messaggi pubblicitari, con gli elettori («Arrivi a f<strong>in</strong>e mese?» chiedeva lo<br />

33. «Più che essere un’esibizione di estremismo l<strong>in</strong>guistico, è un riflesso naturale dei<br />

cambiamenti nella filosofia educativa, degli spostamenti negli obiettivi <strong>del</strong>la società, <strong>del</strong>la<br />

tendenza universitaria al relativismo filosofico, e <strong>del</strong>la sp<strong>in</strong>ta a vivere a ritmi accelerati»<br />

(Baron, 2008, p. 169; la traduzione <strong>in</strong> Tavosanis, <strong>2011</strong>, p. 94).<br />

43


MODERNITÀ ITALIANA<br />

slogan <strong>del</strong>l’Ulivo nella campagna elettorale <strong>del</strong> 2004) 34 . E ha portato con<br />

sé un deciso abbassamento <strong>del</strong> registro l<strong>in</strong>guistico medio di tutti gli italiani;<br />

abbassamento di cui la televisione è specchio più che causa, sia pure<br />

– nell’ultimo periodo – specchio deformante, che spaccia per reali modalità<br />

espressive artefatte: il reality show, la real TV.<br />

Come nota Segre (2010),<br />

i giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si<br />

mettono <strong>in</strong> condizione d’<strong>in</strong>feriorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel<br />

parlare, che la scelta l<strong>in</strong>guistica denota la loro attitud<strong>in</strong>e a posizionarsi rispetto<br />

ai propri simili [...]. La nostra classe politica, che <strong>in</strong> tempi lontani annoverava<br />

ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa<br />

di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato.<br />

È la tentazione, strisciante, <strong>del</strong> populismo.<br />

Dopo la crisi dovuta agli scandali di Tangentopoli (1992), la politica ha<br />

imparato ad adeguare il proprio l<strong>in</strong>guaggio a quello <strong>del</strong> dest<strong>in</strong>atario (come<br />

da sempre fa la pubblicità), allontanandosi progressivamente dalla<br />

vecchia autoreferenzialità focalizzata sul mittente (il cosiddetto politichese).<br />

Abbandonato il paradigma <strong>del</strong>la superiorità («tutti sanno il fasc<strong>in</strong>o<br />

che hanno per il volgo le parole difficili: non le <strong>in</strong>tende, ma sono<br />

di moda, piene di possibilità impensate, qu<strong>in</strong>di tanto più attraenti quanto<br />

più avvolte nella nebbia», Benvenuto Terrac<strong>in</strong>i, <strong>in</strong> Bald<strong>in</strong>i, 1992, p. 26),<br />

la l<strong>in</strong>gua dei politici punta tutto sul paradigma <strong>del</strong> rispecchiamento:<br />

«forme espressive immediatamente comprensibili e registri <strong>in</strong>formali <strong>in</strong><br />

grado [...] di attivare nei dest<strong>in</strong>atari potenti sistemi di rispecchiamento<br />

molto efficaci per la crescita <strong>del</strong> consenso» (Desideri, 1993, pp. 284-5).<br />

Parole semplici per ribadire luoghi comuni <strong>in</strong> cui l’uomo <strong>del</strong>la strada<br />

possa riconoscersi, e un atteggiamento complessivo che mira a mimetizzare<br />

i meccanismi di persuasione (riconducibili alla funzione conativa <strong>del</strong><br />

l<strong>in</strong>guaggio), cercando <strong>in</strong>vece d’<strong>in</strong>staurare un contatto diretto, simile a<br />

quello di una chiacchierata tra amici (funzione fàtica).<br />

Parole semplici e <strong>in</strong> vari contesti – compresi talvolta quelli istituzionali<br />

– sempre più parolacce (ben note, e di grande fortuna giornalistica,<br />

le <strong>in</strong>temperanze verbali di leader <strong>del</strong> centro-destra come Umberto Bossi<br />

e Silvio Berlusconi; ma anche i manifesti <strong>del</strong> PSI nella campagna elettorale<br />

<strong>del</strong> 2008 recitavano: «Sono donna e sono <strong>in</strong>cazzata», «Sono gay e sono<br />

<strong>in</strong>cazzato», «Sono giovane e sono <strong>in</strong>cazzato»). Che ci piaccia o no, d’al-<br />

34. Notava Renzi (2001, p. 368) che «questi cambiamenti sono dovuti, almeno <strong>in</strong> parte,<br />

al movimento <strong>del</strong> ’68 e alle sue appendici negli anni successivi. Come già altri movimenti<br />

rivoluzionari egualitari di s<strong>in</strong>istra (ma anche certi movimenti di destra) il ’68 ha portato<br />

con sé un’estensione <strong>del</strong> tu reciproco».<br />

44


1. LINGUA<br />

tronde, le parolacce fanno ormai parte <strong>del</strong> modo di esprimersi quotidiano<br />

e <strong>in</strong>formale di quasi tutti gli italiani. Secondo uno studio <strong>del</strong> 2000, <strong>in</strong><br />

televisione si sentivano 70-100 parolacce al giorno; secondo un altro <strong>del</strong><br />

2003, una ogni 21 m<strong>in</strong>uti (negli USA studi analoghi hanno raggiunto conclusioni<br />

non molto diverse); nel film campione d’<strong>in</strong>cassi Natale sul Nilo<br />

(2002) se ne contavano cento <strong>in</strong> cento m<strong>in</strong>uti (Tartamella, 2006, pp. 329-<br />

34). Nazional-popolare per nazional-popolare, nell’edizione 2008 <strong>del</strong> Festival<br />

di Sanremo, le parolacce che hanno risuonato sul palco <strong>del</strong>l’Ariston<br />

sono state c<strong>in</strong>que: un paio nel solito Mas<strong>in</strong>i («la ricchezza più assurda <strong>del</strong>la<br />

solita merda»; «è un paese l’Italia che c’ha rotto i coglioni»), un paio<br />

nel brano rock degli Afterhours («<strong>in</strong>seguivi una cazzata», «se il tuo paese<br />

è una merda»), una <strong>in</strong> quello rap dei Gemelli Diversi («per ogni cuore<br />

fatto a pezzi da una stronza»). Nell’edizione 2007 erano state altrettante,<br />

ma pronunciate da cantanti di età ed estrazione molto diversa: oltre a Daniele<br />

Silvestri (che qualche anno prima ci scherzava su: «per non dire cazzo,<br />

dire <strong>in</strong> quanto donna io non ce l’ho», Amarsi cantando, 1994) e ai giovani<br />

Pietro Baù e Pier Cortese, anche Fabio Concato e pers<strong>in</strong>o Milva, che<br />

cantava un testo <strong>del</strong>lo scrittore best seller Giorgio Faletti.<br />

Le doppie zeta anatomiche sono ormai prezzemolo a ogni m<strong>in</strong>estra,<br />

come confermano anche le <strong>in</strong>tercettazioni telefoniche massicciamente<br />

pubblicate dai giornali. Non c’è di che stupirsi, se teniamo conto che già<br />

nel 1993 cazzo risultava al 722° posto tra i vocaboli più ricorrenti nel parlato<br />

degli italiani (dopo notare e prima di verde: LIP) e più di recente campeggiava<br />

nell’<strong>in</strong>cipit di un romanzo v<strong>in</strong>citore al premio Strega («Svegliati!<br />

Svegliati, cazzo!», Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, 2007). Nel<br />

frattempo, il telefon<strong>in</strong>o – percepito ormai come una sorta di protesi – ha<br />

portato con sé l’allargarsi <strong>in</strong>def<strong>in</strong>ito <strong>del</strong>la sfera <strong>del</strong> privato (si parla dei fatti<br />

propri <strong>in</strong> qualunque momento, <strong>in</strong> qualunque situazione, di fronte a<br />

chiunque), con un conseguente allentarsi <strong>del</strong> senso <strong>del</strong> pudore l<strong>in</strong>guistico.<br />

A ciò si aggiunge la facilità con la quale si possono cogliere, registrare<br />

e diffondere situazioni comunicative che f<strong>in</strong>o a poco tempo fa si sarebbero<br />

esaurite nella dimensione privata (la s<strong>in</strong>drome YouTube). Nell’èra <strong>del</strong>la<br />

riproducibilità tecnologica a oltranza, il conf<strong>in</strong>e – anche l<strong>in</strong>guistico –<br />

tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo un cont<strong>in</strong>uo<br />

sconf<strong>in</strong>amento <strong>del</strong>la prima sfera nella seconda.<br />

LA GLOCALIZZAZIONE DEL LESSICO<br />

L’abbassamento <strong>del</strong> grado di formalità consiste anche nell’affioramento<br />

di tratti regionali o dialettali. Colpisce, <strong>in</strong> proposito, la grande apertura<br />

mostrata ultimamente dai maggiori dizionari italiani nei confronti di<br />

45


queste categorie: sono dialettismi o regionalismi oltre 600 tra le circa<br />

12.000 voci comprese nell’appendice <strong>del</strong> GRADIT (tanto che Camilleri<br />

raggiunge quasi Calv<strong>in</strong>o per numero di citazioni) e molte fra le 4.000<br />

giunte <strong>del</strong>lo Z<strong>in</strong>garelli 2008 (tra le altre pizz<strong>in</strong>o, ciulare, sbroccare, schiscetta).<br />

La causa immediata di questa apertura andrà vista nella notevole<br />

circolazione giornalistica dei dialettismi (legata a sua volta all’uso dis<strong>in</strong>volto<br />

dei virgolettati e <strong>del</strong> registro brillante). L’orig<strong>in</strong>e profonda,<br />

però, va ricercata nella nuova immag<strong>in</strong>e <strong>del</strong> dialetto, passato – <strong>in</strong> un contesto<br />

sociol<strong>in</strong>guistico completamente cambiato – da marca d’<strong>in</strong>feriorità<br />

a segnale di confidenza, emotività, ironia nell’uso di persone che conoscono<br />

bene la l<strong>in</strong>gua nazionale.<br />

Nell’ultimo decennio, d’altra parte, i dialetti hanno riguadagnato un<br />

certo spazio. Secondo l’<strong>in</strong>chiesta ISTAT <strong>del</strong> 2006 (TAB. 2), le persone che<br />

dicono di sapersi esprimere solo <strong>in</strong> dialetto sono ormai meno <strong>del</strong> 7%,<br />

ma si attesta fra il 32 e il 33% la quota di quelle che dichiarano di esprimersi<br />

sia <strong>in</strong> italiano sia <strong>in</strong> dialetto quando si trovano a parlare <strong>in</strong> famiglia<br />

o tra amici 35 .<br />

TABELLA 2<br />

L’uso <strong>del</strong> dialetto<br />

MODERNITÀ ITALIANA<br />

1988 1995 2000 2006<br />

In famiglia<br />

Solo o prev. italiano 41,5% 44,4% 44,1% 45,5%<br />

Solo o prev. dialetto 32,0% 23,8% 19,1% 16,0%<br />

Entrambi 24,9% 28,3% 32,9% 32,5%<br />

Altra l<strong>in</strong>gua<br />

Con amici<br />

0,6% 1,5% 3,0% 5,1%<br />

Solo o prev. italiano 44,8% 47,1% 48,0% 48,9%<br />

Solo o prev. dialetto 26,6% 16,7% 16,0% 13,2%<br />

Entrambi 27,1% 32,1% 32,7% 32,8%<br />

Altra l<strong>in</strong>gua<br />

Con estranei<br />

0,5% 1,2% 2,4% 3,9%<br />

Solo o prev. italiano 64,1% 71,4% 72,7% 72,8%<br />

Solo o prev. dialetto 13,9% 6,9% 6,8% 5,4%<br />

Entrambi 20,3% 18,5% 18,6% 19,0%<br />

Altra l<strong>in</strong>gua 0,4% 0,8% 0,8% 1,5%<br />

35. «Pare ora chiaro che negli anni Novanta da un lato la tendenza all’abbandono<br />

<strong>del</strong>la dialettofonia da parte <strong>del</strong>la generalità <strong>del</strong>la popolazione <strong>italiana</strong> [...] si sia arrestata,<br />

o sia comunque diventata meno evidente; e dall’altro la collocazione sociol<strong>in</strong>guistica <strong>del</strong><br />

dialetto abbia conosciuto una rivalutazione», osserva Berruto (2002, p. 35). Più problematica<br />

l’<strong>in</strong>terpretazione che di questi dati offre Trifone (2007, pp. 182-5).<br />

46


1. LINGUA<br />

«Insomma, un motto di molti parlanti nell’Italia alle soglie <strong>del</strong> terzo Millennio<br />

sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche<br />

(ri)parlare dialetto”» (Berruto, 2002, p. 48). Dagli anni novanta si è verificato<br />

un importante recupero dei dialetti <strong>in</strong> funzione espressiva. Un’esperienza<br />

che ha <strong>in</strong>teressato anche la letteratura (cfr. Antonelli, 2006, pp.<br />

97-108) e si è dispiegata appieno nell’ambito <strong>del</strong>la canzone. Qui l’opzione<br />

per il dialetto è <strong>in</strong>fluenzata da precedenti recuperi d’autore (come quello<br />

<strong>del</strong> genovese <strong>in</strong> Creûza de mâ di Fabrizio De André, 1984), ma soprattutto<br />

dall’esigenza di una l<strong>in</strong>gua alternativa all’italiano standard, ormai identificato<br />

con la l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong> potere, <strong>del</strong>le istituzioni, dei mezzi di comunicazione<br />

di massa. «Accanto ad una canzone dialettale che recupera, aggiornandola,<br />

la tradizione popolare <strong>del</strong>la folk song, e accanto ad una canzone dialettale<br />

“d’autore” come risposta al logoramento <strong>del</strong>la canzone <strong>in</strong> l<strong>in</strong>gua, si affacci[a]<br />

prepotentemente il dialetto <strong>del</strong>le posse, nate e sviluppatesi <strong>in</strong> tutta Italia»<br />

(Coveri, 1996, pp. 18): i veneti Pitura Freska, gli emiliani Modena City<br />

Ramblers, i napoletani 99 Posse e Almamegretta, i pugliesi Sud Sound System,<br />

tanto per limitarsi a qualche nome. «Qui il dialetto, spesso reimparato<br />

dalle generazioni precedenti, con un fenomeno di <strong>in</strong>teressante cortocircuito,<br />

si è per così dire gergalizzato, esprimendo i caratteri di una condizione<br />

giovanile marg<strong>in</strong>ale, protestataria e di opposizione» (ivi, pp. 18 e 20-1).<br />

E, come nel l<strong>in</strong>guaggio giovanile, anche nell’italiano di tutti i giorni<br />

l’affiorare di elementi locali va di pari passo con l’uso sempre più frequente<br />

di anglicismi: una situazione che, con una parola alla moda, potremmo<br />

def<strong>in</strong>ire glocal. Ma davvero quella <strong>del</strong>le parole <strong>in</strong>glesi è un’<strong>in</strong>vasione<br />

da temere? All’<strong>in</strong>izio degli anni settanta, l’<strong>in</strong>cidenza degli anglicismi<br />

<strong>in</strong>tegrali era al di sotto <strong>del</strong>l’1% <strong>del</strong> patrimonio lessicale <strong>del</strong>l’italiano;<br />

oggi – stando a quanto si può ricavare da tutti i pr<strong>in</strong>cipali dizionari <strong>del</strong>l’uso<br />

– non raggiunge il 2% (cfr. Antonelli, 2005, pp. 120-1). Il ritmo ricavabile<br />

sulla base <strong>del</strong>le datazioni <strong>del</strong> Sabat<strong>in</strong>i Coletti mostra una notevole<br />

accelerazione <strong>del</strong> flusso nell’ultimo periodo (1.611 anglicismi dal 1950 a oggi;<br />

di questi 1.015 – il 47% <strong>del</strong> totale – dopo il 1975): <strong>in</strong> media, negli ultimi<br />

decenni, più di trenta anglicismi nuovi all’anno. Ma già nell’edizione<br />

2005 <strong>del</strong> Devoto Oli, gli anglicismi datati dal 2000 <strong>in</strong> poi sono ben 154 (tra<br />

gli altri: black bloc, cluster bomb, <strong>in</strong>fo-po<strong>in</strong>t, money transfer, peer-to-peer,<br />

showbiz, vibra-call, quattro diversi tipi di manager, sei prefissati con web-)<br />

e nell’amplissimo lemmario <strong>del</strong> GRADIT, il 29% dei 2.602 vocaboli datati<br />

tra 2000 e 2006 è <strong>in</strong>glese; percentuale che sale al 42% nelle 111 parole nuove<br />

<strong>del</strong>lo stesso Sabat<strong>in</strong>i Coletti e quasi al 50% nelle 125 <strong>del</strong>lo Z<strong>in</strong>garelli<br />

2009. Una progressione impressionante, se non fosse dovuta <strong>in</strong> buona parte<br />

a un’illusione ottica. Sull’ultima schiera di anglicismi, <strong>in</strong>fatti, non è ancora<br />

passata la scure <strong>del</strong> tempo che ha già falcidiato i prestiti giunti nel<br />

passato, come da sempre avviene nella storia <strong>del</strong>le l<strong>in</strong>gue.<br />

47


MODERNITÀ ITALIANA<br />

Questa tara andrà fatta a maggior ragione guardando ai dizionari di<br />

neologismi, <strong>in</strong> cui – prevedibilmente – l’<strong>in</strong>cidenza dei prestiti angloamericani<br />

è molto superiore (circa dieci volte). Le raccolte di parole nuove<br />

relative agli ultimi quarant’anni, <strong>in</strong>fatti, presentano una percentuale<br />

di anglicismi non adattati oscillante tra il 10 e il 15%, senza che sia possibile<br />

<strong>in</strong>dividuare un costante <strong>in</strong>cremento nel tempo (cfr. Antonelli,<br />

2005, pp. 122-3). Aumenta <strong>in</strong>vece esponenzialmente, dagli anni novanta<br />

<strong>in</strong> poi, la presenza di composti e derivati italiani che muovono da una<br />

base <strong>in</strong>glese (verbi come forwardare, killerare, meilare, dr<strong>in</strong>kare o casi di<br />

composizione “mista” come baby-bandito, <strong>in</strong>fluenza killer, porta-computer,<br />

provvedimento-shock, web-dipendente). Più di un qu<strong>in</strong>to <strong>del</strong>le basi<br />

(«elementi formanti») censite nei Neologismi quotidiani di Giovanni<br />

Adamo e Valeria Della Valle – che raccoglie vocaboli <strong>del</strong> periodo 1998-<br />

2003 – è costituito da parole angloamericane.<br />

Se è difficile calcolare quanti anglicismi passano o sono passati negli<br />

ultimi anni per la nostra l<strong>in</strong>gua, ancor più difficile è capire quanto la penetrazione<br />

<strong>del</strong>le parole <strong>in</strong>glesi sia giunta <strong>in</strong> profondità. La sensazione è<br />

che il fenomeno si allarghi – come suol dirsi – a macchia d’olio, cioè <strong>in</strong><br />

modo esteso ma superficiale: abbastanza sistematico, ormai, nella comunicazione<br />

di massa, sicuramente più esteso di prima anche nella l<strong>in</strong>gua<br />

di tutti i giorni, ma ancora molto lontano dall’<strong>in</strong>taccare il nucleo <strong>del</strong>la<br />

l<strong>in</strong>gua spontanea, <strong>del</strong>la comunicazione familiare.<br />

L’unico dato disponibile riguardo al parlato, <strong>in</strong> attesa che i nuovi studi<br />

<strong>in</strong> corso su campioni d’italiano orale giungano a compimento, è ancora<br />

quello offerto dal LIP (pubblicato nel 1993), nel quale gli anglicismi<br />

contano 1.049 esempi (242 <strong>del</strong> solo okay): appena lo 0,2% <strong>del</strong> totale.<br />

Un’ulteriore riprova <strong>del</strong>la limitata capacità di penetrazione di questi prestiti<br />

è la loro scarsa presenza tra i vocaboli più ricorrenti nell’uso, anche<br />

scritto. Le percentuali scendono drasticamente pers<strong>in</strong>o nell’italiano<br />

giornalistico: nel VELI (<strong>in</strong> cui più di vent’anni fa erano stati raccolti i<br />

10.000 vocaboli con fattore d’uso più elevato ricavati da fonti giornalistiche)<br />

gli anglicismi rappresentavano l’1,9%. Nel LEZ – creato nel 1994,<br />

su testi scritti da e per bamb<strong>in</strong>i <strong>del</strong>le scuole elementari – sono lo 0,9%;<br />

nel vocabolario di base <strong>in</strong>dividuato dal dizionario Sabat<strong>in</strong>i Coletti lo<br />

0,7%, <strong>in</strong> quello <strong>del</strong> GRADIT lo 0,5%. Un nucleo appena sfiorato dal fenomeno,<br />

se si pensa che <strong>in</strong> quest’ultimo dizionario, tra i vocaboli considerati<br />

“comuni” (dieci volte più numerosi di quelli di base), il tasso degli<br />

anglicismi scende addirittura al di sotto <strong>del</strong>lo 0,08%.<br />

Uno dei motivi <strong>del</strong>la scarsa presenza di anglicismi nel parlato e nel<br />

lessico di base va cercato nel fatto che molti di questi vocaboli appartengono<br />

alle term<strong>in</strong>ologie di vari l<strong>in</strong>guaggi tecnici o scientifici: quasi un<br />

quarto per il Sabat<strong>in</strong>i Coletti, più <strong>del</strong>la metà per il GRADIT.<br />

48


1. LINGUA<br />

LO SPOSTAMENTO DEL PRESTIGIO<br />

Questi dati lessicografici ci dicono che la gran parte degli anglicismi si<br />

annida ancora nei lessici tecnico-scientifici, primo tra tutti quello <strong>del</strong>l’economia.<br />

Nel “Sole 24 Ore”, ad esempio, sono ormai normali – ad<br />

apertura di pag<strong>in</strong>a – passi come «Cai Chevreaux ha migliorato il rat<strong>in</strong>g<br />

da outperform a underperform alzando il target price a 19 euro» (l’articolo<br />

è Italcementi: i conti record <strong>del</strong> 2005 sostengono il titolo, <strong>del</strong> 9 marzo<br />

2006). Così non era ancora trent’anni fa, quando nel Dizionario dei<br />

term<strong>in</strong>i economici (DTE, 1970) su 680 voci <strong>in</strong>dicizzate, solo 43 erano anglicismi<br />

<strong>in</strong>tegrali.<br />

Dati simili ci confermano anche che – nella percezione collettiva –<br />

il polo alto <strong>del</strong> repertorio l<strong>in</strong>guistico non è occupato più dal tradizionale<br />

mo<strong>del</strong>lo di stampo letterario o burocratico, ma dai l<strong>in</strong>guaggi tecnico-scientifici.<br />

Il prestigio che un tempo era degli aulicismi oggi spetta<br />

ai tecnicismi: «questo moto l<strong>in</strong>guistico non è specificamente italiano,<br />

ma proprio <strong>del</strong>l’attuale fase di sviluppo <strong>del</strong>le società evolute e consumistiche,<br />

nelle quali i l<strong>in</strong>guaggi tecnico-scientifici si mescolano con i l<strong>in</strong>guaggi<br />

istituzionali» (Dardano, 1993, p. 324). Usati al di fuori <strong>del</strong> loro<br />

specifico campo di pert<strong>in</strong>enza, tecnicismi e pseudotecnicismi servono a<br />

dare un’idea di asciutta precisione e di aggiornata modernità. A giustificarne<br />

l’impiego esteso e spesso traslato non è l’orig<strong>in</strong>aria esigenza di<br />

univocità e di referenzialità, ma anzi l’<strong>in</strong>tenzione di affasc<strong>in</strong>are e conv<strong>in</strong>cere<br />

chi legge o ascolta.<br />

Quanto a prestigio, spicca <strong>in</strong> particolare quel miscuglio di tecnicismi<br />

<strong>del</strong>la tecnologia e <strong>del</strong>la f<strong>in</strong>anza che è il l<strong>in</strong>guaggio aziendale. Negli ultimi<br />

anni anche <strong>in</strong> Italia l’aziendalese com<strong>in</strong>cia a essere fatto oggetto di<br />

sarcasmo e viene preso di mira dagli stessi esperti di comunicazione (tra<br />

i vocaboli <strong>in</strong>dicati come evitabili o da evitare ci sono <strong>in</strong>tegrazione e implementazione<br />

“realizzazione”, s<strong>in</strong>ergie e problematiche, proattivo e ottimizzato,<br />

processare “lavorare, elaborare” e supportare “sostenere”). Ma è<br />

un fatto che – tanto nelle grandi quanto nelle piccole aziende – i messaggi<br />

scambiati cont<strong>in</strong>uano a presentarsi fitti di passaggi dedicati all’analisi<br />

dei flussi di traffico <strong>in</strong> vista <strong>del</strong>la valutazione <strong>del</strong>le azioni strategiche<br />

necessarie per l’elim<strong>in</strong>azione <strong>del</strong>le eventuali criticità rilevate <strong>in</strong> fase d’implementazione<br />

(ovvero “per risolvere gli eventuali problemi che si dovessero<br />

presentare nel corso <strong>del</strong> lavoro”), <strong>in</strong> modo da def<strong>in</strong>ire le logiche<br />

e le policy (“regole, condizioni”) di sviluppo formalizzando la comunicazione<br />

al management attraverso la predisposizione <strong>del</strong>la reportistica direzionale<br />

(gli esempi sono tutti tratti da documenti reali). L’effetto è quello<br />

di uno stile anticomunicativo che spesso viene esportato tal quale nella<br />

comunicazione esterna: basta dare un’occhiata ai comunicati stampa<br />

49


MODERNITÀ ITALIANA<br />

diffusi attraverso la rete, pieni di <strong>in</strong>terfacce e usabilità, di upgradare “aggiornare”,<br />

<strong>del</strong>iverare “consegnare”, ottimizzare; di soluzioni performanti<br />

“efficaci” e di case history (cfr. Antonelli, 2007, pp. 62-8 e bibliografia<br />

ivi <strong>in</strong>dicata).<br />

Questo stesso spostamento di prestigio si registra, negli ultimi<br />

vent’anni, anche nella l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong>la politica. L’autorevolezza <strong>del</strong>l’oratore<br />

si gioca ora su un terreno diverso: non più la perizia retorica d’impronta<br />

umanistica, ma la capacità di dom<strong>in</strong>are i meccanismi <strong>del</strong>l’economia,<br />

di scior<strong>in</strong>are con cognizione di causa cifre, dati, statistiche. Si tratta, è<br />

evidente, non di un fenomeno nuovo <strong>in</strong> sé, ma <strong>del</strong>la sensibile accelerazione<br />

di un processo <strong>in</strong> atto da qualche tempo. La progressiva osmosi di<br />

l<strong>in</strong>guaggio politico e l<strong>in</strong>guaggio economico era già stata segnalata da<br />

Beccaria (1988, p. 207), il quale l’attribuiva al fatto che «i politici erano<br />

un tempo per molta parte umanisti e avvocati. Oggi ci sono molti economisti»);<br />

e prima ancora da Dardano (1981 [1973], p. 162), che notava la<br />

differenza con i politici <strong>del</strong>la generazione precedente, come Togliatti e<br />

De Gasperi, i quali «parlavano una l<strong>in</strong>gua quasi priva di tecnicismi e ricca<br />

<strong>in</strong>vece di parole comuni».<br />

Negli ultimi vent’anni, però, questo carattere di tecnificazione economica<br />

e di corredo numerico ha colpito <strong>in</strong> maniera evidente tutti i<br />

pr<strong>in</strong>cipali partiti e i pr<strong>in</strong>cipali personaggi politici. Alla f<strong>in</strong>e degli anni<br />

novanta se ne trova già ampia testimonianza nei discorsi alla Camera di<br />

Romano Prodi, allora presidente <strong>del</strong> Consiglio («il tasso di <strong>in</strong>flazione<br />

dei prezzi al consumo era il 4,5% nell’aprile 1996, è l’1,4 nel settembre<br />

di quest’anno»; «Il differenziale dei tassi di <strong>in</strong>teresse con la Germania<br />

era oltre 4 punti percentuali nell’aprile <strong>del</strong>lo scorso anno; oggi siamo tra<br />

il mezzo punto e il punto», 1997). Ma anche nel documento politico presentato<br />

da Gianfranco F<strong>in</strong>i alla conferenza programmatica di Alleanza<br />

nazionale (1998) e pers<strong>in</strong>o nell’oratoria tribunizia di Umberto Bossi che<br />

arr<strong>in</strong>ga il popolo padano («L’Europa monetaria costerà cara perché dovrà<br />

essere aumentato cont<strong>in</strong>uamente il tetto di risorse <strong>del</strong>la comunità<br />

che raggiunge già ora l’1,27% dei PIL nazionali», «il Mezzogiorno italiano<br />

che già tra il 2001 e il 2003 vedrà ridursi <strong>del</strong> 20% il flusso <strong>del</strong> denaro<br />

dei fondi strutturali», 1998).<br />

Al fasc<strong>in</strong>o <strong>del</strong>la term<strong>in</strong>ologia filosofica, giuridica e letteraria si è sostituito<br />

quello <strong>del</strong>la term<strong>in</strong>ologia f<strong>in</strong>anziaria, che dà un’idea di oggettività<br />

e di efficienza manageriale. Al lat<strong>in</strong>o, si preferisce l’<strong>in</strong>glese (governance,<br />

welfare, bl<strong>in</strong>d trust); o meglio: al lat<strong>in</strong>orum con cui Don Abbondio<br />

cercava di confondere le idee a Renzo si sostituisce l’<strong>in</strong>glesorum con<br />

cui i m<strong>in</strong>istri <strong>del</strong>le f<strong>in</strong>anze cercano di abbagliare i cittad<strong>in</strong>i (Stella, 2004):<br />

deregulation, authority bancaria, bad bank, spoil system, venture capital.<br />

Ed è significativo, perché mostra che il lessico tecnico di economia e fi-<br />

50


1. LINGUA<br />

nanza viene avvertito come il nuovo gergo dei politici, vedere il conduttore<br />

<strong>del</strong>la trasmissione televisiva Maastricht-Italia, Alan Friedman che <strong>in</strong><br />

una puntata <strong>in</strong>terrompe il sottosegretario al Tesoro, esortandolo a non<br />

parlare «<strong>in</strong> politichese», solo perché ha usato term<strong>in</strong>i come prodotto <strong>in</strong>terno<br />

lordo e deficit (cfr. Antonelli, 2000, p. 218).<br />

Alla luce di tutto questo, si può forse rivalutare uno specifico aspetto<br />

<strong>del</strong>la profezia di Pasol<strong>in</strong>i con la quale avevamo aperto questa s<strong>in</strong>tesi.<br />

L’italiano unitario tecnocratico non esiste oggi così come non esisteva<br />

negli anni sessanta, ma è evidente che si sta verificando – adesso più che<br />

mai – una decisa identificazione tra l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong> potere e l<strong>in</strong>gua settoriale<br />

<strong>del</strong>l’economia, che f<strong>in</strong>isce col relegare ai marg<strong>in</strong>i <strong>del</strong> dibattito pubblico<br />

i saperi umanistici e la tradizionale figura <strong>del</strong>l’<strong>in</strong>tellettuale.<br />

L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/3<br />

Sulla base dei cambiamenti <strong>in</strong>tercorsi <strong>in</strong> questi anni, l’architettura <strong>del</strong>l’italiano<br />

contemporaneo potrebbe oggi essere ritoccata, apportando<br />

qualche aggiornamento (il corsivo segnala le varietà assenti nello schema<br />

di Berruto) (FIG. 3).<br />

FIGURA 3<br />

L’architettura <strong>del</strong>l’italiano contemporaneo (2010)<br />

DIAFASIA<br />

8. Italiano<br />

tecnico-scientifico<br />

DIAMESIA<br />

9. Italiano<br />

aziendale<br />

7. Italiano aulico formale<br />

1. Italiano standard<br />

scolastico<br />

2. Italiano neostandard<br />

giornalistico<br />

DIATOPIA<br />

DIASTRATIA<br />

3. Italiano<br />

parlato colloquiale<br />

4. Italiano<br />

regionale<br />

51<br />

10. Italiano<br />

digitato<br />

5. Italiano<br />

<strong>in</strong>formale-trascurato<br />

DIATOPIA<br />

6. Italiano<br />

popolare


MODERNITÀ ITALIANA<br />

Già a un primo sguardo saltano agli occhi alcuni elementi di novità. Innanzi<br />

tutto il generale affollamento <strong>del</strong>la zona centrale <strong>del</strong> grafico, <strong>in</strong>dice<br />

di una notevole riduzione <strong>del</strong>le distanze tra le diverse varietà (ovvero<br />

di una sostanziale medietà <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua <strong>del</strong>l’uso). Poi altri fenomeni, tra<br />

i quali:<br />

a) la maggiore <strong>in</strong>cidenza <strong>del</strong>la diatopia, che (sia pure con un’<strong>in</strong>terferenza<br />

più leggera, resa qui da un grigio chiaro) entra nel quadrante alto<br />

<strong>del</strong>la diastratia/diafasia e <strong>in</strong>vade – <strong>in</strong> diamesia – il settore <strong>del</strong>la l<strong>in</strong>gua<br />

scritta;<br />

b) la risalita <strong>del</strong>l’italiano standard (ormai di fatto cristallizzato <strong>in</strong> quello<br />

scolastico) f<strong>in</strong> quasi a co<strong>in</strong>cidere con l’italiano aulico formale (cfr. Serianni,<br />

Benedetti, 2009), e l’identificazione <strong>del</strong> nuovo standard con l’italiano<br />

di un buon articolo di giornale (cfr. Serianni, 2003);<br />

c) ai piani alti, la promozione <strong>del</strong>l’italiano tecnico-scientifico a varietà<br />

di massimo prestigio e la sostituzione <strong>del</strong>l’italiano burocratico con quello<br />

aziendale, misto di residui burocratici e di tecnicismi economici;<br />

d) la netta dist<strong>in</strong>zione tra italiano regionale e italiano popolare;<br />

e) il sensibile avvic<strong>in</strong>arsi (f<strong>in</strong> quasi a sovrapporsi) di italiano parlato<br />

colloquiale, italiano regionale e italiano <strong>in</strong>formale trascurato;<br />

f) la comparsa, nel quadrante <strong>in</strong> alto a destra, di una varietà scritta spiccatamente<br />

<strong>in</strong>formale e diastraticamente trasversale: l’italiano digitato.<br />

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